[
CoolClub.it
Nel video, diretto da Romana Meggiolaro, non compaiono i Bludinvidia ma due bellissime ragazze che fanno catfighting (si
azzuffano come gattine), e siamo contenti. Un po’ Betty Page, un po’ japan wrestling, e non può che piacerci. Intrigante e
intricato il percorso che congiunge immagini a musica, scambievole come un passo a due in cui si porta a turno. Ancora prima
della tv, della Mtv generation, il suono era legato a un’immagine, a volte a un colore. Codici espressivi diversi ma contigui,
parenti stretti e amanti fedeli. Come se fosse possibile usare la musica come un pennello e le note come una tavolozza o come
se dinanzi alla successione di immagini a ben scavare, nel silenzio, si trovasse il ritmo, il suono delle cose. Così, dall’emozione
che si consuma in tre minuti, o poco più, siamo rapiti. Una colonna sonora, il carosello, un video musicale, un documentario,
un’opera d’arte, poco importa. Figli dell’immagine musicata, siamo affascinati dalla fantasia altrui, riceventi e autori di quel
sottofondo, l’accompagnamento per ogni gesto, che sia un fruscio o un accordo di do. Non sempre didascalica, non solo
documentaristica ma sganciata, indipendente l’immagine è commento, autonoma, percorso parallelo alla musica. Qui entra
in gioco il fruitore che scova nelle immagini rimandi alla musica, al testo (Gianni Sibilla). Con l’avvento della televisione e
l’impazzare dei videoclip negli anni 80 il ruolo della musica cambia, si assume una nuova responsabilità, si espone. Il successo
di Elvis è in parte determinato dalla sua visibilità mediatica, dal suo essere un volto. Il vero libero interagire tra immagini e
musica, il vero videoclip, non sono i Beatles che suonano in differita, ma un distaccarsi tra immagine e musica (Agrò), il suo
essere parte comunicante ma indipendente con il brano. Tra chi sostiene che il primo videoclip della storia sia quello di
Bohemian Rapsody dei Queen (1975) e chi attribuisce la primogenitura al regista Peter Whitehead e al suo alcolico video sui
Rolling Stones, immagini e video hanno una storia lunga e ricca. Non solo video clip, ma anche video arte, vjing, musica e
cinema, spot. In questo numero abbiamo cercato di offrire spunti su questi rapporti. Solo un assaggio, uno stimolo a interrogarsi
e a trovare risposte. Poco lo spazio, ma importante. E in questo primo numero del 2006 colgo l’occasione, doverosa ahimè,
per responsabilizzare i lettori di Coolclub.it. Da tre anni Coolclub.it arriva sempre a più persone, nel corso di questi tre anni
Coolclub.it è cresciuto cercando di migliorare. Ma in questi tre anni Coolclub.it ha anche dovuto sostenere sforzi incredibili
per sopravvivere. Convinti della natura gratuita di questo mensile visto come servizio e non come oggetto commerciale
Coolclub.it ha sempre centellinato sponsor per non rubare spazio ai contenuti. Questo però ha un costo, che spesso non
riusciamo a sostenere e che richiede l’aiuto di chi ci vuole vedere ancora in giro. Alla mia sinistra potete vedere le modalità di
abbonamento alla rivista. Un piccolo sforzo per voi, un grande passo per chi, come noi, vuole continuare ad offrire un punto
di vista diverso su quello che si può fare, vedere, leggere e ascoltare.
Osvaldo
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Via De Jacobis 42 73100 Lecce
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e-mail: [email protected]
Sito: www.coolclub.it
Anno 3 Numero 22
febbraio 2006
Iscritto al registro della stampa del
tribunale di Lecce il 15.01.2004 al
n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Dario Goffredo, Pierpaolo Lala,
C. Michele Pierri, Cesare Liaci,
Antonietta Rosato
Collaboratori:
Giancarlo Susanna, Valentina
Cataldo, Sergio Chiari, Davide
Castrignanò, Antonio Iovane,
Rossano Astremo, Rita Miglietta,
Daniele Lala, Fulvio Totaro, Federico
Vaglio, Lorenzo Coppola, Nicola
Pace, Giacomo Rosato, Nino D’Attis,
Luca Greco, Emanuele Carrafa,
Francesco Lefons, Camillo Fasulo,
Federico Baglivi, Lorenzo Donvito,
Gianpaolo Chiriacò, Livio Polini,
Bob Sinisi, Eugenio Levi, Nise No,
Giancarlo Bruno, Davide Ruffini,
Loris Romano, Dario Quarta, Carlo
Chicco, Anna Puricella.
OCCHIO NON SENTE?
4-5 Video Clip
16 Transex
6-7 Occhio
allo spot
18 Cesare
Basile
9 Keep Cool
22 Fabrizio
De Andrè
23 Coolibrì
28 Leonardo
Colombati
29 Be Cool
32
Blackmailmag
Ringraziamo le redazioni di
Blackmailmag.com, RadioErre
di Foggia, Primavera Radio di
Taranto e Lecce, Controradio di
Bari, Mondoradio di Tricase (Le) e
Pugliadinotte.net.
34 Creative
Commons
In copertina Tv Shots tratti da
Danneggiamento del sistema
periferico dei Bludinvidia
Progetto grafico
dario
Impaginazione
Roberto Pasanisi
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso in redazione alla fine del
mese quasi sempre il 31.
Per inserzioni pubblicitarie:
Cesare Liaci
T 3404649571
[email protected]
Nella foto
i Bludinvidia
36
Appuntamenti
38 Fumetti
}
CoolClub.it
“I’M NO LONGER AN ARTIST, I
Frankie
Goes
to
Hollywood,
come la relativa identità che ne deriva.
di Claudia Attimonelli
Questo sembra essere il punto chiave
Questo titolo è tratto dal prologo del video della seducente funzione svolta dal
di un pezzo dei Frankie Goes to Hollywood videoclip: prodotto audiovisivo che, con
del 1985, il quale, a sua volta, cita il celebre il suo linguaggio, si situa proprio sulla
poema
romantico
soglia tra l’opera
Kubla Kahn (1797),
d’arte, quale può
ispirato a Coleridge
essere un film e lo
da un sogno indotto
spot pubblicitario,
dall’oppio. Il sottotitolo
fatto per sedurre
del poema riferisce,
e,
dunque,
infatti, A Vision in a
promuovere
non
Dream.
solo
il
singolo
Due anni dopo Relax
estratto, ma proprio
- video censurato
l’immagine
della
per
le
scene
di
band o della star.
sesso omoerotico e i
Dalla tensione fra
corpi nudi, al punto
arte e pubblicità
da dover uscire in
e m e r g o n o
versione edulcorata
dinamiche
che
( D e P eche M ode )
– il regista Bernard Rose
fanno, ad esempio,
fa partire Welcome to the Pleasuredome, di un video del 1982 quale The Chauffeur
con la scena della band che ruba dei Duran Duran - le cui radici si ritrovano
un’auto parcheggiata fuori dallo stesso nella fotografia erotica di Helmut Newton
locale dove era stato girato il video - una gemma preziosa e, al contempo, di
di Relax, il Las Palmas; dall’interno del un successo come Fotoromanza (1984) di
locale echeggiano in sottofondo le note Gianna Nannini un modello di come un
del pezzo che aveva dato scandalo, a video non debba mai (più) essere girato
sottolineare come, nonostante le vicende (e pensare che l’autore è Michelangelo
giudiziarie la canzone avesse guadagnato Antonioni!).
una fama tale da divenire un simbolo; Ironicamente
definito
attraverso la citazione autoreferenziale di frutto della 3minutesRelax era chiarita la contiguità ideologica culture, il videoclip, a 25
con i contenuti del pezzo censurato. Il anni dalla sua nascita
viaggio in macchina conduce la band si presenta come un
ad un carnevale grottesco che inscena ricchissimo
bacino
un’intera gamma di impensabili piaceri.
da cui attingere un
La citazione d’apertura: “Non son più un patrimonio iconografico
artista, son divenuto un’opera d’arte” e culturale non da
incarna, solennemente, la messa in scena poco,
principalmente
del corpo della star che, attraverso il se si pensa che è il
video, assurge a simbolo della star stessa, più forte strumento di
trasformandola da artista a opera d’arte acculturazione giovanile,
autonoma, sulla quale il regista inscrive oltre che luogo visuale
un intero mondo rappresentato dallo dove si sono sedimentate,
scenario evocato. Il corpo, così, non è come è stato da sempre per la musica a
più solo un organismo ma qualcosa su cui partire dagli anni Cinquanta, le relazioni e
intervenire, da deformare, sfuocare, così gli attriti fra gruppi di giovani intorno ad un
Welc
genere piuttosto che un altro.
Il valore artistico misurato nei tre minuti
che in media sono previsti dai tempi di
trasmissione televisivi fa sì che il videoclip
abbia svolto e tuttora svolga un’altra
funzione essenziale, quella di avanguardia
stilistica. Molti videomaker si sono misurati
sperimentando su questa forma breve,
differenti canoni di stile, nuove tecniche
e ultime tecnologie digitali; lo stesso
sembra oggi riguardare un altro genere
visuale ancora più breve, inaugurato da
MTV, gli idents, quelle clip fra uno stacco
pubblicitario e il successivo, finalizzate a
promuovere il logo MTV. Anton Corbijn,
videomaker olandese dall’estetica pop/
dark (molti dei video dei Depeche Mode
sono firmati da lui, così come il perfetto
incubo surreale di Heart Shape Box dei
Nirvana) ha girato idents stranianti, al limite
del comico con Dave Grohl e Beck.
Per le molteplici ragioni fin qui descritte, se si
volesse raccontare una storia del videoclip
si dovrebbe naturalmente partire dal 1981,
con la nascita di MTV che apre i battenti
con quello che è giustamente considerato
il primo video trasmesso: Video killed
the radio stars, imperituro successo dei
Buggles. In realtà la cronistoria è sempre
meno interessante dei
percorsi
trasversali,
maggiormente trattando
una forma audiovisiva
che già nel nome – to
clip significa tagliare
– suggerisce il suo amore
verso
il
frammento:
cinematograficamente,
il montaggio. È questa
l’arma segreta dei video,
ciò che dona unità di
suono e immagine.
Un abile regista come
Chris Cunningham rivela
la sua professionalità nel
rendere a tratti imperscrutabile l’origine
delle due fonti, se sia, cioè, nata prima
la traccia musicale a cui poi è seguita
CoolClub.it
I’VE BECOME A WORK OF ART”
come
to
the
Pleasuredome,
1985
Dalle prime radio private a MTV
( F R ankie G oes to holl Y wood )
quella video – come di regola dovrebbe tecnico preesistente o ostentando un
essere – o se, per le perfette sincronie tra finto stile home made, come ad esempio
immagine e suono, misurate su microloop accade in un curioso video di Fat Boy
in combinazioni sinestetiche, dal video Slim: The Joker. Qui i protagonisti sono
Come on my selector (1997) il dj drum’n dei gattini in un scenario antropomorfo
bass Squarepusher abbia poi realizzato la evidentemente costruito artigianalmente;
traccia omonima! Naturalmente è vero indicative sono le finte sbavature che
il contrario, però a guardare il video il mostrano la mano fuori campo che spinge
dubbio ritorna (cfr. www.director-file.com/ il micio verso il centro della scena così
cunningam/).
come la transizione da un’immagine alla
Allora si potrebbe profilare una storia del successiva con un effetto in stile power
videoclip che attraversi l’avvicendarsi nei point.
lustri degli effetti, o di quelli che un grande Ma il percorso attorno al quale più di altri
studioso del cinema, Metz, chiamava sembrano svilupparsi e avvilupparsi negli
i trucchi. Molti effetti abusati negli anni anni i video è quello incentrato sul tema
Ottanta divengono presto banali: le della corporeità.
transizioni con tris, tendine, le deformazioni, Si potrebbe trovare quasi una naturale
sfuocature, inversioni, accelerazioni e crescita del mezzo video nella forma di
ralenti,
freeze-frame,
sovrapposizioni, arte su commissione, come l’ha definita
morphing, split screen, per dirne solo in una sua conferenza Luca De Gennaro
alcuni.
- il responsabile Talent & Music per MTV
Di sicuro si può stabilire una differenza in Italia - guardando esclusivamente alle
estremamente significativa tra questo diverse rappresentazioni del corpo offerte
genere e il cinema ed è quella che si basa da video e progetti musicali esemplari.
sul principio di veridizione. Se nel cinema il Dopo un iniziale interesse dei primi gruppi
livello di veridicità va mantenuto alto, gli a vedersi rappresentati nei video secondo
effetti speciali vanno limitati allo stretto l’immagine coincidente con quanto il
necessario, nei videoclip, au contraire, pubblico si attendeva, e dunque votata
è d’obbligo non solamente adoperare al bello – i video trasgressivi di Madonna,
l’artificio ma, specialmente, inventarne l’icona queer dei Culture Club, Boy
uno che differenzi sin da subito una clip da George, l’estetica dark/pop dei Cure al
un’altra, a tratti esasperando un lavorio
(continua a pag. 6)
“Solo raccontando quello che fai ti rendi
conto di averlo fatto veramente”. Così ha
detto Luca De Gennaro quando, riavuto
tra le mani il suo libro E tutto il mondo
fuori. Un dj in tourneé con Vasco Rossi, ha
ripensato all’esperienza vissuta nel 2005
e narrata in modo appassionato anche
attraverso flah back di quando cioè era
lui a seguire in giro per l’Italia e non solo le
date dei suoi gruppi preferiti.
Ho invitato Luca De Gennaro, responsabile
Talent & Music di MTV Italia, a Bari il 26
gennaio perchè tenesse due lezioni:
“Mondi rappresentati: comunicare con la
musica. Dalle prime radio private a MTV”,
all’interno del seminario interdisciplinare
organizzato da Patrizia Calefato alla
Facoltà di Lingue e letterature straniere di
Bari e “Arte su commissione. MTV e 25 anni
di videoclip“ per gli studenti di Cinema,
fotografia e televisione di Taranto.
Il seminario di Taranto si è concluso sulle
immagini del videoclip Hurt, vera opera
poetica, dedicata a Johnny Cash da Mark
Romanek e Luca ha ricordato l’uscita
a breve del film sul cantante country
americano interpretato da Joaquin
Phoenix Walk the line di cui lui ha curato
l’anteprima per MTV a Milano lunedì 30
gennaio.
Luca De Gennaro, pioniere in programmi
radiofonici seminali e celebri come Planet
Rock e Weekendance che hanno tenuto
magicamente incollati alla radio giovani
sparsi in tutt’Italia, ha selezionato dischi
in due dj set durante la sua permanenza
barese; da segnalare, in onore di vecchi
e nuovi tempi, la scelta di suonare in
perfetto stile mash up Planet Rock di
Afrika Bambaata con Around the World
dei Daft Punk e You are always on my
mind remixata da Erlend Oye.
Claudia Attimonelli, ha collaborato
Francesca Savino.
CoolClub.it
(prosegue da pag. 5)
tempo di Lullaby – si passa alla successiva
tendenza a mostrare la manipolazione del
corpo nel corso degli anni Novanta. È di
quel periodo l’uso sapiente e perturbante
del morphing. Nel 1998 circola il video di
Hunter, contesto nel quale Bjork lascia che
siano i tratti di un orso polare a prendere il
posto di quelli sensuali del suo volto.
La frontiera successiva era rappresentata
da quella che Peverini (Il videoclip.
Meltemi, Roma 2004) ha definito come
“messa in scena della manipolazione del
corpo”, includendo il video di Madonna
Hollywood dove la star è sotto i ferri della
chirurgia estetica per quello che sembra un
ritocco al botulino. Nel 1998 Marilyn Manson
interviene in maniera radicale sul proprio
corpo nel celebre video The Dope Show,
esibendo una corporeità transgender che,
pur non offendendo nessuno, poneva seri
problemi nell’opinione pubblica circa il
significato di tale operazione. Lo stesso
può dirsi per il processo di scarnificazione
cui si sottopone Robbie Williams in Rock DJ
o la faccia di Aphex Twin che da un certo
momento in poi, giustapposta a qualunque
volto, diviene il suo stesso logo, o, infine,
le sembianze non proprio gratificanti da
Nosferatu assunte nel bellissimo video Ava
Adore da Billy Corgan. Qui il corpo della
star diviene un luogo provvisorio dove
costruire delle identità audiovisive utili a
promuovere il nuovo disco, a diffondere
un’idea di rinnovamento d’immagine e
a resistere a lungo nella programmazione
televisiva.
Tutto questo ha avuto un ulteriore sbocco
in quella che potremmo chiamare la fine
del corpo così come lo intendiamo in carne
e ossa per offrire di esso i suoi simulacri.
Ricordiamo i Kraftwerk e i Residents che
aprirono la strada in tal senso ai Daft Punk.
Costoro nel 1999 finsero d’esser morti per
tornare sotto le sembianze eteree di un
cartoon giapponese, ingaggiando nella
realizzazione dei disegni lo stesso autore
di Galaxy Express e Capitan Harlock, Leiji
Matsumoto. Simile è stata l’operazione tra
fiction e reality dei Gorillaz: si sa chi siano
ma non li si può vedere. Anch’essi partecipi
di quello spazio che Bowie già nel ‘72
aveva definito strano: Space Oddity.
Riciclaggio delle note
Alcune canzoni, parto con una ovvietà
degna di una Domenica In o di una
Italia sul Due, entrano nelle nostre teste e
difficilmente le abbandonano. Soprattutto
quelle che (per un motivo o per l’altro)
ci rintronano come martelli pneumatici
per settimane, mesi, anni. Le canzoni
restano nella memoria per la loro bellezza,
la loro efficacia, la voce straordinaria
dell’esecutore, il testo incisivo o poetico
oppure per qualcosa che è fuori dalla
canzone. E sarebbe bello se quel fuori
fosse un film (seppur melenso come Ghost)
o una manifestazione o un sentimento
pacifista (Give peace a chance di
John Lennon, The ballad of Sacco &
Vanzetti firmata da Baez-Morricone).
No qui si parla di popolarità molto più
spicciola: si parla di televisione. Sebbene
la massima espressione del rapporto tra
immagini e musica, negli ultimi trent’anni,
sia rappresentata dai videoclip, una
espressione più popolare ma ancor più
dirompente è invece la musica destinata
(o dirottata) agli spot o alle sigle televisive.
La macchina infernale fa miracoli. Il tubo
catodico lancia note destinate a rimanere
impresse. Dalla famosa sigla di Carosello
(trasmissione dedicata alle “reclami”
che chiuse i battenti nel 1976) ai giorni
nostri la musica o meglio il tormentone ha
caratterizzato molti lanci di prodotti di vario
tipo. E se il gingle (tipo Brava brava Maria
Rosa) un tempo era studiato per una storia
vera e propria che si chiudeva poi con la
pubblicità, oggi la musica viene “sottratta”
ad un autore (con grandi guadagni per
tutti). Negli ultimi tempi il ritorno in grande
stile di alcuni “vecchi” della musica
internazionale è condizionato dai cellulari
(anche grazie alle suonerie): sono eclatanti
i casi dei Duran Duran e di Vasco Rossi.
La straordinaria dimostrazione di come
gli spot possano cambiare, almeno per
poco, le sorti della carriera di un musicista
è rappresentata da Breathe dell’ex leader
degli Ultravox Midge Ure che alcuni anni
fa divenne famosa grazie alla pubblicità
di orologi all’epoca molto di moda (e ora
diciamocelo francamente un po’ meno).
E Pago? Da dove è spuntato l’autore (con
OCCHIO A
il nome di succo di frutta) del tormentone
della scorsa estate Parlo di te?
La memoria porta poi in giro a brani
come Run Baby Run (ma forse era anche
l’avvenente ciclista in minigonna che
attirava l’attenzione) o I don’t want to miss
degli Aerosmith senza sottovalutare grandi
autori della musica contemporanea come
Ludovico Einaudi, Philiph Glass, Moby, Zero
7, Mauro Pagani, Giovanni Allevi, Keith
Jarret, Ennio Morricone, Goran Bregovic
che hanno prestato le proprie musiche
per spot di varie tipologie. Chi invece non
si piega anzi contrattacca e conduce
i suoi cloni in tribunale è Tom Waits.
Un altro grande della musica italiana,
invece, è finito sotto “processo” per aver
consegnato un suo pezzo alla famosa
bevanda con le bolle. Tra gli italiani hanno
prestato la propria musica anche Mina,
Roberto Vecchioni, Edoardo Bennato,
Claudio Baglioni, Lucio Dalla e molti altri.
Il discorso potrebbe diventare infinito
spostandoci sulle sigle televisive (come
dimenticare il Tuca Tuca della Carrà o le
parodie di Renzo Arbore che diventano
tormentone). Un argomento meraviglioso
e affascinante ma che rimandiamo ad
una prossima volta al ritmo del Gioca jouer,
fortunata sigla del festival di Sanremo del
1980, cantata (??) da Claudio Cecchetto
e composta dal mago dell’horror Claudio
Simonetti. (Pila)
CoolClub.it
LLO SPOT
Nebbia sull’argomento
Qualche giorno fa il giornale che state
leggendo mi ha chiesto un breve
intervento su un tema che non mi ricordo.
Potrei saperlo consultando la mail di
richiesta che mi è arrivata solerte dopo
una telefonata del mio amico Osvaldo,
ma oggi è domenica e, per varie ragioni,
non posso collegarmi a internet. E solo
oggi posso scrivere l’articolo e recapitarlo
per tempo.
Quindi non mi rimane che ricostruire
pazientemente la domanda, servendomi
di indizi distribuiti nel flusso delle cose,
o almeno di quelle che mi ricollegano
a questo giornale. Conosco i ragazzi
di CoolClub, soprattutto Cesare e
Osvaldo, ma anche Pierpaolo e Tobia.
Trovo che facciano un ottimo lavoro di
movimentazione nel Salento, e penso che
l’idea di una free-press principalmente
musicale sia molto interessante perché
sintesi glocal di competenze e opinioni. Il
giornale non è schiacciato sulla dimensione
locale – e poteva essere un rischio – ma
parte dal territorio per stringere una rete
di contatti che spingono verso la globalità
della produzione e della diffusione. L’idea
che un giornale di questo genere sia letto
anche a Bologna e a Milano è molto
confortante e molto avanzata.
Ma questi elementi, pur importanti,
non
illuminano
sulla
ricostruzione
dell’argomento che mi era stato richiesto.
Il ricordo più recente prima dell’amnesia
è una conversazione con Osvaldo
avvenuta prima di Natale, in cui lui (O.) mi
diceva che l’argomento del numero era
il concetto di “remix”. Mi ricordo anzi che
mi disse che pensava sarebbe stato utile
scrivere qualcosa sul remix in letteratura. Il
tema è intrigante – pensai – e immaginai
alcune possibilità di documentazione,
del tipo di confrontare l’Iliade che ci è
giunta dal melografo (o dai melografi)
chiamato/i Omero con versioni successive
(soprattutto riduzioni per ragazzi) fino al
lavoro di Baricco di qualche stagione fa.
Rimixare significa inserire nuovi suoni in un
format musicale dato. Il suono si presta
all’arricchimento e alla trasformazione in
altri suoni che – pur restando per alcuni
importanti elementi fedeli all’originale
– prendono direzioni diverse, crescono
come sequenze autonome. Capaci
però, come in un movimento ellittico,
di ritornare al motivo d’origine. Il remix è
un plagio consentito dalla logica stessa
dell’arte contemporanea, che rigetta
obbligatoriamente il concetto stesso di
“originale”. In fondo l’assemblaggio di
suoni (e di parole) fatica a trovare una
purezza definitiva sul piano dell’ideazione.
L’ideazione, a differenza dell’ispirazione
(espressione romantica difficilissima da
giustificare nella nostra epoca) punta
sul già-realizzato come un capitale di
creatività universale: il remix diviene allora
una delle forme produttive più diffuse, con
l’ovvia conseguenza di spingere all’utilizzo
dei residui creativi in fase di definizione dei
nuovi prodotti. Il remix, in questo senso, è
protagonista di una sorta di ecologia dei
residui espressivi, che vengono avviati
verso una raccolta differenziata (e quindi
un riutilizzo) della creazione.
Bene, mi pareva un’ottima traccia, ma
sono pressoché certo che nella mail che
O. mi ha spedito non era questo il tema.
Anzi, devo pensare che probabilmente il
tema del remix era argomento dell’ultimo
numero di Coolclub.it, e non di questo, e
quindi scaduto.
Mi resta, come ultimo sforzo possibile per
arrivare al dunque, la ricostruzione di una
sensazione dovuta alla lettura della mail di
Osvaldo (che pure ho letto, quindi deve
essere ancora a spasso nelle mie sinapsi,
ma chissà dove). La sensazione di aver letto
la parola spot e/o la parola televisione. Se
così fosse, considerato che Coolclub.it è un
giornale musicale, si potrebbe azzardare
come un plausibile argomento del numero
il rapporto tra musica e spot, oppure tra
sigle musicali e televisione. In effetti la
presenza di agenti sonori specializzati
che scandiscono le nostre abitudini di
consumo è un fatto poco indagato
dalla ricerca. È forse noto che alcuni
nomi importanti della sperimentazione
musicale contemporanea (il primo
che viene in mente è Brian Eno, con
la sigla del tg3) hanno lavorato sulla
realizzazione del riconoscimento sonoro
degli oggetti comunicativi, ma è sentiero
poco battuto riflettere sull’equilibrio
strategico di suono e immagine, mentre
la musica (ma sarebbe meglio dire: la
dimensione sonora del mondo) assume
il carattere di medium ambientale in cui
essere immersi perennemente, per la
prima volta nella storia dell’uomo. Quali
generi di conseguenze potrà comportare
questo fenomeno? Ridiventare uomini
principalmente auditivi (dopo la cosiddetta
oralità primaria dell’uomo tribale, questa
sarebbe per McLuhan una oralità di
ritorno indotta dalle tecnologie elettriche
della comunicazione) che tipo di nuovo
equilibrio psichico potrà determinarsi? Ma
soprattutto: e se poi non era nemmeno
questo il tema da analizzare?
Stefano Cristante
( so P ra brian eno , in alto al centro R affaella carra ’ )
CoolClub
.it
Contaminazione - Sviluppi non premeditati della videoarte
La nascita del video è abbastanza
problematica. Le versioni sono discordi.
C’è chi la vede nascere con Lucio
Fontana fra la fine degli anni ‘40 e gli anni
‘50, chi in Germania nel 1963, quando
Wolf Vostell e Nam June Paik fanno la
prima azione tramite il mezzo televisivo
alla galleria Parnass di Wuppertal. Questi
sono i primi esperimenti di video come
medium artistico.
Sin da subito il video è stato investito da
un’aura particolare che lo ha trasformato
quasi immediatamente in “video-arte”,
tradendo un po’ quell’aspetto effimero,
di fragile, che inizialmente ha costituito
la sua differenza rispetto al più nobile
cinema. Il video è lo strumento tecnico
più vicino all’uomo contemporaneo forse
proprio per questo suo aspetto effimero,
per la velocità con cui viene prodotto, per
la sua stessa capacità di introspezione.
Una grossa influenza per quello che
riguarda la ricerca sul video e la musica
ce l’ha Fluxus, di cui Wolf Vostell è un
protagonista di spicco. Inizialmente
la maggior parte delle ricerche del
gruppo sono di tipo cinematografico,
nel 1966 Fluxus realizza, appunto, un
programma, Fluxfilm program, con brevi
filmati di Erich Andersen, Chiko Shiomi,
John Cavannaugh, George Brecht,
John Cage, Albert Fine, Robert Watts,
Pieter Vanderbeck, Wolf Vostell, George
Landow, Yoko Ono. Sono immagini di
straordinaria violenza sia dal punto di
vista contenutistica, sia formale.
È negli anni ’90 che la contaminazione
tra video e musica trova la giusta
commistione, il videoclip d’arte è un
linguaggio all’interno della produzione
video la cui identità è sempre più
frastagliata. Si prenda per esempio
l’esperienza di D.J. Lamù, nel cui lavoro
si fonda l’esperienza televisiva del
videoclip, con la cultura del fumetto
giapponese (Umeboshi,1999), o quella di
Andrea Lottero (Tape,1998) in cui è forte
il rapporto fra musica e immagini, come
anche in Malesseri Speciali del 1996 di
Interzone.
Ultime Tendenze
Che qualcosa stia cambiando anche
nell’arte lo si può capire guardando al
contesto internazionale. Si sta facendo
strada la tendenza a mescolare la sintassi
del video d’arte con contenuti musicali,
della moda, delle culture giovanili in
generale, al punto che questi nuovi
prodotti “meticci” risultano di difficile
collocazione. Potrebbero stare in una
mostra d’arte o anche passare su Mtv.
Si veda ad esempio il video Serendip,
secondo lavoro del duo ConsiglioCesolari, vanta una collaborazione
straordinaria:
autore
del
concept
musicale e della sonorizzazione è Claudio
Coccoluto, tra i più famosi dj italiani al
mondo.
Ed è la musica a fare da collante alla collaborazione di Fabrice Coniglio e Andrea
Raviola. Nell’ultimo anno il loro lavoro si
è concentrato sulla videoraccolta Recuperate le vostre radici quadrate, dove
con il nickname Coniglio-Viola operano
una sorta di coverizzazione estrema, inventando un mondo carico di citazioni
tra glem e kitsch.
È concepito invece come un format
televisivo il progetto dei genovesi
Corpicrudi. Cinque personaggi che
abitano un’unica stanza allestita come
un set televisivo dove le loro azioni e
movimenti diventano il filo conduttore di
queste piccole storie. Attenti ai dettagli,
con passione per la moda che sfiora
il feticismo, Corpicrudi immagina una
serie di episodi per una tv più giovane e
libera con una particolare passione per
l’erotismo patinato. Ai confini dell’hard i
lavori dell’artista pugliese Lucia Leuci, che
indaga sui luoghi comuni e gli stereotipi
della sessualità maschile collegandosi
alle chat line, chiedendo a persone
sconosciute amanti di ogni variazione
del tema della coppia, di farsi riprendere
in un’atmosfera soffusa e ovattata. Ciò
che Leuci inscena è uno dei pochi lavori
di artiste italiane in cui risulta un punto di
vista femminile riguardo al sesso. Sono
immagini che si riconoscono subito grazie
all’utilizzo del mosso, in un sottile gioco di
vedere-non vedere.
Ray Worbas
[email protected]
Keep Cool
Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge, Italiana, Indie
la musica secondo coolcub
Mark Lanegan & Isobel Campbell
Ballads of the broken seas
V2
Folk – rock / *****
Come se gli opposti attraendosi si
incontrassero a metà strada. Come
se la più eterea delle cose decidesse
per un giorno di scendere su una terra
rossa sulfurea. Da una parte l’angelica
voce di Isobel Campbell, dall’altra
quella luciferina di Mark Lanegan. La
prima figlia della Glasgow più acustica,
violoncello e voce fuoriuscita dai Belle
and Sebastian, un debutto solista dal
titolo Amorino di qualche anno fa e un
paio di dischi a firma Gentle Weaves.
Il secondo è l’anima oscura degli
Screaming Tress, voce ospite dei Queen
of the stone age, protagonista di una
carriera solista tra folk, rock e blues
che ci ha regalato album bellissimi.
Quando gli opposti si attraggono e
quando si incontrano il risultato può
essere sorprendente, come in questo
caso. Cominciato per gioco, realizzato
in parte a distanza e concluso in studio
insieme, questo Ballads of broken
Seas è un disco che non ti saresti mai
aspettato di ascoltare. Il disco si apre
con Deus ibi est, la voce greve di Mark
in cattura subito con uno “spoken” da
tremare pensando a quell’altro diavolo
di Johnny Cash fino all’apertura che
sembra quasi una filastrocca irlandese
soffiata dalla voce di Isobell. La
successiva Black mountain si apre con
un arpeggio che sembra “rubato” a Nick
Drake su cui si libra angelica la voce di
lei, leggera come il vento sostenuta da
un violoncello che è ricamo semplice
e toccante. The False Husband parte
liquida e pulp, per trasformarsi in un
duetto che fa pensare al Gainsbourg e
alla Birkin di Bonnie & Clide.
La title track sembra fare omaggio a
Tom Waits, poi Isobell sembra accodar-
si, seguire Mark nei meandri del suo folk
fino al tributo ad Hank Williams (Rambling man). Il resto scorre lento, cadenzato con la “divertita” (Do you wanna)
come walk with me in cui Mark prende
per mano Isobel in un duetto dolcissimo.
In Saturday’s Isobel riprende il timone e
impone lo stile a cui ci ha abituato. La
successiva It’s hard to kill a bad thing è
uno strumentale ideale per un remake
di Pat Garret and Billy the Kid (al tempo musicato da Bob Dylan). Sul finale il
ritmo aumenta e sembra impossessarsi
del presente che questo Ballads of the
broken seas stagioni spezzate o interrotte, ma è solo un attimo prima di Dusty
Whreat, dolcissimo valzer dalle rimembranze natalizie e la bellissima chiusura
The circus is leaving town anche questa
di dylaniana memoria.
Osvaldo Piliego
KeepCool
10
The Strokes
First impressions of heart
Sony/Bmg
Rock / **
Ed ecco il nuovo album degli Strokes, tutti
lo attendevano sperando che il miracolo
annunciato anni fa con l’uscita di Is this
it trovasse conferma almeno in questo
episodio. Dopo la parentesi poco felice del
precedente album arriva First impressions
of heart e la prima impressione è che tutto
quadri di più, che il suono sia più curato,
che forse, questa volta, i ragazzi siano
riusciti a imboccare una strada tutta loro.
Ma è solo un’impressione, dopo pochi
minuti il disco si rivela una serie di tentativi
che a lungo andare annoiano un po’.
Uno pensa: perché loro se l’originale
è pure migliore? E allora andiamo a
riascoltarci Iggy Pop, i Television e tutto
quel rock and roll anni 70 dal quale
sembrano nutrirsi osmoticamente. Se
sembro severo è solo perché di fronte
agli Strokes ci si sente come un professore
con un alunno talentuoso che non si
applica. Forse rimandare a settembre
non potrà che far bene. Il carattere c’è
ed emerge in brani come Juicebox ma
la voce di Casablancas è così svogliata e
sporca che non può non piacere, il basso
è l’elemento portante come raramente
capita di sentire nel rock, ma manca
ancora qualcosa per giustificare tanto
clamore intorno ad una band. (O.P.)
Artic Monkeys
Whatever People Say I am, That’s
what i’m not
Domino
Rock / *** 1/2
Potere della rete. Chi dice
che il file sharing uccide
la
musica
dovrebbe
ricredersi di fronte al
fenomeno Artic Monkeys:
quattro ragazzini inglesi coccolati da
stampa e pubblico prima ancora di
avere un album all’attivo.
Quello
che
dovrebbero
fare
i
Babyshambles,
quell’ingenuità
che
gli anni e le troppe birre hanno fatto
dimenticare al rock made in England è
tutto nella musica degli Artic. Un frullato
di ascolti assorbiti come riesce solo a
un ventenne: i Clash su tutti ma filtrati
con un’attitudine e un piglio di chi è
cresciuto nei 90. Uno spirito scanzonato
rock and roll che si possono permettere.
Il singolo Killer Bet she look good on the
dancefloor li rende fenomeno ma non
“mainstream”. Meno fichi degli Strokes
ma con qualcosa da dire hanno un
pacchetto di canzoni che colpiscono
tutte nel segno. Considerati i vent’anni
di media il futuro non potrà che riservarci
grandi cose. Per il momento godiamoci
questa manciata di brani che giocano
con il power pop spruzzandolo qua e
là di punk, senza pretese ma con tante
ambizioni. (O.P.)
Modey Lemon
The Curious City
Mute/Virgin/EMI
Pop rock / ****
Questo
disco
è
un’autentica lezione di
pop-rock classico, vero,
sanguigno. Mescolando
influenze
che
vanno
dai Pink Floyd ai Blues
Explosion, i Modey Lemon
riescono a sviluppare uno dei progetti
più interessanti di questi ultimi tempi in
ambito post-psichedelico. La loro musica
è una lucida certezza: recuperando
energie 70’s e seppellendole sotto strati
più o meno spessi di suoni grunge si
permettono di mischiare le carte per
tirar fuori un disco davvero degno di
nota. Qui ogni suggestione viene filtrata
da un gruppo “indie” moderno che
non è assolutamente un trio tradizionale
con chitarra, basso e batteria, ma una
formazione i cui membri si scambiano
costantemente ruoli e strumenti passando
tranquillamente
dalle
tastiere
alle
chitarre, dalle chitarre ai synth e dai synth
alle tastiere. Non deve essere facile però
per una garage band di Pittsburgh, in
Pennsylvania, emergere per farsi notare.
Eppure i Modey Lemon hanno saputo
compiere decisi passi in avanti. Hanno
iniziato come duo (oggi sono un trio) sotto
le insegne di un non meglio identificato
movimento neo-garage, realizzando
singoli ormai diventati merce rara per
maniaci collezionisti e poi, passando
attraverso due album lunghi, l’omonimo
Modey Lemon (2001) e Thunder &
Lightning (2004), sono approdati di
recente alla Mute realizzando con The
Curious City l’album più bello della loro
pur breve ma intensa carriera. La realtà
raccontata da questa “curiosa città”
non è fatta però di verdi parchi e di cieli
azzurri, ma da disumanizzanti paesaggi
suburbani. In fondo questo disco è stato
partorito sull’onda della guerra in Iraq.
Nulla potrà più tornare ad essere come
prima dopo questo ennesimo fallimento
dell’umanità.
Camillo Fasulo
Rogue Wave
Descended Like Vultures
Sub Pop
Indie rock / ***
Secondo disco per il progetto indie-
rock
nato
dalla mente di
Zach Rogue. A
differenza del
precedente Out
of the Shadow,
un lavoro quasi
del tutto solista,
Descended Like
Vultures nasce
dalla mente dei
componenti di un vero e proprio gruppo.
L’esperienza accumulata insieme nei tour
ha contribuito molto alla riuscita di questo
disco. Stimolante e di una certa influenza
è stato per la band americana poter
socializzare ed incontrare, in ambienti
come quelli dei festival, altri gruppi (molto
interessanti e apprezzati) come The Shins
e TV On The Radio. Il risultato di questa
esperienza, quindi, è estremamente
positivo, le sonorità sono creative e molto
diverse fra loro (da My Bloody Valentine
a Mojave 3, da Yo La Tengo ad Arcade
Fire, da Nick Drake a Neil Young, si può
sentire di tutto, viva la contaminazione!).
Chitarra, basso, sintetizzatore, batteria ed
effetti vari costruiscono brani folk, pop e
rock. Prodotto da Bill Racine e dallo stesso
Zach, registrato a Portland, questo è uno
di quei rari album da poter riascoltare più
volte, sì, perché spesso, molte volte, ci
si annoia a riascoltare dei dischi, anche
se nuovi, invece qui si può notare con
piacevole sorpresa come un bel dipinto,
un mondo strambo e colorato, di gran
stile, tutto da scoprire e immaginare.
Livio Polini
Belle and Sebastian
The life pursuit
Rough Trade
Pop / ***
Sembrano aver
definitivamente
abbandonato
gli autunni di
Glasgow i Belle
and Sebastian
che dopo lo
spiazzante,
iperprodotto
Dear Catastrophe Waitress continuano
a muoversi nella primavera della musica
con un altro disco dai toni un po’ hippy
e molto happy. Chi era affezionato alla
loro malinconia degli anni ’90 dovrà
rassegnarsi. Le stagioni passano per tutti
e i Belle and Sebastian sono oggi un
collettivo musicale diverso, cambiato
nei componenti e nelle direzioni musicali.
Senza mai perdere quel piglio un po’
“vintage” i B&S hanno sommato elementi
arrangiamenti, decadi musicali di
riferimento, diventando un contenitore
pop che spazia con agilità dalle colonne
sonore dei telefilm anni 70 alle atmosfere
da musical, da soluzioni freakbeat ad
altre vagamente disco. Pollice alzato per
questo disco che fa muovere spallucce
e testolina. Se cercate lirismi e ballate
intime prendete i Camera Obscura,
sempre di Glasgow, hanno tutto il meglio
dei vecchi B&S. (O.P.)
KeepCool
Mi and L’Au
Mi and L’Au
Young God records
Folk / ***
Chiudete
gli
occhi
giusto un secondo e
immaginateveli.
Lei,
modella, finlandese. Lui francese con un
lavoro che ha a che fare con la musica.
Si incontrano a Parigi (e dove sennò?)
e si innamorano perdutamente. Ma la
capitale francese non va bene per i loro
progetti e lasciano tutto. Si trasferiscono
in Finlandia, ma non a Helsinky. Piuttosto
in una baita di legno immersa e sperduta
nella neve, l’essenziale per vivere e
per fare musica. Lui imbraccia una
chitarra acustica, lei la sua voce (il resto
poi - di violini e qualche altra leggera
orchestrazione - viene inserito dopo, a
Brooklyn, in fase di produzione). Ecco,
loro sono Mi and L’Au, al secolo Mira e
Laurence, e questa non è solo una bella
storia d’amore. Il risultato di quest’incontro
è anche un bel disco. Fragile, essenziale,
candido. Chi poteva scoprirli se non
Micheal Gira e la sua Young God
Records, produttrice fra gli altri del tanto
osannato Devendra Banhart? E lo stesso
Banhart pare avesse già conosciuto e
apprezzato le doti musicali della coppia,
incontrata a Parigi. Che sia folk o semplici
ninne-nanne non importa, incuriosisce e
cattura il loro minimalismo, la limpidezza
di certa musica che in alcuni momenti
fa molto bene alle orecchie. Quattordici
pezzi che sanno di ruscelli e di neve.
Valentina Cataldo
Vashti Bunyan
Lookaftering
FatCat
Folk / ****
Sono passati ben 35 anni
da Just Another Diamond
Day,
unico
album,
finora, della talentuosa cantautrice folk
inglese Vashti Bunyan. Nel 1970 infatti
venne pubblicato quello che da molti
è considerato un capolavoro, valutato
anche tra i collezionisti. Il successo
vero e proprio, la risposta da parte del
pubblico, però, non è mai avvenuta.
La delusione portò Vashti a rinunciare
alla carriera, ma non a far spegnere la
passione per la musica, per la scrittura
di testi importanti. La ristampa recente di
questo disco ha fatto sì che il suo nome
ricircolasse improvvisamente. Probabile
che nasca anche per questo motivo
la collaborazione e l’incoraggiamento
da parte di nomi illustri della scena
alternativa attuale come Devendra
Banhart, Animal Collective e Piano
Magic. Così, a più di cinquanta anni
d’età, una delle più importanti signore
della musica folk ci propone un altro
entusiasmante
disco,
Lookaftering,
regalandoci così nuove e forti sensazioni,
melodie dolci, voce sottile e delicata, a
volte di gioia, a volte di lieve malinconia,
in una dimensione di incantevole poesia.
Il suono del piano, fiati, chitarra, i violini
e l’arpa (suonata dalla brava Joanna
11
Newsom) costruiscono percorsi delicati,
di forte intensità emotiva, piacevolmente
avvolgenti e rilassanti. Senza dubbio un
ottimo album.
Livio Polini
Cat Power
The Greatest
Matador Records
Folk da bancone / ***
Col suo ultimo tour italiano Cat Power
aveva diviso tutti. Era spesso salita sul
palco ubriaca, iniziando a suonare dieci
pezzi senza finirne uno, lamentandosi, tra
un “sorry” e un altro, di non riuscire ad
avere un uomo o la prescrizione per il
Valium. Molta gente, infastidita da tanta
“mancanza di professionalità”, se n’era
tornata a casa dopo il terzo pezzo, senza
conoscere la commozione di chi ha visto
la signorina Marshall concludere il suo
show cantando seduta tra il pubblico
o stesa per terra a firmare gli autografi.
A tre anni di distanza da tali eventi,
ecco il suo settimo album, destinato
probabilmente a dividere tutti un’altra
volta. Ci vada piano chi ha amato i suoi
primi tre dischi, perché potrebbe storcere
il naso sentenziando un piegarsi dall’indie
al pop. Si avvicinino invece senza timore
quanti si sono innamorati della sua dolce
malinconia da Moon pix in poi, ma
lo facciano comunque con cautela,
perchè la Cat Power di The Greatest,
avvolta da un elegante
veste soul che mette in
risalto tutta la bellezza
della sua voce rauca, è
pressoché inedita. Canzoni
che profumano di anni
sessanta,
orecchiabili,
efficaci nella loro semplicità, raffinate ma
non mielose, pulite nei suoni, farcite di
archi, fiati e cori ma non sovraprodotte,
addirittura solari, se non fosse per i testi.
Tutto questo, almeno fino alla nona
traccia (Willie, versione accorciata e
“classicizzata” di Willie Dead Wilder, già
presente nello strambo dvd Speaking for
trees). Dopodichè succede qualcosa:
Chan strizza l’occhio ai vecchi fan
spiazzati e li accoltella al cuore con
Where is my love, che sarebbe piaciuta
moltissimo a Jeff Bukley. E per convincere
infine gli ultimi scettici che tutto sommato
lei è ancora quella di una volta, quando
è il turno di Hate caccia fuori dalla sala
d’incisione la big band che l’ha fin qui
accompagnata e, armata di chitarra, se
la suona e se la canta da sola (“She said I
hate myself and want to die”). Insomma,
non lasciatevi inquietare dal ciondolo
a forma di guantoni che campeggia
sull’orribile copertina: non avete davanti
l’album di un rapper del Bronx, ma il disco
più accessibile di Cat Power.
P.S. E se siete ascoltatori distratti, in
cerca di intrattenimento, o pensate che
la “professionalità” di un artista debba
rimborsarvi dei soldi spesi per andare
a sentirlo, beh, quando il The Greatest
Tour toccherà il nostro stivale statevene
pure a casa: nessuno sentirà la vostra
mancanza.
Lorenzo
Vega Enduro
Bigtime 25:33pm
Macaco records
Indie Rock / ****
Non c’è da meravigliarsi
se, dopo solo pochi
secondi, questo disco ti
cattura in una spirale da cui non vorresti
uscire. Basta leggere che alla sei corde
presenzia il signor Giovanni Ferrario, vero
e proprio re mida dell’indie italiano,
per avere un’idea di quello che sono i
Vega Enduro. Un viaggio psichedelico
che parte dai Velvet Underground per
ripercorrere tutto il rock and roll lisergico
per ritrovarsi a correre nei prati fioriti con
Julian Cope. Un disco maturo, come
una dichiarazione d’amore alla musica
fatta bene, a una musica che trova la
sua giusta collocazione in un tempo che
non esiste, le 25:33 pm (titolo dell’album).
Le chitarre, tra fuzz e crunch, cesellano
fraseggi incisivi che danno carattere a un
disco nelle apparenze in bassa fedeltà
ma che a ben sentire è ricco di spunti,
contrappunti. Diretto come il buon rock
dovrebbe essere il nuovo album dei
Vega Enduro è uno di quelli da avere
sul comodino e da stringere dopo aver
sognato Apicella che imbraccia una
stratocaster intonando un classico dei
Dire Straits.
Osvaldo Piliego
Tomviolence
Tomviolence
Black candy
Post rock / ***
Prende ispirazione da un
celebre brano dei Sonic
Youth il nome di questo
super gruppo appena sfornato da casa
Black candy. E già la referenza è un
indizio per questo progetto che dalle
prime note ci porta in orchestrazioni post
rock da togliere il fiato. Alla normale
formazione basso chitarra batteria
si aggiungono archi e fiati e l’effetto
nell’immediato è quello di una colonna
sonora per un film ancora da girare, suite
per il crepuscolo. E la voce arriva come
un sottotitolo, la guida per queste 9 tappe
che lievitano tra intrecci melodici fino a
irrompere deflagranti in sprazzi noise. È
in Quite good not song che la passione
per i sonici si esprime in pieno tra feed
back stop and go da manuale. La scuola
è quella dei Mogway e June of 44 e i
Tomviolence sembrano aver imparato la
lezione alla perfezione, se poi si aggiunge
la naturale italica propensione alla
melodia e la scena che nel nostro Paese
si sta muovendo in tale direzione hanno
quel quid, quella marcia in più che li fa
emergere dal gruppo. (O.P.)
Il generale inverno
Mohole
Jestrai
Post Rock / ***
Uscita insolita per la Jestrai che con questo
disco abbassa e rilassa i toni notoriamente
elettrici delle sue produzioni. La musica
KeepCool
12
de Il generale inverno
come il freddo vento
che sbaragliò Napoleone
sembra congelare per
un attimo tutto quello
che c’è intorno. E soffia
fragile come se reggesse un fiocco di
neve in cui tutta la musica si tiene in un
flebile equilibrio. Una voce fragile si dilata
su arrangiamenti ricchi di sfumature
che sembrano voler creare un ponte,
con le dovute differenze e il rispetto di
circostanza, tra Sigur Ros e i penultimi
Radiohead. L’italiano sembra non inficiare
l’esperimento che affascina anche se a
volte non coinvolge. (O.P.)
Dilaila
Musica per robot
Il re non si diverte
Rock / ***
A t m o s f e r e
malinconiche
ed
emotive
quelle
contenute in Musica
per robot, secondo
lavoro in studio dei
Dilaila. Riverberazioni
e
melodie
che
richiamano alla mente le sonorità
d’oltremanica unite ad un intreccio
stilistico dell’indie-pop made in Italy.
Dieci canzoni sinuose e fluttuanti in
balia della loro stessa miscela di suoni
e ambiente. Una situazione emotiva e
musicale stabile dall’inizio alla fine, che
esclude qualsiasi irruenza o imprevisto
musicale e dalla quale non emerge una
canzone in particolare, ma un tutto unico
morbido e lucidamente controllato:
miscela d’inerzia paranoica e suadente,
che nel suo insieme richiama molte, forse
troppe cose che appartengono alla
grande famiglia del già sentito (che a
seconda dei punti di vista ne fanno la
forza o la pecca). Il primo sussulto che
scuote dal torpore introspettivo è L’ora
del te, elegante ed energica settima
traccia, ma che in ogni caso non esce
dal seminato tracciato dal suond dei
Dilaila. Una voce femminile trasparente e
suadente, carica di emotività, trascinata
e supportata, a volte sopraffatta da un
apparato musicale che la asseconda
e la accompagna nelle sue melodiche
rivendicazioni di surreale malinconia,
salvo concedersi contenute evoluzioni in
pieno stile Radiohead. Musica per robot
è uno di quei classici dischi da ascoltare
con attenzione e parsimonia. Un disco
che sembra esprimere un grado di
surreale ma cosciente rassegnazione nei
confronti di una circostanza inaspettata
ed inevitabile, quasi una sorta di timore nei
confronti di quel motore imprevedibile e
incontrollato degli eventi. La quotidianità
è nemica della ricetta musicale di
Musica per robot, disco che ha la grande
capacità di trasmettere con sincerità
tutta la sua tacita rassegnazione, ma che
a lungo andare anestetizza la voglia di
fare e ti riflette in uno stato di catatonico
e prima o poi stucchevole silenzio.
Francesco Lefons
Rosso fluido
Con la bellezza barcollante al tuo
fianco
Autoprodotto
Indie rock / ***
Perfettamente
inseriti nei binari dell’indie
rock in italiano che
tanto deve al seminato
dal Cpi, i Rosso fluido
si muovono agilmente
dove Marlene Kuntz e
gli ultimi Csi si muovevano da re. Tra rumori e melodie i Rosso
fluido sono essenziali nei loro proclami
quasi (ma mai come) un signor Diaframma. Attitudine rock, voce aspra come le
chitarre post punk che scandiscono i forti-piano di questo terzetto di Monza e atmosfere in acido capaci di muoversi tra
blues noise, accelerate, brusche frenate.
Una passione per i Velvet Underground
che emerge qua e là e si palesa infine
con la cover tradotta in italiano di All tomorrow’s partyes. (O.P.)
Songs for Ulan
You must stay out
Stoutmusic
Indie / ****
Songs for Ulan è il progetto
dietro il quale si nasconde il
nome e la splendida voce
di Pietro de Cristofaro. You
must stay out, candidato a
diventare il preferito disco
indie italiano, è capace di unire la carica
rock and roll dei Violent femmes, il blues, il
folk, i Gun Club, Nick Drake, Sparklehorse,
Tom Waits. Un disco maturo, di un’artista
che arriva alla piena consapevolezza
della sua poetica musicale. Un disco
fragile, teso tra le corde di una voce che
è stomaco e gola e una chitarra che
scava nella tradizione e pesca nell’indie.
La produzione dell’amico Cesare Basile
è il controluce che mancava, a questa
istantanea in 11 tracce, per sfiorare la
perfezione. (O.P.)
Mesas
Spasmi che sanno di
me
Maninalto
Rock / ***
Spaghetti Stoner è il
titolo di una loro vecchia
registrazione ed è forse l’etichetta
migliore da affibbiare ai Mesas. Rock
and roll polveroso, serrato in alcuni
episodi come Uh!, dilatato (Intermezzo
III), di stampo Queen of the stone age
nel singolo Sdegno. Ciò che colpisce e
che resta è che i ragazzi sanno mettere
mano e fiato a canzoni di buona fattura.
Quando riescono a evitare alcuni
piccoli manierismi e clichè del genere
i Mesas dimostrano grinta e talento. In
alcuni episodi ricordano qualcosa degli
Afterhours ma è solo un attimo spazzato
da ruggiti alla Cornell dei bei tempi.
(O.P.)
Il Pasto Nudo
20/05
Promo tape 2005
Rock / ***
Il Pasto Nudo ci propone un promo tape
di quattro brani di rock italiano, molto
potente e ben curato negli arrangiamenti.
Insomma di musica tirata, incandescente,
con ritornelli violenti che riescono a
catturare l’attenzione. Emergono in
questa band due caratteristiche ben
precise: la prima è la consistenza e
solidità degli strumenti ritmici, anche se la
batteria è penalizzata dalla registrazione,
la seconda è l’aggressività e personalità
della voce. Sicuramente questo è un
promo tape che dovrebbe dare dei
responsi positivi. (N.P.)
Sikitikis
Fuga dal deserto del Tiki
Casasonica
Eltettropunk / **
E chi più ne ha più ne
metta. I Sikitikis usciti per
Casonica di Max Casacci
(Subsonica)
mettono
in un unico calderone
rimembranze
sixties
e
seventies (la cover de
L’importane è finire), colonne sonore
(Milano odia: la polizia non può sparare),
surf (Non avrei mai), garage (Amore
nucleare). Il tutto è tenuto insieme da
ruvidezze punk senza l’ausilio di chitarre
(?!?). il suono è saturo (voce compresa),
distorto, tirato a tratti un po’ “subsonico”
(Donna Vampiro). Le rivisitazioni (3 cover
sembrano un po’ troppe) sono i momenti
più convincenti dell’album, i brani originali
sembrano non aver trovato, nel mare
delle influenze, un loro indirizzo. In Fuga
dal deserto del Tiki (strumentale in coda)
sembrano scrivere la colonna sonora per
una spystory del 2000, in un altro episodi
fanno il verso al rock and roll anni 80 di
Ivan Cattaneo (Rock and roll contest).
Alla fine ti chiedi: ma i Sikitikis chi sono?
Bellini
Small Stones
Temporary Residence
Noise rock / ****
Secondo album per Bellini, supergruppo italostatunitense noise rock.
La formazione cambia
rispetto a quella del precedente Snowing Sun
(2002). Durante il tour di
quell’anno infatti, il batterista Demon
Che (dei Don Caballero) li abbandonò
nella data di Athens. Poi, come se non
bastasse, alcune date negli U.S.A. saltarono a causa dell’uragano Lily. Subentra
così in formazione Alexis Fleisig (ex Soulside e Girls Against Boys), si affianca alla
cantante Giovanna Cacciola ed il chitarrista Agostino Tilotta (entrambi membri
degli Uzeda) e al bassista Matthew Taylor
(proveniente dai Romulans). La supervisione della produzione di Small Stones, è
KeepCool
ancora una volta affidata al celebre e
stimato Steve Albini. Troviamo così dieci
nuove entusiasmanti tracce, della durata totale di poco più di mezz’ora, vere e
proprie esperienze di intensità viscerale,
ruvide, in vero tradizionale stile noise (richiami a Sonic Youth e Shellac), ma anche innovazione, tentativo ben riuscito di
coordinare lati più melodici a violente ed
esagitate sferzate elettriche. La differenza nella batteria si può notare (certo è
difficile sostituire uno come Demon Che),
l’approccio è diverso, il risultato riuscito,
buono il dialogo col basso. Cerebralmente stimolante, sapientemente ragionato,
un gioiello nel suo genere.
Livio Polini
Soulfly
Dark Ages
Roadrunner
Metal / ***
Sette anni dopo il debutto
della sua band post
Sepultura, gruppo metal
tra i più importanti della
scorsa decade, e proprio
quando cominciano a
trapelare voci di una
possibile (?) riparazione, arriva Dark Ages,
nuovo capitolo della saga Soulfly di Max
Cavalera. Riappacificarsi con il proprio
passato, forse proprio con quello oscuro
cui fa riferimento il titolo di questo quinto
disco di Max con i Soulfly. Ancora più
presente il lato metal, ancora più feroci
gli attacchi quando sono frontali, ancora
il tribale che rimane e viene accostato,
nello stesso disco, ad un glorioso passato
chiamato Sepultura. È probabile che l’aria
di riavvicinamento abbia giocato il più
grosso scherzo a Cavalera e combriccola
suonante: ci si trova di fronte ad un disco
di notevole spessore, spesso addirittura
superiore ai precedenti. Non c’è aria di
copia e incolla, qui, e neppure voglia di
auto-celebrarsi scimmiottando il passato,
al contrario. Qui si viaggia spediti verso
una sorta di modernizzazione degli schemi
aggiungendo, strato su strato, quanto di
buono già espresso di recente dagli stessi
Soulfly. Dunque è proprio ciò che serve
alla preparazione di una reunion?
Camillo Fasulo
Premiata Forneria Marconi
Dracula
Bmg
Musical Prog / ****
La
Premiata
Forneria
Marconi è un’istituzione
della scena musicale
italiana, in oltre trent’anni
di carriera si è espressa
in progetti di notevole
spessore artistico, raggiungendo fama
internazionale. Purtroppo con l’avvento
degli anni ottanta e la fine dell’era
“progressiva”, a causa del diffondersi
di musiche più commerciali, entrò in un
periodo di lungo silenzio. Dai primi anni
novanta è tornata in piena attività, fino ad
arrivare a questo Dracula un’opera rock
13
di un musical che il 2 marzo debutterà
al Gran Teatro di Roma. L’opera già dal
titolo potrebbe far pensare ad un lavoro
dai forti connotati gotici ed orrorifici,
ma non è così. Quello che viene messo
maggiormente in luce non è tanto
l’aspetto vampiresco del conte Vlad
di Transilvania, ma il rapporto d’amore
infinito che aveva verso la sua amata.
Infatti la moglie dopo aver saputo della
morte, (non vera), dell’amato crociato in
terra santa, preferisce morire al pensiero
di una vita senza di lui. E qui che Vlad,
saputo l’inganno della Chiesa, in quanto
fedele servitore di Cristo, decide di
rinnegare il cristianesimo, la luce, il cibo
e di diventare un essere dell’oscurità e
di nutrirsi del sangue delle sue vittime.
I primi brani immediatamente dopo
l’overture, (una intro in cui si presagisce
l’orrore e il dramma delle tematiche che
verranno affrontate), sono eccezionali
poiché Dracula parla in prima persona
annunciando che è diventato un essere
orribile e minaccia tutti di temere della
sua presenza. Nei brani successivi si
addolcisce, incominciando a ricordare
i tempi passati in cui era un uomo vivo
che lottava per un ideale, accanto alla
sua amata e non era costretto a cercare
la vita nella morte di un’altra persona.
Musicalmente è ineccepibile, ma non
vi aspettate di trovare lunghissime suite.
Tuttavia l’opera è intrisa degli elementi
che fecero grande il rock progressivo:
virtuosismi di chitarra incrociati a grandi
fraseggi tastieristici, bellissime linee di
basso e di batteria, per non parlare
dell’espressiva performance alla voce
di Franz Di Cioccio. Importanti gli inserti
orchestrali che hanno dato dinamica al
suono, senza mettere in secondo piano
l’operato della band.
Nicola Pace
Pinomarino
Acqua, luce e gas
RadioFandango
Cantautore / ****
Il terzo album segna
la piena maturità del
cantautore
romano
Pinomarino che sforna
un
lavoro
completo
e sognante, ironico e
depresso,
arrabbiato
e dolce. Acqua, luce e gas è un bel
disco, tra l’altro godibile sin dal primo
ascolto, perché associa in maniera non
scontata musica, voce, arrangiamenti,
testi. Insomma buone canzoni in una
ottima “confezione”. E non sembri poco
di questi tempi in Italia e soprattutto
nel mondo cosiddetto cantautoriale.
Pinomarino, coadiuvato nella produzione
e negli arrangiamenti da Andrea Pesce, si
sbilancia e non poco in testi che giocano
con le parole “la voce più misera/
spesso diventa la più autoritaria/perché
non potendo esser compresa/le resta
soltanto d’essere obbedita” sottolinea in
Fatto una volta, fatto per sempre oppure
“Non è mica semplice/scegliere il punto
del mondo/più adatto per scendere/con
due gambe incapaci fra loro/a tenere i
piedi all’asfalto bruciato/che ogni volta
c’è da camminare/ogni volta mi tocca
imparare daccapo”, bella metafora per
descrivere L’uomo a pedali. Il cd si chiude
con un intenso omaggio a Giorgio Gaber:
Lo Shampoo è infatti una piacevole ghost
track. (pila)
Vinicio Capossela
Ovunque proteggi
Warner
Cocktail sonoro / ***
Dalla parte di Spessotto
è il primo ostico singolo
destinato alla rotazione
radiofonica di Ovunque
proteggi, nuovo lavoro
di Vinicio Capossela che
esce a ben cinque anni
distanza dall’ultimo cd di inediti Canzoni
a manovella. Un brano che richiama la
fanciullezza del musicista di Hannover
(“Siamo dalla parte di Spessotto,da
appena nati dalla parte di sotto, senza
colletto, senza la scrima, senza il riguardo
delle bambine”). Nelle tredici tracce
Capossela spazia dalla musica araba
(Non trattare), alla tradizione bandistica
(L’uomo vivo), dal jazz a ritmi techno (la
strana Moskavalza); il suo più grande
pregio è quello di citare (non facciamo
nomi per quanto son palesi) dando
sempre l’impressione di non copiare,
con trovate vocali e soprattutto testuali
imprevedibili. Medusa cha cha cha
(ricordate in Aprile l’improbabile musical
sul pasticcere trotzkista di Nanni Moretti?),
la title track, Nutless, Pena de l’alma (tratto
da una struggente canzone messicana),
Lanterne rosse sembrano i brani più
convincenti. Capossela in qualche pezzo
sembra invece osare troppo per un
verso o per l’altro come in Brucia troia,
Al Colosseo, S.S. dei naufragati. L’autore
spiega di aver scritto i brani in giro per
l’Italia con la consulenza e l’aiuto di
validi musicisti (tra i quali Ares Tavolazzi,
il trombettista Roy Paci e Marc Ribot il
chitarrista più amato da Tom Waits) e
soprattutto di getto. Consiglio invece un
ascolto molto più tranquillo e ponderato.
Ovunque proteggi è un cd che ha
bisogno dei suoi tempi di assimilazione.
So che in molti grideranno al miracolo. E
va bene così! (pila)
KeepCool
14
Chris Brown
Dwele
modo più spontaneo e istintivo per esprimere il proprio mondo. E si afferma: “Ben
fatto!”.
Gianpaolo Chiriacò
Primo lavoro da solista
per Chris Brown, nuovo
protetto della Jive Record
nato sotto la stella di Juelz
Santana e grande amico
di Cam’Ron. Chris in
questo suo primo lavoro
accarezza le ritmiche r’&’b con delle
ballad azzeccate più sotto l’aspetto
emotivo che sotto quello musicale
(sembrano un po’ scontate). Il singolo
portante Run It fa un piccolo passo in
avanti se non altro per le sonorità molto
“da bomb” che ricordano al pubblico
in ascolto che prima di tutto Chris è un
breaker (come fa notare nel video).
Nelle restanti 15 tracce c’è solo poca
trasparenza e molta superficialità per un
ragazzino che va avanti come tanti in
questo momento solo per la grandezza
della holding che lo produce. Può
sicuramente fare di meglio. Speriamo.
Eugenio Levi
Avevamo lasciato questo
ragazzone
del
South
America ai tempi dell’album Subject,
disco con un grande riscontro nel
mercato r’&’b, ma poco osannato dalla
critica. Il pianista Dwele ci riprova con
Some Kinda che ripropone le ritmiche
vellutate del precedente con ancora
più professionalità e più “mestiere”. Le
tracce hanno bisogno di più ascolti per
entrare nell’anima, ma già al secondo
ascolto si percepisce una strana vocina
interiore che ti dice “ehi ma che mi sta
succedendo, mi sto rilassando?”. Ebbene
si, la Virgin ha fatto centro. Anche se
molti ancora non conoscono Dwele è
di rigore acquistare l’album di un artista
che secondo il mio modesto parere
farà molto parlare di sé in futuro e che
è paragonabile al vecchio Rahsaan
Patterson o a Anthony Hamilton.
Eugenio Levi
B.Fleischmann
Chris Brown
Sony/Bmg
r’&’b / **
Zina
Zina
11-8 Records
Contaminazione / *****
I ritmi gnawa, la furia
verbale di Don Rico, la
tensione nelle voci di Bachir
Gareche e Ahmed Benbali,
i riff dei fiati, l’esuberanza
di Riccardo Pittau o
di
Claudio
“Cavallo”
Giagnotti intasano questo disco oltre ogni
dire. E sarebbe sicuramente un ingestibile
caos se a dirigere il traffico non ci fosse
l’intelligenza sanguigna e il polso fermo
di Cesare Dell’Anna. È grazie a lui, infatti,
se le mille anime di Zina, diversissime e
potenzialmente conflittuali, invece di
scontrarsi si incontrano magnificamente
e danno vita a dodici tracce di intensità
stupefacente. Talvolta l’ispirazione proviene
dal dub, come in Venez Voire; in altri punti
sono le percussioni magrebine a scandire il
tempo, come in Hamuda; altrove ancora
l’apporto elettronico di Daniele De Rossi si fa
più massiccio, come in Rimitti; ma è sempre
la voglia di suonare strumenti acustici
a dominare l’atmosfera, a inasprirla, a
renderla densa come il fumo di un narghilè.
Il risultato necessita più ascolti ma alla fine
ci si rende conto che, una volta per tutte, le
contaminazioni hanno fatto stile.
Cosimo Farma
Some Kinda
Virgin
Soul / ****
Simona Salis
Chistionada de mei
Upr/Edel
Folk / ****
“Inconsueto”, “inaspettato”, “ben fatto”.
Queste le reazioni, nell’ordine, passando
in rassegna il primo disco di Simona Salis. Per prima cosa si nota il contrasto fra
il dialetto sardo, usato in tutti i testi, e un
sound dal calibro leggero, curato, incline
all’ascolto più immediato e condiviso. E
si sussurra: “inconsueto”. Dopo si avverte
nella voce della Salis una voglia di prendere in mano la musica, di condurre gli
altri musicisti, e allo stesso tempo un desiderio di liberarsi degli accompagnamenti
e lasciar vibrare la melodia. Ricorda Dulce Pontes o Maria João, non tanto per le
strutture e nemmeno per i timbri, ma per
la concentrazione di stati d’animo diversi
in una sola frase, per l’interpretazione vibrante. E si ragiona: “inaspettato”. Infine
si gode di un ordito fresco, curioso ma
cauto, disteso, che non vuole stupire ma
rendere gradevole l’esperienza d’ascolto. E, superato lo stupore iniziale, si possono cogliere le numerose attenzioni in fase
d’arrangiamento, che non sono fronzoli
ma decorazioni sfiziose volte a offuscare
il confine tra la world-music e il pop d’autore. Quando il disco si avvicina alla fine
si capisce perfino che l’uso del dialetto
per la Salis non è né ostentazione né fissazione, né provincialismo ma soltanto il
The Humbucking Coil
Morr Music
Elettronica / ***
Un’altra release dal cilindro della fortunata Morr
Music. Prima traccia, Broken Monitor, sette minuti e otto secondi:
nonostante abbia sempre odiato i pezzi
oltre i sei minuti, qua siamo di fronte a melodie che non si possono odiare, fantastica. O la prima è la migliore del disco oppure mi preparo ad ascoltare veramente
un bell’album. Sette minuti di dolcezza
interminabile ma senza aver esagerato
troppo con il glitch, ed è cosi che già dal
primo pezzo ci si immerge nella giusta atmosfera. Le successive tracce non sono
da meno: atmosfere dilatate e sommesse, melodie lente e malinconiche. Laddove si aumenta un po’ la velocità, vedi
la terza traccia Composure, non si perde
in dolcezza. Meravigliosi suoni in Phone
and Machines e la successiva Static Grate, dove ancora una volta, come in altri
pezzi del disco, suoni di rhodes e tastiere
riscaldano le orecchie, aiutati da fiati e
glitch occasionali. Le melodie si ripetono,
dall’inizio alla fine del pezzo e sembrano
non finire mai. From to tra le tracce più
disconnesse. Alla fine mi capita di non riuscire a scegliere le tracce migliori ed è un
bene, veramente un bel disco. Riuscite
ad immaginare una versione leggermente più lenta di Lali Puna e Ms John Soda?
Vi piace il nuovo suono Morr? Procuratevi
questo disco allora, non vi dispiacerà.
Federico Baglivi
Afterhours
Ballads for little hyenas
Mescal
Rock / ***
Da un po’ la Mescal
ha deciso di sbarcare
all’estero. Lo ha fatto prima
con Cristina Donà e oggi
con gli Afterhours. Esce in tutta Europa e
presto in America Ballads for little hyenas.
Peculiarità dell’operazione è la riedizione
in inglese di dischi già usciti in Italia. Un
ritorno alle origini per gli Afterhours che
cominciarono la loro, ormai lunga, carriera
proprio con l’inglese. L’impressione è
che questo disco degli Afterhours risulti
per certi versi datato. Accostarlo alle
KeepCool
produzioni americane contemporanee
sembra relegarlo a stagioni musicali che
appartengono agli anni ’90. La domanda
che si insinua e continua per tutto il disco
è che forse la potenza espressiva della
band dia il massimo proprio nell’utilizzo
dell’italiano. Alla fine ci si chiede perché
in un mercato globale della musica (e
non parliamo della Pausini e Nek) ci sia
il bisogno di tradurre i testi per avere più
appeal. Alla fine forse un disco rock del
genere, in italiano, potrebbe apparire
alle orecchie straniere più esotico e
accattivante. (O.P.)
The departure
Dirty Words
Parlophone
New Wave / ***
Melodia e ritmo ma con
stile. Dirty Words è un
concentrato di adrenalina, orecchiabilità, sfacciataggine ed energia.
Andy, Sam, Lee, Ben e David sono cinque amici di
Northampton, piccola cittadina, a circa
un’ora di macchina da Londra. Cosa c’è
da fare a Northampton se non chiudersi
in un pub a bere birra? Si può bazzicare
per i negozi di dischi usati e ritrovarsi con
gli amici a riascoltare vecchie cose degli
U2, Cure, New Order, Echo & The Bunnymen, Psychedelic Furs… Essi stessi raccontano che si sono avvicinati con curiosità alla musica dei primi anni ’80 e ne
sono rimasti folgorati. Così hanno deciso
di formare una band e di ispirarsi a quei
dischi che hanno dato loro degli stimoli
per venire fuori da una vita di provincia
non troppo frizzante. Sono raffinati in tutto
The Departure, dalle minimali copertine
dei loro dischetti fino al look, passando
ovviamente per la musica. E prendendo
come riferimento proprio gli undici brani
di Dirty Words ci si rende conto di quanto
il momento attuale sia magico. Le nuove band suonano come non mai. Sono
in grado di ispirarsi ai maestri incontrastati
degli Eighties come anche di andare oltre. E The departure, tra le nuove leve del
british sound, sono quelli che, senza dubbio, riescono meglio ad esplorare certa
new wave intrigante e particolare. Dirty
Words resta, in ogni caso, un’affascinante collezione di esili e neo-romantiche
trame musicali, di abiti di classe disegnati
su modelli del passato, comodi e belli da
indossare, ma tutti firmati da un giovanissimo gruppo di stilisti pop che ha tanto
gusto e tanto stile. Sul loro conto si sono
già ampiamente espressi i più importanti
15
commentatori della scena musicale europea. E voi siete pronti per il mainstream
da classifica?
Camillo Fasulo
The Real Swinger
Rubber ball
Valium Records
Garage punk / ****
I Real Swinger tornano finalmente alla
ribalta, dopo quasi 5 anni, con una
nuova line-up. Sterzata
garage/punk-rock
’77
e pezzi Crime-addicted
come What I Call Love
(la successiva si intitola
Frustration...)
e
una
produzione sobria e viva
che li fa suonare al meglio. Apre The Day
That Martians Took Control Of My Life che
rassicura subito sul fatto che l’amore per
il caro vecchio r’n’r punk nel frattempo
non si è spento. Poi Girl (And now can’t
get you out of my head, I know I’m
gonna feel this way till the day I’m dead)
trascinante dichiarazione d’amore folle
per questa creatura celestiale che (tanto
per cambiare) fa sputare plasma. Get
along boy... she belongs to me. Arriva
You’re so plastic ed è ossigeno. Pezzi
dall’invidiabile
verve-compiuti
nella
loro natura viscerale e naif - quali Love
Hurts, o il drone ramonesiano di You’re a
quitter, fino all’ottima I’m Bored. Tra punk
californiano, powerpop di buona fattura
e dirty teenage dreams il risultato si fa
ascoltare con grande piacere.
Antonio Olivieri
The Giljoteens
Get a head
Misty Lane/Teen Sound
Sixties punk / ***
Gran
polverone
da
new sensation attorno
agli
svedesi
The
Giljoteens.
Premetto
che personalmente mi è
sempre più difficile provare
autentico
entusiasmo
per gruppi moderni che suonano sixties
punk e dintorni, ma nel settore costoro
sono davvero tra le migliori cose che
abbia sentito negli ultimi anni. Diciamo
che se amate Shadows of Knight, Pretty
Things e molta altra roba di Nuggets,
ma anche le compilation della Teenage
Shutdown potete andare a colpo sicuro.
Non aspettatevi comunque fuzz a go-go
dall’inizio alla fine, il disco è più “moody”
che pestone e il loro garage un ottimo
mix di arroganza e coolness, folky e
tantissimo beat. E la differenza la fanno
gli originali, dalla scrittura sempre buona
e coerente. Per citare le note interne: c’è
un unico motivo per sentirsi un gruppo che
suona oggi della roba di 40 anni fa, con
tutto il materiale d’epoca (sicuramente
migliore) ancora inesplorato...“because
it’s fucking great”. Mi associo.
Antonio Olivieri
Psycho sun
Silly Things
Urtovox
Rock / ****
Come si fa a scrivere una
“recensione
obiettiva”
del nuovo cd degli
Psycho Sun? Come si fa
a sorvolare su un’amicizia
che dura da parecchi
anni e diventa sempre
più forte? Si butta a mare il distacco da
“manuale del perfetto critico” e ci si
lascia trasportare dall’emozione. Prima
di tutto perché ci siamo conosciuti grazie
a un demo e la loro musica mi è subito
piaciuta. E poi perché la solida coesione
degli Psycho Sun nasce proprio da un
affetto che il tempo non riesce e non
riuscirà a scalfire. Basta vederli una volta
sul palco per rendersene conto. Non
credo abbiate mai incontrato. un gruppo
formato da persone tanto diverse e al
tempo stesso tanto legate tra loro. In tempi
così burrascosi, in cui sembra sempre che
a prevalere siano l’interesse economico e
il mercato, gli Psycho Sun ci dicono che
loro si muovono su altre coordinate e che
è ancora possibile farlo. Qualche sintonia
- vedi quella con la Urtovox, un’etichetta
discografica fortemente motivata dalla
passione - alla fine si riesce a trovarla. Ma
anche se così non fosse, loro andrebbero
avanti lo stesso. E la musica? C’è,
eccome se c’è. E’ un rock energico
e nervoso che si muove sul crinale
pericoloso tra melodia e rumore (vedi
fra tutte le canzoni la splendida About
Your Man, la mia preferita) e si riallaccia
all’intuizione geniale dei primi Velvet
Underground. Ma anche il suono sempre
più coinvolgente e maturo degli Psycho
Sun, gli intrecci delle chitarre di Cesare e
Tobia, il canto tagliente di quest’ultimo,
il drumming martellante di Osvaldo, il
basso cronometrico di Antonino, hanno a
che fare con la visione del mondo di cui
si diceva. E’ un gran disco, Silly Things. Il
disco che rende finalmente merito a una
delle migliori rock band del nostro Paese.
Giancarlo Susanna
KeepCool
16
IL DOMINO DEI TRANSEX
Quando si parla di Punk nel nostro bel
Paese l’immancabile occhio di riguardo
si rivolge a una città come Roma.
La scena capitolina sta crescendo e
maturando nel tempo. A questa realtà
appartengono i Transex, sorti dalle
ceneri di due formazioni gloriose e
indispensabili per ogni appassionato,
Bingo e Ufo Diktatorz, responsabili di
vinili considerati ormai classici; i primi a
recuperare un’attitudine ed un suono
che, nonostante i detrattori, rimane base
immarcescibile della modernità musicale
nel passato secolo come nel nuovo
millennio: parlo del punk dei seventies,
ovviamente. Da allora il rock’n’roll si è
metallizzato, è tornato freakettone, si
è finto moderno, quando non faceva
altro che recuperare le proprie radici
chitarristiche, concentrandosi su di esse.
Noia mortale. I Transex, a partire dal
colorito nome, pongono l’accento sulla
provocazione. Il rock c’è e spacca, il
disco c’è e spacca, ma provoca un
luccichio sinistro, uno scarto, qualcosa
che era nelle pieghe e nelle corde di
una generazione allo sbando fra le luci
dei neon e la metropolitana, quell’ansia
di futuro alla quale il rock apparteneva,
non formalmente (i “soliti” tre accordi),
ma esteticamente e concettualmente.
Il rock oggi si è fatto “muscolare” e
poco prezioso; Domino, il disco dei
Transex, invece, inquieta e impressiona.
Confonde a partire dalla cover e dai
titoli delle canzoni. Come nascondesse
altro. Come se il rock fosse nuovamente il
pretesto e l’amore per il medesimo scotto
da pagare. Come nel ’77, così nel 2006.
Scambiamo due chiacchiere col leader
e cantante Pierpaolo De Lulis, poliedrico
personaggio, che fra un concerto e
l’altro della sua band, trova il tempo di
organizzare un festival come il Road To
Ruins e gestire un’etichetta, la Rave Up
records, che sta semplicemente facendo
la storia del Punk (www.raveuprecords.
com). Buon divertimento.
Caro Pierpaolo, parlaci un po’ della
genesi di questo secondo capolavoro
e in cosa differisce eventualmente dal
vostro indimenticabile debutto.
Caro Sergiolone, credo che tra i due lavori
ci sia qualcosa di molto consistente di
mezzo: i soldi! Il primo lp è stato registrato
e mixato in due giorni, un vero record. La
spesa è stata irrosoria e la qualità sonora
risente di tutti i limiti di una produzione
che definire ‘low-cost’ è un eufemismo.
Il secondo lavoro è decisamente meglio
prodotto, suonato e realizzato secondo
un criterio decisamente più professionale.
Poi, dal punto di vista prettamente
musicale, i brani sono decisamente più
arrangiati e meglio eseguiti.
Come è avvenuto il contatto con la Tre
accordi records?
Dario, il ‘boss’ dell’etichetta si è interessato a noi e noi ci siamo interessati a lui. È un
bellissimo ragazzo e per me si trattava di
un’occasione unica per stabilire un contatto con questo stallone meneghino. Se
ne parlava molto bene negli ambienti
“Queer punk” del Nord Italia. Perché non
provarci, mi son chiesto?! Tempo pochi
mesi ed eravamo in contatto, perfettamente “sintonizzati” su ogni cosa. Sesso
compreso. È stata una manna dal cielo.
Di cosa parla un pezzo come Domino?
Parla di Stalin, la mia grande passione
dal punto di vista politico. Evoco il suo
nome ogni volta che mi trovo di fronte
ad un’ingiustizia. Il testo parla proprio di
questo.
Sei gay? Quanti anni hai realmente?
Lo stivale sulla cover del disco ti
appartiene?
Gay? Molto, e gli stivali della copertina
sono quelli che amo indossare nei miei
rendez-vous amorosi. La mia età? 21 anni
compiuti a dicembre. Li porto male...lo so,
ma la vita che conduco mi ha logorato
precocemente. Passo infatti intere
nottate nelle “dark room” dei peggiori
locali gay-trans per uscire devastato
fisicamente e mentalmente solo all’alba.
Hard life....
Il 4 e il 5 febbraio due locali di Roma
ospiteranno la seconda edizione del
festival da te diretto e curato, il Road To
Ruins. Parlacene.
Sul palco Avengers, White Flag, Paul
Collins Beat, Pf Commando ed altri...
Gruppi storici, per la prima (ed unica)
volta in Italia. Bella storia.... Inoltre dj
set punk, power pop, garage, video
proiezioni, dischi e molto altro...Per tutti i
dettagli visitate il sito www.roadtoruins.it
Sparami cinque dischi indispensabili
dalla tua discoteca.
La serie Back from the Grave ( dedicata
al garage 65/67 americano ), la serie
Killed by Death ( dedicata al punk 77/81
americano), Dead Boys (quel poco che
hanno fatto), Rolling Stones (tutto, ultimo
disco compreso!), Joe Yellow e la disco
italiana 80/90/2000.
Quando verrete a suonare dalle nostre
parti?
Quando tu vorrai, mio caro. Voglio essere
pagato in specialità culinarie salentine
(orecchiette con le fave, carteddate,
mustazzoli, cozze e peperoni, zuppa di
frutti di mare alla “gallipollina” etc... )
non cerco danaro, voglio solo le vostre
attenzioni.
Baci e abbracci ai lettori di Coolclub
Scrivetemi e venitemi a trovare. Il mio
letto e’ capiente e confortevole. C’e’
posto per tutti.
Sergio Chiari
KeepCool
Tre accordi records
La Tre accordi records, fondata e gestita
da Dario Emari, è una label milanese
indipendente attiva dal 2000, ed è
specializzata nella produzione di musica
rock, punk, garage e r’n’r. Unitamente
alla sua principale attività di produzione,
si occupa anche della promozione e
della gestione dei propri artisti.
Ha inaugurato il proprio catalogo
(distribuito in esclusiva da Self) con la
pubblicazione di tre 7” rispettivamente
delle band Thee STP (Motherfuckin’
town), The Crooks (You make me feel so
sick) e Berenice beach (‘99). Nel 2004
la Tre Accordi Records ha realizzato
due importanti progetti: la registrazione
dell’ultimo album dei Valentines (Life
Stinks) con la produzione di Daniel Rey
(produttore newyorkese che ha lavorato
con artisti internazionali come Ramones,
Misfits, Hellacopters), e l’affiliazione
con la Polyester sas, il cui titolare Bruno
Chiodi è un noto promoter che opera
nell’area milanese da più di vent’anni
e organizzatore di centinaia di concerti
l’anno.
Ad oggi, il catalogo della Tre Accordi
include Domino, il nuovo lavoro dei Transex
e prossimamente Tito and the Brainsuckers
e la ristampa della discografia completa
dei Nabat.
Sito: www.treaccordi.com
Transex
Domino
Tre accordi records
Punk / *****
Il punk in italia: né più,
né meno. Nati dalle ceneri di Bingo
e Ufo Diktatorz (occorre aggiungere
altro?), dopo il tripudio “killed by
death” style dell’omonimo debutto, i
Transex vampirizzano il glam ’70 con
l’attitudine incompromissoria che già li
contraddistingueva: il ’77 che si fotte le
radici. Sboccato e seducente, moderno
e indispensabile per le vostre serate da
buttare via: una vitale orgia di Dead
Boys, Slaughter and the Dogs, Dictators,
Marc Bolan e bambole newyorkesi.
Una produzione compatta e quadrata.
Domino e Suicide inni da subito. Comprare
o morire. (S.C.)
The Valentines
Life Stinks
Tre accordi records
Rock / ***
Con Daniel Rey ai controlli
questi Valentines giungono al secondo
album per la Tre Accordi Records. La
produzione eccelsa del signor Rey (dai
Ramones, ovviamente, ai Misfits, dai
Gluecifer ai nostrani Senza Benza) giova
non poco ai quattro, che propongono
una miscela di Avengers, Social Distortion
e reminiscenze west coast dark-punk,
opportunamente tradotta in brani compatti
e veloci. Piace la vena ramonesiana e
pezzi come Listen dove la voce di Vale
Valentine ricorda da vicino quella di una
giovane Siouxsie, un po’ meno la sostanza
pop-core di numeri come Blue Job. Da
avere comunque. (S.C.)
17
SE LA LUNA
FOSSE DI PONGO
Intervista a Roberto Angelini
Roberto Angelini, cantautore pop che ha
scalato le classifiche di vendita grazie ad
una canzonetta estiva (Gattomatto, la
ricordate?), rischiava di essere risucchiato
dai meccanismi asfissianti delle major:
allora ha fatto marcia indietro, ha salutato
quelli che si consideravano proprietari
della sua musica, ha aperto uno studio
di registrazione e, con il violinista Rodrigo
D’Erasmo (già al fianco dei nostrani Nidi
D’Arac) ha dato vita a Pong Moon –
Sognando Nick Drake (Storie di Note), un
progetto a dir poco rischioso: rileggere
Nick Drake nella maniera più pedissequa
possibile per omaggiare, far conoscere e
finanche ricreare le atmosfere originali di
quelle canzoni indimenticabili. E intanto
lavora in totale indipendenza al suo
prossimo disco.
Come nasce l’idea di rileggere Drake
e soprattutto perché un musicista
che si è guadagnato classifiche e
apparizioni televisive decide di rischiare
autoproducendosi un disco come Pong
Moon? Cosa c’è dietro?
Dietro ci sono tante cose che provo a
sintetizzare. Anzitutto un paio di anni fa,
insieme ai miei amici musicisti, abbiamo
aperto uno studio di registrazione per
avere una libertà di movimento che
altrimenti era molto compressa. Quello
che mi è accaduto in questi ultimi anni
non mi è piaciuto… certo, se mi avessero
detto da ragazzino che i miei pezzi
sarebbero andati in radio oppure che
mia mamma mi avrebbe visto in tv, non ci
avrei creduto. Ma purtroppo ho scoperto
a mie spese che questo non corrisponde
propriamente alla felicità, per lo meno
alla mia idea di felicità. L’errore è stato
il mio, ma non stavo bene, non riuscivo
più a suonare. Ho provato a vestirmi da
sera per entrare in certi ambienti e poi,
quando ho rimesso la mia maglietta la
gente pretendeva che mi rivestissi da
sera. Io sono un musicista prima di essere
uno che scrive canzoni, e ho bisogno
di suonare. Per questo ho messo su lo
studio. Per quanto riguarda Nick Drake,
ho passato un lungo periodo totalmente
immerso nella sua musica, studiavo i suoi
pezzi, i giri, le accordature, per puro gusto
personale, attaccato allo stereo come
si fa da ragazzini, quando si tiran giù le
partiture delle canzoni direttamente dai
dischi. Ma lo stavo facendo senza secondi
fini, fin quando ho incontrato Rodrigo
D’Erasmo, che era più appassionato di
me, e in più suonava il violino. Ci siamo
detti, incontriamoci e proviamo a suonare
queste canzoni, dopo un po’ ci siamo
resi conto che era una bella cosa e che
nessuno lo aveva mai fatto prima, perché
rifare Drake arrangiato in altra maniera,
reinterpretandolo, dandogli un nuovo
sound, è quello che si fa generalmente
quando ci si accosta ad una cover. Noi
invece abbiamo lavorato da restauratori,
perché abbiamo voluto ricalcare proprio
le atmosfere di Drake, riproporre gli stessi
intrecci…
… E così facendo non temi di attirarti
critiche feroci?
Ti dirò, a me non è mai capitato di sentire
Drake risuonato alla stessa maniera,
forse perché aveva un modo di suonare
molto personale. Non sono canzoni
accessibili, non è Bob Dylan: prendi
le accordature o l’uso del capotasto,
sembrano fatti apposta per rendere la
vita impossibile a chi vuole riproporle.
Devo dirti la verità… grazie a internet ho
trovato un forum straniero che metteva
in contatto diversi musicisti alle prese
con le sue canzoni, e questo mi è stato
molto d’aiuto. Io e Rodrigo abbiamo
dunque accettato questa scommessa
che è anche un pretesto, se vuoi, per
suonare certe canzoni, farle conoscere
a chi non le conosce, e più in generale
ricreare quelle atmosfere. Inoltre Drake
ha suonato pochissimo dal vivo: fece
qualche concerto e poi si chiuse nel suo
isolamento. Ecco, noi vorremmo portare
in giro, per un’ora, quelle atmosfere, per
dimostrare tra l’altro la loro attualità a
trent’anni di distanza da quando sono
state composte. Nick è morto nello
sconforto più completo e noi, nel nostro
piccolo – anzi, piccolissimo - vogliamo
tributargli questo omaggio
Mi dici che ti piacerebbe suonare dal
vivo queste canzoni ma mi sembra di
capire che Pong Moon ve lo siete fatti più
che altro per voi stessi.
Si, decisamente. Abbiamo registrato un
disco nei nostri studi, abbiamo provato
a trovare qualcuno che ce lo distribuisse
e, te lo confesso, è stato come nei sogni
di bambino. È una soddisfazione che
non ho mai provato in quattro anni di
lavoro alla Virgin. Ho trent’anni, non
ne ho più ventidue: tutte le ferite che
mi sono procurato in quattro anni di
incomprensioni adesso me le rimargino
qui, da artigiano, con i miei amici. Non
voglio subire orride mutazioni genetiche
imposte da personaggi che vorrebbero
trasformarti in un oggetto. Ovvio, serve
una struttura che ti distribuisca il disco e
ti promuova ma sono fiducioso e credo
proprio che il mio prossimo lavoro solista
seguirà questa strada.
Ilario Galati
KeepCool
18
LA SICILIA HA IL PROFUMO DEL MONDO
Intervista a Cesare Basile
A quasi tre anni di distanza da Gran
Cavalere Elettrica il musicista catanese
Cesare Basile torna con Hellequin songs
(Mescal), il suo quinto album solista.
Hellequin è il re dei morti, un demone
medievale che assolda le anime dei
valorosi ma anche un antenato della
maschera di Arlecchino.
Si tratta di uno strano gioco di opposti, o
semplicemente di due approcci diversi
alla morte? Nel tuo nuovo disco la morte,
la consunzione, sono analizzate da
diverse prospettive, ce ne parli?
Si c’è un legame tra il personaggio
di Hellequin e Arlecchino, il costume
stesso di Arlecchino, i suoi tanti colori,
altro non sono che i pezzi delle divise
dei soldati caduti, di diverso colore
perché appartenenti a diversi eserciti,
il Carnevale in fondo è la celebrazione
della vita come della morte. Riguardo al
tema della morte, credo ci sia un bisogno
di instaurare un rapporto con la morte,
come con tutti gli eventi forti e non
ignorarli, come invece si tende a fare. La
morte è un evento inevitabile, ecco direi
che bisogna frequentare la morte.
La scrittura e la lettura sembrano ricoprire
un ruolo importante nella stesura dei
brani, quali sono gli autori che ti hanno
segnato?
È difficile dirlo con precisione perché sono
un lettore confusionario così come sono
un ascoltatore confusionario. Ti posso
dire cosa mi piace...Cechov, Céline,
Houellebeq, Bukowsky più umanamente
che letterariamente. Nel disco c’è una
canzone, Finito questo che è tratta da
una poesia di John Donne.
Ascoltando la tue canzoni si ha la netta
sensazione che musica e testi, presi
separatamente, si reggano da soli, che
ruolo hanno nel processo creativo?
In linea di massima parto dalla musica, mi
creo un canovaccio, più che altro ritmico
su cui poi modello e adatto i testi. A volte
mi succede di prendere cose che ho già
scritto...
La tua attitudine è rock, anche grazie
alle numerose collaborazioni e agli ospiti
il tuo disco ha il profumo della Sicilia
e del mondo, alcuni ti definiscono un
cantautore ma non credo sia un’etichetta
che ti si addica, è complesso spiegarti...
ci aiuti.
Innanzitutto ti ringrazio, tutti si ostinano
a definirmi un cantautore ma non mi
riconosco in questa definizione. Si la mia
attitudine è rock ed è vero anche che
nella mia musica c’è il mediterraneo e
il mondo... fa parte della mia crescita.
Attraverso i miei viaggi, le collaborazioni,
il mio gusto musicale, che è indirizzato
verso il song writing americano, quello
che mi appartiene, che fa parte delle
mie origini ha acquistato un respiro
internazionale.
Noto con piacere che hai prodotto a uno
dei dischi più belli che girano nella mia
casa in questo momento (Songs for Ulan),
ci parli un po’ di questa collaborazione?
Pietro (Songs for Ulan) è come un fratello,
avevamo già collaborato in passato,
ci conosciamo da un sacco di tempo.
Dopo una esperienza disastrosa con
una major, Pietro si è dedicato a quello
che gli piaceva veramente. Un giorno è
venuto con le sue canzoni, mi sono subito
piaciute e abbiamo registrato in poco
più di una settimana. Il nuovo album
mantiene la sua attitudine folk ma ha
anche momenti più dirompenti, rock.
Presto in tour con John Parish, com’è nato
il tuo rapporto (ormai consolidato) con
lui?
In maniera assolutamente fortuita. Un
giorno una mia amica giornalista mi
chiese con chi mi sarebbe piaciuto
registrare il mio disco. Io feci il suo nome
e lei casualmente aveva i suoi contatti,
gli ho scritto e spedito il mio materiale, ci
siamo incontrati a Roma e poi in studio
insieme, l’amicizia, fino al tour insieme.
Ormai fa parte della famiglia del rock
italiano come un po’ tutta la gente che
è coinvolta nel disco.
Osvaldo Piliego
KeepCool
IT CAME
FROM THE
UNDERGROUND
19
PARTE ALLO ZENZEROCLUB
DI BARI “BLANK
GENERATION”, LA RASSEGNA
CHE COMMEMORA
IL TRENTESIMO
ANNIVERSARIO
DELLA NEW WAVE
Per quei quattro caproni montanari
senza i-pod, internet, laptop, tv, radio,
telefono,
jukebox,
commodore
e
grammofono, senza mp3, cd, mc, floppy,
vhs, super8, flexidisc, betamax, 33, 45,
78 giri, che ancora non se ne fossero
accorti, faccio presente che da alcuni
anni (troppi) il revival degli anni ’80 sta
vivendo un florido periodo di fermento
socio-commerciale che ha permesso
a zombie, vecchi rottami, meteore,
parassiti, cani e porci di ogni angolo del
mondo dell’intrattenimento di rifarsi vivi,
di resuscitare, di tornare alla ribalta. Per
quanto mi riguarda, i due eventi che
mi fecero avvertire del pericolo furono
la masterizzazione della compilation
Futurism - che raccoglieva i singoli della
nuova scena elettroclash, una musica
dichiaratamente figlia dell’eighty-sound
- (vi anticipo a tal proposito che il 3 marzo
allo Zenzero ci saranno le Client, una tra
le più efficaci formazioni elettroclash)
prestatami da un amico; e la visione,
sempre a casa dello stesso tipo, del
programma di Amanda Lear dedicato
al famigerato decennio (che poi era
quasi un ventennio: dalla fine dei ’70 a
i primi dei ’90). Tuttavia, se sulle prime,
il fenomeno, almeno musicalmente, si
stava sviluppando a livello underground,
il che significa che possedeva un che di
fresco e innovativo (rifacendosi all’idea
di innocenza, ingenuità, emancipazione
e libertà concettuale, creativa ed
espressiva propria dell’originaria scena
punk - new wave attiva a cavallo dei
’70 e gli ’80), la rapida acquisizione,
da parte dell’intellighentia delle major
discografiche, delle case di moda e
delle televisioni di tutto il mondo, dei temi
e dei caratteri del nuovo movimento
(standardizzandoli e replicandoli in tutte
le salse) ha portato ad una riedizione di
quel macabro episodio avvenuto a metà
degli ’80 in cui l’innocenza si tramutò
in impunità, l’ingenuità in scemitudine,
l’emancipazione in effeminatezza, la
libertà in immoralità: oggi come allora,
siamo costretti a sorbirci un intollerabile
abuso
di
frivolezza,
frufrullaggine
spacciata per arte, moda, innovazione,
buon gusto, cool-eria. Tuttavia, se
l’esaltazione dell’immagine superficiale,
della stravaganza estetica, il monopolio
della leggerezza intellettuale, negli anni
’80, erano esplosi in quanto risposta
all’esasperazione ideologica e politica
della gioventù dei ’70, oggi questa
tendenza è completamente priva di ogni
giustificazione se non spudoratamente
commerciale; puzza di finto, inutile,
fasullo: la vacuità di questi giorni è più
insensata di quella degli anni ’80.
Ora, come sono arrivato fin qui non lo so,
ma il punto è che dal 3 febbraio 2006,
cioè esattamente (vabbhè, senza stare
a contare proprio i giorni….) a trent’anni
dalla data (1976) che usualmente va
a segnare l’inizio di quella innovativa
ondata socio-culturale che è passata,
prima sotto il nome di punk, ma poi, per
eterogeneità di stili, concetti, caratteri,
geografie, sviluppi, venne denominata
col più generico nome di “new wave”,
partirà una rassegna che omaggia
questo
importante
anniversario.
Tale
manifestazione,
patrocinata
dall’Assessorato alla Cultura di Bari, ha il
merito di puntare il dito su quelle realtà
che rappresentarono a loro tempo
lo spirito originario del movimento.
Ancor più interessante è l’aver saputo
raccogliere i rappresentanti illustri delle
tre più importanti scene della new wave:
Berlino, New York e Londra. Questi i
nomi, e che nomi: Alexander Hacke
alias Alexander Von Borsig, chitarrista dei
geniali Einsturzende Neubauten (venerdì
3 febbraio), Martin Rev (venerdì 10
febbraio) dei seminali Suicide (pazzesco),
e, per concludere allegramente, i
devastanti Uk Subs (sabato 18), la storica
band del “godfather of punk” Charlie
Harper.
Roba grossa dunque, gente i cui nomi li
trovi puntualmente su qualsiasi enciclopedia musicale, anche la più abbattuta.
Non starò qui a spender chiacchiere inutili su chi siano e cosa hanno fatto i suddetti, andatevelo a leggere da qualche
altra parte (se volete andate direttamente sul sito www.zenzeroclub.it e troverete
le schede sulla rassegna). Ciò che è importante qui è sottolineare che un tale
evento ci offre la possibilità di affrontare
il recupero degli anni ’80 in una maniera
più civile e sensata, cercando di scoprire
(o riscoprire) come tutto ciò che oggi ci
viene propinato sia in realtà una degenerazione dell’opera creativa di questi
grandi personaggi del passato che agirono dal basso dando però una spinta
creativa a tutto il mondo culturale, sociale, economico e dell’intrattenimento.
Partecipare a questo evento commemorativo è di certo utile per tentare di salvare le nostre povere anime dannate da
questo inferno odierno di pura demenza.
Altrimenti tenetevi zenzerology anni ’80.
A voi la scelta.
Gennaro Azzollini
KeepCool
20
STEFANO BOLLANI
(IL VIRTUOSO ECLETTICO)
Da tempo, nei confronti di Stefano Bollani,
si sprecano elogi, ammirazioni, osanna e
apologie. Senza alcun torto, dal momento
che Bollani, pianista jazz di rara bravura,
ha saputo coniugare l’abilità tecnica e
una simpatia irresistibile, riversandole negli
ambiti artistici più vari. Il suo eccezionale
talento, la sua pazzia, la sua vulcanica
creatività, la sua smisurata ironia sono così
coinvolgenti che nessuno (né il critico né
tanto meno il fan) riesce a contestargli
il suo impareggiabile eclettismo. E ciò
nonostante, Bollani continua a rivendicare
le sue idee e il suo diritto a sfoggiare mille
facce, forse perché, in fondo, non ha
ancora deciso cosa vuole fare nella vita.
Dal Pop al Jazz, dall’orchestra sinfonica a
un’originale forma di canzone, di teatro
e di letteratura. Qual è, se esiste, il filo
conduttore della tua carriera?
Il filo conduttore c’è ma all’esterno,
purtroppo, è poco visibile. Per quel che
mi riguarda io credo che sia la voglia
di sperimentare sempre cose nuove, di
giocare, di divertirsi. Poi, naturalmente,
mi rendo conto che invece all’esterno
possa sembrare che Bollani continua
a confondere le carte e magari che lo
faccia anche apposta per stupire, ma di
fatto lo faccio per stupire me stesso.
E come si influenzano l’un l’altro i tuoi
campi d’interesse?
Guarda, ne parlavamo oggi con Paolo
Silvestri (arrangiatore e direttore di
Concertone, n.d.r.). Lui mi diceva - credo
che fosse un complimento, o comunque
lo spero - che io ho un approccio teatrale
nel mio modo di suonare il pianoforte, o
di comporre. Cioè, lui ha l’impressione
che i miei temi siano dei personaggi e che
quindi si sviluppino in questo senso. A me
piace molto questa idea: l’idea che tu stia
in qualche modo narrando una storia. E la
grandezza della musica è che può farlo
senza parole, e che quindi sia talmente
imprecisa da consentire a ognuno di
vederci una storia diversa.
Per i tuoi dischi hai utilizzato melodie
italiane e melodie scandinave. Cosa c’è
di te nelle due tradizioni?
A me piace la musica che mi piace.
C’erano delle melodie scandinave che
mi sono piaciute e le ho incise. È lo stesso
per quelle italiane, anche se ovviamente
ci sono più legato emotivamente. Questo
per dire che Abbassa la tua radio, ad
esempio, non era una presa di posizione
per affermare che le canzoni italiane sono
belle quanto quelle americane e quindi le
dobbiamo suonare. Non le “dobbiamo”
suonare: se ci va, lo
facciamo. Ci sono delle
canzoni italiane, come
Ma l’amore no, che
sono meglio di molte
canzoni
americane.
Ci sono altre canzoni
italiane che non lo
sono, come Il pinguino
innamorato, che io ho
inciso per motivi affettivi
e per giocarci insieme
con altri musicisti. Ma
non è una presa di
posizione:
cerco
di
suonare musica bella
Come pianista rappresenti un caso un po’
anomalo, perché la
televisione ti concede
diversi spazi. Hai partecipato agli show di
Renzo Arbore, sei stato ospite della Dandini
con la Banda Osiris e ti
è stata dedicata un’intera puntata di Cervelloni d’Italia. Come vivi
questa anomalia, può
essere un ostacolo alla
tua creatività?
Ovviamente no! A me
piace la televisione se ti
dà la possibilità di essere
te stesso. Se invece,
come quasi sempre accade, ti mangia, ti
fagocita, ti obbliga a fare cose diverse da
quelle che sai fare, allora me ne tengo ben
lontano. E onestamente in questo periodo
mi sembra che l’unica cosa possibile sia
tenersene lontani. Io ho fatto il programma
di Arbore perché era una specie di zoo,
in cui era possibile ancora suonare un
pianoforte, o scherzare e ridere senza per
questo dire delle cose stupide. Mi hanno
intervistato per Cervelloni d’Italia perché
era il programma culturale di Raitre ma per
il resto è molto difficile che io possa essere
ospite di qualche programma televisivo
per come va la tivù oggi.
Ti faccio un breve gioco, Stefano, io
nomino due opposti e tu mi esprimi una
preferenza. Piano Solo o Concertone?
Un po’ uno e un po’ l’altro. Una sera uno e
una sera l’altro
Istinto o ragione?
Tutti e due. Mi stai fregando.
Puoi anche articolare la risposta. Ironia o
serietà?
Ah, ironia in maniera molto seria.
Stefano Benni o Daniel Pennac?
Difficile. Stefano Benni perché lo conosco.
Pennac non lo conosco e quindi non si
offende.
Insegnare o fare concerti?
Fare concerti, purtroppo. Direi di sì.
Comporre musica o scrivere libri?
Beh, decisamente comporre musica.
Professione o amicizia?
Cosa vuol dire questa domanda?
Preferisci suonare con amici o preferisci
suonare per professione?
Anche qui preferisco suonare con amici
professionisti. Io ho inventato il nuovo
quintetto in cui ho la fortuna di avere il
mio ex-compagno di banco, un altro mio
compagno di conservatorio all’epoca,
per potermi divertire anche fuori dal
palco. Ma perché so che quando un
gruppo funziona umanamente, funziona
anche musicalmente. Detto ciò, se loro
non fossero quei grandi musicisti che
sono, o che io reputo essere, non li avrei
chiamati, per cui non basta essere amici,
naturalmente.
Gianpaolo Chiriacò
Giovedì 16 febbraio Stefano Bollani
torna al Teatro Politeama Greco
di Lecce con Primo piano, un
divertente
viaggio
musical-teatrale.
In scena la Banda Osiris racconta vita,
opere, missioni, omissioni e morte di
Bollani, il “Maradona del pianoforte”,
come è stato definito da alcuni critici.
Sipario ore 20.45. Poltronissime e I ordine:
€ 20,00. Poltrone e II ordine: € 17,00.
Ridotto poltrone e II ordine: € 10,00
KeepCool
21
GIOVANNI
ALLEVI
(O DEL POTERE DELLA TV)
Sono bastati sei secondi di musica per
Il senso della vita di Paolo Bonolis per
rilanciare il nome di Giovanni Allevi nel
convulso mondo dei media. Potere
della televisione. Se poi sarà vera gloria
o il classico quarto d’ora di celebrità è
tutto da dimostrare. Allevi ha composto
la musica del suo nuovo album per solo
piano, No Concept (BMG Ricordi), a New
York durante l’estate del 2004. Un passo
importante, per un musicista che si muove
dalla musica classica - è diplomato in
pianoforte e composizione oltre ad essere
laureato in filosofia - e vuole approdare
a una forma vicina a quella del pop.
Finora era conosciuto al grande pubblico
soprattutto per aver aperto i concerti del
tour dell’Albero di Jovanotti, ma Allevi è
letteralmente immerso nella musica fin
da quando, bambino, eludeva i divieti
del padre clarinettista e insegnante e
ascoltava per ore la Turandot di Puccini.
Partiamo dalla frase che si legge nel
libretto del suo cd: “Stiamo tornando nel
Rinascimento italiano, dove l’artista deve
essere un po’ filosofo, un po’ inventore, un
po’ folle, deve uscire dalla torre d’avorio
e avvicinarsi al sentire comune”. Ne è
veramente convinto?
Prima di tutto l’atmosfera rinascimentale
la sento fortissima dentro di me e
quindi finisco per vedere ciò che mi
circonda condizionato da quello che
sento. Lo cerco, il nuovo Rinascimento.
È sicuramente un’utopia, però voglio
pensare così, altrimenti si soffoca.
Lei, che non è un uomo medio ma un
artista, è in fondo un privilegiato. Ha uno
strumento in più per far sì che questo
accada.
L’uomo medio, fruendo dell’opera d’arte,
può però condividere lo stesso spirito. Per
questo voglio che l’arte torni ad avvicinarsi
al sentire comune. E al tempo stesso è
nell’ascoltatore, chiunque esso sia, che
l’opera d’arte si realizza, non nell’artista.
Questo spiega anche la sua scelta di
campo: lei, come pochi altri musicisti
provenienti dalla musica alta, usa mezzi
propri alla musica pop, dalla veste grafica
del cd all’uso della promozione.
Tutto quello che dice mi lusinga, perché
mi sento molto contemporaneo. In realtà
sono figlio di questo tempo, pur essendo
nell’anima fermo ai primi del 900, un
periodo che trovo straordinario per il
lavoro di compositori come Debussy,
Ravel o Rachmaninoff. Oggi l’artista deve
avere a che fare con la comunicazione,
con l’immagine, con tutti gli aspetti che
sono tipici di questo tempo frenetico.
Il suo aggancio ai primi del 900 mi fa venire
in mente un episodio della sua biografia:
l’ascolto ripetuto e segreto della Turandot
di Giacomo Puccini quando lei aveva
appena nove anni. Di solito i genitori
impongono ai figli lo studio, ma sembra
che suo padre, che era un musicista,
volesse invece impedirle di seguire la sua
stessa strada.
Il pianoforte me l’avevano chiuso a
chiave e io avevo accesso ai dischi e al
pianoforte soltanto quando a casa non
c’era nessuno. Effettivamente, tornando
indietro con la memoria, mi rendo conto
di aver vissuto una situazione assurda
e assolutamente inconsueta. Ascoltare
la Turandot tutti i giorni è veramente un
gesto folle. Anche se paradossalmente
solo a quell’età si può fare qualcosa del
genere. Quando si vive in un mondo
incantato dove gli oggetti sono animati
e dove la musica ti trasporta verso realtà
ulteriori. Sono grato a quel momento, a
quel Giovanni che sul divano ascoltava la
Turandot e che ha assorbito una quantità
incredibile di musica.
Forse la mia è un’impressione un po’
superficiale, ma nella sua musica non
sento molto la presenza del jazz.
Infatti. E questo risponde a una mia
volontà. Voglio ribadire la mia identità
europea e italiana. Il jazz non fa parte della
nostra cultura se non di riflesso. Nel mio cd,
che vuole essere la mia immagine che
va in giro per il mondo, voglio affermare
quanto di più bello c’è nella profondità e
nella spiritualità europea ed italiana. E in
questo caso non c’è il jazz. L’unico brano
che si avvicina al sentire jazz è Qui danza,
ma in realtà lì il jazz è un pretesto perché
di fatto si tratta di un gioco ritmico fra
tre piani differenti, quello della linea del
basso, quello dell’armonia e quello di una
piccola melodia minimale, che girano e
danzano insieme.
Ascoltando il suo disco mi chiedevo come
potrebbero suonare i suoi brani riscritti per
un’orchestra a pieno organico. Ci ha mai
pensato?
Sì. Ho scritto già due concerti per pianoforte
e orchestra che non sono stati ancora
eseguiti. Tuttavia la presenza di altri timbri
va a modificare la struttura musicale e
quindi brani che ho scritto per pianoforte
solo difficilmente, almeno nella mia mente,
possono essere riproposti per pianoforte e
orchestra. Con la presenza di altri timbri,
mi piace che il discorso musicale prenda
altre strade. In ogni caso, a seguito della
recente tournée che ho fatto in Cina, mi
è stata commissionata una composizione
per pianoforte e orchestra in cui elementi
cinesi ed europei possano giocare e
interagire e mi sto dedicando a questo
nuovo progetto.
Giancarlo Susanna
KeepCool
22
LA DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA DI FABRIZIO DE ANDRE’
“[...]Tutto questo per dire che io non ho
nessuna verità assoluta in cui credere, che
non ho nessuna certezza in tasca e quindi
non la posso neanche regalare a nessuno. Va
già molto bene se riesco a regalarvi qualche
emozione.”
(Fabrizio De Andrè)
Trent’anni di musica e storie, cantate e
vissute In direzione ostinata e contraria.
È uno scrigno, più che un cofanetto,
la raccolta, ufficiale ed emozionale,
di Fabrizio De Andrè. Ufficiale ed
emozionale perché a scegliere i 54 brani
sono stati Dori Ghezzi, suo amore e sua
compagna per venticinque anni, con
l’aiuto tecnico, e non solo, di Giampiero
Reverberi, amico di Fabrizio De André
nonché arrangiatore dei suoi sei album
e punto di riferimento di almeno un paio
di generazioni di musicisti genovesi. Non
una semplice raccolta quindi, ma un
percorso a tappe, cercate e volute,
attraverso tutta l’opera “deandreiana”
(aggettivo ormai di uso comune, da
recensori e cultori); dagli esordi giovanili,
culturali, romantici, anarchici e goliardici,
in poi, fino alle smisurate preghiere di fine
millennio.
Brani pescati nel mare della discografia
del cantautore, incasellati in una raccolta
fondamentale, ed eccezionale. La prima,
è da dire, dal gennaio del 1999, data della
sua morte. Brani scelti a rappresentare sì
ogni album e periodo, ma ulteriormente
selezionati tra le tante versioni esistenti,
tutti scelti e de-masterizzati. Procedimento
tecnico questo, che più o meno consiste
nella pulitura, nella rimozione dei vari
strati di equalizzazioni e altri accorgimenti
digitali che si erano accatastati nel corso
degli anni, e delle ristampe. Una sorta di
recupero dei suoni originali e, soprattutto,
della voce di Fabrizio De Andrè, che
emerge nelle tracce in maniera pura, e
in tutto il suo (in)canto.
Voce vera, e arrangiamenti autentici, ottenuti recuperando i master originali, poi
restaurati con gli strumenti a disposizione
negli anni di pubblicazione delle singole
opere. Un’operazione complessa, portata poi su digitale per la realizzazione dello
“scrigno”, e che ne rafforza la sua valenza culturale. Già pregiata di per sé, per il
suo contenuto, per le singole perle dei tre
cd. Dalla.... prima del primo, la vecchia
e incantevole ballata Amore che vieni
amore che vai, alla penultima del terzo,
quella Smisurata Preghiera che contiene
il verso che dà il titolo al cofanetto, e che
rappresenta la perfetta sintesi della personalità di Fabrizio De Andrè, della sua
carriera artistica, e quindi del suo percorso umano. Ultima canzone è invece un
inedito, Cose che dimentico, brano cantato con il figlio Cristiano; una delle tre
“rarità” inserite nel
cofanetto, insieme
a Titti e Una storia
sbagliata,
vecchi
singoli, mai usciti su
cd.
Corsivo
...Ma la mia canzone preferita di Fabrizio De Andrè è Se ti
tagliassero a pezzetti! La traccia numero 3, del terzo cd.
Finita la distaccata
descrizione del cofanetto, non mi resta che continuare
così, banalmente e
un po’ da fan, questo mio intervento
coolclubbino
sul
cantautore genovese. Inizio banale,
che è forse più un
ultimo tentativo per
rompere l’impasse
derivante
proprio
dal fatto di... non
sapere che scrivere,
di mio. Mi capita di
trovarmi davanti ad
una prateria così
grande di emozioni,
che sceglierne una
e, per giunta, doverla poi (de)scrivere,
diventa assai complicato. È un po’ come
andare volontario ad un’interrogazione,
preparatissimo su tutto, ma non saper rispondere ad una domanda a piacere.
Amo Se ti tagliassero a pezzetti poiché
è la canzone in cui io, e non so perché,
incontro un po’ tutto quel Fabrizio De
Andrè che negli ultimi dieci anni, in un
modo o nell’altro, si è ritrovato molto
spesso ispiratore, dirottatore, o salutare
annientatore di molte mie emozioni.
E usare la parola emozioni per due volte in pochi righi è cosa grave, quando si
cerca di incanalare il pensiero, la tastiera
e poi la scrittura verso più razionali discorsi, o “pareri”.
Quello sulla sua voce per esempio; così
unica, tanto bella e familiare da... sentirla
un po’ tua.
Sulle sue parole, le tante cantate e quelle parlate. Che, in un modo o nell’altro,
hanno l’incredibile capacità di avvolge-
re di umanità ogni cosa, ogni argomento,
evento, storia o personaggio. Di prenderlo, curarlo, proteggerlo, ripulirlo, per poi
raccontarlo. O narrarlo. E con una assoluta limpidezza di parole, toni e sguardi,
che rende impossibile l’immaginazione
di altri modi di raccontare lo stesso argomento, evento, storia o personaggio.
Sulla sua musica, un tramite assoluto,
che unisce sempre alla perfezione le sue
parole alla sua voce, o viceversa. O che
forse sono un tutt’uno, inscindibile.
Sul suo mondo, così vitale ed estremamente contemporaneo, sempre, sui suoi
luoghi e personaggi, tutti così “scandalosamente belli”, che non perdono dignità
neanche di fronte alle più stucchevoli
descrizioni, o ad ampollosi e retorici cavilli
e ricordi (...tipo questi); personaggi così
grandi da riuscire a donarsi e ad appartenere per sempre, ognuno a tutti. Se si
tagliassero a pezzetti.
Dario Quarta
Coolibrì
Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale
23
la letteratura secondo coolcub
Krautrocksampler
Julian Cope
Lain
*****
Ci sono personaggi nella storia della musica
cheriesconoasuperarsi,aoltrepassareporte
e confini lasciando tracce indelebili su tutti i
sentieri intrapresi e percorsi. Julian Cope è
decisamente uno di questi. La sua carriera
artistica comincia alla fine degli anni ’70 in
quel di Liverpool alla guida dei Teardrop
Explodes. I dischi di questa band sono una
bomba che irrompe nella new wave degli
anni ’80 deflagrando e contaminando
con un trasversalità musicale che sarà tra
le caratteristiche principali del percorso
solista di Julian. Di fronte a un uomo come
Julian Cope si può parlare di genialità e
follia senza remore. Eclettico, febbrile nelle
sue passioni, visionario e sciamano ci ha
lasciato dischi memorabili come Fried del
1984 (solo per citarne uno) capolavoro
del rock pop psichedelico. A quella per la
musica ha associato ultimamente la sua
passione per le civiltà preistoriche, studi
a cui si è dedicato approfonditamente
e che ha pubblicato. Ma tra le sue varie
pubblicazioni (ricordiamo anche una sua
autobiografia pubblicata recentemente
sempre da Lain) oggi viene ripubblicato,
quello che da molti è considerato un
testo fondamentale: Krautrocksampler.
Pubblicato la prima volta in Inghilterra nel
1995 Krautrocksampler è un libro in cui tutto
l’entusiasmo, la passione mai nascosta
per la musica tedesca degli anni ’70, le
basi del Krautrock, la cosiddetta musica
cosmica investono il lettore fin dalla prima
pagina. Un periodo misconosciuto ma
importantissimo che ha messo le basi per
quelli che saranno stati gli sviluppi del punk
’77, che ha influenzato il Bowie di Low, che
ha i suoi legami con la musica colta, con
Stockhausen, il suo contatto con l’arte (i
Tangerine Dream che incontrano Salvador
Dalì).
Il tutto è scritto con una vitalità incredibile,
senza possibilità di appello alle più estreme
delle prese di posizione. Solo nella dedica
si può già leggere: “...quando attorno a
noi c’erano altro che le seghe a vuoto
di Emerson lake & Palmer, la spiritualità
fonata degli Yes e il peggio del peggio in
assoluto: i mantra da soggiorno dei Pink
Floyd di Dark side of the moon. Il lettore
è avvertito fin dall’inizio. Dentro ci sono
le ricostruzioni minuziose delle carriere
di gruppi come Tangerine Dream, Neu!,
Can e altre comete (è proprio il caso di
dirlo quando si parla di musica cosmica).
In appendice una Top 50 dei dischi più
significativi con tanto di recensione. Un
libro dalla scrittura quasi feroce, veloce,
intrigante come un romanzo pur essendo
una guida. Consigliato ad appassionati,
curiosi e distratti.
Osvaldo Piliego
Coolibrì
24
Wig Wag
Alessandra Vaccari
Marsilio
***
In un periodo in cui ci
si potrebbe vergognare di appartenenze e
vessilli, in un momento
storico caldo esiste un
modo nuovo, diverso
di vedere l’oggetto bandiera. Decontestualizzato secondo un approccio
postmoderno la bandiera perde il suo
significato politico e si presta alla moda.
Indossare le bandiere è un atto ambiguo,
può essere orgogliosamente patriottico
o palesemente dissacratorio. Non solo
la moda ma anche l’iconografia della
musica ha attinto dalle bandiere (basta
pensare alla copertina di My Generation
degli Who o alla famosissima Union Jack
stuprata dai Sex Pistols). Bandiere e simboli politici si fondono e si affollano sui
giubbotti dei gruppi punk, la simbologia
nazista ricompare come simbolo antimilitarista. E poi la moda e il suo approccio giocoso, a volte provocatorio con le
bandiere fino all’arte e alla sua derisoria
denuncia (Jota Castro). Un saggio che
cattura e incuriosisce, pieno di spunti fa
luce su messaggi che a volte arrivano
dalle sorgenti più disparate e sui quali raramente ci si interroga veramente.
Osvaldo Piliego
Sabato
Ian McEwan
Einaudi
****
Henry
Perone
è
un
neurochirurgo
affermato, un marito
felice - uno dei pochi
uomini
ad
aver
sposato la donna che
ama - ed un padre orgoglioso del talento
dei suoi due figli, il chitarrista Theo e la
poetessa Daisy. Sua moglie è il legale di
un importante tabloid, suo suocero un
sommo poeta. Il 15 febbraio del 2003,
mentre milioni di persone scendono nelle
piazze di mezzo mondo, Henry assiste con
passività al tumulto della massa che dice
no alla guerra. Ha le sue idee, i suoi dubbi,
ma si sente quasi deresponsabilizzato:
adotta un atteggiamento cauto di fronte
all’imminenza pacifista della giovane
figlia, ed è invece più battagliero di fronte
alla posizione interventista del suo collega
statunitense. Ma la felicità rischia di essere
cancellata da un incontro casuale che si
rivelerà un incubo capace di offuscare
le mille certezze della vita borghese.
Con il suo undicesimo romanzo McEwan
ci porta nelle sale operatorie dove i
cervelli e le membra umane vengono
messe a nudo e se anche la parte meno
convincente risulta essere proprio la
riflessione sull’opportunità dell’intervento
militare in Iraq, terribilmente superata dagli
eventi di questi ultimi due anni (verranno
trovate le armi di distruzione di massa?
I terroristi colpiranno Londra? si chiede
Henry), lo scrittore inglese intesse una
storia rigorosa che esalta la pratica del
dubbio e scava in profondità nell’animo
dei suoi personaggi regalando pagine di
letteratura densa e coinvolgente.
Ilario Galati
Pecore nere - racconti
Gabriella Kuruvilla, Ingy Mubiayi,
Igiaba Scego, Laila Wadia
Editori Laterza
****
Nascono a il Cairo o a Bombay o piuttosto
a Milano, o Trieste ma da genitori somali o
indiani. Tutte e quattro comunque vivono
oggi in Italia. Studiando, lavorando,
dipingendo, e scrivendo, per professione
o per caso. Affrontano la vita con grinta,
determinazione, con passione, col sorriso.
Momenti difficili di integrazione, episodi
spiacevoli e difficoltà burocratiche a
parte, sono felici di essere dove sono.
E in questo libro ce ne danno prova. Ci
offrono uno scorcio delle loro giornate,
tra il pensiero e il rimpianto, forte o meno,
per la terra d’origine e l’amore -forse più
forte del rimpianto - per la loro nuova
patria. Alcune di loro sognano di tornare
un giorno a visitare i luoghi della nascita,
altre vi son tornate ma sono scappate via
spaventate per la diversità di cultura, di
modi, di mentalità. E adesso amano la
pizza ancor più del pollo al curry, ridono
e si commuovono di fronte alla faccia
di Sordi, leggono Enrico Brizzi e sanno a
memoria pezzi di Jack Frusciante. E per il
resto sono esattamente come ogni donna
è. Sentimenti contrastanti, paranoie, mille
cose per la testa, ambizioni. E forse anche
qualcosa in più.
Valentina Cataldo
L’onda del porto
Emanuele Trevi
Laterza
****
Con L’onda del porto,
pubblicato
nella
collana Contromano
della casa editrice
Laterza,
Emanuele
Trevi, scrittore e critico
romano, continua il
suo percorso creativo,
cominciato con I cani
del nulla del 2003, edito
da Einaudi, e proseguito,
lo scorso anno, con la pubblicazione
di Senza verso, uscito anch’esso con
Laterza. Un tratto sostanziale della prosa
di Trevi è il suo rifiuto dell’attuale culto
del romanzo, del genere e di tutta la
ostentazione massimalista legata alla
narrativa contemporanea. Nelle pagine
di Trevi a dominare è la vita dell’autore
tout court. Si tratta di autobiografismo allo
stato puro, che non eccede nei dettagli
di vita vissuta, ma che ama sostanziarsi
della presenza di vuoti narrati, di pulsioni
ellittiche di senso, di interstizi inutili che
nelle parole di Trevi acquistano dignità di
senso. L’onda del porto (il titolo traduce il
termine giapponese tsunami) è la storia
di uno scrittore romano in crisi creativa
che lascia una Roma piovosa e gelida
per una vacanza in India programmata
prima della strage del 26 dicembre 2004.
La prima tappa del suo viaggio è Mullur,
un posto davvero poco interessante.
Mentre i giorni passano, però, quello
che deve essere la prima tappa del
suo viaggio inizia a trattenerlo, come
se fosse dotata di una volontà propria
e di un progetto nei suoi confronti.
Incontra Vijesh e Vinosh, due ragazzini
che gli si fanno incontro e con i quali
stringe amicizia, che lo conducono nei
posti più impensabili di Mullur e che gli
presentano Neema, una donna italiana
che dirige, assieme a J.P., un uomo del
posto, una scuola per bambini di strada.
Molto significativo questo passaggio: “Si
concentrò in particolare sulla mancanza
di argomenti, sulla mancanza di interesse
che gli suscitava il mondo, fino a poco
tempo prima così amato, e così ricco,
ai suoi occhi, di tesori innumerevoli.
Ome se anche la sua vita, aggiunse
indicando le prime luci delle barche
che si accendevano all’orizzonte, fosse
stata investita da una specie di tsunami,
che ritirandosi avesse scoperto non più
le cose che c’erano prima, ma il loro
impasto schiacciato ed informe”. Ma
è proprio l’incontro con Vijesh e Vinosh,
le ore passate a dialogare con Neema,
a determinare nell’autore un minimo
smottamento interiore, una sorta di
carsica messa in discussione del nulla
che sino a quel momento domina la sua
vita. Il finale è lirico e struggente, con lo
scrittore e Neema che comprano una
tartaruga da un pescatore pur di liberarla
e di evitarne l’uccisione. Uno spiraglio di
speranza in un testo carico di dolore e
pessimismo.
Rossano Astremo
Pratiche costituenti
a cura di Marco Berlinguer e Mauro
Trotta
DeriveApprodi
***
I docenti universitari
Peter
Waterman,
Heikki
Patomaki,
Simon Tormey, Mario
Candeias,
alcuni
fondatori del World
Social
Forum,
Toni
Negri,
il
segretario
di
Rifondazione
Comunista
Fausto
Bertinotti sono solo
alcuni degli autori di
questo interessante volume pubblicato
dalla DeriveApprodi. Pratiche Costituenti.
Spazi, reti, appartenenze: le politiche dei
movimenti (a cura di Marco Berlinguer
e Mauro Trotta) indaga attraverso
numerosi saggi, tutti inediti in Italia,
il mondo frastagliato (poco battuto
dalla saggistica nel nostro paese) dei
movimenti. Non però le solite chiacchiere
da bar su globalizzazione e nuove forme
di democrazia ma una attenta analisi (o
meglio varie attente analisi) su regole e
prospettive, sull’embrionale “emergere di
Coolibrì
una nuova soggettività ribelle, nebulosa,
mutevole, multiduninaria e il suo faticoso
costruirsi dell’inattualità delle forme della
politica moderna”. Un ottimo strumento
per approfondire.
I Settanta. Gli anni che
cambiarono l’Italia
Luca Pollini
Bevivino Editore
****
È difficile condensare
un decennio di politica, cronaca, sport,
moda, televisione, giornali, curiosità in circa
300 pagine? No, non è
difficile: è praticamente impossibile. Eppure
la Bevivino, giovane
casa editrice milanese, pubblica coraggiosamente questo volume curato da
Luca Pollini e impreziosito dalla prefazione del sociologo Alberto Abruzzese.
L’autore stesso spiega bene il senso editoriale di un libro che vuole soltanto “raccontare la storia di quegli anni attraverso
un’opera (neanche tanto minuziosa) di
archeologia culturale e giornalistica”.
Molta parte del libro è dedicata alla politica, e come poteva essere altrimenti vista l’eredità del decennio precedente e
le evoluzioni “violente” degli anni ’70 tra
brigate rosse e stragi di stato, bombe fasciste e processi farsa. Ma, come detto,
Pollini racconta, in maniera asciutta ma
con dovizia di particolari, anche i casi
di cronaca più eclatanti (dal Circeo a
Vallanzasca), la nascita dell’impero berlusconiano, le vittorie di Panatta e della
Juve di Trapattoni. Non un punto di arrivo
ma un valido punto di partenza per indagare ulteriormente su fatti e personaggi
sul decennio del compromesso storico.
Come dice Pollini: “non importa se i nostri
sogni, se la nostra fantasia non è andata
al potere…perché le emozioni di questi
anni, a noi che li abbiamo vissuti, non ce
le potrà togliere nessuno”.
L’uomo del sertao
Hugo Pratt
Lizard edizioni
****
Nato il 15 giugno 1927
su una spiaggia vicinissima a Rimini, Hugo Pratt
è uno dei maestri indiscussi del fumetto moderno, il suo personaggio più famoso è Corto
Maltese, ma il primo fu
Asso di Picche, caratterizzato dal costume giallo aderente. Trasferitosi in Argentina, Pratt continua la sua
“galleria” con Jungleman, collaborando
con Hector G. Oesterheld (l’eternauta)
e ad altri personaggi di successo da Sgt
Kirk a Ernie Pike. Dopo altre esperienze all’estero Pratt ritorna in Italia dando vita all’uomo Ombra. Poi si dedicherà a Corto
Maltese che sarà il protagonista di molte
avventure alla Conrad. Ed è in questo cli-
25
ma “avventuroso”, che caratterizza tutte
le opere di Pratt, che si inserisce L’Uomo
del Sertao. Lo scenario è quello del Brasile tra fine ’800 e primi anni del ’900, sul
cui territorio dominano i “fazenderos” (i
latifondisti brasiliani) e dove la schiavitù
è la norma. In queste condizioni si organizzano e sviluppano gruppi di “banditi”
i cangaçeiros, guerrieri girovaghi e senza
padroni, inseparabili dai loro fucili i cangaço appunto. Al fondo però, questi ultimi sono solo contadini stanchi dei torti
subiti che si ribellano ai latifondisti alle loro
ingiustizie e alla povertà. Queste bande si
muovono nel nord-est del Brasile, la stessa zona in cui si muovono i personaggi
dell’avventura di Pratt: il “Gringo Vargas”
ed il “Capitao Corisco” che, nella storia,
incappano in un rastrellamento nel sertao e vengono uccisi dall’esercito. Da
qui il racconto si sviluppa tra lo storico e il
surreale: con la “mammana” di candomblè, che mediante un sortilegio mantiene
in vita il “Gringo Vargas” affinché compia
la sua vendetta nei confronti dei suoi assassini e del suo traditore, per così avere
la pace per la sua anima e quella dei suoi
compagni. Ma “Sathania” la donna del
“gringo” individua per prima il traditore
che, per la sua disperazione, scopre essere suo fratello “Sabino”. Ma l’amore per
“gringo” è più forte, così lo uccide. Ma il
sortilegio per sciogliersi necessita che sia il
“gringo” a compiere l’omicidio, allo stesso dunque non resta che una possibilità:
uccidere chi ha lo stesso sangue del traditore. Una storia toccante con un disegno magnifico nel momento in cui Pratt è
al massimo della sua arte.
Loris Romano
Hanno sete (il bacio oscuro)
Robert R. Mc Cannon
Gargoyle books
***
Per gli appassionati del
genere il nome non è
certo nuovo. Robert
R. McCammon è una
delle penne più amate
e accreditate dagli
amanti di letteratura
horror e fantasy. Nel
corso della sua carriera
ha pubblicato ben
tredici best seller. Ha
vinto diversi Bran Stoker Award, alcuni pari
merito con Stephen King autore al quale
è paragonato da molti. Esce in Italia,
tradotto e pubblicato da Gargoyle Books,
Hanno sete (il bacio oscuro). Ambientato
nella Los Angeles dei nostri giorni, tra
bande, prostitute e polizia il romanzo
dipinge senza mai cadere nei cliché
una invasione di vampiri, di non morti,
che partendo dalla città californiana
minacciano di conquistare il mondo.
Tramite l’utilizzo dei personaggi classici del
genere (il detective, il prete, il bambino)
il libro riesce a trasportarci in una storia
avvincente senza cadere nel prevedibile.
Mc Cammon si rivela un romanziere dal
grande spessore, per trovate narrative,
ritmo quasi cinematografico, fantasie
e precisione clinica delle descrizioni.
Avvincente e inquietante, nonostante
sia stato pubblicato in america nel 1981,
non sembra risentire degli anni e ci fa
ricordare che, forse, la paura non ha età.
(O. P.)
Colazione al Fiorucci Store
(Milano)
Gemma Gaetani
Lain Fazi
***
Gemma Gaetani è uno
di quei casi sempre
più frequenti di blog
trasformatosi in libro.
E, si sa, i blog altro non
sono che la versione
tecnologica dei diari
segreti col lucchetto
in ottone e la piccola
chiave che ogni bambina custodiva
gelosamente, senza sapere quanto fosse
inutile. Leggere Colazione…è quindi un po’
come trovare per terra uno di quei diari, e
farsi guidare dalla curiosità del farsi i cazzi
altrui. L’originalità della Gaetani, però,
sta nell’aver privilegiato l’endecasillabo
come scelta di scrittura, snocciolando
così in sillabe le sue tormentate vicende
d’amore. Il nodo centrale della storia
è costituito dal poema “Innamorarsi
di un poeta è bello”, costruito sulla
falsariga di Colazione da Tiffany. Un
amore tormentato, poi appagante,
infine finito nel peggiore e più comune
dei modi, un tradimento elettronico.
L’autrice sfodera così la sua rabbia e la
sua disillusione, con trovate originali (una
per tutte, l’idea massima di amore, che
consisterebbe nella scena memorabile
di Candy Candy in cui Terence blocca
l’eroina che fugge per le scale con un
abbraccio che noi bambine abbiamo
sempre sognato, e continuiamo a fare,
di tanto in tanto). Basandosi sull’idea che
ormai la sola parola scritta è insufficiente,
la storia procede tra foto, e-mail, pagine
invertite, ricordi dolorosi del passato,
un fratello morto, un lavoro ridicolo,
passeggiate per il centro e la sicurezza
del rifugiarsi al Fiorucci Store, serate e
uomini sbagliati (vedi il palestrato che
la porta a considerare l’idea del voto a
destra mentre lei gira la minestra), alcol
e discoteche, musica a tutto volume
e testi di canzoni. Un solo consiglio: la
Gaetani dovrebbe accertarsi delle
parole di alcuni brani, in special modo di
Perfect Day. Se Lou Reed sapesse cosa
ha scritto/ non la prenderebbe sì tanto
bene. (e questi quassù, come direbbe lei,
sono endecasillabi).
Anna Puricella
È solo un bacio
Simon Reed
Luculano
***
Uno psicologo etereo, invisibile, appena
accennato, raccoglie le confidenze di
un paziente affetto da anni da un male
terribile: il male d’amore. È solo un bacio
si sviluppa attraverso questo racconto
Coolibrì
26
sempre più dettagliato e coinvolgente
del protagonista, Simon, che deve ricordare per cercare di dimenticare. 37 anni
dovranno passare prima che la malattia
diventi conclamata, 37 anni scanditi da
un inesorabile timer all’inizio di ogni capitolo. I primi ricordi di bambino da subito
in cerca “dell’amore per sempre”, si mescolano con i ricordi dell’età più adulta
dove la ricerca si trasforma dapprima in
rimpianto per le occasioni mancate ed
infine in ossessione. Nulla sembra andare per il verso giusto e l’immenso amore
che Simon si porta dentro e non riesce
a donare trova lo squallido sfogo della
masturbazione e del sesso mercenario.
Il frettoloso ed inopportuno matrimonio
non risolve la sua ansia di quel sentimento eterno, vivo, pieno ed appagante che
tanto aveva vagheggiato. Inizia il periodo dei tradimenti, più tentati che riusciti,
fino alla svolta della sua vita, quell’ora x
dopo la quale niente sarà più lo stesso.
La svolta ha un nome, Vanessa, ed un
volto, quello di una bellissima ragazza di
diciassette anni. Accade quello che non
sarebbe mai dovuto accadere e nel ricordo di quell’istante unico ed eterno, il
protagonista vivrà il resto della sua vita,
cosciente di aver mancato all’appuntamento più importante, ma anche dell’impossibilità di quella relazione. Ormai
segnato dal tempo, dai ricordi e dall’incidente nel quale ha rischiato di perdere
la vita, l’unica cosa che gli resta da fare
è ammettere l’importanza di quell’attimo
fuggito per sempre, senza ipocrisia, abbandonandosi dignitosamente a quella
realtà da cui aveva cercato invano di
fuggire.
Marco De Carli
La notte dei
calligrafi
Yasmine Ghata
Feltrinelli
***
Yasmine Ghata incontra per caso sua
nonna
attraverso
un’opera di arte
calligrafica esposta
nell’ala Richelieu del
Louvre. La ragazza
studia Storia dell’Arte alla Sorbona, e sta
per specializzarsi in arte islamica. L’incontro fortuito, perché fortuito è quando tragiche vicende della vita allontanano gli
esseri umani per poi riavvicinarli per mezzi
bizzarri, la porta a farsi autrice della storia
pesante, difficile e intensa della sua ava,
che è la più celebre calligrafa turca. La
vita e l’arte di Rikkat, donna di calamo
e sapienza, sono sinergia meravigliosa:
si svelano negli insegnamenti degli ultimi
grandi calligrafi dell’Impero ottomano, e
si compiono in tempi di importanti riforme
nazionali, che intendono vietare l’utilizzo
della lingua araba e della sua scrittura. Rikkat, donna libera e coraggiosa,
convive con gli intenti di laicizzazione di
Ataturk e gli inchiostri purissimi del suo
atelier, e nell’accettazione ribelle della
sua esistenza e del suo mestiere vi è tutto l’equilibrio ormai perduto dalla Storia.
Resiste Rikkat, nonostante le due unioni
con uomini a loro modo spregevoli e ingannatori, nonostante un figlio lontano e
dall’ingiusto destino, nonostante la mano
che incomincia a tremare e ad allontanare gli strumenti di studio. Ma resiste
Rikkat, grazie ad un figlio da poter amare
da vicino, grazie agli studenti bramosi di
appropriarsi delle sue remote verità, grazie alla ricerca di quei segni antichi e del
loro rapporto intimo e privato con la divinità. Attraverso una scrittura scorrevole,
raffinata e preziosa, la Ghata ci dona un
racconto di trame eleganti, intessute da
mani pregne di cultura e di memoria. A
sostegno di una terra, la Turchia, e di un
mondo, quello islamico, ingiustamente
associati alla cecità dei suicidi del terrore, alla fede ignorante e irrazionale, al
ritmo assordante di un kalashnikov che
batte il tempo della morte. Tutto è messo
a tacere per il corso delle pagine di un
libro, perché si possa avvertire solamente la dolcezza della “punta della canna
che intinge le fibre nel calamaio”. E il resto non conta più….
Il Passo del Cammello
Andrea Rapini
Antifascismo e
cittadinanza
Bononia University
Press
*****
Mi capita raramente
di recensire saggi di
storia, ma quando
la
storia
diventa
occasione per riflettere
sul presente, sulle radici profonde su cui
si poggia la società contemporanea e,
soprattutto, quando la riflessione verte su
un tema a me caro come l’antifascismo,
mi sento sinceramente di consigliare a tutti
un’attenta lettura. La Bononia University
Press, casa editrice dell’ateneo felsineo,
pubblica il secondo libro della collana
Storie, caratterizzata da una copertina a
mio avviso efficacissima. Troppo spesso
si sorvola sull’importanza delle copertine
dei libri, le famose e amate anticamere
del paradiso. Inutile negare che in molti
casi il primo impulso ad acquistare un libro
viene dato proprio dalla copertina. Ed è
inutile negare che troppo spesso proprio
le collane di saggistica fanno sfoggio di
copertine dalla bruttezza insostenibile.
Antifascismo e cittadinanza. Giovani,
identità e memorie nell’Italia repubblicana
(Andrea Rapini, Bononia University Press)
è un percorso che ricostruisce l’idea di
antifascismo dalla militanza delle origini
passando attraverso il ’68 e i tumultuosi
anni settanta per arrivare ai giorni nostri
con una serie di domande su una
presunta memoria condivisa da tutti gli
italiani. Un’idea, quella di antifascismo,
che “fu un elemento vigoroso, in grado di
dischiudere memorie,di trasmettere valori
di libertà nello spirito della Costituzione e
di incidere positivamente nello sviluppo
della cittadinanza”. Riflessioni che, non
c’è dubbio, fanno bene in questi tempi
bui.
Dario Goffredo
I PADRI E I FIGLI DI O
Autore del romanzo Né padri né figli,
Osvaldo Capraro è uno dei volti nuovi
della letteratura italiana. Nato in Svizzera,
ha vissuto per alcuni anni a Brindisi
e attualmente vive, insegna e scrive
a Monopoli. Ha fatto diversi mestieri,
come si evince dal ritratto biografico
in appendice al libro: “impiegato in
fabbrica, cappellano in carcere, […]
assistente domiciliare, educatore in
comunità per minori”. Già autore di un
libro di racconti ambientato in carcere (Il
pianeta delle isole rapite), ha collaborato
con diverse riviste tra cui Lo Straniero
e Nuovi Argomenti. Il suo libro, un “noir
mediterraneo”, è già in fase di ristampa e
un secondo romanzo è in cantiere.
Cominciamo subito parlando del suo
Né padri né figli. Ammesso che l’autore
ponga un poco di sé in ogni parola scritta,
appare più che mai evidente nella sua
narrativa un dato esperienziale endemico
al gesto creativo: quanto Osvaldo
Capraro c’è nei suoi personaggi?
Se intendi in senso autobiografico, poco o
nulla. Anche se Mino, Teodoro, Giovanni,
Anna, don Paolo, Maria, il Napoletano
e gli altri protagonisti del romanzo li ho
incontrati davvero. Non hanno quei nomi,
né sono concretamente identificabili, ma
fanno parte del mio mondo.
Il personaggio di Mino, in particolare,
sembra rappresentare la sua rabbia più
intima nei confronti di una società che
condanna o santifica a priori, senza
appelli. In che maniera lei crede che la
letteratura sia uno strumento efficace per
raccontare la realtà?
Temo che la letteratura sia oggi uno dei
Coolibrì
OSVALDO CAPRARO
pochissimi strumenti che raccontino la
realtà. Guardiamoci intorno. Il giornalismo
è quello che è. Da una parte i quotidiani
sono sottoposti alla censura dei rispettivi
direttori, alcuni per servilismo verso i
padroni, altri per istinto di sopravvivenza.
Dall’altra i telegiornali sono il massimo
della disinformazione. Rimane qualche
eroe, tipo la Gabbanelli che fa quel
che può, non per nulla ogni puntata
di Report è seguita da una cascata di
denunce. Il cinema è apparentemente
più libero, ma solo perché lì la censura
arriva prima: niente finanziamenti e il film
non ti viene prodotto. Per raccontare la
realtà restano i documentari e, appunto,
la letteratura che gode ancora di una
certa libertà di movimento e il motivo è
semplice: le poche migliaia di lettori di
un libro non danno poi tanto fastidio. In
una situazione del genere, il romanziere
può ancora permettersi una libertà che
al giornalista di inchiesta è preclusa.
Per quanto riguarda la tecnica narrativa
sono rimasto molto colpito dalla sua
abilità di scrittura nelle parti in cui il
narratore donava la sua voce ai pensieri
semplici del piccolo Mino. Sembrerebbe
quasi che lei abbia giocato come
narratore a interpretare la parte dei figli
per poter capire i padri e viceversa…
Di ragazzi come Mino ne ho incontrati
tanti, ognuno con la propria voce. In
molti casi ho riconosciuto quella che
era la mia voce alla loro età, il che mi
ha aiutato a creare una sintonia nel
rapporto umano. La cosa più difficile è
stata questa. Superato questo scoglio
e, soprattutto, interiorizzato il loro punto
27
di vista, riportarlo su pagina è stata una
conseguenza naturale.
In epigrafe del suo romanzo leggiamo
“questo mondo è inabitabile”. Una
dichiarazione iniziale che non lascia
spazio a nessuna speranza, che non ci
regala illusioni. Leggendo le sue pagine
mi è venuta in mente un’altra possibile
epigrafe di Josè Saramago, il quale nel
Vangelo secondo Gesù recita: “Viene
da lontano e promette di non avere fine
la guerra tra padri e figli. L’eredità delle
colpe, il rifiuto del sangue, il sacrificio
dell’innocenza”. Quanto crede sia
veritiero il motto secondo cui le colpe dei
padri ricadono sempre sui figli?
“Questo mondo è inabitabile” è una
frase scritta da Simone Weil nei suoi
Quaderni. Alla megalomania degli
assolutismi nazista, fascista e comunista,
la Weil opponeva l’infinitamente piccolo
dell’esperienza del Gesù Cristo soffocato
dai poteri forti, religiosi e politici, della sua
epoca. Per me l’eredità dei padri non
ha niente di metafisico, è solo l’insieme
delle responsabilità individuali della mia
generazione e di chi mi ha preceduto, i
“padri” appunto. Continuiamo a fingere
che questo sistema economico, politico
e sociale così com’è adesso sia l’unico
possibile e, malgrado le prove contrarie
e ripetute, insistiamo nella finzione con
un accanimento ridicolo e tragico. È una
colpa che non può che ricadere sulla
testa dei nostri figli.
Nel numero di novembre di questa rivista,
in una intervista, Massimo Carlotto la
indicava come autore di un libro “bello e
interessante”… la sua scrittura si può dire
influenzata dall’opera di questo autore o
più in generale dalla letteratura noir?
Carlotto è un esempio di quanto ho
appena detto. Il suo Nessuna cortesia
all’uscita era costruito sugli atti del
processo a Felice Maniero, boss della
mafia del Brenta. Quel processo
costituiva la cifra per raccontare cos’era
diventato il Nord Est, l’allora celebrata
locomotiva dell’economia italiana. Lì
ho avuto la dimostrazione di come la
narrativa possa servire a raccontare
territori e popolazioni senza perdersi in
lirismi salottieri. Ho divorato anche autori
come J.-C. Izzo e J.-P. Manchette. La
loro è una letteratura fatta di essenzialità
della scrittura, impegno civile, sguardo
disincantato sull’umanità. Izzo parte dai
marginali: barboni, immigrati, prostitute.
Manchette, dalle trame sotterranee del
potere politico. Ma l’elenco dei maestri
potrebbe continuare, fra autori di genere
e non, da Sciascia a Silone a Cormac
McCarthy a Carlo Levi, a Simenon e tanti
ancora.
Infine, sappiamo che sta lavorando al
suo secondo romanzo. Ritroveremo i
personaggi che hanno attraversato Né
padri né figli?
Qualcuno sì. Quel che è accaduto in
Né padri né figli non poteva restare
senza conseguenze. Spero di trovare il
modo giusto per raccontare l’intreccio
criminale tra mondo imprenditoriale e
mondo politico e i suoi inevitabili effetti
sulla società e sull’ambiente.
Massimo Lafronza
La letteratura del mondo
Edizioni E/O
Osvaldo Capraro è uno dei nuovi autori
delle Edizioni E/0, la casa editrice fondata
nel 1979 dai coniugi Sandro e Sandra Ferri
con l’intento di promuovere la letteratura
dei paesi dell’Est. Una scommessa allegra,
ingenua forse, ma anche molto seria,
che avrebbe portato soddisfazioni, gioie
per scoperte e incontri, ma pure fatica,
bocconi amari, ostilità. Sul finire degli
anni ’80 i due decidono di aprire anche
all’Ovest, agli Stati Uniti e al Canada,
all’Inghilterra e all’Irlanda. Ad un certo
punto crollano infatti le distinzioni tra est e
ovest e nasce un’unica grande collana.
“Dal mondo” unisce senza annullarle le
scoperte delle varie aree linguistiche e
culturali: arrivano in Italia il cubano Pedro
Juan Gutierrez, lo spagnolo Juan Manuel
De Prada, la nicaraguense Gioconda
Belli e le israeliane Savyon Liebrecht ed
Edna Mazya. Negli ultimi anni le edizioni
e/o hanno iniziato a esplorare anche il
territorio del genere giallo pubblicando
Benjamin Tammuz, Massimo Carlotto
con le sue avventure dell’Alligatore,
le storie nerissime ambientate in una
Torino multietnica e raccontate da Bruno
Ventavoli, il marsigliese Jean- Claude
Izzo (nella foto in alto), prematuramente
scomparso, e la sua celebre trilogia noir
(Casino Totale, Chourmo, Solea), che
ha come protagonista il poliziotto Fabio
Montale. La casa editrice negli ultimi anni
è cresciuta molto (nel 2005 sono 50 i titoli
pubblicati), ha attivato nuove collane
(Assolo, I Leoni, MedioOriente, Vite
Narrate) e nel 2005 è approdata anche
a New York con Europa Editions, progetto
parallelo che porterà i libri pubblicati
dalla e/o tradotti in americano. L’ultima
novità è rappresentata dalla collana BillDung-Sroman dedicata ai giovani autori.
Edizioni e/o
Via Camozzi, 1 - 00195
Roma, Italia
Tel: 06/3722829 - Fax:06/37351096
e-mail: [email protected]
Coolibrì
28
UN MISTERO CHIAMATO PERCEBER
Intervista a Leonardo Colombati
Perceber di Leonardo Colombati è il
romanzo rompicapo (pubblicato da
Sironi) che ha fatto impazzire critici e
giornalisti, uno dei casi editoriali dell’anno
appena trascorso. La narrazione prende
avvio il 6 luglio del 2000, in una Roma
fiaccata da un sole asfissiante. In viale
Trastevere un tram travolge un anziano
passante tranciandogli la gamba destra.
Testimoni: Giovanni Migliore, giornalista
in crisi d’identità, Luigi Dodo, giovane
medico tormentato da certi sogni
inquietanti su due bambine gemelle, e
Antonio Baldini, avvocato in pensione
con più di una rotella fuori posto e in
mente un grandioso
Piano
Topografico
sulla città di Roma.
L’attuazione del Piano e
una parallela indagine
sulla scomparsa della
gamba
intreccerà
i destini di questi tre
uomini, in un vorticoso
gioco nel tempo e nello
spazio che ha per teatro
non solo Roma ma
anche Perceber, una
cittadina spagnola i cui
abitanti sono soggetti
a una maledizione che
li costringe a parlare
senza sosta né pausa.
Leonardo, hai passato
dieci anni della tua vita
a scrivere il tuo primo
romanzo. Ora che è
trascorso qualche mese
dalla pubblicazione di
Perceber, come ricordi quel periodo?
Sono andato avanti a scrivere Perceber
nei ritagli di tempo, quando il lavoro e la
famiglia me lo permettevano. Ma la trama
e i personaggi mi accompagnavano
dovunque. Tutti i libri che ho letto in quel
periodo, li ho letti in funzione del mio. Mi
spingo oltre: la vita che ho vissuto dai
ventiquattro ai trentaquattro anni, mi
pare d’averla vissuta per un unico scopo,
quello di riversarne le esperienze e le
suggestioni nel mio romanzo d’esordio;
che come tutti i debutti, aveva la pretesa
di essere anche un testamento, un “oltre
non si può andare”. Ora che ho un anno o
poco più per completare il secondo libro,
mi sforzo di pensare che una scadenza
così vicina non può far altro che aiutarmi
a scrivere qualcosa di più “adulto” e
“professionale”. E continuo a dirmi che
è sbagliato voler ficcare il mondo intero
in un solo romanzo. Ma la verità è che
rimpiango quel tempo in cui potevo
prendermi tutto il tempo.
Eppure non sei stato il solo a “voler ficcare
il mondo intero in un solo romanzo”.
Nel 2005 sono usciti i lavori di Gianluca
Gigliozzi,
Massimiliano
Parente
e
Giordano
Meacci. Tutti romanzi
massimalisti, tutte opere
“mondo” ipercitazioniste
ed enciclopediche. Tutti
autori nati nei primi anni
Settanta,
che
hanno
trascorso i migliori anni
della loro “giovinezza”
a comporre il “grande
romanzo italiano”. Si tratta
solo di una coincidenza?
No, non penso che sia
una coincidenza. Credo
si tratti di una reazione ad
una stagione editoriale
(più che letteraria), in cui
finalmente in Italia sono
arrivati, ad esempio, i
romanzi di Pynchon, di
Gaddis, di Foster Wallace,
di DeLillo. Questa cosa del
“romanzo massimalista”
o “postmoderno” - del “romance” a
scapito del “novel” - mostra già la corda,
negli Stati Uniti. Ma qui da noi mi sembra
giusto tentare, provare a rifuggire dai soliti
compitini minimalisti senza sangue, messi
in bella prosa per un centinaio di pagine.
D’altronde, l’inventore di questo genere
di letteratura è il nostro Ariosto.
Nelle pagine conclusive di Perceber
molto spazio è dato alle fonti che hai
utilizzato per la stesura del romanzo. Se
dovessi citare qualche titolo che per te è
stato fondamentale?
Ho iniziato a scrivere Perceber con in
mente il Tom Jones di Fielding, il primo libro
“serio” che ho letto, quando avevo dieci
anni. Ho la sensazione che, dopo quello,
io abbia letto libri di qualità inferiore: il
primo romanzo moderno è forse anche
il più bello. La palla da baseball che in
Underworld di DeLillo fa da filo rosso
alla narrazione, è un espediente che
ho cercato di imitare utilizzando una
gamba amputata invece della palla. Da
un punto di vista prettamente stilistico,
sono stato sicuramente influenzato da
Pynchon (L’arcobaleno della gravità e
Mason & Dixon, soprattutto).
In un’intervista hai dichiarato che non sei
stato mai un grande lettore di romanzi
italiani. Sei sempre dello stesso avviso? O
puoi citare qualche autore che per la tua
formazione è stato importante?
Non sono mai stato un grande lettore di
romanzi italiani. La cognizione del dolore
di Gadda e Ferito a morte di La Capria
sono i miei due preferiti del secolo scorso.
Potrei aggiungere, forse, Landolfi e
Sciascia. Se guardo agli ultimi vent’anni,
pochi sono gli scrittori italiani che mi
piacciono: il Busi dei primi due libri, ecco,
lui sì. Sono molto amico di Giuseppe
Genna, Alessandro Piperno, Mario Desiati
ed Helena Janeczek; ma è un’amicizia
in cui l’ammirazione per i loro libri non ha
avuto un peso indifferente. Da queste
mie recenti ricognizioni, mi sembra di
aver capito che ultimamente da noi le
acque si stanno muovendo.
Ora, accantonato “Perceber”, ti aspetta
la stesura del secondo romanzo. Puoi
darci qualche anticipazione?
Sì, il prossimo romanzo uscirà per Rizzoli nel
2007 e sarà completamente diverso da
“Perceber”. Ho già scritto cento pagine,
che nei giorni pari mi sembrano una
schifezza e in quelli dispari un capolavoro.
Oggi che giorno è?
Rossano Astremo
Be Cool
Noir, Commedia, Italiano, Sperimentale, Drammatico
29
il cinema secondo coolcub
I segreti di Brockeback Mountain
Ang Lee
Paramount Pictures
*****
Leone d’oro a Venezia e primo
candidato agli Oscar dopo essere stato
l’asso pigliatutto dei Golden Globe
(l’anticamera delle più prestigiose
statuette),
Brockeback
Mountain
continua a mietere successi oltre che di
critica anche di botteghino. E Ang Lee,
con quest’ultimo film, riparte un po’ da
dove aveva cominciato. È del 1993 il suo
fortunato esordio dietro la macchina da
presa con Il banchetto di nozze, in cui un
giovane cinese omosessuale dopo aver
fatto carriera a New York, si trova costretto
a fronteggiare i tradizionalisti genitori,
ai quali non ha mai confessato la sua
natura, arrivati direttamente dall’Oriente
per vedere il suo matrimonio concordato
con una giovane pittrice in cerca del
permesso di soggiorno. Ritorna dunque
la tematica gay che nella narrazione dei
segreti del monte Brockeback abbatte
uno degli ultimi baluardi di manifesta
virilità rappresentata dalla figura del
cowboy. Tratto dall’omonimo racconto
del premio Pulitzer Anne Proulx, il film si
muove sulle grandi vallate del Wyoming
dove nell’estate del 1963, Ennis Del Mar
e Jack Twist, due giovani mandriani, si
incontrano mentre sono in fila di fronte
all’ufficio di collocamento. In cerca di un
lavoro che dia loro sicurezza, vengono
entrambi assunti da Joe Aguirre, il
proprietario di un ranch che li invia come
mandriani ai piedi del monte Brokeback.
Tra i due, soli per tutta l’estate nasce un
legame sincero. Terminata la stagione
devono separarsi tornando alla vita di
sempre. Ennis rimane nel Wyoming; Jack
parte per il Texas dove conosce una
donna che sposa. Quattro anni dopo
arriva a casa di Ennis una cartolina di
Jack: è in viaggio per andare a trovare
l’amico di un tempo. Bastano pochi attimi
per capire che la loro amicizia è destinata
a durare e a divenire qualcosa che li
unirà per tutta la loro esistenza. L’amore
dunque come filo conduttore di una
storia dal tema difficile, spesso ignorato e
sicuramente non banale, che in questo
film assume dei contorni morbidi, quasi
sussurrati, tanto da tramutarsi in una storia
universale, oltre quella che è la semplice
sessualità. Ottima la direzione dunque,
ma anche le singole interpretazioni,
appassionate e davvero partecipi
del progetto di Lee, che intendeva
raccontare semplicemente l’amore, al
di là delle convenzioni. Fra paesaggi
sconfinati e silenzi che hanno voce e
significato, i due vivono un amore strano
e consolatorio, la cui natura omosessuale
paradossalmente è il lato meno
importante della vicenda. Che riuscirà
a descrivere un sentimento fuori dalle
convenzioni eppur importante, vissuto
con gli occhi di chi affronta la vita per
lo straordinario e imprevedibile percorso
che essa rappresenta. Lontani da schemi
e convenzioni che spesso anche il cinema
hollywoodiano rifugge. Cavalcando le
poche critiche, di Wayne e Eastwood, in
questo film c’è tutto e niente, ma ciò che
rimane è un senso di sana inquietudine e
sincera ammirazione e la consapevolezza
che nessuna lontananza o finzione può
distruggere ciò che vorremmo essere. O
che in fondo siamo sempre stati.
Michele C. Pierri
Be Cool
30
Memorie di una geisha
Rob Marshall
Eagle Pictures
Le
geishe
erano
artiste
del mondo che
fluttua, né mogli
né prostitute. In
Giappone la loro
presenza
era
considerata un
rito sociale. Un
rito era la danza
dei loro corpi
sinuosi, le loro
mani fini che giocavano con i ventagli
e accarezzavano strumenti. Gli uomini
pagavano cifre esorbitanti per la loro
compagnia, e la competizione tra geishe
era alta, e dura. In questo mondo tanto
affascinante quanto chiuso e crudele,
non c’era posto per i sentimenti, geishe
lo si diventava perché non si aveva altra
scelta. La piccola Chiyo dagli occhi pieni
d’acqua senza dubbio non era nata per
quel mondo. Vi si trovò sbattuta per caso
e -come l’acqua sempre riesce a faretentò di aprirsi un varco. Dell’incantevole
best seller di Arthur Golden, diario in prima
persona di una geisha davvero esistita,
Rob Marshall, regista già premio Oscar
per Chicago, ne fa un film. Colossale,
holliwoodiano, con un cast d’eccezione.
Con occhi occidentali guarda all’oriente,
ripercorre la storia di Sayuri, ricostruisce
minuziosamente ambienti e paesaggi,
parla delle geishe come probabilmente
un giapponese non farebbe mai. Perché
le memorie di una geisha, in fondo,
resteranno sempre un segreto.
Valentina Cataldo
Broken
flowers
Jim Jarmusch
Mikado
Jim
Jarmusch
torna alla regia
con
Broken
Flowers a due
anni di distanza
dall’ultimo
film a episodi
Coffee
and
cigarettes. Regista autodefinitosi punk,
è uno dei cineasti più orgogliosamente
indipendenti del cinema americano,
anche se sin dall’inizio della sua carriera
è stato adottato dal cinema europeo, da
Wim Wenders in particolare, (di cui è stato
anche assistente alla regia). Ritorna con
questo film che ha vinto il gran premio
della giuria al festival di Cannes. È una
commedia che ha per protagonista il
cinquantenne Don Johnston (Bill Murray),
nome molto simile a quello di un altro
divo. Uomo di mezza età quindi, stanco,
disilluso, anche un po’ noioso, che dopo
anni da “casanova” si rende conto
improvvisamente di avere un figlio che
non ha mai visto. Poi forse questo figlio non
esiste neanche per davvero. Insomma,
Don dopo essere stato abbandonato
dall’ultima compagna, riceve una lettera
anonima di una probabile precedente
amante che gli comunica l’esistenza
di un figlio diciannovenne che è in giro
alla ricerca del proprio padre. Partendo
da questa lettera di colore rosa (indizio
importante…) e pressato da un vicino
di casa che lo spinge alla ricerca a
ritroso, Don si mette sulle tracce delle
donne con cui in passato ha avuto una
relazione. Le donne sono straordinarie,
viene di fargli i complimenti per essere
riuscito a conquistarle tutte: Sharon Stone
con la figlia di nome Lolita (e di fatto),
Jessica Lange che “comunica” con gli
animali (tra i suoi pazienti un’iguana di
nome Iggy) e altre ancora. In pratica la
lettera dell’amante lo scuote dal torpore
esistenziale e lo costringe a fare i conti con
il passato e quindi anche con il presente.
Nel film c’è molta ironia, ma l’atmosfera
è amara; sembra che nessuno sia felice,
il vero tema del film sembra essere la
volontà di riempire un vuoto della vita. Il
viaggio del protagonista si può intendere
come un viaggio metaforico nell’America
di oggi: spaesamento, mancanza di
radici e valori forti. Il film scorre, lento ma
lineare, con la musica giusta al momento
giusto, in cui il tema portante è quello
dell’etiope Mulate Astatke, che con il
suo esotismo contrasta con il paesaggio
della provincia americana, risaltandone
l’amenità. Senza dimenticare la presenza
di “pezzi” di uno dei gruppi preferiti da
Jarmusch, i Greenhornes.
Loris Romano
di una bella ragazza dotata di una
innata spontaneità sexy, Nola (Scarlett
Johansson) fidanzata di Tom, americana
senza dote, poco interessata alla vita
agiata e piuttosto motivata a diventare
un’attrice; dà la caccia ai provini
ma proprio non le riesce di recitare.
Chris e Nola infrangono le regole e si
abbandonano a vera passione sotto lo
scrosciare di un diluvio agreste.
Una bellissima scena in cui la pioggia,
inesorabilmente,
sembra
richiamare
i personaggi alla ricerca di un senso
della vita. Tuttavia, le regole del gioco
impongono strade diverse, Tom, senza
mai sapere di essere stato tradito, lascia
Nola per una ragazza dell’alta borghesia,
Chris sposa la sorella di Tom ma non
rinuncia alla veemenza di Nola, che nel
frattempo diventa sua amante. Ma Nola
infrange le regole una seconda volta,
innamorandosi di Chris. Proprio non sa
recitare Nola, che nel disperato tentativo
di svelare la mascherata di Chris a fare il
finto marito e il finto rampollo, ci rimette
la vita: Chris la uccide con un fucile
inscenando un furto, non vuole fastidi
nella sua nuova vita, ha già un futuro
assicurato, una casa lussuosa, una bella
moglie e un bel lavoro. La polizia lo guarda
con sospetto, i diari di Cloe spuntano a
galla, tuttavia, per fortuna la scampa.
Non è facile raccontare una storia senza
colpe ci vuole un certo coraggio.
Rita Miglietta
Match Point
Il 29 gennaio si è concluso il Sundance
Film Festival, che quest’anno festeggia
il 25° anniversario nel consueto scenario
innevato di Park City nello Utah. Il festival,
fondato da Robert Redford e diretto da
Geoffry Gilmore, si è negli anni attestato
come unico grande appuntamento del
cinema indipendente mondiale, che
qui vede riuniti pubblico e addetti ai
lavori. Alcuni dei suoi film hanno avuto
successo al di là dei circuiti sperimentali
ed è da qui che provengono personaggi
come Quentin Tarantino, Kevin Smith,
i fratelli Coen e Jim Jarmusch e si sono
fatti conoscere Twyker, Gaspar Noé,
Danny Boyle, Steven Soderberg e,
per l’Italia, Gabriele Muccino, Davide
Ferrario e Roberta Torre. Due le Sezioni
principali,
American
Competition
riservata a 16 lungometraggi di fiction
e 16 documentari statunitensi e World
Cinema Competition. A completare
cortometraggi, film sperimentali e opere
prime. In questa edizione a farla da
padrone è stata la tematica sempre
attuale dell’immigrazione e del sogno,
che spesso è un miraggio, di una vita
migliore. Quinceanera, un dramma di
adolescenti ispanici, ha vinto il premio
della giuria e quello del pubblico per i film
drammatici; invece God grew tired of us,
racconto sull’inserimento di tre sudanesi
nella società americana, ha ricevuto il
premio della giuria e quello del pubblico
per i documentari. Presente nella sezione
documentari Viva Zapatero di Sabina
Guzzanti.
Woody Allen
Dreamworks
La fortuna può
condizionare
la nostra vita in
modo cruciale,
Allen
non
ha timore di
ammetterlo e,
con disincanto
e
franchezza,
racconta di un
delitto senza castigo. Amore e giustizia
non sono ideali perseguibili, piuttosto ci
si adopera per una vita agiata e senza
fastidi, tentare poi di essere se stessi, in
questa storia, porta diritti nella fossa,
senza un paradiso o un inferno, solo con
fortuna o sventura.
Chris (Jonathan Rhys-Meyers) è un bel
ragazzo irlandese, povero ma una
promessa del tennis. Stufo dei sacrifici
necessari per diventare un campione,
decide di inventarsi una vita nella Londra
bene; impartisce lezioni in un circolo
sportivo e pian piano, il suo allievo Tom
lo introduce nell’alta società. Tra opera,
party in campagna e ristoranti chic,
conosce Chloe la sorella di Tom e, da
copione, si convince di innamorarsene; in
dotazione, un posto di punta nell’azienda
di papà, un autista personale ed una
macchina all’altezza. Ma la tragedia
sta per dipanarsi, preludio la comparsa
Sundance Film Festival 2006
Be Cool
31
LA MUSICA ELETTRONICA INCONTRA IL CINEMA
La
musica
elettronica,
o
meglio
elettroacustica (prima), ha da sempre
un legame particolarmente stretto con
il cinema sin dagli esordi. La possibilità di
invertire la pellicola e di manipolarla è
stato il modo in cui alcuni cineasti hanno
potuto inventare altri modi di realizzare la
musica per un film: la partitura retrograda
e la sintesi ottica, superate poi dalle
invenzioni personali di cineasti e musicisti
in grado di sfruttare, in modo originale,
le potenzialità dei mezzi a disposizione.
L’evoluzione della musica elettronica, nel
termine e nei mezzi, l’ha resa una fonte
importante e originale per la realizzazione
di progetti cinematografici soprattutto
nell’arco dell’ultimo cinquantennio.
Un ruolo ottenuto grazie alle considerazioni estetiche che si diffondevano tra i
teorici del cinema, negli anni successivi
al cinema muto; e all’evoluzione della
tecnica che veniva messa a servizio dei
linguaggi audiovisivi fonte d’innovazioni
nelle consuetudini della filmografia. Dalla
fine degli anni ’20 alcuni tra i cineasti e
compositori vicini agli ambienti dell’avanguardia s’impadronirono delle possibilità
offerte dall’apparizione sul mercato della
traccia ottica (una particolare tecnica di
sovraincisione su pellicola delle onde sonore) per la realizzazione di film a carattere commerciale.
Negli anni ’30, con l’interesse centrato sul
ritmo delle immagini, la maggior parte della produzione filmica era basata sul contrasto ombre-luci che portava la musica
a un ruolo connotativo per il film, un ruolo
nuovo, non più solo di commento, ma portatore di una forza comunicativa all’interno dell’opera cinematografica. L’utilizzazione di strumenti elettronici è stata fondamentale per introdurre un nuovo livello di
percezione degli spettatori della seconda
metà del secolo scorso; soprattutto dopo
l’invenzione dei sintetizzatori che hanno
rappresentato il trait d’union tra i compositori dal linguaggio classico/sinfonico e gli
ambienti della nuova musica.
Negli anni ’50 la costituzione di un gruppo
francese (il famoso GRM dell’IRCAM),
specializzato nella ricerca della “musica
concreta”: musica creata a partire dalla
riproduzione di rumori, è stato tra coloro
che ha creato più opere nel campo della
sperimentazione. Per quanto riguarda il
mainstream invece, il cinema di alcuni
autori è stato legato a figure di alcuni
compositori che distinguevano la loro
opera dal sound particolarmente vicino
a ciò che le chart definiscono musica
elettronica: Kubrick-Carlos, TarkovskijArtemiev, Argento-Les Gobelins, LynchBadalamenti, etc. I film definiti di
fantascienza hanno usato tantissima
musica elettronica, a partire dagli anni
’50, larga parte di effettistica e musica
era creata da musicisti propriamente
elettronici (Vangelis, Carpenter, Moroder,
etc.) con i nuovi strumenti: il Teremin,
Novacord e le onde martenot. Già dai
primi film di Hitchcook (Rebecca del
1945) il sonoro risentiva di suoni metallici,
passando dalle saghe di Star Trek (anni
’70) e fino ad arrivare a Matrix (anni ’90)
dove il lavoro dei musicisti non era creato
per la pellicola ma era il risultato di una
serie di unioni di musicisti conosciuti dalle
chart (Propellarheads, Prodigy, etc.).
Le colonne sonore di musica elettronica
negli ultimi anni hanno subito una
deviazione di tendenza. La creazione
delle colonne sonore è divenuto il risultato
di performance di musicisti o gruppi
che propongono generalmente set di
elettronica in circostanze diverse dal film,
le quali vengono riadattate alle esigenze
filmiche.
Parliamo ad esempio di Tinderstick che
hanno musicato Trouble Every Day (2001)
per Claire Denis e poi hanno continuato
la collaborazione con il film Nenette et
boni. Morven Callar (2002) dove la musica è stata affidata ai maggiori esponenti
della etichetta tedesca Morr Music o i film
di Darren Aronofsky: Pi Greco, teorema
del delirio (1998) e Requiem for a Dream
(2000) che mettono in scena il ritmo di sonorità create da Aphex Twin e musicisti vicini ai lavori elettronici tedeschi. Un ultimo
lavoro conosciuto, che pone l’attenzione
a un gruppo di musica elettronica relativamente conosciuto tra il pubblico è The
raftmans razor, storia fantastica del regista
Keith Bearden che ha voluto fortemente
le atmosfere del gruppo islandese Mùm,
cariche di ambientazioni dilatate.
Non
da
meno
anche
alcune
esperienze
artistiche,
marginalmente
cinematografiche, di artisti o collettivi,
che fanno uso della musica elettronica o
delle tecniche di produzione della stessa:
l’esperienza che ha goduto di maggior
diffusione in tutta Europa negli ultimi dieci
anni è stata la rinascita del film muto
nuovamente sonorizzato (nel 1995 Martin
Matalon ha composto una nuova partitura
per il film Metropolis di Fritz Lang) e in casa
nostra abbiamo assistito al film Sciopero
(1921) di Eisenstein sonorizzato dagli YO
YO Mundi (2002). Anche altri gruppi in
Italia hanno preso parte a questi progetti:
il gruppo torinese Gatto Ciliegia Contro
il Grande Freddo e i napoletani Frame.
Delle altre esperienze hanno sfruttato
le modalità di produzione della musica
elettroacustica, soprattutto concreta,
per impiegarle nella realizzazione delle
performance artistiche. Movimenti come
Fluxus, che utilizzano degli oggetti comuni
non propriamente musicali che servono
alla creazione di rumore all’interno dello
spazio occupato (un po’ come le sorelle
Cocorosie propongono i suoni nei loro
concerti…). Le cellule d’intervention
Metamkine, gruppo formato da due
cineasti, Christophe Auger e Xavier
Quérel, e un musicista Jérôme Noetinger
che hanno base a Grenoble dal 1987 e
fanno della musica elettroacustica il perno
fondamentale della riuscita delle loro
opere cinematografiche, producendo
“una musica cinematografica liberata da
tutte le servitù del rapporto con il film, una
musica con dei proiettori”.
Il collettivo realizza le performance creando in diretta la manipolazione delle immagini e dei suoni attraverso gli strumenti a
disposizione della tecnologia non digitale.
Ancora Dj Spooky, può essere considerato
l’ultimo inventore di uno specifico linguaggio sonoro-cinematografico. Paul Miller,
vero nome del dj americano, ha miscelato
le immagini del film Birth of a Nation (1915)
di David Wark Griffith creando la sua performance Rebirth of a Nation (2004), intrisa di significato politico. Il lavoro ultimato
era caratterizzato da scene del film, in sovrimpressione colorate tali da creare due
livelli visivi accompagnati dalla musica live
composta dal suo pc. Non indifferente ancora da segnalare il ruolo che la musica
elettronica ha avuto nella esposizioni artistiche. L’artista Mario Airò con l’esposizione
Quel Pomeriggio sulla terra (1998), ispirata
dal film Soigne ta droite (1987) di Jean Luc
Godard ha utilizzato la musica degli Orb
Back side of the Moon. La musica aveva
un ruolo importante nella percezione dell’esposizione, creava l’elemento vettoriale
(il tempo) nella dimensione scenica.
Marina De Giorgi
( U n ’ immagine tratta da metro P olis )
32
CoolClub.it
CATASTROPHE # 02 – autunno/inverno 2005/06 (Venerea Edizioni, pp. 130, € 7,00)
Torno abbronzatissimo da una lunga permanenza alle Bermuda (non sono certo un
tipo da Chiantishire!) e poche ore dopo il mio arrivo a Roma mi ritrovo tra le mani
il secondo, attesissimo volume di una rivista-libro No copyright che mi piace da
matti fin dal nome: Catastrophe, nata (o rinata, a seconda dei punti di vista) nella
primavera scorsa dalle ceneri dell’altrettanto interessante Torazine (quattro uscite,
“...una miscela tossica di testi e immagini per un delirio rizomatico di segni impazziti, di
simboli scoppiati, di detournamenti scandalosi, tra terrorismo estetico e pornografia
della visione”). Casa editrice: Venerea, sede nella capitale, catalogo appetitoso che
comprende l’edizione italiana dell’indispensabile Culture dell’Apocalisse di Adam
Parfey, l’antologia di racconti L.C.I. Letteratura Chimica Italiana e l’autobiografia
illustrata di Anne Sprinkle PostPorn Modernist.
Ok. Ok. Ok. Allora scaravento dalla finestra l’opera omnia di William Butler Yeats
regalatami chissà perché (mi vuoi male, stronza???) da una sedicente poetessa
inglese più brutta di Carole Thatcher che di certo non capirà mai la massima di
Pascal “Ci consoliamo perché ci affliggiamo con poco” (Nota Bene: se qualcuno
getta un libro dal quinto piano non sta facendo bookcrossing ma un’azione di segno
diametralmente opposto al bookcrossing per cui, a meno che il tomo non vi cada
accidentalmente in testa sfondandovi il cranio e facendovi girare le palle ad elica,
lasciatelo lì a morire sul selciato).
Ok. Ok. Ok. Stacco i telefoni. Mi verso un Long John. Infilo nel lettore cd Astral Disaster
dei Coil. Sono pronto a divorare d’un fiato queste 130 pagine “cross-senses” ed “oversenses” freschissime di stampa (ah, l’impagabile fragranza dei prodotti editoriali che
non hanno tra i loro collaboratori Gianni Baget Bozzo e Francesco Alberoni!).
L’editoriale apparso in occasione della prima uscita presentava in questi termini
la nuova impresa: “Il capovolgimento di Catastrophe consiste nella sublimazione,
nello slittamento, nell’accumulazione dei segni scaturiti dalle superfetazioni
dell’immaginario pop dominante – non, quindi, dalla sua nemesi avversa. Sono
superfetazioni a loro volta bastarde, quantizzazioni deformate scaturenti da quegli
interstizi oscuri che, sotto il drammatico ricordo dell’epoca d’oro del pop e delle sue
decadi più rappresentative (i 60 e gli 80 del novecento) ha gettato le fondamenta
del neocitazionismo dilagante, imposto non più come divagazione postmoderna,
ma come tetra constatazione della mancanza di nuovi slanci immaginifici: è la morte
del futuro, il postmortemismo.”
Pesante? Cervellotico? Non più di un mattonazzo di Matt Ruff, se volete sapere la
mia opinione. Non più di un disco di Hell o di un film scritto e diretto da Larry Clark,
a ben vedere. Qui ci si diverte pensando e viceversa. Terreno fertile per quei lettori
che cercano essenzialmente di depistare se stessi dopo aver abbandonato la
cattiva autostrada di una (non)informazione rassicurante, di una cultura conformista
prodotta e diffusa con lo scopo oramai neanche tanto occulto di addomesticare se
non proprio indurre al coma profondo le masse.
Il sommario del nuovo numero promette bene quanto la doppia copertina realizzata
da Infidel e Serpeinseno (team che ha anche ideato l’esilarante Crucix – il gioco
dell’oca della Via Crucis a pagina 59): Christian roots – le radici cristiane dell’occidente;
integralismo cattolico, scienza e fede, letteratura millenarista (apocalisse, guerra
a Satana, 11 settembre), Christian Pop (“l’avanguardia christian pop si prepara
a invadere di peso le maglie fin troppo larghe della cultura indipendente USA”),
papaboys (una conversazione con Christian Raimo sulle Giornate Mondiali della Gioventù a Colonia) e ancora: pseudobiblia
(un articoletto veloce di Francesco Dimitri sul mito lovecraftiano del Necronomicon e sulla sua influenza su personaggi come
Anton LaVey, Ramsey Campbell, Stephen King, Sam Raimi; un maggiore approfondimento del tema non avrebbe guastato);
cassette a nastro (autore: Valerio Mattioli; parole chiave: registrazioni domestiche, net communities, mitologie audio, R. J. Porter;
numero caratteri: 11626), una breve guida ai fluidi corporei che ingloba un sondaggio condotto dalla prestigiosa casa editrice
underground americana Research e che apre così: “Il più rilevante prodotto del nostro corpo nonché estrema sintesi dell’intera
categoria dei fluidi corporali è quello noto ai più col nome di “merda”. Questo prodotto di scarto esercita un’indiscussa influenza
su ogni recesso della storia e del sentire umano, ma di esso si conosce poco e niente”.
Ottimo il pezzo sui fumetti cristiani firmato da Francesco Warbear Macarone Palmieri, ma si segnalano altresì Heat wave, disturbante
intervento grafico di www.globalgroove.it e il racconto di Laura Cingolani Il disordine sperimentalmente indotto con fotografie di
Federica Romagnoli.
Considerazioni finali: rispetto al primo numero, tutto sembra decisamente più a registro, in particolare la parte grafica: 7,00 € spesi
degnamente (e adesso non mi resta che aspettare la prossima mossa...mi consolerò con Hot Video). Il migliore aperiodico di carta
presente sul territorio italiano (basta cercarlo, non fate i pigri!). C’era una volta Frigidaire, oggi c’è Catastrophe nell’aria!
Nise No
www.catastrophe.it
CoolClub
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COPIA, INCOLLA E MIXA
33
VJing VS Schratcher video e altre storie performative
Il vjing è un sistema di arricchimento
percettivo e spettacolare che si affianca,
sul piano visivo, a quello che rappresentano
il djing o i live electronics sul piano sonoro.
Un Vj contest è una competizione in cui si
confrontano tecniche e virtuosismi nella
miscelazione di immagini in movimento
in un’arena multimediale attraversata
da suoni e immagini. Vi si raccolgono
una serie di performance audio-visive di
team professionisti dell’aria dello styling
audiovisivo (grafici, webdesigner, registi,
musicisti ma anche artisti visivi).
La frontiera, pensabile come una sorte
di bizzarra forma di post-cinema e il
live media act, una performance in cui
immagini e suoni si strutturano con un
percorso più o meno narrativo che sfugge
alla sola decorazione visiva. In questi
live media-act le immagini vengono
processate utilizzando software che danno
la possibilità di “dipingere con il suono” e
“comporre con la luce”.
La live performance finisce così per essere
un’interpretazione multi-livello dei processi
linguistici operanti, multidirezionalmente,
nella città. Il Vjing è definito da Lucio
Apolito, come atto performativo che
manipola e mixa immagini derivate da
fonti e repertori vari in una dimensione live.
Si tratta di una nuova forma di produzione
artistica che implica l’utilizzo di piattaforme
digitali mix-mediali, attraverso il metodo del
“copia, incolla e mixa”, tipico del lavoro
dei dj e produttori elettronici, esteso anche
al linguaggio delle immagini in movimento.
Ne derivano dei dispositivi “sinestesici”
nuovi che espandono e attualizzano la
forma delle video-sinfonie urbane.
Con l’utilizzo di dispositivi di proiezione
e sonorizzazione (multiscreen, monitor,
videowall…) le jam-session tra manipolatori
visivi e operatori sonici acquisiscono una
grande versatilità e qualità performativa
che, nei casi in cui utilizza reperti audiovisivi
urbani, riesce a mutare le interfacce
mediali - visive, acustiche, cognitive… - in
veri e propri “ambienti sensibili”.
In passato delle performance del genere
erano già state utilizzate in una versione più
di cut-up che tanto come “opera” creata
in diretta; oggi attraverso software come
Arkaos e Flexer, ieri con videoregistratori e
nastri. Erano gli albori degli anni 80, della
trilogia Qatsy (Geoffrey Reggio e Philiph
Glass) e in questo caso dello Scratch
Video.
Lo “scratch video” è un fenomeno iniziato
in America alla fine degli anni Settanta e
in Inghilterra nella prima metà degli anni
Ottanta. Esso dipendeva dalla disponibilità
di videoregistratori domestici e da sofisticate
attrezzature per il montaggio video.
L’aspetto manuale dello scratch eseguito
sui dischi è assente in quello su video.
Lo scratch video è fondamentalmente
l’equivalente televisivo di un collage o di
un fotomontaggio.
A differenza del collage bidimensionale
lo scratch video possedeva la dimensione
sonora, costituita sia dalla musica che
dal parlato, e il movimento. Quando
vengono incluse delle parti parlate,
queste sono trattate alla stessa maniera
delle immagini, producendo una sorta
di “staccato” verbale con degli effetti di
balbettamento, secondo una tecnica
oggi comune. Interrompendo in questo
modo il parlato l’attenzione viene portata
sui suoni in quanto tali, che diventano gli
elementi di una specie di poesia astratta.
Ma tornando ai giorni nostri vorrei
soffermarmi su alcune ricerche del
collettivo fiorentino Ogi:no Knauss, (a parer
mio insieme al progetto Claudio Sinatti e al
salentino Pleo sono tra quelli più interessanti
della Penisola). Ogi:no Knauss, indaga
sull’utilizzo delle tecnologie audiovisive
(principalmente il video e la fotografia
digitale) come strumento di analisi
adatto alla velocità di trasformazione
delle fenomenologie urbane, nel quale
far confluire le pratiche mutuate dalla
musica elettronica: campionamento, loop
(la ripetizione sequenziale del frammento
campionato), scratch (la produzione di un
suono ottenuta facendo graffiare il disco
in vinile dalla puntina del piatto), mix.
Uno dei loro progetti, Extreme Urban
Ratio (eseguito, nel 2001, al Batik Festival
di Perugia e poi anche al Netmage ’02 di
Bologna e al Teatro Studio di Scandicci),
è un’indagine nei modi della performance
live sulla città “nello scenario del
( un ’ immagine tratta da K o Y aanis Q atsi )
linguaggio” che prova a sviluppare una
pratica dell’ascolto metropolitano che,
nella tradizione delle ricerche internazionali
sul Soundscaping introduce l’innovazione
di una scansione visuale, quasi iconica,
della città.
Le trasformazioni in atto sul tessuto urbano
(nella prima versione progettata si tratta
di Firenze, nella seconda di Riccione)
vengono
lette
attraverso
l’infinito
repertorio mutante dei segni e delle
secrezioni apparentemente irrilevanti. La
commistione dei due linguaggi (quello
dei suoni e quello delle immagini) riesce a
restituire un senso pieno della dimensione
urbana odierna. Il ribaltamento dei punti
di vista, l’evidenziazione dei segnali
dissonanti, la cattura dei messaggi fluttuanti
come dei rumori di fondo, diventano, in
questo quadro, i paradigmi di un metodo
d’analisi che mette a fuoco la “metropoli
del conflitto” generata dalle dissonanze
tra un centro cristallizzato a misura di turista
e una periferia estrema ed esplosa. E.U.R è
una sinfonia urbana distorta e disturbata
che disseziona (sul tavolo di montaggio
con 5 videocamere digitali in proiezione su
altrettanti schermi da un mixer) la periferia
nord di Firenze: le sue mappe, le sue trame
senza qualità, i suoi non luoghi, i viadotti, le
discariche e gli svincoli in forma di mosaico
e la contrappone ad un centro luccicante
di vetrine e show room a misura di turista.
Oggi possiamo dire che il grande sogno di
una” grande opera Totale” idealizzato da
Wagner è diventato realtà.
Giuseppe Scarciglia
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SHARE WHAT YOU WANT
Creative Commons: il copyleft e la nascita
L’incredibile rapidità con la quale internet ha raggiunto ogni angolo della terra
sembra aver stravolto l’ordine preesistente in molti campi della nostra vita. Indubbiamente l’ambito in cui gli effetti si sono
manifestati in modo più evidente è quello
della musica e del file sharing. La realtà
che in questi ultimissimi anni (se non addirittura mesi) sta vedendo il suo maggior
sviluppo è quella che riguarda le licenze Creative Commons, il fenomeno del
copyleft e la nascita della Net-labels.
Andiamo con ordine. Siamo nel 2001,
le licenze Creative Commons vengono
sviluppate da un gruppo di menti illustri
della “Standford Law School Center for
Internet and Society” guidato dal giurista
Lawrence Lessing, difensore della nobile
idea di libertà del web. Fondamentalmente le Creative Commons License
nascono per “disciplinare” il Copyleft, regolandone la sua intrinseca “anarchia”,
dandogli una forma legale cercando di
fornire una concezione delle licenze libere quanto più internazionale possibile.
Questo perché, mentre la rete sembra
non avere né confini nazionali né regole
ferree, spesso ci si trova in condizioni veramente controverse dal punto di vista legale a seconda della singola legislazione
nazionale. In effetti le Creative Commons
furono sviluppate in partenza secondo
un modello legislativo americano quindi
si sono scontrate nel tempo con le altre
leggi nazionali. Solo ultimamente con un
nuovo progetto denominato iCommons
(International Commons) si sta cercando
di rendere compatibile queste licenze
con la normativa di tutti gli stati nazionali
che prendono parte all’iniziativa. Ad ottobre 2005 i Paesi che hanno reso compatibile le licenze con la propria legislazione
sono 23, Italia compresa (nel nostro paese dopo Torino, Roma, Trento, Genova,
Milano, Napoli e Bologna recentemente
è nato, per iniziativa di P.A.Z., il gruppo
locale di Lecce). Gli ideatori delle Crea-
tive Commons, partendo dal fenomeno
del software libero, dagli open source e
da licenze preesistenti in questo campo
come la GNU GPL, cercarono di sviluppare e allargare l’argomento anche ad altre opere d’ingegno quali: musica, immagini e testi. Volendo riassumere in poche
frasi l’utilità di questa nuova concezione
dei diritti diciamo che queste licenze
hanno in un certo qual modo il compito
di prendere vantaggi dal copyleft e dal
copyright, mediando fra queste due forme estreme di concezione delle opere.
Un punto d’incontro tra il mondo chiuso e
costoso del copyright e l’eccessiva libertà
di un totale copyleft che svuota di significato la creazione stessa. Le opere pubblicate con licenza Creative Commons
vengono distribuite liberamente, tuttavia
gli autori possono conservare alcuni diritti
su di esse come ad esempio quello di essere citati da ogni utente che la diffonde,
dette per questo anche licenze del tipo
“Some Right Reserved copyright”. Inoltre
si può autorizzare o meno la modifica del
lavoro da parte di un utente, con l’obbligo di distribuire il lavoro modificato sotto
la stessa forma della Creative Commons.
Infine, punto cruciale: “No commercial”,
l’opera non può essere utilizzata da un
punto di vista commerciale, nessuno può
pensare di guadagnarci. Oramai queste
tipo di licenze sono entrate prepotentemente a far parte del mondo musicale,
come dimostra un concerto benefit tenutosi nel settembre del 2004 ed organizzato dallo stesso ideatore delle prime
licenze Lawrence Lessing e da WIRED
magazine, e che ha visto la presenza di
artisti affermati come Gilberto Gil e David Byrne, allo scopo di sensibilizzare e far
conoscere la nuova possibile forma di tutela per gli autori. Tutto questo non può
far altro che piacere e dare la conferma
CoolClub.it
35
, KEEP WHAT YOU WANT
delle net-labels
L’ETICHETTA CHE NON C’E’
che il mondo della musica non sia esclusivamente fatto da “Metallica e band dal
simil-pensiero di inquisitori del file sharing”,
per nulla costruttivi, disimpegnati nel cercare di proporre nuove soluzioni di fronte
alle prospettive che si aprono nella distribuzione della musica nel nuovo millennio.
La larga diffusione di queste licenze sulla
rete si è accompagnata con la nascita di
un altro nuovo fenomeno inesistente fino
a pochi anni fa: le net-label, vere e proprio etichette discografiche virtuali che
rendono disponibile la musica del loro catalogo tramite mp3 scaricabili liberamente. Nascono come funghi ogni giorno,
propulsori di una fervida produzione mondiale sotto le ali delle Creative Commons
Public License, contornate da un prolifico
mondo di mp3blog, podcast, net-label
chart, playlist che viaggiano da un capo
all’altro del pianeta.
(Intervista a Alberto Clara ideatore della Net-label sinewaves.it)
Perché una net-label? Qual è l’idea di
fondo che sta dietro questo modalità di
diffusione della musica?
L’idea fondamentale su cui è nata
sine3pm, la net-label di sinewaves.it, è
stata quella di sfruttare la seppur limitata
nomea del portale sinewaves.it, per
rendere noti diversi artisti, italiani e non, che
operano nell’ambito della scena musicale
elettronica d’avanguardia. Il fatto che
tutto ciò che precede la pubblicazione
delle opere sia sdoganato da impegni
di carattere finanziario e che quindi sia
realmente slacciato da un’ottica per cui se
un individuo possiede le risorse finanziarie
può comprarsi gli spazi, mediatici con cui
farsi conoscere, fonografici o quant’altro,
porta a una realtà finalmente svincolata da
quei fastidiosi lacci di natura economica
che abbiamo sempre sofferto.
Cos’altro può essere una net-label oltre
alla musica?
Sine3pm già da qualche tempo ha
previsto una sezione dedicata alla
diffusione di filmati, video od opere di
video arte, sfruttando la sempre più facile
accessibilità alle tecnologie e soprattutto
all’acceso agli archivi di dati. Fino a
qualche tempo fa, l’hosting dei siti web
era limitato in termini di spazio. Avere la
possibilità di possedere uno spazio web
infinito costava piuttosto caro. Oggi giorno
invece lo spazio web illimitato è diventato
quasi gratuito e quindi si può passare
dall’archiviazione di semplici e leggeri file
html, a tracce audio e infine a veri e propri
corto e lungometraggi. Qualche anno
fa, nel redigere la tesi con cui mi sono
laureato (e che metterò a disposizione via
web anche sotto ccpl!) trattavo l’esistenza
esperimenti di archiviazione e distribuzione
di lungometraggi attraverso il web. Quegli
esperimenti
richiedevano
all’epoca
un consistente sforzo economico, oltre
che creativo e realizzativo, per poter
accedere alle tecnologie che all’epoca
non erano alla portata di tutti; oggi tutto
ciò è cambiato, poiché esistono diversi
software open source anche per montare
i video.
Ovviamente, visto la via che hai intrapreso
è inutile che io ti chieda la tua posizione
riguardo alle creative commons, o sbaglio?
Invece vorrei sapere come immagini il
futuro. Secondo te avrà successo questa
nuova concezione della musica, o credi
che tutto prima o poi finirà? Prendendo
un’altra forma magari.
Credo che la fantasia, la voglia di libertà
e la necessità di espressione artistica (e
non) di individui e collettivi porterà al
nascere di nuove forme di espressione
e di veicolamento del pensiero e della
produzione artistica; si sfrutterà quindi,
come si è sfruttato finora, il ritardo fisiologico
della normazione per creare nuovi spazi
e nuove realtà. Il futuro andrà quindi
esplorato con la consapevolezza che
molto ancora si può creare e inventare.
Una domanda scomoda: sommiamo
la larga diffusione della tecnologia, la
sua facile accessibilità e le Creative
Commons; non credi che rischiamo di
essere sommersi da ondate di musica
inutile e vuota? Ognuno avrà i mezzi per
fare la sua musica, nobile idea, ma non
credi che tutto diventerà fin troppo facile?
Si, questo è un rischio che corriamo.
Come nel mondo dell’informazione si
assiste al fenomeno della moltiplicazione
delle fonti e in tale sovrainformazione vi
siano la presenza della disinformazione
e della non-informazione che mettono
in discussione l’intero universo, così nel
campo artistico l’iper-affollamento può
provocare il fenomeno che hai descritto.
Penso però che il fruitore opererà una
sorta di selezione naturale, premiando
quindi quelle opere che realmente hanno
valore a discapito di quelle che di valore
non ne hanno.
Pagina a cura di Federico Baglivi
MUSICA
CoolClub.it
ogni martedì/ Jam sassion jazz al Willy
Nilly di Squinzano (Le)
ogni mercoledì/ High fidelity al Caffé
Letterario di Lecce
Il nuovo appuntamento in musica del
Caffé Letterario si chiama High Fidelity.
Ogni settimana un dj diverso si alternerà
in consolle per selezionare un personale
percorso alla scoperta di un genere
musicale, un periodo, una etichetta o un
gruppo.
ogni sabato/ Open bar sino alle 00.30 al
Willy Nilly di Squinzano (Le)
venerdì 3/Food Sound System al Cinema
Elio di Calimera (Le)
venerdì 3/ Alexander Hacke allo
ZenzeroClub di Bari
da venerdì 3 a domenica 5/Selezioni
provinciali Arezzo Wave al Candle di
Lecce
Quindici band per due posti. Quindici
gruppi si affronteranno per raggiungere la
finale regionale. Inizio ore 22.30. Ingresso
con consumazione. Tutte le Info su www.
coolclub.it
sabato 4/Cesko ai Cantieri Koreja di
Lecce
Inedito appuntamento ai Cantieri Koreja
di Lecce per la rassegna Strade Maestre.
La voce di Cesko degli Apres la classe si
adatterà ad alcune cover di brani scelti
per l’occasione. Info 0832242000. Ingresso
5 euro.
sabato 4/ Dj Lizard e Don Pasta all’Istanbul
Café di Squinzano (Le)
sabato 4/ Zenzerology allo ZenzeroClub
di Bari
domenica 5/ Voci di Tradizione a Cursi
(le)
Una rassegna che varia dalla tradizione
al metal, dal rock all’innovazione.
Il Centro Dilinò di Muro Leccese, in
collaborazione con il Comune di Cursi,
organizza “Febbraio Dilinò” un calendario
di appuntamenti settimanali all’interno di
Palazzo De donno in Piazza Pio XII a Cursi.
Quattro eventi diversi per lo spirito e gli
ospiti che si alterneranno sul palco. Inizio
concerto: 21.00. Info: 0836 341153 / 348
0442053. www.dilino.com
da mercoledì 8 a sabato 11/ Festival
Trasporti Marittimi a Pescara (www.
trasportimarittimi.net)
giovedì 9/ Bachi da Pietra alla Taverna
Vecchia del Maltese di Bari
giovedì 9/ Big Mama all’Heineken Green
Stage di Tricase (Le)
venerdì 10/ Martin Rev allo ZenzeroClub
di Bari
venerdì 10/ The Real Super Band al Ueffilo
di Gioia del Colle (Ba)
venerdì 10/ Duff + Belintesta all’Istanbul
Cafè di Squinzano (le)
venerdì 10/ Serata jazz alla Città del
tempo di Lecce
venerdì 10/ Ninthzone Crew + Bruciatown
al Candle di Lecce
sabato 11/ Fausto Mesolella alla Saletta
della Cultura di Novoli (Le)
La Saletta della Cultura Gregorio
Vetrugno di Novoli riparte con la sua
programmazione di musica d’autore.
La rassegna Tele e Ragnatele prende il
via con “I piaceri dell’orso” il debutto di
Fausto Mesolella, chitarrista degli Avion
Travel, nelle nuove vesti di scrittore,
performer e cantantautore. Inizio ore
21.30. Info 347 0414709 – marioventura3@
virgilio.it
sabato 11/ Minus Habens Live allo
ZenzeroClub di Bari
sabato 11/ Postman Ultrachics all’Istanbul
Cafè di Squinzano (le)
Sabato 11/ Shank a Cursi (le)
sabato 11/ Bashfire (Perugia) al Candle di
Lecce
domenica 12/ Piano Magic + Skill allo
ZenzeroClub di Bari
mercoledì 15/ Nils Petter Molvaer allo
ZenzeroClub di Bari
mercoledì 15/ La camera migliore alla
Saletta della Cultura di Novoli (le)
giovedì 16/ Vinicio Capossela al Teatro
Italia di Gallipoli (Le)
giovedì 16/ Essenza all’Heineken Green
Stage di Tricase (Le)
venerdì 17/ Velma + Castanets allo
ZenzeroClub di Bari
venerdì 17/ Vinicio Capossela a Bari
venerdì 17/ Art and Soul al Ueffilo di Gioia
del Colle (Ba)
venerdì 17/ Serata jazz alla Città del
tempo di Lecce
venerdì 17/ Cosmic + Fever Asymmetric
all’Istanbul Cafè di Squinzano (le)
venerdì 17/ King Tubby’s al Candle di
Lecce
sabato 18/ FabulaRasa a Foggia
sabato 18/ The gang a Cursi (le)
sabato 18/ Uk Subs allo ZenzeroClub di
Bari
sabato 18/ Velma + DJ Set all’Istanbul
Cafè di Squinzano (le)
giovedì 23/ Skarnevale all’Istanbul Cafè
di Squinzano (Le)
giovedì 23/ Baffo Blues Band
all’Heineken Green Stage di Tricase (Le)
venerdì 24/ Violets & Swear Live Act allo
Zenzero di Bari
venerdì 24/ International Jah Sound al
Candle di Lecce
sabato 25/ Tom Farrer e Daniel Varley ai
Cantieri Koreja (Le)
Serata al ritmo del rock made in England
per i Cantieri Koreja che festeggiano così
gli ultimi giorni di carnevale. Il foyer del
teatro leccese ospita un dj set con Tom
Farrer e Daniel Varley del Frog di Londra.
Il loro dj set che mescola il rock’n roll al
sixties al brit pop all’indie, si mette in
evidenza tra tutti gli altri per la capacità
di mescolare nuove sonorità alle più
classiche. In consolle con loro anche il
più inglese dei dj leccesi Tob Lamare. Info
0832242000
sabato 25/ Dilinò Band a Cursi (Le)
sabato 25/ Negramaro ad Andria
sabato 25/ Esportazione senza filtro
all’Istanbul Cafè di Squinzano (le)
martedì 28/ Sonic the tonic e Tob Lamare
all’Istanbul Cafè di Squinzano (le)
martedì 28/ Ninthzone Crew + Bruciatown
+ Guest al Candle di Lecce
venerdì 3 marzo/ Serata jazz alla Città del
tempo di Lecce
febbraio-maggio 2006
Elettro-reading nights allo Zenzero di Bari
La sfida del progetto elettro-reading
nights allo Zenzero è di trasmettere
al pubblico barese una concezione
“sonora” delle parole scritte, e quindi dei
libri e della letteratura. Quattro serate
durante le quali scrittori famosi verranno
a leggere i loro testi accompagnati da
dj che selezioneranno “colonne sonore
elettroniche”.
Una di queste è dedicata al reading
collettivo di giovani autori pugliesi
accompagnati
da
una
variante
democratica: posizionare dei cubi nei
diversi ambienti dello Zenzero (i reading
points, dotati di microfono) e chiedere,
a chiunque ne abbia voglia, di leggere
un suo testo nel bel mezzo della serata,
mentre la musica va…La chiusura della
rassegna è dedicata al cinema, alla
letteratura e alla musica con Accattone
di Pasolini interpretato da un noto attore
romano sulle musiche degli Omega 3:
chitarra classica, contrabbasso e batteria,
sonorità fortemente caratterizzate dal
timbro mediterraneo e solare. Info www.
zenzeroclub.it
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CoolClub.it
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vecchi numeri al Paisiello di Lecce
giovedì 23/ Daniele Luttazzi al Teatro del
fuoco di Foggia
giovedì 23/ Smemorando con Gianrico
Tedeschi al Teatro Moderno di Tricase
giovedì 23-venerdì 24 / Edoardo II ai
Cantieri Koreja di Lecce
TEATRO/ARTE
da mercoledì 1 a domenica 5/ La nuit, le
ciel est plus grand al Teatro Piccini di Bari
sabato 4 febbraio/ Monòcromi in
estensione ai Cantieri Koreja di Lecce
Il Foyer dei Koreja ospitano sino al 24
febbraio la mostra di Giuseppe Mingolla.
Nella continua ricerca del rigore di una
nitidezza delle forme, i Monòcromi in
estensione, contemplano la capacità
di raccogliere lo spazio, come punto
d’approdo, mondato dal caos, dalle
invasioni di confusioni. Nella quasi assoluta
prevalenza del blu, nelle modulazioni
appena appena curve, rimandano
le estensioni ad uno stato di quiete.
Inaugurazione ore 19.30.
martedì 7/ Pasolini Pasolini al Teatro
Moderno di Tricase (Le)
venerdì 10-sabato 11/ Carnagione
levigata bianca ai Cantieri Koreja di
Lecce
L’educazione fisica
delle fanciulle al
Cinema Elio di
Calimera (Le)
martedì 28/ Vai e
vivrai al Santalucia di Lecce
CORSI
Caffé Letterario di Lecce
Nel 1592 Christopher Marlowe un anno
prima della sua tragica e prematura
morte (a ventinove anni accoltellato
in una taverna londinese) scrisse la sua
ultima tragedia: “Edoardo II”. Verso la
fine di quell’anno scoppia infatti a Londra
la peste che porta alla chiusura di tutti i
teatri del Regno, che saranno riaperti
solo nell’estate del 1594. Un dramma
crudo e impietoso, che pone l’uomo
al centro dell’universo e lo costringe a
indagare le ragioni del proprio esistere,
riproposto ai Cantieri Koreja nell’ambito
della rassegna Strade Maestre dal teatro
Stabile dell’Umbria nell’adattamento di
Antonio Latella. Sipario ore 20.45. Ingresso
10 euro (ridotto 7). Info 083224200.
venerdì 24/ Lezioni di piano al Teatro
Odeon di Molfetta (Ba)
venerdì 24/ Smemorando con Gianrico
Tedeschi al Teatro Impero di Brindisi
sabato 25/ Smemorando con Gianrico
Tedeschi al Teatro Comunale di Ceglie
Messapica (Br)
mercoledì 1 marzo/ Le ultime lune al
Paisiello di Lecce
mercoledì 1/ Stefano Bollani e Banda
Osiris al Teatro Astra di Andria
giovedì 2/ Stefano Bollani e Banda Osiris
al Teatro Roma di Ostuni (Br)
CINEMA
sabato 11-domenica 12/ La bottega del
caffè al Paisiello di Lecce
da domenica 12 a giovedì 16/ Paolo
Borsellino essendo stato a Latiano,
Castellaneta, Andria, Torremaggiore
lunedì 13-martedì 14/ Ferdinando al
Teatro Kursaal Santalucia di Bari
giovedì 16/ Cose perdute Teatro del
Fuoco di Foggia
giovedì 16/ Stefano Bollani e Banda Osiris
al Politeama Greco di Lecce
sabato 18/ Via al Teatro Illiria di Poggiardo
(Le)
mercoledì 22-giovedì 23/ Arsenico e
La redazione di
CoolClub.it non
è responsabile di
eventuali variazioni o
annullamenti.
Gli altri appuntamenti
su www.coolclub.it
Per segnalazioni:
[email protected]
martedì 7/ Il gusto dell’anguria al
Santalucia di Lecce
da martedì 7 a giovedì 9 / La rosa bianca
al Cinema Elio di Calimera (Le)
martedì 14/ Tutti i
battiti del mio cuore al
Santalucia di Lecce
da martedì 14 a
giovedì 16 / L’arco
al Cinema Elio di
Calimera (Le)
da martedì 21 a
giovedì 23 / Il gusto
dell’anguria al Cinema
Elio di Calimera (Le)
martedì 21/ Me and
everyone we know al
Santalucia di Lecce
da martedì 28 feb
a giovedì 2 marzo /
Per partecipare è necessario prenotare
entro il giorno precedente la partenza
del corso
Inglese
inizio corso: mercoledì 22 febbraio - ore
19.30
Docente madrelingua: Jeffrey Blancq
Durata: 6 lezioni, una lezione settimanale
di un’ora
Giorno e orario delle lezioni: mercoledì,
ore 19,30/20,30
Fotografia digitale
inizio corso: giovedì 23 febbraio - ore
19.30
Docente: Marcello Passeri
Durata: 6 lezioni, una lezione settimanale
di un’ora
Giorno e orario delle lezioni: giovedì, ore
19,30/20,30
Spagnolo
inizio corso: venerdì 24 febbraio - ore
19.00
Il corso di spagnolo ha come obiettivo
quello di avvicinare i partecipanti a
questa affascinante lingua. Si parte
dalle basi per poi dare ampio spazio
alla conversazione, alla lettura di testi, a
giochi e test.
Docente madrelingua: Ester Sottile
Durata: due mesi, una lezione settimanale
di un’ora e trenta minuti
Giorno e orario delle lezioni: venerdìì
19,00/20,30
Chitarra
inizio corso: sabato 25 febbraio - ore
16.00
Docente: Giancarlo Del Vitto
Durata: due mesi, una lezione settimanale
di un’ora
Giorno e orario delle lezioni: sabato ore
16.00/17.00 e 17.00/18.00
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MELODIE D’INCHIOSTRO:
MUSICA E FUMETTI
Neil Gaiman, il celebre creatore di
Sandman, e la cantautrice statunitense
Tori Amos (nella foto) sono legati da un
duraturo sodalizio artistico che è l’esempio
perfetto del connubio tra musica e mondo
dei comics. Gaiman, dopo averla spesso
citata nelle sue opere, ha scritto per la
musicista il tour-book dell’album di Cover
Strange little girls, proponendo dodici brevi
descrizioni delle protagoniste delle canzoni.
Tori Amos ha ricambiato dedicando allo
scrittore Space Dog (nell’album Under
the Pink) e Tear in your hand (nell’album
Little Earthquakes) e firmando la bella
prefazione di Death: l’alto costo della vita,
la miniserie di Gaiman incentrata su Death,
uno dei personaggi più amati dai lettori di
Sandman. Ma il versatile fumettista non ha
omaggiato soltanto la rossa Tori; è infatti
autore, assieme al disegnatore Michael
Zulli, di Last Temptation, una miniserie
ispirata alla figura ed all’immaginario del
rocker Alice Cooper; questi ha collaborato
con Gaiman, fornendo lo spunto per la
vicenda del fumetto (edito in Italia da
Magic Press). Mentre il fidato copertinista
di Gaiman, Dave Mc Kean, ha illustrato la
copertina dell’album di Cooper del 1994,
chiamato anch’esso Last Temptation. Il
rocker non è l’unico musicista ad essere
stato protagonista di un fumetto: la band
glam-hardrock Kiss vanta una propria serie
pubblicata dalla Marvel Comics negli
anni ’70, all’apice del successo, ed una
miniserie recentissima Kiss Destroyer (edita
in Italia da Panini Comics) per la TMP di
Todd Mc Farlane, il creatore di Spawn.
Tuttavia, sono i Beatles i musicisti che
hanno il maggior numero di apparizioni in
fumetti d’ogni genere: ai tempi del primo
tour negli USA, i “Fab Four” comparvero
come guest-star al fianco della Cosa e
della Torcia Umana dei Fantastici Quattro,
nella collana della Marvel Comics,
Strange Tales, sancendo così la
loro enorme popolarità presso i
teen-agers americani. Anche la
D.C. Comics si affrettò dunque
a farli apparire in una propria
collana, Superman’s Pal Jimmy
Olsen, affiancandoli al suo
personaggio più noto, Superman.
In entrambi i casi i Beatles furono
inseriti in storie ironiche e leggere,
costruite allo scopo di avvicinare
i personaggi delle maggiori case
editrici americane alle mode del
tempo. Con lo stesso fine, furono
presentati in decine di collane
rosa, come Summer Love, My little
Margie e Laugh, in quanto icone
delle adolescenti. A mio avviso i
migliori omaggi che questa band
abbia ricevuto dal mondo dei
comics sono stati fatti dall’italiano
Milo Manara e dallo scozzese
Grant Morrison: il fumettista
romagnolo in John Lennon (in Storie Brevi
edito da Mondadori) immagina l’ingresso
del musicista nell’aldilà, che egli riesce
a scuotere facendo cantare e danzare
assieme Allah, Buddha, Gesù, diavoli ed
angeli al ritmo di Sg Pepper’s Ionely hears
club band.
Morrison, invece, ha fatto esordire
la propria serie, Invisibles (edita in Italia
da Magic Press), sotto l’egida di Lennon
e soci. In Dead Beatles, il primo numero di
questa serie psichedelica e stravagante,
un teppistello di Liverpool incrocia due
giovanissimi Lennon e Stu Sutcliffe (il
membro uscito dal gruppo prima del
successo) e si rivolge al primo dicendogli:
“Ehi, Mr Lennon”, in un macabro gioco di
citazioni, visto che queste sono le uniche
parole che Marc Chapman disse all’exBeatles prima di ucciderlo. E nel frattempo
il leader degli Invisibles, King Mob, invoca
in una seduta mistica Lennon, in qualità
di divinità dell’LSD. Un altro esempio di
contaminazione tra musica e fumetti sono
le band dei Tre allegri ragazzi morti e degli
inglesi Gorillaz, nate dall’incontro dei due
media.
I due gruppi hanno in comune il rifiuto a
mostrarsi in pubblico, se non attraverso le
fattezze di personaggi disegnati; dunque
i Tre allegri ragazzi morti, nati dalla mente
del disegnatore e musicista Davide Toffolo,
si presentano, nei loro concerti, nascosti
dietro maschere, mentre i Gorillaz non
esistono affatto, essendo stati generati
dall’idea e dalla voce di Damon Albarn
dei Blur e dalla matita di Jamie Hewlett,
il fumettista autore di Tank Girl e regista
dei video (animati) della band. Massima
espressione degli intenti di Albarn e di
Hewlett è stata la splendida esibizione in
3D agli MTV Awards europei del 2005.
Roberto Cesano
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