De ritu nuptiarum D - Dipartimento di diritto privato e storia del diritto

Diritto romano. Corso 2010. Usucapio. I puntata.
1. L’usucapione nel diritto italiano vigente.
L’istituto della usucapione è considerato nel libro terzo del codice civile, dedicato alla proprietà; in
esso il titolo VIII tratta del possesso, che è definito quale “il potere sulla cosa che si manifesta in
un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale” (capo I, disposizioni
generali, 1140 1° comma c.c.). il capo II di detto titolo attiene agli effetti del possesso, la cui sezione III (1158-1167) è contrassegnata “Dell’usucapione”.
Dal punto di vista sistematico, dunque, il nostro istituto è fatto rientrare nella trattazione dell’appartenenza dei beni ai soggetti, qual è la proprietà; in connessione con questa viene considerato
il possesso, del quale uno degli effetti può essere l’usucapione. Si segue perciò il seguente ordine:
proprietà > possesso > usucapione.
Nelle esposizioni odierne di carattere istituzionale è presente l’insegnamento secondo il quale si diventa proprietari di una cosa mediante uno dei modi di acquisto di essa: li elenca l’art. 922,
che cita nell’ordine la occupazione, la invenzione, l’accessione, la specificazione, la unione o commistione, la usucapione, l’effetto di contratti, la successione a causa di morte, infine “gli altri modi
stabiliti dalla legge”. I primi sei modi di acquisto sono a titolo originario, cioè in essi l’acquisto non
dipende dalla posizione di una precedente titolare; gli altri, più frequenti, sono a titolo derivativo,
perché in essi il diritto di chi acquista dipende (deriva) dal diritto di un titolare precedente. Titolare
è colui al quale il diritto appartiene a causa di un titolo, ovvero una fonte che ha generato l’acquisto,
in altri termini la fattispecie che lo giustifica: io sono titolare della proprietà di una cosa perché la
ho occupata, trovata, acquisita tramite unione con altra cosa, trasformata in una cosa nuova, unita o
mescolata ad altra cosa, infine usucapita; tutti casi, questi, per i quali l’essere io titolare non è dipendente dalla precedente titolarità di altri. D’altra parte io posso invece diventare titolare in conseguenza di un rapporto con un titolare precedente, dal quale io derivo il titolo (al quale, si dice anche,
io succedo nel titolo): il bene mi è stato alienato per mezzo di un contratto, oppure il bene mi è arrivato in seguito alla morte del titolare che c’era prima (rispettivamente acquisto inter vivos, acquisto
mortis causa).
In seguito all’acquisto, il soggetto munito di titolo idoneo ad esso diventa proprietario del
bene: egli può asserire e difendere questo suo stato affermando che la cosa è sua, appartiene a lui:
hanc rem meam esse aio, io affermo che questa cosa è mia, diceva l’attore in un’azione di rivendica
(di difesa giudiziaria della proprietà) nell’antico processo romano.
Se una cosa è mia e io ne sono quindi proprietario, ho il potere sopra di essa che può tradursi
in due categorie di mio comportamento: io posso goderla e usarla, traendone ogni lecito vantaggio,
e posso disporre di essa, per es. alienarla; spettano a me, rispettivamente, i poteri di godimento e di
disposizione. Quest’ultimo è appunto il potere di cederla, alienandola cioè facendola diventare di
altri inter vivos o mortis causa; o anche di cedere ad altri una parte del contenuto del potere che io
ho su di essa, per esempio costituendo a vantaggio di altri un diritto reale parziario, tanto di godimento (come l’usufrutto o la servitù), quanto di garanzia (come il pegno o l’ipoteca).
Chi è proprietario di una cosa tiene, rispetto ad essa, un comportamento lecito che gli altri
possono percepire così da un punto di vista materiale come da un punto di vista morale, ossia psicologico: egli infatti “tiene” la cosa, la domina usandola e rendendo palese, percepibile, la propria volontà di fare ciò per sé e ad esclusione degli altri. Nel linguaggio comune si dice che una persona,
che è proprietaria della cosa, la possiede: anzi secondo tale linguaggio le locuzioni “essere proprietario” e “possedere” hanno significato equivalente; chi “possiede” un terreno ne è il padrone. D’altra parte si usa dire che un ladro, rubando, “si è impossessato” della refurtiva: egli con il furto ha
fatto perdere il controllo della cosa rubata a chi la aveva. Il ladro, prendendosi clandestinamente il
possesso della cosa, non l’ha resa propria (perché non aveva il titolo per acquisirne la proprietà), ma
certamente ha tolto al possessore di essa quel potere che si chiama possesso: il ladro possiede, anche se la cosa ovviamente non è sua, né mai lo diventerà. Ma se anche un ladro è possessore, in che
modo è possibile invece distinguere una situazione di possesso lecito e dunque giustificato? Si osserva se a quel possesso corrisponde un titolo suscettibile di prova, per es. il titolo di proprietà; ma
se ciascun possessore proprietario dovesse essere costretto a dimostrare il titolo di proprietà, risalendo all’indietro nel tempo per fare prendere atto della validità dei titoli di acquisto di ogni proprietario precedente, la certezza delle situazioni giuridiche di appartenenza dei beni ai soggetti diventerebbe un’astratta utopia e quel tale possesso sarebbe, ogni volta che occorresse, di giustificazione
difficile per rintracciarne il titolo originario: ecco che perciò ogni ordinamento giuridico contiene
un limite a tale necessità infinita di prova (la cosiddetta probatio diabolica), permettendo di sanare,
con il computo del tempo di durata del possesso lecito, i casi dubbi di appartenenza di una cosa a un
soggetto.
Nell’uso del verbo che è rilevante per il diritto, “possedere” esprime un fatto: quello di avere
il controllo di una cosa indipendentemente dalla circostanza - che può esistere o non esistere – di
avere anche il diritto di farlo. Arrivati a questo punto possiamo leggere l’art. 1140 c.c. Esso consta
di due commi, detti anche alinea: il primo reca la definizione di possesso, che è “il potere sulla cosa
che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale”; il
secondo comma dice che “si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”. Non indugiamo per adesso sul contenuto di questo secondo comma, ricordando ora soltanto che chi detiene non possiede, perché non tiene la cosa come sua, pure avendo sopra
di essa un potere che non è certamente quello spettante al proprietario, che anzi il detentore riconosce essere altri da sé: citiamo ad esempio i casi di scuola del comodatario e del conduttore, il quali,
in seguito a un atto bilaterale di natura contrattuale, un accordo, usano (entro certi limiti) la cosa
avuta in prestito o, rispettivamente, avuta temporaneamente in corrispettivo di un canone, tenendola
provvisoriamente quale cosa altrui entro le modalità e il periodo determinati dal contenuto del contratto di comodato o, rispettivamente, di locazione.
Osserviamo invece il primo alinea della norma surriportata. Il possesso vi è indicato quale
potere sulla cosa: il potere è un aspetto della sovranità, dell’essere signore e padrone; è importante
notare ancora che si tratta di un fatto, non invece di per sé di un diritto (dunque il possessore non è
in senso giuridico coincidente di necessità con il proprietario). E’ un aspetto, cioè una situazione
che si può percepire dall’esterno, che è possibile rilevare, constatare; esso infatti “si manifesta”, si
rende appunto percepibile a chi osservi un comportamento, e tale comportamento del possessore,
essendo corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale sulla cosa, è chiamato dal
legislatore con il nome di “attività”. Essa coincide, secondo quello che è possibile percepire, con il
comportamento del proprietario del bene oppure con il comportamento verso il bene di un usufruttuario, del titolare di una servitù prediale, di un creditore pignoratizio, insomma del titolare di uno
dei diritti reali parziari di godimento o di garanzia. Che sono riconosciuti – in numero chiuso e tipico – dall’ordinamento italiano.
Ancora si può osservare che nella legislazione vigente in Italia sul possesso quello che il codice chiama “potere sulla cosa” non si riferisce a una “situazione giuridica di potere”, cioè a una investitura in seguito alla quale una persona è legittimata a compiere certi atti. Evidentemente, qui la
parola potere non è usata con tale significato, ma è impiegata per indicare il controllo che il possessore ha sulla cosa: possessore è chi ha di fatto la cosa in suo potere (P. Zatti). Si dice anche che il
possesso è un’apparenza (C. A. Cannata), è ciò che appare (si manifesta), che si può percepire; in
rapporto alla proprietà, per esempio, il possesso è dunque l’aspetto percepibile, dal punto di vista
del fatto, di un diritto soggettivo qual è il diritto di proprietà. Detta apparenza deve essere percepibile in modo non dubbio: si parla infatti di inequivocità quale requisito necessario e intrinseco della
manifestazione del possesso, comprensiva sia dell’animus, l’intenzione, sia del corpus, la materialità del potere: chi tiene la cosa come possessore dev’essere ben distinguibile da chi la tiene come detentore.
2. Elementi del possesso.
L’insegnamento bimillenario, fondato dai giureconsulti romani, riconosce il potere possessorio quale costituito da due elementi: l’animus possidendi e il corpus possessionis, che si riferiscono rispettivamente al profilo soggettivo e al profilo oggettivo dell’istituto.
L’animus è l’intento, la intenzione di tenersi la cosa o di esercitare il diritto reale come spettante a sé: la giurisprudenza esprime ciò con la locuzione latina animus rem sibi habendi. Chi tiene
una cosa per sé è qualificato possessore – sia che ne abbia il titolo, sia che non lo abbia – senza che
si tenga conto della sua consapevolezza che esistono diritti di altri e della sua conoscenza del regime giuridico cui è sottoposto l’oggetto sul quale si manifesta l’esercizio del potere di fatto. Proprio
relativamente al possesso idoneo per l’usucapione, la corte di Cassazione ha statuito che l’intento di
possedere l’oggetto non deve di necessità accompagnarsi alla convinzione di esercitare un potere
perché si è persuasi di essere titolari del diritto di farlo, essendo sufficiente per usucapire che il potere sia posto in atto come se chi lo fa avesse il diritto di farlo, vi sia o non vi sia la coscienza che
altri hanno tale diritto. Il fatto – non il diritto – giuridicamente rilevante, e come tale anche protetto
dall’ordinamento, di tenersi il bene ad esclusione di altri, è sufficiente che sia palese (“si
manifesta”), senza che il soggetto, ai fini della protezione, abbia l’onere di provare l’esistenza di
sue convinzioni di essere titolare di un diritto che permetta di possedere: possideo quia possideo,
possiedo perché possiedo.
In questa prospettiva infatti l’art.1141 c.c. dispone, nel suo primo comma, che “si presume il
possesso in colui che esercita il potere di fatto, quando non si prova che ha cominciato a esercitarlo
semplicemente come detenzione”. Detenere un bene vuol dire tenerlo senza avere l’animus possidendi: il detentore è qualificato come tale perché rispetto a una cosa, con la quale ha una relazione
materiale, egli ha soltanto il profilo oggettivo della situazione possessoria, possidet corpore (possiede materialmente), ma non possidet animo (non ha l’intenzione di essere possessore). Abbiamo imparato a livello istituzionale elementare che sono detentori e non possessori il comodatario, l’affittuario, il depositario nel deposito regolare; sono detentori anche il domestico di una casa, il custode,
l’amico che mi tiene una cosa per semplice cortesia, l’appaltatore che ha ricevuto il bene per farvi
delle opere: essi detengono o nell’interesse proprio, per effetto di un contratto che ha assegnato loro
il godimento di una cosa; o nell’interesse altrui, per effetto di un rapporto di lavoro subordinato –
anch’esso contrattuale – o di sola relazione di cortesia, di amicizia; di nuovo nell’interesse altrui, se
il detentore ha materialmente la cosa per adempiere a una propria obbligazione, come avviene per il
depositario e per l’appaltatore. Tutte queste persone, che si trovano in relazione con la cosa, hanno
cominciato a tenerla esercitando solo il profilo soggettivo del possesso: esse tengono la cosa non
per sé, ma per altri; sono ministri, cioè strumenti umani, del possesso altrui. Il contratto, o l’atto non
contrattuale (non patrimoniale) di cortesia sono la prova che costoro hanno cominciato a esercitare
il profilo oggettivo, materiale del possesso come detentori e non come possessori.
Ma se tale prova non c’è, il nostro ordinamento intende che chi tiene un oggetto ne sia anche
possessore, senza che ci sia bisogno di indagare se ne abbia la proprietà o altro diritto reale, quale
oggi l’usufrutto: ciò vuol dire che l’animus possidendi si presume iuris tantum, anche se non iuris
et de iure, giacché la presunzione si può vincere per mezzo della prova della detenzione iniziale.
Qualora poi chi aveva cominciato la sua relazione con l’oggetto in qualità di detentore abbia cambiato il proprio atteggiamento psicologico, quindi la propria volontà, mutando il suo animus detinendi in animus possidendi, trova applicazione l’alinea secondo dell’art.1141: “se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso finché il titolo non venga ad essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore”.
Esempio di causa proveniente da un terzo: Giovanni, comodatario e quindi detentore della casa di
Antonio, che ne è (in quanto proprietario) il possessore, conclude con Antonio (in questo contesto,
terzo) un accordo di acquisto di quella casa; dal momento in cui l’accordo avente effetto traslativo
diventa efficace, Giovanni smette di tenere la casa come comodatario di Antonio e muta, avendo acquisito l’animus possidendi, la sua detenzione in possesso (oltre ad esserne diventato proprietario in
seguito al ricordato effetto traslativo, cioè reale, di quell’accordo); i giuristi medievali definivano
questo mutamento lecito della detenzione in possesso con la locuzione traditio brevi manu, trasferimento senza consegna manuale; Giovanni ha mutato il titolo della sua relazione con la cosa in virtù
di una giustificazione che proviene da un terzo (Antonio), che a sua volta era già il possessore.
Esempio di opposizione: Giovanni, inquilino di Antonio, e quindi detentore dell’immobile, vantando una pretesa di diritto (avere ereditato la casa), smette di corrispondere il canone di locazione e si
oppone alla richiesta di rilascio, rivoltagli da Antonio, dichiarando, con uno o più atti inequivoci, di
voler resistere alla richiesta di lui in quanto da conduttore è ora divenuto possessore della casa in
qualità di erede, dunque proprietario, di essa.
3. Effetti giuridici del possesso.
L’ordinamento riconosce al possessore due tipi di vantaggio. Lo stato di fatto del possessore è protetto in modo immediato e diretto contro gli atti di aggressione ad esso, quali sono le spoliazioni, le
turbative e le molestie. Tale protezione è la tutela giurisdizionale del possesso, per mezzo delle
azioni possessorie, eredi degli antichi interdicta del diritto romano classico, le quali – si noti – si
trovano trattate, nel profilo del diritto in senso sostanziale e non processuale o formale, sotto il titolo “Delle azioni a difesa del possesso”, negli artt. 1168 – 1170 del codice civile, a conclusione del
titolo dedicato al fenomeno del possesso: sono le azioni di reintegrazione e di manutenzione, con le
quali si conferisce a chi possiede il potere giuridico di agire per difendere lo stato di fatto, che da
tale punto di vista è trattato come situazione giuridica protetta, indipendentemente dalla sussistenza
di un titolo. Due sono le ragioni per le quali l’ordinamento dà questa protezione: una è l’interesse
generale a tutelare lo stato di fatto contro chi voglia modificarlo senza il controllo del diritto, che richiede frequentemente tempi lunghi; l’altra è per l’appunto la difficoltà di dare la prova immediata
della proprietà o di altri diritti reali giustificanti il possesso attuale. Tali ragioni sono almeno in parte comuni a quelle che – sul piano dei diritti soggettivi – giustificano l’istituto dell’usucapione.
Un secondo tipo di vantaggio, che il diritto oggettivo attribuisce a chi possiede, è la possibilità di trasformare una situazione di possesso non illecito, ma non ancora giustificato da un titolo di
diritto, in una situazione di titolarità giuridica, così che chi possiede abbia la possibilità di acquistare a titolo originario la proprietà o un diritto reale parziale di godimento per usucapione. Nel tempo
che intercorre fra l’acquisto non illecito del possesso e la sua trasformazione in un diritto reale in
seguito a usucapione, chi possiede fruisce della protezione delle azioni possessorie, che spettano
così a chi possiede perché ha un titolo giuridico per farlo come a chi, potremmo dire, possiede semplicemente (possideo quia possideo) per il fatto di manifestare un potere in concreto sulla cosa posseduta, purché senza clandestinità e senza violenza (se il ladro o il rapinatore si affidassero agli organi di giustizia per proteggere il loro possesso, accetterebbero di sottoporsi a un controllo pubblico
a cui ovviamente non tengono affatto).
4. Requisiti dell’usucapione nel codice civile.
L’istituto si colloca nel libro terzo, Della proprietà, sezione II del capo II, Degli effetti del possesso.
Gli articoli vanno dal 1158 al 1167. Viene considerata per prima l’usucapione degli immobili, poi
quella delle universalità di mobili, infine quella di singoli beni mobili.
Secondo l’art.1158 “la proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui
beni medesimi”, ad es. servitù, usufrutto, enfiteusi, uso, abitazione, superficie, “si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”. La rubrica che l’articolo porta è “usucapione dei beni immobili e dei diritti reali immobiliari”. Nel testo dell’articolo, “possesso continuato” vuol dire possesso senza interruzioni, possesso ininterrotto: essendo situazione di fatto, il controllo sulla cosa,
che si chiama possesso, deve esserci in permanenza. La giurisprudenza recente ha affermato a questo proposito che “il possesso ad usucapionem richiede un comportamento continuo e non interrot-
to, protrattosi per il tempo stabilito dalla legge, che dimostri inequivocabilmente l’intenzione di
esercitare un potere sulla cosa corrispondente a quello di un proprietario o del titolare di un ius in re
aliena” (Cassazione civile, n.4436/1996).
Un esempio. C’è un bosco il cui proprietario è Antonio, che se ne disinteressa, dimostrando
così in comportamento di inerzia. Giovanni, che può essere e in molti casi è effettivamente un vicino – anche se la legge, si noti, non richiede una situazione di vicinato per usucapire – si reca continuativamente in quel bosco altrui per provvedersi di legna da ardere, comportandosi senza clandestinità e violenza come si comporterebbe un proprietario, cioè come potrebbe fare Antonio e non fa,
né si oppone perché, abbiamo detto, si disinteressa del bene e del suo uso; la situazione dura così
per un ventennio. Se dopo tale lunghissimo periodo Antonio o un suo successore (un suo avente
causa) pretenderanno di far valere la proprietà del bosco contro Giovanni o un suo successore, il
giudice darà ragione a questi ultimi, sancendone l’avvenuto acquisto del bosco a titolo originario,
cioè non derivato da Antonio, ma conseguente invece al possesso continuato e mai interrotto del
bene immobile da parte di Giovanni. Da un punto di vista economico-sociale è come se la collettività, di cui il giudice è organo, premiasse Giovanni, attivo e operoso, e punisse Antonio per la sua
inerzia così prolungata: durante almeno un ventennio Antonio aveva avuto molteplici occasioni per
interrompere l’uso di Giovanni - sarebbe stata sufficiente anche una sola interruzione per fare ripartire da zero il tempo di venti anni.
Possiamo notare fin d’ora che l’art.1158 non richiede la buona fede del possessore che si
comporta come se fosse un proprietario, anche se forse sa di non esserlo; a tale proposito la Cassazione civile (n.18392 del 2006) si è pronunciata nel senso che “ai fini dell’usucapione, l’animus
rem sibi habendi (l’intenzione di tenere la cosa per sé) non deve necessariamente consistere nella
convinzione di esercitare un potere di fatto in quanto titolare del relativo diritto, essendo sufficiente
che tale potere venga esercitato come se si fosse titolari del corrispondente diritto, indipendentemente dalla consapevolezza che invece esso appartiene ad altri”. Perciò nel nostro esempio boschereccio non è necessario che Giovanni faccia provvista di legna in quel luogo credendo che esso sia
suo, credendo di averne diritto, magari per averlo ereditato; può anche essere che egli creda questo,
ma l’ordinamento giuridico non considera quello che egli crede, ma prende soltanto atto di come
egli si è comportato usando il bosco, di fronte alla inerzia di Antonio; perciò può di certo darsi pure
il caso che Giovanni attui il suo contegno sapendo benissimo di non averne diritto, e si riservi persino coscientemente anche, perdurando l’inerzia del vero proprietario, di diventare egli stesso proprietario approfittando dell’esistenza della norma che permette l’usucapione. Nella realtà empirica il
più delle volte sarà successo che Giovanni, avendo facilità di accesso al bosco, constatando che esso
non è recintato e che non vi sono cartelli e segnali indicativi di una attuale proprietà, vi sarà entrato
a raccogliere o a tagliare legna (non dimentichiamo: durante ben venti anni!) per comodità sua e
senza opposizione di nessun avente diritto. Altri casi esemplari di usucapione ordinaria assoggettati
oggi al vaglio della giurisprudenza: Giovanni occupa con l’apporto di una recinzione una porzione
di giardino che è del vicino confinante Antonio; Giovanni usa come se fosse il proprietario esclusivo (uti dominus) un veicolo che in realtà gli appartiene in comproprietà con altri soggetti (comunione); Giovanni usa per sé solo un locale dell’immobile che era invece adibito a servizi condominiali;
Giovanni apre nel suo edificio una veduta sul fondo di Antonio, senza rispettare la distanza prevista
dalle norme sui rapporti di confine.
Riferendoci ora ai diritti reali parziari di godimento (qual è l’ultimo degli esempi ora elencati), troviamo non infrequenti casi di acquisto tramite usucapione di servitù prediali apparenti, cioè
che hanno “opere visibili e permanenti (come una finestra) destinate al loro esercizio” (art.1061);
se infatti manca il carattere dell’apparenza, il possesso di una servitù può esistere, ed è protetto dalle
azioni possessorie cui si è accennato nel § 3, ma non conduce all’usucapione del diritto. Una ipotesi
ricorrente è in questo stesso campo la possibilità di usucapire una servitù di passaggio, a condizione, sempre, che sia soddisfatto il requisito dell’apparenza, che deve consistere nella presenza visibile di opere non provvisorie, tanto naturali quanto artificiali (una strada, un sentiero). Opere percepibili da chiunque (incluso il proprietario del fondo servente), in modo tale da escludere la clandesti-
nità del possesso; i passaggi del possessore non devono essere soltanto saltuari o sporadici, ma permanenti, usuali (anche se non quotidiani), tali da rivelare in maniera palese e non equivoca l’esistenza del nuovo peso che grava sul fondo servente, a carattere stabile, e a servizio (come per ogni
servitù) dell’utilità del fondo dominante.
Oltre al diritto di servitù prediale apparente, il possesso ventennale può servire, come si diceva, all’acquisto di altri diritti reali di godimento diversi dalla proprietà, cioè parziarii: l’usufrutto,
l’abitazione, la superficie, l’enfiteusi: per segnarne la parziarietà si fa uso della locuzione quasi possessio, a indicare appunto il potere di controllo di fatto di una parte delle facoltà che spettano al titolare dell’appartenenza di un immobile.
Per l’usucapione italiana odierna si è detto che il termine del possesso continuato richiesto è
di vent’anni, tanto per gli immobili, quanto per i beni mobili, quanto per le universalità di mobili (il
termine richiesto dal codice precedente a quello attuale era invece di trent’anni); l’art.1159, sotto la
rubrica “usucapione decennale”, riduce il tempo a dieci anni per i beni immobili e per le universalità di mobili in presenza di tre requisiti, che devono coesistere: a) la buona fede al momento dell’acquisto del possesso (buona fede iniziale, secondo la regola mala fides superveniens non nocet, la
perdita della buona fede sopravvenuta dopo l’atto acquisitivo del possesso non interrompe il termine); b) un titolo idoneo a trasferire il diritto reale (per es. un contratto di vendita inefficace, perché
l’alienante non era proprietario ed era privo della legittimazione a vendere per difetto di procura:
acquisto a non domino); c) la trascrizione nei registri immobiliari (art.2643). I tre requisiti valgono
anche per ridurre a tre soli anni la usucapione dei beni mobili soggetti a registrazione: art.1162, portante la rubrica “usucapione di beni mobili iscritti in pubblici registri”.
Circa i beni mobili non soggetti a registrazione, l’art.1161 contiene un’abbreviazione del
consueto termine ventennale a soli dieci anni se il possesso è cominciato in buona fede, perciò con
la convinzione iniziale di non avere leso il diritto di altri.
A proposito dell’art.1158 si è detto che il possesso utile per usucapire deve essere continuato
e non interrotto. Si tratta di due requisiti differenti, sui quali, considerata la lunghezza del periodo,
l’autorità giurisdizionale è stata spesso chiamata a pronunciarsi in sede interpretativa. Il requisito
della non interruzione è relativamente semplice da riconoscere: è esplicito l’art.1167 primo alinea,
secondo cui “l’usucapione è interrotta quando il possessore è stato privato del possesso per oltre un
anno”; l’interruzione può dipendere dal fatto giuridico del terzo che privi il possessore del controllo
sulla cosa (interruzione detta naturale, perché determinata da un fatto che opera sull’elemento positivo dell’usucapione, ossia sull’effettività del possesso). Per esempio Giovanni (primo), che sta possedendo la cosa della quale è proprietario Antonio (secondo), ne perde il controllo durante un intero
anno a causa di Marco (terzo), che ne ha assunto il controllo a sua volta; oppure a causa dell’iniziativa del titolare del diritto reale (Antonio, secondo), che abbia compiuto un atto di esercizio del diritto medesimo, intentando ad es. un’azione di rivendica contro Giovanni (primo): questa si dice interruzione civile, che opera sull’elemento negativo dell’usucapione, cioè sull’inerzia del titolare del
diritto. Trovano applicazione in proposito le norme che disciplinano la prescrizione estintiva, contenute negli artt. 2943 ss. Certamente ad es. il possessore, che riconosca il diritto del titolare
(art.2944) con qualunque sua dichiarazione o atto idonei a costituire elemento di prova, rende interrotto il possesso di lui, che diventa in tal modo incompatibile con l’acquisto del diritto reale per effetto di usucapione.
Sul requisito della continuità del possesso si deve soprattutto fare riferimento al comportamento del possessore, vale a dire al rapporto possessorio considerato dal punto di vista di chi possiede, non da quello della volontà contraria del titolare del diritto reale: in questo senso, possedere
vuol dire compiere atti di signoria sulla cosa. Sembra chiaro quanto detto a questo proposito dalla
Cassazione, n.10652 del 1994: “il requisito della continuità, necessario per la configurabilità del
possesso ad usucapionem, si fonda sulla necessità che il possessore esplichi costantemente il potere
di fatto corrispondente al diritto reale posseduto e lo manifesti con il compimento puntuale di atti di
possesso conformi alla qualità e alla destinazione della cosa e tali da rivelare, anche esternamente,
una indiscussa e piena signoria di fatto sulla cosa stessa, contrapposta all’inerzia del titolare del di-
ritto”. Però la continuità dev’essere determinata casisticamente: il possessore adempie al requisito
con una pluralità di atti palesi, che non consistono per forza in una materialità assidua e quotidiana;
essa “va correlata all’utilizzazione del bene che ne costituisce l’oggetto, sì che è normale, in relazione ad essa, l’intermittenza dei relativi atti di godimento – come nel caso di non utilizzazione di
un’area di parcheggio durante la circolazione dei veicoli – che non esclude, in sé, la persistenza del
potere di fatto sulla cosa” (Cass. n.3081/1998). Giovanni ha preso possesso di un posto auto che
appartiene ad Antonio: ai fini del requisito della continuità, egli persiste a possedere anche ogni volta che si allontana da quel posto per circolare, purché manifesti la consuetudine di ritornarci a parcheggiare, continuando quindi a usare il luogo destinato a parcheggio come sito proprio.
Oltre alla non interruzione e alla continuità, tradizionalmente dottrina e giurisprudenza richiedono che il possesso utile per usucapire sia pacifico e pubblico. Pacifico è riferito all’assenza di
atti violenti, tanto in senso materiale quanto in senso morale; pubblico allude alla non clandestinità,
cioè a un comportamento palese, rivelatore dell’intenzione di possedere, il già citato animus possidendi. Il comportamento del possessore dev’essere, oltre che pubblico, inequivoco, vale a dire pienamente e indubbiamente corrispondente all’esercizio del diritto reale posseduto; se con riferimento
all’esempio del bosco proposto sopra, il possessore Giovanni ne taglia e preleva il legname durante
il ventennio richiesto dalla norma, ma nel corso dello stesso periodo il proprietario Antonio vi accede anche solo qualche volta (anche una sola) per esercitare talune delle facoltà inerenti al suo diritto, come il piantarvi un nuovo albero, diventa incerto che l’attività di Giovanni corrisponda in via
esclusiva a quella del proprietario del bene. Gli atti compiuti da lui con la tolleranza del proprietario
Antonio, che gli permette di prendere la legna, “non possono servire di fondamento all’acquisto del
possesso” (art.1144) ad iniziativa di Giovanni.
5. La interversione del possesso.
Rifacciamoci ancora una volta all’esempio del bosco. Giovanni ne preleva la legna per vent’anni
esercitando il possesso in modo in equivoco, non interrotto, continuo, pacifico e pubblico; per lui
l’art.1141 nell’alinea di esordio prevede che “si presume il possesso in colui che esercita il potere di
fatto”: perciò si presume che egli abbia posseduto, senza avere l’onere di darne la prova. Ma l’esordio prosegue con la frase: “quando non si prova che ha cominciato a esercitarlo semplicemente
come detenzione”: se Antonio riesce a dare la prova che Giovanni si era messo a prelevare legna offrendo a lui un canone di affitto, egli ha dimostrato che Giovanni si era riconosciuto conduttore del
bosco; egli aveva quindi prelevato la legna non in qualità di possessore, ma soltanto di detentore
qualificato. Trascorso del tempo, era accaduto che Antonio aveva detto a Giovanni di prendere pure
la legna, fino a quando egli lo avrebbe lasciato fare (tolleranza); se mai Giovanni desse a lui un po’
della legna prelevata, in luogo del canone. Passato ancora qualche anno, Antonio e dopo di lui i suoi
eredi non si erano più occupati né del bosco né del comportamento di Giovanni in relazione al taglio di quella legna. Da quanto descritto sembra appaia con evidenza sufficiente che quella di Giovanni era stata un tempo detenzione, che riconosceva il diritto del proprietario (possessio naturalis),
non una situazione possessoria (possessio civilis). Era mancata la presunzione del possesso, necessaria per usucapire; ma Giovanni avrebbe potuto allora provare a invocare l’intervenuta usucapione
a proprio favore ricorrendo al contenuto del secondo alinea dell’art.1141, dove si legge che “se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione non può acquistare il possesso finché il titolo non venga
a essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore”.
Il divieto di mutare la detenzione in possesso è espresso tradizionalmente dalla regola descritta con le parole nemo causam possessionis sibi ipse mutare potest: nessuno ha il potere di modificare da sé a proprio vantaggio il titolo del possesso, in cui possesso sta per situazione materiale
di controllo della persona sulla cosa, nella quale rientra quella che noi chiamiamo detenzione (la
possessio naturalis). Il detentore al quale si riferisce il 1141 è “il detentore in senso proprio o deten-
tore qualificato, (per es. l’affittuario Giovanni), il quale, mutando il suo animus e dichiarando (anche con comportamento inequivoco) di voler esercitare il potere di fatto animo dòmini, pone in essere l’elemento spirituale e materiale del possesso” (la possessio naturalis accompagnata dall’intenzione di tenere la cosa come propria), Cassazione n.2802 del 1992; in proposito è da osservarsi che
non è detentore in senso proprio, o qualificato, chi si trova in relazione alla cosa per ragioni di servizio o di ospitalità.