Alfio M.Briguglia
21 giugno 2016
Religione, sacro, bellezza, arte
Prima relazione
Vari concili hanno riaffermata l’importanza delle immagini per la catechesi e il sostegno alla devozione. Il
Concilio di Costantinopoli IV (869-70), al canone III, sostiene l’analogia tra le immagini e i libri sacri. Anche le immagini
sono come un libro.
“Noi stabiliamo che la sacra immagine di nostro signor Gesù Cristo, liberatore e salvatore di tutti gli uomini
debba essere venerata con altrettanto onore che il libro dei santi evangeli.
Perché nello stesso modo in cui, grazie alle parole contenute nel libro tutti otterranno la salvezza, cosi’, grazie
all’influsso che esercitano queste immagini con i loro colori, tutti, sapienti e ignoranti, riceveranno senza indugio un utile
profitto.
Ciò che ci viene comunicato con le parole, l’immagine ce lo annuncia e ce lo consegna mediante i colori.
E’ dunque conveniente, in conformità alla ragione e alla tradizione più antica che, poiché l’onore è riferito al
soggetto principale, le immagini siano onorate e venerate con un culto secondario come il libro sacro dei santi vangeli e
come l’immagine della preziosa croce.
Se dunque qualcuno non venera l’immagine di Cristo salvatore, non Solo non vedrà il suo volto quando verrà
nella gloria del Padre per essere glorificato e glorificare i suoi santi (cf. 2Ts 1.10}, ma sia escluso dalla Sua comunione e
dalla sua luce.
Noi diciamo la stessa cosa per coloro che non venerano l’immagine di Maria, sua madre immacolata e madre di
Dio. Noi dipingiamo anche le immagini dei santi angeli, come sono descritti nelle parole della divina Scrittura. Onoriamo e
veneriamo inoltre le immagini degli apostoli così degni di lode, dei profeti, dei martiri, dei santi personaggi illustri come
quelle di tutti i santi.
E coloro che non assumono questo atteggiamento, siano maledetti dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo.”
http://www.monasterovirtuale.it/documenti-ecclesiali/i-concili-ecumenici-costantinopoli-iv-869-870.html
La bellezza non è menzionata. Nessuno approverebbe opere brutte, la bellezza, però, non è ricercata in se stessa ma
solo in quanto favorisce il lavoro dell’immagine. Per la musica sacra il discorso è più articolato.
Il sacro, invece, se è quella dimensione di assenza, quella consapevolezza di ciò che manca alla vita per essere
piena, e di contro consapevolezza della sua fragilità, della dipendenza da Altro è strettamente legato alla bellezza, perché la
percezione della bellezza, l’esperienza della bellezza, suscita nostalgia e, allo stesso tempo, suscita il sentimento di una
pienezza cui la bellezza rimanda.
Nella prima relazione il tema in questione era il ruolo dell’immagine o della architettura nella catechesi e nella
preghiera. Molti di voi hanno lamentato questa assenza di riferimento alla bellezza. Una immagine può aiutarmi a pregare e
non essere bella. Ma può essere bella e non aiutarmi a pregare? Nicole Oliveri sosteneva di sì: san Pietro è una splendida
chiesa, ma si può pregare lì? Il problema riguardava tutto il Barocco, che però don Scordato, nel terzo seminario (vedi
sotto), considera l’unico progetto culturale cattolico significativo. Nel Barocco una chiesa con i suoi oli e i suoi affreschi,
con l’architettura, come le sue statue doveva insegnare, far provare diletto, commuovere, muovere alla pratica delle virtù
(rappresentate in genere da belle figure femminili). Il problema, che ad es. E.Gilson pone (in Introduction aux arts du beau,
Vrin, 1963) è se la bellezza in se stessa può prendere la mano all’artista che sacrifica ad essa il contenuto. Gilson non ha
dubbi: l’artista non può sacrificare l’istruzione e la pietà dei fedeli al suo desiderio di rappresentare l’arte in se stessa, l’arte
per l’arte (ivi p.190). Così, sembra a lui, hanno fatto i maestri del Rinascimento (a p.191, citato il Veronese e gli inquisitori
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veneziani). Rimane però il fatto che non è possibile stabilire a priori che cosa aiuti a pregare e cosa lo ostacoli. Chiese sobrie
e chiese lussureggianti vanno bene per temperamenti, cultura, storie diverse.
Il problema di fondo è legato al possibile conflitto tra due esigenze diverse: il fine religioso e l’autonomia dell’arte.
Secondo Gilson l’immagine religiosa deve insegnare, ricordare, commuovere. La richiesta che sia anche artistica rischia di
consegnare agli occhi oggetti artistici, anziché oggetti per la pietà (Gilson, 192). Due volte almeno i quadri di Caravaggio
furono rifiutati, perché giudicati inadatti alla pietà. Forse, però, la loro bellezza può aprire la strada verso il sacro che si
trova nell’umano in quanto umano. Don Cosimo ci ricordava che il corpo dell’uomo è il nuovo tempio, che l’Incarnazione
supera la distinzione tra sacro e profano.
Da non trascurare infine il fatto che l’opera artistica parla del suo autore, il canto religioso, l’architettura di una
chiesa, la musica sacra devono, invece, essere trasparenti rispetto al loro contenuto. Mentre, di fronte all’Estasi di santa
Teresa pensiamo più alla bravura del Bernini che alla mistica di Teresa la grande.
Sintesi dell’intervento di Nicole Oliveri
La bellezza e il sacro. Nicole Oliveri. 30 maggio 2016
Tema ripreso nel Novecento dal Giovanni XXIII. Paolo VI: messaggio agli artisti, la bellezza come la verità
infonde gioia. La separazione tra gli artisti e la chiesa è tragico.
L'architettura deve trasmettere l'idea di comunità e forma la comunità. Secondo Gregorio Magno le opere dell’arte
sono la Bibbia degli illetterati. In Occidente l'arte ha sempre meno a che fare con Dio e sempre più con l'uomo.
L'arte sacra è diventato elemento di divisione. Lutero e Calvino prescrivono che non vi siano immagini in chiesa. Il
culto deve essere spirituale.
A cosa serve l'immagine in chiesa? Le prime comunità ereditano il divieto ebraico nei confronti dell'immagine. Ma
le prescrizioni nella costruzione dell'arca come vengono interpretate? Il problema è l'adorazione di immagini. L'arte islamica
rimane legata al divieto ebraico.
Il vitello d'oro viene adorato ed è idolatria. Ma l'arca rappresenta Dio in mezzo al popolo. Il rischio da scongiurare
è quindi l'idolatria. Il percorso della bellezza ebraica, vedi musica e poesia, cerca di tenere lontana l'idolatria.
Eusebio attacca i cristiani che cercano immagini di Gesù. Ma nelle catacombe ci sono immagini della sua attività,
con influssi dell'arte classica greca e latina. Fino al quarto secolo le immagini sono simboliche e non figurative. Si ritrovano
immagini di episodi biblici.
Con i Padri della Chiesa si sviluppa una teologia dell'immagine: Cristo immagine del Dio invisibile, uomo
immagine di Dio. Giovanni: “chi vede me vede il Padre!”.
L'uomo è immagine di Dio, ma in che senso? L'anima o la carne (Ireneo)? Siamo creati a immagine del Figlio. Il
peccato ha inquinato l'immagine e distrutto la somiglianza. La redenzione è il restauro dell'immagine. La somiglianza si rifà
piano piano. I santi sono coloro nei quali l'immagine e somiglianza è realizzata. L'immagine di Cristo in noi dove si trova?
Origene: l'anima. Ireneo e Tertulliano: il corpo; ma cosa è il corpo? prevale il retaggio neoplatonico nei primi teologi
cristiani. Con Ario viene negata la divinità di Gesù. L'arianesimo si presenterà per cinque secoli.
Se Cristo è Dio è possibile rappresentarlo? A Calcedonia (451) verrà chiarito il rapporto tra natura umana e natura
divina. Giovanni Damasceno accentua il principio della incarnazione. Distingue adorazione e venerazione. Basilio: io
venero il prototipo cui l'immagine rimanda.
I percorsi sono diversi in Occidente (immagini che illustrano, valore catechistico e pastorale, primato della parola,
dell'esegesi, del Verbum) e in Oriente (l'icona è un sacramentale, la vita di fede cresce attraverso l'immagine; l'iconografo
deve partire sempre dalla rappresentazione della trasfigurazione; l'icona mette in relazione col mistero; nell'icona è
importante la luce, debito con Dionigi l'Areopagita; teologia negativa; l'arte mi deve trasfigurare).
La nostra arte occidentale è individualistica. Bella ma non cristiana. La pietà popolare anche in Occidente mantiene
la relazione tra immagine e vita spirituale. Dal Barocco in poi l'arte diventa arte di maniera. In Occidente l'accettazione
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dell'immagine non ha permesso lo sviluppo di una visione critica come in Oriente. Se il vero e il buono sembrano non dirci
più niente, forse la bellezza può dirci qualcosa.
Domande
 Domanda. Distinzione tra adorare e venerare. La pietà popolare la salta a piè pari.
Risposta: la pietà popolare è preziosa ma va educata. Gregorio Magno: l'immagine era mediata dalla spiegazione.
Domanda: l'arte barocca cerca di avvicinare i fedeli attraverso varie forme. Roma barocca vince sulla
Roma romana.
Risposta: l'arte barocca è utilizzata dal Concilio di Trento, l'arte deve essere trionfale. Quest'arte cerca Dio, ma è
capace di parlare di Dio? Mi aiuta a pregare? A San Pietro riesco a pregare? E' arte liturgica? L'arte sacra deve
mettere in relazione con la comunità. Un'arte può essere religiosa, può aprire al sacro, ma non è per questo arte
sacra.

 Domanda. L'arte astratta non dovrebbe entrare nel sacro.
Risposta: la prima arte cristiana prende a prestito modelli pagani (Apollo come Buon Pastore). In ogni diocesi c'è
una commissione liturgica che elabora criteri per l'arte sacra. Un architetto non credente come può pensare una
chiesa per i credenti?
 Domanda. Nell'arte barocca si è dato un volto a Dio.
Risposta. Il problema è la Trinità. Abbiamo difficoltà con le parole e con le immagini.
Seconda relazione
Nella seconda relazione abbiamo visto come un’opera bella senza intenti religiosi possa introdurci nella
dimensione spirituale. La struttura tripartita del Notturno op. 48 di Chopin può farci fare l’esperienza del dolore e
dell’inquietudine, che irrompono nella vita, e della salvezza che viene da fuori, di una tranquilla gratitudine.
Anche per la musica si impone la doppia lettura: la bellezza della musica può avvicinare a Dio; ma la musica in
chiesa quali caratteristiche deve avere? Basta la risposta di Gilson: “la musica religiosa è la forma cantata della preghiera
collettiva? (ivi, 197). Le grandi messe solenni sono musica liturgica? “L’arte musicale in quanto tale non è un’arte sacra”
(Gilson, ivi, 199)
Estendendo queste considerazioni alla poesia, si può dire che la bellezza si trova nella poesia religiosa o perché
serve la preghiera (come in alcuni inni religiosi) o perché il contenuto religioso riempie l’ispirazione poetica (pensiamo a
Eliot e al suo Assassinio nella cattedrale o alla Commedia di Dante). Ma quando l’arte poetica e l’ispirazione religiosa si
fondono è difficile fare distinzioni (pensiamo al Cantico delle creature di san Francesco o al Cantico dei cantici o ancora ai
Salmi, che per giunta erano cantati).
Pensiamo anche all’Oratorio di santa Cita che ci è stato fatto gustare nel terzo seminario con il commento di don
Cosimo Scordato. Lì è improprio porsi la domanda se siamo di fronte alla bellezza artistica o alla bellezza del contenuto
teologico, se si tratti di arte o di invito alla preghiera.
Tommaso d’Aquino non avrebbe mai sottomesso, nel suo Officium Corporis Christi, il vero esplicito alle esigenze
della poesia. Però esorta: sit laus plena, sit sonora; sit jucunda, sit decora mentis jubilatio (Gilson, ivi, 201). Ma san
Tommaso vuole insegnare. “Quando non insegna, prega: “bone pastor, panis vere, Jesu nostri miserere” (ivi, 201).
Terza relazione
Nella terza abbiamo visto all’opera il progetto catechetico implementato in un’opera bella: l’Oratorio di santa Cita
a Palermo. L’esaltazione del rosario, cui è dedicato l’oratorio dopo la decisiva battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), è
un’occasione per esporre il contenuto del Vangelo, muovere la pietà, esortare all’azione, con un’opera che corrisponde ai
criteri della integritas, proportio, claritas. Nell’oratorio di santa Cita si può vedere in atto il fatto che, quando la bellezza si
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fa vettore di contenuti di verità, ascende ad un tipo di bellezza diversa, più ricca, complessa, superiore rispetto alla sola
bellezza in se stessa. “L’essere passa innanzi al vero, il quale passa innanzi al bene, il quale passa innanzi al bello, e Dio è
l’Essere” (Gilson, cit, 190-91). L’arte è così chiamata a servire un fine più alto che la bellezza in se stessa, continua Gilson.
Ma, sarebbe meglio dire, “una bellezza più alta” invece di dire “un fine più alto”. Così la bellezza è cumulativa!
Esaminiamo l’Introitus del Requiem di Mozart. Qui la bellezza della preghiera, del contenuto spirituale e teologico
si fonde con la bellezza musicale. La bellezza della musica riverbera della bellezza del testo (quel luceat eis meraviglioso!).
Sintesi dell’intervento di Don Cosimo Scordato
Tre momenti: 1. la bellezza dal punto di vista della teologia, 2. concetto di sacro in ambito architettonico, 3. questo luogo:
l’Oratorio di santa Cita e gli stucchi del Serpotta.
1.
Un testo di sant'Agostino nel libro X. "Tardi ti ho amato bellezza tanto nuova e tanto antica... io difforme mi gettavo sulle
forme belle da te create". Cinque sensi: mi hai chiamato; ... la tua luce; ... il profumo; ... ho fame e sete; ... mi hai toccato.
Distinzione tra frui e uti. Fare uso di tutto, ma soltanto di Dio dobbiamo fruire. "Gettato deforme sulle belle forme".
Attraverso Agostino si recupera la classicità: la luminosità cara ad Omero, l'armonia cara a Pitagora e a Platone, il
superamento della provvisorietà attraverso l'idea.
Per Plotino la bellezza è attributo dell'uno come la bontà. Il Mondo è Kosmos. Nel cosmo ogni cosa sta al suo posto.
Kosmos è bello da guardare. La tragedia greca mette in discussione, però, la bellezza del cosmo: dolore, angoscia,
fallimento.
Agostino fa un passo avanti. Dio crea in "numero, pondere et mensura" (Sapienza). La bellezza è visibilizzazione dell'opera
creatrice di Dio. La bellezza è un dato oggettivo perché il mondo è opera di Dio. San Tommaso d'Aquino (integritas,
claritas, proportio) riflettendo sulla S.ma Trinità pensa che al Padre compete l'eternità, al Figlio compete la species pulchritudo. Il principio di bellezza va ricondotto al Figlio. Se nella vita di Gesù c'è la croce, nell'arte troveremo crocifissi.
Cit. S.Th I, a.39, q.8 (vedi tra i testi allegati).
Von Balthasar ha chiamato la sua opera: Gloria. Una estetica teologica. La bellezza e la teologia si richiamano a vicenda,
perché, dopo l’Incarnazione, Cristo è la gestalt di Dio e la forma dell'uomo visitato da Dio.
2.
Sacro! Esiste il sacro per i cristiani? Sacro è relativo a profano. Pro-fano: il fano è dentro, il profano è fuori. Tempio da
temno: ritaglio uno spazio e un tempo per la divinità, accessibile solo al sacerdote. Il tempio non è per le persone, è per il
sacerdote (clero = gruppo riservato). Con il cristianesimo crolla questa concezione. Gesù è il nuovo tempio. Ci si vede a
casa, nella domus (duomo), il luogo di incontro (ecclesia) sono le persone. In seguito diventerà un luogo separato (III-IV
secolo, dopo la svolta costantiniana), vista la numerosità dei partecipanti. I cristiani non hanno bisogno di templi, statue,
immagini (primi apologisti). Il battezzato è il luogo. "Vado in chiesa" possiamo continuare a dirlo, ma è improprio.
Il Vaticano II recupera questa prospettiva. E' santa la nostra umanità, la storia, la terra che calpestiamo.
3.
Entriamo nell'oratorio del Serpotta. Qual era il programma del Serpotta? A cosa giocano i puttini? La chiesa è dedicata al
rosario. Era diventato una forma parallela dell'eucarestia. A portata di mano per tutti. E’ come una cantilena orientale. Dopo
la battaglia di Lepanto divenne la conferma della sua efficacia. L'oratorio offre un percorso spirituale per mezzo del rosario.
Il barocco può piacere o non piacere. Ma fa parte del progetto culturale post-tridentino. “L'unico che conosco”, ha dichiarato
don Cosimo. La riforma cattolica proponeva una nuova formazione. Avevano un loro ruolo le strutture laicali. Le
congregazioni e le confraternite erano organizzazioni partecipative, erano il modo più articolato e particolare di
partecipazione alla vita della chiesa. Il progetto culturale prevedeva che ci fosse una comprensione globale del mistero
cristiano. “Oratorio” era anche un genere musicale. La proposta era quella di un percorso completo. Anche il teatro faceva la
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sua parte. Occorreva riacquistare i perduti e ridare identità al popolo cristiano. Le indicazioni sono semplici: docere,
delectari, movere. La verità sa anche divertire, portare diletto. L’arte doveva movere e commovere: suscitare sentimenti e
spingere all’azione. L'opera d'arte raggiungeva il suo scopo quando era compiuta dall'agire.
Docere nell'oratorio: 15 misteri del rosario, ricapitolazione di tutto il nuovo testamento.
Il colpo di scena è nei puttini. Serpotta rispetta i canoni tridentini, ma, attraverso i puttini, gioca col mistero. Il mistero mi
aiuta a vivere, mi spiega il senso della realtà. Il puttini diventano l'espressione leggera del mistero. Tre puttini su ogni
"teatrino" riproducono a modo loro la scena alleggerendola e rendendola quotidiana.
La percezione del bello.
Si pone il problema della spiegazione, della traduzione dei linguaggi artistici. La percezione del bello avviene
attraverso la forma e attraverso il contenuto: la bellezza è trasparenza della forma rispetto al contenuto. La comprensione
delle forme artificiali e, in qualche misura anche di quelle naturali, dipende dalla cultura. La forma è sempre un linguaggio
che occorre possedere per accedere alla loro bellezza.
Questo vale anche per la musica. Per quanto la musica sia universale e il nostro cervello sembra predisposto a
cogliere le frequenze, i ritmi, la struttura spaziale dei contenuti fisici che battono al nostro timpano (e non solo, anche parte
del cranio è coinvolta), apprezzare uno stile musicale dipende dalle passate esperienze musicali, dall’imprinting nativo, dalla
ripetizioni di stili che diventano familiari. Così può accadere che stili antichi non dicano più niente o che siamo capaci di
godere di stili musicali che altri giudicano incapaci di smuovere il sentimento.
Anche per la musica vale quel che vale per altre opere dell’arte: la possibilità di godere di un’immagine dipende
dalla ricchezza della memoria storica, della memoria affettiva che diventa modo di sentire. Paolo ricordava che la
suggestione del brano che ci ha proposto Alessandro dipendeva anche dal ricordo di tutte le volte che aveva sentito sua
madre eseguirlo.
Un caso di studio: La Sagrada Familia (Temple Expiatori de la Sagrada Família )
Iniziata nel 1882 è ancora in costruzione (previsione di completamento per il 2026). La sua storia è tormentata
come quella di san Pietro o del duomo di Milano.
La bellezza pura, astratta, geometrica, tecnologica, quella che apre alla trascendenza è il dentro della chiesa; il
racconto della Scrittura è fatto alla città. E’ come se la bellezza dei grandi quadri esterni fosse a servizio della catechesi
(Facciata della natività – l’unica realizzata da Gaudí, Facciata della Passione, Facciata della Gloria) e, all’interno, Gaudi
avesse lasciato che l’esperienza artistica di un credente, proprio in quanto bellezza, diventasse preghiera.
La facciata della Gloria è quella principale della chiesa, e per questo sarà anche quella più grande, che darà accesso alla
navata centrale. I lavori sono iniziati nel 2002, l'opera è dedicata alla gloria celeste di Gesù, rappresenta il cammino verso
l'alto e quindi verso Dio. Vi sono rappresentate la Morte, il Giudizio Finale e la Gloria ma anche l'Inferno, per chi si discosta
dai dettami di Dio. Gaudí abbozzò soltanto le linee generali di questa facciata, perché era cosciente che non l'avrebbe
realizzata, quindi pensò di lasciare libertà di esecuzione agli architetti che avrebbero continuato la sua opera.
« Il frammento del modello delle torri della facciata principale non lo completerò e neanche la svilupperò. Ho deciso di
lasciarla solo programmata affinché altre generazioni collaborino alla costruzione del tempio, come si è visto più volte nella
storia delle cattedrali, le cui facciate non solo sono di altri autori, ma anche di altri stili» (Antoni Gaudí)
Proposte di possibili approfondimenti

rapporto tra opera d’arte arte, catechesi, preghiera, liturgia (docere, delectari, commovere,
movere); in particolare l’icona, la relazione tra Parola, Eucarestia e Icona;

la bellezza come via di acceso al sacro; bellezza nella parola, nella musica, nel rito,
nell’immagine, nell’agire umano, nell’opera …; corpo bellezza e rito;
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
che cosa rende qualcosa bello, che relazione c’è tra la bellezza, l’essere, la verità e il bene?
perché ciò che è bello piace e in ogni piacere c’è sempre qualcosa di bello? Che rapporto c’è tra estetica e
contenuto veicolato dalla forma?

quali sono i correlati neurali della esperienza della bellezza? Come esistono malattie quali
prosopagnosia, prosopafonia, etc , esiste anche una malattia che rende incapaci di sperimentare la bellezza di un
brano musicale, l’amusia1, o di una testo letterario come per alcune forme di dislessia; perché alcune forme sono
più gradevoli di altre?

Teologia della bellezza: contemplare il Figlio significa contemplare la bellezza e contemplare la
bellezza significa contemplare il Figlio.
Testi
Tommaso d’Aquino, Summa Theologica
I, q.5: IL BENE IN GENERALE; a.4: Se la natura del bene consista nel modo, nella specie e nell‘ordine; ad primum:
Certamente il bello e il buono, nel soggetto in cui esistono, si identificano, poiché si fondano tutti e due sulla medesima
realtà, cioè sulla forma; e per questo il bene viene lodato come bellezza. Tuttavia nel loro concetto proprio differiscono. Il
bene infatti riguarda la facoltà appetitiva, essendo il bene ciò che ogni ente desidera, per cui ha carattere di fine, poiché il
desiderare è come un muoversi verso una cosa. Il bello, invece, riguarda la facoltà conoscitiva: belle infatti sono dette quelle
cose che, viste, destano piacere. Per cui il bello consiste nella debita proporzione: poiché i nostri sensi si dilettano nelle cose
ben proporzionate come in qualcosa di simile ad essi; anche il senso infatti, come ogni altra facoltà conoscitiva, è una specie
di ragione. E poiché la conoscenza avviene per assimilazione, e la somiglianza d‘altra parte riguarda la forma, il bello
propriamente si ricollega all‘idea di causa formale.
I, q.39: LE PERSONE IN RAPPORTO ALL‘ESSENZA, a.8: Se gli attributi essenziali siano stati convenientemente
appropriati alle varie Persone dai santi Dottori, respondeo:
Il nostro intelletto, che dalle creature è condotto come per mano fino alla conoscenza di Dio, segue necessariamente in
questa conoscenza i medesimi procedimenti che gli sono familiari nello studio delle creature. Ora, nella considerazione di
una qualsiasi creatura ci si presentano successivamente quattro punti di vista. Primo, si considera la cosa in maniera
assoluta, cioè in quanto è un certo ente. Secondo, si passa a considerarla in quanto è una. Terzo, si prende in esame la sua
capacità di agire e di causare. Quarto, si studiano le sue relazioni con gli effetti. Per cui queste quattro considerazioni
ricompaiono anche nella nostra conoscenza delle realtà divine. Dalla prima di queste considerazioni dunque, che consiste
nel guardare Dio semplicemente nel suo essere, deriva l‘appropriazione proposta da S. Ilario, secondo la quale al Padre
viene appropriata l‘eternità, la specie al Figlio e l‘utilità allo Spirito Santo [cf. ob. 1]. Infatti l‘eternità, significando un
essere senza principio, ha una certa somiglianza con gli attributi personali del Padre, il quale è principio senza principio.
Invece la specie, ossia la bellezza, presenta una certa analogia con le particolarità personali del Figlio. Per la bellezza infatti
si richiedono tre doti. In primo luogo l‘integrità o perfezione: poiché le cose incomplete, proprio in quanto tali, sono
deformi. Poi [si richiede] la debita proporzione o armonia [tra le parti]. Finalmente la chiarezza o lo splendore: infatti
diciamo belle le cose dai colori nitidi e splendenti. — Ora, la prima di queste doti presenta una certa somiglianza con quella
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Un "amusico" non è in grado di comprendere l'altezza delle note né di distinguere una melodia da un'altra. Non è da confondere con
il termine "stonato", il quale si riferisce a chi in generale non è capace di emettere note nel modo adeguato ma spesso per motivi di
mancanza di tecnica e non per amusia. Chi soffre di amusia non riesce a comprendere quando stona e quando no, né sa accorgersi
delle stonature degli altri. Nei casi più gravi, gli amusici non sono capaci di sentire la musica o la trovano irritante e sgradevole.
Rispetto ad altri deficit neuropsicologici selettivi, l'amusia pura è rara. Può insorgere insieme ad altri deficit neurologici o
neuropsicologici, ma la diagnosi è spesso difficile se non si conoscono le condizioni pre-morbose. Oltretutto la musica, non essendo
un'abilità primaria per lasopravvivenza, può essere deficitaria senza che vi siano segni manifesti in altri domini. Pertanto
la diagnosi può spesso sfuggire se non vi sono indagini specifiche. Difatti molti pazienti riconosciuti amusici sono, in misura più o
meno elevata, musicisti a vario livello, in cui il deficit è sicuramente evidente nella loro vita quotidiana.
L'amusia può rivelarsi un disturbo molto imbarazzante. Si dice [senza fonte] che Che Guevara, amusico, non sapesse distinguere tra di
loro nessun genere musicale, tanto da ballare in un'occasione speciale, senza scherzare, un tango appassionato, mentre tutti gli altri
ballerini danzavano allegramente a ritmo di samba. Gli amusici non riescono nemmeno a distinguere una cantilena da un inno
nazionale o da una sinfonia di Mozart, con le conseguenze negli eventi sociali che si possono ben immaginare. (Wikipedia)
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proprietà personale del Figlio che consiste nell‘avere in sé la natura del Padre in modo integrale e perfetto. E a ciò vuole
accennare S. Agostino [De Trin. 6, 10] quando dice che «in lui», cioè nel Figlio, «c‘è vita somma e perfetta». La
proporzione poi o armonia è affine alle proprietà del Figlio in quanto egli è l‘immagine perfetta del Padre. Infatti diciamo
che un‘immagine è bella quando rappresenta perfettamente l‘oggetto, anche se questo è deforme. E a questo aspetto accenna
S. Agostino [l. cit.] con quelle parole: «in lui si trova la perfetta rassomiglianza e la somma uguaglianza». La terza dote
finalmente, [ossia lo splendore], ha affinità con le doti personali del Figlio poiché questi, in quanto Verbo, «è splendore e
luce dell‘intelletto», come dice il Damasceno [De fide orth. 1, 13]. E S. Agostino [De Trin. 6, 10] vi accenna quando dice:
«come Verbo perfetto a cui nulla manca, e arte o sapienza di Dio onnipotente».
L‘utilità a sua volta presenta una certa affinità con le proprietà personali dello Spirito Santo, se però l‘utilità [o usus] è presa
in senso lato, in quanto abbraccia anche il godimento [fruitio]: in quanto cioè usare corrisponde ad «avere qualcosa a
disposizione della propria volontà», e fruire, come dice S. Agostino [De Trin. 10, 11], corrisponde a «usare con gioia» di
una cosa. Quindi l‘utilità, che corrisponde alla fruizione reciproca del Padre e del Figlio, è affine a quell‘aspetto tutto
personale dello Spirito Santo che è l‘Amore. Ed è precisamente quanto dice S. Agostino [De Trin. 6, 10]: «Quella dilezione,
compiacenza, felicità o beatitudine fu chiamata utilità da S. Ilario». — L‘utilità invece che corrisponde alla nostra fruizione
di Dio ha una certa somiglianza con l‘altro aspetto proprio dello Spirito Santo, che ce lo fa considerare come Dono. Ed è
ancora quanto insegna S. Agostino [ib.]: «C‘è nella Trinità lo Spirito Santo, dolcezza del Padre e del Figlio, che con ingente
larghezza e sovrabbondanza ci inebria». È chiarito così perché l‘eternità, la bellezza e l‘utilità siano attribuite e appropriate
alle persone, a differenza dell‘essenza e dell‘operazione. In queste ultime infatti, essendo esse comuni alle tre Persone, non
vi è nulla che abbia un rapporto di somiglianza con le proprietà particolari di una data persona. La seconda considerazione
da farsi nei riguardi di Dio consiste nel considerarlo come uno. E in questo senso S. Agostino appropria al Padre l‘unità, al
Figlio l‘uguaglianza, allo Spirito Santo la concordia o connessione [cf. ob. 2]. È chiaro che tutte e tre queste cose implicano
il concetto di unità, ma in modi diversi. L‘unità infatti lo implica per se stessa, senz‘altro presupposto. E per questo viene
appropriata al Padre, che non presuppone un‘altra persona, essendo egli principio senza principio. — L‘uguaglianza invece
implica il concetto di unità in correlazione con un‘altra cosa: poiché si dice uguale la cosa che ha la stessa quantità di
un‘altra. E per questo l‘uguaglianza viene appropriata al Figlio, che è principio derivante da un principio. — La connessione
poi implica l‘unità esistente tra due cose. Quindi è appropriata allo Spirito Santo, che procede da due. E da queste
considerazioni si può intendere poi l‘affermazione di S. Agostino che «le tre [persone] sono un‘unità per il Padre, sono
uguali per il Figlio, sono concordi o connesse per lo Spirito Santo» È evidente infatti che ogni cosa viene attribuita [di
preferenza] a quel principio nel quale anzitutto essa si trova: così, p. es., si dice che tutti i viventi inferiori vivono per
l‘anima vegetativa, essendo essa il loro primo principio vitale. Ora, l‘unità si riscontra immediatamente nel Padre anche se,
per impossibile, non esistessero le altre Persone. Quindi le altre due l‘hanno da lui. — Tolte invece le altre Persone, non c‘è
nel Padre l‘uguaglianza, ma essa sorge non appena si pone il Figlio. Quindi le altre persone che vengono denominate uguali
lo devono al Figlio. Non che il Figlio causi l‘uguaglianza del Padre, ma perché se non ci fosse un Figlio uguale al Padre, il
Padre non potrebbe essere detto uguale: poiché la sua uguaglianza viene considerata anzitutto in ordine al Figlio. Infatti
anche lo Spirito Santo, se può dirsi uguale al Padre, lo deve al Figlio. — Così pure, se si esclude lo Spirito Santo, che è il
nesso tra i due, non si potrebbe intendere l‘unità di connessione tra il Padre e il Figlio. Per cui si dice che tutte le Persone
sono connesse per lo Spirito Santo: perché solo dopo che si è posto lo Spirito Santo si vede come possano dirsi connessi il
Padre e il Figlio. Dalla terza considerazione invece, che consiste nel prendere in esame l‘efficacia di Dio nel causare, si
desume la terza appropriazione, quella cioè della potenza, della sapienza e della bontà [cf. ob. 3]. Tale appropriazione, se si
bada a quanto di positivo si trova [in forza delle loro denominazioni: Padre, Figlio...] nelle Persone divine, viene fatta per
via di somiglianza; se invece si bada a quanto di negativo [in forza di tali denominazioni] c‘è nelle creature, allora è fatta
per via di dissomiglianza. La potenza infatti presenta l‘aspetto di principio. E per questo ha una certa affinità con il Padre
celeste, che è il principio di tutta la divinità. Invece talora viene a mancare nel padre terreno, in conseguenza della vecchiaia.
La sapienza poi offre una somiglianza col Figlio celeste che, in quanto Verbo, non è altro che il concetto della sapienza. Ma
talora viene a mancare nei figli terreni, per la loro tenera età. — La bontà infine, che è il movente e l‘oggetto dell‘amore, ha
una certa analogia con lo Spirito divino, che è l‘Amore. Invece si presenta come elemento estraneo allo spirito terreno, in
quanto questo implica l‘idea di violenza e di urto, secondo le parole della Scrittura [Is 25, 4]: «Lo spirito dei prepotenti è
come una procella che abbatte le muraglie». Quanto alla virtù, essa è appropriata al Figlio e allo Spirito Santo non nel
significato di potenza, ma in quello di effetto della potenza, come le imprese poderose di qualcuno sono dette sue virtù.
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Stando finalmente alla quarta considerazione, che consiste nel prendere in esame i rapporti esistenti fra Dio e le realtà
create, abbiamo l‘appropriazione dei termini ex quo (dal quale), per quem (per il quale) e in quo (nel quale) [cf. ob. 4]. La
preposizione ex infatti alcune volte indica un rapporto di causa materiale [ex = di], ma questa causa in Dio non può aver
luogo. Altre volte invece indica un rapporto di causa efficiente [ex = da]. Causalità questa che conviene a Dio a motivo della
sua potenza attiva: quindi [l‘espressione dal quale] viene appropriata al Padre come la potenza. La preposizione per invece
qualche volta designa una causa intermedia, come quando diciamo che il fabbro opera per il martello. Allora il per non è un
termine appropriato, ma addirittura proprio ed esclusivo del Figlio, secondo l‘espressione evangelica [Gv 1, 3]: «Tutto è
stato fatto per lui». Non perché il Figlio sia uno strumento, ma perché è un principio derivante da un principio. Altre volte
invece [il per] indica un rapporto con la forma che serve alla causa agente per operare, come quando diciamo che l‘artefice
opera per la sua arte. E in questo senso il per quem viene appropriato al Figlio allo stesso modo della sapienza e dell‘arte. —
La preposizione in, infine, indica propriamente un rapporto di contenenza. Ora, Dio contiene le cose in due modi. Primo, per
le loro idee o immagini rappresentative, cioè in quanto esse sono in Dio come oggetto della sua scienza. E allora
l‘espressione in lui andrebbe appropriata al Figlio. Secondo, in quanto egli con la sua bontà le conserva e col suo governo le
fa giungere al loro fine. E in questo caso l‘espressione nel quale va appropriata allo Spirito Santo, come la bontà. E non è
necessario che il rapporto di causa finale, la prima fra tutte le cause, sia appropriato al Padre, che è il principio senza
principio: poiché le Persone divine, di cui il Padre è principio, non procedono da lui come tendenti a un fine, essendo
ognuna di esse l‘ultimo fine, ma per processione naturale, che è piuttosto rispondente all‘attributo essenziale della potenza.
Quanto poi alle altre attribuzioni di cui parlano le obiezioni [cf. ob. 5], rispondiamo che la verità, come si è detto altrove [q.
16, a. 1], per la sua connessione con l‘intelletto è un termine appropriato al Figlio, ma non ne è un termine proprio. La verità
infatti può essere considerata, secondo le osservazioni già fatte [ib.], come è nell‘intelletto [verità logica e di conoscenza] o
come è nelle cose [verità ontologica]. Come dunque [parlando di Dio] intelletto e cosa sono termini che di per sé si
riferiscono all‘essenza e non alle Persone, così è anche per la verità. — Ora, S. Agostino nella definizione riferita ha di mira
la verità in quanto è appropriata al Figlio. Per quanto riguarda il libro della vita, notiamo che direttamente esso implica
l‘idea di conoscenza e indirettamente quella di vita: poiché, come si è detto [q. 24, a. 1], esso è la conoscenza che Dio ha di
coloro che giungeranno alla vita eterna. Quindi va appropriato al Figlio, sebbene la vita venga appropriata allo Spirito
Santo, in quanto include il concetto di moto interiore, che ha una certa affinità con ciò che è proprio dello Spirito Santo, cioè
con l‘Amore. — Che poi il libro sia scritto da qualcuno non conviene al libro come libro, ma solo come prodotto dell‘arte.
Quindi esso non comporta di per sé origine e non è un attributo personale, ma solo appropriato a una Persona. Infine
l‘espressione Qui est (Colui che è) non viene appropriata al Figlio di per sé, ma per delle considerazioni occasionali: in
quanto cioè in quelle parole dette da Dio a Mosè era prefigurata la liberazione del genere umano che fu poi operata dal
Figlio. Tuttavia, se il Qui [Colui che] viene preso come relativo, potrebbe anche essere riferito alla persona del Figlio, e
allora significherebbe la persona: nella frase, p. es., il Figlio è il Qui est generato, il relativo è un termine personale, come
Dio generato. Preso però senza determinazioni [Qui est] è un appellativo essenziale. — -> E quantunque il pronome
determinativo questi [iste], grammaticalmente parlando, sembri riferirsi a una determinata persona, tuttavia si osservi che
qualunque cosa indicabile in particolare può essere grammaticalmente chiamata persona, sebbene non lo sia nella realtà.
Diciamo infatti questa pietra, questo asino. Quindi, grammaticalmente parlando, l‘essenza divina medesima, significata e
designata dal nome Dio, può essere indicata col pronome dimostrativo questi [iste], come appare nella Scrittura [Es 15, 2]:
«Questi è il mio Dio e lo glorificherò».
I-II, q.27: LA CAUSA DELL‘AMORE, a.1: Se l‘unica causa dell‘amore sia il bene; ad tertium:
Il bello si identifica con il bene, salvo una semplice differenza di ragione. Mentre infatti il bene è «ciò che tutti gli esseri
desiderano», e implica l‘acquietarsi in esso dell‘appetito, il bello implica invece l‘acquietarsi dell‘appetito alla sua sola
presenza o conoscenza. Per cui riguardano il bello quei sensi che sono maggiormente conoscitivi, cioè la vista e l‘udito al
servizio della ragione: e così parliamo di cose belle a vedersi o a udirsi. Invece per l‘oggetto degli altri sensi non si usa
parlare di bellezza: infatti non diciamo che sono belli i sapori o gli odori. È perciò evidente che il bello aggiunge al bene una
relazione con la facoltà conoscitiva: per cui si denomina bene ciò che è puramente e semplicemente gradevole all‘appetito,
bello invece ciò la cui stessa apprensione piace.
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II-II, q.145: L‘ONESTÀ, a.2: Se l‘onesto si identifichi col bello:
Pare che l‘onesto non si identifichi col bello. Infatti: 1. La nozione di onestà viene desunta dall‘appetito: infatti onesto è «ciò
che è desiderato per se stesso» [Cic., De invent. 2, 53]. Invece il bello ha riferimento alla vista, a cui esso è gradito. Quindi
il bello non coincide con l‘onesto. 2. Il bello richiede un certo splendore, che è essenziale alla gloria. L‘onesto invece dice
rapporto all‘onore. Poiché dunque, stando alle spiegazioni date sopra [q. 103, a. 1, ad 3], l‘onore e la gloria sono cose
distinte, Pare che siano distinti anche l‘onesto e il bello. 3. L‘onestà, come sopra [a. 1] si è detto, si identifica con la virtù.
Ora, c‘è una bellezza che è contraria alla virtù, poiché in Ezechiele [16, 15] si legge: «Infatuata per la tua bellezza, ti sei
prostituita». Quindi l‘onesto non si identifica col bello. In contrario: L‘Apostolo [1 Cor 12, 22 s.] ha scritto: «Le membra
meno oneste noi le circondiamo di maggior rispetto, mentre quelle oneste non ne hanno bisogno». Ora, egli chiama qui
disoneste le parti turpi, e oneste quelle belle. Perciò l‘onestà e la bellezza si identificano. Dimostrazione: Come si può
rilevare dalle parole di Dionigi [De div. nom. 4], il bello viene costituito sia dallo splendore che dalle debite proporzioni:
egli dice infatti che Dio è bello «in quanto causa dell‘armonia e dello splendore di tutte le cose». Perciò la bellezza del
corpo consiste nell‘avere le membra ben proporzionate, con una certa luminosità del colore dovuto. Parimenti la bellezza
spirituale consiste nel fatto che il comportamento e gli atti di una persona sono ben proporzionati secondo la luce della
ragione. Ora, questo è il costitutivo dell‘onestà, come si è visto [a. 1], che si identifica con la virtù, la quale modera tutte le
cose umane secondo la ragione. Quindi l‘onestà si identifica con la bellezza spirituale. Infatti S. Agostino [Lib. LXXXIII
quaest. 30] ha scritto: «Chiamo onestà la bellezza intellettuale, che noi propriamente diciamo spirituale». E subito dopo
aggiunge che «ci sono molte cose belle alla vista che vengono dette oneste in senso meno proprio». Analisi delle obiezioni:
1. L‘oggetto che muove l‘appetito è il bene conosciuto. Ora, ciò che nella stessa apprensione si presenta come bello viene
ricevuto come buono e conveniente: per cui Dionigi [l. cit.] afferma che «il bello e il bene sono amabili per tutti». Quindi
anche ciò che è onesto, in quanto ha una bellezza spirituale, è reso appetibile. Per cui anche Cicerone [De off. 1, 5] scriveva:
«Ecco, tu vedi la figura stessa e come la faccia dell‘onestà: che se fosse vista con gli occhi, diceva Platone, susciterebbe
amori mirabili verso la sapienza». 2. La gloria, come sopra [q. 103, a. 1, ad 3] si è detto, è un effetto dell‘onore: poiché se
uno è onorato o lodato viene reso glorioso agli occhi degli altri. Come quindi l‘onorato coincide con il glorioso, così anche
l‘onesto coincide con il bello. 3. La obiezioni vale per la bellezza fisica. - Sebbene uno potrebbe fornicare spiritualmente
anche per la bellezza spirituale, montando in superbia per la propria onestà, secondo le parole di Ezechiele [28, 17]: «Il tuo
cuore si era inorgoglito per la tua bellezza; la tua saggezza si era corrotta a causa del tuo splendore».
(E.Gilson, Introduction aux arts du beau, Vrin, 1963, 203-5)
« Sans en faire le sommet de la vie spirituelle, on ne peut approcher l’art pur, si peu qu’il y en ait dans une œuvre,
sans éprouver l’émotion particulière que donne le contact de ce qui, dans la nature, semble la transcender en
essence et en dignité. Un vers de Virgile, de Racine ou de Blake y suffit ; une phrase de Haydn ou de Mozart,
inattendue par la perfection quasi miraculeuse de sa nécessité formelle, nous émeut jusqu’en notre corps comme
une présence sentie plutôt que connue et qui témoignerait, dans la matière même de notre monde, de la réalité d’un
autre, comme si nos sens nous relayaient des messages venus de l’esprit. Il n’est pas surprenant que ceux qui n’ont
rien d’autre aient au moins cela pour leur donner le sentiment de ce que peut être une émotion proprement
religieuse, une touche de divin.
C’est que l’art crée le beau, qui est un transcendantal de l’être, et qu’approcher l’être est toujours pénétrer dans
une zone où se sent la présence du sacré. Le vrai pur, cherché, trouvé et aimé pour lui-même ; le bien pur, voulu
comme inconditionnellement désirable, parce qu’il est le bien ; l’unité et l’ordre enfin, poursuivis pour euxmêmes, sont autant d’aspects différents de l’être en tant qu’être. Ce sont, si l’on peut dire, des modalités
ontologiques. Le beau en est une autre. C’est la plus modeste d’entre elles, car elle n’est que le bien de
l’appréhension sensible de l'être, lorsqu’il y a adéquation entre le sensible et la sensibilité d’un sujet intelligent.
Tel est le beau des arts du beau. Il n’est que cela. On ne peut lui contester le droit de chercher à se réaliser en soi
et pour soi. Lorsqu’il tente de le faire, on voit les épithètes de ‘ pur ’ et de ‘ vierge ’ se multiplier sous la plume
des poètes. Ce n’est pas sans raison que le formalisme pictural ou musical est excommunié par le matérialisme de
l’Etat marxiste, car même lorsqu’ils sont donnés dans la matière, le blanc, l’azur, le pur et vivace aujourd’hui sont
autant de témoins sensibles de la vocation spirituelle de la matière qui, née de l’esprit, aspire à l’esprit. D’où ces
bouleversantes surprises que sont pour nous certains sons, certaines lignes, certains mots, certaines attitudes où se
laisse entr’apercevoir un monde matériel autre que le nôtre, ou le même en état de gloire. Le plus modeste de tous,
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le beau n’en est pas moins l’un des transcendantaux. Il est le transcendantal du corps, le seul auquel l’homme
n’accède pas en dépit de la connaissance sensible, mais en elle et par elle, lorsqu'il y plonge l’intellect avec le sens
au lieu de l’en détourner. Chose intensément terrestre, l’art semble accordé à l’homme pour le consoler de n’être
pas un ange. Il ne faut donc pas s’étonner que ce vin trop fort puisse parfois enivrer, surtout si on le boit pur et
que, comme toutes les débuts d’ivresse, celle-là s'accompagne de quelques illusions. Elle ne se trompe pourtant
pas sur la noblesse de son objet ni sur la nature de sa cause. De quelque manière qu’on approche l’être en tant
qu’etre, fût-ce même par le corps et dans la perception sensible, on s’expose à la présence de l’Etre. Il n’est jamais
loin de nous, et ce n’est pas Lui, mais c’est du moins un reflet de sa gloire qui nous touche dans la plus humble
des œuvres d’art. »
(J.Pieper, Felicità e contemplazione, Morcelliana, 1962, 90-93).
“Gli antichi hanno affermato con estrema sicurezza che nell’uomo intento a « vedere » sono presenti tutti gli elementi
che distinguono anche l’uomo felice; e i modi di dire correnti attribuiscono ad entrambi le stesse caratteristiche1. Questo è
un fatto — dice Tommaso — « completamente evidente », manifeste apparet . Quali sono queste caratteristi che comuni?
Per esempio, la simplicitas, la semplicità caratteristica dello sguardo contemplativo — tutta la forza di colui che vede si
raccoglie in Un solo Sguardo3: questo raccogliere tutto in uno è caratteristico, così si dice, anche dell’esser felici.
Mi sembra che ciò venga confermato dall’esperienza interiore. Tutto è divenuto talmente facile! Così parla chi è felice.
Si potrebbe citare a questo punto una sentenza di Nietzsche: « La felicità del l’uomo si basa sul fatto che esiste per lui una
verità indiscutibile »4. Questa affermazione riunisce sotto il concetto di « semplicità » il rapporto tra la verità e Tesser felici.
Discussione — è un dire ed essere ribattuti, argo mento e controargomento, molteplicità di punti di vista, affermazione
e negazione. « Verità indiscutibile » invece, e non indiscutibile perché non discussa, per esempio per indolenza intellettuale
o testardaggine —, ma indiscutibile perché sottratta alla discussione e alle argomentazioni interiori: questa è la simplicitas
del possesso, la cui forma suprema è il vedere.
Inoltre: una delle ragioni per cui non può esiste re, in questa esistenza corporale, alcuna felicità perfetta — è detto nella
Summa theologica5 — è questa: l’uomo non è capace di un atto dalla durata ininterrotta. La felicità non è felicità però, se
non dura in eterno, senza pericolo di perderla; la felicità « desidera eternità ». Nietzsche ci ha lasciato alcune osservazioni
geniali a proposito di una fenomenologia della felicità. Egli dice per esempio: « è sempre e soltanto una sola cosa, attraverso
la quale la felicità diventa felicità... la facoltà di « sentire » non storicamente » Chi è felice, passa automatica- mente da una
successione di tempi ad un calmo Presente, un nunc stans, nel quale ogni cosa è nello « stesso tempo ».
E proprio in questo, di nuovo, colui che è felice si identifica con colui che vede. Non soltanto il rapporto tra la semplice
visione dell’intellectus ed il moto discorsivo della ratio è uguale al rapporto tra l’eterno ed il temporale7, ma nel vedere,
nella contemplazione, l’uomo è in grado di perseverare instancabilmente ed ininterrottamente, più che in qualsiasi altra
attività8; il tempo passa rapido co me un baleno. Entrambi fanno un passo fuori dal tempo: colui che è felice e colui che
vede.
Anche questo, dicono gli antichi, accomuna le due figure: lo stesso vedere rende già felici! « Noi poniamo il vedere al
di sopra di ogni altra cosa » — è detto nel primo capitolo della Metafisica di Aristo tele. Se non sapessimo già da lungo
tempo che la gioia del vedere fa parte dei più elementari, irrefrenabili, ricercati piaceri dell’uomo, sarebbe fin troppo facile
rendersene conto attraverso il fatto quotidiano della « gioia degli occhi », dell’ipertrofìa della brama di guardare,
dell'intensità morbosa del desiderio di vedere; e l’estensione di tali degenerazioni rappresenta, così sembra, una minaccia
continua proprio per le forze essenziali che costituiscono il centro del nostro essere9.
Ciò porta inoltre alla considerazione, che per la contemplazione del creato non vi sia forse pericolo più mortale
dell’ininterrotto susseguirsi di chimere seducenti e vuote in un mondo fatto soltanto di apparenze ingannevolmente
allettanti, il cui clamo re ottico, per così dire, rende sorda la forza di percezione dell’anima.
Stavamo parlando tuttavia degli elementi che accomunano colui che è felice a colui che vede. Ecco ne dunque un altro:
chi è felice non ha bisogno di niente e di nessuno. Non che egli voglia isolarsi; piuttosto, si sente in armonia con tutto e con
tutti; ogni cosa è « presso di lui »; nulla gli può accadere. Lo stesso si può dire però anche di colui che vede: egli ha bisogno
soltanto di se stesso10; non gli man ca nulla; omnia secum portat. Vive in ima sfera chiusa. Per essere più esatti, non v’è
nulla che possa disturbarlo. Ciò vale per Archimede, il quale non si accorse neppure che la sua città era stata conquistata,
così come vale per i martiri cristiani, che, coma si riferisce, neppure il supplizio riuscì a disto- ghiere dalla felicità del
contemplare.
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E infine: quiete, otium, pace sono tra gli elementi della felicità. È necessario sottrarsi alla fretta, alla corsa,
all’irrequietezza, al « doversi preoccupare per qualcosa »; altrimenti non si è felici. E la contempla zione? Essa non solo
presuppone la liberazione dalle catene della servile attività quotidiana, ma realizza essa stessa tale liberazione, in quanto è
vedere.
Ho avuto modo di trovare recentemente un’inattesa conferma a questi pensieri; una conferma precisa ed estremamente
« moderna », basata sull’esperienza diretta del cuore umano. L’ho trovata nei ricordi di vita di George Santayana, una delle
più singo lari e più notevoli figure di filosofo della nostra epoca. Santayana racconta che era solito girovagare attraverso le
maggiori gallerie d’arte del mondo in compagnia di un amico esperto d’arte. E quando vedeva l’amico completamente
immerso ed esta siato nella contemplazione di un’opera, allora — egli dice con grande serietà e con l’evidente intenzione di
sostenere una tesi filosofica — «... mi liberavo del mio stesso fardello; e mi rendevo conto che tutti gli sforzi degli uomini e
l’intera storia hanno per fine — ammesso che abbiano un fine — di trovare il proprio coronamento nel contemplare »”
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