Api e frequenze elettromagnetiche

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Approccio alla individuazione delle cause della
sindrome dello spopolamento degli alveari
(CCD Colony Collapse Disorder)
con riferimento alle onde elettromagnetiche
GIOVANNA DEL BENE1*, DONATO TESORIERO2, ANNA GLORIA SABATINI2
1CRA
2CRA
- Centro di Ricerca per l’Agrobiologia e la Pedologia, Firenze
– Unità di Ricerca di Apicoltura e Bachicoltura, Via di Saliceto, 80, 40128 Bologna
*Corresponding author: [email protected]
SUMMARY
Electromagnetic fields as a possible cause of Colony Collapse Disorder (CCD): state of the art.
The various hypotheses put forward to explain the Colony Collapse Disorder (CCD) are reviewed. Besides the
possible causes due to plant protection products (for instance active substances used for maize seed dressing), or
to bee diseases (varroasis, nosemosis, virosis), special attention is paid to the role of electromagnetic (e.m.) fields.
After having recalled some basic concepts concerning the nature and biological effects of e.m. radiations, the
results of the investigations on the interactions between e.m. fields and bees that have been so far performed are
surveyed and discussed. Such investigations spanned a wide range of the e.m. spectrum, from microwaves (frequencies around several GHz) up to the so-called extremely low frequency (ELF) fields, but they were focused
mainly on the two extremes for practical purposes. In fact, the microwave region is widely used for radars and
portable telephones, whereas ELF fields are generated by high voltage electric lines. Some contradictory results
were reported in literature because in some cases electric or magnetic fields or both seem to have a positive relationship with the CCD, while other experiments didn’t show any influence on bee behaviour. Therefore, deeper investigations and proper statistical analyses are suggested to give a definite answer to the problem.
Key words: CCD, plant protection products, bee diseases, electromagnetic fields.
In questi ultimi anni si sono moltiplicati allarmi a
livello planetario sulla rarefazione della popolazione
apistica in generale e sulla repentina riduzione delle
famiglie di Apis mellifera, la comune ape da miele, utilizzata soprattutto per l’impollinazione delle piante di
interesse agrario; ciò ha generato una perdita economica, solo in Italia, di 250 milioni di euro nel 2007.
Una traccia della “sindrome da spopolamento degli
alveari” si ritrova già nei Congressi internazionali di
fine Ottocento ed è per questo che si è concordi nel
dire che tale sindrome è nota da tempo, ma recentemente appare con sempre maggiore frequenza e crescente intensità. Il fenomeno è stato caratterizzato per
la prima volta circa 15 anni fa in Francia, dove la maggior parte delle colonie collassava in periodo di raccolto senza causa apparente da almeno due anni (Gilles e Layec, 2007).
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Il Colony Collapse Disorder (CCD) ha colpito fortemente gli Stati Uniti, dove 24 Stati sono alle prese con
il problema, con una riduzione della popolazione di
api che in diversi allevamenti sfiora il 60 – 70% (Henderson et al., 2007; Bromenshenk, 2007). Si è diffuso
in Europa continentale, con particolare intensità,
oltre che in Francia (Faucon et al., 2002), in Spagna,
Germania (Svensson, 2003), Svizzera e Polonia e ora
anche in Italia e Gran Bretagna.
In generale la sintomatologia comprende: (i) improvvisa scomparsa delle api adulte; (ii) presenza di molti
favi con covata opercolata ad indicare la repentinità
dell’evento; (iii) assenza di saccheggio; (iv) minima
presenza della tarma della cera, Galleria mellonella, o
del coleottero dell’alveare, Aethina tumida, (Lundie,
1940), non ancora diffuso in Europa; (v) presenza,
spesso, di una regina che depone circondata da un
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CCD
piccolo gruppo di giovani nutrici (Mutinelli e Granato, 2007).
Non esiste quindi un’unica causa scatenante, ma è
verosimile che l’uomo abbia compromesso, con una
lunga serie di “interferenze”, gli equilibri dell’ecosistema alveare. Infatti, tra le ragioni dell’alto tasso di
mortalità fra le api ci sono sicuramente le condizioni
igienico-sanitarie degli alveari, una nutrizione di scarsa qualità, la siccità, il nomadismo che potrebbe
aumentare la trasmissione di agenti patogeni, l’insalubrità del territorio. Inoltre, gli esperti sono concordi
nell’attribuire forti responsabilità all’inquinamento da
pesticidi impiegati sia per la protezione dei raccolti sia
per il controllo di patologie dell’alveare, oltre che ad
una recrudescenza delle virosi e della varroasi, e alla
presenza di una nuova specie di Nosema (Nosema
ceranae, Microsporidia).
E’ improbabile che la causa possa essere ricercata
anche nell’uso di coltivazioni OGM dal momento che
il CCD è comparso in Svizzera dove non esistono tali
coltivazioni. E’ invece possibile uno stress “immunodepressivo” sulle api, causato dalla combinazione di
più fattori. Inoltre si ipotizza anche un possibile ruolo
dell’“inquinamento elettromagnetico”.
In Italia la problematica della moria di api e dello spopolamento degli alveari si può dividere in base alla
stagionalità:
a) nel periodo primaverile-estivo, quando la famiglia
subisce una perdita di api bottinatrici a causa di agrofarmaci distribuiti nell’ambiente circostante;
b) dalla tarda estate sino al termine dell’inverno successivo, a causa principalmente della varroasi e della
difficile e, a volte non corretta, gestione farmacologica della patologia.
Agrofarmaci e interazione chimica nell’alveare
Tra i fattori esterni all’alveare, sono particolarmente
critici e rilevanti i trattamenti fitosanitari, soprattutto
quelli effettuati in primavera-estate nelle aree a coltivazione intensiva. La maggior parte delle sostanze
attive utilizzate è altamente tossica per le api e gli
effetti possono essere immediati e vistosi se le api vengono colpite e uccise direttamente, più subdoli e difficili da collegare alla causa quando si tratta, ad esempio, di insetticidi microincapsulati, di regolatori di
crescita (IGR) e di prodotti usati nella concia delle
sementi (es. fipronil e i neonicotinoidi imidacloprid,
thiametoxam e clothianidin). L’azione del principio
attivo può avvenire anche a dosi subletali e provocare
anomalie di comportamento rispetto all’orientamento
e all’attività sociale delle api agendo anche come fat-
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tore di stress. Ciò può condurre ad uno spopolamento degli alveari.
Tali manifestazioni sono attenuate o aggravate da altri
fenomeni non facilmente controllabili quali la disponibilità e la qualità del pascolo, la contaminazione
ambientale e, soprattutto, le condizioni climatiche.
Primavere calde e secche, infatti, possono favorire la
persistenza di varie molecole chimiche di uso agricolo
sulla vegetazione visitata dalle api per raccogliere nettare, polline, melata e rugiada.
Uno degli elementi più rilevanti delle segnalazioni
inviate dagli apicoltori è la corrispondenza tra gli
effetti osservati e il periodo di semina del mais.
Sulla base di tali segnalazioni, nella primavera del
2001 e del 2002, il CRA – Unità di Ricerca di Apicoltura in collaborazione con il Dipartimento di Biologia
applicata alla Difesa delle Piante dell’Università di
Udine, ha effettuato alcune sperimentazioni i cui
risultati hanno dimostrato l’esistenza di una contaminazione ambientale conseguente alla semina del mais
conciato con Gaucho (s.a. imidacloprid); ciò potrebbe spiegare i danni alle api segnalati durante il periodo di semina del mais (Greatti et al., 2003, 2006).
In particolare, l’accumulo della sostanza attiva sulla
flora spontanea circostante i campi di mais potrebbe
essere la causa dell’avvelenamento delle api, che raccolgono nettare, polline o rugiada dalle piante sulle
quali si è accumulata la polvere con residui di imidacloprid. Il contatto con quantità anche ridotte di
sostanza attiva potrebbe causare disturbi di comportamento e impedire alle api il ritrovamento della via di
ritorno all’alveare. Questa ipotesi spiegherebbe il verificarsi dei fenomeni segnalati dagli apicoltori soprattutto negli anni di maggiore siccità primaverile
(Greatti et al., 2008).
Nello stesso periodo sono state svolte dal CRA –
Unità di Ricerca di Apicoltura, in collaborazione con
il DiSTA - Università di Bologna, alcune sperimentazioni in laboratorio e in campo, per studiare gli effetti di dosi sub-letali di imidacloprid sull’etologia delle
api. I risultati ottenuti hanno dimostrato che il principio attivo imidacloprid può effettivamente provocare gli effetti segnalati dagli apicoltori e cioè disorientamento, movimenti lenti e poco coordinati, difficoltà
di volo (Medrzycki et al., 2002; Bortolotti et al.,
2002).
Negli anni successivi, nella primavera del 2005 e
2006, il CRA – Unità di Ricerca di Apicoltura, il
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroambientali dell’Università di Bologna e l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie hanno svolto un’indagine sperimentale sulla mortalità e spopolamento degli
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DEL BENE
ET AL.
alveari (nel periodo inizio marzo – fine maggio), con il
contributo finanziario della Bayer Crop Science, in
diverse aree delle regioni Emilia-Romagna e Veneto,
con presenza o meno di mais. L’elaborazione statistica
dei dati ha evidenziato che la mortalità delle api è correlata positivamente con la presenza di mais, barbabietola e soia, e negativamente con gli appezzamenti di
vite, la corretta gestione degli alveari e la presenza di
polline con alto valore proteico (dati non pubblicati).
Oltre alle sostanze descritte sopra, molti apicoltori
trattano le loro famiglie con sostanze chimiche in
grado di mantenerle in salute, in particolare per contenere la varroa, il coleottero cleptoparassita Aethinia
tumida e la tarma della cera Galleria mellonella. Il prodotto Apistan, a base del piretroide fluvalinate, era
usato in passato per il contenimento della varroasi.
Dopo lo sviluppo di resistenza (Macedo et al., 2002;
Faucon et al., 1995), Apistan è stato sostituito da un
organofosfato, il coumafos (Perizin), che a sua volta
ha indotto resistenza (Pettis, 2004). Attualmente
viene usato amitraz, un triazapentadiene. Molti apicoltori utilizzano anche acido formico, ossalico e/o oli
essenziali.
Patologie
Le attuali ipotesi sulle cause del CCD prendono in
considerazione l’infestazione da varroa – che rimane il
maggiore imputato - nuove malattie o malattie emergenti, in particolare una nuova specie di nosema
(Nosema ceranae) (Higes et al., 2006), recentemente
identificata in Apis cerana nel continente asiatico
(Fries et al., 1996) e successivamente diffusasi in
Europa associata ad Apis mellifera (Huang et al., 2007;
Fries et al., 2006; Higes et al., 2006).
Pur essendo endemica in Italia, la nosemiasi provoca
danni evidenti solo in alcuni distretti, specialmente
nelle regioni dell’Italia settentrionale, sovente come
conseguenza di fattori climatici e stagionali predisponenti (inverni lunghi e rigidi e primavere piovose)
causando spesso la perdita del primo raccolto primaverile, solitamente quello del miele di acacia. Al
momento non esistono in Unione Europea trattamenti chemioterapici autorizzati per contrastare questo agente.
Nell’inverno 2006/2007 in molti Stati degli USA gli
apicoltori hanno segnalato una rilevante mortalità di
famiglie di api con perdite comprese fra il 30 ed il
90%: molte famiglie morte in quel periodo presentavano i tipici sintomi collegati all’infestazione da acari
(varroasi, acariosi tracheale). Analisi metagenomiche
(in riferimento a microbi e/o virus presenti) del con-
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tenuto intestinale di api di alveari colpiti hanno portato alla determinazione della presenza di Nosema
ceranae e di forme virali vicine al Kashmir virus (CoxFoster et al., 2007). Gli stessi agenti sono però riscontrati, meno assiduamente, anche in famiglie non colpite da spopolamento. Questo riporta alla necessaria
concomitanza di svariati fattori nella manifestazione
patologica tali da generare una forte debilitazione
immunitaria dell’ape stessa, legata ad una condizione
di stress (Sumpter e Martin, 2004; Allen e Ball,
1996). È anche possibile che diversi aplotipi di Nosema ceranae abbiano maggiore virulenza e capacità
infettiva. Recenti studi (Sumpter e Martin, 2004)
sembrano indicare nelle infezioni da Israeli Acute
Paralysis Virus (IAPV) una causa di spopolamento in
Nord America. In effetti i sintomi causati dall’IAPV
sono molto simili a quelli riscontrati nelle api adulte
colpite da CCD. In generale le virosi delle api rappresentano patologie gravi e molto diffuse, la cui conoscenza non risulta ancora sufficientemente approfondita. Un’attenta valutazione dello stato sanitario delle
famiglie può permettere una diagnosi precoce delle
patologie della covata e ridurre il loro potenziale infettivo. Idonee strategie di difesa nei confronti della varroa possono minimizzare i danni diretti ma soprattutto il suo ruolo di vettore di virosi.
Riguardo alla varroa, l’impatto di questa parassitosi
con l’apicoltura italiana, nei primi anni ottanta del
secolo scorso, è stato violentissimo, a causa dell’impreparazione, dello scoordinamento delle iniziative e
della mancanza di mezzi adeguati di lotta. È ormai
noto che il collasso delle famiglie non è causato direttamente dal parassita, ma dalla diffusione di virosi
sostenute da APV (Acute Paralisys Virus) e DWV
(Deformed Wings Virus) (Bowen-Walker et al., 1999),
raramente riscontrate in famiglie non infestate (Nordstrom et al., 1999). La varroa agisce come vettore del
virus, ma a quanto pare è anche in grado di attivare
infestazioni latenti. D’altra parte, le conoscenze sulla
fase di latenza delle virosi e sui fattori responsabili dell’attivazione dei virus sono ancora molto scarse (Pennacchio, 2008).
Campi elettromagnetici ed api
Prima di esaminare il possibile ruolo dei campi elettromagnetici nel CCD si ritiene utile riportare alcuni
concetti base per una migliore comprensione dell’argomento.
Un campo elettrico (o magnetico) è una zona di spazio modificata dalla presenza di una carica elettrica (o
di un magnete). In realtà elettricità e magnetismo
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CCD
sono fenomeni strettamente correlati fra di loro, perché la variazione di un campo magnetico può generare una corrente elettrica e una corrente elettrica genera intorno a sé un campo magnetico. Difatti, è per
questo motivo che nelle linee di trasmissione elettrica
ad alta tensione si ha la generazione di campi magnetici non trascurabili. Data dunque l’interconnessione
tra campi elettrici e campi magnetici è più conveniente parlare di elettromagnetismo.
I campi elettromagnetici possono essere statici (invariabili nel tempo) o variabili nel tempo. In quest’ultimo caso la variazione si propaga nello spazio come
onda elettromagnetica. Pertanto, una radiazione elettromagnetica è costituita da un campo elettrico e da
un campo magnetico (tra loro perpendicolari) oscillanti che si propagano nello spazio.
Le grandezze caratterizzanti la radiazione elettromagnetica sono l’ampiezza, che descrive l’intensità del
campo, e la frequenza di oscillazione, che si misura in
oscillazioni al secondo o hertz (Hz). Altre grandezze
d’interesse nel presente contesto sono: la potenza
espressa in watt (W); l’intensità del campo elettrico,
misurata in volt/metro (V/m); l’intensità del campo
magnetico, in ampere/metro (A/m); l’induzione
magnetica B, data dal prodotto dell’intensità del
campo magnetico H per la permeabilità magnetica p
del mezzo: B=pH, misurata in tesla (T). Essendo questa un’unità di misura molto grande, si utilizzano
spesso i sottomultipli millitesla (mT), microtesla (µT)
e nanotesla (nT), rispettivamente 10-3, 10-6 e 10-9 T;
altra misura meno usata è il gauss (G) = 10-4 T.
Le radiazioni elettromagnetiche coprono un ampissimo intervallo di frequenze, da pochi Hz (campi quasi
statici) a miliardi di miliardi di Hz (1018 Hz) nel caso
di raggi X o γ. Queste ultime radiazioni sono dette
ionizzanti in quanto la loro energia è talmente elevata
da rompere i legami chimici e ionizzare la materia.
Radiazioni di minor frequenza (e quindi di minore
energia) come le radiazioni visibili, infrarosse,
microonde e radiofrequenze, sono dette invece non
ionizzanti, NIR (Non Ionizing Radiation), dal
momento che l’interazione con la materia produce
effetti primari diversi dalla ionizzazione.
Da un punto di vista prettamente biomedico, anche
se impropriamente, sono altresì considerate sorgenti
NIR, anche i campi elettrostatici, i campi magnetostatici ed il passaggio di energia attraverso la materia
sotto forma di vibrazioni ultrasoniche. È ovvio che i
campi sono più forti nelle immediate vicinanze della
sorgente, ma perdono rapidamente di intensità man
mano che ci si allontana dalla fonte d’emissione.
Intorno al 1950 si rilevavano al suolo dei paesi occi-
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dentali appena 10 pW/cm2 nello spettro di frequenze
da 100 kHz a 300 GHz, mentre attualmente si misurano valori da un milione a un miliardo di volte più
alti, a causa del rapido sviluppo delle telecomunicazioni. Nel campo delle microonde, la diffusione della
telefonia mobile richiede l’allestimento di una vera e
propria rete di antenne emittenti su tutti i territori
coperti dal servizio, comportando un significativo
incremento dell’esposizione a queste radiazioni.
Le NIR che destano maggior interesse negli studiosi,
per i loro possibili effetti sugli animali e sull’uomo,
sono le ELF (Extremely Low Frequencies), onde a bassissima frequenza (30-300 Hz) tipiche delle linee di
trasmissione, e le RF/MW (radiofrequenze/microonde), con banda di frequenza comprese tra 300 MHz e
300 GHz, in cui ricadono le radiazioni dei cellulari,
dei forni a microonde e delle trasmissioni radiotelevisive.
Quando un organismo biologico si trova in un campo
elettrico e/o magnetico, ha inevitabilmente luogo
un’interazione tra le forze dei campi e le correnti elettriche presenti nei tessuti dell’organismo che sono in
linea di massima dei buoni conduttori, in particolare
alle basse frequenze. Come conseguenza dell’interazione, all’interno dell’organismo vengono indotte
grandezze fisiche (campo elettrico, campo magnetico,
densità di corrente) legate all’intensità ed alla frequenza dei campi, alle caratteristiche dell’organismo ed alle
modalità di esposizione. Il risultato dell’interazione è
sempre un effetto, inteso come “deviazione delle condizioni dei tessuti dalla precedente condizione di
equilibrio”. Quando i normali meccanismi di compensazione di cui ogni organismo dispone sono in
grado di annullare la perturbazione, ripristinando la
condizione di equilibrio, si parla di “effetto indifferente”; se invece questo non avviene, l’effetto diviene
“manifesto” e può in linea di massima essere benefico
se (almeno in qualche particolare condizione) procura un vantaggio all’organismo, oppure avverso se gli
procura un danno; se il danno permane anche dopo
aver interrotto l’esposizione, parleremo di “danno
permanente”.
Il primo passo verso un’associazione positiva tra danni
alla salute e campi elettromagnetici a frequenza di rete
(50-60 Hz) fu effettuato nel 1972, allorché ricercatori sovietici resero noti i risultati di molteplici studi
condotti su operatori addetti alla manutenzione di
interruttori, in stazioni elettriche ad alto voltaggio.
Il risultato di queste ricerche (Korobkova et al., 1972)
evidenziava l’insorgenza di molteplici disturbi non
specifici come impotenza, scarsa redditività sul lavoro,
insonnia, vertigini, vomito, emicrania, spossatezza
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DEL BENE
ET AL.
che venivano a cessare nell’istante in cui terminava l’esposizione ai campi prodotti dalle linee. Gli autori
della ricerca notarono anche una variazione della
struttura e del numero dei globuli bianchi e rossi e
modificazioni della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca.
Secondo una preliminare ipotesi formulata dai ricercatori dell’Istituto di Scienze Naturali dell’Università
Landau, le radiazioni emesse dai cellulari potrebbero
essere le responsabili proprio del CCD (Stever et al.,
2006).
In particolare, la capacità di homing e la forza della
famiglia (in termini di peso e quantità di api) in presenza di radiazioni elettromagnetiche è stata valutata
ponendo un cordless all’interno di 4 alveari su 8 considerati. Gli alveari “trattati” presentavano un sviluppo più lento e un tempo di ritorno all’alveare più
lungo. Inoltre il 40% delle api degli alveari “non trattati” era in grado di tornare all’alveare contro il 7% di
quelli “trattati”. L’ipotesi è che le radiazioni interferiscano con il sistema d’orientamento degli insetti,
impedendo loro di rintracciare la via dell’arnia, portandoli a disperdersi e morire altrove anche se precedenti indagini avevano mostrato che l’effetto di disorientamento sembrava esaurirsi entro alcune settimane (Korall, 1987).
È stato dimostrato altresì che l’applicazione di magneti sul tetto di arnie razionali con polo sud verso l’arnia
ha prodotto una rotazione antioraria di 70° nell’allineamento dei favi; la rotazione diventa in senso orario se viene invertita la polarità (Rumsey, 2005).
Le indagini fin qui svolte hanno preso in considerazione un vasto intervallo dello spettro elettromagnetico,
dalle microonde con frequenze dell’ordine dei GHz
fino ai così detti campi ELF dell’ordine delle decine di
Hz, focalizzandosi sopra tutto ai due estremi. Infatti,
la regione delle microonde, come detto precedentemente, è ampiamente utilizzata per radar e telefoni cellulari, mentre i campi ELF sono generati dalle linee di
trasmissione elettriche ad alto potenziale.
Studi sulla magnetoricezione delle api hanno evidenziato che le api sono capaci di rilevare piccolissime
fluttuazioni di campo magnetico statico fino a valori
di 26 nT. Però la soglia limite inferiore di sensibilità si
innalza all’aumentare della frequenza nel caso di
campi magnetici alternati (Kirschvink et al., 1997).
Nel caso delle linee di trasmissione (in Italia 50 Hz),
i campi magnetici che si vengono a creare in loro
prossimità sono dell’ ordine del centinaio di nT. Pertanto non appare irragionevole supporre che il sistema
di magnetoricezione sia disturbato. Già nel 1978
alcuni autori avevano dimostrato che nell’addome di
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api adulte erano presenti finissimi granuli di magnetite (Gould et al., 1978) e che questi erano responsabili negli adulti di una specie di “memoria magnetica” e
della sensibilità ai campi magnetici. Tale sensibilità
non era stata riscontrata negli stati preimmaginali.
Successive indagini evidenziarono che il ferro della
magnetite derivava in maggior parte dal polline e i
suoi livelli crescevano nei trofociti dei corpi grassi
delle bottinatrici fino a raggiungere un plateau di
circa 2,2 µg Fe/mg (Kuterbach, 1985).
L’esposizione a campi ELF ha prodotto dati abbastanza contrastanti. Infatti, mentre lavori effettuati considerando linee di trasmissione a 380 kV e 50 Hz sembravano indicare assenza di effetti (Lecomte e
Theurkauff, 1976), altri lavori relativi a voltaggi inferiori (110 o 220 kV) (Wellenstein, 1973) o superiori
(765 kV, frequenza 60 Hz) (Greenberg et al., 1981)
mostravano l’esistenza di vari effetti quali perdita della
regina o diminuzione della sopravvivenza invernale.
Nel 1974 ricercatori russi (Eskov e Sapozhnikov,
1974) osservarono che durante la danza delle api venivano emessi segnali elettromagnetici con una frequenza di 180-250 Hz (il cellulare ha una frequenza di
modulazione di 217 Hz). Successivamente, Tomlinson et al. (1981) dimostrarono che all’interno di una
colonia esposta ad un debole campo magnetico (circa
70 gauss), la durata media della danza scendeva da 34
a 19 secondi mentre precedentemente si era visto che
la stessa danza subiva variazioni collegate ad un capo
magnetico (Kilbert, 1979).
Allo stato attuale delle conoscenze sappiamo che l’esposizione delle api a campi di alta frequenza (2,45
GHz) a varie intensità non ha rivelato significativi
effetti sulla mortalità (Gary e Westerdahl, 1980;
1981a, b; 1982; Westerdahl e Gary, 1981). Tuttavia,
recenti indagini (Kimmel et al. 2007) condotte utilizzando stazioni base per telefoni cellulari di recente
generazione (frequenza 1,90 GHz, potenza media 10
mW, potenza di picco 250 mW, frequenza di modulazione 100 Hz) hanno mostrato una differenza significativa nella capacità di ritorno all’alveare tra le api
esposte e il controllo non esposto.
Al di là di qualsiasi effetto, è stato comunque dimostrato che le api sono perfettamente in grado di discriminare anche tra diversi campi magnetici (Walker e
Bitterman, 1985) e quindi non appare irragionevole
supporre che variazioni dovute ad interferenze di origine antropica possano confonderle fino ad impedir
loro di rientrare al nido generando conseguenze simili a quelle descritte per il CCD. Tuttavia, le indagini
statistiche finora effettuate sono lontane dall’avere
dato una risposta definitiva al problema.
APOidea Vol. 5, 70-77, 2008
CCD
Ringraziamenti
Gli Autori desiderano ringraziare l’Istituto di Fisica
Applicata “Nello Carrara” del CNR di Firenze (IFACCNR) per le utili discussioni e informazioni.
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