Approccio alla individuazione delle cause della sindrome dello spopolamento degli alveari (CCD Colony Collapse Disorder) con riferimento alle onde elettromagnetiche GIOVANNA DEL BENE1*, DONATO TESORIERO2, ANNA GLORIA SABATINI2 1CRA 2CRA - Centro di Ricerca per l’Agrobiologia e la Pedologia, Firenze – Unità di Ricerca di Apicoltura e Bachicoltura, Via di Saliceto, 80, 40128 Bologna *Corresponding author: [email protected] SUMMARY Electromagnetic fields as a possible cause of Colony Collapse Disorder (CCD): state of the art. The various hypotheses put forward to explain the Colony Collapse Disorder (CCD) are reviewed. Besides the possible causes due to plant protection products (for instance active substances used for maize seed dressing), or to bee diseases (varroasis, nosemosis, virosis), special attention is paid to the role of electromagnetic (e.m.) fields. After having recalled some basic concepts concerning the nature and biological effects of e.m. radiations, the results of the investigations on the interactions between e.m. fields and bees that have been so far performed are surveyed and discussed. Such investigations spanned a wide range of the e.m. spectrum, from microwaves (frequencies around several GHz) up to the so-called extremely low frequency (ELF) fields, but they were focused mainly on the two extremes for practical purposes. In fact, the microwave region is widely used for radars and portable telephones, whereas ELF fields are generated by high voltage electric lines. Some contradictory results were reported in literature because in some cases electric or magnetic fields or both seem to have a positive relationship with the CCD, while other experiments didn’t show any influence on bee behaviour. Therefore, deeper investigations and proper statistical analyses are suggested to give a definite answer to the problem. Key words: CCD, plant protection products, bee diseases, electromagnetic fields. In questi ultimi anni si sono moltiplicati allarmi a livello planetario sulla rarefazione della popolazione apistica in generale e sulla repentina riduzione delle famiglie di Apis mellifera, la comune ape da miele, utilizzata soprattutto per l’impollinazione delle piante di interesse agrario; ciò ha generato una perdita economica, solo in Italia, di 250 milioni di euro nel 2007. Una traccia della “sindrome da spopolamento degli alveari” si ritrova già nei Congressi internazionali di fine Ottocento ed è per questo che si è concordi nel dire che tale sindrome è nota da tempo, ma recentemente appare con sempre maggiore frequenza e crescente intensità. Il fenomeno è stato caratterizzato per la prima volta circa 15 anni fa in Francia, dove la maggior parte delle colonie collassava in periodo di raccolto senza causa apparente da almeno due anni (Gilles e Layec, 2007). 70 Il Colony Collapse Disorder (CCD) ha colpito fortemente gli Stati Uniti, dove 24 Stati sono alle prese con il problema, con una riduzione della popolazione di api che in diversi allevamenti sfiora il 60 – 70% (Henderson et al., 2007; Bromenshenk, 2007). Si è diffuso in Europa continentale, con particolare intensità, oltre che in Francia (Faucon et al., 2002), in Spagna, Germania (Svensson, 2003), Svizzera e Polonia e ora anche in Italia e Gran Bretagna. In generale la sintomatologia comprende: (i) improvvisa scomparsa delle api adulte; (ii) presenza di molti favi con covata opercolata ad indicare la repentinità dell’evento; (iii) assenza di saccheggio; (iv) minima presenza della tarma della cera, Galleria mellonella, o del coleottero dell’alveare, Aethina tumida, (Lundie, 1940), non ancora diffuso in Europa; (v) presenza, spesso, di una regina che depone circondata da un APOidea Vol. 5, 70-77, 2008 CCD piccolo gruppo di giovani nutrici (Mutinelli e Granato, 2007). Non esiste quindi un’unica causa scatenante, ma è verosimile che l’uomo abbia compromesso, con una lunga serie di “interferenze”, gli equilibri dell’ecosistema alveare. Infatti, tra le ragioni dell’alto tasso di mortalità fra le api ci sono sicuramente le condizioni igienico-sanitarie degli alveari, una nutrizione di scarsa qualità, la siccità, il nomadismo che potrebbe aumentare la trasmissione di agenti patogeni, l’insalubrità del territorio. Inoltre, gli esperti sono concordi nell’attribuire forti responsabilità all’inquinamento da pesticidi impiegati sia per la protezione dei raccolti sia per il controllo di patologie dell’alveare, oltre che ad una recrudescenza delle virosi e della varroasi, e alla presenza di una nuova specie di Nosema (Nosema ceranae, Microsporidia). E’ improbabile che la causa possa essere ricercata anche nell’uso di coltivazioni OGM dal momento che il CCD è comparso in Svizzera dove non esistono tali coltivazioni. E’ invece possibile uno stress “immunodepressivo” sulle api, causato dalla combinazione di più fattori. Inoltre si ipotizza anche un possibile ruolo dell’“inquinamento elettromagnetico”. In Italia la problematica della moria di api e dello spopolamento degli alveari si può dividere in base alla stagionalità: a) nel periodo primaverile-estivo, quando la famiglia subisce una perdita di api bottinatrici a causa di agrofarmaci distribuiti nell’ambiente circostante; b) dalla tarda estate sino al termine dell’inverno successivo, a causa principalmente della varroasi e della difficile e, a volte non corretta, gestione farmacologica della patologia. Agrofarmaci e interazione chimica nell’alveare Tra i fattori esterni all’alveare, sono particolarmente critici e rilevanti i trattamenti fitosanitari, soprattutto quelli effettuati in primavera-estate nelle aree a coltivazione intensiva. La maggior parte delle sostanze attive utilizzate è altamente tossica per le api e gli effetti possono essere immediati e vistosi se le api vengono colpite e uccise direttamente, più subdoli e difficili da collegare alla causa quando si tratta, ad esempio, di insetticidi microincapsulati, di regolatori di crescita (IGR) e di prodotti usati nella concia delle sementi (es. fipronil e i neonicotinoidi imidacloprid, thiametoxam e clothianidin). L’azione del principio attivo può avvenire anche a dosi subletali e provocare anomalie di comportamento rispetto all’orientamento e all’attività sociale delle api agendo anche come fat- APOidea Vol. 5, 70-77, 2008 E ONDE ELETTROMAGNETICHE tore di stress. Ciò può condurre ad uno spopolamento degli alveari. Tali manifestazioni sono attenuate o aggravate da altri fenomeni non facilmente controllabili quali la disponibilità e la qualità del pascolo, la contaminazione ambientale e, soprattutto, le condizioni climatiche. Primavere calde e secche, infatti, possono favorire la persistenza di varie molecole chimiche di uso agricolo sulla vegetazione visitata dalle api per raccogliere nettare, polline, melata e rugiada. Uno degli elementi più rilevanti delle segnalazioni inviate dagli apicoltori è la corrispondenza tra gli effetti osservati e il periodo di semina del mais. Sulla base di tali segnalazioni, nella primavera del 2001 e del 2002, il CRA – Unità di Ricerca di Apicoltura in collaborazione con il Dipartimento di Biologia applicata alla Difesa delle Piante dell’Università di Udine, ha effettuato alcune sperimentazioni i cui risultati hanno dimostrato l’esistenza di una contaminazione ambientale conseguente alla semina del mais conciato con Gaucho (s.a. imidacloprid); ciò potrebbe spiegare i danni alle api segnalati durante il periodo di semina del mais (Greatti et al., 2003, 2006). In particolare, l’accumulo della sostanza attiva sulla flora spontanea circostante i campi di mais potrebbe essere la causa dell’avvelenamento delle api, che raccolgono nettare, polline o rugiada dalle piante sulle quali si è accumulata la polvere con residui di imidacloprid. Il contatto con quantità anche ridotte di sostanza attiva potrebbe causare disturbi di comportamento e impedire alle api il ritrovamento della via di ritorno all’alveare. Questa ipotesi spiegherebbe il verificarsi dei fenomeni segnalati dagli apicoltori soprattutto negli anni di maggiore siccità primaverile (Greatti et al., 2008). Nello stesso periodo sono state svolte dal CRA – Unità di Ricerca di Apicoltura, in collaborazione con il DiSTA - Università di Bologna, alcune sperimentazioni in laboratorio e in campo, per studiare gli effetti di dosi sub-letali di imidacloprid sull’etologia delle api. I risultati ottenuti hanno dimostrato che il principio attivo imidacloprid può effettivamente provocare gli effetti segnalati dagli apicoltori e cioè disorientamento, movimenti lenti e poco coordinati, difficoltà di volo (Medrzycki et al., 2002; Bortolotti et al., 2002). Negli anni successivi, nella primavera del 2005 e 2006, il CRA – Unità di Ricerca di Apicoltura, il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroambientali dell’Università di Bologna e l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie hanno svolto un’indagine sperimentale sulla mortalità e spopolamento degli 71 DEL BENE ET AL. alveari (nel periodo inizio marzo – fine maggio), con il contributo finanziario della Bayer Crop Science, in diverse aree delle regioni Emilia-Romagna e Veneto, con presenza o meno di mais. L’elaborazione statistica dei dati ha evidenziato che la mortalità delle api è correlata positivamente con la presenza di mais, barbabietola e soia, e negativamente con gli appezzamenti di vite, la corretta gestione degli alveari e la presenza di polline con alto valore proteico (dati non pubblicati). Oltre alle sostanze descritte sopra, molti apicoltori trattano le loro famiglie con sostanze chimiche in grado di mantenerle in salute, in particolare per contenere la varroa, il coleottero cleptoparassita Aethinia tumida e la tarma della cera Galleria mellonella. Il prodotto Apistan, a base del piretroide fluvalinate, era usato in passato per il contenimento della varroasi. Dopo lo sviluppo di resistenza (Macedo et al., 2002; Faucon et al., 1995), Apistan è stato sostituito da un organofosfato, il coumafos (Perizin), che a sua volta ha indotto resistenza (Pettis, 2004). Attualmente viene usato amitraz, un triazapentadiene. Molti apicoltori utilizzano anche acido formico, ossalico e/o oli essenziali. Patologie Le attuali ipotesi sulle cause del CCD prendono in considerazione l’infestazione da varroa – che rimane il maggiore imputato - nuove malattie o malattie emergenti, in particolare una nuova specie di nosema (Nosema ceranae) (Higes et al., 2006), recentemente identificata in Apis cerana nel continente asiatico (Fries et al., 1996) e successivamente diffusasi in Europa associata ad Apis mellifera (Huang et al., 2007; Fries et al., 2006; Higes et al., 2006). Pur essendo endemica in Italia, la nosemiasi provoca danni evidenti solo in alcuni distretti, specialmente nelle regioni dell’Italia settentrionale, sovente come conseguenza di fattori climatici e stagionali predisponenti (inverni lunghi e rigidi e primavere piovose) causando spesso la perdita del primo raccolto primaverile, solitamente quello del miele di acacia. Al momento non esistono in Unione Europea trattamenti chemioterapici autorizzati per contrastare questo agente. Nell’inverno 2006/2007 in molti Stati degli USA gli apicoltori hanno segnalato una rilevante mortalità di famiglie di api con perdite comprese fra il 30 ed il 90%: molte famiglie morte in quel periodo presentavano i tipici sintomi collegati all’infestazione da acari (varroasi, acariosi tracheale). Analisi metagenomiche (in riferimento a microbi e/o virus presenti) del con- 72 tenuto intestinale di api di alveari colpiti hanno portato alla determinazione della presenza di Nosema ceranae e di forme virali vicine al Kashmir virus (CoxFoster et al., 2007). Gli stessi agenti sono però riscontrati, meno assiduamente, anche in famiglie non colpite da spopolamento. Questo riporta alla necessaria concomitanza di svariati fattori nella manifestazione patologica tali da generare una forte debilitazione immunitaria dell’ape stessa, legata ad una condizione di stress (Sumpter e Martin, 2004; Allen e Ball, 1996). È anche possibile che diversi aplotipi di Nosema ceranae abbiano maggiore virulenza e capacità infettiva. Recenti studi (Sumpter e Martin, 2004) sembrano indicare nelle infezioni da Israeli Acute Paralysis Virus (IAPV) una causa di spopolamento in Nord America. In effetti i sintomi causati dall’IAPV sono molto simili a quelli riscontrati nelle api adulte colpite da CCD. In generale le virosi delle api rappresentano patologie gravi e molto diffuse, la cui conoscenza non risulta ancora sufficientemente approfondita. Un’attenta valutazione dello stato sanitario delle famiglie può permettere una diagnosi precoce delle patologie della covata e ridurre il loro potenziale infettivo. Idonee strategie di difesa nei confronti della varroa possono minimizzare i danni diretti ma soprattutto il suo ruolo di vettore di virosi. Riguardo alla varroa, l’impatto di questa parassitosi con l’apicoltura italiana, nei primi anni ottanta del secolo scorso, è stato violentissimo, a causa dell’impreparazione, dello scoordinamento delle iniziative e della mancanza di mezzi adeguati di lotta. È ormai noto che il collasso delle famiglie non è causato direttamente dal parassita, ma dalla diffusione di virosi sostenute da APV (Acute Paralisys Virus) e DWV (Deformed Wings Virus) (Bowen-Walker et al., 1999), raramente riscontrate in famiglie non infestate (Nordstrom et al., 1999). La varroa agisce come vettore del virus, ma a quanto pare è anche in grado di attivare infestazioni latenti. D’altra parte, le conoscenze sulla fase di latenza delle virosi e sui fattori responsabili dell’attivazione dei virus sono ancora molto scarse (Pennacchio, 2008). Campi elettromagnetici ed api Prima di esaminare il possibile ruolo dei campi elettromagnetici nel CCD si ritiene utile riportare alcuni concetti base per una migliore comprensione dell’argomento. Un campo elettrico (o magnetico) è una zona di spazio modificata dalla presenza di una carica elettrica (o di un magnete). In realtà elettricità e magnetismo APOidea Vol. 5, 70-77, 2008 CCD sono fenomeni strettamente correlati fra di loro, perché la variazione di un campo magnetico può generare una corrente elettrica e una corrente elettrica genera intorno a sé un campo magnetico. Difatti, è per questo motivo che nelle linee di trasmissione elettrica ad alta tensione si ha la generazione di campi magnetici non trascurabili. Data dunque l’interconnessione tra campi elettrici e campi magnetici è più conveniente parlare di elettromagnetismo. I campi elettromagnetici possono essere statici (invariabili nel tempo) o variabili nel tempo. In quest’ultimo caso la variazione si propaga nello spazio come onda elettromagnetica. Pertanto, una radiazione elettromagnetica è costituita da un campo elettrico e da un campo magnetico (tra loro perpendicolari) oscillanti che si propagano nello spazio. Le grandezze caratterizzanti la radiazione elettromagnetica sono l’ampiezza, che descrive l’intensità del campo, e la frequenza di oscillazione, che si misura in oscillazioni al secondo o hertz (Hz). Altre grandezze d’interesse nel presente contesto sono: la potenza espressa in watt (W); l’intensità del campo elettrico, misurata in volt/metro (V/m); l’intensità del campo magnetico, in ampere/metro (A/m); l’induzione magnetica B, data dal prodotto dell’intensità del campo magnetico H per la permeabilità magnetica p del mezzo: B=pH, misurata in tesla (T). Essendo questa un’unità di misura molto grande, si utilizzano spesso i sottomultipli millitesla (mT), microtesla (µT) e nanotesla (nT), rispettivamente 10-3, 10-6 e 10-9 T; altra misura meno usata è il gauss (G) = 10-4 T. Le radiazioni elettromagnetiche coprono un ampissimo intervallo di frequenze, da pochi Hz (campi quasi statici) a miliardi di miliardi di Hz (1018 Hz) nel caso di raggi X o γ. Queste ultime radiazioni sono dette ionizzanti in quanto la loro energia è talmente elevata da rompere i legami chimici e ionizzare la materia. Radiazioni di minor frequenza (e quindi di minore energia) come le radiazioni visibili, infrarosse, microonde e radiofrequenze, sono dette invece non ionizzanti, NIR (Non Ionizing Radiation), dal momento che l’interazione con la materia produce effetti primari diversi dalla ionizzazione. Da un punto di vista prettamente biomedico, anche se impropriamente, sono altresì considerate sorgenti NIR, anche i campi elettrostatici, i campi magnetostatici ed il passaggio di energia attraverso la materia sotto forma di vibrazioni ultrasoniche. È ovvio che i campi sono più forti nelle immediate vicinanze della sorgente, ma perdono rapidamente di intensità man mano che ci si allontana dalla fonte d’emissione. Intorno al 1950 si rilevavano al suolo dei paesi occi- APOidea Vol. 5, 70-77, 2008 E ONDE ELETTROMAGNETICHE dentali appena 10 pW/cm2 nello spettro di frequenze da 100 kHz a 300 GHz, mentre attualmente si misurano valori da un milione a un miliardo di volte più alti, a causa del rapido sviluppo delle telecomunicazioni. Nel campo delle microonde, la diffusione della telefonia mobile richiede l’allestimento di una vera e propria rete di antenne emittenti su tutti i territori coperti dal servizio, comportando un significativo incremento dell’esposizione a queste radiazioni. Le NIR che destano maggior interesse negli studiosi, per i loro possibili effetti sugli animali e sull’uomo, sono le ELF (Extremely Low Frequencies), onde a bassissima frequenza (30-300 Hz) tipiche delle linee di trasmissione, e le RF/MW (radiofrequenze/microonde), con banda di frequenza comprese tra 300 MHz e 300 GHz, in cui ricadono le radiazioni dei cellulari, dei forni a microonde e delle trasmissioni radiotelevisive. Quando un organismo biologico si trova in un campo elettrico e/o magnetico, ha inevitabilmente luogo un’interazione tra le forze dei campi e le correnti elettriche presenti nei tessuti dell’organismo che sono in linea di massima dei buoni conduttori, in particolare alle basse frequenze. Come conseguenza dell’interazione, all’interno dell’organismo vengono indotte grandezze fisiche (campo elettrico, campo magnetico, densità di corrente) legate all’intensità ed alla frequenza dei campi, alle caratteristiche dell’organismo ed alle modalità di esposizione. Il risultato dell’interazione è sempre un effetto, inteso come “deviazione delle condizioni dei tessuti dalla precedente condizione di equilibrio”. Quando i normali meccanismi di compensazione di cui ogni organismo dispone sono in grado di annullare la perturbazione, ripristinando la condizione di equilibrio, si parla di “effetto indifferente”; se invece questo non avviene, l’effetto diviene “manifesto” e può in linea di massima essere benefico se (almeno in qualche particolare condizione) procura un vantaggio all’organismo, oppure avverso se gli procura un danno; se il danno permane anche dopo aver interrotto l’esposizione, parleremo di “danno permanente”. Il primo passo verso un’associazione positiva tra danni alla salute e campi elettromagnetici a frequenza di rete (50-60 Hz) fu effettuato nel 1972, allorché ricercatori sovietici resero noti i risultati di molteplici studi condotti su operatori addetti alla manutenzione di interruttori, in stazioni elettriche ad alto voltaggio. Il risultato di queste ricerche (Korobkova et al., 1972) evidenziava l’insorgenza di molteplici disturbi non specifici come impotenza, scarsa redditività sul lavoro, insonnia, vertigini, vomito, emicrania, spossatezza 73 DEL BENE ET AL. che venivano a cessare nell’istante in cui terminava l’esposizione ai campi prodotti dalle linee. Gli autori della ricerca notarono anche una variazione della struttura e del numero dei globuli bianchi e rossi e modificazioni della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca. Secondo una preliminare ipotesi formulata dai ricercatori dell’Istituto di Scienze Naturali dell’Università Landau, le radiazioni emesse dai cellulari potrebbero essere le responsabili proprio del CCD (Stever et al., 2006). In particolare, la capacità di homing e la forza della famiglia (in termini di peso e quantità di api) in presenza di radiazioni elettromagnetiche è stata valutata ponendo un cordless all’interno di 4 alveari su 8 considerati. Gli alveari “trattati” presentavano un sviluppo più lento e un tempo di ritorno all’alveare più lungo. Inoltre il 40% delle api degli alveari “non trattati” era in grado di tornare all’alveare contro il 7% di quelli “trattati”. L’ipotesi è che le radiazioni interferiscano con il sistema d’orientamento degli insetti, impedendo loro di rintracciare la via dell’arnia, portandoli a disperdersi e morire altrove anche se precedenti indagini avevano mostrato che l’effetto di disorientamento sembrava esaurirsi entro alcune settimane (Korall, 1987). È stato dimostrato altresì che l’applicazione di magneti sul tetto di arnie razionali con polo sud verso l’arnia ha prodotto una rotazione antioraria di 70° nell’allineamento dei favi; la rotazione diventa in senso orario se viene invertita la polarità (Rumsey, 2005). Le indagini fin qui svolte hanno preso in considerazione un vasto intervallo dello spettro elettromagnetico, dalle microonde con frequenze dell’ordine dei GHz fino ai così detti campi ELF dell’ordine delle decine di Hz, focalizzandosi sopra tutto ai due estremi. Infatti, la regione delle microonde, come detto precedentemente, è ampiamente utilizzata per radar e telefoni cellulari, mentre i campi ELF sono generati dalle linee di trasmissione elettriche ad alto potenziale. Studi sulla magnetoricezione delle api hanno evidenziato che le api sono capaci di rilevare piccolissime fluttuazioni di campo magnetico statico fino a valori di 26 nT. Però la soglia limite inferiore di sensibilità si innalza all’aumentare della frequenza nel caso di campi magnetici alternati (Kirschvink et al., 1997). Nel caso delle linee di trasmissione (in Italia 50 Hz), i campi magnetici che si vengono a creare in loro prossimità sono dell’ ordine del centinaio di nT. Pertanto non appare irragionevole supporre che il sistema di magnetoricezione sia disturbato. Già nel 1978 alcuni autori avevano dimostrato che nell’addome di 74 api adulte erano presenti finissimi granuli di magnetite (Gould et al., 1978) e che questi erano responsabili negli adulti di una specie di “memoria magnetica” e della sensibilità ai campi magnetici. Tale sensibilità non era stata riscontrata negli stati preimmaginali. Successive indagini evidenziarono che il ferro della magnetite derivava in maggior parte dal polline e i suoi livelli crescevano nei trofociti dei corpi grassi delle bottinatrici fino a raggiungere un plateau di circa 2,2 µg Fe/mg (Kuterbach, 1985). L’esposizione a campi ELF ha prodotto dati abbastanza contrastanti. Infatti, mentre lavori effettuati considerando linee di trasmissione a 380 kV e 50 Hz sembravano indicare assenza di effetti (Lecomte e Theurkauff, 1976), altri lavori relativi a voltaggi inferiori (110 o 220 kV) (Wellenstein, 1973) o superiori (765 kV, frequenza 60 Hz) (Greenberg et al., 1981) mostravano l’esistenza di vari effetti quali perdita della regina o diminuzione della sopravvivenza invernale. Nel 1974 ricercatori russi (Eskov e Sapozhnikov, 1974) osservarono che durante la danza delle api venivano emessi segnali elettromagnetici con una frequenza di 180-250 Hz (il cellulare ha una frequenza di modulazione di 217 Hz). Successivamente, Tomlinson et al. (1981) dimostrarono che all’interno di una colonia esposta ad un debole campo magnetico (circa 70 gauss), la durata media della danza scendeva da 34 a 19 secondi mentre precedentemente si era visto che la stessa danza subiva variazioni collegate ad un capo magnetico (Kilbert, 1979). Allo stato attuale delle conoscenze sappiamo che l’esposizione delle api a campi di alta frequenza (2,45 GHz) a varie intensità non ha rivelato significativi effetti sulla mortalità (Gary e Westerdahl, 1980; 1981a, b; 1982; Westerdahl e Gary, 1981). Tuttavia, recenti indagini (Kimmel et al. 2007) condotte utilizzando stazioni base per telefoni cellulari di recente generazione (frequenza 1,90 GHz, potenza media 10 mW, potenza di picco 250 mW, frequenza di modulazione 100 Hz) hanno mostrato una differenza significativa nella capacità di ritorno all’alveare tra le api esposte e il controllo non esposto. Al di là di qualsiasi effetto, è stato comunque dimostrato che le api sono perfettamente in grado di discriminare anche tra diversi campi magnetici (Walker e Bitterman, 1985) e quindi non appare irragionevole supporre che variazioni dovute ad interferenze di origine antropica possano confonderle fino ad impedir loro di rientrare al nido generando conseguenze simili a quelle descritte per il CCD. Tuttavia, le indagini statistiche finora effettuate sono lontane dall’avere dato una risposta definitiva al problema. APOidea Vol. 5, 70-77, 2008 CCD Ringraziamenti Gli Autori desiderano ringraziare l’Istituto di Fisica Applicata “Nello Carrara” del CNR di Firenze (IFACCNR) per le utili discussioni e informazioni. Bibliografia ALLEN M. D., BALL B., 1996 - The incidence and world distribution of honey bee viruses. Bee World, 77: 141-162. 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