Passato, presente e futuro del debito sovrano (Qualche nota per comprendere cosa ci aspetta)* Enrico Castrovilli† e Roberto Fini‡ Introduzione ......................................................................................................................................................................... 2 Una breve, ma ahimè necessaria, digressione tecnica ..................................................................................... 3 Crisi, svalutazione e altre amenità… ......................................................................................................................... 4 … A proposito di cattivoni: euro e BCE .................................................................................................................... 5 Ma uno stato può fallire? ................................................................................................................................................ 6 Come finirà la crisi dei debiti sovrani?..................................................................................................................... 7 Questa volta è, davvero, diverso? ............................................................................................................................ 10 Materiale preparato in occasione della conferenza del 18 aprile 2012 al Liceo Scientifico C. Cattaneo di Torino sul debito sovrano. Il presente lavoro è liberamente disponibile per i Docenti e gli Studenti del Liceo stesso. † Presidente dell’Associazione Europea per l’Educazione Economica (AEEE-Italia) ‡ Docente di Economia presso l’Università di Verona * Introduzione Si sa: la gente muore, specie gli anziani. È normale. Meno normale è che sessantamila anziani, deceduti, continuino a percepire la pensione di vecchiaia. Come non è normale che gli impiegati statali ricevano in busta paga un’indennità per usare il pc ed un’altra per il fatto che arrivino puntuali in ufficio. È normale per i forestali lavorare all’aperto. Non è normale che essi ricevano un’indennità per questo. È normale per un paese moderno decidere di prosciugare e bonificare un lago ed insediarvi attività economiche: si nomina una commissione, si procede ad uno studio di fattibilità, poi si inizia la fase di realizzazione. Non è normale nominare una commissione per prosciugare un lago a secco dal 1931. Se credete che si tratti dell’Italia, almeno questa volta, vi sbagliate: si tratta della situazione greca fino al 2010, quando è scoppiato il caso del paese più spendaccione dell’Eurozona. La Grecia è da tempo nota come la “g” dell’acronimo PIGS (porci), coniato per indicare i paesi più deboli, indebitati e, per molti aspetti, inaffidabili d’Europa. L’acronimo, evidentemente umiliante comprende (nell’ordine delle iniziali) Portogallo, Italia, GreciA, Spagna. In realtà, la storia di questi acronimi è più complessa: per esempio, da quando l’Irlanda, da “Tigre Celtica”, si è trasformata in un gattino bagnato si è ritenuto di dover aggiornare l’acronimo aggiungendo una nuova “i”. Ma non suonava bene: PIGS funziona. PIIGS di meno. Ma basta modificare l’ordine delle iniziali ed ecco fatto: GIPSI (zingari) ha il vantaggio di comprendere anche l’Irlanda e mantiene inalterata l’allusione negativa. Qualunque sia l’acronimo prescelto, l’Italia c’è sempre. E questo non è certo un fatto da sottovalutare1. Perché non va sottovalutato? Perché negli uffici degli investitori di tutto il mondo si osservano gli andamenti delle diverse economie per decidere se puntare su di esse o, peggio, se speculare per farle affondare. E se un paese è debole, per ciò stesso è esposto a rischi considerevoli. Perché? Perché si può generare facilmente un circolo vizioso: un paese considerato inaffidabile (che sia vero o meno è nella sostanza irrilevante) viene messo sotto osservazione; gli esperti finanziari sconsigliano i propri clienti di comperare i titoli del paese; d’altra parte il paese ha necessità di beneficiare di prestiti sotto forma di sottoscrizione dei propri titoli di debito pubblico; per cercare di invogliare i risparmiatori ad acquistarli il governo del paese è costretto ad alzare il tasso di rendimento; probabilmente riuscirà a piazzare i titoli, ma a tassi di interesse alti2. Per la verità, gli osservatori si sono da sempre dimostrati molto fantasiosi: il più vecchio di questi acronimi è probabilmente “Club Med”, usato per indicare i paesi latini e mediterranei, spendaccioni e gaudenti. Più di recente la stampa inglese ha coniato STUPID: Spagna, Turchia, United Kingdom (alle prese con un brutto dissesto finanziario), Portogallo, Italia e Dubai (in brutte acque). La situazione debitoria dei paesi GIPSI è esposta nel grafico 1 dell’allegato al presente lavoro. Il grafico 2, invece, mostra l’andamento di lungo periodo del debito pubblico italiano. 2 In genere il rendimento dei titoli di stato europei viene confrontato con il tasso di rendimento dei Bund tedeschi, considerati i più sicuri e quindi caratterizzati da rendimenti molto bassi. Quanto più il rendimento di un titolo si allontana (verso l’alto) dal rendimento assegnato al titolo tedesco, tanto più questo segnala una sua latente inaffidabilità e al tempo stesso per lo stato che lo emette aumentano i costi di restituzione a scadenza. Il grafico 3 presenta l’andamento dei titoli dei PIGS in relazione al Bund tedesco fra il 2010 e il 2011 1 2 Che diventeranno una pietra al collo quando si tratterà di restituire capitale ed interesse. E probabilmente questo accadrà in fretta: nessuno sottoscrive titoli a lunga scadenza per finanziare un debitore poco affidabile. Così, la previsione delle difficoltà di un paese si traducono in situazioni reali: è “la profezia che si autoavvera” 3 (a questo proposito gustatevi la striscia di Charlie Brown, mostrata in figura 1). Se siete un privato che chiede un prestito ad una banca, questa vi chiede delle garanzie e si informa in modo adeguato sulla vostra situazione economica: se avete altri debiti e di quale ammontare; se il vostro reddito, presente e futuro, è elevato; se è stabile; se le prospettive di lavoro sono tali da garantire la restituzione del prestito; ecc. Potete dar torto alla banca? Certamente no! Per i paesi accadono cose simili: la loro solvibilità viene monitorata e viene fatta dipendere in genere da variabili simili (ma non uguali) a quelle dei privati. Per esempio, una situazione debitoria troppo elevata non è un indice positivo, come pure un’eccessiva fragilità dei “fondamentali”: tassi di crescita stabilmente bassi, produttività del lavoro inferiore a quella di altri paesi, inflazione alta o fuori controllo, instabilità politica e sociale. Ogni singolo paese ha dunque interesse a mantenere condizioni economiche tali da garantire gli investitori: in questo modo otterrà più facilmente i prestiti che gli servono per finanziare le proprie attività. Già: facile a dirsi, meno facile a farsi. Se poi il paese in questione, invece di comportarsi in modo prudente ed attento alla spesa, da formica, si comporta da “cicala” e spende in modo dissennato quanto gli è stato prestato, prima o poi i nodi vengono al pettine. E sono guai… Una breve, ma ahimè necessaria, digressione tecnica In linea di massima, ogni paese possiede degli strumenti che possono rivelarsi adeguati a risolvere situazioni di crisi, o quanto meno a “tappare i buchi” e rinviare in avanti la resa dei conti. Uno di questi strumenti è la svalutazione monetaria. Quando i beni prodotti in un paese Lo schema analitico della “profezia che si autoavvera” è molto frequente nelle scienze umane, in particolare in psicologia ed economia. In sostanza, una previsione si realizza per il solo fatto di essere stata espressa. I mercati finanziari sono spesso vittime di profezie che si autoavverano: la previsione di una difficoltà in borsa per un titolo fa fuggire gli investitori da quel titolo, mettendolo in difficoltà. Il concetto venne espresso per la prima volta da Merton nel 1971 in R.K. Merton, La profezia che si autoavvera, in Teoria e Struttura Sociale, vol. II, Il Mulino, 1971 3 3 si rivelano troppo costosi e, per questo, non sono più competitivi sui mercati globali, si ricorre ad un trucco: si svaluta la moneta rispetto alle altre. Il meccanismo della svalutazione è semplice ed ingegnoso: supponete che ieri il tasso di cambio lira/dollaro sia stato 1000/1 (mille lire contro un dollaro), e supponete che, sempre ieri, un cittadino italiano si sia recato in banca a cambiare la propria valuta contro dollari. Per esempio ha cambiato 1 milione di lire, ricevendo in cambio 1000 dollari; sempre nella giornata di ieri, un cittadino americano ha cambiato presso la sua banca 1000 dollari in lire, per un ammontare, ovviamente, di 1 milione. Nella notte, il governo italiano decide una svalutazione della moneta (la lira) del 10%: svalutare significa far perdere di valore alla propria moneta. Perché dovrebbe farlo? Tornate con la mente ai nostri due amici: se l’italiano si reca oggi (dopo la decisione di svalutazione) in banca per cambiare lire contro dollari, poiché in nuovo cambio è 900 lire contro 1 dollaro, riceverà 900 dollari invece dei 1000 ricevuti ieri. L’americano che cambia i suoi 1000 dollari contro lire si troverà nel portafoglio 1.111.111 lire: più di quanto aveva ottenuto il giorno prima. Gli effetti della svalutazione? L’italiano si troverà con meno dollari in tasca rispetto al giorno prima. Viceversa l’americano si troverà con una quantità maggiore di lire. Ora: l’americano più ricco (in lire) potrebbe essere incentivato a comperare una vacanza in Italia, mentre l’italiano sarà disincentivato a recarsi in vacanza negli USA. Sul piano generale, una svalutazione rende i beni del paese che svaluta più competitivi in termini di prezzo rispetto ai paesi terzi e permette un incremento delle esportazioni. Al tempo stesso, rendendo i beni esteri più cari, deprime le importazioni, e questo può servire a ridurre l’eventuale deficit della bilancia dei pagamenti Crisi, svalutazione e altre amenità… Torniamo alle nostre vicende: la svalutazione è possibile, e persino conveniente, se un paese può farla, cioè se ha la sovranità monetaria. Ma l’Italia e gli altri paesi che hanno aderito all’euro hanno perso questa sovranità: semplicemente, non può più svalutare. Questo significa che per vendere i beni prodotti in Italia deve fare in modo che questi siano graditi ai mercati non in base ad un prezzo più basso, ma per qualche loro caratteristica intrinseca. Già. Ma come si fa con i cinesi che hanno costi di produzione pari ad un decimo di quelli italiani? Non si fa: produrre sedie o pentole in Italia è una specie di suicidio economico e il “made in Italy”, sul piano aggregato, non conta granché. Certo, nel corso degli anni si è tentato di sostenere le imprese e i settori in crisi con iniezioni di spesa pubblica. Le intenzioni erano (e sono) buone: in un paese civile non si possono lasciare sul lastrico lavoratori ed imprenditori che hanno la sola colpa di produrre beni che non hanno mercato. Occorre intervenire con strumenti che garantiscano un reddito a tutti coloro che non sono in grado di procurarselo con il loro lavoro. I sussidi di disoccupazione, la cassa integrazione, ecc. sono gli strumenti che nel corso del tempo sono stati creati per sostenere lavoratori ed imprese in difficoltà. E tali strumenti si sono rilevati preziosi in molte occasioni, a maggiore ragione nei momenti di crisi economica. Ma sono strumenti che costano: come si fa a reperire i fondi necessari? Qui torna utile quanto facevamo notare poco sopra: se un paese ha la sovranità monetaria può svalutare, se questo serve a rendere nuovamente competitiva la propria economia, oppure può reperire le risorse necessarie emettendo moneta. Ma, come detto, l’Italia e gli altri paesi dell’euro hanno volontariamente rinunciato a questa libertà. Ai tempi della lira gli strumenti delle emissioni monetarie e delle svalutazioni competitive sono stati abbondantemente, e dissennatamente, utilizzati. I risultati? Un inflazione elevata e un’ industria “drogata” da svalutazioni. Comunque non possiamo più farlo. 4 L’altro strumento che si può utilizzare per finanziare la spesa pubblica è il ricorso all’emissione e la vendita di titoli di debito pubblico. In pratica il governo chiede ai risparmiatori di prestargli del denaro, comportandosi in questo modo come un qualunque debitore: tu mi presti 5.000 euro e io in cambio ti garantisco la restituzione del capitale più un interesse secondo quanto stabilito. Il meccanismo del debito pubblico può apparire come l’uovo di Colombo. E in parte lo è: in un paese caratterizzato da risparmi abbondanti, con i risparmiatori alla ricerca di buone occasioni per investirli, ed uno stato bisognoso di sostenere la propria spesa pubblica, il meccanismo del debito pubblico funziona (più o meno) alla perfezione. Così, lo stato chiede ed ottiene prestiti, che restituisce puntualmente a scadenza. E vissero tutti felici e contenti? No, non è una favola che va a finire bene. Perché nel corso degli anni il debito pubblico italiano (come quello greco, portoghese, irlandese, spagnolo) è aumentato a dismisura. Per quale ragione? Semplicemente perché si sono chiesti nuovi prestiti per pagare quelli che andavano a scadenza! Apparentemente tutto va bene: il risparmiatore che ha prestato denaro allo stato se lo vede restituito con gli interessi, mentre i cittadini (gli stessi risparmiatori) usufruiscono di servizi pubblici adeguati (anche in questo caso: più o meno…). … A proposito di cattivoni: euro e BCE La favola non va a finire bene perché ad un certo punto intervengono quei cattivoni dell’Europa dell’euro. Che dicono, all’incirca: ok, fino a quando avevate una vostra moneta noi non mettevamo becco nei vostri affari ed eravate anche liberi di emettere tutti i titoli di debito pubblico che volevate. Fatti vostri: il massimo che può succedervi è che i risparmiatori non vi considerino più debitori affidabili e chiudano il rubinetto dei prestiti, ma sarà un problema vostro. Ma ora, sono sempre i cattivoni a parlare, siamo una famiglia: se in una famiglia il padre si comporta bene e la madre spende dissennatamente, o addirittura si indebita, il problema riguarda anche chi si comporta in modo virtuoso che potrebbe essere trascinato nelle difficoltà suo malgrado e senza averne alcuna colpa. Dunque da questo momento in poi basta spese folli! Basta assunzioni pubbliche di migliaia di forestali e di impiegati pubblici. Basta opere pubbliche faraoniche progettate e realizzate solo per elargire fondi a privati ed imprese. Insomma: basta vivere in un lusso che non potete permettervi e che non pagate voi! Dunque è tutta colpa dell’euro? Di Bruxelles? Della Banca Centrale Europea? Beh, si può anche dare la colpa di tutto all’euro, ma si prenderebbe un abbaglio: l’appartenenza ad un sistema monetario unico ha creato una gigantesca “fata morgana” durata oltre un decennio. Il fatto di essere nello stesso 5 sistema valutario di Germania e Olanda ha protetto Italia, Grecia, Portogallo e Spagna dagli interessi sul debito alti che gli investitori avevano chiesto fino all’introduzione dell’euro: non siete particolarmente affidabili, osservavano gli investitori, ma siete all’interno di un sistema che vi garantisce. È un po’ come se i debiti della moglie spendacciona siano garantiti dalle risorse del marito più prudente. Così, se per oltre un decennio i PIGS non si sono potuti servire della leva svalutativa per incoraggiare le loro esportazioni, sono stati peraltro beneficiati dal fatto che i tassi di interesse sul debito pubblico non sono mai stati particolarmente distanti da quelli della “quercia” Germania. E in effetti, fino al 2008 lo spread, cioè il differenziale in termini di tasso di interesse, fra i titoli di debito pubblico italiani o greci e quelli tedeschi non è stato particolarmente elevato. Occorre dire che i primi dodici-tredici anni di euro la debolezza di alcuni paesi, Italia compresa, ha costituito una pericolosa bomba ad orologeria all’interno dell’area valutaria comune. E la crisi iniziata nel 2007-2008 ha avuto la funzione di detonatore. D’altra parte, considerato che i mercati funzionano anche secondo logiche tutt’altro che razionali, si è generato un “effetto domino”, partito da Atene nel 2009 e che ha costretto poi anche Portogallo e Irlanda a ricorrere a prestiti UE-FMI ha risposto, ancora, anche a logiche di “profezia che si autoavvera”4. Ma uno stato può fallire? Eppure, sebbene molto lontano dall’area euro ma non lontano nel tempo, esempi interessanti, ancorché drammatici, di default non sono mancati. Uno per tutti? Il crack argentino nella seconda metà degli anni novanta, quando il governo dichiarò di non essere più in grado di onorare i suoi debiti 5 . Eppure l’Argentina era una specie di paese di Bengodi: durante la prima metà del novecento gli immigrati italiani la consideravano un sogno a cui aspirare (e tuttora il paese è popolato per circa un terzo da nipoti o figli di italiani). Ma il sogno era destinato a finire… Come dicevamo, era necessario un detonatore per far esplodere la bomba ad orologeria. La crisi mondiale legata allo scoppio della bolla speculativa dei mutui immobiliari americani 6 , nel Tutto questo è stato aggravato dal ruolo, ormai molto poco informativo delle agenzie di rating: anche secondo un accreditato studio del FMI, esse hanno spesso la pessima funzione di aggravare le crisi e non di orientare gli investitori. Il report si può leggere a partire dall’URL: http://www.imf.org/external/pubs/ft/survey/so/2010/res092910a.htm 5 Per la verità, i fallimenti di stati sono più frequenti di quanto si possa immaginare. O meglio: hanno caratteristiche diverse rispetto al fallimento di un’impresa, ma nella sostanza si tratta di una crisi irreversibile di solvibilità. Per una ricostruzione puntuale dei default potete leggere il libro di C. Reinhart e K. Rogoff, Questa volta è diverso, Il Saggiatore, 2011 . Il libro ha un titolo significativo: descrive la pericolosa illusione che dalle crisi si impari qualcosa. In realtà l’esperienza insegna che l’esperienza non insegna… 6 Il grafico 4, che trovate nell’allegato del presente lavoro, attraverso un indice molto utilizzato mostra l’andamento del prezzo degli immobili come media dei prezzi di circa venti aeree metropolitane negli USA nel corso del tempo. 4 6 2008, ha svolto egregiamente questa funzione. Quando dagli USA si è trasferita in Europa si è trasformata in una gigantesca crisi dei debiti pubblici: molti governi europei hanno dovuto salvare le banche a riavviare i motori dell’economia, ingrippati dalla mancanza di liquidità delle banche e dal fatto che la prima economia del mondo, gli USA appunto, si stava fermando e quindi non assorbiva più (o assorbiva molto meno rispetto al passato) la produzione mondiale. Ovviamente, i primi a rischiare la bancarotta non potevano che essere, e sono stati, i PIGS (o i GIPSI, o gli STUPID che dir si voglia). Peraltro, i PIGS (o i GIPSI, ecc.) non sono tutti uguali: purtroppo per la Grecia o il Portogallo, le conseguenze di un fallimento o di un salvataggio in extremis come è accaduto per la Grecia di recente, significa essere costretti a seguire un severo programma di correzione dei conti pubblici ed essere messi sotto stretta sorveglianza, quasi commissariati, dalle autorità dell’eurozona. Questo non vale, ma non è una fortuna, per Italia e Spagna. Per le quali vigono due regole non scritte, ma nei fatti molto stringenti: a. too big to fail7; b. too big to save. In altre parole, il fallimento di un paese come l’Italia provocherebbe effetti a catena non controllabili e metterebbe in ginocchi l’economia europea. D’altra parte sono paesi troppo grandi perché si possa pensare ad un intervento dell’Europa o del FMI: semplicemente, non vi sono risorse sufficienti. Ne deriva che devono salvarsi da sole. Come finirà la crisi dei debiti sovrani? Già: bella domanda anche questa! Non possiamo saperlo. Ma alcune ipotesi si possono fare, sebbene con molta prudenza. Prima questione: in molti casi la crisi del debito pubblico è stata causata dal verificarsi di due condizioni convergenti, una di lungo periodo, una più contingente. Quella di lungo periodo è stata l’espansione della spesa pubblica iniziata dopo la crisi del ’29 e il suo finanziamento attraverso i due canali ipotizzati dal grande economista inglese J. M. Keynes: l’emissione di moneta e il debito pubblico. Keynes ipotizzava che, in particolare nei momenti di crisi, quando i consumi ristagnano e l’economia non progredisce (e anzi arretra), la spesa pubblica poteva, e doveva, servire da metodo per far ripartire il sistema Letteralmente: “troppo grandi per essere lasciati fallire”. Originariamente la locuzione si riferiva alle grandi banche d’affari americane, il cui crollo avrebbe provocato effetti a catena disastrosi. A questo proposito potete vedere l’ottimo docu-fiction dallo stesso titolo per la regia di C. Hanson (2011). Il film si focalizza sui drammatici giorni del settembre 2008, quando la Lehman Brothers venne lasciata fallire; ne seguì un crollo di borsa di notevole entità, anche se venne riassorbito piuttosto in fretta. Il film è ispirato ad un bel libro, di facile lettura: A.R. Sorkin, Il crollo: too big to fail, De Agostini, 2010. Un altro film che ricostruisce la crisi del 2008, sebbene da un altro punto di vista è “Wall Street: il denaro non dorme maI, di O. Stone. Qui le vicende sono viste con l’occhio di un operatore di borsa e di uno speculatore, M. Douglas. Il film è interessante anche perché rappresenta il sequel di un precedente film, con protagonista lo stesso M. Douglas. Per un’approfondita analisi delle cause della crisi conviene vedere anche il documentario di C. Ferguson “Inside Job,” che racconta il periodo dal 2008 al 2010 7 7 economico inceppato. Anche di fronte ad un deficit di bilancio il governo non doveva spaventarsi: sarebbe stato riassorbito nel momento in cui i consumi fossero ripartiti e i redditi delle persone avrebbero consentito entrate fiscali maggiori. Non male come idea! Elaborata da Keynes nel corso degli anni trenta, essa è servita a giustificare un’espansione in molti casi abnorme della spesa pubblica finanziata in deficit. Ma soprattutto non si è avuta una decisa inversione di tendenza a crisi finite. In effetti, è facile espandere la spesa pubblica perché tutti sono contenti: basse imposte, redditi in aumento, disoccupazione in calo grazie alle sovvenzioni pubbliche. Ma come si fa poi a licenziare un dipendente pubblico? Come si possono aumentare le imposte senza che questo provochi malumore sociale (ed elettorale…)? In effetti, anche quando la teoria keynesiana ha smesso di essere dominante, sia fra gli economisti che negli ambienti politici, ci si sarebbe dovuta aspettare un’inversione di tendenza e una riduzione, sia pure progressiva ed intelligente, dell’intervento pubblico nell’economia. Questa soluzione, caldeggiata a parole dall’opinione pubblica non è stata seguita e la spesa pubblica è aumentata quasi dappertutto anche quando non era necessario, con la conseguenza di aumentare l’esposizione debitoria e alimentare uno dei grandi mali del novecento: l’inflazione. Questo per quanto riguarda il lungo periodo. Nel breve periodo la crisi non ha fatto che aumentare le difficoltà di tutti i paesi che ne sono stati colpiti; ma, ovviamente, quelli già strutturalmente più deboli, con debito pubblico elevato (ben oltre il 60% fissato dagli accordi Maastricht), con una spesa pubblica fuori controllo, con classi politiche deboli e non in grado di prendere decisioni anche dolorose, con sistemi industriali poco competitivi, sono apparsi, per riprendere l’espressione del Manzoni quando descrive il carattere di don Abbondio, i classici vasi di coccio fra quelli di ferro. Da qui il dissesto di molte economie, Grecia in primo luogo. Ma anche in forme diverse (per ora…) Portogallo, Irlanda. E Italia… Se ne esce? Forse sì e forse no: dipende dalle scelte che i governi sapranno fare nei prossimi mesi. Un tempo maggiore, purtroppo, non è concesso a nessuno. Anche perché, mentre Europa ed USA dibattono amabilmente su quanto si deve ridurre la spesa pubblica e, meno amabilmente, litigano su chi deve assumersi la 8 responsabilità della crisi, paesi come Cina o Brasile 8 si mangiano fette sempre più grandi di mercati e comperano il debito pubblico americano ed europeo, rendendo USA ed Europa sempre più finanziariamente dipendenti. La domanda, ovviamente, resta: che si fa? Nella sua essenza la ricetta è semplice: è necessario che le cicale si abituino ad essere più formiche. Fuor di metafora: che, specie i paesi maggiormente indebitati, riducano la spesa pubblica e progressivamente rientrino da percentuali di debito pubblico sul PIL troppo elevate. Ma non è un problema semplice. Se anche l’opinione pubblica di un paese accettasse di buon grado i necessari sacrifici e il taglio della spesa pubblica, la recessione che necessariamente ne seguirebbe potrebbe mettere in difficoltà il sistema, al punto di costringere il governo a rivedere le politiche virtuose messe in atto fino a quel momento, magari anche con un consenso generalizzato o quasi. La recessione è una brutta bestia: riduce i redditi, fa diminuire l’occupazione, scoraggia l’imprenditorialità. Nei paesi democratici non si può far finta di niente e lasciare che “passi ‘a nuttata”: gli effetti, in termini di consenso, possono essere devastanti e comunque rientrare da una situazione recessiva può essere un processo lungo e doloroso. E che lascia segni per lungo tempo. E non è neppure escluso che i sacrifici richiesti, ed ottenuti, si rivelino inutili se non anche controproducenti: una delle caratteristiche dell’economia contemporanea è la sua integrazione planetaria: le misure prese da un governo possono essere vanificate dalle dinamiche mondiali dell’economia. In linea generale, non è prudente procedere con “cure da cavallo”, anche se a volte può risultare dolorosamente necessario. Se si può, è opportuno procedere con prudenza ed equilibrio: ridurre la spesa pubblica in modo progressivo e senza “strappi” eccessivi, sperando nel frattempo che la situazione mondiale tenda al bel tempo. Operazione non semplice e non priva di rischi. Necessaria ma non sempre sufficiente… Ma non solo: Brasile e Cina rappresentano le economie emergenti più forti del momento, ma altri paesi dispongono di potenzialità economiche di grandi prospettive. Sudafrica, Messico, Turchia, Corea del Sud, Indonesia, ecc. sono paesi dalle dinamiche di sviluppo estremamente accelerate. Per non parlare, ovviamente, di India e Russia che rappresentano, insieme ai già citati Cina e Brasile, il gruppo dei BRICs 8 9 Questa volta è, davvero, diverso? La crisi può insegnare qualcosa? Probabilmente no. L’esperienza indica che tutte le riflessioni abbondantemente presenti durante una crisi, vengono dimenticate in fretta quando l’apice della crisi stessa e passato e si comincia a scorgere la fine del ciclo negativo. La tendenza è quella di dimenticare, in fretta e il più possibile. Il risultato, ovviamente, è una ripetizione più o meno nella stessa forma degli errori già compiuti in precedenza. Ma con un aggravante rispetto al passato: nel mondo globalizzato e telematizzato gli squilibri che si creano in un punto hanno la tendenza a diffondersi a livello planetario (Butterfly Effect)9 in tempi molto brevi, cogliendo tutti impreparati. Il “Butterfly effect”, un costrutto importante della teoria del caos secondo cui una piccola variazione delle condizioni iniziali di un sistema è in grado di produrre grandi variazioni a lungo termine. L’effetto farfalla ha origini romanzesche, ma il primo ad usare il termine in una forma problematica fu E. Lorenz in un saggio preparato nel 1963, Lorenz riferisce che “un meteorologo fece notare che se le teorie sono corrette, un battito delle ali di un gabbiano sarebbe stato sufficiente ad alterare il corso del clima per sempre. Più tardi, nel 1972, lo stesso Lorenz modificò in senso più elegante la sua metafora: “Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?”. 9 10