Passato, presente e futuro del debito sovrano

Passato, presente e futuro del debito sovrano
(Qualche nota per comprendere cosa ci aspetta)*
Enrico Castrovilli† e Roberto Fini‡
Introduzione ......................................................................................................................................................................... 2
Una breve, ma ahimè necessaria, digressione tecnica ..................................................................................... 3
Crisi, svalutazione e altre amenità… ......................................................................................................................... 4
… A proposito di cattivoni: euro e BCE .................................................................................................................... 5
Ma uno stato può fallire? ................................................................................................................................................ 6
Come finirà la crisi dei debiti sovrani?..................................................................................................................... 7
Questa volta è, davvero, diverso? ............................................................................................................................ 10
Materiale preparato in occasione della conferenza del 18 aprile 2012 al Liceo Scientifico C.
Cattaneo di Torino sul debito sovrano. Il presente lavoro è liberamente disponibile per i
Docenti e gli Studenti del Liceo stesso.
† Presidente dell’Associazione Europea per l’Educazione Economica (AEEE-Italia)
‡ Docente di Economia presso l’Università di Verona
*
Introduzione
Si sa: la gente muore, specie gli anziani. È normale. Meno normale è che sessantamila anziani,
deceduti, continuino a percepire la pensione di vecchiaia.
Come non è normale che gli impiegati statali ricevano in busta paga un’indennità per usare il
pc ed un’altra per il fatto che arrivino puntuali in ufficio.
È normale per i forestali lavorare all’aperto. Non è normale che essi ricevano un’indennità per
questo.
È normale per un paese moderno decidere di prosciugare e bonificare un lago ed insediarvi
attività economiche: si nomina una commissione, si procede ad uno studio di fattibilità, poi si
inizia la fase di realizzazione. Non è normale nominare una commissione per prosciugare un
lago a secco dal 1931.
Se credete che si tratti dell’Italia, almeno questa volta, vi sbagliate: si tratta della situazione
greca fino al 2010, quando è scoppiato il caso del paese più spendaccione dell’Eurozona.
La Grecia è da tempo nota come la “g” dell’acronimo PIGS (porci), coniato per indicare i paesi
più deboli, indebitati e, per molti aspetti, inaffidabili d’Europa.
L’acronimo, evidentemente umiliante comprende (nell’ordine delle iniziali) Portogallo, Italia,
GreciA, Spagna. In realtà, la storia di questi acronimi è più complessa: per esempio, da quando
l’Irlanda, da “Tigre Celtica”, si è trasformata in un gattino bagnato si è ritenuto di dover
aggiornare l’acronimo aggiungendo una nuova “i”. Ma non suonava bene: PIGS funziona. PIIGS
di meno. Ma basta modificare l’ordine delle iniziali ed ecco fatto: GIPSI (zingari) ha il
vantaggio di comprendere anche l’Irlanda e mantiene inalterata l’allusione negativa.
Qualunque sia l’acronimo prescelto, l’Italia c’è sempre. E questo non è certo un fatto da
sottovalutare1.
Perché non va sottovalutato? Perché negli uffici degli investitori di tutto il mondo si osservano
gli andamenti delle diverse economie per decidere se puntare su di esse o, peggio, se
speculare per farle affondare. E se un paese è debole, per ciò stesso è esposto a rischi
considerevoli.
Perché? Perché si può generare facilmente un circolo vizioso: un paese considerato
inaffidabile (che sia vero o meno è nella sostanza irrilevante) viene messo sotto osservazione;
gli esperti finanziari sconsigliano i propri clienti di comperare i titoli del paese; d’altra parte il
paese ha necessità di beneficiare di prestiti sotto forma di sottoscrizione dei propri titoli di
debito pubblico; per cercare di invogliare i risparmiatori ad acquistarli il governo del paese è
costretto ad alzare il tasso di rendimento; probabilmente riuscirà a piazzare i titoli, ma a tassi
di interesse alti2.
Per la verità, gli osservatori si sono da sempre dimostrati molto fantasiosi: il più vecchio di
questi acronimi è probabilmente “Club Med”, usato per indicare i paesi latini e mediterranei,
spendaccioni e gaudenti. Più di recente la stampa inglese ha coniato STUPID: Spagna, Turchia,
United Kingdom (alle prese con un brutto dissesto finanziario), Portogallo, Italia e Dubai (in
brutte acque). La situazione debitoria dei paesi GIPSI è esposta nel grafico 1 dell’allegato al
presente lavoro. Il grafico 2, invece, mostra l’andamento di lungo periodo del debito pubblico
italiano.
2 In genere il rendimento dei titoli di stato europei viene confrontato con il tasso di
rendimento dei Bund tedeschi, considerati i più sicuri e quindi caratterizzati da rendimenti
molto bassi. Quanto più il rendimento di un titolo si allontana (verso l’alto) dal rendimento
assegnato al titolo tedesco, tanto più questo segnala una sua latente inaffidabilità e al tempo
stesso per lo stato che lo emette aumentano i costi di restituzione a scadenza. Il grafico 3
presenta l’andamento dei titoli dei PIGS in relazione al Bund tedesco fra il 2010 e il 2011
1
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Che diventeranno una pietra al collo
quando si tratterà di restituire capitale
ed interesse. E probabilmente questo
accadrà in fretta: nessuno sottoscrive
titoli a lunga scadenza per finanziare
un debitore poco affidabile. Così, la
previsione delle difficoltà di un paese si
traducono in situazioni reali: è “la
profezia che si autoavvera” 3 (a questo
proposito gustatevi la striscia di
Charlie Brown, mostrata in figura 1).
Se siete un privato che chiede un
prestito ad una banca, questa vi chiede
delle garanzie e si informa in modo
adeguato sulla vostra situazione
economica: se avete altri debiti e di
quale ammontare; se il vostro reddito,
presente e futuro, è elevato; se è
stabile; se le prospettive di lavoro sono
tali da garantire la restituzione del
prestito; ecc. Potete dar torto alla
banca? Certamente no!
Per i paesi accadono cose simili: la loro
solvibilità viene monitorata e viene
fatta dipendere in genere da variabili
simili (ma non uguali) a quelle dei
privati. Per esempio, una situazione
debitoria troppo elevata non è un
indice positivo, come pure un’eccessiva fragilità dei “fondamentali”: tassi di crescita
stabilmente bassi, produttività del lavoro inferiore a quella di altri paesi, inflazione alta o fuori
controllo, instabilità politica e sociale.
Ogni singolo paese ha dunque interesse a mantenere condizioni economiche tali da garantire
gli investitori: in questo modo otterrà più facilmente i prestiti che gli servono per finanziare le
proprie attività. Già: facile a dirsi, meno facile a farsi. Se poi il paese in questione, invece di
comportarsi in modo prudente ed attento alla spesa, da formica, si comporta da “cicala” e
spende in modo dissennato quanto gli è stato prestato, prima o poi i nodi vengono al pettine. E
sono guai…
Una breve, ma ahimè necessaria, digressione tecnica
In linea di massima, ogni paese possiede degli strumenti che possono rivelarsi adeguati a
risolvere situazioni di crisi, o quanto meno a “tappare i buchi” e rinviare in avanti la resa dei
conti. Uno di questi strumenti è la svalutazione monetaria. Quando i beni prodotti in un paese
Lo schema analitico della “profezia che si autoavvera” è molto frequente nelle scienze
umane, in particolare in psicologia ed economia. In sostanza, una previsione si realizza per il
solo fatto di essere stata espressa. I mercati finanziari sono spesso vittime di profezie che si
autoavverano: la previsione di una difficoltà in borsa per un titolo fa fuggire gli investitori da
quel titolo, mettendolo in difficoltà. Il concetto venne espresso per la prima volta da Merton
nel 1971 in R.K. Merton, La profezia che si autoavvera, in Teoria e Struttura Sociale, vol. II, Il
Mulino, 1971
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si rivelano troppo costosi e, per questo, non sono più competitivi sui mercati globali, si ricorre
ad un trucco: si svaluta la moneta rispetto alle altre.
Il meccanismo della svalutazione è semplice ed ingegnoso: supponete che ieri il tasso di
cambio lira/dollaro sia stato 1000/1 (mille lire contro un dollaro), e supponete che, sempre
ieri, un cittadino italiano si sia recato in banca a cambiare la propria valuta contro dollari. Per
esempio ha cambiato 1 milione di lire, ricevendo in cambio 1000 dollari; sempre nella
giornata di ieri, un cittadino americano ha cambiato presso la sua banca 1000 dollari in lire,
per un ammontare, ovviamente, di 1 milione.
Nella notte, il governo italiano decide una svalutazione della moneta (la lira) del 10%:
svalutare significa far perdere di valore alla propria moneta. Perché dovrebbe farlo? Tornate
con la mente ai nostri due amici: se l’italiano si reca oggi (dopo la decisione di svalutazione) in
banca per cambiare lire contro dollari, poiché in nuovo cambio è 900 lire contro 1 dollaro,
riceverà 900 dollari invece dei 1000 ricevuti ieri. L’americano che cambia i suoi 1000 dollari
contro lire si troverà nel portafoglio 1.111.111 lire: più di quanto aveva ottenuto il giorno
prima.
Gli effetti della svalutazione? L’italiano si troverà con meno dollari in tasca rispetto al giorno
prima. Viceversa l’americano si troverà con una quantità maggiore di lire. Ora: l’americano più
ricco (in lire) potrebbe essere incentivato a comperare una vacanza in Italia, mentre l’italiano
sarà disincentivato a recarsi in vacanza negli USA. Sul piano generale, una svalutazione rende i
beni del paese che svaluta più competitivi in termini di prezzo rispetto ai paesi terzi e
permette un incremento delle esportazioni. Al tempo stesso, rendendo i beni esteri più cari,
deprime le importazioni, e questo può servire a ridurre l’eventuale deficit della bilancia dei
pagamenti
Crisi, svalutazione e altre amenità…
Torniamo alle nostre vicende: la svalutazione è possibile, e persino conveniente, se un paese
può farla, cioè se ha la sovranità monetaria. Ma l’Italia e gli altri paesi che hanno aderito
all’euro hanno perso questa sovranità: semplicemente, non può più svalutare. Questo significa
che per vendere i beni prodotti in Italia deve fare in modo che questi siano graditi ai mercati
non in base ad un prezzo più basso, ma per qualche loro caratteristica intrinseca.
Già. Ma come si fa con i cinesi che hanno costi di produzione pari ad un decimo di quelli
italiani? Non si fa: produrre sedie o pentole in Italia è una specie di suicidio economico e il
“made in Italy”, sul piano aggregato, non conta granché. Certo, nel corso degli anni si è tentato
di sostenere le imprese e i settori in crisi con iniezioni di spesa pubblica. Le intenzioni erano
(e sono) buone: in un paese civile non si possono lasciare sul lastrico lavoratori ed
imprenditori che hanno la sola colpa di produrre beni che non hanno mercato. Occorre
intervenire con strumenti che garantiscano un reddito a tutti coloro che non sono in grado di
procurarselo con il loro lavoro.
I sussidi di disoccupazione, la cassa integrazione, ecc. sono gli strumenti che nel corso del
tempo sono stati creati per sostenere lavoratori ed imprese in difficoltà. E tali strumenti si
sono rilevati preziosi in molte occasioni, a maggiore ragione nei momenti di crisi economica.
Ma sono strumenti che costano: come si fa a reperire i fondi necessari? Qui torna utile quanto
facevamo notare poco sopra: se un paese ha la sovranità monetaria può svalutare, se questo
serve a rendere nuovamente competitiva la propria economia, oppure può reperire le risorse
necessarie emettendo moneta.
Ma, come detto, l’Italia e gli altri paesi dell’euro hanno volontariamente rinunciato a questa
libertà. Ai tempi della lira gli strumenti delle emissioni monetarie e delle svalutazioni
competitive sono stati abbondantemente, e dissennatamente, utilizzati. I risultati? Un
inflazione elevata e un’ industria “drogata” da svalutazioni. Comunque non possiamo più farlo.
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L’altro strumento che si può utilizzare per finanziare la spesa pubblica è il ricorso
all’emissione e la vendita di titoli di debito pubblico. In pratica il governo chiede ai
risparmiatori di prestargli del denaro, comportandosi in questo modo come un qualunque
debitore: tu mi presti 5.000 euro e io in cambio ti garantisco la restituzione del capitale più un
interesse secondo quanto stabilito.
Il meccanismo del debito pubblico può apparire come l’uovo di Colombo. E in parte lo è: in un
paese caratterizzato da risparmi abbondanti, con i risparmiatori alla ricerca di buone
occasioni per investirli, ed uno stato bisognoso di sostenere la propria spesa pubblica, il
meccanismo del debito pubblico funziona (più o meno) alla perfezione. Così, lo stato chiede ed
ottiene prestiti, che restituisce puntualmente a scadenza. E vissero tutti felici e contenti?
No, non è una favola che va a finire bene. Perché nel corso degli anni il debito pubblico italiano
(come quello greco, portoghese, irlandese, spagnolo) è aumentato a dismisura. Per quale
ragione? Semplicemente perché si sono chiesti nuovi prestiti per pagare quelli che andavano a
scadenza! Apparentemente tutto va bene: il risparmiatore che ha prestato denaro allo stato se
lo vede restituito con gli interessi, mentre i cittadini (gli stessi risparmiatori) usufruiscono di
servizi pubblici adeguati (anche in questo caso: più o meno…).
… A proposito di cattivoni: euro e
BCE
La favola non va a finire bene perché ad un
certo punto intervengono quei cattivoni
dell’Europa dell’euro. Che dicono, all’incirca:
ok, fino a quando avevate una vostra moneta
noi non mettevamo becco nei vostri affari ed
eravate anche liberi di emettere tutti i titoli di
debito pubblico che volevate. Fatti vostri: il
massimo che può succedervi è che i
risparmiatori non vi considerino più debitori
affidabili e chiudano il rubinetto dei prestiti,
ma sarà un problema vostro.
Ma ora, sono sempre i cattivoni a parlare,
siamo una famiglia: se in una famiglia il padre
si comporta bene e la madre spende
dissennatamente, o addirittura si indebita, il
problema riguarda anche chi si comporta in modo
virtuoso che potrebbe essere trascinato nelle
difficoltà suo malgrado e senza averne alcuna colpa.
Dunque da questo momento in poi basta spese folli!
Basta assunzioni pubbliche di migliaia di forestali e di
impiegati pubblici. Basta opere pubbliche faraoniche
progettate e realizzate solo per elargire fondi a
privati ed imprese. Insomma: basta vivere in un lusso
che non potete permettervi e che non pagate voi!
Dunque è tutta colpa dell’euro? Di Bruxelles? Della
Banca Centrale Europea? Beh, si può anche dare la
colpa di tutto all’euro, ma si prenderebbe un
abbaglio: l’appartenenza ad un sistema monetario
unico ha creato una gigantesca “fata morgana” durata
oltre un decennio. Il fatto di essere nello stesso
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sistema valutario di Germania e Olanda ha protetto Italia, Grecia, Portogallo e Spagna dagli
interessi sul debito alti che gli investitori avevano chiesto fino all’introduzione dell’euro: non
siete particolarmente affidabili, osservavano gli investitori, ma siete all’interno di un sistema
che vi garantisce. È un po’ come se i debiti della moglie spendacciona siano garantiti dalle
risorse del marito più prudente.
Così, se per oltre un decennio i PIGS non si sono potuti servire della leva svalutativa per
incoraggiare le loro esportazioni, sono stati peraltro beneficiati dal fatto che i tassi di
interesse sul debito pubblico non sono mai stati particolarmente distanti da quelli della
“quercia” Germania. E in effetti, fino al 2008 lo spread, cioè il differenziale in termini di tasso
di interesse, fra i titoli di debito pubblico italiani o greci e quelli tedeschi non è stato
particolarmente elevato.
Occorre dire che i primi dodici-tredici anni di euro la debolezza di alcuni paesi, Italia
compresa, ha costituito una pericolosa bomba ad orologeria all’interno dell’area valutaria
comune. E la crisi iniziata nel 2007-2008 ha avuto la funzione di detonatore. D’altra parte,
considerato che i mercati funzionano anche secondo logiche tutt’altro che razionali, si è
generato un “effetto domino”, partito da Atene nel 2009 e che ha costretto poi anche
Portogallo e Irlanda a ricorrere a prestiti UE-FMI ha risposto, ancora, anche a logiche di
“profezia che si autoavvera”4.
Ma uno stato può fallire?
Eppure, sebbene molto lontano dall’area euro ma non lontano nel tempo, esempi interessanti,
ancorché drammatici, di default non sono mancati. Uno per tutti? Il crack argentino nella
seconda metà degli anni novanta, quando il governo dichiarò di non essere più in grado di
onorare i suoi debiti 5 . Eppure
l’Argentina era una specie di paese di
Bengodi: durante la prima metà del
novecento gli immigrati italiani la
consideravano un sogno a cui aspirare
(e tuttora il paese è popolato per circa
un terzo da nipoti o figli di italiani).
Ma il sogno era destinato a finire…
Come dicevamo, era necessario un
detonatore per far esplodere la bomba
ad orologeria. La crisi mondiale legata
allo scoppio della bolla speculativa dei
mutui immobiliari americani 6 , nel
Tutto questo è stato aggravato dal ruolo, ormai molto poco informativo delle agenzie di
rating: anche secondo un accreditato studio del FMI, esse hanno spesso la pessima funzione di
aggravare le crisi e non di orientare gli investitori. Il report si può leggere a partire dall’URL:
http://www.imf.org/external/pubs/ft/survey/so/2010/res092910a.htm
5 Per la verità, i fallimenti di stati sono più frequenti di quanto si possa immaginare. O meglio:
hanno caratteristiche diverse rispetto al fallimento di un’impresa, ma nella sostanza si tratta
di una crisi irreversibile di solvibilità. Per una ricostruzione puntuale dei default potete
leggere il libro di C. Reinhart e K. Rogoff, Questa volta è diverso, Il Saggiatore, 2011 . Il libro ha
un titolo significativo: descrive la pericolosa illusione che dalle crisi si impari qualcosa. In
realtà l’esperienza insegna che l’esperienza non insegna…
6 Il grafico 4, che trovate nell’allegato del presente lavoro, attraverso un indice molto
utilizzato mostra l’andamento del prezzo degli immobili come media dei prezzi di circa venti
aeree metropolitane negli USA nel corso del tempo.
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2008, ha svolto egregiamente questa funzione. Quando dagli USA si è trasferita in Europa si è
trasformata in una gigantesca crisi dei debiti pubblici: molti governi europei hanno dovuto
salvare le banche a riavviare i motori dell’economia, ingrippati dalla mancanza di liquidità
delle banche e dal fatto che la prima economia del mondo, gli USA appunto, si stava fermando
e quindi non assorbiva più (o assorbiva molto meno rispetto al passato) la produzione
mondiale.
Ovviamente, i primi a rischiare la bancarotta non potevano che essere, e sono stati, i PIGS (o i
GIPSI, o gli STUPID che dir si voglia). Peraltro, i
PIGS (o i GIPSI, ecc.) non sono tutti uguali:
purtroppo per la Grecia o il Portogallo, le
conseguenze di un fallimento o di un salvataggio in
extremis come è accaduto per la Grecia di recente,
significa essere costretti a seguire un severo
programma di correzione dei conti pubblici ed
essere messi sotto stretta sorveglianza, quasi
commissariati, dalle autorità dell’eurozona.
Questo non vale, ma non è una fortuna, per Italia e
Spagna. Per le quali vigono due regole non scritte,
ma nei fatti molto stringenti:
a. too big to fail7;
b. too big to save.
In altre parole, il fallimento di un paese come l’Italia
provocherebbe effetti a catena non controllabili e metterebbe in ginocchi l’economia europea.
D’altra parte sono paesi troppo grandi perché si possa pensare ad un intervento dell’Europa o
del FMI: semplicemente, non vi sono risorse sufficienti. Ne deriva che devono salvarsi da sole.
Come finirà la crisi dei debiti sovrani?
Già: bella domanda anche questa! Non possiamo saperlo. Ma alcune ipotesi si possono fare,
sebbene con molta prudenza. Prima questione: in molti casi la crisi del debito pubblico è stata
causata dal verificarsi di due condizioni convergenti, una di lungo periodo, una più
contingente. Quella di lungo periodo è stata l’espansione della spesa pubblica iniziata dopo la
crisi del ’29 e il suo finanziamento attraverso i due canali ipotizzati dal grande economista
inglese J. M. Keynes: l’emissione di moneta e il debito pubblico. Keynes ipotizzava che, in
particolare nei momenti di crisi, quando i consumi ristagnano e l’economia non progredisce (e
anzi arretra), la spesa pubblica poteva, e doveva, servire da metodo per far ripartire il sistema
Letteralmente: “troppo grandi per essere lasciati fallire”. Originariamente la locuzione si
riferiva alle grandi banche d’affari americane, il cui crollo avrebbe provocato effetti a catena
disastrosi. A questo proposito potete vedere l’ottimo docu-fiction dallo stesso titolo per la
regia di C. Hanson (2011). Il film si focalizza sui drammatici giorni del settembre 2008,
quando la Lehman Brothers venne lasciata fallire; ne seguì un crollo di borsa di notevole
entità, anche se venne riassorbito piuttosto in fretta. Il film è ispirato ad un bel libro, di facile
lettura: A.R. Sorkin, Il crollo: too big to fail, De Agostini, 2010. Un altro film che ricostruisce la
crisi del 2008, sebbene da un altro punto di vista è “Wall Street: il denaro non dorme maI, di
O. Stone. Qui le vicende sono viste con l’occhio di un operatore di borsa e di uno speculatore,
M. Douglas. Il film è interessante anche perché rappresenta il sequel di un precedente film,
con protagonista lo stesso M. Douglas. Per un’approfondita analisi delle cause della crisi
conviene vedere anche il documentario di C. Ferguson “Inside Job,” che racconta il periodo dal
2008 al 2010
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economico inceppato. Anche di fronte
ad un deficit di bilancio il governo non
doveva spaventarsi: sarebbe stato
riassorbito nel momento in cui i
consumi fossero ripartiti e i redditi
delle persone avrebbero consentito
entrate fiscali maggiori.
Non male come idea! Elaborata da
Keynes nel corso degli anni trenta,
essa è servita a giustificare
un’espansione in molti casi abnorme
della spesa pubblica finanziata in
deficit. Ma soprattutto non si è avuta
una decisa inversione di tendenza a
crisi finite. In effetti, è facile espandere
la spesa pubblica perché tutti sono
contenti: basse imposte, redditi in
aumento, disoccupazione in calo
grazie alle sovvenzioni pubbliche. Ma
come si fa poi a licenziare un dipendente pubblico? Come si possono aumentare le imposte
senza che questo provochi malumore sociale (ed elettorale…)?
In effetti, anche quando la teoria keynesiana ha smesso di essere dominante, sia fra gli
economisti che negli ambienti politici, ci si sarebbe dovuta aspettare un’inversione di
tendenza e una riduzione, sia pure progressiva ed intelligente, dell’intervento pubblico
nell’economia. Questa soluzione, caldeggiata a parole dall’opinione pubblica non è stata
seguita e la spesa pubblica è aumentata quasi dappertutto anche quando non era necessario,
con la conseguenza di aumentare l’esposizione debitoria e alimentare uno dei grandi mali del
novecento: l’inflazione.
Questo per quanto riguarda il lungo periodo. Nel breve periodo la crisi non ha fatto che
aumentare le difficoltà di tutti i paesi che ne sono stati colpiti; ma, ovviamente, quelli già
strutturalmente più deboli, con debito pubblico elevato (ben oltre il 60% fissato dagli accordi
Maastricht), con una spesa pubblica fuori
controllo, con classi politiche deboli e non in
grado di prendere decisioni anche dolorose,
con sistemi industriali poco competitivi,
sono apparsi, per riprendere l’espressione
del Manzoni quando descrive il carattere di
don Abbondio, i classici vasi di coccio fra
quelli di ferro.
Da qui il dissesto di molte economie, Grecia
in primo luogo. Ma anche in forme diverse
(per ora…) Portogallo, Irlanda. E Italia…
Se ne esce? Forse sì e forse no: dipende dalle
scelte che i governi sapranno fare nei
prossimi mesi. Un tempo maggiore,
purtroppo, non è concesso a nessuno. Anche
perché, mentre Europa ed USA dibattono
amabilmente su quanto si deve ridurre la
spesa pubblica e, meno amabilmente,
litigano su chi deve assumersi la
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responsabilità della crisi, paesi come Cina o Brasile 8 si mangiano fette sempre più grandi di
mercati e comperano il debito pubblico americano ed europeo, rendendo USA ed Europa
sempre più finanziariamente dipendenti.
La domanda, ovviamente, resta: che
si fa? Nella sua essenza la ricetta è
semplice: è necessario che le cicale
si abituino ad essere più formiche.
Fuor di metafora: che, specie i paesi
maggiormente indebitati, riducano
la
spesa
pubblica
e
progressivamente
rientrino
da
percentuali di debito pubblico sul
PIL troppo elevate.
Ma non è un problema semplice. Se
anche l’opinione pubblica di un
paese accettasse di buon grado i
necessari sacrifici e il taglio della
spesa pubblica, la recessione che
necessariamente ne seguirebbe
potrebbe mettere in difficoltà il
sistema, al punto di costringere il
governo a rivedere le politiche
virtuose messe in atto fino a quel
momento, magari anche con un consenso generalizzato o quasi.
La recessione è una brutta bestia: riduce i redditi, fa diminuire l’occupazione, scoraggia
l’imprenditorialità. Nei paesi democratici non si può far finta di niente e lasciare che “passi ‘a
nuttata”: gli effetti, in termini di consenso, possono essere devastanti e comunque rientrare da
una situazione recessiva può essere un processo lungo e doloroso. E che lascia segni per lungo
tempo.
E non è neppure escluso che i sacrifici richiesti, ed ottenuti, si rivelino inutili se non anche
controproducenti: una delle caratteristiche dell’economia contemporanea è la sua
integrazione planetaria: le misure prese da un governo possono essere vanificate dalle
dinamiche mondiali dell’economia. In linea generale, non è prudente procedere con “cure da
cavallo”, anche se a volte può risultare dolorosamente necessario.
Se si può, è opportuno procedere con prudenza ed equilibrio: ridurre la spesa pubblica in
modo progressivo e senza “strappi” eccessivi, sperando nel frattempo che la situazione
mondiale tenda al bel tempo. Operazione non semplice e non priva di rischi. Necessaria ma
non sempre sufficiente…
Ma non solo: Brasile e Cina rappresentano le economie emergenti più forti del momento, ma
altri paesi dispongono di potenzialità economiche di grandi prospettive. Sudafrica, Messico,
Turchia, Corea del Sud, Indonesia, ecc. sono paesi dalle dinamiche di sviluppo estremamente
accelerate. Per non parlare, ovviamente, di India e Russia che rappresentano, insieme ai già
citati Cina e Brasile, il gruppo dei BRICs
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Questa volta è, davvero, diverso?
La crisi può insegnare qualcosa?
Probabilmente no. L’esperienza
indica che tutte le riflessioni
abbondantemente
presenti
durante una crisi, vengono
dimenticate in fretta quando
l’apice della crisi stessa e
passato e si comincia a scorgere
la fine del ciclo negativo. La
tendenza
è
quella
di
dimenticare, in fretta e il più
possibile.
Il
risultato,
ovviamente, è una ripetizione più o meno nella stessa forma degli errori già compiuti in
precedenza. Ma con un aggravante rispetto al passato: nel mondo globalizzato e telematizzato
gli squilibri che si creano in un punto hanno la tendenza a diffondersi a livello planetario
(Butterfly Effect)9 in tempi molto brevi, cogliendo tutti impreparati.
Il “Butterfly effect”, un costrutto importante della teoria del caos secondo cui una piccola
variazione delle condizioni iniziali di un sistema è in grado di produrre grandi variazioni a
lungo termine. L’effetto farfalla ha origini romanzesche, ma il primo ad usare il termine in una
forma problematica fu E. Lorenz in un saggio preparato nel 1963, Lorenz riferisce che “un
meteorologo fece notare che se le teorie sono corrette, un battito delle ali di un gabbiano
sarebbe stato sufficiente ad alterare il corso del clima per sempre. Più tardi, nel 1972, lo
stesso Lorenz modificò in senso più elegante la sua metafora: “Può il batter d’ali di una farfalla
in Brasile provocare un tornado in Texas?”.
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