Macbeth. La follia nella modernità. Un divano, una lampada e un tavolino pieno di liquori quasi finiti; una festa si materializza davanti agli spettatori del Piccolo Teatro Strehler di Milano. Tutte le luci in sala rimangono accese fino alla conclusione di una baldoria invidiabile di corpi concitati che ballano, si dimenano e barcollano nella loro ebbrezza, con l’eco di risate isteriche provenienti soprattutto dai coniugi protagonisti assoluti del dramma; così Andrea De Rosa ha deciso di far iniziare il suo Macbeth. Collocato in una spazialità altamente definita, con una grande struttura metallica completata da pannelli semi-trasparenti che troneggia sulla scena per delimitare le stanze del castello di Inverness, ma storicamente poco delineato, il dramma assume un sapore squisitamente moderno anche grazie a scenografia e costumi degli attori: entrambi semplici, quasi minimalisti nella loro essenzialità. I colori che dominano la scena, e veicolano perciò i sentimenti suscitati dall’opera shakespeariana, si riducono a tre fondamentali: il nero dei vestiti degli attori, del buio di molte scene illuminate solo da un occhio di bue o rischiarate da luci psichedeliche da discoteca, per nascondere in parte l’efferatezza di certi atti violenti; il bianco della veste da camera di Lady Macbeth, che dopo il primo omicidio si cambia, come se indossando una veste candida e pura volesse negare anche a se stessa di essere irrimediabilmente condannata; infine, il rosso del sangue di innocenti versato per la brama di potere che da subito diventa protagonista del dramma, un’ossessione di cui i due sposi non si libereranno più. La vicenda si apre sull’isteria e la pazzia che costituiscono il leitmotiv dell’opera shakespeariana. L’attrice francese Frédérique Loliée connota una Lady Macbeth che dalla prima scena si dimostra priva di senno e facilmente corruttibile dal male; è appunto lei a interpellare le tre streghe, sedute con lei sul divano e qui rappresentate da tre bambolotti dalle voci fuori campo molto stridule e fastidiose, provocando così il famoso colloquio che determinerà la spirale di violenza innescata da una bramosia irrazionale. Il legame tra l’anima già nera di Lady Macbeth e l’oscurità delle tenebre viene subito manifestato nell’atto di inglobare nel proprio ventre, sotto la maglia, i tre fantocci stessi, come fosse lei ad averli generati, e di partorirli uno ad uno volendo dimostrare la sua volontà di compiere quegli atti depravati che a lungo andare le causeranno pentimento, e infine la morte. Dopo un iniziale tentennamento di Macbeth ad attuare il piano diabolico di uccidere il Re Duncan per diventare lui stesso Re di Scozia e avverare così la profezia delle streghe, ci rendiamo conto che la follia ha colpito anche lui grazie ad un artificio scenico molto riuscito: il pugnale con cui dovrà compiere l’omicidio si manifesta come una visione in un delirio dell’uomo, che spaventato evoca la luce e le tenebre in sala per cercare di vedere “chiaro” ciò che lo attende. Un ottimo Giuseppe Battiston vive, e fa vivere, i tormenti interiori del protagonista in un’interpretazione carica di pathos, a metà tra comicità forzata e disperazione più completa. Il tramutarsi delle anime dei due sposi in “belve” assetate di sangue si coglie nell’abbandono del riso isterico che domina tutta la prima parte dello spettacolo, sostituito dalla consapevolezza di aver intrapreso una lenta discesa agli inferi, sintetizzata nella battuta di Lady Macbeth rivolta al marito: “Perché ora non ridiamo più?”. Gli eventi si rincorrono inesorabili passando per il secondo omicidio, ordinato dal nuovo sovrano ai danni dell’amico di un tempo Banquo, che gli apparirà poi come fantasma acuendo così la sua follia, fino a giungere al massacro efferato di una famiglia innocente, quella del nobile Macduff, che infine riuscirà a sconfiggere il male, ormai annidato nella figura di Macbeth. La violenza che caratterizza la seconda parte della tragedia viene rappresentata da due scene molto forti: durante il secondo colloquio di Macbeth con le streghe, una donna dal volto imbrattato di sangue estrae dei bambini, anch’essi insanguinati, dal ventre di una Lady Macbeth semicosciente, andando a confermare l’ineluttabilità della loro perdizione, ed eleggendoli unici artefici del loro destino di sangue; e quegli stessi bambini verranno poi appesi a delle corde sul palco per creare il campo di battaglia della sfida finale tra Macbeth e Macduff, rendendo il tutto ancora più crudo. Un discorso a parte merita la musica, che da sola riesce a dare agli spettatori la sensazione di essere parte della follia di Macbeth: il solo pensiero di compiere un’azione efferata, o di ordinare qualche omicidio al suo sicario Seyton è accompagnato da una musica rave di sottofondo sovrastata da un battito in accelerazione continua, prodotto dallo stesso attore che compie gli omicidi, che rendono il tormento e la paranoia di Macbeth ancora più inquietanti e coinvolgenti. Il testo del Bardo viene rispettato dal regista in tutti i suoi momenti fondamentali, incluso l’ultimo celeberrimo soliloquio di Macbeth che apprende la notizia della morte della moglie, fatta eccezione per l’omissione di alcune scene di guerra e l’esclusione di qualche personaggio, cose che non minano la comprensione delle vicende narrate. In conclusione, traspare senza difficoltà anche per lo spettatore inesperto l’essenza della tragedia shakespeariana, che mescola l’elemento soprannaturale tipico dell’antichità, le diverse sfaccettature dell’animo umano tra luci e ombre, e la violenza che troppo spesso può scaturire dalla mano dell’uomo, aspetti che rivelano una modernità e un’attualità uniche, che solo un classico di questo calibro riesce a regalare.