Fondamenti di chimica fisica

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Idee per
il tuo futuro
Sergio Pasquetto
Luigi Patrone
Fondamenti
di chimica
fisica
SCIENZE
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– Segreteria di redazione: Deborah Lorenzini
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– Disegni: Monograf, Bologna
Contributi:
– Revisione critica: Cristina Panero
– Indice analitico: Cristina Rutigliano
Copertina:
– Progetto grafico: Miguel Sal & C., Bologna
– Realizzazione: Roberto Marchetti
– Immagine di copertina: mikeledray/Shutterstock
Prima edizione: gennaio 2012
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Sergio Pasquetto
Luigi Patrone
Fondamenti
di chimica
fisica
SCIENZE
................................................................................................................................................................................................................................................
Sommario
Capitolo 1 ± Le leggi della materia in fase gassosa
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
Lo stato gassoso della materia ............................................................................................
Legge di Boyle.............................................................................................................................
Legge isobara di Charles........................................................................................................
Legge isocora di Gay-Lussac...............................................................................................
Legge di Avogadro....................................................................................................................
Equazione di stato dei gas ideali .......................................................................................
Legge di Dalton per le miscele gassose..........................................................................
DensitaÁ assoluta dei gas..........................................................................................................
Dissociazione gassosa...............................................................................................................
Grado di dissociazione............................................................................................................
Fattore di dissociazione ..........................................................................................................
Calcolo della pressione parziale di una sostanza dal grado di dissociazione ....
Quesiti.......................................................................................................................................................
1
3
5
6
8
8
11
13
14
15
15
18
19
Capitolo 2 ± Equilibri in fase gassosa
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Condizioni per l'equilibrio chimico .................................................................................
Legge dell'equilibrio chimico ..............................................................................................
Considerazioni sulla legge dell'equilibrio chimico ...................................................
Relazioni tra Kp, Kc e Kx........................................................................................................
Equilibri eterogenei ..................................................................................................................
Fattori che influenzano l'equilibrio chimico................................................................
Effetto provocato dalla variazione della concentrazione ......................................
Effetto provocato dalla variazione della temperatura.............................................
Effetto provocato dalla variazione della pressione...................................................
Effetto provocato dall'aggiunta di gas inerte ..............................................................
Quesiti.......................................................................................................................................................
20
21
23
26
27
28
29
30
31
32
33
Capitolo 3 ± Equilibri nelle soluzioni acquose
1
2
3
4
5
6
Le soluzioni acquose ................................................................................................................
Gli elettroliti e la dissociazione elettrolitica.................................................................
AttivitaÁ e concentrazione degli elettroliti in soluzione acquosa ........................
Teoria di Debye e HuÈckel.....................................................................................................
Equilibri acido-base in soluzione acquosa: teoria di Brùnsted e Lowry.......
Costante di dissociazione degli acidi e delle basi deboli ......................................
II
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
35
36
39
39
40
42
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
Sommario
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
Autoionizzazione dell'acqua.................................................................................................
Relazione tra Ka e Kb di una coppia coniugata .........................................................
Effetto dello ione comune.....................................................................................................
Definizione del pH....................................................................................................................
Grado di dissociazione............................................................................................................
Il pH delle soluzioni acquose: acidi e basi ...................................................................
Il pH delle soluzioni acquose: sali ....................................................................................
Soluzioni tampone .....................................................................................................................
Equilibri eterogenei: prodotto di solubilitaÁ..................................................................
Effetto dello ione comune sulla solubilitaÁ dei precipitati.....................................
Effetto sale.....................................................................................................................................
Quesiti.......................................................................................................................................................
45
45
49
50
51
53
54
55
58
60
61
61
Capitolo 4 ± Natura e proprietaÁ della luce
1 Teoria ondulatoria della luce...............................................................................................
2 Teoria corpuscolare della luce ............................................................................................
3 Effetto fotoelettrico ..................................................................................................................
Quesiti....................................................................................................................................................
63
68
70
72
Capitolo 5 ± Il modello dell'atomo secondo la fisica classica
1
2
3
4
I primi modelli dell'atomo ....................................................................................................
Spettro di emissione dell'idrogeno ...................................................................................
La teoria di Bohr e il suo modello dell'atomo di idrogeno.................................
Formulazione matematica della teoria di Bohr.
Numero quantico principale ..................................................................................................
5 Affinamenti della teoria di Bohr. Numero quantico
secondario e numero quantico magnetico.....................................................................
6 Numero quantico di spin ......................................................................................................
7 InattendibilitaÁ del modello meccanico dell'elettrone-trottola ............................
Quesiti....................................................................................................................................................
73
74
75
78
80
82
84
84
Capitolo 6 ± Il modello dell'atomo secondo la fisica moderna
1
2
3
4
5
6
La meccanica quantistica ....................................................................................................... 85
Equazione di SchroÈdinger..................................................................................................... 86
Orbitali atomici........................................................................................................................... 87
L'atomo secondo la meccanica quantistica .................................................................. 90
Forma degli orbitali atomici................................................................................................. 94
Configurazione elettronica degli atomi .......................................................................... 96
Quesiti.................................................................................................................................................. 100
Capitolo 7 ± Il mondo delle molecole
1
2
3
4
5
6
Energia di ionizzazione e affinitaÁ elettronica ............................................................
PoliatomicitaÁ delle molecole ..............................................................................................
Teoria di Lewis del legame chimico ..............................................................................
Legame ionico ...........................................................................................................................
Legame covalente.....................................................................................................................
ElettronegativitaÁ........................................................................................................................
III
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
101
103
105
106
108
110
......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
Sommario
7
8
9
10
11
Risonanza o mesomeria.........................................................................................................
Legame covalente coordinato o legame dativo (donatore-accettore)...........
Legame metallico .....................................................................................................................
Raggi atomici ..............................................................................................................................
AciditaÁ e basicitaÁ: dipendenza dalle proprietaÁ periodiche
e dalla struttura .........................................................................................................................
12 Acidi e basi di Lewis..............................................................................................................
Quesiti.....................................................................................................................................................
112
114
116
117
118
121
123
Capitolo 8 ± La geometria molecolare
1 La teoria VSEPR...................................................................................................................... 124
2 PolaritaÁ delle molecole.......................................................................................................... 129
Quesiti.................................................................................................................................................. 130
Capitolo 9 ± La coesione fra molecole
1
2
3
4
5
Legami chimici secondari....................................................................................................
Legame dipolo-dipolo ...........................................................................................................
Forze di London ......................................................................................................................
Legame a idrogeno..................................................................................................................
I processi di solubilizzazione .............................................................................................
Quesiti..................................................................................................................................................
131
132
132
134
136
137
Capitolo 10 ± La teoria del legame di valenza
1
2
3
4
Teoria quantistica del legame covalente ......................................................................
Teoria del legame di valenza .............................................................................................
Ibridazione degli orbitali atomici ....................................................................................
Ibridazione trigonale e digonale dell'atomo di carbonio....................................
Quesiti..................................................................................................................................................
138
139
141
145
149
Capitolo 11 ± La teoria degli orbitali molecolari
1 Gli orbitali molecolari ...........................................................................................................
2 Configurazione elettronica delle molecole biatomiche omonucleari ............
3 Configurazione elettronica delle molecole biatomiche eteronucleari...........
Quesiti..................................................................................................................................................
150
155
157
158
Capitolo 12 ± Gas reali
1
2
3
4
Coefficienti di compressibilitaÁ...........................................................................................
Temperatura di Boyle............................................................................................................
Equazione di van der Waals ..............................................................................................
Temperatura critica e liquefazione dei gas.................................................................
Quesiti..................................................................................................................................................
159
161
163
164
166
Capitolo 13 ± Caratteri generali dei liquidi e dei solidi
1 Teoria cinetica molecolare .................................................................................................. 167
2 ViscositaÁ ........................................................................................................................................ 168
IV
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
Sommario
3
4
5
6
7
8
Tensione superficiale dei liquidi ......................................................................................
I solidi ............................................................................................................................................
Il reticolo cristallino................................................................................................................
Tipi di reticoli cristallini.......................................................................................................
Polimorfismo ..............................................................................................................................
Isomorfismo................................................................................................................................
Quesiti..................................................................................................................................................
169
171
172
174
176
176
177
Capitolo 14 ± Passaggi di stato di aggregazione della materia
1
2
3
4
Curve di riscaldamento e di raffreddamento ............................................................
Teoria cinetica molecolare dei passaggi di stato .....................................................
Equazione di Clapeyron.......................................................................................................
Pressione di vapore.................................................................................................................
Quesiti..................................................................................................................................................
178
179
180
182
184
Capitolo 15 ± Sistemi ad un solo componente puro
1
2
3
4
5
Sistemi chimici omogenei ed eterogenei......................................................................
Diagrammi di fase dei sistemi a un componente puro........................................
Diagramma di fase dell'acqua ...........................................................................................
Diagramma di fase dell'anidride carbonica ...............................................................
Diagramma di fase dello zolfo ..........................................................................................
Quesiti..................................................................................................................................................
185
185
186
187
188
189
Capitolo 16 ± ProprietaÁ colligative delle soluzioni
1 Soluzioni .......................................................................................................................................
2 Abbassamento della pressione di vapore di una soluzione ...............................
3 Innalzamento del punto di ebollizione (ebullioscopia) e abbassamento
del punto di solidificazione (crioscopia) di una soluzione.................................
4 Pressione osmotica ..................................................................................................................
5 ProprietaÁ colligative delle soluzioni acquose degli elettroliti............................
Quesiti..................................................................................................................................................
190
190
191
193
195
196
Capitolo 17 ± I sistemi termodinamici
1
2
3
4
5
6
7
8
Oggetto della termodinamica chimica..........................................................................
Calore e lavoro ..........................................................................................................................
Sistema, contorno e ambiente ...........................................................................................
Funzioni di stato ......................................................................................................................
Sistemi a due e a tre variabili ............................................................................................
Trasformazioni aperte e trasformazioni chiuse o cicliche ..................................
Convenzione dei segni...........................................................................................................
Principio zero della termodinamica ...............................................................................
Quesiti..................................................................................................................................................
197
197
198
200
203
203
204
205
206
Capitolo 18 ± Primo principio della termodinamica
1 Equivalenza fra calore e lavoro ........................................................................................ 207
2 Energia interna.......................................................................................................................... 208
V
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
Sommario
3
4
5
6
7
Il calore e il lavoro non sono in genere funzioni di stato...................................
Processi reversibili e processi irreversibili ..................................................................
Calcolo infinitesimale.............................................................................................................
Calcolo del lavoro scambiato dal sistema in una trasformazione aperta ..........
Calcolo del lavoro scambiato da un gas perfetto in una
trasformazione isoterma e reversibile............................................................................
8 Diagrammi indicatori del lavoro meccanico scambiato
da una mole di gas perfetto................................................................................................
9 Lavoro scambiato da un gas perfetto in una
trasformazione irreversibile ................................................................................................
10 Lavoro massimo compiuto dal sistema.........................................................................
11 Espansione reversibile ed espansione irreversibile di un gas perfetto ...............
12 Calore specifico.........................................................................................................................
13 Primo principio e trasformazioni fondamentali dei gas perfetti .....................
Quesiti.....................................................................................................................................................
211
212
214
214
216
218
219
220
220
222
225
231
Capitolo 19 ± Termochimica
1
2
3
4
5
6
7
Il primo principio applicato ai sistemi chimici ........................................................
Legge di Hess ............................................................................................................................
Stato standard............................................................................................................................
Entalpia standard di reazione............................................................................................
Calcolo di DH da DU ............................................................................................................
Energia di legame ....................................................................................................................
Energia di risonanza...............................................................................................................
Quesiti..................................................................................................................................................
232
232
234
237
238
239
240
242
Capitolo 20 ± Secondo e terzo principio della termodinamica
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
Limiti di validitaÁ del primo principio della termodinamica..............................
Il secondo principio della termodinamica e le macchine termiche...............
Rendimento di un ciclo motore .......................................................................................
Ciclo di Carnot..........................................................................................................................
Uguaglianza di Clausius ed entropia .............................................................................
Calcolo della variazione di entropia dei sistemi materiali ..................................
Entropia e processi irreversibili........................................................................................
Disuguaglianza di Clausius .................................................................................................
Significato dell'entropia........................................................................................................
Interpretazione statistico-molecolare dell'entropia.................................................
La degradazione dell'energia .............................................................................................
Terzo principio della termodinamica ............................................................................
Quesiti.....................................................................................................................................................
243
243
246
247
249
252
256
260
263
264
265
266
268
Capitolo 21 ± L'energia libera
1
2
3
4
Introduzione al concetto di energia libera .................................................................
Energia libera e lavoro utile ...............................................................................................
Relazione tra energia libera, entalpia ed entropia in una reazione................
Calcolo della variazione di energia libera di una reazione.................................
VI
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
269
270
272
274
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
Sommario
5 Energia libera molare standard di formazione......................................................... 274
6 Energia libera ed energia libera standard dei sistemi materiali....................... 275
Quesiti.................................................................................................................................................. 277
Capitolo 22 ± L'energia libera e gli equilibri chimici
1 Variazione dell'energia libera in una reazione
Equazione di van't Hoff.......................................................................................................
2 Importanza della funzione energia libera....................................................................
3 Isobara di van't Hoff .............................................................................................................
Quesiti..................................................................................................................................................
278
281
282
286
Capitolo 23 ± L'energia libera e gli equilibri di fase
1 Equazione di Clapeyron.......................................................................................................
2 Equazione di Clausius-Clapeyron ...................................................................................
3 Equilibri tra fasi condensate ..............................................................................................
Quesiti..................................................................................................................................................
287
289
291
292
Capitolo 24 ± Cinetica delle reazioni
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
Concetti fondamentali sulle reazioni chimiche ........................................................
VelocitaÁ delle reazioni chimiche ......................................................................................
Legge della velocitaÁ delle reazioni chimiche .............................................................
Equazione cinetica delle reazioni del primo ordine ..............................................
Periodo di emivita o tempo di dimezzamento .........................................................
Datazione dei reperti archeologici ..................................................................................
Equazione cinetica delle reazioni del secondo ordine..........................................
Equazione cinetica delle reazioni del terzo ordine ................................................
Reazioni di ordine zero.........................................................................................................
MolecolaritaÁ e meccanismo delle reazioni...................................................................
Cinetica dei sistemi complessi di reazioni...................................................................
Quesiti.....................................................................................................................................................
293
294
295
296
299
300
301
302
303
304
305
309
Capitolo 25 ± Teoria della cinetica delle reazioni
1
2
3
4
5
Legge della distribuzione delle velocitaÁ molecolari ...............................................
Teoria degli urti molecolari................................................................................................
VelocitaÁ di reazione e temperatura.................................................................................
Equazione di Arrhenius........................................................................................................
Teoria del complesso attivato............................................................................................
Quesiti..................................................................................................................................................
310
311
312
313
315
317
Capitolo 26 ± Catalisi
1
2
3
4
Catalizzatori ................................................................................................................................
Caratteristiche generali della catalisi..............................................................................
Catalisi negativa ........................................................................................................................
Trasformazione di catalizzatori omogenei in catalizzatori eterogenei..........
VII
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
318
319
320
320
.......................................................................................................................................................................................................................
Sommario
5 Catalisi enzimatica ................................................................................................................... 320
6 Cinetica enzimatica ................................................................................................................. 321
Quesiti.................................................................................................................................................. 325
Capitolo 27 ± Conversione dell'energia chimica in energia elettrica
1
2
3
4
5
6
7
8
9
Oggetto dell'elettrochimica ................................................................................................
La pila Daniell ...........................................................................................................................
Potenziale dell'elettrodo.......................................................................................................
Potenziale di diffusione ........................................................................................................
Aspetti termodinamici...........................................................................................................
Equazione di Nernst ..............................................................................................................
Calcolo del potenziale relativo dell'elettrodo............................................................
Tipi di elettrodi.........................................................................................................................
La serie dei potenziali normali o potenziali standard di riduzione
degli elettrodi .............................................................................................................................
10 Calcolo teorico della f.e.m. di una pila.........................................................................
11 ProprietaÁ ossidanti e riducenti dei sistemi redox....................................................
12 Limiti di applicazione dei potenziali standard di riduzione..............................
13 Calcolo della costante di equilibrio di una reazione redox ...............................
14 Deduzione del potenziale standard di riduzione dai dati tabellati ................
Quesiti.....................................................................................................................................................
326
327
328
331
332
334
337
338
340
342
343
344
345
347
348
Capitolo 28 ± Conversione dell'energia elettrica in energia chimica
1
2
3
4
Passaggio della corrente elettrica nei conduttori....................................................
Elettrolisi ......................................................................................................................................
Leggi di Faraday.......................................................................................................................
Tensione di decomposizione..............................................................................................
Quesiti..................................................................................................................................................
349
341
352
353
356
Indice analitico ........................................................................................................................................... 357
VIII
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
1
.....................................................................................................................................................................................................................................................
1
Le leggi della materia
in fase gassosa
LO STATO GASSOSO DELLA MATERIA
In dipendenza dell'intensitaÁ delle forze di coesione che esistono fra le molecole, gli atomi
o gli ioni che formano le sostanze semplici o composte, la materia nel suo aspetto
macroscopico si presenta sotto quattro principali stati di aggregazione:
.
.
.
.
stato gassoso;
stato liquido;
stato vetroso o amorfo;
stato solido o cristallino.
Nello stato gassoso, che eÁ quello caratteristico delle sostanze aeriformi, le forze di coesione
fra le particelle della materia sono molto deboli, e pertanto esse, a causa della loro energia
cinetica, sono in costante e disordinato movimento e diffondono in tutto lo spazio a loro
disposizione. Per questa ragione i gas, o gli aeriformi in genere, non hanno un ben
definito contorno.
Lo stato liquido della materia eÁ caratterizzato da un arrangiamento spaziale ancora
disordinato delle particelle, peroÁ la reciproca forza di coesione eÁ sufficientemente alta nei
confronti della loro energia cinetica, e pertanto i liquidi hanno un contorno ben definito
sebbene non siano dotati di rigiditaÁ.
Lo stato vetroso della materia, detto anche stato amorfo, differisce dallo stato liquido
solo per il fatto che le forze di coesione fra le particelle sono piuÁ intense e cioÁ conferisce
alle sostanze amorfe un contorno ben definito e una certa rigiditaÁ.
Infine, lo stato cristallino della materia, detto comunemente stato solido, eÁ del tutto
singolare, in quanto eÁ caratterizzato dal fatto che le particelle sono disposte ordinatamente nello spazio tridimensionale e la loro mutua forza di coesione eÁ molto intensa. Per
questa ragione i solidi cristallini sono dotati di elevata densitaÁ e durezza e in genere
un'elevata resistenza all'azione del calore.
Tra questi stati di aggregazione della materia, il piuÁ semplice da studiare eÁ
indubbiamente quello gassoso, in quanto le leggi che governano il comportamento
degli aeriformi dipendono essenzialmente da tre grandezze fisiche dette grandezze di
stato o variabili di stato, e cioeÁ dalla pressione (P), dal volume (V) e dalla temperatura
(T) del gas.
La pressione del gas, che come vedremo eÁ determinata dal numero di urti che
nell'unitaÁ di tempo le sue molecole esercitano sulle pareti del recipiente, eÁ
fisicamente definita dall'intensitaÁ della forza che agisce sull'unitaÁ di superficie.
Nel Sistema Internazionale (S.I.) l'unitaÁ di misura della pressione eÁ il pascal (Pa):
un pascal equivale alla forza di un newton (N) che agisce sulla superficie di un metro
quadrato (1 Pa ˆ 1 N/m2). In chimica vengono usate molto spesso altre unitaÁ di misura
della pressione, e precisamente l'atmosfera standard (atm) e il millimetro di mercurio
1
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
1. Le leggi della materia in fase gassosa
(mmHg) detto anche torr; fra queste grandezze esiste la seguente relazione (ricordando
inoltre che 105 Pa ˆ 1 bar):
1 atm ˆ 1,013 105 Pa ˆ 1,013 bar
1 atm ˆ 760 mmHg ˆ 760 torr ˆ 1013 mbar
Per esempio, la pressione di 740 mmHg (740 torr) corrisponde a quella di 740/760 ˆ
0,974 atm; mentre la pressione, per esempio, di 10 000 Pa corrisponde alla pressione di
0,098 72 atm.
Il volume del gas eÁ la porzione dello spazio a disposizione delle particelle della sostanza
e pertanto esso coincide con il volume del recipiente in cui esso eÁ contenuto. Nel S.I.
l'unitaÁ di misura del volume eÁ il metro cubo (m3); tuttavia in chimica vengono spesso usate
altre unitaÁ di misura, e precisamente il litro (L)1 e il suo sottomultiplo millilitro (mL); fra
queste grandezze esiste la relazione:
1 L ˆ 1 dm3 ˆ 10
3
m3 ˆ 1000 mL
La temperatura del gas, come di un qualsiasi altro sistema materiale, eÁ una misura del grado di
energia termica (calore) da esso posseduta, o in altre parole, eÁ una misura della sua capacitaÁ di
trasferire l'energia termica a un altro sistema materiale. Infatti, per una legge universale, il
calore si trasmette spontaneamente sempre da un corpo piuÁ caldo (posto a temperatura
maggiore) a un corpo piuÁ freddo (posto a temperatura minore). In chimica vengono comunemente usate due scale di temperatura: la scala termodinamica (o scala Kelvin) detta anche
scala assoluta, e la scala Celsius detta anche centigrada. Nella scala termodinamica, la cui scelta
verraÁ giustificata in seguito, l'unitaÁ di misura della temperatura eÁ il grado kelvin o semplicemente kelvin (K), e questa scala eÁ quella adottata nel S.I.; nella scala centigrada, che eÁ una
scala convenzionale, l'unitaÁ di misura della temperatura eÁ il grado Celsius (8C). Un grado
Celsius corrisponde alla centesima parte dell'intervallo di temperatura compreso fra il punto
di congelamento dell'acqua pura sotto la pressione di 1 atm, cui si assegna il valore arbitrario di
0 8C, e il punto di ebollizione dell'acqua pura, sempre sotto la pressione di 1 atm, cui si assegna
il valore arbitrario di 100 8C. Tra le due scale, quella termodinamica e quella Celsius, esiste la
relazione:
t(8C) ‡ 273,15 ˆ T(K)
CosõÁ, per esempio, la temperatura di 50 8C corrisponde a 50 ‡ 273,15 ˆ 323,15 K; quella di
100 8C corrisponde a 100 ‡ 273; 15 ˆ 173,15 K.
Prima di esporre le piuÁ importanti leggi che governano il comportamento dei gas,
molte delle quali hanno preso il nome degli studiosi che per primi le dedussero dalle loro
esperienze, riteniamo opportuno fin da ora sottolineare che molto spesso useremo il
termine gas ideale o perfetto in alternativa al termine gas reale, e cioÁ perche la validitaÁ di
queste leggi, indipendentemente dalla natura chimica del gas, eÁ sempre ed esattamente
verificata solo quando i gas reali si avvicinano al comportamento di un ipotetico gas, detto
appunto gas ideale o gas perfetto. In prima approssimazione si puoÁ assumere che il
comportamento dei gas reali (idrogeno, ossigeno, azoto, ammoniaca, ecc.) eÁ analogo a
quello di un gas perfetto, quando fra le loro molecole esistono deboli forze attrattive o
repulsive e quando il volume delle molecole puoÁ ritenersi trascurabile rispetto a quello del
recipiente in cui esse sono contenute. Queste condizioni, fra l'altro, sono quasi sempre
verificate quando il gas reale si trova a elevata temperatura e bassa pressione.
1
Si noti che un litro eÁ il volume occupato da 1 kg di acqua pura alla temperatura di 4 8C, e non coincide esattamente
con il volume di 1 dm3, dato che 1 mL occupa il volume di 1,000 027 cm3 (c.c.). Tuttavia, normalmente, non si tiene
conto di questa lieve differenza e si pone 1 mL ˆ 1 c.c.
2
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2. Legge di Boyle
Figura 1.1
.................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
2
LEGGE DI BOYLE
A temperatura costante, il volume di una data massa di gas eÁ inversamente proporzionale
alla sua pressione.
Questa legge eÁ basata sui risultati ottenuti da Robert Boyle2 da una serie di esperienze
consistenti sostanzialmente in questo: se si versa del mercurio in un tubo di vetro
piegato e chiuso a una estremitaÁ, l'aria contenuta nel braccio chiuso viene compressa
in misura tanto piuÁ elevata quanto maggiore eÁ il dislivello h del mercurio nei due
bracci (fig. 1.1) e cioÁ si verifica dal momento che la pressione applicata al gas supera
quella atmosferica di un valore corrispondente a tale dislivello. Misurando il volume
dell'aria a diversi dislivelli del mercurio (cioeÁ applicando diverse pressioni sul gas),
Boyle trovoÁ che il volume variava in modo inversamente proporzionale alla pressione
applicata (rimanendo la temperatura praticamente costante).
Esperienza per verificare la legge di Boyle.
.
.........
. ..
..........
. .. ...
. .. .
......
.. .
. .......
..
h
La legge viene espressa matematicamente con la relazione:
(V )T ˆ
k
P
o con l'altra, piuÁ nota:
(PV )T ˆ k
(1:1)
nella quale k eÁ una costante, mentre l'indice T sta a significare che la temperatura del gas
viene mantenuta costante (legge isoterma).
In base alla legge di Boyle risulta che se una data massa di gas, mantenuta in un
cilindro munito di pistone, viene compressa mantenendo costante la temperatura, il
suo volume diminuisce proporzionalmente in modo che il valore numerico del
prodotto PV rimanga costante, e cioeÁ invariato. Ovviamente la stessa regola eÁ valida
qualora il gas, invece di venire compresso, venga lasciato espandere isotermicamente
(fig. 1.2).
Questa legge sperimentale eÁ approssimativamente valida per tutti i gas reali e tanto piuÁ
esattamente verificata quanto piuÁ il gas ha un comportamento ideale (bassa pressione ed
elevata temperatura).
2
Robert Boyle (1627-1691), chimico irlandese.
3
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Figura 1.2
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
1. Le leggi della materia in fase gassosa
b)
a)
Variazione del volume
di un gas in funzione
della pressione, a
temperatura costante
(non si considera l'effetto della pressione
atmosferica).
Figura 1.3
Isoterme di Boyle.
P1
P3
P2
V2
V1
V3
a) P2 ˆ 2 P1 ;
V2 ˆ
1
V1
2
P2 V 2 ˆ 2 P1 1
V 1 ˆ P1 V 1
2
b) P3 ˆ 3 P1 ;
V3 ˆ
1
V1
3
P3 V 3 ˆ 3 P1 1
V 1 ˆ P1 V 1
3
Essa, per una data massa di gas, eÁ rappresentata graficamente in un diagramma
pressione/volume da una serie di curve isoterme (una curva per ogni temperatura) che
hanno l'andamento caratteristico di una iperbole equilatera (fig. 1.3).
P
T3
T2
T1
0
V
L'applicazione pratica della legge di Boyle consente il calcolo teorico del volume finale V2
o della pressione finale P2 di una data massa di gas, che a temperatura costante viene
compressa o fatta espandere, dal volume iniziale noto V1 e pressione iniziale nota P1.
Infatti, applicando la legge prima allo stato iniziale del gas e poi allo stato finale, in base
alla (1.1) possiamo scrivere:
(P1 V1 )T ˆ k
e
(P2 V2 )T ˆ k
e poiche il valore numerico della costante k coincide nei due casi (la temperatura non eÁ
variata) si ha:
P1 V1 ˆ P2 V2
Da quest'ultima relazione, noti tre dati sperimentali del gas, si puoÁ calcolare facilmente il
valore incognito.
4
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3. Legge isobara di Charles
Figura 1.4
Isobare di Charles.
.................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3
LEGGE ISOBARA DI CHARLES
3
A pressione costante, il volume di una data massa di gas varia linearmente al variare della
sua temperatura.
Questa legge sperimentale, che come quella di Boyle eÁ approssimativamente valida per
tutti i gas reali, riveste una notevole importanza, in quanto da essa puoÁ essere dedotto il
preciso significato fisico e non convenzionale della scala termodinamica della temperatura.
Infatti, se in un diagramma volume/temperatura riportiamo i dati sperimentali relativi a
una massa qualunque di due gas diversi, si ottengono rispettivamente due rette il cui
andamento eÁ riprodotto qualitativamente nella figura 1.4.
V
Campione n° 1
Campione n° 2
V0'
Volumi
positivi
V0"
0 °C
100 °C
Volumi (0 K)
negativi
200 °C
t(°C)
Dall'esame del grafico si puoÁ facilmente verificare che il volume di ognuno dei due gas
diminuisce o aumenta linearmente con il diminuire o l'aumentare della temperatura.
Ebbene, ammettendo che un simile andamento lineare venga verificato anche alle
bassissime temperature, e che il gas in queste condizioni non passi allo stato liquido,
estrapolando le due curve (linee tratteggiate) si puoÁ notare come esse si incontrino in un
punto comune sull'asse delle temperature, il quale, in base agli intervalli di temperatura
con cui eÁ stato suddiviso detto asse, si trova a 273 8C.
Pertanto, alla temperatura di 273 8C, il volume occupato dal gas diventa uguale a
zero o in altri termini, le molecole del gas, supposte puntiformi e cioeÁ senza volume
proprio, occupano un volume nullo. CioÁ starebbe a indicare l'impossibilitaÁ di poter
scendere al di sotto della temperatura di 273 8C in quanto, in tal caso, le molecole
dovrebbero possedere un volume negativo (fig. 1.4). Pertanto questa temperatura, il cui
valore preciso eÁ 273,15 8C, teoricamente possibile, ma praticamente impossibile da
raggiungere, viene detta zero assoluto.4
Lo zero assoluto costituisce quindi il punto di partenza di una scala della temperatura
che viene detta temperatura assoluta o temperatura termodinamica (T). In questa scala i
gradi assoluti o gradi kelvin (K) sono correlati ai gradi centigradi (8C) della scala Celsius
(t) dalla relazione:
t(8C) ‡ 273,15 ˆ T(K)
e quindi:
273,15 8C ˆ 0 K
3
Jacques Charles (1746-1823), fisico francese.
Nel 1954, alcuni sperimentatori, lavorando a bassissime temperature (vicine allo zero assoluto) su particolari
amplificatori delle radiazioni elettromagnetiche (i maser), introdussero il concetto di temperatura assoluta negativa.
4
5
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Figura 1.5
...................................................................................................................................................................................................................................
1. Le leggi della materia in fase gassosa
Se indichiamo allora con V1 il volume del gas alla temperatura T1 e con V2 il volume del
gas alla temperatura T2 , la legge di Charles si puoÁ cosõÁ esprimere:
V1 V2
ˆ
T1 T2
o ancora:
.........................................................................................
(1:2)
V
ˆ costante
T P
(V )P ˆ k T
L'indice P sta a indicare che la pressione viene mantenuta costante durante la trasformazione
(legge isobara). In base a quest'ultima espressione, la legge di Charles (in un grafico: volume V
in funzione della temperatura assoluta T, a pressione costante) eÁ espressa semplicemente da
una retta passante per l'origine (fig. 1.5).
(V)P
Il volume di un gas in
funzione della temperatura assoluta (a
pressione costante).
4
(a P costante)
Campione n° 1
Campione n° 2
0
T (K)
L'applicazione pratica della legge di Charles consente, per esempio, il calcolo teorico del
volume finale V2 di una data massa di gas, che a pressione costante viene riscaldata o
raffreddata dalla temperatura iniziale nota T1, e volume iniziale noto V1, fino alla temperatura finale nota T2; oppure il calcolo teorico della temperatura finale T2 di una data massa
di gas, che a pressione costante viene portata da un volume iniziale noto V1 e temperatura
iniziale nota T1, fino ad occupare un dato volume finale V2. Infatti, dalla relazione (1.2), noti
tre dati sperimentali del gas, si puoÁ calcolare facilmente quello incognito.
LEGGE ISOCORA DI GAY-LUSSAC
La legge di Charles fu confermata da Louis Gay-Lussac5 il quale trovoÁ sperimentalmente che:
A volume costante, la pressione di una data massa di gas varia linearmente al variare della
temperatura.
Anche questa legge sperimentale eÁ approssimativamente valida per tutti i gas reali e,
rappresentata graficamente su un diagramma pressione/temperatura, assume un andamento del tutto analogo a quello relativo alla legge di Charles (fig. 1.6).
Anche in questo caso vengono riportati i dati sperimentali delle pressioni e delle
temperature di volumi costanti di due campioni di gas diversi, e per estrapolazione
5
Louis Gay-Lussac (1778-1850), chimico fisico francese.
6
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Figura 1.6
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
4. Legge isocora di Gay-Lussac
P
Campione n° 1
Isocore di Gay-Lussac.
Figura 1.7
Campione n° 2
P0'
Pressioni
positive
P0"
0 °C
Pressioni
negative
100 °C
200 °C
(0 K)
t(°C)
grafica risulta che allo zero assoluto ( 273,15 8C) la pressione dei gas si annulla, ammesso
naturalmente che essi non passino allo stato liquido alle bassissime temperature.
Pertanto possiamo anche affermare che allo zero assoluto della temperatura (0 K) il
gas non esercita alcuna pressione, o in altre parole, le sue molecole sono immobili.6
In generale, potremo scrivere quindi le relazioni (del tutto analoghe a quelle isobare di
Charles):
P1 P2
ˆ
T1 T2
cioeÁ:
P
ˆk
T V
o anche
(1:3)
(P)V ˆ k T
in cui l'indice V sta a significare che il volume del gas viene mantenuto costante durante la
trasformazione (legge isocora). In base a quest'ultima espressione, la legge di Gay-Lussac
(in un grafico: pressione P in funzione della temperatura assoluta T, a volume costante) eÁ
espressa semplicemente da una retta passante per l'origine (fig. 1.7).
(P)V
La pressione di un
gas in funzione della
temperatura assoluta
(a volume costante).
Campione n° 1
Campione n° 2
T (K)
0
L'applicazione pratica della legge di Gay-Lussac consente il calcolo teorico, per esempio,
della pressione finale P2 o della temperatura finale T2 di una data massa di gas, che a
volume costante aumenta o diminuisce la propria pressione. Infatti, per due stati di una
data massa di gas mantenuta a volume costante, eÁ valida la relazione (1.3), mediante la
quale, noti tre dati sperimentali del gas, si calcola facilmente quello incognito.
6
In effetti, dato che la temperatura assoluta eÁ proporzionale all'energia cinetica media di traslazione delle molecole,
ne consegue solamente che allo zero assoluto le molecole non posseggono moto traslazionale. Allo zero assoluto tutti i
sistemi materiali posseggono invece un'energia che eÁ determinata da piccoli movimenti oscillatori delle particelle di
materia (atomi o molecole) intorno alle proprie posizioni di equilibrio; questa energia minima, inalienabile, eÁ nota con il
nome di energia al punto zero.
7
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1. Le leggi della materia in fase gassosa
Tabella 1.1
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5
LEGGE DI AVOGADRO
La legge di Avogadro7 stabilisce che:
Volumi uguali di gas diversi, nelle medesime condizioni di pressione e di temperatura,
contengono lo stesso numero di particelle, le quali possono essere atomi, oppure molecole
biatomiche o poliatomiche.
La conseguenza piuÁ significativa di questa legge eÁ che una mole di un qualsiasi gas, e cioeÁ una
quantitaÁ in grammi numericamente uguale al peso molecolare del gas, occupa lo stesso volume
nelle medesime condizioni di pressione e di temperatura.
Riferendoci per comoditaÁ alle condizioni normali (c.n.) di pressione e di temperatura
(PTS) stabilite nei valori rispettivamente di 760 mmHg (1 atm) e 0 8C, si eÁ trovato
sperimentalmente che il volume occupato da una mole di un qualsiasi gas, formata come
noto da 6,023 1023 molecole o atomi, in condizioni normali eÁ mediamente uguale a
22,414 L. Questo volume eÁ detto volume molare del gas, e per alcuni gas piuÁ noti si
riportano nella tabella 1.1 i rispettivi dati sperimentali.
Peso
molecolare
relativo (u)
Massa (g)
Numero
di
moli (n)
Volume
molare (L)
idrogeno (H2)
2,016
2,016
1
22,430
elio (He)
4,003
4,003
1
22,429
azoto (N2)
28,014
28,014
1
22,402
ossigeno (O2)
31,998
31,998
1
22,393
anidride carbonica (CO2)
44,009
44,009
1
22,262
Gas
Volumi molari di alcuni
gas.
................................................................
6
L'applicazione pratica della legge di Avogadro consente il calcolo teorico del volume
occupato nelle condizioni normali da una qualsiasi massa di gas del quale sia noto il peso
molecolare, oppure il calcolo teorico del peso molecolare di un gas dalla misura
sperimentale del volume occupato nelle condizioni normali da una qualsiasi massa del
gas stesso.
EQUAZIONE DI STATO DEI GAS IDEALI
Se a una massa di gas applichiamo separatamente la legge di Boyle, quella di
Charles, quella di Gay-Lussac e quella di Avogadro, eÁ possibile dedurre una equazione, detta equazione di stato dei gas ideali (o gas perfetti), nella quale la pressione, il volume, la massa e la temperatura assoluta del gas risultano matematicamente legati fra loro.
7
Amedeo Avogadro (1776-1856), chimico fisico italiano.
8
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6. Equazione di stato dei gas ideali
Consideriamo infatti una mole di gas la cui pressione, volume e temperatura iniziali siano
rispettivamente P1, V1, e T1, e riscaldiamola o raffreddiamola fino alla temperatura T
mantenendo costante la pressione (trasformazione isobara): il nuovo volume occupato dalla
mole di gas sia, per esempio, V2. A questo punto, comprimiamo o facciamo espandere il
gas fino alla pressione finale P mantenendo costante la temperatura (trasformazione
isoterma), fino a che il volume finale occupato dalla mole di gas saraÁ, per esempio, V.
Queste due trasformazioni possono essere riassunte nel seguente schema:
Pressione
Volume
Temperatura
P1
V1
T1
P1
V2
T
P
V
T
stato iniziale
j trasformazione isobara
#j
stato intermedio
j trasformazione isoterma
#j
stato finale
Applicando alla trasformazione isobara la legge di Charles espressa dalla (1.2), possiamo
scrivere:
V1 V2
ˆ
T1
T
da cui:
V2 ˆ V1
T
T1
(1:4)
e applicando alla trasformazione isoterma la legge di Boyle espressa dalla (1.1), possiamo
scrivere:
P1 V2 ˆ PV
Se, in quest'ultima relazione, sostituiamo a V2 il termine dato dalla (1.4) otteniamo:
PV ˆ
P1 V1
T
T1
(1:5)
Se, a questo punto, stabiliamo che le condizioni iniziali per una data massa di gas, e cioeÁ
per una mole di gas, siano le medesime per tutti i gas e che tali condizioni iniziali
potrebbero essere quelle normali di pressione e di temperatura (P ˆ 760 mmHg; t ˆ 0 8C),
anche il volume iniziale V1 che compare nella (1.5) dovraÁ essere lo stesso per tutti i gas, in
quanto per la legge di Avogadro una mole di qualsiasi gas nelle condizioni normali occupa
il volume di 22,414 L (volume molare). Pertanto il termine:
P1 V1
T1
della (1.5) eÁ una costante caratteristica valida per tutti i gas, alla quale eÁ stato dato il
nome di costante universale dei gas e che viene simboleggiata con la lettera R.
9
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1. Le leggi della materia in fase gassosa
In conseguenza di cioÁ la relazione (1.5), relativamente a una mole di gas, diventa:
PV ˆ RT
mentre relativamente a n moli di gas assume la forma generale:
PV ˆ nRT
(1:6)
Quest'ultima eÁ l'equazione di stato dei gas perfetti o dei gas ideali, ed eÁ cosõÁ denominata
perche eÁ stata ottenuta ammettendo la validitaÁ generale delle leggi di Boyle, di Charles e
di Avogadro, validitaÁ che invece, come abbiamo piuÁ volte sottolineato, non eÁ sempre
verificata per i gas reali.
Comunque, in prima approssimazione, questa equazione puoÁ essere anche applicata ai
gas reali, soprattutto se essi si trovano a bassa pressione e ad elevata temperatura.
Infine, tenendo conto che il numero di moli di una qualsiasi sostanza si ottiene dalla
relazione:
m
nˆ
P:M:
in cui m eÁ la massa in grammi e P.M. il peso molecolare della sostanza, la (1.6) viene
formulata anche in questo modo:
m
RT
(1:7)
PV ˆ
P:M:
Si tenga presente che il valore numerico della costante R dipende dalle unitaÁ di misura
scelte per esprimere la pressione, il volume e la temperatura del gas nelle condizioni
normali. Pertanto, dato che in base alla (1.6), risulta:
Rˆ
PV
nT
se poniamo:
n ˆ 1 mol
P ˆ 1 atm
T ˆ 273,15 K
V ˆ 22,414 L
otteniamo
Rˆ
1 atm 22,414 L
1 mol 273,15 K
da cui:
R ˆ 0,0821 L atm mol
1
K
1
Pertanto, tutte le volte che nei calcoli viene usato questo valore numerico della costante
R, eÁ necessario esprimere il volume del gas in litri, la sua pressione in atmosfere e la sua
temperatura in kelvin.
L'applicazione pratica dell'equazione di stato dei gas perfetti non eÁ solo limitata,
come vedremo, al calcolo dei pesi molecolari delle sostanze gassose, problema che
riveste un'importanza soprattutto storica, ma anche allo studio e alla previsione del
comportamento dei gas reali e quindi alla risoluzione di problemi di notevole importanza tecnica.
10
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7. Legge di Dalton per le miscele gassose
Figura 1.8
Legge di Dalton.
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7
LEGGE DI DALTON PER LE MISCELE GASSOSE
8
Quando due o piuÁ gas diversi sono contenuti nello stesso recipiente e non reagiscono fra
loro, la pressione totale della miscela gassosa (o miscuglio gassoso) eÁ uguale alla somma
delle pressioni parziali dei diversi gas.
Per pressione parziale di un gas in una miscela gassosa si deve intendere la pressione (p)
che il gas eserciterebbe alla stessa temperatura della miscela, se da solo avesse a
disposizione tutto il volume della miscela stessa.
Questa legge, anch'essa dedotta dalle esperienze di Dalton, puoÁ essere dimostrata in
modo molto semplice disponendo per esempio di tre recipienti (A, B, C) tutti della stessa
capacitaÁ e ciascuno munito di un manometro per misurare la pressione del gas. Nel recipiente A poniamo per esempio una data quantitaÁ di ossigeno, nel recipiente B poniamo
una data quantitaÁ di azoto, e infine nel recipiente C poniamo insieme le medesime quantitaÁ
di ossigeno e di azoto poste separatamente in A e in B. Se i tre recipienti vengono portati
alla stessa temperatura, si puoÁ osservare che se le pressioni dell'ossigeno nel recipiente A e
dell'azoto nel recipiente B sono, per esempio, rispettivamente 13 mmHg e 21 mmHg, la
pressione totale (P) esercitata dai due gas nel recipiente C che ha la stessa capacitaÁ di A o di
B, eÁ esattamente 13 ‡ 21 ˆ 34 mmHg (fig. 1.8).
A
Ossigeno
B
Azoto
13 mmHg
21 mmHg
C
Ossigeno
+
Azoto
34 mmHg
La legge di Dalton, la cui validitaÁ eÁ sempre ed esattamente verificata solo per i gas ideali,
viene espressa matematicamente con la relazione:
P ˆ p1 ‡ p2 ‡ p3 ‡ . . .
(1:8)
nella quale P eÁ la pressione totale esercitata sulle pareti del recipiente dalla miscela
gassosa, mentre p1, p2, p3, ..., sono rispettivamente le pressioni parziali dei singoli
componenti la miscela.
Applicando a ogni componente di una miscela gassosa, per esempio formata da tre
gas, l'equazione di stato dei gas perfetti, e dato che ognuno di essi si comporta come se da
solo occupasse tutto il volume V a disposizione della miscela, possiamo scrivere:
p1 V ˆ n1 RT
p2 V ˆ n2 RT
(1:9)
p3 V ˆ n3 RT
in cui n1, n2, n3 sono il numero di moli, e p1, p2, p3 le pressioni parziali dei rispettivi gas.
Sommando queste tre relazioni otteniamo:
(p1 ‡ p2 ‡ p3 )V ˆ (n1 ‡ n2 ‡ n3 )RT
8
John Dalton (1766-1844), chimico fisico inglese.
11
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
(1:10)
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
1. Le leggi della materia in fase gassosa
poiche p1 ‡ p2 ‡ p3 ˆ P (pressione totale della miscela) e n1 ‡ n2 ‡ n3 ˆ ntot (numero
totale di moli nella miscela), la (1.10) diventa:
PV ˆ ntot RT
(1:11)
Se ora dividiamo ognuna delle relazioni espresse dalla (1.9), con quella espressa dalla
(1.11), per la prima di queste otteniamo:
p1 V
n1 RT
ˆ
PV
ntot RT
e semplificando:
p1
n1
ˆ
P
ntot
CosõÁ pure per le altre due otteniamo:
p2
n2
ˆ
P
ntot
e
p3
n3
ˆ
P
ntot
Estendendo questi risultati a un generico componente i contenuto in una miscela gassosa,
possiamo scrivere con ovvia simboleggiatura:
pi
ni
ˆ
P
ntot
(1:12)
Se ora definiamo frazione molare di un qualsiasi componente contenuto in una miscela
gassosa o anche liquida, il rapporto fra il numero di moli ni di quel componente e il
numero totale di moli ntot del miscuglio, e cioeÁ poniamo:
ni
ˆ xi (frazione molare del componente i della miscela)
ntot
(1:13)
la (1.12) assume la forma:
pi
ˆ xi
P
o anche:
pi ˆ xi P
(1:14)
e pertanto in base a quest'ultima relazione risulta che:
In una miscela gassosa, la pressione parziale pi di un qualsiasi componente eÁ data dal
prodotto della frazione molare xi di quel componente per la pressione totale P della
miscela.
Un'altra formulazione della legge di Dalton viene ricavata con il seguente ragionamento.
In base alla legge di Avogadro, il volume occupato da un gas eÁ proporzionale al numero di
moli del gas, e pertanto anche il volume V (o Vtot) occupato da una miscela di gas eÁ
proporzionale al numero totale (ntot) di moli di gas contenute nella miscela, e cioeÁ
V ˆ k ntot
con k costante di proporzionalitaÁ. La (1.15) puoÁ anche essere cosõÁ scritta:
V ˆ k(n1 ‡ n2 ‡ n3 )
12
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
(1:15)
.........................................................................................................................................................................................................................................................................
8. DensitaÁ assoluta dei gas
.............................................
8
da cui:
V ˆ k n1 ‡ k n2 ‡ k n3
Se ora si pone:
v1 ˆ k n1
v2 ˆ k n2
v3 ˆ k n3
si ottiene:
(1:16)
V ˆ v1 ‡ v2 ‡ v3
Ne consegue che v1, v2 e v3 rappresentano i volumi parziali dei tre gas, intendendo per
volume parziale di un gas in un miscuglio, il volume che il gas occuperebbe se da solo si
trovasse alla stessa temperatura e pressione totale della miscela.
Dividendo ognuna delle tre relazioni espresse dalla (1.16), con quella espressa dalla
(1.15), otteniamo:
v1
n1
v2
n2
v3
n3
ˆ
ˆ
ˆ
V
ntot
V
ntot
V
ntot
Estendendo questi risultati a un generico componente i di una miscela gassosa, si puoÁ
pertanto scrivere con ovvia simboleggiatura:
vi
ni
ˆ xi
(1:17)
ˆ
V
ntot
e confrontando quest'ultima con la (1.14) si ottiene:
vi
pi ˆ
P
V
(1:18)
Per riassumere i risultati cui siamo pervenuti esaminando il comportamento delle miscele
gassose, possiamo dettare le seguenti regole valide, tra l'altro, anche per le soluzioni
liquide formate da due o piuÁ componenti:
. in una miscela di gas la frazione molare di ciascun componente si identifica con la sua
frazione volumica (xi ˆ ni =ntot ˆ vi =Vtot );
. la somma delle frazioni molari (delle frazioni volumiche) dei componenti di una
miscela gassosa eÁ uguale a uno (x1 ‡ x2 ‡ x3 ‡ . . . xn ˆ 1);
. la frazione volumica (frazione molare) di ogni componente di una miscela gassosa si
identifica con il numero di volumi (di moli) di quel componente per ogni volume (per
ogni mole) di miscela;
. la pressione parziale di ciascun componente di una miscela gassosa si ottiene moltiplicando semplicemente la sua frazione volumica (frazione molare) per la pressione
totale della miscela:
vi
ni
pi ˆ
P
e
pi ˆ
P
Vtot
ntot
DENSITAÁ ASSOLUTA DEI GAS
Si definisce densitaÁ assoluta (d) di un gas, il rapporto fra una qualsiasi massa (m) di gas
espressa in grammi e il corrispondente volume (V ) espresso in litri:
dˆ
m
V
13
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
(1:19)
........................................................................................................
1. Le leggi della materia in fase gassosa
................................................................................................................................................................................................................
9
Ne consegue che l'unitaÁ di misura di questa grandezza eÁ il grammo/litro (g/L).
Poiche il volume dei gas varia di molto al variare della temperatura e della pressione
esterne, per poter confrontare fra loro le densitaÁ assolute dei diversi gas, si eÁ convenuto di
riferirsi a quelle misurate nelle condizioni normali (P ˆ 1 atm; t ˆ 0 8C), per cui esse
vengono definite densitaÁ normali (dn).
Dato che la densitaÁ assoluta eÁ una grandezza indipendente dalla massa di sostanza
pura considerata, ma, per una data temperatura e pressione, dipende solo dalla natura
della sostanza, il rapporto fra la massa di una mole di gas (peso molecolare espresso in
grammi) e il volume da essa occupato in condizioni normali, che per tutti i gas eÁ uguale a
22,414 L, ci fornisce la densitaÁ normale del gas, e cioeÁ:
dn ˆ
P:M:(in grammi)
22,414 L
(1:20)
Pertanto, in base a quest'ultima relazione, nota la densitaÁ normale di una sostanza pura
gassosa e moltiplicandola per il volume molare, si puoÁ calcolare il peso molecolare della
sostanza.
DISSOCIAZIONE GASSOSA
Le leggi che regolano lo stato gassoso della materia sono state applicate in prima
approssimazione anche ai gas reali, ammettendo implicitamente che essi avessero un
comportamento ideale, e che nelle condizioni sperimentali considerate non avvenissero
fenomeni di dissociazione parziale o totale a carico delle molecole del gas.
PuoÁ accadere infatti che, in dipendenza dalla temperatura e dalla pressione dell'esperienza, le molecole del gas si dissocino, per cui da ogni molecola dissociata prendono in
genere origine due o piuÁ molecole la cui natura chimica eÁ il piuÁ delle volte diversa da
quella della molecola di partenza.
CosõÁ, per esempio, riscaldando in un recipiente chiuso dei vapori di pentacloruro di
fosforo (PCl5), risulta che nel recipiente di reazione, accanto alle molecole di partenza,
sono contenute anche molecole di tricloruro di fosforo (PCl3) e di cloro (Cl2); inoltre si
puoÁ osservare che, aumentando la temperatura, aumenta il numero di molecole di PCl3 e
di Cl2, mentre diminuisce il numero di molecole di PCl5; inversamente, diminuendo la
temperatura, diminuisce il numero di molecole di PCl3 e di Cl2, mentre aumenta il
numero di molecole di PCl5. Questo fatto sperimentale noto con il nome di dissociazione
gassosa o dissociazione termica eÁ pertanto rappresentato con l'equazione:
PCl5(g) ! PCl3(g) ‡ Cl2(g)
in cui la doppia freccia simboleggia la reversibilitaÁ del fenomeno in funzione della
temperatura e della pressione dell'esperienza.
Molte altre sostanze si comportano allo stesso modo del pentacloruro di fosforo,
soprattutto se esse subiscono forte riscaldamento, e pertanto, se la temperatura del gas eÁ
sufficientemente bassa, il fenomeno della dissociazione gassosa puoÁ essere ritenuto
trascurabile.
Le sostanze gassose piuÁ note che danno luogo a un simile fenomeno sono le seguenti:
NH4 Cl(g) ! NH3(g) ‡ HCl(g)
2 NH3(g) ! N2(g) ‡ 3 H2(g)
2 SO3(g) ! 2 SO2(g) ‡ O2(g)
N2 O4(g) ! 2 NO2(g)
2 HI(g) ! H2(g) ‡ I2(g)
14
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
..................................
11. Fattore di dissociazione
................................................................................................................................................................
10
............................................................................................................
11
EÁ chiaro a questo punto che, se a una data temperatura un gas subisce il fenomeno della
dissociazione, a causa della quale da ogni molecola dissociata si formano due o piuÁ altre
molecole,9 tutte le grandezze legate al numero di particelle del gas, e in particolare il
volume, e quindi la densitaÁ del gas, sono espressi da valori sperimentali che non sono in
accordo con quelli prevedibili teoricamente alla stessa temperatura e pressione.
GRADO DI DISSOCIAZIONE
Per tenere quantitativamente conto del fenomeno della dissociazione termica dei gas, e
quindi per poter prevedere il loro comportamento anche in questa eventualitaÁ, eÁ stata
definita la grandezza grado di dissociazione della sostanza gassosa, simboleggiata con la
lettera greca a (alfa). Noto il grado di dissociazione di una sostanza gassosa, eÁ possibile,
come vedremo, calcolare l'effettivo numero di molecole (o anche di moli10) di sostanza
che intervengono in un fenomeno gassoso.
Si definisce grado di dissociazione di una sostanza gassosa, a una data temperatura e
pressione, il rapporto fra il numero di moli di sostanza che si sono dissociate (nd) e il
numero iniziale (n0) di moli della sostanza stessa:
n
(1:21)
aˆ d
n0
Per una stessa sostanza, il grado di dissociazione, ovviamente espresso da un numero
adimensionale, dipende sia dalla temperatura che dalla pressione a cui viene condotta
l'esperienza; comunque il suo valore numerico eÁ sempre compreso fra il limite inferiore
uguale a zero e il limite superiore uguale a uno, e cioeÁ 0 a 1. Infatti, in assenza di
dissociazione, il numero di moli dissociate eÁ uguale a zero, quindi dalla (1.21) otteniamo
a ˆ 0; invece, se tutte le molecole iniziali della sostanza gassosa si dissociano, essendo in
questo caso nd ˆ n0 , sempre dalla (1.21) otteniamo a ˆ 1.
Si noti che normalmente il grado di dissociazione viene riferito a 100 mol iniziali di
sostanza, e pertanto l'indicazione a ˆ 40% eÁ equivalente all'indicazione a ˆ 0,4, in
quanto, mentre la prima sta a significare che per 100 mol di sostanza se ne sono dissociate
40, la seconda ha lo stesso significato, in quanto indica che per ogni mole di sostanza
gassosa se ne sono dissociate 0,4.
FATTORE DI DISSOCIAZIONE
Definito il grado di dissociazione di una sostanza gassosa, eÁ possibile ottenere un
coefficiente di correzione, detto fattore di dissociazione, mediante il quale si tiene conto
dell'effettivo numero di moli che sono contenute in un recipiente di reazione quando la
sostanza in esame ha subito, alla temperatura e alla pressione a cui viene condotta
l'esperienza, la dissociazione termica parziale o anche totale.
Consideriamo, per esempio, la reazione di dissociazione del pentacloruro di fosforo
(PCl5), a una data temperatura e pressione, omettendo da ora in avanti l'indicazione dello
stato di aggregazione gassoso delle sostanze, che diamo per scontato: PCl5 ! PCl3 ‡ Cl2 ;
e indichiamo con n0 il numero di moli iniziali del pentacloruro di fosforo.
9
Negli esempi sopra citati, questa eventualitaÁ eÁ verificata per tutti, eccettuato l'ultimo.
Si ricordi che, noto il numero di moli (n) di una sostanza, si calcola facilmente il corrispondente numero di
molecole (N1) moltiplicando le moli per il numero di Avogadro (NA), e cioeÁ:
n NA ˆ N1
10
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
1. Le leggi della materia in fase gassosa
Poiche per definizione:
aˆ
nd
n0
ne deriva che il numero di moli (nd) di pentacloruro di fosforo che hanno subito la
dissociazione eÁ uguale a nd ˆ a n0 e pertanto nel recipiente di reazione sono rimaste:
n0
a n0 moli di PCl5 indissociate
Inoltre, poiche dall'equazione stechiometrica bilanciata sopra scritta risulta che da una
mole di PCl5 dissociata si forma una mole di PCl3 e una mole di Cl2, ovviamente dalla
dissociazione di a n0 moli di PCl5 si formano a n0 moli di PCl3 e a n0 moli di Cl2.
Pertanto riassumendo possiamo scrivere:
PCl5
__
__
!
moli iniziali
n0
variazione del numero di moli in seguito a dissociazione
a n0
moli finali
(n0 a n0 )
PCl3
+
Cl2
0
‡a n0
a n0
0
‡a n0
a n0
o anche piuÁ sinteticamente, e a dissociazione avvenuta:
(n0
PCl5 ! PCl3 ‡ Cl2
a n0 )
a n0
a n0
Quindi, alla temperatura e alla pressione considerate, il numero totale di moli (ntot) di
sostanze gassose contenute nel recipiente di reazione che all'inizio conteneva n0 moli di
PCl5 eÁ:
ntot ˆ n0
a n0 ‡ a n0 ‡ a n0
ntot ˆ n0 ‡ a n0
ntot ˆ n0 (1 ‡ a)
(1:22)
Applichiamo ora lo stesso procedimento alla reazione di dissociazione gassosa:
2 SO3 ! 2 SO2 ‡ O2
e indichiamo con n0 il numero di moli iniziali di SO3.
Le moli di questa sostanza, che a una data temperatura e pressione si sono dissociate, in
base alla (1.21) sono nd ˆ a n0 , per cui nel recipiente di reazione sono rimaste n0 a n0
moli indissociate di SO3. Dall'equazione stechiometrica bilanciata sopra scritta risulta che,
per ogni due moli di SO3 che si dissociano, si formano due moli di SO2 e una mole di O2
(rapporto stechiometrico di interdipendenza 2 : 2 : 1 o anche 1: 1: 0,5); per cui la
dissociazione di a n0 moli di SO3 daÁ origine ovviamente ad a n0 moli di SO2 e ad a n0/2
moli di O2, quindi possiamo scrivere:
2 SO3
moli iniziali
variazione del numero di moli in seguito a dissociazione
moli finali
__
__
!
n0
a n0
(n0 a n0 )
16
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
2 SO2 +
O2
0
‡a n0
a n0
0
‡a n0 =2
a n0 =2
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
11. Fattore di dissociazione
o anche piuÁ sinteticamente, e a dissociazione avvenuta:
2 SO3 ! 2 SO2 ‡ O2
(n0
a n0 )
a n0
a n0 =2
Quindi il numero totale di moli (ntot) di gas contenute nel recipiente di reazione alla
temperatura e pressione dell'esperienza eÁ:
a n0
ntot ˆ n0 a n0 ‡ a n0 ‡
2
a n0
ntot ˆ n0 ‡
2
a
ntot ˆ n0 1 ‡
(1:23)
2
Le due equazioni (1.22) e (1.23), che sono state ottenute prendendo in esame due reazioni
qualsiasi di dissociazione termica, possono essere ricavate da una relazione generale che eÁ
cosõÁ formulata:
(1:24)
ntot ˆ n0 [1 ‡ a(n 1]
in cui:
ntot ˆ numero totale di moli di sostanze gassose contenute nel recipiente a dissociazione
avvenuta;
a ˆ grado di dissociazione della sostanza gassosa in esame alla temperatura e pressione
dell'esperienza;
n (ni greca) ˆ numero di moli di gas che si formano dalla dissociazione di ogni mole di gas
di partenza.11
Per esempio, nella reazione PCl5 ! PCl3 ‡ Cl2 si ha n ˆ 2, in quanto da una mole di
PCl5 dissociata si formano due moli di gas (una di PCl3 e una di Cl2), e pertanto in questo
caso la (1.24) diventa: ntot ˆ n0 [1 ‡ a (2 1)] ˆ n0 (1 ‡ a ), e cioeÁ identica alla (1.22).
CosõÁ pure, nella reazione 2 SO3 ! 2 SO2 ‡ O2 si ha n ˆ 3=2, in quanto se da due moli
di SO3 dissociate si ottengono tre moli totali, da una mole di SO3 dissociata si devono
ottenere ovviamente 3/2 moli totali. Pertanto in questo caso applicando la (1.24)
otteniamo:
3
1
ntot ˆ n0 1 ‡ a
2
a
ˆ n0 1 ‡
2
che eÁ identica alla (1.23).
EÁ chiaro che in assenza di dissociazione della sostanza gassosa, essendo a ˆ 0, la (1.24)
fornisce ovviamente: ntot ˆ n0 (moli iniziali), mentre se la dissociazione della sostanza gassosa
eÁ completa a una data temperatura e pressione, essendo a ˆ 1, la (1.24) diventa: ntot ˆ n n0 .
Si noti a questo proposito che in alcune reazioni di dissociazione gassosa puoÁ verificarsi il caso
in cui n ˆ 1, come per esempio nella seguente: 2 HI ! H2 ‡ I2 ; ovvero, anche in seguito alla
dissociazione, il numero di moli totali della sostanza rimane inalterato (ntot ˆ n0 ).
L'espressione algebrica compresa entro le due parentesi quadre della (1.24) prende il
nome di fattore di dissociazione della sostanza gassosa considerata, e viene simboleggiata
normalmente con la lettera i;12 pertanto possiamo scrivere:
i ˆ [1 ‡ a (n
1)]
11
(1:25)
Ovviamente n non puoÁ mai essere minore di uno.
Il fattore i non puoÁ mai essere minore di uno; nel caso particolare in cui n ˆ 1 dalla (1.25) risulta i ˆ 1, e quindi,
in base alla (1.24), risulta anche ntot ˆ n0 .
12
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
1. Le leggi della materia in fase gassosa
..................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
12
CALCOLO DELLA PRESSIONE PARZIALE DI UNA SOSTANZA DAL
GRADO DI DISSOCIAZIONE
Se una sostanza gassosa a una data temperatura e pressione subisce la dissociazione, si
formano nel recipiente di reazione piuÁ specie chimiche gassose, ciascuna delle quali, in base
alla legge di Dalton, eÁ caratterizzata da una pressione parziale che si puoÁ calcolare facilmente dalla equazione pi ˆ xi P esprimendo, a dissociazione avvenuta, la frazione molare
di ogni specie chimica gassosa mediante il rapporto fra le relative moli e le moli totali
contenute nel recipiente.
Consideriamo, per esempio, la reazione di dissociazione in fase gassosa:
NH4 Cl(g) ! NH3(g) ‡ HCl(g)
e indichiamo con n0 le moli iniziali della sostanza e con a il grado di dissociazione a una
data pressione e temperatura. In base alla (1.21) otteniamo che le moli di NH4Cl
dissociate sono nd ˆ a n0 e ne consegue che nel recipiente di reazione sono rimaste
n0 a n0 moli indissociate di NH4Cl. Poiche dall'equazione stechiometrica bilanciata
sopra scritta, risulta che da una mole di NH4Cl che si dissocia si forma una mole di NH3 e
una mole di HCl (rapporto stechiometrico di interdipendenza 1 : 1 : 1), la dissociazione di
a n0 moli di sostanza iniziale daÁ origine ovviamente ad a n0 moli di NH3 e ad a n0 moli di
HCl. Pertanto possiamo scrivere:
NH4Cl
moli iniziali
variazione del numero di moli in seguito a dissociazione
moli finali
__
__
!
n0
a n0
(n0 a n0 )
NH3
0
‡a n0
a n0
+
HCl
0
‡a n0
a n0
o anche piuÁ sinteticamente, e a dissociazione avvenuta:
NH4 Cl ! NH3 ‡ HCl
(n0
a n0 )
a n0
a n0
Pertanto, a dissociazione avvenuta, nel recipiente di reazione eÁ contenuto un numero di
moli totali:
ntot ˆ n0 a n0 ‡ a n0 ‡ a n0 ˆ n0 (1 ‡ a)
A questo punto possiamo calcolare la frazione molare di ogni specie chimica a dissociazione avvenuta, ottenendo rispettivamente:
xNH4 Cl ˆ
n0 a n0 n0 (1 a) (1 a)
ˆ
ˆ
n0 (1 ‡ a) n0 (1 ‡ a) (1 ‡ a)
xNH3 ˆ
n0 a
a
ˆ
n0 (1 ‡ a) (1 ‡ a)
xHCl ˆ
n0 a
a
ˆ
n0 (1 ‡ a) (1 ‡ a)
Sostituendo infine ognuna di queste tre frazioni molari nella formula risolutiva:
pi ˆ xi P
possiamo calcolare facilmente la pressione parziale di ogni sostanza contenuta nel recipiente di reazione.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
QUESITI
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QUESITI
1. Per quale ragione, ponendo in un recipiente una
data massa di gas, questo tende a occuparne tutto
il volume?
2. Perche uno strato sottile di qualsiasi gas eÁ trasparente?
3. Lo stato aeriforme, quello liquido e quello amorfo
hanno una caratteristica in comune. Quale?
4. Fornisci una spiegazione al fatto che i solidi cristallini sono caratterizzati, in genere, da una elevata densitaÁ.
5. Perche il ghiaccio galleggia sull'acqua?
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
15. Le affermazioni «la frazione molare di un componente A in una miscela eÁ uguale a 0,3» e «la
percentuale in volume del componente A nella
miscela eÁ uguale al 30%» hanno lo stesso significato. PercheÂ?
16. La risposta al quesito precedente sarebbe la stessa
se in luogo della frazione molare fosse stata indicata la frazione volumica?
17. Perche nell'indicare la densitaÁ di un gas eÁ necessario specificare la temperatura e la pressione
del gas? Per i liquidi e per i solidi qual eÁ la grandezza fisica che ne influenza maggiormente la
densitaÁ? PercheÂ?
6. Mediante la legge di Gay-Lussac, attribuisci un
significato fisico ben preciso allo zero assoluto della
temperatura.
18. Perche la densitaÁ normale di un gas puoÁ essere
considerata come una misura della sua massa
molecolare relativa?
7. La quota di 3000 m della cima di una montagna eÁ
una grandezza fisica relativa, come pure la temperatura che in cima alla montagna eÁ per esempio
pari a 250 K. Questa ultima affermazione eÁ errata.
PercheÂ?
19. La densitaÁ normale del metano eÁ 1,13810 4 g=mL.
Qual eÁ la sua densitaÁ normale espressa in mg/mL,
g/L e kg/m3 ?
8. In quale circostanza la pressione del gas e la pressione esercitata sul gas possono essere identificate?
9. Definisci le condizioni normali di temperatura e
pressione: sono state scelte per convenzione?
10. Due gas nelle stesse condizioni di pressione e di
temperatura occupano l'uno un volume doppio
dell'altro. In che modo puoi spiegare questo
fatto?
11. Perche l'equazione di stato dedotta applicando le
leggi di Boyle, di Charles e di Avogadro viene
chiamata legge dei gas ideali ?
12. «Vi preghiamo di spedirci una bombola di 10 L
contenente 800 g di ossigeno la cui pressione alla
temperatura di 27 8C deve essere pari a 2 atm».
Per quale motivo l'azienda che ha ricevuto questo
ordinativo non lo ha potuto evadere?
13. Definisci la frazione molare e quella volumica di un
componente in una miscela gassosa. Qual eÁ la loro
unitaÁ di misura? Che cosa hanno in comune queste
due grandezze?
14. L'applicazione della legge di Dalton ha una
precisa limitazione anche se i componenti della
miscela gassosa hanno un comportamento ideale. Quale?
20. Due gas diversi sono contenuti nello stesso recipiente in quantitaÁ in peso uguali. Quale dei due
eserciteraÁ una pressione parziale maggiore?
21. In quali condizioni un gas reale tende a seguire le
leggi dei gas ideali?
22. Se due gas sono contenuti in un recipiente con lo
stesso numero di moli, quali altre grandezze risulteranno uguali per i due gas?
23. Qual eÁ l'aumento percentuale del volume di un gas
per l'aumento di un grado di temperatura, a pressione costante?
24. L'anidride carbonica eÁ normalmente contenuta
nell'aria nella percentuale dello 0,03% in volume.
Qual eÁ la sua pressione parziale, se la pressione
atmosferica eÁ di 760 mmHg?
25. Da che cosa dipende il grado di dissociazione di
una sostanza gassosa?
26. In quali casi la dissociazione termica di un gas (a
volume costante) non determina un aumento di
pressione?
27. Se si riscalda a pressione costante un gas A che
subisce dissociazione termica secondo la reazione A ! 2 B, quali grandezze si potrebbero
misurare per avere conferma dell'avvenuta dissociazione?
19
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
2
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1
Equilibri in fase gassosa
CONDIZIONI PER L'EQUILIBRIO CHIMICO
Le reazioni avvengono con una velocitaÁ ben definita, che dipende da diversi fattori come
la natura, lo stato fisico e la concentrazione dei reagenti, la temperatura alla quale avviene
la reazione e la presenza o meno di catalizzatori.
La velocitaÁ di reazione viene definita come la variazione della concentrazione di una
sostanza nell'unitaÁ di tempo; la sostanza puoÁ essere scelta tra i reagenti o tra i prodotti, di
conseguenza la variazione della concentrazione saraÁ positiva o negativa.
In base a tale definizione l'espressione matematica della velocitaÁ di reazione risulta:
vˆ
D[A]
ˆ
Dt
D[B] D[C] D[D]
ˆ
ˆ
Dt
Dt
Dt
in cui il simbolo D (delta greca) indica la variazione di una grandezza, quindi: Dt variazione (cioeÁ intervallo) di tempo, espresso in secondi (o in minuti, e cosõÁ via); D[A]
variazione della concentrazione della sostanza A in quel dato intervallo di tempo (e cosõÁ
per le altre sostanze B, C, D); il segno negativo per i reagenti sta a indicare la diminuzione
della loro concentrazione. Le parentesi quadre indicano la concentrazione molare o
molaritaÁ (M) che esprime il numero di moli di sostanza contenute nell'unitaÁ di volume, ed
eÁ quindi data dal rapporto fra il numero di moli (n) di sostanza e il volume (V) del
recipiente che la contiene, espresso in litri:
Mˆ
n
V
da cui discende il fatto che l'unitaÁ di misura della molaritaÁ eÁ la mole per litro (mol/L).
L'unitaÁ di misura della velocitaÁ di reazione risulta allora:
mol
(mol L
Ls
1
s 1)
(oppure mol L 1 min 1 e cosõÁ via, scegliendo l'unitaÁ di misura idonea, a seconda che si
tratti di reazione rapida o lenta).
Risulta dall'esperienza che tutte le reazioni chimiche possono procedere sia nel verso
che va dai reagenti ai prodotti, sia nel verso opposto, e cioeÁ dai prodotti ai reagenti e quindi
esse vengono dette reversibili.
Infatti, se in un recipiente poniamo una qualsiasi quantitaÁ di idrogeno e di azoto
gassosi, e poi riscaldiamo a 1000 8C, si puoÁ osservare che, in seguito a reazione, si forma
ammoniaca gassosa. Pertanto scriviamo: N2(g) ‡ 3 H2(g) ! 2 NH3(g) .
20
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
..............................................................................................................
2. Legge dell'equilibrio chimico
..............................................................................................................................................................................................................
2
Se peroÁ, nelle stesse condizioni (1000 8C), poniamo nel recipiente una qualsiasi quantitaÁ
di ammoniaca, si puoÁ osservare che essa, in seguito a reazione, si decompone in idrogeno
e azoto gassosi. Pertanto scriviamo:
2 NH3(g) ! N2(g) ‡ 3 H2(g)
Avendo allora constatato sperimentalmente che la reazione eÁ reversibile, possiamo evidenziare questo fatto mediante un'unica equazione, separando i reagenti dai prodotti con
una doppia freccia:
N2(g) ‡ 3 H2(g) ! 2 NH3(g)
stabilendo fin d'ora di indicare con il nome di reazione diretta quella che procede verso
destra, e con il nome di reazione inversa quella che procede verso sinistra.
PoicheÂ, al limite, quasi tutte le reazioni chimiche si comportano in modo analogo a
quello ora illustrato per l'idrogeno e l'azoto, possiamo affermare che per ognuna di esse
esiste sia la reazione diretta che quella inversa e cioeÁ che le reazioni chimiche sono al
limite tutte reversibili.
LEGGE DELL'EQUILIBRIO CHIMICO
Supponiamo di fare avvenire la seguente reazione:
aA‡bB!c C‡d D
(2:1)
introducendo in un recipiente le sostanze A e B: eÁ chiaro che la velocitaÁ con cui A e B
reagiscono (velocitaÁ della reazione diretta vd) che inizialmente eÁ massima, con il passare
del tempo diminuisce perche man mano si formano i prodotti C e D a spese dei reagenti,
la cui concentrazione diminuisce; allo stesso tempo, la velocitaÁ della reazione inversa vi,
che inizialmente eÁ uguale a zero dato che nel recipiente non sono ancora presenti le
sostanze C e D, con il passare del tempo aumenta, perche man mano aumenta la loro
concentrazione. Evidentemente, dopo un dato tempo dall'inizio della reazione, le due
velocitaÁ, quella vd decrescente e vi crescente, diventeranno uguali: vd ˆ vi . A questo
punto la reazione eÁ pervenuta all'equilibrio. EÁ bene tenere a mente che l'equilibrio
chimico non deve essere considerato come un equilibrio statico, ma come un equilibrio
dinamico, in quanto, sebbene in questa condizione non si verifichi alcuna apprezzabile
variazione della concentrazione dei reagenti e dei prodotti, tuttavia le due reazioni,
diretta e inversa, si verificano sempre; solo che, essendo uguali le loro velocitaÁ, da
questo punto in poi le quantitaÁ di reagenti e di prodotti non subiscono piuÁ alcuna
variazione.
In base ai risultati sperimentali, possiamo affermare che, all'equilibrio, per una qualsiasi reazione come la (2.1), si verifica la seguente legge:
Keq ˆ
[C]c [D]d
[A]a [B]b
(2:2)
L'equazione (2.2) sintetizza la legge dell'equilibrio chimico, nota con il nome di legge
dell'azione di massa o legge di Guldberg e Waage, in onore dei due chimici norvegesi
che contribuirono in modo determinante alla sua formulazione.1
1
Cato Guldberg (1836-1902) e Peter Waage (1833-1900).
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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2. Equilibri in fase gassosa
Questa legge, che eÁ una delle piuÁ importanti leggi della chimica, stabilisce che:
Quando una reazione eÁ pervenuta all'equilibrio, il rapporto fra il prodotto delle
concentrazioni delle sostanze finali e il prodotto delle concentrazioni delle sostanze
iniziali, con ciascuna concentrazione elevata a un esponente uguale al rispettivo
coefficiente stechiometrico della reazione bilanciata, eÁ uguale a una costante (costante
di equilibrio) il cui valore dipende solo dalla temperatura.
Abbiamo giaÁ messo in evidenza il legame che esiste tra la cinetica del processo chimico e lo
stato di equilibrio: tale relazione si puoÁ esprimere in modo semplice e diretto per quei casi
elementari in cui l'equazione stechiometrica coincide con il meccanismo con cui si svolge
realmente il processo. Una volta accertato questo, allora l'equazione: A ‡ B ! C ‡ D
indica che il processo avviene mediante un solo semplice urto tra una molecola A e una
molecola B, per cui la velocitaÁ di reazione eÁ direttamente proporzionale alla concentrazione
di ciascun reagente; se lo stesso vale per la reazione inversa, potremo scrivere:
vd ˆ kd [A] [B]
vi ˆ ki [C] [D]
in cui:
vd ˆ velocita della reazione diretta;
vi ˆ velocita della reazione inversa;
kd , ki ˆ costanti specifiche di velocitaÁ rispettivamente della reazione diretta e della
reazione inversa.
All'equilibrio, poiche dev'essere vd ˆ vi , avremo:
kd [A] [B] ˆ ki [C] [D]
da cui:
kd [C] [D]
ˆ
ki
[A] [B]
e poiche il rapporto tra le due costanti eÁ anch'esso costante, avremo infine:
Kˆ
[C] [D]
[A] [B]
che ha la stessa forma della costante di equilibrio enunciata prima. Nella maggior parte
dei casi, peroÁ, l'equazione stechiometrica (come per esempio l'equazione 2.1) non
rappresenta l'effettivo meccanismo con cui avviene la reazione: se cosõÁ fosse, dovremmo
dedurre che molte reazioni avvengono tramite urti contemporanei di molte molecole, il
che avrebbe una bassissima probabilitaÁ di verificarsi. Per esempio, la reazione in fase
gassosa: 4 NH3 ‡ 5 O2 ! 4 NO ‡ 6 H2 O, dovrebbe svolgersi tramite un urto contemporaneo di ben nove molecole. In realtaÁ, la maggior parte delle reazioni si compie
attraverso complessi meccanismi, che consistono in una successione di stadi elementari
(non sempre noti), per cui la legge cinetica del processo globale (ovvero l'esatta legge
matematica che lega la velocitaÁ di reazione con le concentrazioni dei reagenti), non eÁ
deducibile teoricamente, ma solo da misure sperimentali. Di conseguenza, anche la
relazione tra costanti di velocitaÁ e costante di equilibrio non eÁ piuÁ valida nella forma
immediata che abbiamo ricavato per una reazione elementare: l'esistenza di un rapporto
costante tra le concentrazioni di equilibrio (come eÁ espresso dalla costante di equilibrio),
per una qualsiasi reazione, viene dimostrata in modo diverso, come vedremo piuÁ avanti.
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3. Considerazioni sulla legge dell'equilibrio chimico
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3
CONSIDERAZIONI SULLA LEGGE DELL'EQUILIBRIO CHIMICO
Queste considerazioni possono essere riassunte nei seguenti punti:
1. La legge dell'equilibrio chimico eÁ applicabile alle reazioni in fase gassosa, alle reazioni
che avvengono in soluzione e anche nel caso in cui all'equilibrio siano presenti sostanze distribuite in piuÁ di una fase (equilibri eterogenei).
2. Le concentrazioni delle sostanze che compaiono nella formulazione matematica della
costante di equilibrio sono ovviamente quelle di equilibrio e non quelle relative all'inizio della reazione:
[C]c [D]d
Keq ˆ
[A]a [B]b
3. Per convenzione, al numeratore dell'equazione (2.2) si pongono le concentrazioni dei
prodotti e al denominatore quelle dei reagenti, e pertanto piuÁ grande eÁ il valore numerico
della Keq di una reazione, maggiore eÁ all'equilibrio la quantitaÁ dei prodotti ottenuti
mentre quella dei reagenti eÁ molto bassa. Per esempio, a 25 8C, la costante di equilibrio
della reazione: CH4(g) ‡ 2 O2(g) ! CO2(g) ‡ 2 H2 O(g) espressa dalla relazione:
Keq ˆ
[CO2 ][H2 O]2
[CH4 ][O2 ]2
eÁ uguale a 2,4 10140 , e cioÁ indica che, a equilibrio raggiunto, una piccolissima
quantitaÁ di metano e di ossigeno rimane inalterata nel recipiente di reazione.
A questo punto possiamo considerare che, sebbene al limite, tutte le reazioni
all'equilibrio siano reversibili, quelle caratterizzate da un elevato valore della Keq sono
da considerarsi praticamente complete. Pertanto, in questi casi, le reazioni possono
anche essere dichiarate irreversibili, dato che la velocitaÁ della reazione inversa eÁ
praticamente uguale a zero.
4. Per una data reazione, il valore numerico della costante di equilibrio, a una data
temperatura, dipende dalle unitaÁ di misura scelte per esprimere le concentrazioni delle
sostanze coinvolte nella reazione.
Pertanto, se utilizziamo le concentrazioni (espresse in moli/litro, mol/L), la Keq viene
simboleggiata con Kc ; se invece ci riferiamo alle pressioni parziali (espresse in
atmosfere, atm), la Keq viene simboleggiata con Kp ; se, infine, impieghiamo le frazioni
molari, la Keq viene simboleggiata con Kx .
Per esempio, per la reazione: 2 SO2(g) ‡ O2(g) ! 2 SO3(g) dobbiamo scrivere:
Kc ˆ
[SO3 ]2
[SO2 ]2 [O2 ]
oppure:
Kp ˆ
o, con le frazioni molari:
Kx ˆ
p2SO3
p2SO2 pO2
x2SO3
x2SO2 xO2
5. Per una data reazione, il valore numerico della costante di equilibrio a una data
temperatura dipende anche dalla forma con la quale l'equazione eÁ stata scritta. CosõÁ,
per esempio, per la reazione: 2 CO(g) ‡ O2(g) ! 2 CO2(g) possiamo scrivere:
Kp ˆ
p2CO2
p2CO pO2
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2. Equilibri in fase gassosa
Se peroÁ moltiplichiamo per 2 i coefficienti stechiometrici della reazione scritta sopra,
otteniamo la reazione equivalente:
4 CO(g) ‡ 2 O2(g) ! 4 CO2(g)
e quindi scriviamo:
Kp0 ˆ
p4CO2
p4CO p2O2
e confrontando queste due costanti, risulta:
Kp0 ˆ Kp2
Se invece moltiplichiamo per 1=2 i coefficienti stechiometrici della reazione originale,
ne otterremo un'altra, anch'essa equivalente:
CO(g) ‡
1
O2(g) ! CO2(g)
2
e quindi scriveremo:
Kp00 ˆ
pCO2
1=2
pCO pO2
e dal confronto di questa costante con quella di origine, risulta:
Kp00 ˆ
q
Kp ˆ Kp1=2
Pertanto possiamo affermare che, moltiplicando per un numero qualsiasi m tutti i
coefficienti stechiometrici di una reazione bilanciata cui compete un ben determinato
valore numerico della Keq, si ottiene una reazione equivalente alla cui costante di
equilibrio compete il valore numerico ottenuto elevando al numero m la costante di
equilibrio originale.
Allo scopo di evitare confusione, da ora in avanti ci riferiremo sempre alla costante di
equilibrio delle reazioni bilanciate con il coefficiente minimo intero possibile per tutte
le specie chimiche. Per esempio, fra tutte le reazioni equivalenti precedentemente
considerate, ci riferiremo sempre alla seguente:
2 CO(g) ‡ O2(g) ! 2 CO2(g)
6. Qualunque sia la quantitaÁ di sostanze messe a reagire, le concentrazioni di equilibrio
dei reagenti e dei prodotti devono sempre soddisfare il valore numerico della costante
di equilibrio a quella temperatura. CosõÁ, per la reazione:
CO(g) ‡ H2 O(g) ! CO2(g) ‡ H2(g)
eÁ risultato che, a 1000 K, Kp eÁ uguale a 1,44. Pertanto, se in un recipiente che si trova
alla temperatura di 1000 K, poniamo quantitaÁ qualsiasi di CO e di H2O, oppure di
CO2 e di H2 o anche quantitaÁ qualsiasi di tutte queste sostanze, quando la reazione eÁ
pervenuta all'equilibrio, le loro concentrazioni devono assumere valori tali da soddisfare la condizione:
Kp ˆ 1,44 a 1000 K
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3. Considerazioni sulla legge dell'equilibrio chimico
7. Per le costanti di equilibrio relative a sistemi ideali, possono essere specificate delle
unitaÁ di misura, e precisamente (come si puoÁ facilmente verificare):
unitaÁ di misura per Kp : (atm)Dn
unitaÁ di misura per Kc : (mol=L)Dn
(Kx eÁ evidentemente adimensionale, Dn eÁ la somma algebrica dei coefficienti della
reazione).
8. La forma rigorosa della costante di equilibrio eÁ espressa in funzione di una grandezza
adimensionale, detta attivitaÁ a:
acC adD
ˆ Keq
aaA abB
(a T costante)
(2:3)
(costante di equilibrio termodinamica, cosõÁ detta perche viene ricavata in base ai
principi della termodinamica).
L'attivitaÁ per un sistema ideale si definisce come il rapporto tra la pressione del gas e la
sua attivitaÁ nello stato standard a0 , oppure, per sistemi in soluzione, come il rapporto tra
la concentrazione molare del soluto e la sua attivitaÁ nello stato standard a0 .
aˆ
p
(sistemi gassosi ideali)
a0
aˆ
C
(soluzioni ideali)
a0
Nello stato standard, l'attivitaÁ eÁ unitaria, cioeÁ: a0 ˆ 1. Un gas ideale si trova nel suo
standard (a0 ˆ 1) se la sua pressione eÁ unitaria (1 atm), e un soluto, in una soluzione
ideale, si trova nel suo stato standard (a0 ˆ 1) se la sua concentrazione eÁ unitaria (1
mol L 1 ). Di conseguenza, per sistemi ideali, l'attivitaÁ coincide numericamente con
la pressione di un gas o con la concentrazione molare di un soluto:
p
C
ˆ p (numericamente)
a ˆ ˆ C (numericamente)
1
1
I liquidi puri e i solidi puri alla pressione esterna di 1 atm sono considerati nel loro stato
standard, per cui la loro attivitaÁ eÁ uguale a 1.
Da quanto detto sopra, risulta che, nella (2.3), si possono semplicemente sostituire
alle attivitaÁ le pressioni parziali dei gas o le concentrazioni molari o le frazioni molari,
per cui le costanti di equilibrio assumono la forma giaÁ vista, per esempio:
aˆ
Keq ˆ Kp ˆ
pcC pdD
paA pbB
I sistemi reali si differenziano dai sistemi ideali in quanto tra le particelle di un sistema
reale (si tratti di sostanze gassose o di sostanze in soluzione), esistono delle interazioni
che ne limitano la possibilitaÁ di partecipare a un fenomeno chimico-fisico: in un gas
reale, infatti, esistono delle forze di attrazione tra le molecole che le rendono meno libere
rispetto alle molecole di un gas ideale; e cosõÁ, in una soluzione elettrolitica, esistono delle
forze attrattive tra gli ioni di carica opposta. Come conseguenza, la concentrazione attiva
delle sostanze che partecipano a un equilibrio eÁ inferiore alla loro concentrazione reale.
Per tener conto di questo, per i sistemi reali la pressione o la concentrazione vanno
corrette per un coefficiente numerico f (coefficiente di attivitaÁ), per cui l'espressione
dell'attivitaÁ assume la forma:
aˆ
f p
(sistemi gassosi)
a0
aˆ
f C
(soluzioni)
a0
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2. Equilibri in fase gassosa
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4
Per i sistemi reali, a0 si riferisce a un particolare stato (stato standard del gas o del
soluto in una soluzione) al quale si attribuisce sempre attivitaÁ unitaria (a0 ˆ 1).
Avremo quindi:
a ˆ f p (sistemi gassosi)
a ˆ f C (sistemi in soluzione)
Il coefficiente di attivitaÁ eÁ un numero compreso tra zero e uno: 0 < f < 1 quindi
l'attivitaÁ eÁ sempre inferiore alla pressione o alla concentrazione, per i motivi visti;
quanto piuÁ alta eÁ la pressione di un gas o piuÁ concentrata eÁ una soluzione, tanto minore
eÁ il valore di f (e quindi piuÁ bassa l'attivitaÁ rispetto alla pressione o alla concentrazione). Considerando per esempio un equilibrio in soluzione, la costante di
equilibrio dovraÁ scriversi:
Keq ˆ
fC [C] f D [D] fC f D [C][D] fC f D
Kc
ˆ
ˆ
fA f B [A][B]
fA f B
fA [A] f B [B]
In questo caso, la Kc non eÁ una vera costante di equilibrio, poiche varia al variare delle
concentrazioni (come la Kp varia al variare della pressione).
A basse pressioni o in soluzioni diluite, invece, f tende a uno, in quanto le forze di
interazione tra le molecole gassose o tra gli ioni in soluzione diventano trascurabili, e
quindi il comportamento del sistema reale si avvicina a quello di un sistema ideale.
Avremo quindi:
Keq Kp (sistemi gassosi a bassa pressione)
Keq Kc (soluzioni diluite)
RELAZIONI TRA Kp, Kc E Kx
Consideriamo una reazione in fase gassosa del tipo: a A ‡ b B ! c C ‡ d D, fatta
avvenire in un recipiente chiuso il cui volume sia V, alla temperatura T costante.
Assumendo che le sostanze partecipanti alla reazione si comportino come gas ideali,
applicando a ciascuna di esse l'equazione di stato, otteniamo, indicando con pA, pB, pC,
pD le pressioni parziali assunte all'equilibrio dalle sostanze A, B, C, D:
pA V ˆ nA RT
da cui:
pA ˆ
Ma:
nA RT
V
nA
ˆ [A]
V
pB V ˆ nB RT
pB ˆ
nB RT
V
nB
ˆ [B]
V
pC V ˆ nC RT
pC ˆ
nC RT
V
nC
ˆ [C]
V
pD V ˆ nD RT
pD ˆ
nD RT
V
nD
ˆ [D]
V
quindi le precedenti espressioni possono essere cosõÁ scritte:
pA ˆ [A] RT
pB ˆ [B] RT
pC ˆ [C] RT
Se adesso scriviamo la costante di equilibrio Kp della reazione:
Kp ˆ
pcC pdD
paA pbB
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pD ˆ [D] RT
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5. Equilibri eterogenei
..................................
5
possiamo sostituire al posto delle pressioni parziali le relazioni trovate:
([C] RT)c ([D] RT)d
Kp ˆ
([A] RT)a ([B] RT)b
e separando i fattori:
Kp ˆ
[C]c [D]d
[A]a [B]b
(RT)c (RT)d
(RT)a (RT)b
PoicheÂ, per la reazione considerata:
[C]c [D]d
[A]a [B]b
ˆ Kc
sostituendo e semplificando si ha:
Kp ˆ Kc (RT)(c ‡ d)
e ponendo (c ‡ d)
(a ‡ b)
(a ‡ b) ˆ Dn si ha:
Kp ˆ Kc (RT)Dn
(2:4)
La (2.4) ci fornisce la relazione tra Kp e Kc : da questa risulta matematicamente che Kp
dipende solo dalla temperatura, in quanto Kc eÁ una costante a temperatura costante e cosõÁ
pure sono costanti R e, per la reazione data, Dn. Con semplici passaggi si dimostra inoltre che:
Kp ˆ Kx P Dn
(2:5)
nella quale Dn assume il solito significato: Dn ˆ (c ‡ d) (a ‡ b), mentre P eÁ la pressione totale della miscela gassosa in equilibrio.
Da quest'ultima relazione risulta che, dipendendo la Kp solo dalla temperatura,
mantenendo quest'ultima costante e variando dall'esterno la pressione totale P che grava
sulla miscela gassosa in equilibrio, deve necessariamente variare la costante Kx affinche il
valore numerico che esprime la Kp rimanga inalterato. Pertanto, mentre Kc e Kp dipendono solo dalla temperatura, Kx dipende dalla temperatura e dalla pressione.
Prendendo di nuovo in esame le due relazioni:
Kp ˆ Kc (RT)Dn
e Kp ˆ Kx PDn
possiamo anche affermare che per quelle reazioni in cui il Dn ˆ 0, come per esempio le
seguenti:
H2(g) ‡ I2(g) ! 2 HI(g)
CO(g) ‡ H2 O(g) ! CO2(g) ‡ H2(g)
dato che qualunque potenza elevata all'esponente zero eÁ uguale a uno, eÁ verificata la
condizione particolare:
Kp ˆ Kc ˆ Kx
EQUILIBRI ETEROGENEI
Se le sostanze partecipanti all'equilibrio di una reazione sono tutte completamente
miscibili fra loro, cioeÁ occupano tutte un'unica fase gassosa (una miscela o miscuglio di
gas), oppure liquida (una soluzione liquida), l'equilibrio viene detto omogeneo; se invece
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2. Equilibri in fase gassosa
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6
le sostanze partecipanti all'equilibrio sono distribuite in piuÁ di una fase (per esempio una
fase solida e una fase gassosa, oppure una fase liquida e una fase gassosa o tutte e tre le fasi
insieme contemporaneamente), l'equilibrio chimico viene detto eterogeneo.
Se riscaldiamo in un recipiente chiuso del carbonato di calcio (solido), questo si
decompone parzialmente in ossido di calcio (solido) e anidride carbonica gassosa,
secondo la reazione reversibile: CaCO3(s) ! CaO(s) ‡ CO2(g) . Un simile equilibrio eÁ
eterogeneo, in quanto all'equilibrio sono presenti tre fasi distinte: due fasi solide (CaCO3 e
CaO) e una fase gassosa (CO2).
Scriviamo la costante di equilibrio per tale reazione:
Keq ˆ
aCaO aCO2
aCaCO3
Tenendo presente che l'attivitaÁ di un solido puro eÁ uguale a uno, la precedente espressione diventa: Keq ˆ aCO2 e, per un sistema ideale (in cui l'attivitaÁ di un gas si identifica
numericamente con la sua pressione): Kp ˆ pCO2 . Nel caso che all'equilibrio concorrano
sostanze liquide pure, le considerazioni sono del tutto analoghe.
Per esempio, per la reazione a 25 8C: CH4(g) ‡ 4 Cl2(g) ! CCl4(l) ‡ 4 HCl(g) all'equilibrio scriviamo:
aCCl4 a4HCl
Keq ˆ
aCH4 a4Cl2
ma siccome aCCl4 (l) ˆ 1, avremo infine:
Keq ˆ
a4HCl
aCH4 a4Cl2
Kp ˆ
p4HCl
pCH4 p4Cl2
e per un sistema ideale:
Si tenga ben presente che negli equilibri eterogenei il calcolo del Dn va effettuato solo
sulla base dei coefficienti stechiometrici delle sostanze gassose.
FATTORI CHE INFLUENZANO L'EQUILIBRIO CHIMICO
Per fattori che influenzano l'equilibrio chimico si devono intendere tutti quei fattori esterni la
cui variazione, in un modo o in un altro, puoÁ alterare le concentrazioni (pressioni parziali,
frazioni molari) di equilibrio delle sostanze partecipanti a una reazione. Pertanto, l'effetto di
questi fattori si traduce sempre in un nuovo stato di equilibrio del sistema chimico
caratterizzato da concentrazioni dei reagenti e dei prodotti, diverse da quelle precedenti.
Poiche le concentrazioni di equilibrio dei reagenti (per esempio, A ‡ B) e dei prodotti
(per esempio, C ‡ D) devono essere tali da soddisfare sempre la condizione: vd ˆ vi eÁ
chiaro che una variazione della loro concentrazione di equilibrio eÁ possibile solo se questi
fattori esterni influenzano diversamente la velocitaÁ della reazione diretta e di quella inversa.
Dall'esperienza eÁ risultato che i fattori esterni che possono modificare lo stato di
equilibrio di un sistema chimico sono:
. la variazione, imposta dall'esterno, della concentrazione anche di una sola delle so-
stanze partecipanti all'equilibrio;
. la variazione della temperatura del sistema;
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7. Effetto provocato dalla variazione della concentrazione
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7
. la variazione della pressione del sistema;
. l'aggiunta di gas inerte.2
Da un punto di vista prettamente qualitativo, eÁ possibile prevedere in quale direzione
questi fattori fanno spostare l'equilibrio, applicando al sistema chimico un principio
generale noto con il nome di principio di Le ChaÃtelier3 o principio dell'equilibrio mobile.
Questo principio stabilisce che:
Se si altera uno dei fattori dell'equilibrio di un sistema, l'equilibrio si sposta in modo da
ridurre il piuÁ possibile la variazione imposta dall'esterno.
Guidati da questo principio, esaminiamo ora in dettaglio gli effetti provocati dai quattro
fattori sopra menzionati.
EFFETTO PROVOCATO DALLA VARIAZIONE
DELLA CONCENTRAZIONE
Prendiamo in esame la seguente reazione:
N2(g) ‡ 3 H2(g) ! 2 NH3(g)
e supponiamo che il sistema abbia raggiunto l'equilibrio a una data temperatura. Se
adesso aggiungiamo nel recipiente di reazione una qualsiasi quantitaÁ di idrogeno, oppure
di azoto (o di entrambi i gas contemporaneamente), l'equilibrio viene alterato: per ridurre
al minimo l'effetto provocato dall'aggiunta di reagenti, questi devono trasformarsi nel
prodotto (NH3), quindi l'equilibrio si sposta verso destra.
Una situazione del tutto analoga si verifica qualora venga sottratta dal recipiente dell'ammoniaca: per contrastare tale variazione, si formeraÁ altra ammoniaca, a spese dell'idrogeno e
dell'azoto e anche in questo caso l'equilibrio si sposta verso destra. Inversamente, se ad
equilibrio raggiunto (e sempre a temperatura costante), aggiungiamo dall'esterno nel recipiente di reazione una qualunque quantitaÁ di ammoniaca, l'equilibrio viene alterato: per
ridurre al minimo l'effetto provocato da questa aggiunta, l'equilibrio si sposta verso sinistra,
cioeÁ verso la formazione di azoto e di idrogeno a spese dell'ammoniaca.
Analoga situazione si presenta qualora, a equilibrio raggiunto, venga sottratto dal
recipiente dell'azoto o dell'idrogeno (o ambedue i gas contemporaneamente): anche in
questo caso, l'equilibrio si sposta verso sinistra, cioeÁ verso la formazione di idrogeno e di
azoto a spese dell'ammoniaca.
Vediamo adesso come si spiegano questi fenomeni in base alla legge di azione di
massa. Supponiamo, per esempio, di aumentare le concentrazioni dei reagenti (idrogeno
o azoto o entrambi): questo determina un aumento del denominatore nell'espressione
della costante di equilibrio:
[NH3 ]2
Kc ˆ
[N2 ][H2 ]3
Poiche tale rapporto deve restare costante (a temperatura costante), se ne deduce che
dovraÁ pure aumentare il numeratore, cioeÁ idrogeno e azoto devono trasformarsi in
ammoniaca, fino a quando tale rapporto non coincide nuovamente con il valore della Kc:
a questo punto, il sistema ha raggiunto un nuovo stato di equilibrio.
2
In questi fattori non vengono ovviamente compresi i catalizzatori, in quanto l'aggiunta di un catalizzatore a un
sistema chimico giaÁ in equilibrio aumenta nella stessa misura la velocitaÁ sia della reazione diretta sia di quella inversa, e
quindi rimane sempre vd ˆ vi .
3
Henry Louis Le ChaÃtelier (1850-1936), chimico francese.
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2. Equilibri in fase gassosa
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8
Considerazioni del tutto analoghe si possono fare per le possibili alternative giaÁ esaminate
(sottrazione dei reagenti, aggiunta o sottrazione dei prodotti), per le quali deve essere
sempre verificata la legge di azione di massa, cioeÁ la costanza del rapporto espresso dalla
Kc o da altra costante di equilibrio.
EFFETTO PROVOCATO DALLA VARIAZIONE
DELLA TEMPERATURA
Prima di illustrare questo effetto, eÁ indispensabile far notare che quasi tutte le reazioni chimiche
avvengono con sviluppo o con assorbimento di calore nei confronti dell'ambiente esterno.
Le reazioni chimiche sono processi nei quali si verifica la scissione dei legami chimici
esistenti fra gli atomi che formano le sostanze reagenti, con la costituzione di nuovi legami
chimici fra gli stessi atomi di partenza, arrangiati peroÁ in modo diverso, a formare le
molecole delle sostanze finali, le quali vengono dette prodotti della reazione. Poiche ad
ogni legame corrisponde una ben determinata energia,4 il risultato del processo saraÁ
sempre un cambiamento nell'energia complessiva del sistema:
. se l'energia di legame diminuisce, l'eccesso di energia viene ceduto all'esterno
(reazioni esotermiche);
. se l'energia di legame aumenta, l'energia mancante viene assorbita dall'esterno
(reazioni endotermiche).
Dato che al limite le reazioni sono tutte reversibili, eÁ ovvio che se la reazione diretta eÁ
esotermica, quella inversa deve necessariamente essere endotermica, o viceversa; data,
per esempio, una generica reazione esotermica:
A ‡ B ! C ‡ D (‡Q)
in cui ‡Q indica una certa quantitaÁ di calore ceduta all'ambiente esterno, la reazione
inversa saraÁ di conseguenza endotermica:
C ‡ D ! A ‡ B ( Q)
Questo si potrebbe anche sintetizzare in un'unica equazione:
A ‡ B ( Q) ! C ‡ D (‡Q)
Consideriamo ora una reazione (esotermica o endotermica) pervenuta all'equilibrio e
supponiamo di aumentare la temperatura, fornendo calore al recipiente di reazione. Per
ridurre al minimo l'effetto prodotto, l'equilibrio tende a spostarsi nel verso in cui il calore viene
assorbito: cioeÁ verso destra se la reazione eÁ endotermica, verso sinistra se la reazione eÁ
esotermica. Ma poiche uno spostamento verso destra della reazione significa un aumento della
concentrazione dei prodotti, e quindi un aumento della costante di equilibrio:
Kc ˆ
[C]c [D]d
[A]a [B]b
(e viceversa uno spostamento verso sinistra significa una diminuzione della costante),
possiamo concludere che le reazioni endotermiche sono favorite (Kc aumenta) da un
aumento di temperatura; le reazioni esotermiche sono sfavorite (Kc diminuisce) da un
aumento di temperatura.
4
Si definisce energia di legame l'energia che viene liberata nella formazione di un legame fra due elementi che si
trovano allo stato di gas monoatomici (o, inversamente, l'energia necessaria per scindere un legame e portare gli elementi
allo stato di gas monoatomici).
30
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 2.1
........................................................................................................................................
9. Effetto provocato dalla variazione della pressione
Kc
Costante di equilibrio
in funzione della
temperatura.
rm
ica
do
te
rm
i
te
so
ee
ca
n
zio
....................................................................................................................................................................................
rea
9
–Q
ne
zio
rea
en
+Q
T(K)
Se al contrario abbassiamo la temperatura, cioeÁ sottraiamo calore dal recipiente in cui le
sostanze si trovano all'equilibrio, questo, per contrastare tale effetto, si sposteraÁ nel verso in cui
viene sviluppato calore e i risultati saranno opposti ai precedenti, cioeÁ una reazione endotermica eÁ sfavorita da una diminuzione di temperatura, una reazione esotermica ne eÁ favorita.
Questi concetti sono riassunti nel grafico di figura 2.1 in cui eÁ rappresentato l'andamento
della costante di equilibrio per una reazione esotermica e per una endotermica al variare
della temperatura.
EFFETTO PROVOCATO DALLA VARIAZIONE DELLA PRESSIONE
Prima di illustrare questo effetto, eÁ necessario premettere che esso eÁ irrilevante se il
sistema chimico in equilibrio eÁ formato solo da sostanze allo stato condensato (solidi o
liquidi), dato che esse sono praticamente incomprimibili. Se invece il sistema eÁ formato da
sostanze allo stato aeriforme, la variazione della pressione esterna puoÁ influenzare anche
notevolmente l'equilibrio chimico.
Suddividiamo innanzitutto le reazioni in fase gassosa in tre gruppi, in base ai coefficienti di reazione:
18 gruppo: reazioni nelle quali il numero totale di moli dei prodotti aeriformi eÁ maggiore
del numero totale di moli dei reagenti aeriformi (Dn > 0) e che quindi, per la legge di
Avogadro, avvengono con aumento di volume. Per esempio:
2 CH4(g) ‡ O2(g) ! 2 CO(g) ‡ 4 H2(g) Dn ˆ 6 3 ˆ 3
28 gruppo: reazioni nelle quali Dn < 0, e che quindi avvengono con diminuzione di
volume. Per esempio:
N2(g) ‡ 3 H2(g) ! 2 NH3(g) Dn ˆ 2 4 ˆ 2
38 gruppo: reazioni nelle quali Dn ˆ 0, e che quindi avvengono senza variazione di
volume. Per esempio:
H2(g) ‡ I2(g) ! 2 HI(g) Dn ˆ 2 2 ˆ 0
Se si aumenta la pressione esterna che agisce su un sistema, l'equilibrio (affinche sia
ridotto al minimo l'effetto prodotto da tale aumento di pressione) si sposta verso la
formazione di sostanze che occupano minor volume: percioÁ, per le reazioni del primo
gruppo, l'equilibrio viene spostato verso sinistra; per le reazioni del secondo gruppo,
l'equilibrio si sposta verso destra; per le reazioni del terzo gruppo, che avvengono senza
variazioni di volume, l'equilibrio non subisce alcuno spostamento.
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2. Equilibri in fase gassosa
..........................................................................
10
Esaminiamo adesso questi stessi fenomeni in base alla legge di azione di massa, tenendo
presente la relazione (2.5): Kp ˆ Kx P Dn . Consideriamo, per esempio, una generica reazione
che avvenga con diminuzione del numero di moli gassose (Dn < 0): A(g) ‡ B(g) ! C(g) . In
questo caso Dn ˆ 1, quindi la (2.5) diventa: Kp ˆ Kx P 1 da cui:
Kx
P
Se allora si aumenta la pressione (a temperatura costante), affinche rimanga costante Kp ,
deve aumentare anche Kx , ma un aumento di Kx significa un aumento del numeratore,
cioeÁ del prodotto (C) nell'espressione della costante:
xC
Kx ˆ
xA xB
Kp ˆ
che indica che l'equilibrio si eÁ spostato verso destra.
Con analogo procedimento, si potrebbero confermare matematicamente i risultati giaÁ
ottenuti applicando il principio di Le ChaÃtelier, anche per le reazioni per le quali Dn > 0,
oppure Dnˆ0. Ovviamente, a conclusioni diametralmente opposte si perviene se ad
equilibrio raggiunto la pressione esterna che grava sul sistema invece di essere aumentata
viene diminuita. Infatti, considerando la reazione:
2 CH4(g) ‡ O2(g) ! 2 CO(g) ‡ 4 H2(g) Dn > 0
dopo che la stessa eÁ pervenuta all'equilibrio, una diminuzione della pressione che grava
sul recipiente di reazione provoca un aumento della concentrazione di CO e H2 a spese di
CH4 e O2, in quanto, per ridurre l'effetto provocato dalla diminuzione della pressione, il
sistema si sposta verso la formazione delle sostanze che occupano maggior volume (verso
destra). Nelle reazioni che avvengono senza variazione di volume, l'aumento o la diminuzione della pressione non provoca alcuno spostamento dell'equilibrio, perche l'effetto
prodotto influenza allo stesso modo sia i reagenti sia i prodotti.
EÁ comunque necessario tenere sempre presente che il nuovo equilibrio eÁ caratterizzato
dallo stesso valore numerico di Kc o di Kp, dato che la temperatura non eÁ stata variata; invece il
valore di Kx eÁ diverso, poiche questo dipende sia dalla temperatura che dalla pressione. Se
all'equilibrio di un sistema chimico concorrono sostanze gassose e sostanze solide oppure
liquide, l'effetto della pressione influenza solo le sostanze gassose e pertanto il calcolo del
valore di Dn viene effettuato tenendo conto solo dei coefficienti stechiometrici di queste ultime.
Per esempio, nella reazione:
2 NaHCO3(s) ! Na2CO3(s) ‡ CO2(g) ‡ H2 O(g) Dn ˆ 2 (perche consideriamo soltanto
CO2(g) e H2 O(g) )
cosõÁ pure nella reazione:
2 C(s) ‡ O2(g) ! 2 CO(g) Dn ˆ 1 (perche consideriamo soltanto CO(g) e O2(g) )
EFFETTO PROVOCATO DALL'AGGIUNTA DI GAS INERTE
L'aggiunta a temperatura costante di un gas inerte a un sistema reagente in fase gassosa,
anche se non modifica ovviamente la costante di equilibrio (trattandosi appunto di un
componente inerte), puoÁ modificare la posizione dell'equilibrio.
Distinguiamo due casi, a seconda che il gas inerte venga aggiunto a pressione costante
oppure a volume costante.
. Aggiunta di gas inerte a pressione costante.
L'aggiunta di un gas inerte a pressione costante fa evidentemente aumentare il volume del
sistema reagente; l'effetto eÁ analogo a quello che si avrebbe se si abbassasse semplicemente la pressione esercitata sul sistema, facendolo espandere in assenza del gas inerte. In
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QUESITI
base a quanto esposto nel paragrafo precedente, se la reazione avviene con aumento del
numero di moli, l'equilibrio si sposta verso destra, se avviene con diminuzione del
numero di moli, l'equilibrio si sposta verso sinistra, e se la reazione avviene invece senza
variazione del numero di moli, l'aggiunta del gas inerte non produce alcun effetto.
. Aggiunta di gas inerte a volume costante.
A volume costante, l'aggiunta di gas inerte non modifica mai l'equilibrio, come si puoÁ
facilmente dimostrare.
Data la generica reazione in fase gassosa:
aA ‡ bB ! cC ‡ d D
consideriamo la sua costante di equilibrio Kp:
Kp ˆ
pcC pdD
paA pbB
Tenendo conto della definizione di pressione parziale:
ni
pi ˆ xi P ˆ
P
n
(in cui P ed n sono rispettivamente la pressione totale e il numero di moli totali), e
sostituendo nell'espressione di Kp :
n c n
d
D
C
P P
ncC ndD P Dn
n
n
ˆ
Kp ˆ nA a nB b naA nbB n
P P
n
n
Se si aggiunge un gas inerte a volume costante, l'aumento del numero di moli n fa
Dn
P
rimane costante. Di
aumentare in proporzione anche P per cui il rapporto
n
conseguenza, resta costante anche il rapporto:
ncC ndD
naA nbB
L'equilibrio quindi non eÁ alterato per l'aggiunta di gas inerte.
......................................................................................
QUESITI
1. Come puoÁ essere dimostrato che le reazioni chimiche sono reversibili?
2. In che modo si puoÁ scoprire un falso equilibrio di
una reazione?
3. Definisci la velocitaÁ di una reazione e indica quali
fattori la influenzano.
4. Da quali fattori dipende la costante di velocitaÁ di
reazione?
5. Spiega perche l'equilibrio chimico eÁ di natura dinamica.
6. Perche i valori di Kc e Kp di una reazione dipendono solo dalla temperatura?
7. Scrivi la velocitaÁ della reazione A ‡ 2 B ! C e
spiega il significato della simboleggiatura utilizzata.
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
8. Un elevato valore numerico della costante di equilibrio di una reazione eÁ sinonimo di una elevata
quantitaÁ di reagenti all'equilibrio. EÁ esatta questa
affermazione? PercheÂ?
9. In quali casi una reazione puoÁ essere dichiarata
irreversibile? Qual eÁ il significato di irreversibilitaÁ
di una reazione?
10. Per una data reazione, alla stessa temperatura si
possono avere piuÁ valori numerici della costante di
equilibrio. PercheÂ?
11. In quale caso particolare per una reazione si verifica Kc ˆ Kp ˆ Kx ?
12. Spiega percheÂ, negli equilibri eterogenei, la formulazione matematica della Keq non tiene conto delle
sostanze solide o liquide, ma solo di quelle gassose.
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2. Equilibri in fase gassosa
13. Perche i catalizzatori non influenzano lo stato di
equilibrio di una reazione?
14. Sapendo che la reazione 2 SO2(g) ‡ O2(g) ! 2 SO3(g)
eÁ esotermica, suggerisci quattro modi per aumentare la concentrazione di SO3 all'equilibrio, in un
recipiente chiuso.
15. Facendo uso della formulazione matematica della
velocitaÁ di reazione diretta e di quella inversa, dimostra percheÂ, in seguito alla variazione di uno
qualsiasi dei fattori che regolano l'equilibrio chimico, si perviene a un nuovo equilibrio caratterizzato ovviamente da uguali valori di velocitaÁ
delle due reazioni diretta e inversa.
16. Per ciascuna delle seguenti reazioni in fase gassosa:
CO + H2O ! CO2 + H2 (‡Q, reazione esotermica)
2 CO2 ! 2 CO + O2 ( Q, reazione endotermica)
2 NH3 ! N2 + 3 H2 ( Q, reazione endotermica)
indica la direzione nella quale viene spostato l'equilibrio: a) aumentando la pressione sul recipiente di
reazione; b) aumentando la temperatura.
17. Considera la reazione ( Q, reazione endotermica):
2 N2(g) ‡ O2(g) ! 2 N2 O(g)
in equilibrio a temperatura costante e in un recipiente
munito di pistone mobile. Indica quale effetto (aumento, diminuzione, non variazione) provoca sull'equilibrio, ogni operazione elencata nei confronti
dei fattori indicati:
a) aggiunta di ossigeno sul numero di moli di N2 O;
b) aumento del volume del recipiente sul numero
di moli di O2 ;
c) aggiunta di azoto sul numero di moli di O2 ;
d) aggiunta di N2O sul numero di moli di O2 ;
e) aggiunta di N2O sul numero di moli di N2 ;
f ) diminuzione del volume del recipiente sul numero di moli di N2 O;
g) aumento della temperatura su Kp ;
h) aumento della pressione su Kc ;
i) aggiunta di un catalizzatore sul numero di moli
di N2 O;
j) diminuzione della temperatura sul numero di
moli di O2 .
18. Scrivi, per la reazione indicata nel quesito precedente, l'espressione delle costanti di equilibrio (Kc ,
Kp e Kx ). Se la reazione fosse stata scritta nella forma
4 N2(g) ‡ 2 O2(g) ! 4 N2 O(g) , quali sarebbero state
le espressioni delle tre costanti di equilibrio Kc, Kp e
Kx? Quale relazione intercorre tra i valori numerici
delle costanti di equilibrio per questa reazione e per
la reazione del quesito precedente?
19. Qual eÁ la differenza tra Kc , Kp e Kx ? Quali sono le
relazioni analitiche che correlano tra loro queste
grandezze in una reazione che avviene in fase
gassosa?
20. Un cambiamento di temperatura implica la variazione di quale delle tre costanti di equilibrio: Kc ,
Kp o Kx ? Un cambiamento di pressione implica la
variazione di quale delle tre costanti di equilibrio
sopra specificate?
21. La decomposizione di un composto AB negli elementi A e B eÁ un processo fortemente esotermico.
Durante la reazione il calore viene assorbito o liberato dal sistema chimico? Se all'equilibrio si
volessero aumentare i prodotti della reazione si
dovrebbe aumentare o diminuire la temperatura?
E se venisse aggiunto, all'equilibrio, un catalizzatore, in quale verso si sposterebbe l'equilibrio?
22. Se si vuole aumentare la velocitaÁ di una reazione, si
puoÁ aumentare la temperatura, anche se si deve
tener presente che un forte aumento di temperatura presenta per molte reazioni anche un aspetto
negativo. Quale?
23. Data la reazione in fase gassosa:
PCl5(g) ! Cl2…g† ‡ PCl3…g†
se si aumenta la pressione (a temperatura costante), qual eÁ l'effetto sull'equilibrio? Come variano
Kp , Kx e il grado di dissociazione?
24. Per una certa reazione, si hanno i seguenti dati per
le costanti di equilibrio:
T1 ˆ 300 K
Kp0 ˆ 3 10 5
T2 ˆ 600 K
Kp00 ˆ 1 10 2
Si tratta di una reazione esotermica o endotermica?
25. Che effetto ha una diminuzione di pressione (a
temperatura costante) sulle seguenti reazioni?
PCl5(g) ! PCl3(g) ‡ Cl2(g)
C2 H4(g) ‡ H2(g) ! C2 H6(g)
2 CO(g) ‡ O2(g) ! 2 CO2(g)
N2(g) ‡ O2(g) ! 2 NO(g)
Cu2 O(s) ‡ H2(g) ! 2 Cu(s) ‡ H2 O(g)
26. Che effetto ha l'aggiunta di argon (a pressione costante) sui seguenti equilibri?
N2(g) ‡ 3 H2(g) ! 2 NH3(g)
C(s) ‡ H2 O(g) ! CO(g) ‡ H2(g)
2 CH4(g) ! C2 H2(g) ‡ 3 H2(g)
2 HI(g) ! H2(g) ‡ I2(g)
Fe2 O3(s) ‡ 3 H2(g) ! 2 Fe(s) ‡ 3 H2 O(g)
27. Per la reazione esotermica in fase gassosa
CO(g) ‡ 2 H2(g) ! CH3 OH(g)
quale effetto avrebbe:
a) un aumento di temperatura;
b) un aumento di pressione (a temperatura costante);
c) l'aggiunta di un gas inerte.
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3
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1
Equilibri nelle soluzioni
acquose
LE SOLUZIONI ACQUOSE
Le soluzioni sono il risultato della dispersione omogenea delle molecole di almeno una
sostanza (solida, liquida o gassosa) nelle molecole di un'altra sostanza (che puoÁ essere
anch'essa solida, liquida o gassosa), e nelle quali non eÁ piuÁ possibile in alcun modo distinguere
fra loro le molecole dei diversi componenti. In soluzioni liquide formate da un solido e un
liquido, il solido viene indicato con il termine di soluto, il liquido con il termine di solvente.
La concentrazione di una soluzione eÁ data dalla quantitaÁ di soluto disciolta in una data
quantitaÁ (o in un dato volume) di solvente; questa grandezza puoÁ essere indicata in unitaÁ
diverse:
±
±
±
±
±
±
±
±
grammi di soluto per litro di soluzione (g/L);
percentuale (%) in peso: grammi di soluto in cento grammi di soluzione;
percentuale (%) in volume: grammi di soluto in cento millilitri di soluzione;
parti per milione (ppm): milligrammi di soluto in un litro di soluzione (acquosa);
normalitaÁ (N): numero di equivalenti di soluto per litro di soluzione;
molaritaÁ (M): numero di moli di soluto per litro di soluzione;
formalitaÁ (F): numero di grammo-formule di soluto per litro di soluzione;
molalitaÁ (m): numero di moli di soluto per kilogrammo di solvente puro.
La quantitaÁ di soluto che puoÁ essere disciolta in una data quantitaÁ di solvente a una data
temperatura eÁ limitata: a un certo punto il processo di dissoluzione si arresta e quindi la
concentrazione del soluto rimane costante, anche se ne viene aggiunto ancora. Quest'ultimo infatti si deposita sul fondo del recipiente, a costituire il corpo di fondo della
soluzione, che viene definita satura.
La concentrazione di un soluto nella soluzione satura, a una data temperatura,
rappresenta la sua solubilitaÁ: si verifica in effetti che la solubilitaÁ di un soluto varia al
variare della temperatura e per la maggior parte dei solidi (come i sali) la solubilitaÁ
aumenta con l'aumentare della temperatura (fig. 3.1). Tale aumento eÁ peroÁ piuÁ o meno
pronunciato a seconda del sale: per esempio, il cloruro di sodio (curva b) eÁ quasi
ugualmente solubile sia a caldo che a freddo; viceversa, la solubilitaÁ del nitrato di potassio
risente fortemente di un aumento di temperatura (curva d): si nota infatti che a 10 8C la sua
solubilitaÁ eÁ pari a circa 10 g /100 g di H2O, mentre a 60 8C eÁ di circa 110 g/100 g di H2O.
La variazione della solubilitaÁ con la temperatura si puoÁ spiegare con il principio di Le
ChaÃtelier: nel processo di dissoluzione entra sempre in gioco del calore (calore di
soluzione) che puoÁ essere sviluppato o assorbito dal sistema. Se la sostanza, sciogliendosi,
assorbe calore (fenomeno endotermico) tale processo saraÁ favorito dalle alte temperature
e la sostanza saraÁ piuÁ solubile se si aumenta la temperatura. L'opposto si verifica se il
fenomeno di dissoluzione avviene con sviluppo di calore (fenomeno esotermico): in
questo caso la sostanza saraÁ piuÁ solubile a freddo che a caldo.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 3.1
Curve di solubilitaÁ.
................................................................................................................................................................................................................................................
3. Equilibri nelle soluzioni acquose
.........................................................................
2
Grammi di sale 150
in 100 g
140
di H2O
130
120
110
100
90
80
70
60
50
a
40
e'
b
30
c
20
d
e
10
f
g
0
0
a
b
c
d
ˆ
ˆ
ˆ
ˆ
10
20
nitrato di piombo [Pb(NO3)2]
cloruro di sodio (NaCl)
solfato di magnesio (MgSO4)
nitrato di potassio (KNO3)
30
40
50
e ˆ
e0 ˆ
f ˆ
gˆ
60
70
80
90
100 Temperatura
(°C)
solfato di sodio idrato (Na2 SO4 10 H2 O)
solfato di sodio anidro (Na2 SO4 )
solfato di potassio (K2SO4)
clorato di potassio (KClO3)
Il fatto che il soluto si sciolga in determinati solventi piuttosto che in altri, si spiega
ammettendo una vera e propria reazione fra soluto e solvente ovvero la rottura dei
legami chimici esistenti fra le particelle del soluto e del solvente presi singolarmente,
con la formazione di nuovi legami fra le molecole del solvente e quelle del soluto:
questi ultimi dovranno avere intensitaÁ paragonabile a quelli precedenti, altrimenti la
dissoluzione non saraÁ possibile. Pertanto ci si deve aspettare la miscibilitaÁ di due
sostanze quando il legame chimico che tiene unite le rispettive molecole eÁ della stessa
natura. Per esempio, l'acqua eÁ un ottimo solvente di sostanze polari (ammoniaca,
etanolo, acetone, ecc.) in quanto anch'essa eÁ una sostanza polare; invece, solventi
apolari come il benzene e il tetracloruro di carbonio saranno ottimi solventi di
sostanze apolari (idrocarburi, grassi, ecc.).
GLI ELETTROLITI E LA DISSOCIAZIONE ELETTROLITICA
Mentre un solvente puro e le soluzioni di determinati soluti non manifestano la proprietaÁ
di condurre la corrente elettrica, le soluzioni di acidi, basi, sali, invece, conducono
facilmente la corrente, determinando fenomeni chimici nella stessa soluzione (elettrolisi).
Questo suggerõÁ a Svante Arrhenius1 una interpretazione del fenomeno, nota con il nome
di teoria della dissociazione elettrolitica. Questa teoria, confermata da un grandissimo
numero di altri fatti sperimentali, distingue due categorie di sostanze: gli elettroliti e i non
elettroliti.
1
Svante August Arrhenius (1859-1927), chimico fisico svedese, premio Nobel nel 1903.
36
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Fˆ
1
q1 q2
d2
4pe
in cui e (epsilon) eÁ la costante dielettrica del mezzo, q1 e q2 le cariche rispettivamente del
catione e dell'anione e d la distanza tra gli ioni.
La costante dielettrica dell'acqua eÁ pari a circa 80 volte la costante dielettrica nel
vuoto, quindi la forza attrattiva tra gli ioni di carica opposta si riduce di 1/80 rispetto a
quella che esisteva tra gli ioni nel solido cristallino. Questo spiega perche gli ioni
possono abbandonare il loro posto nel reticolo e passare in soluzione, circondandosi di
un numero piuÁ o meno grande di molecole di solvente, che si legano allo ione a causa
della loro polaritaÁ (fig. 3.2): questo fenomeno eÁ detto solvatazione (o idratazione nel
caso dell'acqua).
–
–
+
+
–
+
+
–
–
+
–
–
–
+
+
–
–
+
+
–
+
+
+
–
–
–
–
–
+
+
+
+
–
Ioni solvatati.
Tutte le sostanze che, allo stato fuso, o disciolte in un adatto solvente (generalmente acqua) sono capaci di condurre la corrente elettrica vengono definite elettroliti, mentre
vengono dette non elettroliti quelle che non ne sono in grado. I non elettroliti sono
presenti nelle loro soluzioni allo stato di molecole neutre, gli elettroliti sono presenti allo
stato di particelle cariche di elettricitaÁ positiva (cationi) o negativa (anioni). Tali ioni
possono essere presenti nell'elettrolita (composto ionico) oppure si possono formare in
seguito alla reazione del soluto con il solvente, per cui si scindono dei legami covalenti che
tengono uniti gli atomi nella molecola dell'elettrolita. CioÁ eÁ confermato dal fatto che i
solventi nei quali puoÁ essere osservata la conduzione elettrica sono tutti caratterizzati da
molecole fortemente polari (acqua, ammoniaca liquida ecc.) ovvero con elevata costante
dielettrica e: tali molecole, interponendosi tra gli ioni del soluto, riducono la forza
attrattiva tra le cariche di segno opposto, forza che, secondo la legge di Coulomb eÁ data
dall'espressione:
+
Figura 3.2
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
2. Gli elettroliti e la dissociazione elettrolitica
– +
= una molecola di acqua
+
= un catione (Na‡ )
–
= un anione (Cl )
Quindi l'equilibrio della dissociazione elettrolitica di un composto ionico in acqua puoÁ
essere cosõÁ rappresentato:
NaCl(s) ! Na‡
(aq) ‡ Cl(aq)
dove il pedice aq tra parentesi indica l'acqua come solvente e Na‡ e Cl sono rispettivamente gli ioni sodio e cloruro legati con un imprecisato numero di molecole
d'acqua.
La formazione di ioni da molecole covalenti, per esempio dell'acido cloridrico, eÁ
dovuta al fatto che il legame covalente H Ð Cl eÁ fortemente polare (data la grande differenza di elettronegativitaÁ esistente tra i due atomi) per cui la carica positiva addensata sull'atomo di idrogeno attrae fortemente quella opposta addensata sulle molecole
d'acqua, con conseguente rottura del legame fra l'idrogeno e il cloro e formazione di
37
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3. Equilibri nelle soluzioni acquose
un catione idronio (H3O‡ o H‡ ) e un anione cloruro:
HCl ‡ H2 O ! H3 O‡
(aq) ‡ Cl(aq)
In questo caso, l'acqua agisce, oltre che da solvente, anche da reagente. Poiche l'abilitaÁ
dell'acqua di rompere uno o piuÁ legami covalenti delle molecole di soluto dipende innanzitutto dalla polaritaÁ piuÁ o meno accentuata di questi legami, gli elettroliti possono essere a
loro volta classificati in elettroliti deboli ed elettroliti forti. Sono elettroliti forti quelle
sostanze che, in soluzione acquosa sufficientemente diluita, esistono solo allo stato di ioni
idratati:2 a questo gruppo appartengono quasi tutti i sali, alcuni acidi come l'acido perclorico,
l'acido cloridrico, l'acido nitrico, l'acido solforico, e le basi anioniche tipo KOH, NaOH,
LiOH. Sono deboli quelle sostanze che, in soluzione acquosa anche molto diluita, esistono
solo in piccola percentuale allo stato di ioni idratati, in equilibrio con le molecole indissociate
della sostanza da cui sono formati; a questo gruppo appartengono moltissimi acidi
(inorganici e organici) e molte sostanze basiche soprattutto organiche.
Elenchiamo qui di seguito le reazioni di dissociazione di alcuni elettroliti forti e deboli
in soluzione acquosa molto diluita, nelle quali la freccia singola diretta dai reagenti ai
prodotti indica un elettrolita forte, mentre la doppia freccia indica un elettrolita debole
(poco dissociato):
Elettroliti forti
(acido perclorico)
(acido cloridrico)
(acido nitrico)
(acido solforico)
(idrossido di potassio)
(idrossido di sodio)
(idrossido di bario)
(solfato di potassio)
(cloruro di bario)
(cloruro ferrico)
(solfato ferrico)
(fosfato trisodico)
(permanganato di potassio)
HClO4 ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ ClO4
HCl ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ Cl
HNO3 ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ NO3
H2SO4 ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ HSO4
KOH ! K‡ ‡ OH
NaOH ! Na‡ ‡ OH
Ba(OH)2 ! Ba2‡ ‡ 2 OH
K2 SO4 ! 2 K‡ ‡ SO24
BaCl2 ! Ba2‡ ‡ 2 Cl
FeCl3 ! Fe3‡ ‡ 3 Cl
Fe2 (SO4 )3 ! 2 Fe3‡ ‡ 3 SO24
Na3 PO4 ! 3 Na‡ ‡ PO34
KMnO4 ! K‡ ‡ MnO4
Elettroliti deboli
(ione bisolfato)
(acido nitroso)
(acido acetico)
(acido cianidrico)
(acido fluoridrico)
(acido formico)
(acido fosforico)
(ammoniaca)
2
HSO4 ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ SO24
HNO2 ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ NO2
CH3 COOH ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ CH3 COO
HCN ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ CN
HF ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ F
HCOOH ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ HCOO
H3 PO4 ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ H2 PO4
H2 PO4 ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ HPO24
HPO24 ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ PO34
NH3 ‡ H2 O ! NH‡
4 ‡ OH
Poiche il migliore solvente degli elettroliti eÁ l'acqua, da ora in avanti ci riferiremo solo alle loro soluzioni acquose.
38
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
4. Teoria di Debye e HuÈckel
..........................................................................................................................................................................................................................................
3
...........................................................................
4
ATTIVITAÁ E CONCENTRAZIONE DEGLI ELETTROLITI
IN SOLUZIONE ACQUOSA
Lo studio degli equilibri fra gli ioni degli elettroliti in soluzione acquosa deve tener conto
di due assunti fondamentali:
. il numero delle particelle contenute nella soluzione eÁ sempre maggiore di quello che
potrebbe essere previsto in assenza di dissociazione. Di cioÁ si deve tener conto nello
studio di alcune proprietaÁ delle soluzioni, note come proprietaÁ colligative (pressione
osmotica, abbassamento crioscopico ecc.), che sono collegate al numero di particelle in
soluzione, indipendentemente dalla loro natura;
. fra gli ioni contenuti nella soluzione di un elettrolita esistono reciproche forze di
attrazione elettrostatica, per cui la soluzione si comporta in modo diverso da quello
che si potrebbe prevedere in assenza di tali forze: queste impediscono a un numero piuÁ
o meno grande di ioni di essere indipendenti gli uni dagli altri; quindi non tutti gli ioni
derivati dalla dissociazione del soluto possono partecipare a un dato fenomeno (un
equilibrio o un processo cinetico), per cui la massa attiva (attivitaÁ) del soluto eÁ minore
della concentrazione analitica iniziale.
L'attivitaÁ (a) rappresenta dunque l'effettiva concentrazione di un soluto in soluzione,
ovvero l'effettivo numero di particelle che prendono parte attiva a un dato fenomeno.
Fra la concentrazione molare C di un soluto e la sua attivitaÁ a esiste la relazione (come
giaÁ visto in precedenza):
aˆf C
dove f = coefficiente di attivitaÁ del soluto.
L'attivitaÁ eÁ espressa da un numero adimensionale.
Il coefficiente di attivitaÁ si puoÁ dedurre (come vedremo nel prossimo paragrafo), in
base alle caratteristiche della soluzione: il suo valore in generale eÁ compreso tra 0 e 1. Esso
tende a 1 per soluzioni molto diluite, per cui a ˆ C (numericamente): infatti, se la
soluzione eÁ molto diluita, le interazioni fra le cariche degli ioni sono di minima entitaÁ e
quindi praticamente tutti gli ioni presenti in soluzione sono attivi. In soluzioni piuÁ
concentrate (> 0,001 M), f risulta minore di 1, per cui a < C: infatti, poiche le interazioni
ioniche diventano forti, a causa della minore distanza tra le particelle, solo una parte degli
ioni presenti sono «attivi».
Da ora in avanti assumeremo che le soluzioni siano sempre ideali, in modo da
identificare numericamente l'attivitaÁ di un soluto con la sua concentrazione molare.
Occorre tenere a mente che l'attivitaÁ di un solido puro o di un liquido puro, per convenzione, eÁ uguale a 1.
TEORIA DI DEBYE E HUÈCKEL
Mentre eÁ possibile determinare sperimentalmente la concentrazione di una sola specie
ionica (catione o anione) contenuta in una soluzione,3 altrettanto non puoÁ essere detto per il
suo coefficiente di attivitaÁ; questo perche non eÁ possibile preparare una soluzione contenente solo cationi o solo anioni. EÁ invece possibile determinare sperimentalmente (da
misure di grandezze chimico-fisiche) il coefficiente di attivitaÁ medio dell'elettrolita in
soluzione che tiene conto sia del coefficiente di attivitaÁ del catione, sia di quello dell'anione.
3
Facendola precipitare sotto forma di composto insolubile e dal peso del precipitato se ne calcola la quantitaÁ.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
............................................................................................................................................
3. Equilibri nelle soluzioni acquose
...............................................................................................................................................................................
5
Gli studi condotti da Peter Debye ed Erich HuÈckel4 sulle soluzioni elettrolitiche hanno
dimostrato la possibilitaÁ di calcolare teoricamente il coefficiente di attivitaÁ di un singolo
ione, il cui valore risulta funzione della concentrazione e della carica di tutti gli ioni
presenti in soluzione. In particolare, per soluzioni acquose molto diluite, alla temperatura
di 25 8C, vale la relazione (legge limite di Debye e HuÈckel):
p
log fi ˆ 0,51 Z 2i m
in cui: fi ˆ coefficiente di attivitaÁ dello ione i-esimo;
Z i ˆ valore assoluto della carica dello ione i-esimo;
m (mi) ˆ forza ionica della soluzione.
La forza ionica eÁ cosõÁ definita:
1
1
m ˆ S Ci Zi2 ˆ (C1 Z12 ‡ C2 Z22 ‡ :::)
2
2
in cui: S ˆ sommatoria;
Ci ˆ concentrazione molare (piuÁ esattamente molale) dello ione i-esimo;
Z i ˆ valore assoluto della carica dello ione i-esimo.
La forza ionica eÁ un indice dell'intensitaÁ del campo elettrico generato dagli ioni presenti
nella soluzione: quanto maggiore eÁ la concentrazione e la carica degli ioni, tanto piuÁ eÁ elevata
la forza ionica della soluzione e piuÁ basso risulteraÁ il coefficiente di attivitaÁ, come eÁ confermato dalla precedente legge limite. L'opposto avviene naturalmente se la soluzione eÁ diluita.
EQUILIBRI ACIDO-BASE IN SOLUZIONE ACQUOSA:
TEORIA DI BRéNSTED E LOWRY
In questo paragrafo e nei successivi verranno presi in considerazione i concetti generali
riguardanti gli equilibri acido-base e gli equilibri eterogenei relativi a composti poco solubili.
Per comprendere in che modo l'acqua negli equilibri acido-base si comporta oltre che
da solvente anche da reagente, eÁ necessario prendere in esame la teoria degli acidi e delle
basi sviluppata indipendentemente dal danese Johannes Brùnsted e dall'inglese Thomas
Lowry. Secondo questa teoria, una sostanza considerata singolarmente non puoÁ essere
definita ne acido ne base, in quanto eÁ sempre indispensabile accoppiare detta sostanza
con un'altra con la quale essa possa reagire. Pertanto, viene definito acido una sostanza
(molecola neutra o ione) che dona un protone (cioeÁ uno ione H+) a un'altra sostanza
(anch'essa molecola neutra o ione) definita base, che accetta tale protone.5
La relazione generale acido-base eÁ quindi:
AH ‡ B ! A ‡ BH‡
acido1
base2
base1
acido2
Considerando la stessa reazione in senso inverso, lo ione A (che acquista un protone) eÁ la
base coniugata dell'acido AH, mentre BH‡ (che cede un protone) eÁ l'acido coniugato
della base B: ad ogni acido corrisponde quindi una base coniugata e ad ogni base un acido
coniugato.
Esempio tipico di reazione acido-base eÁ la reazione tra ammoniaca e acido cloridrico:
NH3 ‡ HCl ! NH‡
4 ‡ Cl
base1
acido2
acido1
base2
4
Peter Debye (1884-1966), fisico olandese, premio Nobel nel 1936; Erich HuÈckel (1896-1980), fisico tedesco.
Da ora in avanti, per comoditaÁ, rappresenteremo le reazioni fra gli ioni degli elettroliti omettendo l'indicazione
dell'acqua in qualitaÁ di solvente e in qualitaÁ di acqua di idratazione degli ioni.
5
40
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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5. Equilibri acido-base in soluzione acquosa: teoria di Brùnsted e Lowry
Le due coppie coniugate sono quindi:
base1 (NH3 ) acido1 (NH‡
4)
acido2 (HCl) base2 (Cl )
La dissoluzione di un acido (o una base) in acqua eÁ anch'essa una reazione acido-base: per
esempio, sciogliendo l'acido cloridrico in acqua, avviene la reazione in cui l'acqua
funziona da base, acquistando un protone dall'acido:
HCl ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ Cl
acido1
base2
acido2
base1
Avremo quindi le due coppie coniugate:
acido1 (HCl) base1 (Cl )
base2 (H2 O) acido2 (H3 O‡ )
Se invece sciogliamo una base in acqua (per esempio NH3 ), il solvente si comporta da
acido, cedendo un protone alla base:
NH3 ‡ H2 O ! NH‡
4 ‡ OH
base1
acido2
acido1
base2
avremo quindi le due coppie coniugate:
base1 (NH3 ) acido1 (NH‡
4)
acido2 (H2 O) base2 (OH )
Dai due esempi, si vede che, in dipendenza del partner, l'acqua puoÁ comportarsi da acido
oppure da base: per questa ragione, essa eÁ un solvente anfotero (o anfiprotico), carattere
che non tutti i solventi possiedono (esistono infatti solventi capaci solo di cedere protoni e
altri capaci solo di acquistarne). In dipendenza di questo suo comportamento anfotero,
l'acqua viene scelta come base o come acido di riferimento, per poter confrontare fra loro
la forza sia degli acidi che delle basi. Infatti, se la reazione diretta fra un acido e l'acqua eÁ
pressoche completa (come nel caso dell'HCl), l'acido eÁ forte; se invece la reazione avviene
debolmente, come per esempio per l'acido acetico:
CH3 COOH ‡ H2 O ! CH3 COO ‡ H3 O‡
ne concludiamo che l'acido eÁ debole. Lo stesso ragionamento va fatto ovviamente per le basi.
La forza di un acido indica quindi la tendenza dell'acido a trasferire il protone a una
base presa come riferimento (l'acqua), mentre la forza di una base indica la tendenza ad
accettare un protone da un acido preso come riferimento (l'acqua).
Anche uno ione puoÁ comportarsi come un vero e proprio acido o base: per esempio, lo
ione acetato CH3 COO eÁ una base rispetto all'acqua:
CH3 COO ‡ H2 O ! CH3 COOH ‡ OH
base1
Analogamente, lo ione ammonio
acido2
acido1
base2
NH‡
4
reagisce con l'acqua come acido di Brùnsted:
! NH3 ‡ H3 O‡
NH‡
4 ‡ H2 O
acido1
base2
base1
acido2
Cu(H2 O)2‡
4
Lo ione idratato
(derivato dalla dissociazione del solfato rameico, CuSO4 ) eÁ
un acido, in quanto con l'acqua daÁ la seguente reazione acido-base:
Cu(H2 O)2‡ ‡ H2 O ! Cu(H2 O)3 OH‡ ‡ H3 O‡
acido1
4
base2
base1
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
acido2
.......................................................................................................................................................................
3. Equilibri nelle soluzioni acquose
...............................................................................................................................................
6
Un tale comportamento eÁ tipico di quei metalli i cui ioni sono dotati di piccole dimensioni
e carica elevata (Fe3‡, Al3‡, Cu2‡ ): in tali casi, le molecole d'acqua di idratazione sono
fortemente trattenute dal catione, per cui il legame O2
2H risulta talmente polarizzato che
l'idrogeno, dotato di carica (parziale) positiva, puoÁ legarsi con una molecola d'acqua
adiacente e staccarsi per dare origine a uno ione H3 O‡ :
H
H
H
O
O
H
H
Cu2+
O
H
H
+ H2O
O
H
Cu2+
O
H
O(– ) + H3O+
H
O
H
H
O
H
H
H
Uno ione derivato da un sale acido, come lo ione HCO3 , si puoÁ comportare da acido
rispetto all'acqua:
HCO3 ‡ H2 O ! CO23 ‡ H3 O‡
acido1
oppure da base:
base2
base1
acido2
HCO3 ‡ H2 O ! H2 CO3 ‡ OH
base1
acido2
acido1
base2
Si tratta quindi di uno ione anfotero. La maggiore o minore forza di un acido o di una
base viene espressa dalla sua costante di dissociazione.
COSTANTE DI DISSOCIAZIONE DEGLI ACIDI
E DELLE BASI DEBOLI
La costante di dissociazione di un acido o di una base debole non eÁ altro che la costante di
equilibrio relativa alla reazione dell'acido o della base con l'acqua.
Consideriamo per esempio l'acido debole monoprotico AH, e cioeÁ un acido che puoÁ
donare un solo protone, e facciamolo reagire con l'acqua:
AH ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ A
Applichiamo ora alla reazione la legge dell'equilibrio:
Ka ˆ
aH3 O‡ aA
aAH aH2 O
…3:1†
in cui Ka eÁ detta costante di dissociazione o costante di ionizzazione dell'acido debole,
espressa in funzione delle attivitaÁ delle specie chimiche interessate. A questo proposito
possiamo osservare:
1. La costante di equilibrio delle reazioni fra gli ioni degli elettroliti viene espressa da un
numero adimensionale, in quanto le attivitaÁ delle sostanze che compaiono in essa sono
adimensionali.
2. Se la soluzione eÁ molto diluita (solvente in grande eccesso), possiamo porre aH2 O ˆ 1,
dato che a un solido puro o a un liquido puro si assegna attivitaÁ unitaria.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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6. Costante di dissociazione degli acidi e delle basi deboli
3. Se la soluzione eÁ molto diluita, i coefficienti di attivitaÁ f sono praticamente unitari, per
cui possiamo senz'altro far coincidere numericamente l'attivitaÁ delle sostanze con la
loro concentrazione molare.
In definitiva, la (3.1) si puoÁ scrivere:
Ka ˆ
[H3 O‡ ][A ]
[AH]
…3:2†
Se invece consideriamo una base debole monoacida B, in seguito alla sua reazione con
l'acqua si stabilisce l'equilibrio:
B ‡ H2 O ! BH‡ ‡ OH
e con un ragionamento del tutto analogo a quello precedente, otteniamo:
Kb ˆ
[OH ][BH‡ ]
[B]
…3:3†
dove Kb prende il nome di costante di dissociazione o costante di ionizzazione della base
debole. Ovviamente tanto piuÁ eÁ elevato il valore numerico della costante di dissociazione
di un acido o di una base debole, quanto piuÁ l'equilibrio della reazione acido-base eÁ
spostato verso destra, e quindi tanto piuÁ forte eÁ l'acido o la base.
Nel caso di acidi deboli poliprotici, che possono cioeÁ donare piuÁ di un protone, come
per esempio l'acido fosforico e l'acido solfidrico, essi reagiscono con l'acqua in piuÁ fasi
distinte, una per ogni protone che viene ceduto a una molecola di acqua e pertanto si
hanno altrettante reazioni e altrettante costanti di dissociazione.
Per l'acido solfidrico (H2S) le fasi di dissociazione sono due, e cioeÁ:
H2 S ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ HS
HS ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ S2
e a ognuna di queste reazioni corrisponde una costante di equilibrio, e precisamente:
K1 ˆ
[H3 O‡ ][HS ]
ˆ 1 10
[H2 S]
K2 ˆ
[H3 O‡ ][S2 ]
ˆ 1 10
[HS ]
7
(a 25 C)
14
(a 25 C)
Dal valore numerico di queste due costanti di dissociazione, risulta che la forza dell'acido
HS eÁ debolissima nei confronti di quella dell'acido H2S. Se infine sommiamo le due
reazioni relative ai due equilibri, otteniamo la reazione globale della dissociazione dell'acido solfidrico:
H2 S ‡ 2 H2 O ! 2 H3 O‡ ‡ S2
alla quale corrisponde un'espressione della costante di equilibrio Ktot che eÁ data dal
prodotto delle due costanti K1 K2 , come potrebbe essere dimostrato facilmente:
Ktot ˆ
[H3 O‡ ]2 [S2 ]
ˆ K1 K2 ˆ 1 10
[H2 S]
21
(a 25 C)
…3:4†
Nella tabella 3.1 vengono riportati i valori delle costanti di dissociazione di alcuni acidi e
basi deboli, calcolati sperimentalmente alla temperatura di 25 8C.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Tabella 3.1
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3. Equilibri nelle soluzioni acquose
Costanti di dissociazione a 25 8C di alcuni
acidi e basi deboli.
Nome
Formula
Costante di dissociazione
CH3 COOH
K ˆ 1,8 10
ACIDI
acido acetico
acido arsenico
H3 AsO4
5
8
>
< K1 ˆ 6,0 10
K2 ˆ 1,0 10
>
:
K3 ˆ 3,0 10
7
12
5
acido benzoico
C6 H5 COOH
acido carbonico
H2 CO3
acido cianidrico
HCN
K ˆ 7,2 10
10
acido cloroacetico (mono)
CH2 Cl2
2COOH
K ˆ 1,5 10
3
fenolo
C6 H5 OH
K ˆ 1,0 10
10
acido fluoridrico
HF
K ˆ 6,7 10
4
acido formico
H2
2COOH
K ˆ 1,8 10
4
acido fosforico
H3 PO4
acido nitroso
HNO2
acido ossalico
H2 C2 O4
(
(
H2 S
(
acido solforico
H2 SO4
7
K2 ˆ 5,0 10
11
K ˆ 4,5 10
3
8
13
4
K1 ˆ 6,2 10
2
K2 ˆ 5,3 10
5
K1 ˆ 1,0 10
7
K2 ˆ 1,0 10
14
K1 molto elevata
2
K2 ˆ 1,2 10
(
acido solforoso
K1 ˆ 3,5 10
8
>
< K1 ˆ 7,5 10
K2 ˆ 6,2 10
>
:
K3 ˆ 4,8 10
(
acido solfidrico
K ˆ 6,3 10
3
H2 SO3
K1 ˆ 1,3 10
2
K2 ˆ 5,6 10
8
BASI
ammoniaca
NH3
K ˆ 1,8 10
5
anilina
C6 H5 NH2
K ˆ 4,2 10
10
etilammina
C2 H5 NH2
K ˆ 4,7 10
4
etilendiammina
NH22
2CH22
2CH22
2NH2
metilammina
CH3 NH2
K ˆ 4,4 10
4
piridina
C5 H 5 N
K ˆ 2,3 10
9
(
K1 ˆ 8,5 10
5
K2 ˆ 7,0 10
8
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
8. Relazione tra Ka e Kb di una coppia coniugata
.............................................................................................................................................................................................................................
7
...................................................................................
8
AUTOIONIZZAZIONE DELL'ACQUA
Come giaÁ sappiamo, in base alla teoria di Brùnsted l'acqua eÁ anfotera ovvero puoÁ agire da
acido cedendo un protone o da base accettando un protone, pertanto eÁ del tutto giustificato ammettere la seguente reazione fra due molecole di acqua:
H2 O ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ OH
acido1
base2
acido2
base1
e cioeÁ:
2 H2 O ! H3 O‡ ‡ OH
Questo equilibrio esiste oltre che in acqua pura, anche in tutte le soluzioni acquose degli
acidi, delle basi e dei sali.
Applicando alla reazione sopra scritta la legge dell'equilibrio chimico, otteniamo:
Kˆ
aH3 O‡ aOH
a2H2 O
Ma aH2 O ˆ 1 per convenzione, pertanto la relazione precedente diventa (sostituendo le
attivitaÁ di H3 O‡ e di OH con le rispettive concentrazioni):
Kw ˆ [H3 O‡ ][OH ]
…3:5†
nella quale Kw prende il nome di prodotto ionico dell'acqua e il cui valore numerico alla
temperatura di 25 8C eÁ stato misurato essere pari a 1 10 14 :
[H3 O‡ ][OH ] ˆ 1 10
14
…3:6†
EÁ chiaro che nell'acqua pura, [H3 O‡ ] ˆ [OH ], dato che dalla reazione di autoionizzazione si forma un uguale numero di ioni H3 O‡ e di ioni OH . Quindi nell'acqua pura:
[H3 O‡ ] ˆ [OH ] ˆ 1 10 7 M (a 25 8C). Inoltre, poiche a una data temperatura nelle
soluzioni acquose deve essere sempre verificata la condizione: [H3 O‡ ][OH ] ˆ Kw eÁ
chiaro che se, per una qualsiasi ragione, la concentrazione degli ioni H3 O‡ in una soluzione
acquosa diminuisce, deve aumentare in uguale misura la concentrazione degli ioni OH (o
viceversa), in modo che sia sempre soddisfatto il valore numerico del prodotto ionico
dell'acqua.
RELAZIONE TRA Ka E Kb DI UNA COPPIA CONIUGATA
Consideriamo la dissociazione di un acido debole, per esempio l'acido acetico:
CH3 COOH ‡ H2 O ! CH3 COO ‡ H3 O‡
la cui costante di dissociazione eÁ la seguente:
Ka ˆ
[CH3 COO ][H3 O‡ ]
[CH3 COOH]
…3:7†
La sua base coniugata, come sappiamo, eÁ CH3 COO e reagisce anch'essa con l'acqua:
CH3 COO ‡ H2 O ! CH3 COOH ‡ OH
45
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3. Equilibri nelle soluzioni acquose
Di tale reazione possiamo scrivere la costante di equilibrio:
Kb ˆ
[CH3 COOH][OH ]
[CH3 COO ]
…3:8†
Moltiplicando la (3.7) per la (3.8), otterremo:
Ka Kb ˆ
[CH3 COO ][H3 O‡ ]
[CH3 COOH][OH ]
[CH3 COOH]
[CH3 COO ]
e semplificando:
Ka Kb ˆ [H3 O‡ ] [OH ] ˆ Kw
…3:9†
Possiamo notare dalla (3.9) che le costanti di equilibrio (costante di aciditaÁ e costante di
basicitaÁ) dell'acido e della sua base coniugata sono inversamente proporzionali tra loro (e il
loro prodotto eÁ uguale al prodotto ionico dell'acqua Kw ˆ 1 10 14 ): quindi, piuÁ forte eÁ
l'acido e piuÁ debole eÁ la sua base coniugata (e viceversa).
Per esempio, poiche l'acido cloridrico eÁ un acido molto forte:
HCl ‡ H2 O ! Cl ‡ H3 O‡
la sua base coniugata saraÁ molto debole, cioeÁ la reazione:
Cl ‡ H2 O ! HCl ‡ OH
avviene in misura praticamente trascurabile.
Invece per un acido debole, come l'acido cianidrico HCN (Ka ˆ 7,2 10
10
)
HCN ‡ H2 O ! CN ‡ H3 O‡
la base coniugata CN saraÁ molto meno debole, come si puoÁ ricavare dalla (3.9):
Kb ˆ
1,0 10
7,2 10
14
10
ˆ 1,4 10
5
per cui la reazione acido-base:
CN ‡ H2 O ! HCN ‡ OH
avraÁ luogo in misura apprezzabile.
Analogo risultato otteniamo considerando una base come NH3 e il suo acido coniugato NH‡
4:
NH3 ‡ H2 O ! NH‡
4 ‡ OH
Kb ˆ
[NH‡
4 ][OH ]
[NH3 ]
! NH3 ‡ H3 O‡
NH‡
4 ‡ H2 O
Ka ˆ
[NH3 ][H3 O‡ ]
[NH‡
4]
da cui infine (con procedimento analogo al precedente):
K a Kb ˆ K w
46
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Tabella 3.2
Per esempio, poiche dalla tabella 3.1 risulta che la costante di dissociazione dell'ammoniaca NH3 pari a 1,8 10 5 , possiamo ricavare la costante di aciditaÁ dello ione ammonio,
suo acido coniugato:
1,0 10 14
ˆ 5,5 10 10
Ka ˆ
1,8 10 5
Nella tabella 3.2 sono messe a confronto le costanti di dissociazione (acida o basica)
relative a diverse coppie coniugate.
Acido
forza acida crescente
Costanti di dissociazione Ka e Kb relative
a coppie coniugate
acido-base.
Ka
HClO4
HI
HBr
H2SO4
HCl
HNO3
HClO3
H3O‡
HSO4
HClO2
H3 PO4
HCOOH
CH3 COOH
H2 CO3
H2 S
H2 PO4
HClO
HCN
NH‡
4
HCO3
HPO24
HS
H2 O
molto
molto
molto
molto
molto
molto
molto
1,0
1,0
7,5
1,8
1,8
3,5
1,0
6,2
3,0
7,2
5,5
5,0
4,8
1,0
elevata
elevata
elevata
elevata (Ka1)
elevata
elevata
elevata
Ð
10 2
10 2
10 3 (Ka1)
10 4
10 5
10 7 (Ka1)
10 7 (Ka1)
10 8 (Ka2)
10 8
10 10
10 10
10 11 (Ka2)
10 13 (Ka3)
10 14 (Ka2)
Ð
Kw
Ka
Base
Kb ˆ
ClO4
I
Br
HSO4
Cl
NO3
ClO3
H2O
SO24
ClO2
H2 PO4
HCOO
CH3COO
HCO3
HS
HPO24
ClO
CN
NH3
CO23
PO34
S2
OH
molto piccola
molto piccola
molto piccola
molto piccola
molto piccola
molto piccola
molto piccola
Ð
1,0 10 12
1,0 10 12
1,3 10 12
5,5 10 11
5,5 10 10
2,8 10 8
1,0 10 7
1,6 10 7
3,3 10 7
1,4 10 5
1,8 10 5
2,0 10 4
2,1 10 2
1
Ð
forza basica crescente
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
8. Relazione tra Ka e Kb di una coppia coniugata
Dalla conoscenza delle costanti di aciditaÁ e di basicitaÁ dei vari acidi e basi di Brùnsted
(siano essi molecole neutre o ioni), e in base al loro comportamento nelle reazioni acidobase, si puoÁ dedurre il seguente principio generale:
In una reazione acido-base di qualunque tipo, si verifica sempre che l'equilibrio eÁ spostato
dalla parte in cui sono presenti l'acido e la base piuÁ deboli.
Consideriamo infatti l'equilibrio:
AH ‡ B ! A ‡ BH‡
Se tale equilibrio eÁ spostato verso destra, significa che l'acido AH ha maggiore tendenza a cedere un protone alla base B di quanto l'acido BH‡ abbia tendenza a cedere
il protone alla base A : di conseguenza l'acido AH eÁ piuÁ forte dell'acido BH‡ .
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Figura 3.3
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3. Equilibri nelle soluzioni acquose
Analogamente, sempre se l'equilibrio eÁ spostato verso destra, si deduce che la base B
ha maggiore tendenza ad acquistare un protone rispetto alla base A , che saraÁ percioÁ
la piuÁ debole. In conclusione, le specie che prevalgono all'equilibrio sono sempre
quelle piuÁ deboli.
Vediamo alcuni esempi:
a) nella reazione di dissociazione dell'acido cloridrico:
HCl ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ Cl
la base Cl eÁ meno forte della base H2 O e l'acido H3 O‡ eÁ meno forte dell'acido HCl,
quindi tale equilibrio saraÁ molto spostato verso destra;
b) nella reazione di dissociazione dell'acido acetico:
CH3 COOH ‡ H2 O
!
CH3 COO ‡ H3 O‡
l'acido H3 O‡ eÁ piuÁ forte dell'acido CH3 COOH e la base CH3 COO eÁ piuÁ forte della
base H2 O, quindi l'equilibrio in questo caso eÁ spostato maggiormente verso sinistra, e
in effetti l'acido acetico eÁ un acido debole.
Si puoÁ prevedere se una reazione acido-base eÁ favorita o meno mediante una tabella in
cui gli acidi, ordinati secondo la loro forza decrescente, sono allineati con le corrispondenti basi coniugate, che risultano quindi ordinate secondo forza crescente come in
tabella 3.2).
Si puoÁ allora constatare che una reazione acido-base puoÁ avvenire se l'acido si trova
piuÁ in alto rispetto alla base con cui reagisce; in tal caso, infatti, i due reagenti daranno
origine, rispettivamente, a una base e a un acido coniugati che, in base alla loro posizione
nella tabella, risultano piuÁ deboli dell'acido e della base reagenti (fig. 3.3), come vuole la
regola enunciata.
Reazione acido-base.
acido1
base1 (più debole)
(più forte)
rea
+
H3O
HF
gis
ce
co
n
NH3
acido2
(più debole)
base2
OH
(più forte)
–
L'acido fluoridrico, HF, reagisce con l'ammoniaca, NH3 , perche si trova piuÁ in alto
rispetto a tale base:
HF ‡ NH3 ! NH‡
4 ‡ F
acido1
base2
acido2
base1
per cui i prodotti ottenuti sono entrambi piuÁ deboli dell'acido e della base reagenti.
Un acido forte come l'acido cloridrico, HCl (che in soluzione daÁ ioni H3 O‡ ), reagisce
in modo praticamente completo con una base forte, come NaOH, secondo la reazione di
neutralizzazione: H3 O‡ ‡ OH ! 2 H2 O
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9. Effetto dello ione comune
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9
in quanto l'acido H3 O‡ eÁ posto piuÁ in alto rispetto alla base OH , per cui il prodotto
(H2 O) risulta un acido piuÁ debole di H3 O‡ e una base piuÁ debole di OH .
Una conseguenza del fatto che il grado di forza di un acido viene definito comunemente rispetto al solvente acqua, eÁ che gli acidi forti (come HCl, HNO3, H2 SO4 ecc.) non
possono essere differenziati fra loro per quel che riguarda la relativa forza acida, a causa
dell'effetto livellante del solvente. CioeÁ, sciogliendo in acqua un acido AH molto piuÁ
forte di H3 O‡ , l'equilibrio AH ‡ H2 O ! A ‡ H3 O‡ eÁ completamente spostato verso
destra: tutti gli acidi molto piuÁ forti di H3 O‡ risulteranno quindi ugualmente forti.
Per poter evidenziare una tendenza piuÁ o meno spiccata a cedere protoni di un acido
forte confrontato con un altro acido forte, occorreraÁ cambiare solvente, scegliendone
uno che, come «base», sia piuÁ debole dell'acqua, per esempio l'acido acetico; in tal caso,
due acidi, considerati ugualmente forti se sciolti in acqua, riveleranno, in acido acetico,
una diversa tendenza a cedere protoni al solvente, il che permetteraÁ di classificarli di
forza diversa.
EFFETTO DELLO IONE COMUNE
Dato un equilibrio fra gli ioni di una soluzione, se si varia la concentrazione di uno ione,
l'equilibrio si sposta secondo il principio di Le ChaÃtelier, nel senso che se si aggiunge un
prodotto, si fa retrocedere l'equilibrio verso la formazione dei reagenti.
Fra i casi piuÁ frequenti consideriamo i seguenti:
a) in una soluzione acquosa diluita di acido forte monoprotico (HCl), esistono i due
equilibri:
2 H2 O ! H3 O‡ ‡ OH
HCl ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ Cl
da cui si vede che lo ione comune ai due equilibri eÁ H3 O‡ . Ebbene, la concentrazione
di tutti gli ioni H3 O‡ della soluzione eÁ praticamente quella proveniente dall'acido
forte, in quanto l'equilibrio di dissociazione dell'acqua eÁ tutto spostato verso sinistra,
per effetto dello ione comune H3 O‡ : quindi la concentrazione [H3 O‡ ] coincide
praticamente con la molaritaÁ dell'acido forte che eÁ completamente dissociato;
b) per una soluzione acquosa diluita di base forte monoacida (per esempio NaOH), la
concentrazione degli ioni OH coincide, per la stessa ragione, con la concentrazione
molare della base, in quanto l'equilibrio relativo all'acqua: 2 H2 O ! H3 O‡ ‡ OH
retrocede completamente verso sinistra per effetto dello ione comune OH proveniente dalla base forte;
c) per le soluzioni acquose di acidi o basi deboli, le conclusioni sono ancora simili. Per
esempio, in una soluzione diluita di acido acetico, in cui sono presenti i seguenti due
equilibri:
2 H2 O ! H3 O‡ ‡ OH
CH3 COOH ‡ H2 O ! CH3 COO ‡ H3 O‡
la concentrazione dello ione H3 O‡ eÁ praticamente solo quella proveniente dalla dissociazione dell'acido debole;
d) nel caso di acidi o basi debolissime, per il calcolo della concentrazione dello ione
H3 O‡ o dello ione OH , occorre invece sommare la concentrazione proveniente dai
due equilibri di dissociazione, cioeÁ quello dell'acqua e quello dell'acido o della base;
e) infine, per soluzioni acquose diluite formate da un acido debole e da un acido forte,
sempre per l'effetto dello ione comune H3 O‡ , verranno retrocessi a valori trascurabili
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3. Equilibri nelle soluzioni acquose
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10
le concentrazioni [H3 O‡ ] provenienti dall'acqua e dall'acido debole, per cui la
concentrazione [H3 O‡ ] saraÁ praticamente quella proveniente dall'acido forte. Ad
analoga conclusione si giunge per soluzioni acquose di base debole e base forte.
DEFINIZIONE DEL pH
Per esprimere l'aciditaÁ o la basicitaÁ di una soluzione acquosa di un acido o di una base, eÁ
molto piuÁ comodo servirsi di un numero piuttosto che della concentrazione molare degli
ioni H3 O‡ , oppure di quella degli ioni OH , le quali vengono normalmente indicate
mediante numeri esponenziali.
Pertanto si eÁ convenuto di porre:6
log [H3 O‡ ] (o
e
log [H‡ ]) ˆ pH
log [OH ] ˆ pOH
Dato che a 25 8C nell'acqua pura:
[H3 O‡ ] ˆ [OH ] ˆ 1 10
7
M
nell'acqua pura, e in tutte le soluzioni acquose nelle quali eÁ verificata una tale condizione,
risulta:
pH ˆ 7
e
pOH ˆ 7 (a 25 8C)
Tenendo poi conto che nelle soluzioni acquose di un qualsiasi acido [H3 O‡ ] eÁ maggiore
di 1 10 7 M, che nelle soluzioni acquose di una qualsiasi base [OH ] eÁ maggiore di
1 10 7 M, e che comunque per tutte le soluzioni acquose deve essere verificata la
condizione espressa a 25 8C dalla relazione:
[H3 O‡ ][OH ] ˆ 1 10
14
possiamo dedurre le seguenti regole valide per la temperatura di 25 8C:
neutralitaÁ: [H3 O‡ ] ˆ 1 10
aciditaÁ:
[H3 O‡ ] > 1 10
basicitaÁ: [H3 O‡ ] < 1 10
7
M, quindi pH = 7(pOH = 7)
M, quindi pH < 7(pOH > 7)
7
M, quindi pH > 7(pOH < 7)
7
I valori analitici (pratici) del pH, la grandezza comunemente utilizzata, in luogo del pOH,
per esprimere la neutralitaÁ, l'aciditaÁ, o la basicitaÁ (alcalinitaÁ) delle soluzioni acquose,
vanno da 0 a 14. Nella scala sotto riportata, la scala di pH, all'interno dei quadratini sono
indicati i valori di pH, mentre all'esterno, in basso, sono riportate le corrispondenti
concentrazioni degli ioni H3 O‡ in moli per litro.
NEUTRALITAÁ
aciditaÁ crescente
0
1
1
10
6
2
1
10
3
2
10
4
3
10
basicitaÁ crescente
5
4
10
A rigore, si dovrebbe definire: pH ˆ
6
5
10
7
6
10
8
7
10
log aH3 O‡ e pOH ˆ
9
8
10
10
9
log aOH .
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10
10
11
10
11
12
10
12
13
10
13
14
10
14
.........................................................................................................................................................
11. Grado di dissociazione
...................................................................................................................................................................
11
Si fa notare che la convenzione matematica con la quale eÁ stato definito il pH o il pOH di
una soluzione viene estesa anche alle costanti di equilibrio delle reazioni fra gli ioni degli
elettroliti e pertanto si indica rispettivamente:
log Ka ˆ pKa
log Kb ˆ pKb
log Kw ˆ pKw
Pertanto, se consideriamo la relazione:
[H3 O‡ ] [OH ] ˆ Kw
passando al calcolo logaritmico, essa puoÁ essere scritta:
log [H3 O‡ ] ‡ log [OH ] ˆ log Kw
e cambiando di segno:
log [H3 O‡ ]
log [OH ] ˆ
log Kw
e quindi:
pH ‡ pOH ˆ pKw
ma, a 25 8C, Kw ˆ 1 10 14 e quindi pKw ˆ 14.
Pertanto, a 25 8C, esiste la relazione pH ‡ pOH ˆ 14 per mezzo della quale, noto il
pH di una soluzione acquosa, si calcola il relativo pOH (o viceversa).
GRADO DI DISSOCIAZIONE
In analogia con quanto definito per i gas, il grado di dissociazione (a) di un elettrolita
debole eÁ la frazione di moli di elettrolita che ha subito la dissociazione e cioeÁ il rapporto
fra le moli dissociate (nd) e quelle iniziali (n0):
aˆ
nd
n0
Consideriamo per esempio una soluzione acquosa di acido acetico, e sia a il suo grado di
dissociazione secondo la reazione:
CH3 COOH ‡ H2 O ! CH3 COO ‡ H3 O‡
Se n0 sono le moli iniziali di acido, le moli dissociate saranno:
nd ˆ an0
esse daranno origine ad altrettante moli di ioni CH3COO e di ioni H3 O‡ , come dallo
schema seguente:
__
__ CH3 COO
CH3 COOH !
moli iniziali
variazione del numero di moli in seguito a reazione
moli all'equilibrio
n0
a n0
(n0 a n0 )
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0
‡a n0
a n0
+ H3 O‡
0
‡a n0
a n0
Figura 3.4
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3. Equilibri nelle soluzioni acquose
Se V eÁ il volume della soluzione, all'equilibrio avremo:
n0 (1 a)
ˆ C(1
V
an0
ˆ aC
[CH3 COO ] ˆ
V
an0
ˆ aC
[H3 O‡ ] ˆ
V
[CH3 COOH] ˆ
a)
Infatti n0 =V ˆ C (dove C eÁ la concentrazione molare iniziale dell'acido). Sostituendo questi
dati nell'espressione della costante di equilibrio:
Ka ˆ
otteniamo:
[CH3 COO ][H3 O‡ ]
[CH3 COOH]
Ka ˆ
e infine, semplificando:
aC aC
C(1 a)
Ka ˆ
a2 C
1 a
…3:10†
Con procedimento del tutto analogo, considerando l'equilibrio di dissociazione di una
base debole monoacida, si ottiene la relazione finale:
Kb ˆ
a2 C
1 a
…3:11†
Le equazioni (3.10) o (3.11) permettono di calcolare il grado di dissociazione di un acido
debole monoprotico o di una base debole monoacida, nota la relativa costante di dissociazione, o inversamente, di calcolare la costante di dissociazione dell'elettrolita, noto il
grado di dissociazione e la sua concentrazione.
Il grado di dissociazione di un elettrolita puoÁ essere determinato con metodi elettrochimici (per esempio da misure di conducibilitaÁ), o da misure di grandezze come la
pressione osmotica o l'abbassamento del punto di congelamento della soluzione (proprietaÁ colligative).
Se l'elettrolita eÁ sufficientemente debole, si puoÁ trascurare a rispetto a 1 nelle (3.10),
(3.11), per cui tali espressioni diventano:
Ka ˆ a2 C
Kb ˆ a2 C
Grado di dissociazione in funzione della
diluizione.
1
0
Diluizione 1/C
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12. Il pH delle soluzioni acquose: acidi e basi
............................................................................................................................................................................................................................
12
da cui:
r
Ka
aˆ
C
r
Kb
aˆ
C
(3:12a)
(3:12b)
Queste due ultime espressioni indicano chiaramente che il grado di dissociazione di un
elettrolita debole dipende:
± dalla costante di dissociazione Ka o Kb : quanto piuÁ alta eÁ la costante, tanto piuÁ
dissociato eÁ l'acido (o la base);
± dalla concentrazione: piuÁ l'acido eÁ diluito, piuÁ esso risulta dissociato; al limite, cioeÁ a
diluizione infinita, esso sarebbe completamente dissociato (a tende a 1) come eÁ indicato
qualitativamente in figura 3.4 (sull'asse delle ascisse eÁ posta la diluizione 1/C).
IL pH DELLE SOLUZIONI ACQUOSE: ACIDI E BASI
Per il calcolo del pH della soluzione di un acido, teniamo presente che la concentrazione
degli ioni H3 O‡ derivati dall'autoprotolisi dell'acqua eÁ molto piccola rispetto a quella
degli ioni H3 O‡ provenienti dalla dissociazione dell'acido, e quindi puoÁ essere trascurata
(a meno che la soluzione non sia estremamente diluita).
Analogamente, nel calcolo del pH di una base, si trascura la concentrazione degli ioni
OH provenienti dall'autoprotolisi dell'acqua rispetto alla concentrazione degli ioni
OH derivati dalla dissociazione della base (tranne, anche in questo caso, che non si tratti
di soluzione estremamente diluita).
a) Acidi e basi forti
Nelle soluzioni acquose diluite di acidi forti (monoprotici o poliprotici), la concentrazione degli ioni H3 O‡ coincide con la normalitaÁ dell'acido, che, essendo completamente dissociato, genera tanti equivalenti di ioni H3 O‡ quanti sono gli atomi di idrogeno nella molecola, quindi:
[H3 O‡ ] ˆ N
Analogamente, per una base forte:
[OH ] ˆ N
Pertanto, il calcolo del pH in questi casi eÁ molto semplice:
per gli acidi forti:
pH ˆ
per le basi forti:
pOH ˆ
log N
log N
b) Acidi e basi deboli
Dato un generico acido debole monoprotico HA, consideriamo l'equilibrio di
dissociazione:
HA ‡ H2 O ! H3 O‡ ‡ A
…3:13†
e scriviamone la costante di dissociazione:
Ka ˆ
[H3 O‡ ][A ]
[HA]
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…3:14†
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3. Equilibri nelle soluzioni acquose
...................................................................................
13
Dalla (3.13) risulta la relazione stechiometrica:
[H3 O‡ ] ˆ [A ]
La concentrazione dell'acido indissociato si ottiene dalla differenza tra la concentrazione iniziale Ca e quella relativa alla parte dissociata:
[HA] ˆ Ca
[A ]
Se l'acido eÁ sufficientemente debole (Ka < 10 3 ) e la soluzione non troppo diluita, con
buona approssimazione si puoÁ identificare la concentrazione di equilibrio [HA] con
quella iniziale Ca (soprattutto se il rapporto fra la concentrazione iniziale dell'acido e la
sua Ka eÁ maggiore di 100) e scrivere quindi:
[H3 O‡ ]2
Ca

p
[H3 O‡ ] ˆ Ka Ca
Ka ˆ
da cui:
…3:15†
Se l'acido eÁ poliprotico, l'aciditaÁ della soluzione eÁ praticamente data solo dalla prima
fase della dissociazione, la cui costante K1 eÁ in genere molto piuÁ alta delle successive
(condizione necessaria: K1 =K2 > 103 ). Quindi, con lo stesso procedimento seguito per
l'acido monoprotico, avremo:
p
[H3 O‡ ] ˆ K1 Ca
…3:16†
Con analogo procedimento, per una base debole monoacida si perviene alla relazione
finale:
p
…3:17†
[OH ] ˆ Kb Cb
con Kb costante di dissociazione della base e Cb concentrazione della base. Se la base eÁ
poliacida, si prenderaÁ in considerazione solo la K1, come per l'acido debole.
Nel caso in cui si abbia come dato il pH della soluzione, e si voglia calcolare la concentrazione degli ioni H3 O‡ (o degli ioni OH ), basteraÁ tenere presenti le proprietaÁ
dei logaritmi, per cui saraÁ:
[H3 O‡ ] ˆ 10
[OH ] ˆ 10
pH
pOH
IL pH DELLE SOLUZIONI ACQUOSE: SALI
Se un sale come il cloruro di sodio eÁ formato dall'anione di un acido forte (come HCl) e
dal catione di una base forte (come NaOH), gli ioni del sale, sebbene idratati in soluzione
acquosa, non provocano alcuna variazione del pH della soluzione che, a 25 8C, rimane
costante al valore pH ˆ 7, come nell'acqua pura. Infatti, se l'acido eÁ molto forte, come
l'acido cloridrico, la sua base coniugata (Cl ) eÁ molto debole, e la reazione:
Cl ‡ H2 O ! HCl ‡ OH
eÁ completamente spostata verso sinistra. Lo stesso avverraÁ per lo ione Na‡ rispetto alla
base forte NaOH.
Se invece il sale deriva da un acido e da una base, di cui almeno uno sia debole, il pH in
genere eÁ diverso da 7. Questo fenomeno prende il nome di idrolisi.
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14. Soluzioni tampone
...................................
14
La spiegazione di questo fatto puoÁ essere trovata tenendo presente che:
1. Tutti i sali, salvo poche eccezioni, sono elettroliti forti e quindi nelle loro soluzioni
diluite esistono allo stato di ioni.
2. Gli ioni provenienti dal sale, e precisamente quelli generati dall'acido e dalla base
deboli, reagiscono con le molecole dell'acqua, seppure in modesta percentuale,
comportandosi da acidi o da basi di Brùnsted.
Esempi:
a) l'anione del sale acetato di sodio CH3 COONa reagisce con l'acqua comportandosi
come una base debole, in quanto una piccola percentuale di ioni CH3 COO danno
luogo alla reazione acido-base:
CH3 COO ‡ H2 O ! CH3 COOH ‡ OH
mentre lo ione Na‡ non reagisce con l'acqua essendo un acido molto debole: percioÁ il
sale conferisce alla soluzione pH > 7 (reazione alcalina);
b) il catione del sale cloruro di ammonio NH4 Cl reagisce (in piccola percentuale) con
l'acqua, secondo la reazione:
! NH3 ‡ H3 O‡
NH‡
4 ‡ H2 O
mentre lo ione Cl non reagisce essendo una base debolissima, per cui in questo caso il
pH risultante saraÁ inferiore a 7 (reazione acida);
c) analogamente, una soluzione di sale il cui catione deriva da un idrossido di metallo
pesante (in genere base debole), mentre l'anione deriva da un acido forte, per esempio
cloruro ferrico, FeCl3 , daraÁ una reazione acida in quanto lo ione idratato Fe(H2 O)3‡
6 si
comporta da acido rispetto all'acqua:
[Fe (H2 O)6 ]3‡ ‡ H2 O ! [Fe (H2 O)5 OH]2‡ ‡ H3 O‡
acido1
base2
base1
acido2
d) se il sale eÁ formato da un acido debole e da una base debole, come il cianuro di
ammonio, NH4 CN, ambedue gli ioni reagiscono con l'acqua:
! NH3 ‡ H3 O‡
NH‡
4 ‡ H2 O
CN ‡ H2 O ! HCN ‡ OH
e la soluzione risulteraÁ acida o basica (o anche neutra) in dipendenza della capacitaÁ dei
due ioni di reagire piuÁ o meno intensamente con le molecole d'acqua (azione competitiva
del catione e dell'anione).
Generalizzando, possiamo affermare che i fenomeni di idrolisi sono determinati da tutti
quei sali i cui ioni, una volta liberati nella soluzione acquosa in seguito alla dissociazione
elettrolitica, reagiscono con l'acqua alla maniera di acidi e/o basi di Brùnsted, per cui la
soluzione eÁ caratterizzata da un pH il piuÁ delle volte diverso da 7.
SOLUZIONI TAMPONE
Se aggiungiamo una quantitaÁ anche piccola di acido forte o di base forte a un certo
volume di acqua distillata o a una soluzione di sale neutro (come NaCl), il pH, come si
potrebbe facilmente calcolare, subisce una forte variazione. Una soluzione tampone,
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3. Equilibri nelle soluzioni acquose
invece, eÁ una soluzione che resiste a una variazione di pH quando essa viene addizionata
di un acido forte o una base forte (o anche quando viene diluita).
Le piuÁ comuni soluzioni tampone sono formate da:
a) un acido debole e un suo sale con una base forte (per esempio: acido acetico e acetato di
sodio, in altre parole un acido debole e la sua base coniugata);
b) una base debole e un suo sale con un acido forte (per esempio: ammoniaca e cloruro di
ammonio, in altre parole una base debole e il suo acido coniugato).
In una soluzione tampone formata da acido acetico e acetato di sodio, esistono due
equilibri di dissociazione:
CH3 COONa ! CH3 COO ‡ Na‡
CH3 COOH ‡ H2 O ! CH3 COO ‡ H3 O‡
Mentre il primo equilibrio eÁ completamente spostato a destra (il sale eÁ completamente
dissociato), il secondo equilibrio, per effetto dello ione comune CH3COO del sale eÁ
quasi del tutto spostato a sinistra.
Se aggiungiamo alla soluzione tampone una certa quantitaÁ di acido forte, cioeÁ di ioni
H3O‡ , questi si combinano con gli anioni CH3COO del sale, per formare acido acetico:
CH3 COO ‡ H3 O‡ ! CH3 COOH ‡ H2 O
In conclusione, gli ioni H3 O‡ aggiunti vengono neutralizzati dalla base CH3 COO , per
cui il pH non subisce variazioni apprezzabili.
Analogamente, se alla soluzione tampone viene addizionata una certa quantitaÁ di base
forte, gli ioni OH aggiunti sono neutralizzati dagli ioni H3 O‡ della soluzione:
OH ‡ H3 O‡ ! 2 H2 O
Gli ioni H3 O‡ , via via che reagiscono, sono rimpiazzati dalla dissociazione di altre
molecole di acido acetico, per cui, anche in questo caso, viene impedita una variazione
apprezzabile del pH.
Vediamo ora come calcolare il pH di una soluzione tampone e quindi la variazione di
pH indotta dall'aggiunta di un acido o una base forte.
Consideriamo la costante di dissociazione dell'acido acetico:
Ka ˆ
[CH3 COO ][H3 O‡ ]
[CH3 COOH]
In questo rapporto, la concentrazione dello ione CH3 COO coincide praticamente con
la concentrazione del sale CH3 COONa …Cs † presente in soluzione, in quanto l'acido eÁ
pochissimo dissociato per effetto dello ione comune; per lo stesso motivo, il denominatore corrisponde alla concentrazione dell'acido (Ca ). Quindi, sostituendo:
Ka ˆ [H3 O‡ ]
Cs
Ca
[H3 O‡ ] ˆ Ka
Ca
Cs
da cui:
…3:18†
Passando ai logaritmi e cambiando di segno:
log [H3 O‡ ] ˆ
log Ka
log
Ca
Cs
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14. Soluzioni tampone
e infine:
pH ˆ pKa ‡ log
Cs
Ca
…3:19†
Questa equazione permette di calcolare il pH di una soluzione tampone acida, note le
concentrazioni dell'acido e del sale e la costante di dissociazione dell'acido.
Le espressioni (3.18) e (3.19) possono essere rese di piuÁ facile applicazione se teniamo
conto che il rapporto Cs /Ca si puoÁ scrivere:
Cs ns =V ns
ˆ
ˆ
Ca na =V na
(V ˆ volume della soluzione)
cioeÁ il rapporto tra le due concentrazioni puoÁ essere semplicemente sostituito dal rapporto tra le moli del sale ns e quelle dell'acido na per cui:
ns
pH ˆ pKa ‡ log
na
Quando alla soluzione tampone si aggiunge una certa quantitaÁ di acido forte, in concentrazione a, questo, come giaÁ osservato, ha come risultato l'aumento di una quantitaÁ
equivalente di acido debole e una uguale diminuzione della concentrazione del sale, di
conseguenza, il pH finale risulteraÁ:
Cs a
pH ˆ pKa ‡ log
Ca ‡ a
Tale aggiunta (purche in quantitaÁ non eccessiva) causa solo una piccola variazione del
rapporto Cs /Ca , cui corrisponde una ancor minore variazione del logaritmo, e cioeÁ
del pH.
Se invece si aggiunge alla soluzione tampone una base forte, di concentrazione b,
risulteraÁ aumentata di una quantitaÁ equivalente la concentrazione del sale e diminuita di
altrettanto la concentrazione dell'acido, per cui il pH finale saraÁ:
pH ˆ pKa ‡ log
Cs ‡ b
Ca a
e le conclusioni sono le stesse viste per l'aggiunta di acido forte.
Resta da considerare quello che avviene se si diluisce semplicemente una soluzione
tampone: in questo caso, poiche sia Ca che Cs variano in ugual proporzione, il rapporto
Cs /Ca non cambia e quindi non varia il pH.
Una grandezza importante per le soluzioni tampone eÁ il potere tamponante, cioeÁ
l'aumento di concentrazione di acido o base forte necessario per ottenere una variazione
unitaria di pH:
DC
potere tamponante ˆ
DpH
Si puoÁ ricavare che tale potere risulta massimo, quando il rapporto Cs /Ca = 1, e percioÁ
quando pH ˆ pKa e risulta ancora elevato purche tale rapporto sia contenuto nei limiti
seguenti:
Cs
ˆ 10
Ca
oppure
Cs
1
ˆ
Ca 10
Con facili passaggi, si deduce quindi che la soluzione tampone ha un potere tamponante
efficace nell'intervallo:
pKa 1 pKa ‡ 1
57
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
...............................................................................................................................................................................................................................
3. Equilibri nelle soluzioni acquose
........................................................................................
15
Per esempio, per la soluzione tampone acido acetico-acetato di sodio (pKa ˆ 4,74), si
potraÁ avere un buon potere tamponante nell'intervallo di pH 3,7 5,7.
Ad analoghe conclusioni si giunge se consideriamo un tampone basico, come per
esempio una soluzione di ammoniaca e cloruro di ammonio: con procedimento del tutto
simile al precedente, si ottiene la relazione:
pOH ˆ pKb ‡ log
Cs
Cb
in cui: Kb = costante di dissociazione della base debole;
Cs = concentrazione molare del sale;
Cb = concentrazione molare della base.
Oltre alle due soluzioni sopra considerate, sono utilizzate in pratica altre soluzioni tampone, sempre costituite in genere da coppie coniugate acido-base, tra cui:
c) il sale acido e il sale neutro di un acido debole poliprotico, come per esempio NaHCO3
e Na2CO3. L'anione HCO3 rappresenta l'acido debole, mentre l'anione CO23 rappresenta la base coniugata, e il pH si deduce dall'espressione:
[H3 O‡ ] ˆ K2
[HCO3 ]
[CO23 ]
in cui K2 eÁ la seconda costante di dissociazione dell'acido carbonico;
d) due sali acidi di un acido debole triprotico, come per esempio NaH2PO4 e Na2HPO4.
Anche in questo caso, l'anione piuÁ idrogenato si comporta da acido debole, l'altro
anione da base coniugata, quindi:
[H3 O‡ ] ˆ K2
[H2 PO4 ]
[HPO24 ]
in cui K2 eÁ la seconda costante di dissociazione dell'acido fosforico.
Poiche il pH di una soluzione tampone dipende essenzialmente dal valore della Ka
dell'acido debole, cambiando l'acido si possono preparare soluzioni tampone che
coprono praticamente tutto il campo dei valori di pH. Per pH molto acidi o molto
basici, si utilizzano semplicemente soluzioni abbastanza concentrate di acidi o basi forti, i
quali agiscono anch'essi come tamponi.
EQUILIBRI ETEROGENEI: PRODOTTO DI SOLUBILITAÁ
Alcuni elettroliti solidi sono molto poco solubili in acqua, e la loro debole dissoluzione in
questo solvente avviene secondo due fasi distinte che per il cloruro di argento (AgCl),
l'elettrolita normalmente preso come modello per un simile fenomeno, sono le seguenti
(fig. 3.5):
a) AgCl(s) ! AgCl(sol: satura)
! Ag‡ ‡ Cl
b) AgCl
(sol: satura)
(aq)
(aq)
la cui costante di equilibrio, in funzione delle attivitaÁ, eÁ data dall'espressione:
Kˆ
aAg‡ aCl
aAgCl(s)
58
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
(3:20)
Figura 3.5
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
15. Equilibri eterogenei: prodotto di solubilitaÁ
Equilibrio di solubilitaÁ
del cloruro di argento.
Ag+
Cl–
(soluzione
satura di AgCl)
AgCl
(corpo di fondo)
Per convenzione, l'attivitaÁ di un solido puro eÁ unitaria (aAgCl(s) ˆ 1); inoltre, essendo la
soluzione satura del composto molto diluita, data la sua bassa solubilitaÁ, possiamo
identificare numericamente l'attivitaÁ di ciascuno ione con la sua concentrazione. La (3.20)
si riduce quindi alla seguente espressione:
Kps ˆ [Ag‡ ] [Cl ]
…3:21†
nella quale Kps prende il nome di costante del prodotto di solubilitaÁ (o, semplicemente,
prodotto di solubilitaÁ) dell'elettrolita.
L'equazione (3.21) che abbiamo ottenuto per il cloruro di argento, puoÁ essere ricavata per un qualsiasi altro elettrolita poco solubile, tenendo conto del numero e della
qualitaÁ degli ioni che da esso prendono origine quando, seppure in minima parte, si
scioglie in acqua. Per esempio, per l'elettrolita Zn(OH)2 abbiamo il seguente equilibrio
globale di solubilitaÁ:
Zn(OH)2(s) ! Zn2‡ ‡ 2 OH
pertanto la relativa Kps viene cosõÁ formulata:
Kps ˆ [Zn2‡ ][OH ]2
Per l'elettrolita Ag3 PO4 si ha il seguente equilibrio globale di solubilitaÁ:
Ag PO4(s) ! 3 Ag‡ ‡ PO3
3
4
pertanto la relativa Kps viene cosõÁ formulata:
Kps ˆ [Ag‡ ]3 [PO34 ]
Per l'elettrolita Ag2CrO4 si ha il seguente equilibrio globale di solubilitaÁ:
Ag2 CrO4(s) ! 2 Ag‡ ‡ CrO24
pertanto la relativa Kps viene cosõÁ formulata:
Kps ˆ [Ag‡ ]2 [CrO24 ]
e cosõÁ via.
Nella tabella 3.3, alla pagina seguente, vengono riportati i valori del prodotto di solubilitaÁ di alcuni elettroliti calcolati sperimentalmente alla temperatura di 25 8C.
EÁ possibile prevedere se si forma il precipitato di un elettrolita mescolando due soluzioni che contengono gli ioni dell'elettrolita in questione. Infatti, si forma il precipitato
solo se il prodotto delle concentrazioni molari dei suoi ioni, contenuti nelle due soluzioni
separate, supera il valore numerico del suo prodotto di solubilitaÁ.
In certi casi puoÁ accadere che, benche il prodotto delle concentrazioni ioniche in
soluzione superi il valore del prodotto di solubilitaÁ, non si noti alcun fenomeno di
precipitazione: tale soluzione si dice allora soprasatura ed essa eÁ un esempio di sistema
metastabile da cui si puoÁ ottenere la separazione del composto insolubile per semplice
agitazione o con l'aggiunta in soluzione di un cristallino del composto stesso che innesca il
processo di precipitazione.
59
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Tabella 3.3
.......................................................................................................................................................................................................................................
3. Equilibri nelle soluzioni acquose
Costanti del prodotto
di solubilitaÁ (Kps )
a 25 8C.
.......................................................................................
16
AgCl
1,7 10
10
Hg2Cl2
1,3 10
18
AgBr
5,0 10
13
HgS
4,0 10
53
AgI
8,3 10
17
Mg(OH)2
1,2 10
11
AgCN
7,1 10
13
MgNH4PO4
2,5 10
13
Ag2CrO4
1,7 10
12
MgCO3
2,6 10
5
Ag2S
2,0 10
49
Mn(OH)2
4,0 10
14
Ag2SO4
7,0 10
5
MnS
6,0 10
16
Ag3PO4
1,3 10
20
Ni(OH)2
1,6 10
16
Al(OH)3
2,0 10
33
NiS
3,0 10
19
BaCO3
8,1 10
9
PbCl2
1,6 10
5
BaCrO4
2,3 10
10
PbI2
1,4 10
8
BaSO4
1,1 10
10
PbCrO4
1,8 10
14
Bi(OH)3
1,0 10
30
PbSO4
1,6 10
8
Bi2S3
1,0 10
97
PbS
8,0 10
28
CaCO3
8,7 10
9
Pb(OH)2
2,0 10
16
CaF2
4,0 10
11
Sn(OH)2
5,0 10
26
Ca3(PO4)2
2,0 10
29
Sn(OH)4
1,0 10
57
CaSO4
2,0 10
4
SnS
8,0 10
26
CdS
7,8 10
27
SrCrO4
3,6 10
5
Cr(OH)3
6,6 10
31
SrSO4
3,8 10
7
CuS
8,5 10
36
SrCO3
1,1 10
10
Fe(OH)3
1,1 10
36
Zn(OH)2
1,2 10
17
Fe(OH)2
1,6 10
14
ZnS
1,0 10
23
FeS
1,5 10
19
EFFETTO DELLO IONE COMUNE SULLA SOLUBILITAÁ
DEI PRECIPITATI
Prendendo come esempio l'equilibrio di solubilitaÁ del cloruro di argento, espresso a
25 8C dalla relazione:
[Ag‡ ] [Cl ] ˆ 1,7 10 10
eÁ possibile prevedere le condizioni sperimentali adatte alla completa precipitazione, in
forma di cloruro insolubile, degli ioni Ag‡ oppure Cl , inizialmente contenuti in una
soluzione da analizzare.
Infatti, se si devono determinare gli ioni Ag‡ , eÁ chiaro che una accurata precipitazione degli
stessi puoÁ essere ottenuta aggiustando opportunamente la concentrazione degli ioni Cl
aggiunti come reattivo precipitante. Per esempio, se la concentrazione degli ioni Cl contenuti
nella soluzione sovrastante un precipitato di AgCl eÁ uguale a 1 10 4 M, poiche deve essere
soddisfatto il valore numerico del prodotto di solubilitaÁ dell'elettrolita alla temperatura data,
60
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.....................................................................................................
QUESITI
.....................................................................................................................................
17
la concentrazione residua degli ioni Ag‡ nella soluzione deve essere uguale a:
1,7 10 10
ˆ 1,7 10 6 M
1 10 4
mentre, se la concentrazione degli ioni Cl nella soluzione sovrastante il precipitato eÁ uguale
per esempio a 0,1 M, la concentrazione residua degli ioni Ag‡ nella soluzione diventa uguale a
1,7 10 9 M. Quindi, operando con un eccesso di reattivo precipitante, dovremmo essere
certi di ottenere un risultato analitico piuÁ esatto che non operando senza un eccesso di tale
reattivo. Questa conclusione eÁ peroÁ valida solo fino a un certo punto, in quanto un largo
eccesso di reattivo precipitante non solo non fa diminuire la solubilitaÁ del sale, che oltre un
certo limite rimane inalterata a temperatura costante, ma potrebbe portare addirittura alla
dissoluzione del precipitato in seguito alla formazione di ioni complessi solubili. Per esempio,
usando un largo eccesso di HCl per precipitare completamente gli ioni Ag‡ contenuti in una
soluzione, a spese del precipitato di AgCl formato si verifica la seguente reazione:
AgCl ‡ Cl ! AgCl
[Ag‡ ] ˆ
(s)
2(sol:)
EFFETTO SALE
Il motivo fondamentale per cui eÁ consigliabile, in genere, mantenere entro certi limiti
l'eccesso di reattivo precipitante, eÁ legato al fatto che un aumento notevole della
concentrazione degli ioni determina un abbassamento dei coefficienti di attivitaÁ, a causa
dell'aumentata forza ionica della soluzione. Ricordando l'espressione rigorosa del prodotto di solubilitaÁ (per esempio per AgCl):
Kps ˆ aAg‡ aCl ˆ fAg‡ [Ag‡ ] fCl [Cl ]
e tenendo presente che esso deve rimanere costante (a temperatura costante), si deduce che a
una diminuzione dei coefficienti di attivitaÁ deve corrispondere un aumento delle concentrazioni di Ag‡ e di Cl , il che equivale a un aumento della solubilitaÁ del composto.
Questo effetto (detto effetto sale) si puoÁ verificare non solo per aggiunta del reattivo
avente uno ione comune con il composto poco solubile, ma anche per aggiunta di un sale
estraneo, specialmente se i suoi ioni sono dotati di carica elevata.
I due effetti contrastanti (diminuzione di solubilitaÁ per effetto dello ione comune, aumento
di solubilitaÁ per effetto sale) non agiscono tuttavia in ugual misura per tutti i composti: se la
solubilitaÁ eÁ estremamente bassa (valori di Kps molto bassi) prevale comunque l'effetto dello
ione comune; se la solubilitaÁ non eÁ troppo bassa, si verifica che, mentre un lieve eccesso di
reattivo fa diminuire la solubilitaÁ per effetto dello ione comune, un forte eccesso di reattivo, a
causa dell'effetto sale, avraÁ come conseguenza di rendere piuÁ solubile il composto.
...................................................
QUESITI
1. Definisci la solubilitaÁ di una sostanza e indica da
quali fattori principali essa dipende.
2. Quale criterio consente di prevedere la dissoluzione delle particelle di un soluto in un solvente?
3. Indica in che cosa si differenziano gli elettroliti e i
non elettroliti; spiega per quale motivo gli elettroliti vengono classificati in elettroliti deboli e
forti.
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
4. Considera una vaschetta contenente una soluzione
acquosa di acido cloridrico nella quale sono immersi due fili metallici collegati l'uno al polo positivo (‡) e l'altro al polo negativo ( ) di un generatore di corrente continua. Spiega in che modo
avviene il trasporto della corrente elettrica nell'interno della vaschetta tenendo conto che attraverso i due fili metallici essa viene trasportata
dagli elettroni.
61
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
....................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3. Equilibri nelle soluzioni acquose
5. Spiega la differenza tra attivitaÁ e concentrazione
analitica della soluzione di un elettrolita. In quale
caso particolare queste due grandezze possono
essere considerate numericamente coincidenti?
22. Il prodotto ionico dell'acqua (Kw ) aumenta con
l'aumentare della temperatura. Il pH dell'acqua
pura aumenta o diminuisce con l'aumentare della
temperatura? E il pOH?
6. Spiega la differenza tra soluzione concentrata di un
acido e forza di un acido.
23. Quali grandezze potrebbero essere scelte per
confrontare tra loro la forza di due acidi deboli in
soluzione acquosa?
7. Il legame covalente tra un atomo di fluoro e un
atomo di idrogeno eÁ piuÁ polarizzato di quello tra
un atomo di cloro e un atomo di idrogeno.
Tuttavia l'acido cloridrico eÁ un acido forte,
mentre l'acido fluoridrico eÁ un acido debole.
PercheÂ?
8. Che cosa si intende per idratazione di una particella
in soluzione?
9. Perche il cloruro di sodio eÁ molto solubile in acqua
e insolubile nella benzina? Perche l'acqua eÁ insolubile nella benzina?
10. Perche eÁ impossibile preparare una soluzione di
soli cationi o di soli anioni?
11. Spiega il significato di molaritaÁ e molalitaÁ di una
soluzione e precisa da quali fattori esse dipendono.
Perche queste due grandezze risultano praticamente coincidenti in soluzioni acquose molto diluite? Perche esse non possono essere coincidenti
in soluzioni non acquose anche se molto diluite?
12. Indica in che cosa differiscono molaritaÁ e formalitaÁ
di una soluzione.
13. Indica rispettivamente quali sono le concentrazioni
molari di una soluzione 0,100 M di acido cloridrico
di volume pari a 1,00 mL, 10,0 mL e 100 mL.
14. Per calcolare la molalitaÁ di una soluzione nota la
sua molaritaÁ eÁ necessario conoscere la sua densitaÁ.
PercheÂ?
15. Perche l'acqua potabile conduce la corrente elettrica?
16. Qual eÁ la molaritaÁ di 1 L di acqua pura a 4 8C?
Perche a 4 8C?
17. Per quale ragione il peso equivalente delle sostanze
non puoÁ essere tabellato?
18. Definisci gli acidi e le basi secondo la teoria di
Brùnsted e Lowry.
19. Perche l'acqua eÁ anfotera? Qual eÁ la conseguenza
analitica piuÁ significativa di cioÁ?
20. Definisci il pH e il pOH. Qual eÁ il significato di
pIONE in analogia con il significato di pH e
pOH?
21. Perche nell'acqua pura esiste una piccola quantitaÁ
di ioni OH e di ioni H3 O‡ ? Come sono correlate
tra loro queste piccole quantitaÁ di ioni?
24. Quale effetto produce l'aggiunta di un acido forte
alla soluzione acquosa di un acido debole?
25. Alla temperatura di 35 8C, il pH dell'acqua pura eÁ
uguale a 6,84. Quanto vale il pOH alla medesima
temperatura?
26. Svante Arrhenius, il fondatore della teoria della
dissociazione elettrolitica, definõÁ acidi quelle sostanze che in soluzione acquosa liberano ioni H‡ e
basi quelle sostanze che liberano ioni OH . In una
soluzione acquosa di NaOH, qual eÁ la base secondo la teoria di Brùnsted e Lowry? Qual eÁ l'acido
coniugato di questa base?
27. In quali casi eÁ lecito esprimere il prodotto di solubilitaÁ di un elettrolita mediante il prodotto delle
concentrazioni molari dei suoi ioni?
28. Spiega perche il cloruro di argento eÁ piuÁ solubile in
acqua pura e meno solubile in una soluzione acquosa 0,1 M di cloruro di potassio.
29. Per quale ragione alcuni precipitati possono disciogliersi completamente se trattati con un largo
eccesso di reattivo precipitante?
30. A volte, mescolando due soluzioni contenenti gli
ioni di un precipitato, questo non si forma sebbene
il prodotto delle concentrazioni degli ioni dell'elettrolita superi il valore numerico del suo prodotto di solubilitaÁ. Quale potrebbe essere la ragione di tale fenomeno?
31. Non sempre eÁ possibile stabilire, dal semplice
confronto del prodotto di solubilitaÁ di due elettroliti, quale dei due eÁ piuÁ solubile. In quali casi
questo criterio eÁ valido?
32. Dato 1 L di soluzione satura di BaSO4 , in presenza
del sale solido come corpo di fondo, indica quale
effetto provoca sulla solubilitaÁ del sale:
a) l'aggiunta di 100 mL di soluzione di H2SO4
0,01 M;
b) l'aggiunta di 100 mL di soluzione di BaCl2 0,01 M;
c) l'aggiunta di 200 mL di acqua;
d ) l'aggiunta di BaSO4 solido;
e) il riscaldamento della soluzione da 25 8C a 50 8C
(si tenga presente che la dissoluzione di BaSO4 eÁ
un fenomeno endotermico);
f ) l'evaporazione di 200 mL di solvente dalla soluzione;
g) un aumento notevole della forza ionica della
soluzione.
62
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
4
Figura 4.1
.....................................................................................................................................................................................................................................................
1
Natura e proprietaÁ
della luce
TEORIA ONDULATORIA DELLA LUCE
Prima di affrontare le teorie sulla struttura dell'atomo elaborate dopo il modello atomico
suggerito da Rutherford, eÁ indispensabile prendere in esame alcune proprietaÁ caratteristiche della luce.
Con il termine luce viene comunemente indicata una forma di energia che la materia eÁ
capace di liberare e che, stimolando la sensibilitaÁ dell'occhio, provoca il fenomeno della
visione. Molti scienziati si dedicarono per molti anni allo studio di questa forma di energia
e, fra tutte le teorie formulate per spiegarne l'origine e la natura, quella che si dimostroÁ la
piuÁ valida per interpretare i fenomeni da essa provocati fu quella proposta da James
Maxwell,1 nel 1873, che prese il nome di teoria elettromagnetica-ondulatoria.
Secondo questa teoria, la luce visibile eÁ una forma di energia radiante che si propaga
nello spazio per mezzo di onde elettromagnetiche con una velocitaÁ che nel vuoto eÁ di circa
300 000 km/s e allo stesso modo si comportano le radiazioni invisibili, come le onde radio,
i raggi ultravioletti (UV), i raggi infrarossi (IR), i raggi X e i raggi gamma (g).
Mentre peroÁ alcuni fenomeni ottici provocati dalle radiazioni elettromagnetiche, come
quelli della riflessione, della rifrazione, dell'interferenza, della diffrazione, trovano l'esatta
interpretazione ammettendone la natura ondulatoria, altri fenomeni, fra i quali il piuÁ
importante eÁ l'effetto fotoelettrico, possono essere spiegati solo ammettendo l'ipotesi che
le radiazioni elettromagnetiche sono di natura corpuscolare; con quest'ultima ipotesi
peroÁ, i fenomeni come quello della riflessione e della rifrazione non trovano una valida
interpretazione. Per questa ragione eÁ stato necessario ammettere una natura dualistica
dell'energia radiante, nel senso che quando questa interagisce con la materia, manifesta, a
seconda dei casi, o un carattere ondulatorio oppure un carattere corpuscolare.
piano di vibrazione
del campo elettrico
Due degli infiniti piani
di vibrazione
delle linee di forza
del campo elettrico
e di quello magnetico
associati.
piano di vibrazione
del campo magnetico
direzione di
propagazione
della radiazione
1
James Clerk Maxwell (1831-1879), fisico e matematico scozzese.
63
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Movimento ondulatorio di un'onda elettromagnetica.
La teoria elettromagnetica-ondulatoria proposta da Maxwell, puoÁ essere riassunta nei
seguenti punti:
1. L'energia radiante eÁ generata da cariche elettriche in movimento che provocano
l'oscillazione contemporanea delle linee di forza di un campo elettrico e di un campo
magnetico su due piani perpendicolari fra loro, la cui intersezione coincide con la
direzione di propagazione della radiazione (fig. 4.1).
2. L'energia radiante si propaga nello spazio circostante in tutte le direzioni con un
movimento ondulatorio simile, per esempio, a quello provocato sulla superficie
dell'acqua stagnante quando vi viene gettato un sasso.
3. Il movimento ondulatorio di una radiazione elettromagnetica viene descritto da una
curva sinusoidale simile a quella della figura 4.2 nella quale viene riportato in ascissa il
tempo di durata del fenomeno ondulatorio, e in ordinata l'altezza (ampiezza) dell'onda.
T
(λ)
Ampiezza (A)
Figura 4.2
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
4. Natura e proprietaÁ della luce
A
A
0
Tempo
A
4. I parametri che caratterizzano un'onda elettromagnetica sono:
a) l'ampiezza (A) che eÁ l'altezza massima (positiva) o minima (negativa) raggiunta
dalla cresta dell'onda (fig. 4.2). Il quadrato di questa grandezza, secondo la teoria
ondulatoria, eÁ proporzionale all'intensitaÁ di una radiazione tramite la relazione:
I ˆ K A2
in cui K eÁ una costante di proporzionalitaÁ.
Poiche l'intensitaÁ di una radiazione viene definita dalla quantitaÁ di energia che
nell'unitaÁ di tempo perviene sull'unitaÁ di superficie di un ostacolo, piuÁ grande eÁ
l'ampiezza dell'onda di una radiazione elettromagnetica, maggiore eÁ la sua energia;
b) il periodo (T) che eÁ il tempo impiegato dalla radiazione elettromagnetica per
compiere una oscillazione completa, o cioÁ che eÁ lo stesso, l'intervallo minimo di
tempo necessario perche il fenomeno ondulatorio si ripeta esattamente nello stesso
modo. Per esempio, l'intervallo di tempo compreso fra due creste consecutive
dell'onda coincide con il periodo della radiazione (fig. 4.2). L'unitaÁ di misura del
periodo eÁ il secondo (s);
c) la frequenza (n), che eÁ l'inverso del periodo:
1
T
indica il numero di oscillazioni complete compiute dalla radiazione in un secondo.
Per esempio, se il periodo di una radiazione eÁ di un secondo, essa compie una sola
oscillazione completa al secondo (n ˆ 1=1 s ˆ 1 s 1 ); se il periodo di una radiazione
nˆ
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Tabella 4.1
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
1. Teoria ondulatoria della luce
Alcune unitaÁ di misura
della lunghezza d'onda
delle radiazioni
elettromagnetiche.
eÁ di due secondi, essa compie mezza oscillazione completa in un secondo (quindi
n ˆ 1=2 s ˆ 0,5 s 1 ); se il periodo di una radiazione eÁ di 10 9 s, essa compie 109
oscillazioni complete in un secondo (quindi n ˆ 1=10 9 s ˆ 109 s 1 ) e cosõÁ via. PiuÁ
piccolo eÁ il periodo di una radiazione elettromagnetica, piuÁ grande eÁ la sua frequenza.
L'unitaÁ di misura della frequenza, che eÁ l'inverso del secondo (s 1 ), viene detta
hertz (Hz) o anche ciclo al secondo (ciclo/s):
1 Hz ˆ 1 s
1
ˆ 1 ciclo=s
d) la lunghezza d'onda (l), che eÁ lo spazio percorso dalla radiazione elettromagnetica
nel tempo di un periodo, corrisponde, per esempio, alla distanza fra due creste
consecutive dell'onda (fig. 4.2). L'unitaÁ di misura della lunghezza d'onda nel Sistema Internazionale (S.I.) eÁ il metro; molto spesso peroÁ vengono usate le unitaÁ di
misura piuÁ piccole, alcune delle quali sono riportate nella tabella 4.1.
UnitaÁ di misura
Simbolo
Valore in metri (m)
micrometro (micron)
mm
1 mm ˆ 10
6
m
millimicron
mm
1 mm ˆ 10
9
m
9
m
nanometro
nm
1nm ˆ 10
angstrom
AÊ
1 AÊ ˆ 10
10
m
La relazione fra la lunghezza d'onda (l) di una radiazione elettromagnetica e la sua
velocitaÁ (v), eÁ data da:2
l ˆvT
(4:1)
(spazio) ˆ (velocita) (tempo)
PoicheÂ:
Tˆ
1
n
lˆ
v
n
la (4.1) diventa:
(4:2)
Dato che la velocitaÁ di una radiazione dipende dal mezzo attraversato, lo spazio che
essa puoÁ percorrere in un periodo T eÁ diverso da mezzo a mezzo, e quindi in base
alla relazione (4.1) una stessa radiazione elettromagnetica ha una diversa lunghezza
d'onda (l) in dipendenza del mezzo da essa attraversato. Da cioÁ consegue che la
grandezza che distingue una radiazione elettromagnetica da un'altra non eÁ la lunghezza d'onda, ma eÁ il periodo e quindi la frequenza.
Tuttavia, poiche normalmente viene considerata la velocitaÁ delle radiazioni elettromagnetiche nel vuoto, che eÁ uguale per tutte, e cioeÁ 300 000 km/s, da ora in poi
distingueremo le diverse radiazioni elettromagnetiche in base alla rispettiva lunghezza d'onda piuttosto che alla rispettiva frequenza.
2
Questo perche tutte le radiazioni elettromagnetiche procedono sempre con moto rettilineo uniforme, qualunque
sia il mezzo attraversato, e pertanto per esse eÁ valida la legge oraria della cinematica per la quale: spazio percorso
ˆ velocitaÁ tempo.
65
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 4.3
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
4. Natura e proprietaÁ della luce
La (4.2) scritta nella forma:
nˆ
c
l
(4:3)
in cui c eÁ la velocitaÁ delle radiazioni elettromagnetiche nel vuoto, ci consente anche
di affermare che quanto piuÁ grande eÁ la lunghezza d'onda di una radiazione, tanto
piuÁ basso eÁ il valore della sua frequenza, e inversamente, quanto piuÁ piccola eÁ la
lunghezza d'onda di una radiazione, tanto piuÁ alta eÁ la sua frequenza.
5. Una radiazione elettromagnetica caratterizzata da un solo valore di lunghezza d'onda,
o meglio, da un solo valore di frequenza, si dice monocromatica; un insieme di radiazioni monocromatiche costituisce una radiazione policromatica.
Per esempio, la luce bianca irradiata dal sole o da una comune lampadina a
incandescenza, eÁ formata da un miscuglio di radiazioni monocromatiche di colore
diverso, in quanto, incidendo la faccia di un prisma di materiale trasparente (di vetro o
di quarzo) con un pennello di luce bianca, questo viene risolto nelle singole radiazioni
monocromatiche costituenti, come mostrato in figura 4.3.
Dispersione della luce
bianca.
Tabella 4.2
Lunghezza d'onda in
angstrom (AÊ) e in nanometri (nm) delle radiazioni visibili.
Figura 4.4
raggio
di luce
bianca
prisma di vetro
ros
s
ara o
n
gia cione
llo
verd
e
blu
viol
etto
La successione delle radiazioni che compongono lo spettro visibile eÁ riportata nella
tabella 4.2.
Violetto
Azzurro
Verde
Giallo
Rosso
4000 AÊ
400 nm
4600 AÊ
460 nm
5000 AÊ
500 nm
6000 AÊ
600 nm
7000 AÊ
700 nm
6. Quando due o piuÁ radiazioni monocromatiche, caratterizzate quindi dalla stessa
lunghezza d'onda, percorrono lo stesso mezzo nella stessa direzione e verso, possono
verificarsi tre casi:
a) le loro creste coincidono (fig. 4.4) e allora esse vengono dette in concordanza di fase;
in questo caso la loro combinazione daÁ come risultato finale un'unica onda che ha la
stessa lunghezza e frequenza di quelle di origine e un'ampiezza A uguale alla
somma delle ampiezze di ciascuna di esse. Questo fenomeno eÁ noto col nome di
rafforzamento. Pertanto, in base alla teoria elettromagnetica di Maxwell, il raf-
Rafforzamento di due
radiazioni elettromagnetiche.
66
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Tabella 4.3
Caratteristiche
di alcune radiazioni
elettromagnetiche.
67
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
radiazioni ultraviolette (UV)
raggi X
raggi gamma
raggi gamma della radiazione cosmica
3 1015 Hz
3 1016 Hz
3 1016 Hz
3 1020 Hz
3 1020 Hz
3 1022 Hz
3 1022 Hz
3 1023 Hz
da 400 nm
a 10 nm
da 10 nm
a 0,001 nm
da 0,001 nm
a 0,000 01 nm
da 0,000 01 nm
a 0,000 001 nm
Radiazioni invisibili
da 800 nm
a 400 nm
spettro visibile
radiazioni infrarosse (IR)
3 1011 Hz
3 1014 Hz
da 1 mm
a 0,8 mm
(800 nm)
3 1014 Hz
3 1015 Hz
microonde
3 108 Hz
3 1011 Hz
da 1 m
a 1 mm
Radiazioni visibili
onde kilometriche a bassa frequenza
onde kilometriche a media frequenza
onde radio ad alta frequenza
Denominazione
3 104 Hz
3 105 Hz
3 106 Hz
Frequenza (n)
10 km
1 km
100 m
Radiazioni invisibili
Lunghezza d'onda (l)
corpi celesti
nuclei radioattivi
bombardamento
elettronico di solidi
atomi nelle scariche
elettriche
corpi caldi; atomi e molecole
corpi caldi
dispositivi elettronici
dispositivi elettronici
dispositivi elettronici
dispositivi elettronici
Sorgente
±
medicina
analisi chimica; medicina
analisi chimica; cellule
fotoelettriche
fotografia; analisi chimica
riscaldamento; laser;
analisi chimica
televisione e radar
comunicazioni radio
comunicazioni radio
comunicazioni radio
Impieghi principali
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
1. Teoria ondulatoria della luce
Figura 4.5
Interferenza totale.
.................................................................................................................
4. Natura e proprietaÁ della luce
Figura 4.6
..............................................................................................................................................................................................................
2
forzamento di una radiazione eÁ accompagnato da un aumento della sua intensitaÁ
(energia) dato che I ˆ K A2 ;
b) le creste delle onde non coincidono affatto, nel senso che alternativamente il massimo positivo di un'onda coincide con il massimo negativo dell'altra (fig. 4.5) e allora
esse sono in opposizione di fase; in questo caso la loro combinazione non daÁ alcuna
onda finale risultante. Questo fenomeno eÁ noto col nome di interferenza totale;
c) infine puoÁ verificarsi il caso intermedio fra i casi a e b, e allora si ha come risultato
finale un'onda la cui ampiezza A eÁ sempre minore della somma di quelle di origine.
Nella tabella 4.3 si riporta la classificazione di alcune radiazioni elettromagnetiche
in base alle loro caratteristiche principali e ad alcune loro proprietaÁ.
TEORIA CORPUSCOLARE DELLA LUCE
La natura corpuscolare della luce, sostenuta da Isaac Newton3 per primo, secondo il
quale un raggio luminoso era formato da uno sciame di corpuscoli e che era stata
accantonata a favore della natura ondulatoria proposta da Maxwell, fu sorprendentemente riabilitata da Max Planck4 nel 1900. Infatti a quel tempo era noto che i solidi
incandescenti emettevano energia sotto forma di radiazioni elettromagnetiche le cui
lunghezze d'onda seguivano un andamento riprodotto nella figura 4.6, da cui risultava
che piuÁ alta era la temperatura del solido incandescente, maggiore era la percentuale di
energia raggiante emessa dalle radiazioni con piuÁ piccola lunghezza d'onda.
Andamento dell'energia delle radiazioni
elettromagnetiche
emesse, a diverse
temperature (1000 8C,
1500 8C e 2500 8C),
da un solido
incandescente o
corpo nero.5
2500 °C
Energia emessa
1500 °C
0
1000 °C
Lunghezza d’onda
3
Isaac Newton (1642-1727), fisico, matematico e astronomo inglese.
Max Planck (1858-1947), fisico tedesco, premio Nobel nel 1918.
5
Un corpo nero puoÁ essere assimilato a un oggetto ideale all'interno del quale eÁ stata praticata una piccola cavitaÁ che
un minuscolo foro mette in comunicazione con l'esterno. Riscaldando l'oggetto a una temperatura costante sufficientemente elevata, esso emette radiazioni elettromagnetiche che nella condizione ideale possono essere osservate solo
attraverso il minuscolo foro; una situazione analoga si verifica quando osserviamo, attraverso una piccola fessura, le
radiazioni emesse da un altoforno.
4
68
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
2. Teoria corpuscolare della luce
Ora, sebbene in accordo con la teoria elettromagnetico-ondulatoria della luce proposta
da Maxwell, l'emissione di radiazioni elettromagnetiche da parte dei solidi incandescenti
veniva agevolmente spiegata in termini di agitazione provocata dal riscaldamento delle
particelle elettricamente cariche (i protoni) di cui eÁ costituita la materia, erano tuttavia
falliti tutti i tentativi di dedurre, applicando le leggi dettate da questa teoria, una formula
matematica che potesse interpretare validamente l'andamento delle curve sperimentali
riprodotte nella figura 4.6: si perveniva sempre a formule risolutive finali la cui applicazione forniva risultati in netto contrasto con quelli osservati sperimentalmente.
Questo problema rimase insoluto fino a quando Planck formuloÁ l'ipotesi che le
particelle di un solido incandescente potessero comportarsi come piccoli oscillatori
vibranti per i quali erano permesse solo ben determinate frequenze di vibrazione e non
altre. Ebbene, ammettendo che l'energia emessa o assorbita6 dalla materia potesse essere
direttamente proporzionale alle frequenze di vibrazione permesse per questi piccoli
oscillatori vibranti, ne conseguiva che la materia era in grado di emettere o di assorbire
l'energia in modo discontinuo, vale a dire per quantitaÁ finite (discrete). L'ammontare di
questa energia poteva quindi essere uguale o multiplo intero di una quantitaÁ elementare
(indivisibile) di energia il cui valore E era dato dal prodotto di una costante h per la
frequenza di vibrazione n dell'oscillatore:
E ˆ hn
(4:4)
Questa quantitaÁ elementare E di energia fu chiamata da Planck quanto (o quantum) di
energia.
Risultava allora chiaro che se per i piccoli oscillatori di un solido incandescente erano
permesse, per esempio, le frequenze di vibrazione n1 , n2 e n3 , ma non quella n4 , essi
potevano emettere o assorbire solo quanti di energia a ciascuno dei quali competeva
l'energia elementare E1 ˆ hn1 , oppure E2 ˆ hn2 , o E3 ˆ hn3 , ma non quella E4 ˆ hn4
perche la frequenza di vibrazione n4 era vietata per gli oscillatori.
Basandosi su queste premesse del tutto rivoluzionarie nei confronti della teoria
elettromagnetica classica dell'epoca, in base alla quale i sistemi materiali avrebbero potuto
emettere o assorbire l'energia in qualunque misura, Planck dedusse la legge matematica
mediante la quale fu possibile interpretare in modo completo e inequivocabile l'andamento
delle curve sperimentali riprodotte nella figura 4.6.
Era nata la teoria dei quanti (o dei quanta) che, dal nome del suo scopritore, fu
chiamata teoria di Planck. Di conseguenza l'equazione 4.4:
E ˆ hn
prese il nome di equazione di Planck, mentre la costante h eÁ conosciuta come costante di
Planck. Questa costante, che nel Sistema Internazionale delle unitaÁ di misura eÁ uguale a
6,626 10 34 J s (joule per secondo), eÁ una costante universale.
In base a questa teoria, oggi universalmente accettata, l'energia, in qualunque forma
essa si manifesti (elettrica, magnetica, meccanica, acustica, termica, elettromagnetica), eÁ
quantizzata, vale a dire che essa puoÁ essere liberata o assorbita dalla materia solo in modo
discontinuo, ossia per mezzo di granuli indivisibili di energia che vengono chiamati
quanti di energia.7
6
Emessa o assorbita perche l'energia non si crea ne si distrugge (primo principio della termodinamica). Se un corpo
incandescente emette energia (per esempio energia elettromagnetica), la medesima quantitaÁ di energia deve essergli
fornita dalla sorgente che lo rende incandescente.
7
Il concetto di quantizzazione, formulato inizialmente dalla mente geniale di Planck per l'energia, verraÁ esteso, come
vedremo, a tutta una serie di altre grandezze fisiche. Pertanto si tenga a mente che quantizzare una grandezza fisica
equivale a stabilire che essa non possa assumere qualunque valore, ma solamente i valori uguali alla piuÁ piccola quantitaÁ
sperimentalmente misurabile o teoricamente deducibile di questa grandezza (il quantum o quanto della grandezza),
oppure a un multiplo intero del quantum.
69
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.................................................................................................................................................................
4. Natura e proprietaÁ della luce
Figura 4.7
Effetto fotoelettrico.
........................................................................................................................................................
3
Nel caso particolare delle radiazioni elettromagnetiche, il quanto di energia radiante (o
raggiante) viene chiamato quanto di luce o fotone. Ciascun fotone contiene pertanto
l'energia elementare (indivisibile) E data da:
E ˆ hn
dove n eÁ la frequenza di oscillazione dell'onda elettromagnetica, mentre h eÁ la costante di
Planck.
Ecco allora confermata la natura corpuscolare della luce, senza peroÁ, come abbiamo
in precedenza sottolineato, poterne escludere la natura ondulatoria: la luce, a seconda
dei casi, si comporta come onda o corpuscolo.
In accordo con la teoria corpuscolare dell'energia radiante, un raggio di luce
monocromatica con la frequenza n deve essere immaginato come uno «sciame» di palline
di energia elettromagnetica (i fotoni) tutte uguali tra loro, a ciascuna delle quali compete
l'energia elementare E data da E ˆ hn. Ovviamente, un raggio di luce policromatica,
come per esempio la luce bianca del sole, essendo formato da un miscuglio di radiazioni
monocromatiche diverse (colori diversi), una per esempio con frequenza n1 , un'altra con
frequenza n2 , un'altra ancora con frequenza n3 , deve essere immaginato come un insieme
di fotoni con differenti energie; ad alcuni di questi fotoni compete infatti l'energia
elementare E1 ˆ hn1 , ad altri l'energia elementare E2 ˆ hn2 , ad altri ancora l'energia
elementare E3 ˆ hn3 , e cosõÁ via.
EÁ chiaro quindi che se confrontiamo tra loro due diverse radiazioni monocromatiche, l'una di colore rosso (n ˆ 3 1014 Hz) e l'altra di colore violetto (n ˆ 3 1015 Hz),
a ciascun fotone della radiazione violetta (quella con frequenza piuÁ elevata) deve
competere un'energia maggiore di quella posseduta da ciascun fotone della radiazione
rossa.
EFFETTO FOTOELETTRICO
Quando la luce colpisce la superficie di un metallo, in particolare di un metallo alcalino,
questo emette degli elettroni, detti fotoelettroni, i quali non si differenziano dagli elettroni
ordinari, mentre la superficie del metallo rimane caricata positivamente (fig. 4.7a).
Questo fenomeno, noto come effetto fotoelettrico (uno dei fenomeni determinanti a
favore della teoria corpuscolare delle radiazioni) eÁ caratterizzato da due fatti sperimentalmente accertati:
G
e–
hν
e–
lamina
di
metallo
hν
+
+
R
elettroni
e–
–
hν
a)
–
b)
70
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
luc
e
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3. Effetto fotoelettrico
1. Qualunque sia l'intensitaÁ della radiazione, l'emissione di elettroni non avviene se la
radiazione ha una frequenza inferiore a un valore minimo (frequenza di soglia
fotoelettrica).
2. L'energia cinetica degli elettroni espulsi dalla superficie della lamina del metallo irradiato eÁ costante e indipendente dall'intensitaÁ della luce usata e dipende solo dalla
frequenza della radiazione, aumentando all'aumentare di questa.
Tali fatti sperimentali non trovano spiegazione nell'ambito della teoria ondulatoria della
luce, secondo cui se si aumenta l'intensitaÁ della radiazione incidente si puoÁ concentrare in
un punto un'energia grande quanto si vuole; di conseguenza qualsiasi radiazione, purcheÂ
di intensitaÁ sufficientemente elevata, potrebbe espellere un elettrone dall'atomo,
indipendentemente dalla sua frequenza, cosa che invece non trova conferma sperimentale.
Una spiegazione esauriente di questi fenomeni fu data da Albert Einstein8, il quale,
sulla base della teoria quantistica dell'energia enunciata da Planck, formuloÁ l'ipotesi
(esposta nel paragrafo precedente) che una radiazione fosse costituita da «granuli»
elementari di energia (quanti di luce o fotoni).
Quando un fotone colpisce un elettrone, la sua energia E ˆ hn viene in parte utilizzata
per strappare l'elettrone dall'atomo, in parte per fornire allo stesso elettrone dell'energia
cinetica:
1
E ˆ hn ˆ E0 ‡ mv2
2
Se la frequenza n del fotone eÁ inferiore a un dato valore ( frequenza di soglia, corrispondente all'energia E0 ˆ hn0 ), l'energia che esso possiede non eÁ sufficiente a produrre
l'effetto fotoelettrico.
Gli elettroni emessi, se sottoposti a una differenza di potenziale applicata tra il metallo
stesso (che costituisce il polo negativo) e un altro elettrodo che costituisce il polo positivo
(come nel circuito di figura 4.7b), daranno origine a una corrente elettrica, segnalata dal
galvanometro G.
Si spiega quindi perche una radiazione di debolissima intensitaÁ, ma di frequenza
superiore a n0 , possa provocare un passaggio di corrente, anche se molto debole, e percheÂ
invece una radiazione di forte intensitaÁ, ma di frequenza inferiore a n0 , non possa in alcun
modo dare origine all'emissione di fotoelettroni (la probabilitaÁ che due fotoni colpiscano
contemporaneamente un elettrone eÁ trascurabile), per cui lo strumento non potraÁ
segnalare alcun passaggio di corrente.
8
Albert Einstein (1879-1855) Fisico e matematico tedesco, premio Nobel nel 1921.
71
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
4. Natura e proprietaÁ della luce
........................................................................................................................................
QUESITI
1. Spiega la differenza tra fotone e protone, e tra fotone e quantum di luce.
2. Perche si deve ammettere la natura dualistica della
luce?
3. L'effetto fotoelettrico puoÁ essere interpretato solo
ammettendo la natura corpuscolare della luce.
Illustra un fenomeno provocato dalle radiazioni
elettromagnetiche che puoÁ essere interpretato solo
ammettendone la natura ondulatoria.
4. Una radiazione monocromatica puoÁ essere caratterizzata da piuÁ valori di lunghezza d'onda. EÁ
esatta questa affermazione?
5. Per quale ragione i raggi X e i raggi g hanno un
elevato potere penetrante?
6. Gli ultrasuoni sono onde acustiche (meccaniche)
che non possono essere percepite dall'orecchio
umano, come non vengono percepite dall'occhio
umano tutte le radiazioni cosiddette invisibili.
Fornisci una spiegazione per questi due fatti.
7. Spiega il fenomeno dell'interferenza e del rafforzamento delle radiazioni elettromagnetiche.
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
8. Possiede maggiore energia un fotone di una
radiazione gialla o un fotone di una radiazione
blu?
9. Se una radiazione di forte intensitaÁ, colpendo la
superficie di un metallo, non provoca alcuna
emissione di elettroni, che cosa se ne puoÁ dedurre?
10. In che cosa consiste la quantizzazione dell'energia?
11. Quando una radiazione passa dal vuoto a un
mezzo materiale, quale grandezza cambia per tale
radiazione?
12. Come si puoÁ ottenere una radiazione monocromatica?
13. In che cosa differiscono due radiazioni della stessa
lunghezza d'onda, ma di diversa ampiezza?
14. Ordina secondo la lunghezza d'onda crescente le
seguenti radiazioni: onde radio; raggi g; raggi infrarossi; luce verde.
15. Ordina secondo la frequenza crescente le seguenti
radiazioni: raggi ultravioletti; luce rossa; luce gialla;
raggi X.
72
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
5
.....................................................................................................................................................................................................................................................
1
Il modello dell'atomo
secondo la fisica classica
I PRIMI MODELLI DELL'ATOMO
I risultati cui si giunse nello studio della struttura intima della materia tra gli ultimi
decenni dell'ottocento e i primi decenni del novecento possono essere riassunti nei
seguenti punti:
1. La varietaÁ e la molteplicitaÁ della materia, cosõÁ come si manifestano alle nostre
osservazioni, sono dovute alla combinazione in diverso numero e specie di particelle
fondamentali di materia dette atomi.
2. Gli atomi hanno una massa estremamente piccola che eÁ dell'ordine di 10 24 g e,
indipendentemente dalla loro osservazione avvenuta solo di recente, la loro esistenza non puoÁ essere negata, altrimenti non potrebbero essere esaurientemente
spiegati tutti quei fenomeni che coinvolgono la trasformazione delle sostanze in
altre sostanze.
3. Tutti gli atomi, indipendentemente dalla loro provenienza, sono formati da particelle
subatomiche, le piuÁ significative delle quali sono:
massa assoluta: 9,1095 10 28 g;
carica elettrica elementare negativa: 1,602 10 19 C;
posizione: fuori del nucleo atomico;
b) il protone massa assoluta: 1836 volte quella dell'elettrone, ovvero 1,6726 10
carica elettrica elementare positiva: 1,602 10 19 C;
posizione: nel nucleo atomico;
c) il neutrone massa assoluta: 1839 volte quella dell'elettrone, ovvero 1,6749 10
carica elettrica: nessuna;
posizione: nel nucleo atomico.
a) l'elettrone
24
g;
24
g;
4. Le grandezze che caratterizzano gli atomi dei diversi elementi sono il numero atomico
Z e il numero di massa A.
5. Nell'atomo elettricamente neutro, il numero di protoni del nucleo eÁ uguale al numero
di elettroni extranucleari.
6. Due o piuÁ atomi che hanno lo stesso numero atomico ma diverso numero di massa
sono detti isotopi.
7. La successione degli elementi nella tavola periodica di Mendeleev non procede
seguendo necessariamente l'ordine del loro peso atomico crescente, ma quello del
numero atomico crescente, il quale aumenta in modo regolare passando da un
elemento al successivo.
La scoperta degli elettroni e dei protoni, particelle piuÁ piccole dell'atomo, fece cadere
definitivamente il principio della sua indivisibilitaÁ e, con esso, il modello dell'atomo
73
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 5.1
I primi due modelli
dell'atomo.
Figura 5.2
................................................................................................................................................................................................................................................
5. Il modello dell'atomo secondo la fisica classica
elettrone
+
.......................................................................
–
+
–
+
+
–
–
+
a)
Atomo di Dalton
b)
Atomo di Thomson
proposto da John Dalton nel 1803, che l'aveva immaginato come una piccola sfera
indivisibile di materia compatta (figura 5.1a). Fu Thomson1 che per primo (nel 1897)
propose per l'atomo un modello che teneva conto dell'esistenza di particelle subatomiche
cariche di elettricitaÁ. Egli l'immaginoÁ come una piccola sfera carica di elettricitaÁ positiva
(determinata da uno o piuÁ protoni), all'interno della quale erano omogeneamente dispersi
altrettanti elettroni (figura 5.1b).
Anche il modello dell'atomo proposto da Thomson non resse ai successivi progressi
scientifici (scoperta dei raggi X, radioattivitaÁ). Le esperienze condotte da Ernest
Rutherford 2 permisero a questi (nel 1911) di proporre un nuovo modello dell'atomo,
che egli pensoÁ essere formato da un nucleo positivo costituito da uno o piuÁ protoni, in
dipendenza della natura dell'elemento, e nel quale era praticamente concentrata tutta la
massa atomica (teniamo conto che il protone ha una massa 1836 volte maggiore di quella
dell'elettrone); per assicurare l'elettroneutralitaÁ dell'atomo, un numero di elettroni uguale
a quello dei protoni, nel contempo, ruotava velocemente intorno al nucleo a una certa
distanza da questo (figura 5.2).
–
–
Atomo di Rutherford.
2
protone
–
nucleo
–
+
+
+
+
+
+
+
–
protoni
–
–
–
elettroni
SPETTRO DI EMISSIONE DELL'IDROGENO
Sottoponendo all'azione di una scarica elettrica l'idrogeno contenuto a bassa pressione in
un tubo di materiale trasparente, per esempio di quarzo, questo emette energia radiante
sotto forma di un numero relativamente piccolo di radiazioni monocromatiche, alcune
delle quali sono comprese nello spettro della luce visibile. Infatti, isolando un fascio delle
radiazioni emesse, che costituiscono lo spettro di emissione dell'elemento eccitato, per
1
2
Joseph John Thomson (1856-1940), fisico inglese, premio Nobel nel 1906.
Ernest Rutherford (1871-1937), fisico inglese, premio Nobel nel 1908.
74
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 5.3
........................................................................................................................................................................
3. La teoria di Bohr e il suo modello dell'atomo di idrogeno
idrogeno
Registrazione su lastra fotografica dello
spettro di emissione
dell'idrogeno.
.................................................................................................................................................
3
fascio di luce
policromatica
lastra
fotografica
schermo
alta
tensione
fasci di
radiazioni
monocromatiche
+
righe dello
spettro
–
fenditura
prisma di quarzo
mezzo di una sottile fessura rettangolare, e facendolo incidere sulla faccia di un prisma di
quarzo, esso viene risolto nelle singole radiazioni monocromatiche costituenti, come
illustrato nella figura 5.3.
Dalla figura 5.3 si puoÁ inoltre osservare che ogni radiazione monocromatica cosõÁ
isolata viene poi inviata su una lastra fotografica sulla quale, dopo lo sviluppo, risultano
registrate tante immagini della sottile fenditura, ovvero tante righe quante sono state le
radiazioni monocromatiche emesse. In questo modo sulla lastra fotografica possono
essere registrate le diverse radiazioni emesse dall'elemento eccitato che costituiscono
quello che viene detto spettro di emissione di righe dell'elemento.3
Riferendoci in particolare alle radiazioni visibili emesse dall'idrogeno eccitato, le
rispettive lunghezze d'onda sono 656,3 nm, 486,1 nm, 434,0 nm e 410,1 nm.
LA TEORIA DI BOHR E IL SUO MODELLO
DELL'ATOMO DI IDROGENO
La regolaritaÁ dello spettro di emissione di un elemento, ovvero il fatto che esso era sempre
formato dalle medesime e caratteristiche radiazioni, indipendentemente dalla sua provenienza e da eventuali precedenti eccitazioni cui fosse stato sottoposto, non trovava alcuna
valida spiegazione con il modello dell'atomo che era stato proposto da Ernest Rutherford
nel 1911. Questo perche un tale modello era in netto contrasto con la fisica classica, e cioeÁ
con la teoria elettromagnetica di James Clerk Maxwell, secondo la quale le radiazioni
elettromagnetiche sono generate da cariche elettriche in movimento. Infatti, prendendo
in esame lo spettro di emissione degli elementi e ammettendo l'ipotesi che la scarica
elettrica, mediante la quale esso era stato ottenuto, avesse avuto la sola funzione di
ottenere atomi isolati dell'elemento sottoposto a eccitazione, ogni elettrone orbitante
intorno al nucleo di un atomo, essendo una carica elettrica in movimento, per ogni orbita
descritta avrebbe dovuto emettere una radiazione elettromagnetica caratterizzata da una
frequenza uguale all'inverso del periodo (T) di rivoluzione dell'elettrone stesso intorno al
nucleo. In questo modo peroÁ, ogni elettrone, liberando energia radiante a spese della
propria energia,4 l'avrebbe via via dissipata, e quindi essendo piuÁ fortemente attratto dal
3
Tutti gli atomi degli elementi, opportunamente eccitati, per esempio mediante energia termica, elettrica e cosõÁ via,
emettono un caratteristico spettro di righe che puoÁ essere utilizzato per distinguere i diversi elementi fra loro (analisi
qualitativa).
4
L'energia non si crea ne si distrugge.
75
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
5. Il modello dell'atomo secondo la fisica classica
nucleo (positivo), avrebbe dovuto descrivere delle orbite via via sempre piuÁ piccole (a
spirale) con una velocitaÁ sempre piuÁ elevata, per cadere infine nel nucleo dell'atomo in un
tempo che fu calcolato essere uguale a circa 10 11 s. Pertanto, ammettendo la validitaÁ del
modello atomico proposto da Rutherford, ogni elettrone orbitante intorno al nucleo di un
atomo doveva descrivere una successione continua di orbite sempre piuÁ piccole caratterizzate da una frequenza di rivoluzione via via crescente, e quindi non solo lo spettro di
emissione degli elementi doveva essere formato da un insieme continuo di radiazioni (una
per ogni periodo di rivoluzione dell'elettrone), ma come risultato finale si doveva avere
anche la distruzione dell'edificio atomico e quindi la perdita delle caratteristiche chimicofisiche dell'elemento sottoposto a eccitazione. Ma la realtaÁ era ben diversa, in quanto:
1. Lo spettro di emissione degli elementi era sempre formato da un numero discreto e
discontinuo di radiazioni che erano diverse da elemento a elemento e caratteristiche
per ciascuno di essi.
2. Lo stesso elemento, sottoposto a successive scariche elettriche, non modificava affatto
il suo caratteristico spettro di emissione e pertanto gli atomi dovevano essere particelle
stabili di materia.
Il primo ad affrontare il suggestivo problema del mondo dell'atomo su basi matematiche
fu Niels Bohr,5 il quale per fornire una spiegazione logica alle righe dello spettro di
emissione dell'idrogeno, formuloÁ nel 1913 una nuova teoria sulla struttura dell'edificio
atomico di questo elemento.
Bohr innanzitutto accettoÁ il modello planetario dell'atomo proposto da Rutherford,
tuttavia per non contraddire le leggi della fisica classica, sulla quale si fondava la teoria di
Maxwell, introdusse alcuni postulati suggeritigli dalla teoria dei quanta di Planck, i quali,
sebbene allora non avessero alcun fondamento teorico, furono in seguito sorprendentemente confermati da una nuova teoria matematica denominata meccanica quantistica o
meccanica ondulatoria, rivelatasi il piuÁ completo mezzo di indagine matematica per lo
studio dell'intima struttura dei sistemi microscopici come gli atomi e le molecole.
I postulati di Bohr possono essere cosõÁ riassunti:
primo postulato: l'elettrone dell'atomo di idrogeno puoÁ descrivere intorno al nucleo solo
ben determinate orbite privilegiate circolari, il cui raggio pertanto puoÁ assumere solo
valori definiti. Quando l'elettrone percorre queste orbite privilegiate, chiamate da Bohr
stati stazionari, l'atomo di idrogeno non emette ne assorbe energia;
secondo postulato: in ciascuno di questi stati stazionari all'elettrone competono solo
valori ben determinati di energia. Normalmente, vale a dire nell'atomo non eccitato,
l'elettrone percorre lo stato stazionario piuÁ vicino al nucleo: quello caratterizzato dal
valore minimo di energia rispetto a quella di tutti gli altri stati stazionari permessi; a
questo stato stazionario dell'elettrone corrisponde lo stato fondamentale dell'atomo di
idrogeno che pertanto ha il minor contenuto di energia possibile. A tutti gli altri stati
stazionari descritti dall'elettrone, le cui energie aumentano man mano che ci si allontana
dal nucleo atomico, corrispondono stati eccitati dell'atomo di idrogeno che pertanto ha
un contenuto di energia piuÁ elevata di quella da esso posseduta nello stato fondamentale;
terzo postulato: poiche a ognuno dei possibili stati stazionari percorsi dall'elettrone
corrispondono ben definiti valori di energia dell'atomo, nel senso che fra uno stato
stazionario e quello immediatamente precedente o successivo non esistono altri stati
stazionari permessi, l'assorbimento o l'emissione di energia (per esempio di energia
radiante) da parte dell'atomo di idrogeno, in accordo con la teoria di Planck, avviene solo
per quantitaÁ discrete (quanta) di energia.
5
Niels Bohr (1885-1962), fisico danese, premio Nobel nel 1922.
76
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3. La teoria di Bohr e il suo modello dell'atomo di idrogeno
CioÁ significa che a ogni quantum di energia assorbito corrisponde un salto dell'elettrone
fra due qualsiasi stati stazionari permessi: da uno a minore energia a un altro a maggiore
energia; quindi l'energia assorbita eÁ uguale alla differenza delle energie possedute dall'atomo nei due stati stazionari percorsi dall'elettrone.
Analogamente, l'emissione di energia (per esempio di energia radiante) da parte
dell'atomo avviene sempre per quantitaÁ discrete, nel senso che l'emissione di ogni
quantum di energia corrisponde al salto dell'elettrone fra due stati stazionari permessi:
da uno a maggiore energia a un altro a minore energia; anche in questo caso, l'energia
emessa eÁ uguale alla differenza delle energie possedute dall'atomo nei due stati stazionari
occupati dall'elettrone.
Per esempio, se l'elettrone salta o, con linguaggio piuÁ aderente alla teoria di Bohr,
effettua una transizione quantica (DE) fra due stati stazionari le cui energie siano
rispettivamente E0 (energia allo stato fondamentale dell'atomo) ed E1 (energia allo stato
eccitato dell'atomo), con E1 maggiore di E0, l'energia assorbita eÁ:
DE ˆ E1
E0
DE ˆ E0
E1
mentre l'energia emessa eÁ:
e cioeÁ i due valori, quello dell'energia assorbita e quello dell'energia emessa, sono uguali
numericamente ma di segno contrario. PoicheÂ, dalla teoria di Planck, l'energia E
posseduta da ogni quantum di energia eÁ data da:
E ˆ hn
per ogni transizione quantica dell'elettrone fra due stati stazionari permessi, viene emesso
o assorbito un quantum di energia, per esempio radiante, la cui frequenza, n, eÁ:
nˆ
E
h
in cui E eÁ la differenza di energia (DE) fra due stati stazionari dell'elettrone.
EÁ chiaro, a questo punto, che se un atomo di idrogeno o anche di un qualsiasi altro
elemento viene sottoposto all'azione di un insieme di radiazioni di diversa energia
(frequenza), verranno assorbite solo quelle radiazioni in grado di provocare le transizioni
quantiche dell'elettrone dallo stato stazionario E0, che eÁ quello fondamentale, a quelli
eccitati permessi E1, E2, E3 e cosõÁ via, ovvero quei fotoni la cui energia eÁ esattamente
uguale a quella richiesta: E1 E0 , oppure E2 E1 , e cosõÁ via; invece quei fotoni la cui
energia eÁ diversa da quella richiesta, non verranno assorbiti.
Inversamente, poiche l'atomo di idrogeno, come gli atomi degli altri elementi, una
volta eccitato torna spontaneamente allo stato fondamentale nel quale eÁ caratterizzato dal
minor contenuto di energia,6 esso riemette, mediante l'inversione delle transizioni quantiche dell'elettrone, le stesse quantitaÁ discrete di energia che aveva assorbito durante l'eccitazione, quindi fotoni le cui frequenze sono uguali a:
n1 ˆ
(E3
E2 )
h
oppure
n2 ˆ
(E2
E1 )
h
oppure
n3 ˆ
(E1
E0 )
h
e cosõÁ via (fig. 5.4).
In questo modo Bohr riuscõÁ a dare una valida interpretazione delle righe dello spettro di
emissione dell'idrogeno: infatti ogni riga spettrale registrata sulla lastra fotografica corrispondeva a una transizione quantica dell'elettrone fra due stati stazionari permessi (fig. 5.4).
6
Per una legge universale, tutti i sistemi materiali, e quindi anche i singoli atomi, tendono ad avere il minore
contenuto di energia potenziale.
77
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 5.4
.............................................................
5. Il modello dell'atomo secondo la fisica classica
nucleo atomico
Emissione di energia
radiante da parte di
un atomo eccitato di
idrogeno che passa
dallo stato con energia E3 a quello fondamentale con energia E0 .
Figura 5.5
.................................................................................................................................................................................................................................................................
4
–
–
–
+
E2
E3
atomo eccitato
E0
E1
(hν1 = E3 – E2)
+
+
+
E0
E1
–
hν
hν
hν
E0
(hν2 = E2 – E1)
E1 (hν3 = E1 – E0)
E0
E2
atomo eccitato
atomo eccitato
atomo
non eccitato
FORMULAZIONE MATEMATICA DELLA TEORIA DI BOHR.
NUMERO QUANTICO PRINCIPALE
Per formulare matematicamente la sua teoria, Bohr estese al modello dell'atomo di
idrogeno da lui proposto le leggi della fisica classica, in quanto, in armonia con le leggi
che regolano il movimento dei sistemi materiali macroscopici, ammise che anche l'elettrone, particella materiale microscopica di massa m che ruotava intorno al nucleo atomico
con velocitaÁ v, possedesse un momento angolare (o momento della quantitaÁ di moto)7
espresso dal prodotto della sua quantitaÁ di moto8 per il valore del raggio r dell'orbita
circolare da esso descritta (fig. 5.5):
momento angolare dell'elettrone ˆ mvr
Contemporaneamente peroÁ, in armonia con la teoria di Planck, Bohr espresse matematicamente il primo postulato imponendo arbitrariamente che non fossero permessi tutti i
valori per il momento angolare dell'elettrone, ma solo quelli che erano multipli interi del
piuÁ piccolo valore possibile:
h
2p
grandezza questa che egli pertanto assunse come unitaÁ di misura del momento angolare
dell'elettrone.
Quindi la formulazione matematica del primo postulato di Bohr assume la forma:
mvr ˆ n
h
2p
vettore
velocità v
Atomo di idrogeno
nel suo stato fondamentale secondo
Bohr. Si veda la nota
15 (pag. 82) per il
concetto di grandezza vettoriale.
+
nucleo
r
–
elettrone
di massa m
7
Nella dinamica di un corpo rotante, il momento angolare da esso posseduto eÁ una misura della sua capacitaÁ di
opporsi a forze esterne che tendono a modificarne la velocitaÁ di rotazione.
8
La quantitaÁ di moto di un corpo di massa m che si muove con velocitaÁ v, espresso dal prodotto mv, eÁ una misura
della sua capacitaÁ di opporsi a forze esterne che tendono a modificarne la velocitaÁ di traslazione.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
4. Formulazione matematica della teoria di Bohr. Numero quantico principale
in cui n eÁ un numero intero che puoÁ assumere solo i valori 1, 2, 3, 4, 5 e cosõÁ via, e che
venne chiamato numero quantico principale, mentre h eÁ la costante di Planck.
La conseguenza piuÁ immediata di questa arbitraria, seppur geniale imposizione, fu che
oltre a essere quantizzato il momento angolare dell'elettrone, nel senso che i suoi valori
potevano essere solo uguali oppure multipli interi della quantitaÁ elementare (del quanto)
h/2p, risultarono automaticamente quantizzati anche i raggi e le energie degli stati stazionari percorsi dall'elettrone dell'atomo di idrogeno.
Infatti, tenendo conto che in ogni stato stazionario la forza di attrazione che la carica
positiva del nucleo esercita su quella negativa dell'elettrone deve bilanciare esattamente la
forza centrifuga che tende ad allontanarlo, Bohr, con una serie di calcoli rigorosi, ricavoÁ
che i raggi delle orbite stazionarie descritte dall'elettrone potevano essere calcolati mediante la relazione:
r ˆ n2 0,053 nm
in cui n eÁ il numero quantico principale.
Sostituendo a n i valori permessi (1, 2, 3, 4, ...) Bohr calcoloÁ per il raggio della prima
orbita (n = 1) il valore:
r1 ˆ 12 0,053 nm ˆ 0,053 nm
per quello della seconda orbita (n = 2) il valore:
r2 ˆ 22 0,053 nm ˆ 4 0,053 nm ˆ 0,212 nm
(quindi un raggio 4 volte maggiore di quello piuÁ piccolo permesso)
per quello della terza orbita (n ˆ 3) il valore:
r3 ˆ 32 0,053 nm ˆ 9 0,053 nm ˆ 0,477 nm
(quindi un raggio 9 volte maggiore di quello piuÁ piccolo permesso) e cosõÁ via (fig. 5.6).
Infine, tenendo conto che l'energia totale E dell'elettrone in uno stato stazionario eÁ
data dalla somma della sua energia cinetica e della sua energia potenziale, con l'utilizzo di
una serie di calcoli rigorosi, Bohr pervenne al risultato che l'energia di ogni stato
stazionario percorso dall'elettrone dell'atomo di idrogeno poteva essere calcolata mediante la relazione:
1
Eˆ
21,79 10 19 J=atomo
n2
nella quale n eÁ il numero quantico principale (1, 2, 3, 4, ...).9
La teoria di Bohr, che abbiamo esposto solo per sommi capi, suscitoÁ un enorme e
giustificato interesse in quanto, nella transizione quantica dell'elettrone, per esempio
dal terzo al secondo stato stazionario dell'atomo di idrogeno, veniva calcolata, dai dati
forniti da Bohr, l'emissione di una radiazione la cui lunghezza d'onda era straordinariamente in accordo (656,7 nm) con quella di 656,3 nm osservata sperimentalmente.
9
Il segno negativo preposto ai valori numerici dell'energia di ogni stato stazionario eÁ dovuto a una convenzione arbitraria dei segni, secondo la quale l'energia liberata (il lavoro che puoÁ essere prodotto da un sistema
materiale) viene fatta precedere dal segno positivo. In accordo con questa convenzione, nella transizione quantica
dell'elettrone per esempio dal secondo al primo stato stazionario in ogni atomo di idrogeno viene liberata
l'energia:
DE ˆ E1
E0 ˆ
5,448 10
19
( 21,79 10
19
) ˆ 16,342 10
79
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
19
J=atomo
Figura 5.6
......................................................................
5. Il modello dell'atomo secondo la fisica classica
nucleo atomico
Raggi delle prime tre
orbite permesse per
l'elettrone dell'atomo
di idrogeno secondo
la teoria di Bohr.
....................................................................................................................................................................................................................................................
5
+
0,053
nm
E0
E1
0,2
12
nm
0,
47
7
E2
nm
AFFINAMENTI DELLA TEORIA DI BOHR. NUMERO QUANTICO
SECONDARIO E NUMERO QUANTICO MAGNETICO
La teoria di Bohr si dimostroÁ ben presto inadeguata sia per l'interpretazione della
molteplicitaÁ delle righe degli spettri di emissione degli atomi polielettronici, sia perche si
incontravano gravi e insormontabili difficoltaÁ matematiche quando si tentava di spiegare
in modo coerente un fenomeno spettrale noto con il nome di effetto Zeeman.10 Questo
fenomeno consisteva nel fatto che le righe spettrali originali emesse dagli elementi eccitati
si moltiplicavano quando lo spettro di emissione veniva effettuato sotto l'azione di un
campo magnetico applicato dall'esterno.
Per tener conto di queste difficoltaÁ furono via via apportate alcune modifiche alla
teoria originale di Bohr nel tentativo di superare le discordanze tra i risultati sperimentali
e quelli dedotti teoricamente. Arnold Sommerfeld,11 senza intaccare il concetto di quantizzazione delle energie degli stati stazionari dell'elettrone postulato da Bohr, consideroÁ
tuttavia l'ipotesi che, in armonia con la meccanica dei corpi celesti, gli elettroni potessero
descrivere attorno al nucleo dell'atomo non solo delle orbite circolari, ma anche orbite
ellittiche. Egli pertanto, accanto al numero quantico principale n, definõÁ un secondo
numero quantico l, che venne chiamato numero quantico secondario o azimutale o
angolare.12
Successivamente, tenendo conto che l'elettrone orbitante eÁ anche una carica elettrica in
movimento, e dato che una carica elettrica in movimento genera un campo magnetico che
interagisce con un campo magnetico applicato dall'esterno, la teoria di Bohr-Sommerfeld
fu ulteriormente affinata con la definizione di un terzo numero quantico m denominato
numero quantico magnetico. Il numero quantico magnetico teneva conto della possibilitaÁ
che vi fosse piuÁ di una orientazione spaziale del piano dell'orbita elettronica nei confronti
delle linee di forza del campo magnetico applicato dall'esterno (fig. 5.7).
Pertanto, per descrivere lo stato di un elettrone in un atomo e quindi per calcolare
l'energia di un'orbita permessa per l'elettrone (l'energia di uno stato stazionario), non era
sufficiente il solo numero quantico principale n definito da Bohr, ma occorrevano tre
numeri quantici:
numero quantico principale n
numero quantico secondario l
numero quantico magnetico m
10
Pieter Zeeman (1865-1943), fisico olandese, premio Nobel nel 1902.
Arnold Sommerfeld (1868-1951), fisico tedesco, premio Nobel nel 1924.
12
Per definire un'orbita circolare occorre un solo parametro: il raggio dell'orbita (un solo numero quantico); per
definire un'orbita ellittica occorrono due parametri: il semiasse maggiore e quello minore dell'orbita (due numeri quantici).
11
80
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 5.7
Alcune inclinazioni
del piano dell'orbita
ellittica nei confronti
della direzione e del
verso di un campo
magnetico applicato
dall'esterno.
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
5. Affinamenti della teoria di Bohr. Numero quantico secondario e numero quantico magnetico
ORBITE ELETTRONICHE
direzione
e verso
del campo
magnetico
applicato
dall’esterno
nucleo
atomico
+
L'elaborazione matematica della teoria di Bohr-Sommerfeld portoÁ al risultato per il quale,
affinche fosse verificata la quantizzazione delle energie degli stati stazionari, condizione
indispensabile per tener conto degli spettri di righe (discontinui) degli atomi eccitati, i tre
numeri quantici n, l e m, dovevano sottostare alle seguenti rigide regole:
. i valori permessi per n potevano essere solamente uguali a numeri interi positivi: n = 1,
2, 3, 4, ...;
. i valori permessi per l, per un dato valore di n, potevano essere solo l ˆ 0, 1, 2, ...
n
1;
. i valori permessi per m, per un dato valore di l, potevano essere solo m ˆ
1, 0, ‡1, ‡2, ... ‡l.
l, ...
2,
CosõÁ, mentre in base al modello dell'atomo di idrogeno concepito da Bohr, per n ˆ 2 era
previsto un solo stato stazionario per l'elettrone (una sola orbita circolare permessa con
raggio uguale a 0,212 nm), gli affinamenti apportati consentivano di prevedere, sempre
per n ˆ 2, quattro stati stazionari in un atomo. Questo percheÂ, tenendo conto delle regole
sopra elencate e che n ˆ 2, eÁ facile dedurre che:
i valori permessi per l sono l ˆ 0, 1
il valore permesso per m, per l ˆ 0, eÁ m ˆ 0
i valori permessi per m, per l ˆ 1, sono m ˆ
1, 0, ‡1
Questi quattro stati stazionari previsti per n ˆ 2 sono allora caratterizzati dalle seguenti
terne di valori dei numeri quantici:
n
l
m
2
2
2
2
0
1
1
1
0
1
0
‡1
CioeÁ per n ˆ 2, l puoÁ assumere valore 0 oppure 1, m puoÁ assumere valori compresi fra
1 e ‡1 (quindi 1, 0 e ‡1).
Generalizzando questo esempio, possiamo allora dedurre che ogni terna dei valori dei
numeri quantici n, l e m individua un ben determinato stato stazionario dell'elettrone in
81
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
..........................................
5. Il modello dell'atomo secondo la fisica classica
Figura 5.8
Interpretazione
classica dello spin
dell'elettrone.
..................................................................................................................................................................................................................................................................................
6
un atomo. In questa maniera la molteplicitaÁ delle righe degli spettri di emissione degli
atomi polielettronici, nonche la moltiplicazione delle righe spettrali che si verificava in
presenza di un campo magnetico applicato dall'esterno (effetto Zeeman), trovarono una
spiegazione coerente: piuÁ numerosi erano gli stati stazionari per gli elettroni, maggiore era
il numero delle transizioni quantiche permesse e, quindi, le righe spettrali emesse dagli
atomi eccitati.
NUMERO QUANTICO DI SPIN
Quando con il perfezionarsi degli strumenti utilizzati per studiare gli spettri di emissione,
e in particolare quelli effettuati sotto l'azione di un campo magnetico applicato dall'esterno, si scoprõÁ che alcune righe spettrali che sembravano singole erano in realtaÁ
formate da coppie di righe vicinissime tra loro (effetto Zeeman anomalo),13 la teoria di
Bohr-Sommerfeld, basata sui tre numeri quantici n, l e m, si dimostroÁ purtroppo del tutto
inadeguata per fornire un'accettabile interpretazione di questa nuova scoperta spettroscopica. Per superare questa difficoltaÁ Samuel Goudsmit e George Uhlenbeck14 nel 1925
formularono l'ipotesi di un'altra proprietaÁ dell'elettrone, quella cioeÁ di ruotare attorno al
proprio asse allo stesso modo del nostro pianeta. Ora, in base alla fisica classica, cioÁ
comportava che l'elettrone, come peraltro qualsiasi sistema materiale dotato di movimento
rotatorio su se stesso, produceva nello spazio circostante un effetto che fu rappresentato
con un vettore15 la cui orientazione coincideva con l'asse di rotazione della particella
(fig. 5.8). Questa proprietaÁ fisica dell'elettrone (questa grandezza), misurata tra l'altro con
estrema precisione, prese il nome di momento angolare di spin dell'elettrone o semplicemente spin dell'elettrone.
vettore spin dell’elettrone
N
S
Inoltre, poiche l'elettrone possiede anche una carica elettrica, il suo movimento a trottola
gli conferiva un'altra proprietaÁ, quella cioeÁ di una minuscola calamita con polo nord (N) e
polo sud (S) (fig. 5.8). Anche questa proprietaÁ dell'elettrone venne rappresentata con un
vettore che prese il nome di momento magnetico dell'elettrone.16
13
Questo effetto Zeeman fu detto anomalo perche non era possibile fornire una spiegazione coerente in termini di
solo movimento di rotazione dell'elettrone attorno al nucleo.
14
Samuel Abraham Goudsmit (1902-1978), fisico statunitense di origine olandese; George Eugene Uhlenbeck
(1900-1988), fisico olandese.
15
Una grandezza fisica osservabile sperimentalmente, oppure deducibile teoricamente, che sia caratterizzata, oltre
che dal suo valore numerico, anche da una direzione e da un verso, viene detta grandezza vettoriale. Una grandezza
vettoriale viene pertanto rappresentata con un vettore (una freccia) la cui lunghezza eÁ proporzionale al modulo (al valore
numerico della grandezza), mentre l'inclinazione e la punta della freccia ne indicano rispettivamente la direzione e il verso.
Per esempio, la velocitaÁ, l'accelerazione, la forza, la quantitaÁ di moto, il campo magnetico, sono grandezze vettoriali, e, come
tali, rappresentate con vettori. Inversamente, le grandezze descrivibili completamente con il solo valore numerico, come
per esempio la massa, il tempo, la temperatura, l'indice di rifrazione, la densitaÁ, sono dette grandezze scalari.
16
Il campo magnetico associato al movimento «a trottola» dell'elettrone non va confuso con quello generato dal suo
moto di rivoluzione attorno al nucleo dell'atomo.
82
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 5.9
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
6. Numero quantico di spin
Per descrivere l'orientazione del vettore spin dell'elettrone, fu definito un quarto numero
quantico che, simboleggiato con ms , prese il nome di numero quantico di spin.17
L'elaborazione matematica dell'ipotesi di Goudsmit e Uhlenbeck, sviluppata in accordo
con la fisica classica e con la teoria quantistica di Planck, portoÁ al risultato per il quale,
affinche fosse verificata la quantizzazione dell'energia dell'elettrone, erano permessi solo
due valori per il numero quantico di spin:
1
1
oppure
ms ˆ
ms ˆ ‡
2
2
CioÁ indusse a pensare che per l'elettrone fossero consentiti solo due versi di rotazione su
se stesso: l'uno destrorso (da sinistra verso destra) e l'altro sinistrorso (da destra verso
sinistra) indicati di solito con i termini rispettivamente di spin verso l'alto (spin su ") e di
spin verso il basso (spin giuÁ #) (fig. 5.9).
N
Gli spin dell'elettrone.
Figura 5.10
S
S
N
(spin su)
(spin giù)
L'ipotesi dello spin dell'elettrone e del momento magnetico ad esso associato consentõÁ di
interpretare in modo coerente l'effetto Zeeman anomalo. Infatti, fu dimostrato che
mentre due elettroni che differiscono solo perche hanno gli spin rivolti in versi opposti
(spin antiparalleli) in assenza di un campo magnetico esterno possiedono la medesima
energia, ove si applichi dall'esterno un campo magnetico, essi, in dipendenza dei loro spin
opposti (ms ˆ ‡1=2 e ms ˆ 1=2), vanno a occupare due livelli energetici caratterizzati
da valori diversi, anche se quasi coincidenti, di energia (fig. 5.10). Ecco perche alcune
N
Energie di due elettroni a) in assenza e
b) in presenza di un
campo magnetico
esterno.
energia
direzione
e verso
del campo
magnetico
applicato
dall’esterno
N
S
S
S
S
N
b)
a)
N
17
Il numero quantico di spin descrive indirettamente anche l'orientazione del vettore momento magnetico dell'elettrone dato che questi due vettori sono coincidenti anche se hanno sempre versi esattamente opposti.
83
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
............................................................
5. Il modello dell'atomo secondo la fisica classica
...............................................................................................................
7
righe, che erano singole negli spettri di emissione degli atomi, si sdoppiavano in due righe
vicinissime l'una all'altra quando questi spettri venivano ricavati sotto l'azione di un
campo magnetico applicato dall'esterno.18
La definizione del numero quantico di spin comportoÁ allora che per descrivere completamente lo stato di un elettrone in un atomo era necessario specificare i valori numerici
di tutti e quattro i numeri quantici (n, l, m e ms), valori che, una volta assegnati, definivano
uno ed un solo stato stazionario: questo perche due identiche quaterne di valori dei
numeri quantici avrebbero determinato l'energia di uno stesso stato stazionario e, quindi,
avrebbero descritto lo stato del medesimo elettrone.
INATTENDIBILITAÁ DEL MODELLO MECCANICO
DELL'ELETTRONE-TROTTOLA
Il fatto che l'elettrone possiede una massa, una carica elettrica, uno spin e un momento
magnetico, indussero a pensarlo come una particella materiale con dimensioni e forma
definite sulla cui superficie eÁ distribuita la minima carica elettrica (negativa per convenzione) esistente in natura, e che eÁ dotata di un movimento rotatorio su se stessa (fig. 5.8).
Tuttavia, alla luce soprattutto degli attuali progressi della scienza, il modello dell'elettronetrottola, anche se comodo e indubbiamente suggestivo, eÁ alquanto grossolano.
Per esempio, da accurati calcoli, eÁ risultato che la velocitaÁ di rotazione della superficie
equatoriale dell'elettrone eÁ maggiore della velocitaÁ della luce; e questa eÁ un'assurditaÁ
perche in base alla teoria della relativitaÁ, oggi universalmente accettata, la velocitaÁ della
luce (3 108 m=s† eÁ una velocitaÁ limite che non puoÁ essere mai superata. Per questa
ragione e anche per altri difetti, il modello meccanico dell'elettrone-trottola eÁ stato
abbandonato a favore di una nuova interpretazione nota con il nome di modello dell'elettrone-onda. Questo modello, come vedremo nel prossimo capitolo, scaturisce dalla
meccanica quantistica, una rivoluzionaria teoria matematica che si eÁ dimostrata la piuÁ
adatta per lo studio delle proprietaÁ delle particelle atomiche e subatomiche.
.........................................................................................................
QUESITI
1. Per quale ragione lo spettro di emissione degli
elementi puoÁ essere utilizzato per distinguerli gli
uni dagli altri?
2. Spiega perche il modello atomico proposto da
Rutherford era in contrasto con le leggi della fisica
classica.
3. Indica quali fatti sperimentali portarono Bohr ad
elaborare la teoria sulla struttura dell'atomo di
idrogeno.
4. Spiega il significato di stato stazionario dell'elettrone in un atomo.
5. Spiega il significato di quantizzazione dei raggi e delle
energie degli stati stazionari nell'atomo di Bohr.
6. Perche la teoria di Bohr ebbe una notevole risonanza a livello scientifico?
7. Quali sono le differenze sostanziali fra i modelli
atomici proposti rispettivamente da Thomson,
Rutherford e Bohr?
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
8. Spiega per quali ragioni la teoria di Bohr fu poi
modificata da Sommerfeld.
9. Quali fatti sperimentali vennero interpretati mediante
i numeri quantici magnetico e magnetico di spin?
10. Spiega perche in base alla teoria di Bohr non eÁ possibile per l'elettrone dell'atomo di idrogeno lo stato
stazionario con energia uguale a 10,895 10 19 J,
e cioeÁ con valore pari alla metaÁ di quello allo stato
fondamentale dell'atomo.
11. EÁ permesso per l'elettrone dell'atomo di idrogeno
lo stato stazionario con energia 5,44810 19 J?
PercheÂ?
12. Distingui tra momento angolare e momento magnetico dell'elettrone. Perche questi due momenti
vengono rappresentati con due vettori? In che
cosa differiscono questi due vettori?
18
I due elettroni, alla medesima maniera con la quale l'ago magnetico di una bussola si orienta con le estremitaÁ verso
i poli magnetici della terra, si dispongono con l'asse parallelo alla direzione del campo magnetico applicato.
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1
Il modello dell'atomo
secondo la fisica
moderna
LA MECCANICA QUANTISTICA
Le modifiche apportate alla teoria di Bohr con la definizione, accanto al numero
quantico principale n, dei numeri quantici secondario l, magnetico m e magnetico di
spin ms, risolsero solo parzialmente alcuni problemi relativi all'interpretazione completa degli spettri di emissione degli atomi polielettronici: questi ultimi trovarono la
loro completa soluzione solo dopo l'elaborazione di una nuova teoria matematica,
denominata meccanica quantistica o meccanica ondulatoria, nata dalla geniale
intuizione del giovane scienziato Louis de Broglie.1 Infatti nel 1924 de Broglie, dato
che era stato definitivamente accertato che una radiazione elettromagnetica puoÁ
manifestare, a seconda dei casi, o un carattere ondulatorio (teoria elettromagnetica di
Maxwell) oppure uno corpuscolare (teoria quantistica di Planck), formuloÁ l'ipotesi
che anche una qualsiasi porzione di materia in movimento, come un elettrone, un
protone, una molecola, o per esempio un pallone da football, potesse esibire, al
tempo stesso, un carattere corpuscolare e un carattere ondulatorio. In altre parole,
secondo de Broglie, un corpo materiale di massa m che si muove con la velocitaÁ v, eÁ
dotato oltre che della quantitaÁ di moto mv, anche di un'onda materiale tridimensionale la cui lunghezza d'onda l eÁ legata alla quantitaÁ di moto dalla semplice relazione:2
lˆ
(concetto di onda)
h
mv
(concetto di materia)
1
Louis Victor de Broglie (1892-1987), fisico francese, premio Nobel nel 1929.
h ˆ costante di Planck. De Broglie partõÁ dalla considerazione che a una radiazione elettromagnetica era stato
attribuito un carattere corpuscolare, oltre che ondulatorio: il legame tra i due aspetti con cui la radiazione puoÁ
manifestarsi puoÁ essere trovato tenendo presente che un fotone possiede un'energia proporzionale alla sua frequenza:
2
E ˆ hn
e che tale energia eÁ equivalente a una massa, secondo l'equazione di Einstein:
E ˆ mc 2
Uguagliando le due espressioni e tenendo conto della relazione tra frequenza n e lunghezza d'onda l, si ha:
hn ˆ mc 2
h
c
ˆ mc 2
l
h
lˆ
mc
De Broglie suppose che tale relazione potesse essere valida non solo per un fotone, ma per qualsiasi corpo materiale di
massa m che si muove alla velocitaÁ v (previa sostituzione della velocitaÁ della luce, c, con quella del corpo, v).
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6. Il modello dell'atomo secondo la fisica moderna
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2
La conferma piuÁ clamorosa dell'ipotesi rivoluzionaria suggerita da de Broglie,
secondo la quale un fascio di elettroni eÁ costituito allo stesso tempo da corpuscoli
materiali e da onde materiali la cui lunghezza d'onda eÁ dell'ordine di pochi
nanometri (nm), si eÁ avuta con la realizzazione del microscopio elettronico, una
delle piuÁ importanti conquiste dell'elettronica moderna che ha reso possibile l'osservazione diretta dell'immagine di particelle di materia estremamente piccole, come per
esempio virus.
EÁ bene precisare che l'onda tridimensionale associata a una particella materiale in
movimento non eÁ un'onda elettromagnetica, in quanto non viene irradiata nello spazio
dal sistema materiale; essa, anche se al pari delle radiazioni elettromagnetiche esibisce sia
proprietaÁ ondulatorie sia corpuscolari, non puoÁ tuttavia mai essere dissociata dalla
materia.
In altre parole, mentre un'onda elettromagnetica (la luce) viaggia nel vuoto sempre
con velocitaÁ costante c, la velocitaÁ delle particelle di materia, e quindi delle onde materiali
ad esse associate, non solo non eÁ costante, ma eÁ sempre inferiore a quella della luce nel
vuoto.
EQUAZIONE DI SCHROÈDINGER
Nel 1926, Erwin SchroÈdinger,3 basandosi sulla teoria di de Broglie, secondo la quale una
qualsiasi porzione di materia in movimento esibisce al tempo stesso proprietaÁ sia
ondulatorie sia corpuscolari:
h
(equazione di de Broglie)
lˆ
mv
concepõÁ un'equazione che, del tutto analoga a quella che rappresenta la propagazione
delle onde meccaniche, per esempio di quelle sonore, descriveva matematicamente l'onda
materiale tridimensionale associata all'elettrone dell'atomo di idrogeno vincolato a orbitare attorno al nucleo.
Questa equazione, cui eÁ stato dato il nome di equazione d'onda o equazione di
SchroÈdinger, e che costituisce il punto di partenza della meccanica quantistica (della fisica
moderna), ha consentito, tra l'altro, la risoluzione matematica, e quindi rigorosa, di tutti i
problemi lasciati insoluti dalla teoria di Bohr-Sommerfeld sulla struttura degli atomi. EÁ
stato possibile infatti:
. effettuare il calcolo teorico del numero e dell'intensitaÁ di tutte le righe spettrali degli
spettri di emissione degli atomi polielettronici;
. effettuare il calcolo teorico dell'energia che tiene uniti gli atomi nelle molecole, che ha
fornito la prova matematica dell'esistenza di queste particelle di materia;
. fornire una spiegazione rigorosa delle proprietaÁ periodiche degli elementi.
L'equazione di SchroÈdinger eÁ un'equazione differenziale 4 con la quale si tiene conto
che in ogni punto dello spazio circostante il nucleo dell'atomo di idrogeno, all'elettrone orbitante, che possiede massa m, energia totale E (somma dell'energia cinetica
e dell'energia potenziale) ed energia potenziale P, eÁ associata un'onda materiale
tridimensionale la cui ampiezza c (lettera greca psi) dipende dalle coordinate spaziali
3
Erwin SchroÈdinger (1887-1960), fisico austriaco, premio Nobel nel 1933.
Un'equazione differenziale eÁ il frutto di un metodo matematico di studio molto accurato dei piuÁ svariati problemi,
come per esempio quelli della fisica, della chimica, della geometria, della biologia, della meccanica, della termodinamica.
Questo metodo di studio eÁ conosciuto con il nome di calcolo infinitesimale.
4
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3. Orbitali atomici
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3
x, y e z che individuano la posizione dell'elettrone rispetto al nucleo atomico.5 Non ci
occuperemo delle operazioni matematiche che devono essere eseguite per risolvere
l'equazione di SchroÈdinger, ma esamineremo soltanto i risultati di queste operazioni.
L'equazione di SchroÈdinger, in una forma piuÁ complessa di quella descritta nella nota
a pieÁ di pagina, fornisce, come soluzioni, delle equazioni matematiche nelle quali
l'ampiezza c dell'onda elettronica eÁ espressa sia in funzione delle tre coordinate spaziali
x, y e z dell'elettrone, sia in funzione di quattro coefficienti numerici che, indicati con le
lettere n, l, m e ms, sono conosciuti con il nome di numeri quantici. Queste funzioni
matematiche, soluzioni dell'equazione di SchroÈdinger, sono dette funzioni d'onda e
vengono simboleggiate con la lettera greca c: tra tutte queste funzioni d'onda solo alcune
sono fisicamente accettabili, e precisamente quelle che vengono definite solo da quei
valori dei numeri quantici n, l, m e ms che possono essere dedotti applicando le medesime
rigide regole dettate dalla teoria di Bohr-Sommerfeld:
±
±
±
±
valori permessi per n: n ˆ 1, 2, 3, 4, :::
valori permessi per l, per un dato valore di n: l ˆ 0, 1, 2, ::: n 1
valori permessi per m, per un dato valore di l: m ˆ l ::: 0 ::: ‡l
valori permessi per ms : ms ˆ ‡1=2 oppure 1=2.
Queste condizioni imposte per i valori dei numeri quantici, equivalgono allora alla quantizzazione delle funzioni d'onda fisicamente accettabili.6
Sostituendo infine nell'equazione di SchroÈdinger le funzioni d'onda fisicamente accettabili, eÁ possibile, con un'altra serie di operazioni matematiche, calcolare i corrispondenti
valori (uno per ogni funzione d'onda) dei livelli di energia dell'elettrone dell'atomo di idrogeno. I valori cosõÁ ottenuti non solo sono quantizzati, e questo risultato eÁ ovvio se si tiene
conto che essi vengono dedotti da funzioni d'onda a loro volta quantizzate, ma sono espressi
da valori numerici identici a quelli calcolati dalla teoria di Bohr-Sommerfeld.
Quindi, partendo da un'impostazione concettuale del tutto nuova, ossia da un'onda
materiale tridimensionale associata all'elettrone vincolato a orbitare attorno al nucleo dell'atomo di idrogeno, la meccanica quantistica (la fisica moderna) perviene ai medesimi risultati
della teoria di Bohr-Sommerfeld che invece si era ispirata alla fisica classica. Con questa
sostanziale differenza peroÁ: nella teoria di Bohr-Sommerfeld la quantizzazione dell'energia
degli stati stazionari dell'elettrone era stata ottenuta partendo da premesse non dimostrabili
(da postulati), nella meccanica quantistica la quantizzazione dell'energia degli stati stazionari
deriva direttamente dalla soluzione matematica dell'equazione di SchroÈdinger.
ORBITALI ATOMICI
Le funzioni d'onda c identificate dai quattro numeri quantici n, l, m e ms vengono
anche dette, per reminiscenza della teoria di Bohr-Sommerfeld, orbitali atomici (OA).
Il significato di orbitale atomico eÁ peroÁ concettualmente del tutto diverso da quello di
5
Una forma dell'equazione di SchroÈdinger eÁ la seguente:
d2 c d2 c d2 c 8p2 m
‡
‡ 2 ‡ 2 (E
dx2 dy2
dz
h
P)c ˆ 0
nella quale le prime tre simboleggiature indicano le operazioni matematiche di calcolo differenziale che devono essere
eseguite per risolvere l'equazione; h eÁ la costante di Planck, mentre m, E e P sono rispettivamente la massa, l'energia
totale e l'energia potenziale dell'elettrone.
6
Non tutte le funzioni d'onda, soluzioni dell'equazione di SchroÈdinger, sono fisicamente accettabili, ma solo quelle
nelle quali tutti e quattro i numeri quantici che compaiono in tali soluzioni assumono i valori numerici dettati dalla
meccanica quantistica.
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6. Il modello dell'atomo secondo la fisica moderna
un'orbita: mentre l'orbita elettronica (concetto legato alla fisica classica) descrive la precisa
traiettoria dell'elettrone attorno al nucleo dell'atomo, l'orbitale atomico (concetto legato alla
fisica moderna) non descrive alcuna traiettoria in quanto il suo significato eÁ squisitamente
matematico; l'orbitale atomico infatti non eÁ altro che una funzione matematica, una funzione d'onda, che eÁ il frutto della risoluzione di un'equazione differenziale (l'equazione di
SchroÈdinger). Ciascun orbitale atomico, come abbiamo in precedenza sottolineato, definisce
esattamente,7 in dipendenza dei valori assegnati alla quaterna dei numeri quantici, i livelli di
energia permessi per l'elettrone dell'atomo di idrogeno e, come vedremo, per gli elettroni
degli atomi degli altri elementi.
Tuttavia, sebbene le soluzioni dell'equazione di SchroÈdinger (gli orbitali atomici) forniscano i precisi valori delle energie permesse per gli elettroni negli atomi, tuttavia non
possono al tempo stesso fornire precise indicazioni sulla traiettoria descritta da un dato
elettrone attorno al nucleo.8 Questo percheÂ, relativamente alle minuscole particelle di
materia (atomi, molecole, protoni, elettroni), la meccanica quantistica eÁ vincolata dal
principio di indeterminazione di Heisenberg,9 in base al quale se in un dato istante si
conosce l'esatta posizione (la traiettoria) di una particella in movimento la cui massa sia m
e la cui velocitaÁ sia v, non si puoÁ al tempo stesso conoscere con certezza la sua quantitaÁ di
moto ( p ˆ mv). Inversamente, se in un dato istante si conosce la quantitaÁ di moto della
particella, non si puoÁ al tempo stesso conoscere con certezza la sua posizione nello spazio
(la sua traiettoria): al massimo eÁ possibile dedurre la percentuale di probabilitaÁ di trovare la
particella in una qualunque regione dello spazio.10
Per illustrare con un esempio, anche se grossolano, il principio di indeterminazione di
Heisenberg, immaginiamo un elettrone che si muove verso uno schermo fluorescente.
Ebbene, se in un dato istante, prima dell'impatto sullo schermo, eÁ nota la velocitaÁ della
particella, possiamo conoscere con esattezza sia la sua energia cinetica E (ˆ 1=2 mv2 ) sia
la sua quantitaÁ di moto p ( p ˆ mv); tuttavia non possiamo fare altrettanto in merito alla
sua posizione che, infatti, potraÁ essere sperimentalmente individuata solo quando
l'elettrone, colpendo lo schermo, provocheraÁ nel punto d'impatto un minuscolo lampo
fluorescente; tuttavia, nel medesimo istante in cui la posizione dell'elettrone ci eÁ nota, non
sono piuÁ noti gli esatti valori della sua quantitaÁ di moto e della sua energia cinetica. Infatti,
in conseguenza dell'urto sullo schermo, una frazione dell'energia cinetica viene dissipata
sotto forma di energia radiante (luce) e cosõÁ pure cambia la quantitaÁ di moto della
particella. Pertanto possiamo affermare che in un dato istante, prima dell'urto sullo
schermo, eÁ esattamente nota l'energia dell'elettrone ma non la sua posizione, mentre nel
momento dell'impatto eÁ esattamente nota la sua posizione ma non la sua energia.
Pertanto, avendo accertato che le soluzioni dell'equazione di SchroÈdinger (le funzioni
d'onda c o anche gli orbitali atomici) ci consentono di calcolare l'esatto valore dei livelli
7
L'avverbio esattamente eÁ giustificabile solo se l'equazione di SchroÈdinger viene applicata all'atomo considerato allo
stato non eccitato, vale a dire a un sistema che non eÁ soggetto a variazioni nel tempo. Applicando invece l'equazione di
SchroÈdinger a un atomo eccitato, vale a dire a un sistema la cui esistenza eÁ soggetta a variazioni nel tempo (la durata di
uno stato eccitato di un atomo eÁ dell'ordine di 10 8 s), la risoluzione che si ottiene non puoÁ fornire con esattezza l'energia
che caratterizza lo stato eccitato dell'atomo.
8
Si rammenta che un orbitale atomico eÁ correlato sia con l'energia dell'elettrone, sia con le coordinate spaziali (x, y
e z) che individuano la sua posizione nello spazio circostante il nucleo.
9
Werner Heisenberg (1901-1976), fisico tedesco, premio Nobel nel 1932.
10
Questa eÁ la ragione di fondo che segna il confine tra la fisica classica e la fisica moderna (la meccanica quantistica).
La prima riteneva, erroneamente, che fosse lecito conoscere simultaneamente la traiettoria e la quantitaÁ di moto di una
particella in movimento; la meccanica quantistica stabilisce invece che se una delle due proprietaÁ eÁ nota, l'altra deve
rimanere indeterminata. EÁ tuttavia importante far notare che applicando il principio di indeterminazione ai sistemi
materiali macroscopici, si ottengono dei risultati del tutto coincidenti con quelli dedotti applicando le leggi della fisica
classica; quest'ultima pertanto non eÁ in contrasto con la fisica moderna (la meccanica quantistica), ma ne rappresenta
solo un aspetto.
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di energia permessi per un dato elettrone in un dato atomo, ne consegue che dobbiamo
rinunciare alla conoscenza della sua esatta posizione, vale a dire della traiettoria da esso
descritta attorno al nucleo: rimane solo da affermare che l'elettrone eÁ distribuito tra il
nucleo atomico e l'infinito. Ma come eÁ distribuito l'elettrone attorno al nucleo? Tentiamo
di fornire una risposta a questa domanda. Se consideriamo l'onda associata all'elettrone,
descritta dalla funzione d'onda c, come una nuvola tridimensionale carica di elettricitaÁ
negativa che avvolge il nucleo, allora la densitaÁ di questa nuvola elettronica, o, con altre
parole, la probabilitaÁ di trovare l'elettrone in una qualunque regione dello spazio
circostante il nucleo, deve essere proporzionale all'ampiezza c dell'onda elettronica in
quel punto dello spazio, o meglio, deve essere proporzionale al quadrato dell'ampiezza
dell'onda elettronica in quel punto dello spazio (c2 ).11
Ebbene, applicando questa regola all'atomo di idrogeno allo stato non eccitato (stato
fondamentale), ossia calcolando qual eÁ la probabilitaÁ di trovare l'elettrone confinato entro una
piccolissima sfera a diverse distanze dal nucleo, si trova che la probabilitaÁ di imbattersi nell'elettrone eÁ massima nel nucleo, mentre decresce rapidamente fino a diventare praticamente
uguale a zero alla distanza di circa 2 10 8 cm dal nucleo (raggio atomico medio)12 (fig. 6.1a).
Densità di probabilità (ψ2)
a) Andamento della
funzione c2 in dipendenza della distanza lineare tra il
protone e l'elettrone
dell'atomo di idrogeno nello stato fondamentale. b) ProbabilitaÁ radiale di trovare
l'elettrone in un guscio sferico a una distanza r dal nucleo
dell'atomo di idrogeno nello stato fondamentale.
P
Figura 6.1
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3. Orbitali atomici
0
r
0
0,53 Å
(raggio atomico)
r
(raggio atomico)
a)
b)
Questo risultato eÁ in accordo con il fatto che l'elettrone, carico di elettricitaÁ negativa, per
conseguire la minima energia potenziale dovrebbe portarsi nel nucleo carico di elettricitaÁ
positiva. Tuttavia l'elettrone non si condensa totalmente nel nucleo in quanto entra in
gioco la sua energia cinetica. Non si tratta peroÁ di energia cinetica determinata dal
semplice moto di rivoluzione dell'elettrone intorno al nucleo, ma di una energia cinetica
determinata da un complesso movimento dell'elettrone.
11
Dato che una proprietaÁ delle funzioni d'onda eÁ quella di essere caratterizzate da un segno algebrico positivo o
negativo (in dipendenza dei valori delle coordinate spaziali x, y e z), segni da non confondersi con quelli di una carica
elettrica, ma che si riferiscono all'ampiezza positiva o negativa dell'onda elettronica, l'elevazione al quadrato della
funzione d'onda c garantisce che la probabilitaÁ di trovare l'elettrone venga espressa da una quantitaÁ sempre positiva
in ogni punto dello spazio circostante il nucleo; una qualsiasi probabilitaÁ, infatti, puoÁ essere solo positiva o nulla.
12
L'analisi molto dettagliata degli spettri atomici rivela infatti che gli elettroni in un atomo spendono una frazione
del loro tempo anche all'interno del nucleo.
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6. Il modello dell'atomo secondo la fisica moderna
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4
In dipendenza di questo movimento complesso, l'elettrone diffonde in regioni dello spazio
anche molto distanti dal nucleo, per cui, se viene esaminata la probabilitaÁ di trovare
l'elettrone in un punto qualsiasi di un guscio sferico che avvolge il nucleo alla distanza r da
questo, si trova che il raggio in corrispondenza del quale piuÁ probabilmente si troveraÁ
l'elettrone dell'atomo di idrogeno allo stato fondamentale eÁ uguale a 0,53 AÊ (0,053 nm)
valore che coincide con il raggio della prima orbita di Bohr (fig. 6.1b).13
L'ATOMO SECONDO LA MECCANICA QUANTISTICA
Riassumiamo i concetti fondamentali riguardanti la struttura dell'atomo, secondo la
meccanica quantistica.
1. L'elettrone viene concepito come una particella che puoÁ essere anche puntiforme e la
cui massa, che a velocitaÁ zero (massa a riposo) eÁ uguale a 9,109 10 28 g, puoÁ essere,
in linea di principio, anche infinita (massa in moto); la sua carica elettrica, negativa per
convenzione, che eÁ uguale a 1,602 10 19 C (coulomb), eÁ la minima quantitaÁ di carica
elettrica che esiste in natura. Esso si muove ad altissima velocitaÁ attorno al nucleo
atomico, ma la sua traiettoria non puoÁ essere esattamente definita: in via di principio
sono possibili tutte le distanze dell'elettrone dal nucleo, da zero a infinito.
2. L'elettrone, da un punto di vista modellistico, puoÁ essere visualizzato come una
nuvola tridimensionale carica di elettricitaÁ negativa che avvolge il nucleo. Questa
nuvola elettronica viene descritta matematicamente da un'equazione differenziale,
l'equazione d'onda di SchroÈdinger, le cui soluzioni fisicamente accettabili prendono
il nome di funzioni d'onda o orbitali atomici (c). Gli orbitali atomici forniscono
l'esatto valore dei livelli di energia permessi degli elettroni, vale a dire i livelli
energetici degli atomi e al tempo stesso la probabilitaÁ, espressa da c2 , di trovare un
dato elettrone in una determinata regione dello spazio circostante il nucleo.
3. Per descrivere completamente lo stato di un dato elettrone in un atomo, e quindi il
relativo orbitale atomico, devono essere specificati tutti e quattro i numeri quantici (n,
l, m e ms) i valori dei quali determinano appunto l'energia di quell'elettrone (di
quell'orbitale atomico).
4. I quattro numeri quantici sono sottoposti alle seguenti rigide regole:
±
±
±
±
valori permessi per n: n ˆ 1, 2, 3, 4, :::
valori permessi per l, per un dato valore di n: l ˆ 0, 1, 2, ::: n 1
valori permessi per m, per un dato valore di l: m ˆ l, ... 0 ... ‡l
valori permessi per ms : ms ˆ ‡1=2, 1=2
Il numero quantico n, detto numero quantico principale, definisce la quasi totalitaÁ
dell'energia dell'orbitale atomico e, come vedremo, anche la sua grandezza.
Il numero quantico l, detto numero quantico secondario (o azimutale oppure orbitale)
13
Le due figure, la 6.1a e la 6.1b, non costituiscono due aspetti contrastanti della distribuzione spaziale dell'elettrone, in quanto vi sono due modi per descriverla: uno rappresenta la probabilitaÁ che l'elettrone si trovi, in una direzione
definita e confinato dentro una piccolissima sfera, a diverse distanze dal nucleo; l'altro rappresenta la probabilitaÁ di
trovare l'elettrone in un punto qualsiasi di un guscio sferico alla distanza r dal nucleo. Nel primo caso (fig. 6.1a) la
probabilitaÁ eÁ proporzionale alla funzione c2 ; nel secondo caso (fig. 6.1b) la probabilitaÁ eÁ proporzionale alla funzione
4pr2 c2 (chiamata funzione di distribuzione radiale) in cui 4pr2 eÁ l'area della superficie di un guscio sferico alla distanza r
dal nucleo. Con l'aumentare di r, a partire da r ˆ 0, l'aumento della superficie del guscio sferico (4pr2) prevale
inizialmente sulla diminuzione della densitaÁ di probabilitaÁ (c2 ); oltre un certo valore di r, la diminuzione della densitaÁ
di probabilitaÁ prevale sull'aumento della superficie del guscio sferico.
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4. L'atomo secondo la meccanica quantistica
definisce parte dell'energia dell'orbitale atomico e, come vedremo, anche la sua forma.
Il numero quantico m, detto numero quantico magnetico, definisce, come vedremo,
l'orientazione spaziale dell'orbitale atomico.
Il numero quantico ms, detto numero quantico magnetico di spin, o semplicemente
spin dell'elettrone, definisce una proprietaÁ intrinseca di questa particella, percheÂ,
alla stessa maniera della sua massa e della sua carica elettrica, questa proprietaÁ viene
conservata dall'elettrone anche quando non eÁ vincolato a orbitare attorno al nucleo.
Questa proprietaÁ intrinseca, che venne interpretata con l'effetto provocato dalla
rotazione della particella su se stessa (modello dell'elettrone-trottola che eÁ stato
illustrato nel precedente capitolo e che risultoÁ inattendibile per tutta una serie di
difetti), nell'ambito della meccanica quantistica puoÁ essere visualizzata in base al
cosiddetto modello dell'elettrone-onda. In armonia con questo modello, si ammette
infatti che la nuvola tridimensionale carica di elettricitaÁ negativa che avvolge il
nucleo si comporti come se fosse magnetizzata in una direzione preferenziale.
Lungo questa direzione preferenziale l'onda elettronica puoÁ assumere, nei confronti delle linee di forza (del vettore) di un campo magnetico, due sole orientazioni: una viene chiamata spin verso l'alto "(ms ˆ ‡1=2) e l'altra spin verso il basso
#(ms ˆ 1=2). Tutte le altre orientazioni intermedie della nuvola elettronica sono
vietate dalla meccanica quantistica.
5. Un orbitale atomico viene comunemente designato con un simbolo formato da un numero
seguito da una lettera minuscola dell'alfabeto. Il numero corrisponde al valore di n, la
lettera a quello di l. Le lettere s, p, d, f, g, h ..., corrispondono rispettivamente al valore di
l ˆ 0, 1, 2, 3, 4, 5: per esempio, l'orbitale atomico 1s eÁ caratterizzato dai numeri quantici
n ˆ 1 e l ˆ 0; l'orbitale atomico 3p eÁ caratterizzato dai numeri quantici n ˆ 3 e l ˆ 1;
l'orbitale atomico 4d eÁ caratterizzato dai numeri quantici n ˆ 4 e l ˆ 2 e cosõÁ via.
In assenza di un campo magnetico esterno l'energia di un orbitale atomico eÁ
determinata solo dai valori dei numeri quantici n e l; inoltre, piuÁ grandi sono questi
valori, maggiore eÁ l'energia dell'orbitale. Pertanto, tenendo presente che il numero
quantico n definisce la quasi totalitaÁ dell'energia di un orbitale, potremmo elencare la
successione delle energie degli orbitali atomici, man mano che ci si allontana dal
nucleo, nella seguente maniera: 1s, 2s, 2p, 3s, 3p, 3d, 4s, 4p, 4d, 4f, ... .
In realtaÁ, una simile progressione energetica eÁ valida solo per un atomo isolato di
idrogeno nel quale il solo elettrone orbitante non eÁ sottoposto all'effetto della
repulsione elettrostatica esercitata dagli altri elettroni; in tutti gli altri casi, e in
particolare negli atomi polielettronici, si deve tener conto di questo effetto. Per questa
ragione l'ordine energetico sopra scritto risulta in parte modificato. L'effettivo stato
energetico degli orbitali atomici di un atomo puoÁ essere stabilito facilmente applicando
una semplice regola che consiste nell'elencare, lungo successive righe orizzontali, gli
orbitali atomici caratterizzati dallo stesso valore del numero quantico principale ad
iniziare da quello con n ˆ 1: l'energia degli orbitali atomici aumenta seguendo, a
partire dalla prima, il verso delle frecce cosõÁ come indicato nello schema sotto riportato:
1s
2s
2p
3s
3p
3d
4s
4p
4d
4f
5s
5p
5d
5f
5g
6g
7g
6s
6p
6d
6f
7s
7p
7d
7f
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6. Il modello dell'atomo secondo la fisica moderna
Quindi, man mano che ci si allontana dal nucleo, la progressione energetica degli
orbitali atomici eÁ la seguente: 1s, 2s, 2p, 3s, 3p, 4s, 3d, 4p, 5s, 4d, 5p, 6s, ::: .
6. Per un dato valore di n (n ˆ 1, 2, 3, :::), gli orbitali atomici di tipo s (1s, 2s, 3s, ...), vale
a dire quelli caratterizzati da l ˆ 0, sono sempre singoli; quelli di tipo p (2p, 3p, 4p, ...),
caratterizzati da l ˆ 1, sono sempre tre; quelli di tipo d (3d, 4d, 5d, ...), caratterizzati da
l ˆ 2, sono sempre cinque; quelli di tipo f (4f, 5f, ...), caratterizzati da l ˆ 3, sono
sempre sette. Quindi:
±
±
±
±
gli orbitali atomici di tipo s (l ˆ 0) sono singoli;
gli orbitali atomici di tipo p (l ˆ 1) sono tre;
gli orbitali atomici di tipo d (l ˆ 2) sono cinque;
gli orbitali atomici di tipo f (l ˆ 3) sono sette.
Questo perche per un dato valore di l, tenendo conto che i valori permessi per m sono
l ... 0 ... ‡l, si avraÁ:
± quando l ˆ 0 (orbitali di tipo s), il numero quantico m puoÁ essere uguale solo a zero;
quindi un solo orbitale atomico con n ˆ 1 (oppure 2, oppure 3 ecc.), l ˆ 0 e m ˆ 0;
± quando l ˆ 1(orbitali di tipo p), il numero quantico m puoÁ assumere i valori 1, 0,
‡1; quindi tre orbitali atomici caratterizzati dagli stessi valori di n (n ˆ 2, oppure 3,
oppure 4 ecc.) e di l (l ˆ 1), ma da tre diversi valori di m (m ˆ 1, 0, ‡1);14
± quando l ˆ 2 (orbitali di tipo d), il numero quantico m puoÁ assumere i valori: 2,
1, 0, ‡1, ‡2; quindi cinque orbitali atomici caratterizzati dagli stessi valori di n
(n ˆ 3, oppure 4, oppure 5) e di l (l ˆ 2), ma da cinque diversi valori di m (m ˆ 2,
1, 0, ‡1, ‡2);
± quando: l ˆ 3 (orbitali di tipo f ), il numero quantico m puoÁ assumere i valori 3,
2, 1, 0, ‡1, ‡2, ‡3, quindi sette orbitali atomici caratterizzati dagli stessi valori
di n (n ˆ 4, oppure 5) e di l (l ˆ 3), ma da sette diversi valori di m (m ˆ 3, 2,
1, 0, ‡1, ‡2, ‡3).
7. In assenza di un campo magnetico esterno i numeri quantici m e ms non contribuiscono all'energia dell'orbitale atomico, e pertanto i tre orbitali di tipo p (siano essi 2p,
oppure 3p, oppure 4p) sono isoenergetici o degeneri (hanno la stessa energia); cosõÁ
pure sono isoenergetici i cinque orbitali di tipo d (3d, 4d, 5d) e i sette orbitali di tipo f
(4f, 5f ). Questo perche ciascun tipo di questi orbitali eÁ caratterizzato dagli stessi valori
di n e di l.
La tabella 6.1 riassume alcuni orbitali atomici a partire da quello 1s che, essendo il piuÁ
vicino al nucleo atomico, eÁ caratterizzato dalla minore energia.
8. Sotto l'azione di un campo magnetico applicato dall'esterno anche i numeri quantici m
e ms contribuiscono, sebbene in misura assai limitata, soprattutto il numero quantico
di spin, all'energia dell'orbitale atomico. Per quel che riguarda il contributo del
numero quantico m, eÁ stato trovato che i tre orbitali atomici di tipo p (2p, 3p, 4p, con
l ˆ 1) che in assenza di un campo magnetico esterno sono isoenergetici (o degeneri),
ove si applichi un campo magnetico risultano caratterizzati da tre differenti valori di
energia (uno per ogni valore permesso per m); un analogo fenomeno si verifica per i
cinque orbitali atomici di tipo d (l ˆ 2) e per i sette orbitali atomici di tipo f (l ˆ 3) i
quali, a causa del campo magnetico applicato, degenerano (effetto Zeeman) rispetti14
Si noti che in base alla regola: l ˆ 0, 1, 2, 3, n 1, una volta assegnato a questo numero quantico un valore
permesso, risulta determinato anche il minimo valore di n ˆ l ‡ 1.
92
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Tabella 6.1
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
4. L'atomo secondo la meccanica quantistica
Alcuni orbitali atomici
per i primi tre valori
permessi per il numero
quantico principale.*
Valori
di n
Valori
permessi
per l per
un dato
valore di n
1
0
0
Valori
permessi
per m per
un dato
valore di l
Tipo di
orbitale
atomico
Simbolo
dell'orbitale
atomico
Numeri
quantici
n, l, m
s
1s
1, 0, 0
2
0
0
s
2s
2, 0, 0
2
2
2
1
1
1
1
0
‡1
p
p
p
2p
2p
2p
ì 2, 1, 1
í 2, 1, 0
î 2, 1, 1
3
0
0
s
3s
3, 0, 0
3
3
3
1
1
1
1
0
‡1
p
p
p
3p
3p
3p
ì 3, 1, 1
í 3, 1, 0
î 3, 1, 1
3
3
3
3
3
2
2
2
2
2
2
1
0
‡1
‡2
d
d
d
d
d
3d
3d
3d
3d
3d
ì
ï
í
ï
î
3,
3,
3,
3,
3,
2,
2,
2,
2,
2,
2
1
0
1
2
* Gli orbitali atomici compresi nella parentesi graffa sono caratterizzati dalla medesima energia in assenza di
un campo magnetico applicato dall'esterno. Questi orbitali atomici sono isoenergetici o degeneri.
vamente in cinque e in sette orbitali atomici con differenti valori di energia (uno per
ogni valore permesso per m).15
Analogo effetto si nota per quel che riguarda il contributo all'energia dell'orbitale
atomico da parte del numero quantico di spin ms, per il quale i valori permessi sono
solo due (ms ˆ ‡1=2 oppure ms ˆ 1=2): infatti due orbitali atomici definiti dalla
medesima terna di valori dei numeri quantici n, l e m, ma con ms rispettivamente
uguale a ‡1=2 e a 1=2, sono caratterizzati dalla medesima energia in assenza di un
campo magnetico; se invece si applica un campo magnetico, ad essi competono due
differenti (seppur di poco diversi) valori di energia (effetto Zeeman anomalo) (fig. 5.9).
9. Gli orbitali atomici, di qualunque tipo essi siano (s, p, d, f, ...), esistono in ogni tipo di atomo
indipendentemente dal fatto che tale atomo contenga uno o piuÁ elettroni. Questo percheÂ
gli orbitali atomici definiscono, in dipendenza della quaterna dei numeri quantici che li
caratterizza, i livelli di energia degli elettroni orbitanti, anche se su questi livelli energetici,
che sono caratterizzati da valori d'energia diversa per ciascun tipo di atomo, non si trovano
elettroni. L'assorbimento o l'emissione di energia da parte degli atomi avviene, in accordo
con la teoria di Planck, solo per quantitaÁ discrete (finite), vale a dire solo per quanti (quanta)
di energia: quando l'atomo, in seguito a una perturbazione provocata dall'esterno, viene
eccitato, esso assorbe un ammontare di energia che eÁ esattamente uguale a quello richiesto
per promuovere uno o piuÁ elettroni su orbitali atomici con energia piuÁ grande; inoltre,
essendo gli stati eccitati assai instabili (la loro vita media eÁ pari a circa 10 8 s), gli atomi si
diseccitano immediatamente e spontaneamente riemettendo, normalmente sotto forma di
radiazioni elettromagnetiche (spettri di emissione), l'energia assorbita nell'eccitazione.16 La
frequenza delle radiazioni emesse dipende esclusivamente dal valore dell'energia dei livelli
energetici (degli orbitali atomici) tra cui eÁ avvenuta la transizione. In altre parole, se un dato
15
Si ribadisce che per l ˆ 1 i valori permessi per m sono tre: m ˆ 1, 0; ‡1; per l ˆ 2 i valori permessi per m sono
cinque: m ˆ 2, 1, 0, ‡1, ‡2; per l ˆ 3 i valori permessi per m sono sette: m ˆ 3, 2, 1, 0, ‡1, ‡2, ‡3.
16
L'energia non si crea ne si distrugge, ma si trasforma (primo principio della termodinamica).
93
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Tabella 6.2
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
5. Forma degli orbitali atomici
Principali caratteristiche dei numeri
quantici.
di tipo s (1s, 2s, 3s, 4s, ...) non eÁ la forma che eÁ sempre sferica, ma la grandezza:
quest'ultima infatti aumenta con l'aumentare del numero quantico n. CosõÁ gli orbitali
1s (n ˆ 1, l ˆ 0) sono piuÁ piccoli di quelli 2s (n ˆ 2, l ˆ 0) i quali a loro volta sono piuÁ
piccoli di quelli 3s (n ˆ 3, l ˆ 0) e cosõÁ via. Invece gli orbitali atomici di tipo p (l ˆ 1),
di tipo d (l ˆ 2) e di tipo f (l ˆ 3), vale a dire le funzioni d'onda che si ottengono
assegnando al numero quantico l rispettivamente i valori 1, 2 e 3, portano a figure
geometriche con dipendenza angolare. In particolare, per gli orbitali atomici di tipo p
risulta che la massima probabilitaÁ di trovare l'elettrone eÁ ugualmente distribuita lungo
tre direzioni ortogonali tra loro: una direzione per ogni valore permesso per il numero
quantico magnetico m.19 Pertanto i tre orbitali atomici 2p (oppure i 3p, i 4p, ...),
vengono rappresentati con figure che hanno la forma di due lobi quasi sferici che,
tangenti nell'origine di un sistema di assi cartesiani (x, y, z) in cui eÁ posto il nucleo
atomico, sono orientati rispettivamente lungo l'asse y (orbitale py) lungo l'asse z
(orbitale pz) e lungo l'asse x (orbitale px); mentre lo spazio compreso nell'interno del
contorno di queste figure racchiude circa il 90-95% della probabilitaÁ di trovare
l'elettrone descritto da questo tipo di orbitali (fig. 6.2). Come gli orbitali atomici di
tipo s, anche quelli di tipo p (2p, 3p, 4p, ...) si differenziano tra di loro solo per la
dimensione che aumenta con l'aumentare del numero quantico n. CosõÁ gli orbitali 2p
(n ˆ 2, l ˆ 1) sono piuÁ piccoli di quelli 3p (n ˆ 3, l ˆ 1) che a loro volta sono piuÁ
piccoli di quelli 4p (n ˆ 4, l ˆ 1) e cosõÁ via.
Per gli orbitali atomici di tipo d (l ˆ 2) risultano cinque distribuzioni spaziali preferenziali per l'elettrone, una per ogni valore permesso per il numero quantico m, che
conducono alle rappresentazioni schematizzate nella figura 6.2 (quando l ˆ 2 i valori
permessi per m sono cinque: 2, 1, 0, ‡1, ‡2). Gli orbitali atomici di tipo f e quelli
superiori (g, h, ...) possono essere rappresentati con forme molto piuÁ complicate che, per i
nostri propositi, non sono di fondamentale importanza.
La tabella 6.2 riassume le principali caratteristiche dei numeri quantici.
Simbolo
Nome
Valori permessi
Principali proprietaÁ determinate
n
principale
1, 2, 3, 4, ...
grandezza ed energia dell'orbitale atomico
l
secondario
0, 1, 2, ... n
m
magnetico
l ... 0 ... ‡l
ms
spin
1
‡ ;
2
1
1
2
forma dell'orbitale atomico
orientazione spaziale dell'orbitale atomico
una proprietaÁ intrinseca dell'elettrone
Lo schema a pag. 91 consente di ricavare la successione delle energie degli orbitali atomici
in un atomo polielettronico, e quindi l'ordine con cui gli elettroni occupano i diversi
orbitali. Vediamo ora come si puoÁ giustificare tale progressione sulla base delle «forme»
degli orbitali atomici descritte in figura 6.2. Per gli elettroni di tipo s, esiste, come
sappiamo, una probabilitaÁ non nulla che essi si trovino vicinissimi al nucleo: essi
risentiranno quindi fortemente dell'attrazione da parte del nucleo, e la loro energia
potenziale avraÁ un valore inferiore (piuÁ negativo) rispetto agli elettroni degli altri orbitali.
Per gli elettroni di tipo p, la probabilitaÁ di passare per il nucleo eÁ nulla (e anche la
probabilitaÁ di trovarsi vicino ad esso eÁ bassa): come si nota dalla figura 6.2, i due lobi
dell'orbitale sono uniti per un solo punto (passante per il nucleo), che rappresenta un
«nodo» della funzione d'onda, in cui la probabilitaÁ di rinvenire l'elettrone eÁ nulla. Gli
19
Quando l ˆ 1 i valori permessi per m sono tre:
1, 0, ‡1.
95
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Successione delle
energie degli orbitali
per un atomo polielettronico.
................................................................................................
6
elettroni di tipo p sono di conseguenza mediamente piuÁ lontani e meno legati al nucleo a
causa dell'effetto schermante degli elettroni s, piuÁ penetranti, e la loro energia saraÁ percioÁ
maggiore. Lo stesso avviene, e in modo anche piuÁ marcato, per gli elettroni su orbitali di
tipo d, e quindi su orbitali di tipo f.
In conclusione, l'ordine delle energie degli orbitali all'interno di uno stesso livello (e
quindi l'ordine con cui vengono occupati dagli elettroni, per un atomo polielettronico) eÁ
il seguente:
s < p < d < f
_____________
3
Figura 6.3
...........................................................................................................................................................................................................................
6. Il modello dell'atomo secondo la fisica moderna
energia crescente
Quanto esposto eÁ schematizzato nella figura 6.3, in cui si nota anche che l'orbitale 4s
viene occupato prima dell'orbitale 3d, poiche la sua energia eÁ leggermente inferiore.
4p
Energia
3d
4s
3p
3s
2p
2s
1s
Per concludere, eÁ bene ribadire che la rappresentazione degli orbitali atomici con figure
di solidi geometrici non rispecchia affatto la realtaÁ, in quanto l'onda elettronica tridimensionale non puoÁ essere concretizzata con nessun disegno: la forma con la quale
vengono descritti gli orbitali atomici eÁ una arbitraria, seppure comoda, interpretazione
delle soluzioni di un'equazione matematica, l'equazione d'onda di SchroÈdinger. Pertanto
il mondo dell'atomo, anche se eÁ soggetto a leggi esprimibili matematicamente, non puoÁ, a
rigore, essere rappresentato con alcun modello.
CONFIGURAZIONE ELETTRONICA DEGLI ATOMI
Il fatto che gli atomi di differenti elementi presentino caratteristiche chimiche diverse,
viene spiegato, come in precedenza sottolineato, con il fatto che essi, in dipendenza della
loro natura, sono formati da un diverso numero di protoni e quindi di elettroni. Ma come
sono distribuiti gli elettroni attorno al nucleo dell'atomo? Ebbene, il principio fondamentale che deve essere seguito per poter rispondere a questa domanda eÁ che gli elettroni
sono distribuiti attorno al nucleo ordinatamente, vale a dire in modo da occupare gli
orbitali atomici caratterizzati dalla minore energia disponibile. L'ordinata distribuzione
degli elettroni attorno al nucleo di un dato atomo prende il nome di configurazione
elettronica di quell'atomo ed eÁ caratteristica per ciascuno di essi.
Pertanto eÁ possibile costruire ogni atomo nel suo stato fondamentale, ossia allo stato
non eccitato, aggiungendo semplicemente sugli orbitali atomici, a cominciare da quello
con minore energia, vale a dire da quello 1s che eÁ il piuÁ vicino al nucleo, un numero di
elettroni uguale al numero atomico Z dell'elemento. Nell'eseguire questa costruzione
96
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
6. Configurazione elettronica degli atomi
dell'edificio atomico, nota con il nome di Aufbau, bisogna peroÁ osservare le seguenti
regole:
1. L'ordine di riempimento degli orbitali atomici deve avvenire secondo la loro energia
crescente che, come in precedenza sottolineato, procede da sinistra verso destra con la
seguente successione:
1s, 2s, 2p, 3s, 3p, 4s, 3d, 4p, 5s, :::
2. Due elettroni dello stesso atomo non possono essere caratterizzati dalla medesima
quaterna di valori dei numeri quantici (principio di esclusione di Pauli).20 Pertanto, in
base a questo principio, ciascun orbitale atomico puoÁ essere vuoto, oppure puoÁ
ospitare un solo elettrone, oppure puoÁ ospitare al massimo due elettroni purcheÂ
caratterizzati da spin opposti.21
L'immediata conseguenza del principio di esclusione di Pauli eÁ che:
± gli orbitali atomici di tipo s (1s, 2s, 3s, ...) possono ospitare al massimo due elettroni;
± i tre orbitali atomici di tipo p (2p, 3p, 4p, 5p, ...) possono ospitare al massimo sei
elettroni (due per ciascun orbitale);
± i cinque orbitali atomici di tipo d (3d, 4d, 5d, ...) possono ospitare al massimo dieci
elettroni (due per ciascun orbitale);
± i sette orbitali atomici di tipo f (4f, 5f, ...) possono ospitare al massimo quattordici
elettroni (due per ciascun orbitale).
3. Quando gli elettroni vanno a occupare gli orbitali atomici isoenergetici (o degeneri),
ossia quelli di tipo p (tre), oppure quelli di tipo d (cinque), o quelli di tipo f (sette), il
riempimento avviene in modo che ciascun orbitale viene dapprima occupato da un
solo elettrone, e poi, una volta completato il mezzo riempimento, gli elettroni residui
occupano uno alla volta gli orbitali giaÁ riempiti a metaÁ (principio di Hund o della
massima molteplicitaÁ).
A questo punto siamo in grado di rappresentare la configurazione elettronica di un dato
atomo nel suo stato fondamentale. Quest'ultima viene di solito scritta in due maniere:
. elencando, secondo l'ordine dell'energia crescente, il simbolo degli orbitali atomici
occupati dagli elettroni e indicando a esponente di ciascun orbitale il numero di
elettroni che esso ospita. Per esempio, la configurazione elettronica:
1s2 2s2 2p5
che si legge: «uno esse due, due esse due, due pi cinque» indica che sull'orbitale 1s sono
contenuti due elettroni, su quello 2s sono contenuti due elettroni e sui tre orbitali 2p
sono contenuti cinque elettroni;
. oppure rappresentando ogni orbitale atomico con un quadratino, e ogni elettrone in
esso contenuto, con una freccia verticale all'interno del quadratino:
"
&
In questo caso peroÁ, gli orbitali isoenergetici vengono sempre simboleggiati tutti con il
relativo quadratino. Inoltre, quando un orbitale eÁ riempito, e cioeÁ eÁ occupato da due
elettroni, questi ultimi vengono rappresentati con due frecce orientate in senso opposto
per indicare i due diversi valori del numero quantico magnetico di spin (‡1=2 e 1=2):
"#
&
20
Wolfgang Pauli (1900-1958), fisico austriaco, premio Nobel nel 1945.
Infatti, se due elettroni sono contenuti nel medesimo orbitale atomico, essi, anche se sono caratterizzati dalla
medesima terna di valori dei primi tre numeri quantici (n, l e m), hanno tuttavia un diverso numero quantico di spin:
ms ˆ ‡1=2 l'uno e ms ˆ 1=2 l'altro.
21
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6. Il modello dell'atomo secondo la fisica moderna
Seguendo le regole elencate sopra, procediamo ora alla costruzione di alcuni atomi a
partire da quello piuÁ semplice e cioeÁ dall'atomo di idrogeno.
L'atomo di idrogeno (Z ˆ 1) nel suo stato fondamentale ha la seguente configurazione
elettronica:
"
1
oppure
1s
1s
&
L'atomo di elio (Z ˆ 2) nel suo stato fondamentale ha la seguente configurazione
elettronica:
"#
2
oppure
1s
1s
&
Si fa notare che ciascuna delle due simboleggiature:
##
&
""
&
1s oppure 1s
non eÁ corretta, poiche contrasta con il principio di esclusione di Pauli; infatti i due elettroni
contenuti nello stesso orbitale, avrebbero uguali tutti e quattro i numeri quantici.
L'atomo di litio (Z ˆ 3) nel suo stato fondamentale ha la configurazione elettronica:
2
1
1s 2s
"# &
"
&
oppure
1s 2s
L'atomo di berillio (Z ˆ 4) nel suo stato fondamentale ha la configurazione elettronica:
2
2
1s 2s
"# &
"#
&
oppure
1s 2s
L'atomo di boro (Z ˆ 5) nel suo stato fondamentale ha la configurazione elettronica:
1s2 2s2 2p1
"# &
"# &
" &&
&
oppure
1s
2s 2px 2py 2pz
Si fa notare che gli orbitali isoenergetici (o degeneri) e cioeÁ in questo caso i tre orbitali 2p,
per quanto giaÁ detto, vengono comunque tutti disegnati, anche se non tutti sono occupati
da elettroni.
L'atomo di carbonio (Z ˆ 6) nel suo stato fondamentale ha la configurazione
elettronica:
2
2
2
1s 2s 2p
"# &
"# &
" &
" &
&
oppure
1s
2s 2px 2py 2pz
dalla quale si vede che in base al principio di Hund o della massima molteplicitaÁ, i due
elettroni sugli orbitali isoenergetici 2p, si distribuiscono in modo da impegnare singolarmente il massimo numero di questi orbitali.
L'atomo di azoto (Z ˆ 7) nel suo stato fondamentale ha la configurazione elettronica:
1s2 2s2 2p3
"# &
"# &
" &
" &
"
&
oppure
1s 2s 2px 2py 2pz
98
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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6. Configurazione elettronica degli atomi
L'atomo di ossigeno (Z ˆ 8) nel suo stato fondamentale ha la configurazione elettronica:
1s2 2s2 2p4
"# &
"# &
"# &
" &
"
&
oppure
1s 2s 2px 2py 2pz
dalla quale si vede che, completato il mezzo riempimento degli orbitali isoenergetici, il
quarto elettrone inizia il loro riempimento a cominciare da quello 2px.
L'atomo di neon (Z ˆ 10) nel suo stato fondamentale ha la configurazione elettronica:
1s2 2s2 2p6
oppure
"# &
"# &
"# &
"# &
"#
&
1s 2s 2px 2py 2pz
L'atomo di sodio (Z ˆ 11) nel suo stato fondamentale ha la configurazione elettronica:
2
2
6
1
1s 2s 2p 3s
oppure
"# &
"# &
"# &
"# &
"# &
"
&
1s 2s 2px 2py 2pz 3s
L'atomo di calcio (Z ˆ 20) nel suo stato fondamentale ha la configurazione elettronica:
1s2 2s2 2p6 3s2 3p6 4s2
oppure
"# &
"# &
"# &
"# &
"# &
"# &
"# &
"# &
"# &
"#
&
1s 2s 2px 2py 2pz 3s 3px 3py 3pz 4s
dalla quale si vede che il riempimento degli orbitali segue l'ordine della loro energia
crescente, come giaÁ sottolineato.
L'atomo di zinco (Z ˆ 30) nel suo stato fondamentale ha la configurazione elettronica:
1s2 2s2 2p6 3s2 3p6 4s2 3d 10
e cosõÁ via.
Dai pochi esempi mostrati, si puoÁ dedurre che, nell'atomo neutro, la somma dei
numeri a esponente nei diversi orbitali eÁ uguale al numero atomico dell'elemento, e che
come regola generale, gli orbitali con numero quantico principale n ˆ 1 contengono al
massimo due elettroni, quelli con numero quantico principale n ˆ 2 contengono al
massimo otto elettroni, quelli con numero quantico principale n ˆ 3 contengono al
massimo diciotto elettroni; per cui, il numero massimo di elettroni che possono essere
contenuti negli orbitali atomici caratterizzati dallo stesso valore numerico del numero
quantico principale n eÁ uguale a 2 n2.
99
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
6. Il modello dell'atomo secondo la fisica moderna
............................................................................................................................................................................................................................................................................
QUESITI
1. Quale eÁ stata una delle piuÁ importanti applicazioni
dell'onda materiale associata agli elettroni?
2. Perche il movimento delle particelle atomiche e
subatomiche non eÁ regolato dalle leggi della fisica
classica di Newton?
3. Come puoÁ essere dimostrato che l'elettrone eÁ al
tempo stesso una carica elettrica puntiforme e
un'onda di elettricitaÁ?
4. Perche l'onda associata a un sistema materiale non
puoÁ essere identificata con un'onda elettromagnetica?
5. Che cosa descrive l'equazione di SchroÈdinger? Qual
eÁ il significato di orbitale atomico?
6. Spiega qual eÁ la differenza sostanziale fra il significato attribuito ai numeri quantici nella teoria
di Bohr-Sommerfeld e nella meccanica quantistica
o meccanica ondulatoria.
7. In base alla teoria della fisica moderna (meccanica
quantistica) la quantizzazione dell'energia degli elettroni in un atomo eÁ un postulato. Perche questa affermazione non eÁ esatta?
8. La forma geometrica degli orbitali atomici 2s eÁ
diversa da quella degli orbitali 3s e 4s? Qual eÁ la
differenza fra questi orbitali atomici?
9. Fra un orbitale atomico 2s e un orbitale atomico
2p, qual eÁ quello con maggiore energia? Qual eÁ la
loro rispettiva forma geometrica?
10. In quali casi l'energia degli orbitali atomici eÁ definita solo dai valori permessi dei numeri quantici
n e l? Quando invece essa eÁ definita anche dai
valori permessi degli altri due numeri quantici?
11. Spiega qual eÁ la differenza sostanziale fra orbita e
orbitale atomico. Quali informazioni fornisce un
orbitale atomico?
12. Che cosa significa che un orbitale atomico puoÁ essere
degenere? PuoÁ essere degenere l'orbitale atomico
caratterizzato dai numeri quantici nˆ2 e l ˆ0?
13. Quali principi devono essere rispettati nella costruzione Aufbau di un atomo?
14. Qual eÁ il massimo numero di elettroni che possono
disporsi sullo strato caratterizzato da n ˆ 5?
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20 esercizi interattivi
15. Perche un orbitale atomico puoÁ contenere al massimo due elettroni? Quali caratteristiche differenziano i due elettroni?
16. Indica quali sono i valori permessi del numero quantico magnetico di spin per un elettrone che si trova su
un orbitale atomico caratterizzato da nˆ3 e mˆ0.
17. L'orbitale atomico 4d in presenza di un campo
magnetico esterno degenera in cinque orbitali
atomici con differenti valori di energia. Assegna a
ciascuno di questi orbitali degeneri i corrispondenti valori dei numeri quantici n, l e m.
18. Qual eÁ il numero quantico responsabile della forma degli orbitali atomici, e quale quello responsabile della loro orientazione spaziale?
19. Calcola quanti elettroni possono al massimo essere
distribuiti su ciascuno dei seguenti tipi di orbitali
atomici: s, p, d, f. Qual eÁ il minimo valore permesso
del numero quantico principale n che caratterizza
un orbitale atomico di tipo f ?
20. L'elemento con numero atomico Z ˆ 20 non eÁ un
elemento di transizione. EÁ esatta questa affermazione?
21. In base alla loro configurazione elettronica, indica
a quale gruppo del sistema periodico lungo appartengono gli elementi con numero atomico Z
rispettivamente pari a 4, 12, 20, 38, 56.
22. Indica quale elemento potrebbe essere quello che
nel suo stato fondamentale ha la configurazione
elettronica 1s2 2s2 2p6 3s2 3p6 .
23. In base alla regola del completo riempimento degli
orbitali atomici isoenergetici, scrivi la configurazione elettronica piuÁ probabile dell'elemento con
numero atomico Z ˆ 47.
24. Assegna ai numeri quantici n e l, i corrispondenti
valori per i seguenti orbitali atomici: 3s, 2p, 4p, 3d.
25. Calcola il numero di elettroni che in un atomo
possono essere caratterizzati dal valore del numero
quantico principale n ˆ 4.
26. Indica quali sono i valori permessi per il numero
quantico secondario l, quando il numero quantico
n eÁ uguale a tre.
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7
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1
Il mondo delle molecole
ENERGIA DI IONIZZAZIONE E AFFINITAÁ ELETTRONICA
Le proprietaÁ chimiche degli elementi variano all'interno della tavola periodica non solo
con il variare della configurazione elettronica esterna dei loro atomi, ma anche in
dipendenza di altre due grandezze caratteristiche che prendono il nome di energia di
ionizzazione e di affinitaÁ elettronica.
Si definisce energia (o potenziale) di ionizzazione (E.I.) di un elemento, l'energia,
espressa generalmente in elettronvolt (eV),1 necessaria per strappare uno o piuÁ elettroni
da un atomo neutro di quell'elemento allo stato gassoso. In questo modo prende origine
una particella di materia carica di elettricitaÁ positiva detta catione, che differisce
dall'atomo neutro originale per il fatto di possedere una o piuÁ cariche negative elementari
in meno, in dipendenza degli elettroni strappati:
Li ‡ energia ! Li‡
(atomo neutro di litio)
Ca ‡ energia ! Ca2‡
(atomo neutro di calcio)
‡ 1e
(catione litio)
‡ 2e
(catione calcio)
L'energia spesa per strappare dall'atomo neutro di un elemento il primo elettrone, viene
indicata con il nome di energia di prima ionizzazione, mentre quella necessaria per
strappare un secondo, un terzo, un quarto elettrone, viene indicata rispettivamente con il
nome di energia di seconda, terza, quarta ionizzazione. Fra i differenti valori di energia
di ionizzazione di un elemento, il piuÁ significativo eÁ il primo, e ad esso faremo principalmente riferimento.
L'energia di ionizzazione eÁ una proprietaÁ periodica degli elementi, come mostra il grafico
di figura 7.1. Tenendo presenti le configurazioni elettroniche dei singoli elementi, possiamo
trarre interessanti conclusioni dall'andamento dell'energia di ionizzazione.
Notiamo innanzitutto come essa si innalzi fortemente passando dall'idrogeno all'elio,
gas nobile con configurazione a duetto (1s2). Il litio, viceversa, ha un'energia di ionizzazione molto piuÁ bassa, dovuta alla facilitaÁ con cui l'elettrone solitario del livello 2s puoÁ
essere strappato dall'atomo. Il berillio (configurazione 1s22s2) ha un'energia di ionizzazione superiore, per l'aumentata carica nucleare. Il boro (configurazione 1s22s22p1)
presenta la particolaritaÁ di avere un'energia di ionizzazione leggermente inferiore a quella
del berillio, pur avendo carica nucleare maggiore: l'elettrone da allontanare appartiene
infatti all'orbitale 2p, che risulta notevolmente schermato rispetto al nucleo dagli elettroni
2s. Dopo il carbonio e l'azoto, troviamo ancora una simile «anomalia» per l'ossigeno
1
L'elettronvolt (eV) eÁ una unitaÁ di misura dell'energia che viene spesso usata in campo atomico: 1 eV equivale a
1,6 10 19 J.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 7.1
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
7. Il mondo delle molecole
Andamento
dell'energia di prima
ionizzazione.
Energia di ionizzazione (eV)
He
25
Ne
20
F
Ar
Kr
N
15
Cl
O
H
C
Be
10
Zn
S
Mg
1
Cr
Sc Ti V
Al
Li
5
10
Se
Mn
Ge
Ni Cu
Zr
Sr
Rb
K
15
Nb
Y
Ga
Ca
Na
As
Fe Co
Si
B
5
Br
P
20
25
30
35
40
Numero
atomico
(configurazione 1s2 2s2 2p2x 2p1y 2p1z ): l'elettrone che viene allontanato per primo appartiene
all'orbitale 2px e l'effetto repulsivo dovuto alla presenza di un secondo elettrone nello
stesso orbitale ne facilita l'allontanamento. L'ultimo elemento del periodo (il neon,
configurazione otteziale esterna 2s22p6) presenta la massima energia di ionizzazione.
Con l'inizio della nuova serie di elementi (dal sodio all'argon), ritroviamo un analogo
andamento dell'energia di ionizzazione, e tale regolaritaÁ si estende ai periodi successivi,
per cui in generale possiamo concludere che:
a) prendendo in esame gli elementi compresi nello stesso periodo del sistema periodico
lungo, si verifica un aumento progressivo dell'energia di ionizzazione procedendo da
sinistra verso destra (tenendo conto delle eccezioni giaÁ viste e rilevato l'andamento
particolare degli elementi di transizione, che hanno valori di energia di ionizzazione
molto vicini tra loro); prendendo in esame gli elementi compresi nello stesso gruppo
del sistema periodico lungo, si verifica una diminuzione progressiva dell'energia di
ionizzazione procedendo dall'alto verso il basso.
La causa di quest'ultima particolaritaÁ eÁ dovuta evidentemente al fatto che gli elettroni
piuÁ esterni, per elementi dello stesso gruppo, risentono sempre meno dell'attrazione
del nucleo, in quanto al crescere del numero atomico essi sono schermati da un
numero di elettroni via via maggiore;
b) i gas nobili, con configurazione a duetto (He) o otteziale, possiedono il massimo valore
di energia di ionizzazione: risulta molto difficoltoso strappare un elettrone dal livello
piuÁ esterno, dotato della massima stabilitaÁ se confrontato con i livelli piuÁ esterni degli
elementi appartenenti agli altri gruppi.
Passando poi dall'energia di prima ionizzazione a quella di seconda, terza e cosõÁ via, si
nota che essa va aumentando (come eÁ logico attendersi, in quanto l'allontanamento di
un elettrone risulta ostacolato dal fatto che la particella possiede giaÁ una o piuÁ cariche
positive), e subisce una brusca «impennata» al momento in cui la configurazione
esterna si identifica con quella di un gas nobile (tab. 7.1).
Si definisce affinitaÁ elettronica di un elemento (A.E.), l'energia, espressa generalmente in
elettronvolt (eV), che viene liberata da un atomo neutro di quell'elemento allo stato
gassoso, quando un elettrone si unisce ad esso. In questo modo si origina una particella di
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Tabella 7.1
................................................................................................................................................................................................................................................................
2. PoliatomicitaÁ delle molecole
Energie di ionizzazione di alcuni elementi
(in kJ/mol).
............................................................
2
Ia (kJ=mol)
IIa (kJ=mol)
IIIa (kJ=mol)
IV a (kJ=mol)
Li
Na
K
Rb
Cs
513
496
419
403
376
7300
4560
3070
2650
2420
Ð
Ð
Ð
Ð
Ð
Ð
Ð
Ð
Ð
Ð
Be
Mg
Ca
Sr
Ba
899
738
590
549
503
1760
1450
1137
1060
966
14 850
7740
4940
4120
3390
Ð
Ð
Ð
Ð
Ð
B
Al
801
578
2420
1820
3660
2740
25 000
11 600
materia a carica negativa detta anione, che differisce dall'atomo neutro da cui eÁ originata
per avere una o piuÁ cariche negative elementari in piuÁ, in dipendenza del numero di
elettroni acquistati:
F ‡ 1e
(atomo neutro di fluoro)
S ‡ 2e
(atomo neutro di zolfo)
! F
‡ energia
! S2
‡ energia
(anione fluoruro)
(anione solfuro)
Anche l'affinitaÁ per l'elettrone eÁ una proprietaÁ periodica degli elementi, in quanto,
prendendo in esame quelli compresi nello stesso periodo del sistema periodico lungo, si
verifica un aumento progressivo dell'affinitaÁ elettronica procedendo da sinistra verso
destra; prendendo in esame gli elementi compresi nello stesso gruppo del sistema
periodico lungo, si verifica una diminuzione progressiva dell'affinitaÁ elettronica procedendo dall'alto verso il basso.
Quindi per gli elementi compresi nello stesso periodo, con l'aumentare del numero
atomico (procedendo da sinistra verso destra) diminuisce il carattere metallico e
progressivamente si rafforza quello non metallico, mentre per gli elementi compresi
nello stesso gruppo, con l'aumentare del numero atomico (procedendo dall'alto verso il
basso) diminuisce il carattere non metallico e si rafforza quello metallico.
Possiamo concludere che gli elementi metallici sono caratterizzati da un basso valore
dell'energia di ionizzazione e da una scarsa affinitaÁ elettronica, mentre gli elementi non
metallici sono caratterizzati da valori elevati di energia di ionizzazione e di affinitaÁ elettronica.
La particolare collocazione nel sistema periodico lungo degli elementi di transizione,
ovvero degli elementi del blocco d, oppure di quelli del blocco f, trova un'ulteriore
giustificazione in quanto essi sono tutti caratterizzati da bassi valori di energia di ionizzazione e di affinitaÁ elettronica che ne denunciano un prevalente carattere metallico.
POLIATOMICITAÁ DELLE MOLECOLE
Abbiamo sempre affermato che la molecola eÁ un'entitaÁ di materia, capace di esistenza
indipendente, formata dall'unione di un numero discreto di atomi che possono essere
uguali fra loro (molecola di una sostanza semplice, come per esempio quella dell'idrogeno), oppure possono essere diversi fra loro (molecola di una sostanza composta, come
per esempio quella dell'acqua). Mentre peroÁ eÁ fuori discussione che la molecola di una
sostanza composta, come quella dell'acqua, sia formata dall'unione di atomi di idrogeno e
di atomi di ossigeno, in quanto l'idrogeno e l'ossigeno sono gli elementi che compongono
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3. Teoria di Lewis del legame chimico
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3
TEORIA DI LEWIS DEL LEGAME CHIMICO
2
I legami chimici e cioeÁ i particolari legami che le particelle delle sostanze stabiliscono fra
loro, possono essere suddivisi in due classi:
1. legami chimici principali che sono quelli che si stabiliscono fra atomi o fra molecole
giaÁ formate;
2. legami chimici secondari che sono quelli che si stabiliscono fra molecole giaÁ formate
capaci di esistenza indipendente.
I legami principali, cioeÁ quelli che in genere si stabiliscono fra atomi uguali o diversi, sono
responsabili o dell'esistenza di singole molecole gassose formate da un piccolo numero di
atomi (molecole di azoto, di ossigeno, di ammoniaca, di acido cloridrico e cosõÁ via),
oppure di un numero elevatissimo di atomi uguali o diversi ordinatamente disposti nello
spazio tridimensionale.
I legami chimici secondari, cioeÁ quelli che si stabiliscono fra molecole giaÁ formate
capaci di esistere indipendentemente le une dalle altre, sono responsabili delle forze di
coesione che esistono fra dette molecole, e pertanto essi determinano lo stato di aggregazione solido, liquido o gassoso che una stessa sostanza, come per esempio l'acqua, puoÁ
presentare in dipendenza delle condizioni di pressione e temperatura ambientali.
Sia i legami chimici principali sia quelli secondari sono di natura elettrica, in quanto
essi prendono origine dall'interazione dell'atmosfera elettronica esterna degli atomi o
delle molecole interessate al legame.
I legami chimici principali, cioeÁ quelli che si stabiliscono fra atomi uguali o diversi,
possono essere ricondotti a tre tipi:
. legame ionico;
. legame covalente;
. legame metallico.
Allo scopo di facilitare l'interpretazione dei legami chimici ionico e covalente,3 eÁ molto
utile assumere come termine di riferimento l'atomo dei gas nobili data l'apparente
inerzia chimica di queste sostanze. Infatti, poiche in base a un principio generale
dedotto dall'esperienza, tutti i sistemi materiali tendono spontaneamente al minore
contenuto di energia potenziale e cioeÁ alla massima stabilitaÁ, anche gli atomi presi
singolarmente devono manifestare questa esigenza. Quindi, dato che la configurazione
elettronica esterna degli atomi dei gas nobili (elementi molto stabili) eÁ di tipo otteziale
s2p6 o a duetto s2 (come per l'elio), gli atomi degli elementi si legano fra loro
impegnando gli elettroni distribuiti sugli orbitali piuÁ esterni, e cioeÁ gli elettroni detti
di valenza, in quanto tendono ad assumere la configurazione elettronica esterna
otteziale o a duetto come quella di un gas nobile. In questo modo ogni atomo
interessato al legame acquista nella molecola una piuÁ elevata stabilitaÁ e quindi il
minore contenuto di energia potenziale.
Questa regola, nota con il nome di regola dell'ottetto o del duetto, eÁ comunque solo
orientativa, in quanto la sintesi di alcuni composti dei gas nobili ha dimostrato che la
configurazione elettronica esterna s2p6 oppure s2 non eÁ stabile al 100%.
Esponiamo ora brevemente, in termini di regola dell'ottetto (duetto), il legame ionico e
quello covalente, servendoci delle formule elettroniche proposte da Lewis, con le quali gli
atomi interessati ai legami vengono rappresentati per mezzo dei corrispondenti simboli
2
Gilbert Newton Lewis (1875-1946), chimico fisico americano.
A rigore, in uno stesso composto, il legame fra gli atomi interessati non eÁ mai totalmente ionico, oppure totalmente
covalente, ma esiste una prevalenza di uno di questi due tipi di legame rispetto all'altro.
3
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7. Il mondo delle molecole
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4
chimici contornati da tanti puntini quanti sono i rispettivi elettroni di valenza, il cui
numero, come abbiamo giaÁ avuto occasione di sottolineare, coincide con l'ordine di
gruppo nel quale eÁ collocato l'elemento nel sistema periodico lungo.4
CosõÁ, per esempio, il litio che eÁ classificato nel primo gruppo, avendo un solo elettrone
di valenza, quello distribuito sull'orbitale 2s, ha la seguente formula elettronica:
Li
In modo analogo, il berillio, il boro, il carbonio, l'azoto, l'ossigeno e il fluoro, classificati rispettivamente nei gruppi dal secondo al settimo, hanno le seguenti formule
elettroniche:
Be
B
C
N
O
F
LEGAME IONICO
Questo tipo di legame, detto anche legame eteropolare o elettrovalente, si stabilisce
sempre, nel caso piuÁ semplice, fra almeno due atomi di elementi diversi mediante
trasferimento di elettroni, nel senso che un atomo di un elemento cede uno o piuÁ elettroni
di valenza a un altro atomo di un elemento diverso che li acquista. Questo perche l'atomo
o gli atomi che perdono gli elettroni, e cosõÁ pure l'atomo o gli atomi che li acquistano,
diventando ioni a carica positiva (cationi) o negativa (anioni), assumono la configurazione
elettronica esterna uguale a quella di un gas nobile. Per esempio, la formazione del
composto ionico cloruro di sodio (NaCl) avviene perche il sodio (Z ˆ 11)
1s2 2s2 2p6 3s1
Na
perdendo l'unico elettrone di valenza, quello sull'orbitale atomico 3s, diventa un catione
sodio, Na‡ , la cui configurazione elettronica esterna eÁ di tipo otteziale (s2 p6 ) come quella
di un gas nobile che lo precede, mentre l'atomo di cloro (Z ˆ 17)
1s2 2s2 2p6 3s2 3p5
Cl
acquistando l'elettrone cedutogli dall'atomo di sodio, diventa un anione cloruro, Cl , la
cui configurazione elettronica esterna eÁ anch'essa di tipo otteziale (s2 p6 ) come quella di un
gas nobile che lo segue. I due ioni che cosõÁ si formano, essendo carichi di elettricitaÁ di
segno contrario, si attraggono reciprocamente con una forza di natura elettrostatica
regolata dalla legge di Coulomb:5
Na+
Cl–
Il legame ionico si forma prevalentemente fra gli elementi metallici, e cioeÁ fra quelli
classificati nel primo e secondo gruppo del sistema periodico, oltre naturalmente gli elementi di transizione i quali, avendo una bassa energia di ionizzazione, cedono facilmente i
propri elettroni di valenza, e gli elementi non metallici, e cioeÁ quelli classificati nel sesto e
nel settimo gruppo del sistema periodico, i quali avendo una elevata affinitaÁ per l'elettrone
tendono ad assumere facilmente gli elettroni che vengono loro ceduti.
4
A questa regola fanno naturalmente eccezione gli elementi di transizione, i quali come vedremo, hanno un numero
variabile di elettroni di valenza.
5
La linea tratteggiata indica la forza elettrostatica che tiene uniti i due ioni.
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Figura 7.2
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4. Legame ionico
Per comprendere pienamente la natura del legame ionico, eÁ necessario un approfondimento
del ruolo che giocano diverse grandezze energetiche nella formazione del legame.
Prendiamo come modello il cloruro di sodio NaCl e consideriamo separatamente le
fasi attraverso cui si puoÁ immaginare che si formi il sale:
1. formazione dello ione positivo Na+ dall'elemento gassoso monoatomico:
Na(g) ! Na‡
(g) ‡ 1 e
(DH1 ˆ ‡496 kJ=mol)
DH1 ˆ energia (o meglio entalpia) di ionizzazione (il segno positivo indica che l'energia eÁ
assorbita);
2. formazione dello ione negativo Cl dal cloro gassoso monoatomico:
Cl(g) ‡ 1 e ! Cl(g) (DH2 ˆ
349 kJ=mol)
DH2 ˆ affinitaÁ elettronica (il segno negativo indica che l'energia eÁ ceduta).
L'energia complessiva in gioco nell'insieme di questi processi eÁ data da:
DHtot ˆ (496
349) kJ=mol ˆ ‡147 kJ=mol
Questo risultato mostra che se il processo fosse limitato alla formazione dei singoli ioni
Na‡ e Cl , la variazione di energia in gioco sarebbe positiva (energia assorbita dal
sistema) e questo porterebbe alla formazione di un sistema meno stabile di quello di
partenza: si tratterebbe quindi di un processo poco probabile. In realtaÁ, il processo eÁ
completo solo se teniamo conto che gli ioni, una volta formatisi, tendono ad avvicinarsi (a
causa delle loro cariche opposte) fino alla distanza minima di equilibrio, che corrisponde
alla formazione di un reticolo ordinato tridimensionale di ioni positivi e negativi alternati,
che costituisce la struttura di un solido cristallino (fig. 7.2).
Reticolo cristallino del
cloruro di sodio.
Un tale processo spontaneo di avvicinamento degli ioni di carica opposta sviluppa energia
(detta energia reticolare), che, per NaCl, eÁ:
DHr ˆ
787 kJ=mol
Il segno negativo eÁ giustificato dal fatto che, se volessimo allontanare gli ioni dalle loro
posizioni di equilibrio dovremmo effettuare lavoro, cioeÁ fornire energia al sistema (DHr
avrebbe allora segno positivo).
A questo punto, possiamo fare un bilancio completo dell'energia in gioco, sommando
algebricamente le tre energie (di ionizzazione, affinitaÁ elettronica, reticolare):
DHtot ˆ …496
349
787† kJ=mol ˆ
640 kJ=mol
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7. Il mondo delle molecole
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5
Il valore negativo (energia sviluppata), e molto grande, indica appunto che il sistema che
si eÁ formato eÁ nettamente piuÁ stabile del sistema di partenza (gli elementi).
Quanto visto per NaCl puoÁ estendersi naturalmente agli altri composti ionici, e la
conclusione eÁ che l'abbassamento complessivo dell'energia potenziale di questi composti
(e quindi la loro possibilitaÁ di formazione in modo stabile) eÁ determinata in gran parte dal
contributo dell'energia reticolare.
LEGAME COVALENTE
Per assumere la configurazione elettronica esterna uguale a quella di un gas nobile, e
quindi maggiore stabilitaÁ, gli atomi possono legarsi fra loro compartecipando mutuamente gli elettroni di valenza, invece di trasferirli dall'uno all'altro come nel caso del
legame ionico. Il legame chimico che in questo modo si stabilisce fra gli atomi viene detto
legame covalente e nelle ordinarie condizioni ambientali porta alla formazione o di
singole molecole indipendenti allo stato gassoso, che sono formate dall'unione di un
numero discreto di atomi uguali o diversi (per esempio molecole di idrogeno, di ossigeno,
di ammoniaca, di acqua e cosõÁ via), oppure porta alla formazione di solidi cristallini che
vengono denominati solidi covalenti (per esempio diamante e grafite).
Poiche il passaggio dal legame ionico a quello covalente non avviene in modo netto ma
progressivamente, in quasi tutte le molecole nelle quali gli atomi sono legati con legame
covalente esiste sempre una certa percentuale di legame ionico. Comunque, da ora in
avanti, tenendo peroÁ sempre presente questa precisazione, supporremo che il legame
covalente che si puoÁ stabilire fra gli atomi sia puro.
Il caso piuÁ semplice di legame covalente eÁ quello che porta alla formazione di una
molecola di idrogeno a partire da due atomi isolati di questo elemento. Infatti, ogni atomo
di idrogeno (Z ˆ 1), la cui formula elettronica di Lewis eÁ H, tende ad assumere la
configurazione elettronica esterna del gas nobile elio (Z ˆ 2) e pertanto necessita di un
solo elettrone che peroÁ non puoÁ essergli ceduto dall'altro atomo, il quale ovviamente
manifesta la stessa esigenza; se peroÁ i due atomi isolati di idrogeno si avvicinano l'uno
all'altro, e poi si legano in modo che ognuno di essi condivida con l'altro il proprio
elettrone di valenza, tutti e due assumono la configurazione elettronica esterna dell'elio, e
pertanto si forma una molecola biatomica di idrogeno:
H‡H!H
H
Nel legame covalente che cosõÁ si forma, i due elettroni di valenza coinvolti non appartengono ne all'uno ne all'altro atomo, ma appartengono contemporaneamente a tutti e
due gli atomi. Essi vengono inoltre rappresentati invece che con due puntini interposti fra
i due atomi, anche con una linea:
H Ð H (H2 )
In modo analogo puoÁ essere spiegata l'esistenza della molecola biatomica del cloro, in
quanto considerando due atomi isolati di questo elemento, classificato nel settimo gruppo
del sistema periodico e quindi con la formula elettronica di Lewis Cl , ogni atomo di cloro,
per assumere la configurazione elettronica esterna otteziale di un gas nobile, necessita di un
solo elettrone; questa esigenza reciproca puoÁ essere allora soddisfatta solo se i due atomi
isolati si uniscono mettendo in comune ciascuno un solo elettrone di valenza:6
Cl ´ ‡ ´ Cl ! Cl ´´ Cl
oppure
Cl Ð Cl
6
Da ora in avanti, per facilitare l'interpretazione del legame covalente contratto dagli atomi, simboleggeremo con
una piccola croce gli elettroni di valenza effettivamente coinvolti nel legame; nelle formule elettroniche di Lewis vengono
in genere indicati con un trattino i doppietti elettronici di legame e con puntini gli elettroni non condivisi.
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5. Legame covalente
o piuÁ semplicemente:
Cl Ð Cl (Cl2 )
Consideriamo ora un atomo isolato di idrogeno e un atomo isolato di cloro:
H
Cl
e verifichiamo se essi possono legarsi per mezzo di un un legame covalente. Se l'elettrone
di valenza dell'atomo di idrogeno viene messo in comune con un elettrone di valenza
dell'atomo di cloro, entrambi gli atomi considerati assumono la configurazione elettronica esterna di un gas nobile, e cioeÁ rispettivamente s2 e s2p6, e pertanto essi formano
facilmente una molecola di acido cloridrico:
´
H ‡ ´ Cl ! H´ ´ Cl
o piuÁ semplicemente:
oppure
H Ð Cl
H Ð Cl
CosõÁ pure un atomo isolato di ossigeno classificato nel sesto gruppo del sistema periodico,
la cui formula di Lewis eÁ O , si lega per mezzo di due legami covalenti, con due atomi
isolati di idrogeno:
H
H
per formare una molecola di acqua:
×
H
×⫹
O
×
×
H
×× H
O
×
oppure
O
H
×
H
H
o piuÁ semplicemente:
O
H
(H2O)
H
Infatti, in questo modo, l'atomo di ossigeno e i due atomi di idrogeno assumono la configurazione elettronica esterna di un gas nobile, rispettivamente s2p6 e s2, in quanto
l'atomo di ossigeno ha messo in comune i due elettroni di valenza ciascuno con un
elettrone di valenza di ogni atomo di idrogeno.
Sempre applicando la regola dell'ottetto (duetto), eÁ possibile prevedere se due atomi
uguali o diversi possono legarsi fra loro anche mettendo in comune due o tre coppie di
elettroni, nel qual caso, il legame covalente che cosõÁ si stabilisce fra i due atomi viene detto
rispettivamente doppio o triplo. Per esempio, in base a questa regola, la molecola
dell'ossigeno eÁ formata dall'unione di due atomi isolati di questo elemento legati fra loro
per mezzo di un doppio legame covalente:
Ó´ ‡ ´ Ó ! O ´´ ´´O
oppure
O
O
o piuÁ semplicemente:
O
O
(O2 )
e quindi ogni atomo di ossigeno assume la configurazione elettronica esterna otteziale
s2p6.
CosõÁ pure la molecola dell'azoto, elemento classificato nel quinto gruppo, con formula
di Lewis N eÁ formata dall'unione di due atomi isolati di questo elemento legati fra loro
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................................................
7. Il mondo delle molecole
Tabella 7.2
Scala dell'elettronegativitaÁ di alcuni
elementi secondo
Pauling.
...........................................................................................................................................................................................................................................................................
6
per mezzo di un triplo legame covalente:
´
´´
Ń´ ‡ ´ Ń´ ! N´´ ´´N
o piuÁ semplicemente:
N
N
oppure
N
N
(N2 )
nella quale ogni atomo di azoto eÁ attorniato da otto elettroni.
ELETTRONEGATIVITAÁ
Quando fra due atomi di due diversi elementi vengono contratti uno o piuÁ legami
covalenti, si verifica che la coppia di elettroni relativa ad ogni legame viene attratta
preferenzialmente da uno dei due atomi in dipendenza dei rispettivi valori dell'affinitaÁ
per l'elettrone e del potenziale di ionizzazione. Un simile fenomeno puoÁ essere facilmente
previsto conoscendo l'elettronegativitaÁ degli atomi dei diversi elementi, intendendo con
questo termine, la capacitaÁ di ogni atomo in una molecola, biatomica o poliatomica, di
attrarre verso di se la coppia o le coppie di elettroni che lo legano a un altro atomo.
Dato che la capacitaÁ di attrarre la coppia o le coppie di elettroni di legame da parte di
un atomo dipende dalla natura dell'altro atomo al quale esso eÁ legato, non eÁ possibile
assegnare agli atomi dei diversi elementi un unico valore di elettronegativitaÁ.7
Pertanto, allo scopo di poter confrontare fra loro le elettronegativitaÁ dei diversi atomi,
si eÁ convenuto di scegliere l'atomo di un elemento di riferimento, e precisamente l'atomo
dell'idrogeno, rispetto al quale eÁ stato calcolato un solo valore dell'elettronegativitaÁ per
tutti gli altri atomi.
Poiche questi calcoli possono essere ottenuti sia in base ai valori dell'affinitaÁ elettronica
(o dell'energia di ionizzazione) dell'atomo in esame legato all'atomo di idrogeno, sia in base
al valore dell'energia che lega l'atomo dell'elemento in esame all'atomo di idrogeno, sono
state proposte diverse scale di elettronegativitaÁ, fra le quali la piuÁ nota eÁ quella suggerita da
Linus Pauling,8 e che riportiamo nella tabella 7.2 per gli elementi piuÁ rappresentativi.
Elemento
Fluoro
Ossigeno
Cloro
Azoto
Bromo
Iodio
Zolfo
Carbonio
Idrogeno
Fosforo
Arsenico
Boro
Stagno
Silicio
ElettronegativitaÁ
(F)
(O)
(Cl)
(N)
(Br)
(I)
(S)
(C)
(H)
(P)
(As)
(B)
(Sn)
(Si)
3,98
3,44
3,16
3,04
2,96
2,66
2,58
2,55
2,20
2,19
2,18
2,04
1,96
1,90
Elemento
Zinco
Alluminio
Berillio
Magnesio
Calcio
Litio
Sodio
Bario
Potassio
Rubidio
Cesio
ElettronegativitaÁ
(Zn)
(Al)
(Be)
(Mg)
(Ca)
(Li)
(Na)
(Ba)
(K)
(Rb)
(Cs)
7
1,65
1,61
1,57
1,31
1,00
0,98
0,93
0,89
0,82
0,82
0,79
Per esempio, nella molecola A2
2B l'atomo A puoÁ essere piuÁ elettronegativo dell'atomo B; mentre nella molecola
A2
2C lo stesso atomo A puoÁ essere meno elettronegativo dell'atomo C.
8
Linus Carl Pauling (1901-1994), chimico statunitense, premio Nobel nel 1954 per la chimica e nel 1962 per la
pace.
110
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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6. ElettronegativitaÁ
Dall'esame di questa tabella si puoÁ notare che:
a) all'elemento di riferimento, e cioeÁ all'atomo di idrogeno, eÁ stato assegnato un valore di
elettronegativitaÁ uguale a 2,20 allo scopo di facilitare il calcolo dell'elettronegativitaÁ
degli altri atomi;
b) l'elemento piuÁ elettronegativo eÁ il fluoro (elettronegativitaÁ uguale a 3,98), seguito
subito dall'ossigeno (elettronegativitaÁ uguale a 3,44);
c) l'elemento meno elettronegativo eÁ il cesio (elettronegativitaÁ uguale a 0,79);
d) nel sistema periodico, l'elettronegativitaÁ aumenta da sinistra verso destra e diminuisce dall'alto verso il basso: tale andamento eÁ analogo a quello dell'affinitaÁ elettronica,
e questo eÁ facilmente spiegabile se si pensa che, quanto piuÁ grande eÁ la tendenza di
un elemento ad acquistare elettroni, tanto maggiore saraÁ la sua forza di attrazione
verso gli elettroni condivisi con un altro elemento (ad analoghe conclusioni si perviene confrontando con l'elettronegativitaÁ l'energia di ionizzazione invece dell'affinitaÁ
elettronica).
EÁ chiaro a questo punto che, in conseguenza della diversa elettronegativitaÁ degli atomi
contenuti in una molecola biatomica o poliatomica, uno o piuÁ legami covalenti della
molecola possono essere piuÁ o meno polarizzati, intendendo per polaritaÁ di un legame
covalente, una asimmetrica distribuzione della densitaÁ di carica elettrica associata ad ogni
coppia di elettroni di legame.
Per esempio, il legame covalente fra l'idrogeno e il fluoro nella molecola dell'acido
fluoridrico:
HÐF
eÁ fortemente polarizzato, in quanto la densitaÁ di carica della coppia di elettroni di legame
eÁ massima dalla parte dell'atomo di fluoro, la cui elettronegativitaÁ (3,98) eÁ nettamente
maggiore di quella dell'atomo di idrogeno (2,20).
Nella molecola dell'acido cloridrico (HCl):
H Ð Cl
il legame covalente eÁ ancora fortemente polarizzato, peroÁ meno di quello della molecola
dell'acido fluoridrico, in quanto l'elettronegativitaÁ dell'atomo di cloro eÁ uguale a 3,16.
Nella molecola dell'acetilene (C2H2):
HÐC
CÐH
il triplo legame covalente carbonio-carbonio non eÁ polarizzato perche eÁ contratto fra due
atomi uguali, mentre ciascuno dei due legami covalenti C Ð H, eÁ debolmente polarizzato
dato che l'elettronegativitaÁ dei due atomi eÁ di poco diversa (C ˆ 2,55; H ˆ 2,20).
La conseguenza piuÁ importante della presenza di legami covalenti polarizzati in una
molecola eÁ che essa, sebbene nel complesso risulti elettricamente neutra, eÁ caratterizzata dal fatto che il centro delle cariche elettriche positive eÁ localizzato dalla parte
dell'atomo o degli atomi meno elettronegativi, mentre il centro delle cariche elettriche
negative eÁ localizzato dalla parte dell'atomo o degli atomi piuÁ elettronegativi. In questo
caso la molecola costituisce un dipolo permanente che puoÁ essere rappresentato nel
modo seguente:
+
–
e pertanto essa possiede un momento dipolare. Indicando con d (delta-meno) la frazione
di carica elettrica negativa degli elettroni di legame addensata in una parte della molecola,
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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7. Il mondo delle molecole
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7
e con d‡ (delta-piuÁ) l'uguale frazione di carica elettrica positiva9 addensata in un'altra parte
della molecola, il momento dipolare di un simile dipolo viene definito dal prodotto della carica
elettrica d (positiva o negativa), per la distanza r dei centri delle due cariche elettriche, e cioeÁ:10
momento dipolare ˆ d r
δ+
r
δ–
EÁ interessante notare che, dalla tabella 7.2 dei valori dell'elettronegativitaÁ degli atomi, eÁ
possibile fare alcune importanti previsioni, e cioeÁ:
a) quando la differenza di elettronegativitaÁ fra due atomi legati eÁ uguale o maggiore a 1,7,
il legame fra i due atomi eÁ prevalentemente ionico. Per esempio, fra Na (elettronegativitaÁ ˆ 0,93) e Cl (elettronegativitaÁ ˆ 3,16) la differenza di elettronegativitaÁ eÁ pari a
2,23 e quindi esiste un legame nettamente ionico;
b) quando la differenza di elettronegativitaÁ fra due atomi legati eÁ minore di 1,7, il legame fra i
due atomi eÁ prevalentemente covalente polarizzato. Per esempio, fra H (elettronegativitaÁ
ˆ 2,20) e Cl (elettronegativitaÁ ˆ 3,16) la differenza di elettronegativitaÁ eÁ pari a 0,96 e
quindi esiste un legame prevalentemente covalente polarizzato;
c) quando la differenza dell'elettronegativitaÁ fra due atomi legati eÁ uguale a zero, il
legame fra i due atomi eÁ covalente non polarizzato o, come si dice comunemente, eÁ
omopolare. Quest'ultimo caso eÁ per esempio verificato nelle seguenti molecole:
H2
2H
N N
F2
2F
Cl2
2Cl
RISONANZA O MESOMERIA
Il concetto di risonanza, o meglio di strutture molecolari risonanti, eÁ stato introdotto per
tener conto delle discordanze fra le proprietaÁ delle sostanze previste teoricamente in base
alle loro strutture elettroniche e quelle che risultavano da evidenze sperimentali. Per esempio, in base alla regola dell'ottetto, la struttura elettronica dello ione carbonato, CO23 , puoÁ
essere cosõÁ scritta:
(–)
(–)
O
C
O
O
nella quale tutti gli atomi costituenti la molecola hanno raggiunto la configurazione
elettronica stabile otteziale di un gas nobile. PeroÁ una simile struttura contenente due
legami semplici C2
2O e un doppio legame C O suggerisce due diverse lunghezze dei
9
d‡ ˆ d dato che l'entitaÁ di positivizzazione (d‡) di una parte della molecola eÁ dovuta all'impoverimento, in
quella stessa parte, di una frazione di carica negativa (d ).
10
Il momento dipolare delle molecole viene determinato sperimentalmente mediante misure della costante dielettrica delle sostanze formate da queste molecole.
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7. Risonanza o mesomeria
legami carbonio-ossigeno (la lunghezza del legame semplice dovrebbe risultare
maggiore di quella del doppio legame). Questa previsione eÁ peroÁ in contrasto con
le osservazioni sperimentali, dalle quali risulta che le lunghezze di legame fra i tre
atomi di ossigeno e quello del carbonio sono perfettamente identiche, e intermedie
fra la lunghezza di un legame singolo C2
2O e di un legame doppio C O. Per
superare questa difficoltaÁ, si assegna allo ione CO23 una struttura elettronica intermedia fra le tre seguenti (nelle quali per semplicitaÁ sono state tralasciate le coppie non
leganti):
(–)
O
(–)
O
C
O
C
(–)O
O
C
O (–)
O (–)
O
(–)O
in cui la freccia a doppia punta simboleggia che la vera struttura elettronica della molecola eÁ risonante, e cioeÁ eÁ intermedia fra tutte quelle teoricamente prevedibili e quindi
non eÁ identificabile con nessuna di esse.
Alla luce del concetto di risonanza viene interpretata la struttura di moltissime
sostanze, sia inorganiche sia organiche. Alle strutture elettroniche intermedie eÁ
dato il nome di ibridi di risonanza. EÁ bene ribadire che l'ibrido di risonanza non
puoÁ essere rappresentato con nessuna formula elettronica ben definita, in quanto
le sue caratteristiche chimico-fisiche possono essere interpretate solo ammettendo
la contemporanea validitaÁ di tutte le formule elettroniche teoricamente deducibili,
denominate strutture elettroniche limite; pertanto, il concetto di risonanza o, cioÁ
che eÁ lo stesso, il concetto di mesomeria non si riferisce alla struttura elettronica
specifica di una molecola in risonanza fra una struttura elettronica e l'altra, ma si
riferisce a una struttura elettronica intermedia che non puoÁ essere facilmente rappresentata.
Al fine di precisare meglio questo concetto facciamo un esempio concreto, prendendo
in esame la risonanza o mesomeria del benzene, del quale era noto che:
a) la sua formula molecolare eÁ C6 H6 ;
b) i sei atomi di carbonio sono disposti sullo stesso piano (molecola planare) e, legati
l'uno all'altro con legame covalente, formano un anello esagonale regolare;
c) ad ogni atomo di carbonio eÁ legato con legame covalente un atomo di idrogeno;
d) gli angoli di legame C2
2C e C2
2H sono tutti uguali fra loro e misurano 1208.
Per la molecola del benzene vennero allora proposte queste due strutture:
H
C
H
H
C
C
C
C
C
H
C
C
H
H
C
H
H
H
H
C
C
C
H
H
Purtroppo, nessuna delle due strutture sopra schematizzate, ne altre che vennero in
seguito proposte, si dimostrarono adatte per spiegare sia le proprietaÁ chimico-fisiche
113
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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7. Il mondo delle molecole
..................................................................................................................................................................................
8
del benzene, che sono diverse da quelle dei composti contenenti doppi legami
carbonio-carbonio, sia, e soprattutto, per spiegare il fatto che la lunghezza di tutti i
legami carbonio-carbonio in questa molecola eÁ identica (1,39 AÊ) e intermedia tra
quella di un legame singolo C2
2C (1,54 AÊ) e quella di un legame doppio C C
Ê
(1,33 A). Pertanto, per superare questa difficoltaÁ, fu necessario ammettere che la vera
struttura elettronica del benzene eÁ in qualche modo una combinazione di tutte le
strutture elettroniche teoricamente deducibili, vale a dire che essa eÁ un ibrido di
risonanza tra strutture elettroniche limite, due delle quali sono appunto quelle
schematizzate sopra. In modo semplificato, possiamo allora indicare cosõÁ la risonanza
del benzene:
Oltre a rendere uguali le lunghezze dei legami, la risonanza rende piuÁ stabile una
molecola, abbassando il suo contenuto energetico. Una spiegazione esauriente di tale
effetto viene data dalla meccanica quantistica; le conseguenze si possono notare, sempre
prendendo ad esempio il benzene, dal fatto che esso reagisce piuÁ difficilmente (eÁ piuÁ
stabile) rispetto ai normali composti insaturi.
LEGAME COVALENTE COORDINATO O LEGAME DATIVO
(DONATORE-ACCETTORE)
Questo tipo di legame chimico eÁ molto simile al legame covalente, con la differenza che
per ogni legame covalente dativo, la coppia di elettroni di legame viene messa in comune
da uno solo dei due atomi coinvolti che viene quindi chiamato donatore, mentre l'altro
atomo viene detto accettore. Il legame dativo si verifica sempre fra un atomo di una molecola giaÁ formata e un atomo di un'altra molecola, oppure fra un atomo di una molecola
giaÁ formata e uno o piuÁ atomi o ioni isolati, portando alla formazione di nuove molecole o
nuovi ioni piuÁ complessi di quelli originali.
Esporremo di seguito alcuni esempi che portano alla formazione di queste nuove
molecole o ioni, servendoci delle regole dell'ottetto (teoria di Lewis).
La molecola del fluoruro di boro, BF3, ha la seguente formula elettronica:
F
×
×
B××F
×
×
F
dalla quale risulta che mentre i tre atomi di fluoro hanno completato l'ottetto,
l'atomo di boro eÁ attorniato solo da sei elettroni. Poiche anche l'atomo di boro tende
ad assumere la configurazione elettronica esterna otteziale, la molecola del fluoruro
di boro eÁ potenzialmente capace di legarsi, tramite l'atomo di boro, a un'altra
molecola o atomo o ione, i quali dispongano di almeno una coppia di elettroni di
valenza non impegnata in un legame chimico, denominata coppia solitaria (lone pair),
per esempio una molecola di ammoniaca, NH3, in cui si puoÁ vedere che sull'atomo di
azoto eÁ disponibile una coppia di elettroni di valenza non impegnata in un legame e
114
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8. Legame covalente coordinato o legame dativo (donatore-accettore)
cioeÁ una coppia solitaria:
H
H
N
coppia
solitaria
H
Pertanto se una molecola di fluoruro di boro viene in collisione con una molecola di
ammoniaca, prende origine un composto formato dall'unione di queste due molecole le
quali si legano per mezzo di un legame dativo che si stabilisce fra l'atomo di azoto
(donatore) e l'atomo di boro (accettore). In questo modo infatti, mediante la messa in
comune da parte dell'azoto della coppia di elettroni solitaria, anche l'atomo di boro
assume la configurazione elettronica esterna otteziale di un gas nobile:
F
F
H
B +
N
F
H
F
H
F
H
B
N
F
H
legame
dativo
H
Il legame covalente coordinato viene comunemente simboleggiato con una freccia orientata dal donatore verso l'accettore (cosõÁ come nell'esempio esposto alla pagina precedente), sebbene una volta che esso si eÁ formato, non esista piuÁ alcuna differenza fra questo tipo
di legame e quello covalente vero e proprio, in quanto la coppia di elettroni di legame
appartiene ora all'uno ora all'altro atomo coinvolti nel legame. Pertanto, a rigore, non
dovrebbe essere fatta alcuna distinzione tra un legame covalente e uno dativo: ambedue i
legami potrebbero essere simboleggiati con un semplice trattino tra i due atomi.
In modo del tutto analogo puoÁ essere spiegata la formazione dello ione ammonio
‡
(NH‡
4 ) a partire da una molecola di ammoniaca e da uno ione idrogeno (H ), e cioeÁ da un
atomo di idrogeno privato dell'unico elettrone di valenza:
H+ + N
+
H
H
H
H
N
H
H
H
in quanto il catione isolato H‡ , legandosi mediante un legame dativo all'atomo di azoto
dell'ammoniaca, sul quale eÁ disponibile un coppia solitaria, perviene a una configurazione
elettronica esterna a duetto uguale a quella del gas nobile elio.
CosõÁ pure la formazione dello ione idronio (H3 O‡ ), puoÁ essere spiegata ammettendo
un legame dativo fra l'atomo di ossigeno di una molecola di acqua e uno ione H‡ :
+
H
O
H + H+
O
H
H
H
Si fa ancora notare che per quanto in precedenza sottolineato, i legami covalenti fra
l'atomo di azoto e i quattro atomi di idrogeno nello ione ammonio sono tutti
perfettamente equivalenti, come pure i legami covalenti tra l'atomo di ossigeno e i tre
atomi di idrogeno nello ione idronio.
115
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7. Il mondo delle molecole
Figura 7.3
.................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
9
Schematizzazione del
legame metallico.
( + cationi metallici;
elettroni).
LEGAME METALLICO
Il legame metallico eÁ un particolare tipo di legame chimico che tiene uniti gli atomi dei
metalli. Sulla natura di questo legame sono state proposte numerose teorie, la piuÁ
semplice delle quali considera i metalli formati da un aggregato di ioni positivi tutti uguali
(i cationi del metallo) disposti ordinatamente nello spazio tridimensionale e immersi in un
«mare» di elettroni. Il basso valore di energia di ionizzazione dei metalli giustifica la
formazione dei cationi, dovuta alla perdita di uno, due o anche tre elettroni (come accade
per esempio rispettivamente per il sodio, il magnesio, l'alluminio); tali elettroni non sono
vincolati in un particolare legame, ma sono delocalizzati sull'intero edificio cristallino, e
mantengono la coesione fra tutti i cationi metallici (fig. 7.3). Essi possono spostarsi in
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
modo relativamente libero entro tale struttura, e sono responsabili delle proprietaÁ peculiari dei metalli e cioeÁ:
. conducibilitaÁ elettrica: sotto l'azione di un campo elettrico, gli elettroni migrano lungo
la direzione imposta dal campo, generando quindi una corrente elettrica. Tali movimenti sono contrastati dalle vibrazioni degli ioni metallici intorno alle loro posizioni di
equilibrio, per cui un aumento di temperatura, provocando un aumento dell'ampiezza
di tali vibrazioni, ostacola il cammino degli elettroni: la resistenza di un metallo infatti
aumenta all'aumentare della temperatura;
. conducibilitaÁ termica: il calore (cioeÁ il moto di agitazione termica) viene trasmesso
facilmente attraverso il metallo dagli elettroni di valenza, i quali, per la loro piccola
massa rispetto a quella dei cationi, possono spostarsi velocemente e trasmettere la loro
energia cinetica alle altre particelle lungo la struttura del metallo;
. duttilitaÁ (cioeÁ possibilitaÁ di essere ridotti in fili) e malleabilitaÁ (cioeÁ possibilitaÁ di essere
ridotti in lamine): le azioni di trafilatura e di laminazione di un metallo non incontrano
resistenza nella struttura del solido, in quanto i piani degli ioni possono scorrere
facilmente uno rispetto all'altro, essendo sempre schermati tra loro dagli elettroni mobili
(fig. 7.4).
Questo non succederebbe invece nel cristallo di un sale, in cui lo scorrimento di un
piano rispetto all'altro avrebbe come risultato l'affacciarsi di ioni di carica uguale
(fig. 7.5), per cui le forze repulsive finirebbero per rompere l'edificio cristallino (i solidi
ionici sono fragili);
116
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 7.4
..........................................................................................................................................
10. Raggi atomici
Libero scorrimento
dei piani reticolari in
un metallo.
Figura 7.5
Scorrimento dei piani
reticolari in un solido
ionico.
............................................................................................................................................................................
10
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
–
+
–
+
–
+
–
+
–
+
–
+
–
+
–
1
5
9
–
2
6
3
4
7
10
11
8
12
–
+
–
+
+
–
+
–
+
+
–
+
–
+
–
. lucentezza: i metalli riflettono le radiazioni luminose incidenti sulla loro superficie, in
quanto gli elettroni di legame possono oscillare con la stessa frequenza della radiazione
incidente, qualunque essa sia. Essendo gli elettroni delle cariche elettriche, le loro
vibrazioni producono l'emissione di radiazioni elettromagnetiche aventi la stessa
frequenza della radiazione incidente.
RAGGI ATOMICI
Una grandezza importante da considerare tra le proprietaÁ periodiche degli elementi eÁ il
raggio atomico: esso non si deve intendere come il raggio di una sfera vera e propria, a
causa dell'indeterminatezza dei confini degli atomi. Tali raggi sono ricavati in base alle
distanze tra i nuclei di atomi uguali legati tra loro in una molecola: dividendo per due
tale valore, si ottiene il raggio atomico (piuÁ propriamente il raggio covalente) dell'elemento. Per esempio, la distanza tra i nuclei nella molecola del fluoro (F2) eÁ uguale a 1,28 AÊ:
il raggio atomico del fluoro saraÁ percioÁ: 1,28=2 ˆ 0,64 A. I raggi atomici si mantengono pressoche costanti nei composti, per cui, nota la distanza tra i nuclei degli atomi
in una molecola AB, e noto il raggio atomico di A, si puoÁ ricavare per differenza quello
di B.
Nella tavola periodica, in un periodo, il raggio atomico diminuisce progressivamente
da sinistra verso destra per tutti gli elementi, con l'eccezione dei metalli di transizione;
infatti, l'aumento della carica nucleare determina una maggiore attrazione sugli elettroni,
che tenderanno ad occupare posizioni sempre piuÁ vicine al nucleo. Tale raggio saraÁ
quindi massimo per i metalli alcalini e minimo per gli alogeni e i gas nobili. Con il primo
elemento del periodo successivo, l'elettrone che entra a far parte della struttura
dell'atomo andraÁ a occupare un livello superiore, mantenendosi (mediamente) a maggiore distanza dal nucleo: si ha quindi un aumento delle dimensioni, che si ripete
regolarmente da un periodo al successivo e questo spiega l'aumento dei raggi atomici in
un gruppo, scendendo dall'alto verso il basso.
Per i metalli di transizione, le variazioni dei raggi atomici hanno un andamento diverso
e sono comunque abbastanza limitate: quest'ultimo fatto si spiega tenendo presente che,
in una serie di questi elementi, gli elettroni vanno via via ad occupare gli orbitali interni d
che, con la loro azione schermante, compensano l'aumento della carica nucleare (che
viceversa tenderebbe a far contrarre le dimensioni dell'atomo).
117
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7. Il mondo delle molecole
.................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
Se si ricercano i motivi per cui una sostanza si comporta da acido o da base, e ci si chiede
quali sono i fattori che conferiscono al composto un carattere acido o basico piuÁ o meno
spiccato, cioeÁ che ne determinano la «forza» come acido o come base, si puoÁ osservare
che tale proprietaÁ dipende sia dalle caratteristiche del particolare elemento presente nel
composto (e principalmente dalla sua elettronegativitaÁ), sia dalla struttura molecolare.
Prendiamo quindi in esame i diversi tipi di composti che in soluzione presentano un
comportamento acido o basico.
1. Consideriamo dapprima i composti con l'idrogeno del tipo HnX: la possibilitaÁ del composto di dissociarsi come acido in soluzione dipende dalla polarizzazione del legame
H Ð X: piuÁ l'elemento X eÁ elettronegativo, piuÁ polarizzato eÁ il legame con l'idrogeno;
questo permette alle molecole d'acqua di intervenire, unendosi con la parte negativa
(l'ossigeno) all'idrogeno carico positivamente, e staccandolo dal resto della molecola:
d‡ d
H2
2X ‡ H2 O ! X ‡ H3 O‡
Poiche l'elettronegativitaÁ aumenta nel sistema periodico da sinistra verso destra,
aumenteraÁ nello stesso senso la polarizzazione del legame con l'idrogeno, per cui l'aciditaÁ
dei composti idrogenati aumenta da sinistra verso destra, come nel secondo periodo:
LiH < BeH2 < CH4 < NH3 < H2 O < HF
ƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒƒ!
aciditaÁ crescente
3
11
ACIDITAÁ E BASICITAÁ: DIPENDENZA DALLE PROPRIETAÁ
PERIODICHE E DALLA STRUTTURA
In questa serie si passa da un composto nettamente basico, l'idruro di litio, a composti
a bassissima aciditaÁ come CH4 e NH3, a un acido di media forza come HF.
Per quel che riguarda la basicitaÁ, questa eÁ dovuta a uno o piuÁ doppietti elettronici non
condivisi, che possono accettare uno ione H‡ da un'altra sostanza (acido). Quanto piuÁ
alta eÁ l'elettronegativitaÁ di un elemento, tanto piuÁ questo tiene strettamente legati gli
elettroni, e quindi ha minore tendenza a metterli in comune con H‡ : in altre parole, la
basicitaÁ diminuisce con l'aumentare dell'elettronegativitaÁ dell'elemento. Nella serie presa
in esame, a destra abbiamo un composto con carattere basico nullo (HF), mentre H2 O ha
una certa tendenza (anche se minima) a mettere in comune un doppietto elettronico
(l'acqua ha un debolissimo carattere sia acido sia basico). La basicitaÁ eÁ maggiore per NH3 ,
e aumenta per gli idruri dei metalli alcalino-terrosi e alcalini, che sono basi forti; per
esempio, tra acqua e idruro di litio avviene la seguente reazione:
Li‡ :H ‡ H2 O ! Li‡ ‡ OH ‡ H2
L'elettronegativitaÁ da sola non basta a spiegare il grado di aciditaÁ (o di basicitaÁ) di un
composto; insieme alla possibilitaÁ di ionizzazione, occorre tener conto anche della
stabilitaÁ dell'anione che si forma: quanto piuÁ questo eÁ stabile, tanto piuÁ eÁ favorita la
tendenza dell'acido a dissociarsi.
Possiamo osservare a questo proposito che tra gli acidi alogenidrici il piuÁ forte non eÁ HF
(benche il fluoro sia l'elemento piuÁ elettronegativo), ma HI, in quanto lo ione I± ha
maggiori dimensioni rispetto a Br , Cl , F . Poiche quanto piuÁ una carica elettrica eÁ
dispersa su un atomo o gruppo atomico, tanto piuÁ stabile risulta lo ione, potremo
concludere che l'acido HI eÁ il piuÁ forte in quanto lo ione I eÁ il piuÁ stabile, dal momento che
la carica eÁ dispersa su uno ione piuÁ voluminoso; quindi l'ordine di aciditaÁ eÁ il seguente:
HF
HCl
HBr
HI
½
½
½
½
!
aciditaÁ
crescente
118
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La stessa caratteristica (aciditaÁ crescente procedendo dall'alto verso il basso) potremmo notare per i composti idrogenati degli altri gruppi, per esempio nel sesto gruppo:
H2O
H2S
H2Se
H2Te
½
½
½
½
!
aciditaÁ
crescente
Per quel che riguarda la basicitaÁ, eÁ invece da osservare che quanto piuÁ disperso eÁ il
doppietto elettronico non condiviso presente sulla base, tanto meno disponibile esso
risulta per la combinazione con lo ione H+ dell'acido, e quindi tanto piuÁ debole eÁ la base:
PH3 risulta infatti piuÁ debole di NH3, in quanto sul fosforo (atomo piuÁ grande dell'azoto), il doppietto elettronico non condiviso eÁ piuÁ disperso di quanto non sia sull'azoto.
Riassumendo, per composti del tipo HnX (idruri) si verifica (lungo un periodo e lungo
un gruppo) la seguente variazione del carattere acido:
aciditaÁ crescente
¾
aciditaÁ
crescente
3
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
11. AciditaÁ e basicitaÁ: dipendenza dalle proprietaÁ periodiche e dalla struttura
½
!
L'opposto, avviene, naturalmente, per la basicitaÁ.
2. Passando ad esaminare i composti ossigenati, caratterizzati dal gruppo OH, possiamo affermare che l'elemento legato all'ossidrile eÁ fondamentale nel determinare il
carattere acido (o basico) del composto: infatti, quanto piuÁ esso eÁ elettronegativo,
tanto piuÁ polarizzato risulta il legame O Ð H, il che facilita il distacco dello ione H‡ e
rende l'acido piuÁ forte. Se, per esempio, confrontiamo gli acidi ipocloroso, ipobromoso e ipoiodoso, troviamo il seguente ordine di aciditaÁ:
HOCl
HOBr
HOI
~
½
½
aciditaÁ
crescente
Invece composti come LiOH, NaOH e KOH hanno carattere basico, in quanto il metallo,
molto elettropositivo, cede il suo elettrone di valenza all'ossigeno, con formazione di
composti ionici del tipo Li‡ OH , Na‡ OH e K‡ OH , che in soluzione presentano
carattere basico dovuto allo ione OH , giaÁ preesistente nel composto (basi anioniche).
Per quegli elementi, infine, con valori di elettronegativitaÁ intermedi (ne troppo alti, neÂ
troppo bassi), si nota che i composti ossigenati non mostrano ne carattere spiccatamente acido, ne spiccatamente basico: essi vengono detti elettroliti anfoteri e alcuni
esempi sono rappresentati da Zn(OH)2 , Al(OH)3 e Sn(OH)2 .
Considerando i diversi tipi di ossiacidi, si nota che all'aumentare del numero di atomi
di ossigeno legati direttamente al non metallo, aumenta la forza acida, in quanto entra
in gioco la risonanza, che stabilizza l'anione: quante piuÁ formule limite possiamo
scrivere, tanto piuÁ stabile eÁ l'anione e quindi piuÁ forte eÁ l'acido. Per esempio, l'acido
perclorico eÁ piuÁ forte dell'acido cloroso, in quanto per lo ione perclorato possiamo
scrivere le seguenti formule di risonanza:
O (–)
O
O
Cl
O
O (–)
O
Cl
O
O
O
(–)
O
Cl
O
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
O
O
O
O
Cl
O
(–)
mentre per lo ione clorito le formule di risonanza sono soltanto due:
O
Cl
O
(–)
O
(–)
Cl
O
Per gli acidi ossigenati del cloro, l'ordine di aciditaÁ eÁ quindi il seguente:
HClO < HClO2 < HClO3 < HClO4
¾
3
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
7. Il mondo delle molecole
aciditaÁ crescente
In generale, quindi, l'aciditaÁ aumenta all'aumentare del numero di atomi di ossigeno,
cioeÁ del numero di ossidazione del non metallo.
Tenendo presente che gli ossiacidi possono essere scritti con la formula generale:
XOm (OH)n
(in cui X eÁ il non metallo, m ˆ 0, 1, 2 ..., n ˆ 1, 2, ...) risulta in genere che, se m ˆ 0
oppure m ˆ 1, l'acido eÁ debole, se m > 1 l'acido eÁ forte.
acido borico H3BO3
acido nitroso HNO2
acido nitrico HNO3
acido solforico H2SO4
acido perclorico HClO4
oppure
oppure
oppure
oppure
oppure
B(OH)3 m ˆ 0
NO(OH) m ˆ 1
NO2(OH) m ˆ 2
SO2(OH)2 m ˆ 2
ClO3(OH) m ˆ 3
acido debole
acido debole
acido forte
acido forte
acido forte
3. Nel campo della chimica organica, prendendo in esame la dissociazione degli acidi
carbossilici:
O
R
O
+ H2O
C
R
+ H3O+
C
O(–)
OH
si ammette anche in questo caso che l'anione sia stabilizzato dalla risonanza:
O
R
O
R
C
O
(–)
C
(–)
O
Per questi composti eÁ importante, nel determinare la forza acida, la presenza di uno o
piuÁ sostituenti in posizione a, che possono influire sia positivamente sia negativamente
sul carattere acido; per esempio, l'acido monocloroacetico eÁ piuÁ forte dell'acido acetico, per l'effetto elettron-attrattore del cloro, che facilita il distacco del protone:
H
Cl αC
H
O
C
O
H
Tale effetto aumenta naturalmente all'aumentare del numero degli atomi di cloro, per
cui l'acido tricloroacetico risulta un acido forte.
Se l'atomo elettron-attrattore non eÁ in posizione a, ma eÁ piuÁ lontano rispetto al
carbossile, il suo effetto sull'aciditaÁ eÁ inferiore.
120
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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12. Acidi e basi di Lewis
........................................
12
COOH
Ka ˆ 1,5 10
5
COOH
Ka ˆ 1,4 10
3
CH2
COOH
Ka ˆ 8,9 10
5
CH2
COOH
Ka ˆ 3 10
acido butanoico
CH 3
CH 2
CH 2
acido a-clorobutanoico
CH3
CH2
CH
α
Cl
β
acido b-clorobutanoico
CH3
CH
α
Cl
γ
acido g-clorobutanoico
CH2
CH2
β
α
5
Cl
Viceversa, gruppi elettron-repulsori (o elettron-donatori) come il metile CH3 ,
producono l'effetto opposto, per cui l'acido acetico eÁ piuÁ debole dell'acido formico:
O
H
C
O
CH3
C
OH
Ka = 1,8 × 10– 4
OH
Ka = 1,8 × 10– 5
Il carattere acido dei fenoli, piuÁ accentuato rispetto agli alcoli, viene spiegato con il
fatto che la risonanza stabilizza l'anione:
O
(–)
O
O
O
(–)
(–)
(–)
Per gli alcoli, la pur bassissima aciditaÁ eÁ influenzata dal numero di radicali alchilici
(gruppi elettron-repulsori) presenti sul carbonio legato all'ossidrile. Si nota infatti una
differente forza acida a seconda che l'alcol sia primario, secondario o terziario:
CH3
CH3
OH > CH3
CH2
OH > CH3
CH
CH3
OH > CH3
C
OH
CH3
acidità crescente
ACIDI E BASI DI LEWIS
Rispetto alla teoria di Brùnsted-Lowry, la teoria di Lewis rappresenta un ampliamento
del concetto di acido e base. Secondo questa teoria, un acido eÁ una specie (molecola o
ione) che accetta una coppia di elettroni, una base eÁ una specie (molecola o ione) che
dona una coppia di elettroni a un'altra sostanza, formando un legame covalente coordinato
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7. Il mondo delle molecole
(dativo). Perche una sostanza possa essere una base di Lewis, eÁ quindi necessario che essa
abbia disponibile almeno una coppia di elettroni di valenza (coppia solitaria) non
impegnati in legami chimici con altri atomi; inversamente, affinche una sostanza possa
essere un acido di Lewis, eÁ necessario che essa abbia lo strato elettronico esterno
incompleto, in modo da poter accettare una o piuÁ coppie di elettroni forniti dalla base.
EÁ bene sottolineare che la teoria di Lewis non eÁ in contrasto con quella di Brùnsted e
Lowry, dato che per esempio, la reazione acido-base
NH3 ‡ H2 O ! NH‡
4 ‡ OH
base 1
acido 2
acido 1
base 2
interpretata da questi ultimi assumendo che l'acqua dona un protone all'ammoniaca che
l'accetta, puoÁ essere altrettanto validamente interpretata con la teoria di Lewis. Infatti la
stessa reazione puoÁ essere spiegata ammettendo che il protone H‡ , presente nell'acqua,
forma un legame covalente con una molecola di ammoniaca per mezzo della coppia
solitaria presente sull'atomo di azoto di questa sostanza; pertanto, l'ammoniaca eÁ una
base di Lewis, e il catione H‡ eÁ un acido di Lewis:
coppia
solitaria
+
H
H
H+ + N
H
H
N
H
H
H
acido
base
di Lewis di Lewis
ione ammonio
Nella neutralizzazione di un acido con una base in soluzione acquosa, lo ione OH eÁ la
base di Lewis, che mette in comune una coppia di elettroni con il catione H‡ (acido di
Lewis) proveniente dallo ione H3 O‡ :
H+ + OH –
H
O
H
F
H
B
N
F
H
acido
base
di Lewis di Lewis
Se esaminiamo la reazione:
F
F
H
B + N
F
H
H
F
H
possiamo dedurre che BF3 eÁ un acido di Lewis: in questo composto il boro ha sei elettroni
sul livello di valenza e completa l'ottetto accettando una coppia di elettroni dalla base di
Lewis NH3 .
Come si puoÁ notare da questo esempio, mentre una base di Lewis eÁ anche una base di
Brùnsted, non sempre un acido di Lewis eÁ anche un acido di Brùnsted: l'acido di Lewis
BF3 non si puoÁ considerare un acido di Brùnsted, in quanto non possiede protoni H‡ da
cedere alla base.
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QUESITI
....................................................................................................................................................
QUESITI
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20 esercizi interattivi
1. Quali elementi sono caratterizzati da energia di
ionizzazione ed elettronegativitaÁ elevate?
11. Come si spiega la formazione dello ione complesso
[AlCl4 ] ?
2. Che cos'eÁ l'energia reticolare?
12. Come si spiega la variazione della resistenza di un
metallo all'aumentare della temperatura?
3. Qual eÁ la differenza tra legame covalente e legame
dativo?
4. Se la differenza di elettronegativitaÁ tra due atomi eÁ
uguale a 0,19, che tipo di legame tiene uniti i due
atomi?
5. In quali dei seguenti composti il legame si puoÁ
considerare prevalentemente ionico? SO2 ; ZnO;
KCl; Fe2 O3 ; Li2 O; HI; CaO; SnS.
6. In quali dei seguenti composti il legame si puoÁ
considerare in prevalenza covalente? PH3 ; CO2 ;
SiCl4 ; BaO; MgF2 ; H2 S; SO3 ; LiCl.
7. In base alla tabella delle elettronegativitaÁ (tab. 7.2)
qual eÁ il composto che ha il maggior carattere ionico?
8. Quali grandezze hanno valori molto simili tra loro,
per gli elementi di transizione?
9. Come si ricava il raggio atomico di un elemento?
10. Da che cosa dipende il fatto che i raggi atomici
degli elementi di transizione hanno dimensioni
molto simili?
13. Quali sono le caratteristiche del benzene che lo
differenziano da un normale composto insaturo?
Come si spiegano queste differenze?
14. Quali sono gli elementi che danno origine a elettroliti anfoteri?
15. Qual eÁ l'ordine di aciditaÁ crescente per i seguenti
composti? NH3 ; H2 Se; PH3 ; H2 S.
16. Con quale regola si puoÁ dedurre che l'acido fosforoso, H3 PO3 , eÁ un acido debole?
17. Perche l'idrogeno fosforato o fosfina, PH3 , eÁ una
base piuÁ debole dell'ammoniaca, NH3 ?
18. Come si spiega il fatto che l'acido perclorico, HClO4 ,
eÁ il piuÁ forte degli acidi ossigenati del cloro?
19. Disponi secondo l'ordine di aciditaÁ crescente i
seguenti composti: acido 2,2-dicloropropanoico; acido propanoico; acido 2-bromopropanoico; acido 3-bromopropanoico; acido isobutanoico.
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8
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1
La geometria molecolare
LA TEORIA VSEPR
Dopo aver determinato la struttura elettronica delle molecole, sulla base della teoria di
Lewis, possiamo ora affrontare il problema riguardo al modo in cui gli atomi che le costituiscono si dispongono realmente nello spazio, per poter attribuire una precisa forma
geometrica a una molecola nel suo insieme.
Tale conoscenza riveste particolare importanza, in quanto molte proprietaÁ fisiche e
chimiche delle sostanze sono determinate proprio dalla simmetria geometrica delle loro
molecole. A questo scopo, eÁ stata elaborata da alcuni studiosi (in particolare Gillespie e
Nyholm) la teoria VSEPR (Valence Shell Electron Pair Repulsion cioeÁ repulsione delle
coppie elettroniche dello strato di valenza), che permette di prevedere, in modo semplice e completo, la forma geometrica molecolare, e che eÁ in accordo con quanto
dedotto dalla teoria del legame chimico basata sui metodi matematici della meccanica
quantistica.
Secondo questa teoria, le coppie elettroniche disposte sull'ultimo livello dell'atomo
centrale della molecola tendono a disporsi il piuÁ lontano possibile tra loro, per effetto della
repulsione, il che daÁ origine a una determinata disposizione degli atomi nello spazio,
quindi a una precisa geometria della molecola.
I principi fondamentali della teoria sono i seguenti:
. le coppie elettroniche interessate sono sia quelle impegnate nei legami che l'atomo
centrale stabilisce con gli altri atomi (coppie condivise), sia quelle libere (coppie non
condivise), purche appartenenti all'ultimo livello;
. i doppi e i tripli legami si considerano come un legame semplice, in quanto la nuvola
elettronica del legame multiplo ha un'unica direzione e l'effetto eÁ quindi lo stesso di
un'unica coppia;
. le coppie non condivise, essendo piuÁ dilatate nello spazio di quelle impegnate in un
legame, esercitano una forza repulsiva piuÁ intensa sulle altre coppie, il che influisce sul
valore dell'angolo di legame.
In base a queste regole generali, vediamo di stabilire, mediante esempi concreti, la forma
delle molecole in funzione del numero di coppie presenti sull'ultimo livello dell'atomo
centrale. Distinguiamo i due casi:
1. Tutte le coppie sono impegnate nei legami:
a) due coppie elettroniche complessive come nel cloruro di berillio, BeCl2; la molecola
ha la seguente formula elettronica di Lewis:
Cl Be Cl
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1. La teoria VSEPR
Attorno all'atomo centrale (Be) vi sono solo due coppie elettroniche: esse si dovranno disporre, per rendere minima la repulsione, da parti opposte, per cui la
struttura della molecola saraÁ lineare:
Cl Ð Be Ð Cl
b) tre coppie elettroniche come nel trifluoruro di boro, BF3; la struttura elettronica eÁ la
seguente:
F
F B F
Le tre coppie di elettroni si disporranno su un piano (struttura planare) con angoli
di legame di 1208:
F
B
F
120°
F
c) quattro coppie elettroniche come nel metano, CH4; il carbonio eÁ circondato da
quattro coppie elettroniche condivise con i quattro atomi di idrogeno:
H
HCH
H
La disposizione spaziale piuÁ stabile, in base ai principi esposti, eÁ quella tetraedrica,
con il carbonio al centro e le quattro coppie elettroniche dirette secondo i vertici,
dove si trovano gli atomi di idrogeno; l'angolo di legame risulta di 1098280 :
H
C
H
H
H
d) cinque coppie elettroniche come nel pentacloruro di fosforo, PCl5; la disposizione
geometrica risultante eÁ quella di una doppia piramide a base triangolare (bipiramide trigonale):
Cl
Cl
P
Cl
Cl
Cl
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........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
8. La geometria molecolare
e) sei coppie elettroniche come nell'esacloruro di zolfo, SCl6; in questo caso la struttura
eÁ ottaedrica:
Cl
Cl
Cl
S
Cl
Cl
Cl
Per i seguenti composti, in base ai criteri generali, si puoÁ prevedere una struttura
riconducibile ai tipi precedenti:
a) anidride carbonica, CO2, con formula elettronica di Lewis:
O C O
L'effetto repulsivo tra i due doppi legami fornisce lo stesso risultato che si avrebbe
se il legame carbonio-ossigeno fosse un legame semplice; quindi la molecola saraÁ
lineare:
O C O
b) acetilene (etino), C2H2, con formula di Lewis:
HC
CH
Per gli stessi motivi del caso precedente, la molecola saraÁ lineare:
HÐC
CÐH
c) ione carbonato, CO23 : in base alla sua formula elettronica, si deduce una forma
planare dello ione:
O
C
(–) O
O (–)
2. Sul livello di valenza sono presenti una o piuÁ coppie elettroniche non condivise:
a) tre coppie elettroniche (di cui una non condivisa).
Prendiamo come modello la molecola dell'anidride solforosa, SO2, la cui formula
elettronica eÁ la seguente:
O S O
Il doppio legame, come sappiamo, eÁ da considerarsi, per quel che riguarda gli
effetti repulsivi, come un legame semplice, quindi sostanzialmente tale molecola
rientra nel caso che stiamo esaminando; la sua forma ad angolo deriva dal
modello planare (tipo BF3) in cui uno dei vertici del triangolo eÁ occupato dalla
coppia non condivisa; la presenza di questa faraÁ sõÁ che l'angolo fra i tre atomi
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........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
1. La teoria VSEPR
sia inferiore a 1208 (a causa della maggiore repulsione della coppia non condivisa verso le coppie di legame):
S
O
O
b) quattro coppie elettroniche (ottetto) sull'ultimo livello.
Esistono tre possibilitaÁ:
± tutte le coppie impegnate nel legame, come giaÁ visto (come nel metano, CH4);
± tre coppie impegnate e una non condivisa (come nell'ammoniaca, NH3);
± due coppie impegnate e due non condivise (come nell'acqua, H2O).
La forma geometrica di riferimento eÁ quindi per tutte e tre le molecole quella tetraedrica:
H
H
O
N
C
H
H
H
H
H
H
H
PeroÁ, mentre la forma della molecola del metano corrisponde effettivamente a un
tetraedro regolare, la molecola dell'ammoniaca ha la forma di una piramide a base
triangolare (infatti la forma effettiva di una molecola eÁ determinata dalla disposizione
b leggermente
degli atomi, non dai doppietti elettronici), con l'angolo di legame HNH
minore rispetto a quello del tetraedro regolare (1068 invece che 1098280 ), a causa
della repulsione della coppia non condivisa verso le coppie di legame:1
N
106
H
°
H
H
b di 1048 (per la forte
A sua volta l'acqua avraÁ forma angolare, con un angolo HOH
repulsione delle due coppie non condivise):
O
104°
H
H
c) se l'atomo centrale ha cinque coppie elettroniche sul livello di valenza (forma di
riferimento la bipiramide trigonale), di cui una o piuÁ sono coppie non condivise,
queste vanno a disporsi nelle posizioni corrispondenti alla base della piramide, dove
La repulsione tra le coppie elettroniche eÁ diversa a seconda che si eserciti tra due coppie condivise (C Ð C), tra una
coppia condivisa e una non condivisa (CÐnc), o tra due coppie non condivise (nc Ðnc), e aumenta nel seguente ordine:
1
(C Ð C) < (CÐnc) < (nc Ðnc)
¾®
aumento della repulsione elettronica
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2. PolaritaÁ delle molecole
..................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
2
POLARITAÁ DELLE MOLECOLE
Si eÁ giaÁ accennato (a proposito dei legami covalenti), all'esistenza di legami polarizzati,
dovuti alla differenza di elettronegativitaÁ tra i due atomi. Per esempio, il legame C O eÁ
un legame covalente polare, in quanto l'ossigeno eÁ piuÁ elettronegativo del carbonio e
tende ad attrarre maggiormente il doppietto elettronico condiviso, generando una
separazione di cariche, per cui l'insieme costituisce un dipolo; questo viene rappresentato
come un vettore (momento dipolare, vedi anche pag. 111):
C
O
δ−
δ+
orientato dal (‡) al ( ), il cui modulo (valore assoluto) eÁ dato dal prodotto:
mˆdr
m (mi) ˆ momento dipolare;
d ˆ valore assoluto della carica;
r ˆ distanza tra i nuclei (in generale distanza tra i baricentri delle cariche positive e delle
cariche negative).
Se consideriamo le molecole biatomiche, avremo due possibilitaÁ, cioeÁ molecole apolari o
molecole polari, a seconda che i due atomi siano uguali o diversi. Esempi di molecole
apolari sono H2, O2, Cl2 e N2; esempi di molecole polari sono HCl, HF e CO.
Nel caso di molecole poliatomiche, eÁ possibile stabilire se si tratta di molecole polari o
no, quando si conosce, oltre la polaritaÁ dei singoli legami, anche la forma della molecola.
Per esempio, per l'ammoniaca, tenendo conto che la sua forma eÁ piramidale e che i legami
N Ð H sono polarizzati, potremo scrivere la sua formula di struttura in questo modo:
N
δ−
H
δ+
H
H
in cui le frecce indicano i vettori dei momenti dipolari: eÁ evidente che la somma vettoriale di
tali momenti fornisce una risultante non nulla, data da un vettore diretto dal baricentro delle
cariche positive (il centro del triangolo equilatero con i tre atomi di idrogeno ai vertici) verso
il baricentro delle cariche negative (l'azoto); l'ammoniaca risulta dunque una molecola polare
(eÁ un dipolo permanente). Invece, una molecola lineare come l'anidride carbonica:
δ−
δ+
δ−
O
C
O
eÁ una molecola apolare, in quanto, pur essendo i legami C O polarizzati, i vettori dei
momenti dipolari (identici come modulo, ma di verso opposto) si annullano tra loro.
Non altrettanto si puoÁ dire per la molecola dell'anidride solforosa, SO2, in cui i legami
zolfo-ossigeno sono polarizzati e la cui forma eÁ angolare:
S
O
O
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..............................................................................................................................
8. La geometria molecolare
I corrispondenti vettori dei momenti dipolari sono cosõÁ orientati:
δ+
S
O
O
δ−
e la loro somma vettoriale daÁ una risultante non nulla, quindi la molecola dell'anidride
solforosa eÁ polare.
Alle stesse conclusioni si arriva tenendo presente che, nel caso di una molecola apolare,
il centro delle cariche positive e quello delle cariche negative coincidono, mentre per una
molecola polare, i due centri non coincidono. Per esempio, nella molecola CO2 , il centro
delle cariche (‡) e delle cariche ( ) eÁ lo stesso, per cui la molecola eÁ apolare. Nella molecola
NH3 , il centro delle cariche (‡) (che si trova nel centro del triangolo di base), non coincide
con quello della carica ( ) localizzata sull'azoto, e la molecola risulteraÁ polare.
La polaritaÁ di una molecola ha influenza sulle sue proprietaÁ chimiche e fisiche e
sull'entitaÁ delle forze che agiscono tra le molecole (forze intermolecolari, di cui si tratteraÁ
nel capitolo seguente). Per esempio, la molecola dell'acqua eÁ polare, e a questo si deve la
sua proprietaÁ di essere un ottimo solvente per i composti ionici, come i sali. Viceversa, un
composto apolare come il tetracloruro di carbonio, CCl4 , non scioglie i composti ionici,
ma eÁ un buon solvente di sostanze apolari come i grassi.
.....................................................................................................................................
QUESITI
1. Perche il momento dipolare dell'acqua eÁ superiore
a quello dell'acido solfidrico?
2. Quali delle seguenti molecole presentano un momento dipolare? CH4 ; SO3 ; PCl3 ; CH2 Cl2 ; F2 O.
3. In quali casi una molecola eÁ apolare, pur contenendo al suo interno legami polarizzati?
4. Quanto dovrebbe essere in teoria l'angolo di legame O Ð b
S Ð O nel biossido di zolfo (anidride
solforosa) e perche in realtaÁ eÁ inferiore?
5. Come si spiega la differenza tra i momenti dipolari
negli acidi alogenidrici?
6. La molecola del diclorodifluorometano (CCl2 F2 ) eÁ
una molecola polare o apolare?
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20 esercizi interattivi
9. Perche la forma della molecola dell'anidride solforosa (SO2 ) eÁ diversa dalla forma della molecola
dell'anidride carbonica (CO2 )?
10. Quali sono le differenze tra legami semplici, legami doppi e legami tripli nel determinare la forma di una molecola?
11. Perche la forma molecolare di BF3 eÁ diversa dalla
forma molecolare di NH3 ?
12. Da quante coppie elettroniche eÁ determinata la forma di una bipiramide trigonale per una molecola?
13. Qual eÁ la forma di una molecola che contiene sul
livello di valenza dell'atomo centrale sei coppie
elettroniche, di cui quattro condivise e due non
condivise?
7. Quali delle seguenti molecole sono lineari e quali
sono angolari? SO2 ; CO2 ; BeCl2 ; C2 H2 ; PBr3 ;
CH3 OH; NO2 .
b Ð H dell'acqua eÁ
14. Perche l'angolo di legame H РO
b
minore dell'angolo H Ð C Ð H del metano?
8. Sul livello di valenza dell'atomo centrale di una
molecola sono presenti due coppie elettroniche di
legame e due coppie elettroniche non condivise:
qual eÁ la forma della molecola?
15. Qual eÁ la forma di una molecola che possiede sul
livello di valenza dell'atomo centrale cinque coppie elettroniche, di cui due condivise e tre non
condivise?
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9
...................................................................................................................................................................................................................................
1
La coesione fra molecole
LEGAMI CHIMICI SECONDARI
I legami chimici secondari sono le forze di coesione di natura elettrica che tengono unite
le molecole delle sostanze solide, liquide e gassose.
L'esistenza di questi particolari legami chimici, che si stabiliscono solo fra molecole giaÁ formate, viene suggerita dal fatto che una stessa sostanza, come per esempio
l'acqua, sebbene sia formata da molecole capaci di esistenza indipendente, puoÁ
tuttavia presentarsi, in dipendenza dei valori della pressione e della temperatura
esterne, sia nello stato solido che in quello liquido, come pure in quello aeriforme.
Pertanto si deve ammettere che fra le molecole di questa, come di un gran numero di
altre sostanze, devono esistere legami chimici secondari la cui energia eÁ minore di
quella che tiene uniti gli atomi a formare le singole molecole. Infatti se queste sostanze vengono sottoposte all'azione del calore, esse possono passare dallo stato
solido a quello liquido e poi a quello aeriforme, senza peraltro che tali modificazioni
fisiche, note con il nome di passaggi di stato, siano accompagnate da alcuna trasformazione chimica delle sostanze stesse: le modificazioni chimiche di una sostanza
si verificano solo in seguito alla rottura dei legami chimici principali che uniscono gli
atomi nelle molecole. Per esempio, eÁ stato calcolato che per rompere il legame
covalente che tiene uniti due atomi in una molecola, eÁ necessaria un'energia, detta
energia di legame covalente, che in media eÁ pari a 400 kJ/mol; mentre, per vincere
le forze di coesione fra molecole, eÁ sufficiente un'energia, detta energia di legame
chimico secondario, che eÁ nettamente inferiore in quanto non supera in genere
40 kJ/mol.
EÁ chiaro che tanto piuÁ intense sono le forze di coesione fra le molecole delle sostanze,
tanto piuÁ esse sono in grado di resistere agli effetti del calore, e pertanto lo stato solido,
liquido o gassoso di una sostanza eÁ dovuto rispettivamente a un alto, un medio e un
debole grado di coesione fra le sue molecole.
In definitiva, da tali forze dipendono le temperature a cui avvengono i passaggi di stato
(temperatura di fusione, temperatura di ebollizione), e cosõÁ pure i valori della tensione di
vapore (cioeÁ la maggiore o minore tendenza di una sostanza a passare dallo stato solido o
liquido allo stato di vapore).
La presenza e il tipo di tali legami secondari spiegano inoltre la solubilitaÁ di alcune
sostanze in determinati solventi piuttosto che in altri. Le forze intermolecolari sono
anche responsabili delle deviazioni dei gas reali dalle leggi dei gas ideali.
In dipendenza dall'origine e dall'intensitaÁ di queste forze di coesione, i legami chimici
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.......................................................
9. La coesione fra molecole
.............................................................................................................................
2
........................................................................................................................
3
secondari vengono classificati in:
. legami dipolo-dipolo;
. forze di London;1
. legami a idrogeno.
I primi due tipi di legame vengono genericamente indicati come forze di van der Waals;2
mentre il legame a idrogeno, per le sue caratteristiche particolari, eÁ considerato a seÂ
stante.
LEGAME DIPOLO-DIPOLO
Questo tipo di legame chimico secondario eÁ quello che tiene unite le molecole che posseggono un momento dipolare permanente.
La forza di attrazione fra queste molecole eÁ dovuta al fatto che esse risultano orientate
in modo che i centri delle cariche opposte di ogni dipolo siano adiacenti:
+
–
+
–
+
–
–
+
–
+
–
+
+
–
+
–
+
–
Per questa ragione le molecole dipolari formano solidi o liquidi con un punto di fusione o
un punto di ebollizione piuÁ elevati di quelli dei solidi e dei liquidi formati dalle molecole
che non hanno un momento dipolare permanente.
Per esempio, il metano (CH4) la cui molecola non possiede momento dipolare, peso
molecolare uguale a 16 u, alla pressione atmosferica fonde a 183 8C e bolle a 59 8C,
mentre l'ammoniaca (NH3) la cui molecola possiede un momento dipolare, peso
molecolare uguale a 17 u, alla pressione atmosferica fonde a 77,7 8C e bolle a 33,5 8C.
FORZE DI LONDON
Se la presenza di un momento dipolare nelle molecole rende conto delle forze di coesione
responsabili dello stato solido o liquido delle sostanze, in che modo puoÁ essere giustificato
il fatto che anche fra le molecole che non posseggono momento dipolare esistono delle
forze di coesione, sebbene piuÁ deboli di quelle che si esercitano fra dipolo e dipolo?
Ebbene, se teniamo presente che ad ogni elettrone di un atomo o di una molecola eÁ
associata un'onda materiale tridimensionale che puoÁ essere paragonata all'oscillazione,
intorno al nucleo positivo, di una nuvola di carica negativa, accade che quando in un certo
istante questa nube elettronica si trova da una parte della molecola, si origina un dipolo
non permanente che induce sulle molecole adiacenti una analoga debole polaritaÁ. In
questo modo, in un certo istante, esiste fra le molecole della sostanza una debole forza di
attrazione che le tiene unite. Nell'istante successivo, il fenomeno si ripete da un'altra parte
della molecola e quindi la debole forza attrattiva continua a esercitarsi fra molecole
adiacenti. Un tale fenomeno puoÁ essere visualizzato supponendo di «fotografare», per
1
2
Fritz London (1900-1954), fisico tedesco.
Johannes Diderik van der Waals (1837-1923), fisico olandese, premio Nobel per la fisica nel 1910.
132
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3. Forze di London
esempio, tre atomi di elio adiacenti:
+
+
+
in due istanti successivi:
+
+
+
+
+
+
A queste deboli forze di attrazione fra molecole non polari eÁ stato dato il nome di forze di
London, dal nome del loro scopritore.
Evidentemente, quanto piuÁ grande eÁ il numero di elettroni contenuti in una molecola,
e quindi il suo peso molecolare, e cioeÁ quanto piuÁ densa eÁ la nuvola di carica negativa che
circonda una molecola non polare, tanto maggiore eÁ l'intensitaÁ delle forze di London che
si esercitano fra queste molecole (si dice che la molecola eÁ piuÁ polarizzabile). Per elementi
a basso numero atomico, invece, la nuvola elettronica si deforma difficilmente sotto
l'azione del campo elettrico di una molecola adiacente, in quanto gli elettroni sono
fortemente attratti dal nucleo (la molecola eÁ meno polarizzabile), e le forze di London
saranno di minore entitaÁ.
Questa affermazione eÁ ampiamente confermata dal confronto dei punti di ebollizione
dei gas nobili alla pressione atmosferica, che esistono allo stato monoatomico e quindi
apolari per eccellenza:
Atomo
Peso atomico
He (elio)
Ne (neon)
Ar (argon)
Kr (cripton)
Xe (xenon)
Rn (radon)
4,003
20,18
39,95
83,80
131,3
222,0
Punto di ebollizione
269 8C
246 8C
186 8C
152 8C
107 8C
62 8C
Un altro esempio tipico degli effetti delle forze di London eÁ quello degli alogeni F2 , Cl2 ,
Br2 , I2 : fluoro e cloro sono gas le cui molecole sono difficilmente polarizzabili, perche gli
elettroni sono trattenuti fortemente dai nuclei; il bromo, formato da atomi di numero
atomico piuÁ alto, si presenta, a temperatura ambiente, allo stato liquido, mentre lo iodio,
col numero atomico piuÁ alto rispetto agli altri alogeni, eÁ l'elemento in cui le forze di
London sono piuÁ intense, e a temperatura ambiente si presenta come un solido.
Oltre che dal numero di elettroni, le forze di London dipendono anche dalla forma
delle molecole: se esse sono lineari e allungate, possono avvicinarsi e disporsi l'una accanto
all'altra, interagendo in piuÁ punti e dando origine, come risultante, a un dipolo istantaneo
di una certa intensitaÁ.
Viceversa, molecole con forma piuÁ compatta, tendente alla forma sferica, avranno
pochi punti di contatto e le forze di London, che diminuiscono molto rapidamente
con l'aumentare della distanza, saranno molto ridotte rispetto al tipo precedente. Le
forze di coesione saranno allora abbastanza elevate per le molecole del primo tipo e
molto minori per quelle del secondo tipo, come si puoÁ osservare confrontando i punti
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Figura 9.1
..........................................................................................................................................................................................
4
Influenza del legame
a idrogeno sui punti
di ebollizione
dell'ammoniaca,
dell'acido fluoridrico
e dell'acqua.
di ebollizione dell'n-pentano e dei suoi isomeri (sostanze con diverse proprietaÁ fisiche
e/o chimiche con la stessa formula bruta):
CH3
CH2
CH2
CH2
p.e. ˆ 36,1 8C
CH3
(n-pentano)
CH3
CH3
CH
CH2
p.e. ˆ 27,9 8C
CH3
(2-metilbutano)
CH3
CH3
C
p.e. ˆ 9,5 8C
CH3
CH3
(2,2-dimetilpropano)
LEGAME A IDROGENO
Se in un sistema di due assi cartesiani riportiamo, in funzione dei rispettivi pesi molecolari,
i punti di ebollizione normali, cioeÁ alla pressione atmosferica, dei composti covalenti che
l'idrogeno forma con gli elementi classificati nel quarto, quinto, sesto e settimo gruppo del
sistema periodico, otteniamo il diagramma rappresentato in figura 9.1.
H2O
Punto di ebollizione normale (°C)
.................................................................................................................................
9. La coesione fra molecole
H2Te
HF
SbH3
H2S
NH3
H2Se
AsH3
SnH4
HCI
PH3
HI
HBr
GeH4
SiH4
CH4
Peso molecolare
Dal grafico possiamo osservare che, mentre nei composti formati da molecole che non
posseggono momento dipolare (CH4, SiH4, GeH4, SnH4), il punto di ebollizione aumenta
regolarmente con l'aumentare del peso molecolare, come prevedibile dall'intensitaÁ
crescente delle forze di London fra le molecole, nelle serie di tutti gli altri composti,
formati da molecole con un momento dipolare, si ha un andamento anomalo del punto di
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4. Legame a idrogeno
ebollizione in funzione del peso molecolare. Per esempio, per la serie HF, HCl, HBr, HI si
puoÁ notare che il punto di ebollizione diminuisce regolarmente con il diminuire del peso
molecolare, secondo la successione HI, HBr, HCl per poi assumere per l'acido fluoridrico
un anomalo valore elevato del tutto incompatibile con forze di attrazione dipolo-dipolo fra
le molecole di questa sostanza. Lo stesso andamento si verifica per le altre due serie: H2O,
H2S, H2Se, H2Te e NH3, PH3, AsH3, SbH3 nelle quali l'acqua e l'ammoniaca si comportano allo stesso modo dell'acido fluoridrico.
Il fatto che l'acido fluoridrico, l'acqua e l'ammoniaca abbiano un punto di ebollizione
imprevedibilmente piuÁ elevato degli altri composti omologhi, indica che le molecole di
queste sostanze devono essere tenute insieme da una particolare e tipica forza di attrazione
piuÁ intensa di quella che si esercita fra dipolo e dipolo. A questa forza di attrazione eÁ stato
dato il nome di legame a idrogeno, in quanto come vedremo, eÁ proprio l'atomo di questo
elemento che ne eÁ il principale artefice.
Quando un atomo di idrogeno si lega con legame covalente a un altro atomo fortemente
elettronegativo, come il fluoro, l'ossigeno o l'azoto, la coppia di elettroni di legame eÁ cosõÁ
intensamente attratta da quest'ultimo, che l'atomo di idrogeno risulta caricato positivamente
tanto che potrebbe essere considerato un protone nudo:
H
F
+
–
Quindi l'atomo di idrogeno, cosõÁ positivizzato, viene attirato dal centro negativo di una
molecola adiacente (legame a idrogeno intermolecolare), oppure dal centro negativo contenuto nella stessa molecola (legame a idrogeno intramolecolare), con una forza di natura
elettrostatica che eÁ piuÁ intensa di quella dipolo-dipolo.
Simboleggiando questo tipo di legame con una serie di puntini, possiamo rappresentare
il legame a idrogeno intermolecolare fra molecole di acido fluoridrico nel seguente modo:
HÐF
HÐF
HÐF
HÐF
Il legame a idrogeno intermolecolare fra molecole di acqua allo stato liquido puoÁ essere
rappresentato in questo modo:
H
H
O
H
H
O
H
O
H
H
O
H
O
H
H
Invece, il legame a idrogeno intramolecolare eÁ quello che si verifica, per esempio, nell'acido o-idrossibenzoico:
OH
C
O
O H
EÁ opportuno far notare che il legame a idrogeno puoÁ stabilirsi anche fra le molecole di
135
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coppia solitaria
N
H
H
H
5
sostanze diverse, come per esempio fra una molecola di acqua e una di ammoniaca
tramite la coppia solitaria sull'atomo di azoto:
H
.........................................................................................................................................................
9. La coesione fra molecole
H
O
e cioÁ rende conto dell'elevata solubilitaÁ dell'ammoniaca gassosa nell'acqua liquida.
Rimane infine da sottolineare il fatto che, sebbene l'elettronegativitaÁ dell'atomo di azoto
sia uguale a quella dell'atomo di cloro, tuttavia fra le molecole di ammoniaca (NH3) esistono legami a idrogeno che sono invece praticamente assenti fra le molecole di acido
cloridrico (HCl). Infatti, se anche tra le molecole di acido cloridrico esistessero legami a
idrogeno, i punti di ebollizione di queste due sostanze dovrebbero seguire l'andamento dei
rispettivi pesi molecolari: l'ammoniaca (P.M. ˆ 17 u) dovrebbe essere piuÁ volatile (cioeÁ
bollire prima) dell'acido cloridrico (P.M. ˆ 36,5 u); in realtaÁ il punto di ebollizione
dell'ammoniaca eÁ 33,3 8C e quello dell'acido cloridrico eÁ 84 8C, e quindi quest'ultimo
eÁ piuÁ volatile dell'ammoniaca. CioÁ si spiega escludendo l'esistenza di legami a idrogeno
tra le molecole dell'acido cloridrico: questo perche quando l'atomo di idrogeno eÁ legato
con atomi elettronegativi piuÁ pesanti dell'azoto (Z ˆ 7), dell'ossigeno (Z ˆ 8) o del fluoro
(Z ˆ 9), come per esempio con un atomo di cloro (Z ˆ 17), la piuÁ diffusa nuvola elettronica
associata a quest'ultimo fa sõÁ che l'atomo di idrogeno non risulti sufficientemente carico di
elettricitaÁ positiva da poter formare legami a idrogeno con le molecole adiacenti di acido
cloridrico.
I PROCESSI DI SOLUBILIZZAZIONE
Come sappiamo, una soluzione eÁ un sistema omogeneo, in cui le molecole del soluto (un
solido, un liquido o un gas) sono intimamente disperse tra le molecole del solvente (in
genere un liquido). Affinche tale processo possa avvenire, peroÁ, le molecole del soluto
devono poter instaurare dei legami intermolecolari con le molecole del solvente, legami
che saranno possibili solo se le forze attrattive tra le particelle, sia del soluto sia del
solvente, sono confrontabili fra loro in termini di grandezza, e questo avviene se le
molecole del solvente e del soluto hanno polaritaÁ simili.
Da qui trae origine la regola generale per cui «sostanze simili si sciolgono tra loro» o «il
simile scioglie il simile».
Vediamo alcuni esempi:
a) l'acqua, sostanza polare, scioglie le sostanze polari come i sali, i cui ioni, positivi e
negativi, si legano alle molecole d'acqua (fenomeno dell'idratazione);
b) l'acqua scioglie sostanze come alcoli, zuccheri, ammine, perche in queste sostanze
sono presenti legami a idrogeno tramite i quali potranno unirsi anche le due diverse
specie di molecole del solvente e del soluto; per esempio acqua e metanolo:
H
H
O
O
CH3
H
c) un solvente apolare come CCl4 , invece, non scioglie sostanze polari come le
precedenti, ma scioglie sostanze apolari come idrocarburi o grassi, che si legano alle
molecole del solvente con forze di London.
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QUESITI
...............................................................................................................................
QUESITI
1. Quali legami intermolecolari esistono nei seguenti composti? HBr; O2 ; CO; CH4 ; C2 H5 OH;
CH3 NH2 ; SO2 .
2. Quale dei seguenti composti liquefa piuÁ facilmente? CO2 ; HI; BF3 .
3. Perche i legami a idrogeno si verificano solo se l'idrogeno eÁ legato all'azoto, all'ossigeno, al fluoro?
4. Tra i due gas CO2 e SO2 , quale ha punto di ebollizione maggiore?
5. Per quale dei seguenti gas le forze intermolecolari
sono piuÁ intense? Ne; N2 ; CO2 ; HBr; CH4 .
6. Le forze di London sono piuÁ intense per il metano
o il butano?
7. Quale dei seguenti composti eÁ piuÁ solubile in acqua? CCl4 ; C3 H8 ; CH3 OH; CS2 .
8. Le forze di London sono piuÁ intense per CO2 o
per CS2 ? PercheÂ?
9. Perche gli idrocarburi a catena normale hanno
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
punti di ebollizione superiori rispetto ai loro isomeri a catena ramificata?
10. Tenendo conto che quanto piuÁ intense sono le
forze intermolecolari, tanto piuÁ i gas reali si discostano dalle leggi dei gas ideali, quali dei seguenti
gas seguono meglio le leggi dei gas ideali? Ne; N2 ;
HCl; SO2 ; NH3 ; H2 .
11. Tra gli alogeni F2 , Cl2 , Br2 , I2 a temperatura ambiente e a pressione atmosferica, il primo eÁ gassoso, il secondo eÁ un gas che liquefa facilmente, il
terzo eÁ liquido e il quarto eÁ solido. Come si spiegano i diversi stati di aggregazione per questi elementi?
12. Lo iodio (I2 ) eÁ piuÁ solubile in acqua o in tetraclorometano? PercheÂ?
13. In quali solventi si potrebbe sciogliere lo zolfo (S8 )?
14. Come si spiega la scarsa solubilitaÁ in acqua dell'1-pentanolo?
15. Come si spiega la solubilitaÁ in acqua dell'etere
dimetilico?
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10
.....................................................................................................................................................................................................................................................
1
La teoria del legame
di valenza
TEORIA QUANTISTICA DEL LEGAME COVALENTE
La teoria del legame chimico, elaborata mediante le formule elettroniche di Lewis e la
regola dell'ottetto (duetto), ha una importanza soprattutto didattica, in quanto solo
mediante l'applicazione della meccanica quantistica ai sistemi materiali formati dall'insieme di due o piuÁ atomi eÁ stato possibile compiere un notevole passo avanti sulla
conoscenza dell'intima struttura di queste entitaÁ materiali. Infatti, la meccanica quantistica ci fornisce il mezzo matematico non solo per spiegare e per prevedere l'esistenza
delle molecole, ma anche i valori della loro energia e simmetria geometrica che sono in
ottimo accordo con i risultati sperimentali.
Affrontando il mondo dell'atomo, abbiamo visto che gli orbitali atomici, che sono le
soluzioni matematiche della equazione di SchroÈdinger, oltre all'esatto valore della energia
degli elettroni costituenti gli atomi, ci forniscono al tempo stesso la percentuale di
probabilitaÁ di trovarli in una certa regione dello spazio intorno al nucleo (simmetria
geometrica degli orbitali atomici); ebbene, applicando ai sistemi molecolari questo stesso
criterio matematico suggerito dalla meccanica quantistica, eÁ stato possibile elaborare delle
equazioni le cui soluzioni descrivono in modo abbastanza soddisfacente gli elettroni nelle
molecole, e cioeÁ l'energia e la forma geometrica della nuvola elettronica ad essi associata.
I criteri matematici seguiti per risolvere le equazioni di SchroÈdinger applicate alle
molecole sono fondati su due teorie:
. la teoria del legame di valenza;
. la teoria degli orbitali molecolari (che affronteremo nel prossimo capitolo).
La prima teoria, che tra l'altro eÁ quella piuÁ semplice, prende in esame solo gli elettroni
relativi agli orbitali atomici piuÁ esterni degli atomi, e cioeÁ gli orbitali atomici di valenza, e
stabilisce che ogni legame covalente contratto fra due atomi avviene mediante la
sovrapposizione di un orbitale atomico di valenza dell'uno con un orbitale atomico di
valenza dell'altro, ciascuno dei quali sia peroÁ occupato da un solo elettrone che viene
denominato elettrone dispari o spaiato. Se invece fra i due atomi viene contratto un
legame covalente dativo, questo avviene mediante la sovrapposizione dell'orbitale
atomico di valenza del datore o donatore (quello definito dalla coppia solitaria), con
l'orbitale atomico di valenza dell'accettore, il quale eÁ privo di elettroni o presenta una
carenza (o lacuna) elettronica. Comunque, in entrambi i casi, ogni legame covalente che si
stabilisce fra due atomi eÁ sempre formato da un doppietto elettronico.
La seconda teoria, ossia quella degli orbitali molecolari, eÁ matematicamente piuÁ
complessa ma piuÁ rigorosa, in quanto parte dal presupposto che gli elettroni dei singoli
atomi che concorrono a formare la molecola non appartengono piuÁ ai rispettivi orbitali
atomici, ma risultano distribuiti su nuovi orbitali, detti orbitali molecolari, i quali appartengono a tutta la molecola.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.................................................
2. Teoria del legame di valenza
Figura 10.1
..............................................................................................................................................................................................................................................................................
2
a) Formazione del
legame covalente
tra due atomi
di idrogeno.
b) Molecola di
idrogeno.
c) Energia di due
atomi di idrogeno in
funzione della loro
distanza.
EÁ bene a questo punto ribadire che gli orbitali atomici, e cosõÁ pure gli orbitali molecolari,
non sono entitaÁ fisiche concrete, ma entitaÁ matematiche, in quanto il loro significato eÁ
quello di soluzioni di equazioni piuÁ o meno complicate che descrivono le onde materiali
associate agli elettroni appartenenti agli atomi o alle molecole. Comunque, sebbene sia
improprio parlare di elettroni distribuiti sugli orbitali, come se questi ultimi fossero delle
zone ben precise dove orbitano gli elettroni, tuttavia molto spesso per semplicitaÁ di
esposizione continueremo a usare questo linguaggio poco rigoroso.
TEORIA DEL LEGAME DI VALENZA
Come abbiamo giaÁ detto, questa teoria prende in esame solo la distribuzione della carica
elettrica associata agli elettroni di valenza degli atomi, nel senso che, nel caso piuÁ
semplice, considera due atomi isolati che si avvicinano reciprocamente fino a sovrapporre
i rispettivi orbitali atomici piuÁ esterni, ovvero quelli di valenza, senza peroÁ sovrapporre gli
altri orbitali atomici piuÁ vicini ai rispettivi nuclei.
Se ciascuno dei due orbitali atomici sovrapposti contiene un solo elettrone spaiato, fra
i due atomi si forma allora un legame covalente costituito dai due orbitali atomici
sovrapposti, i quali vengono saltuariamente occupati dai due elettroni di valenza, nel
senso che la coppia di elettroni di legame appartiene ora all'uno e ora all'altro atomo
coinvolti nel legame. La stessa regola vale per il legame dativo, con la differenza che la
coppia di elettroni apparteneva inizialmente a uno dei due atomi.
orbitale semipieno 1s1
di un atomo isolato
di idrogeno
orbitale semipieno 1s1
di un atomo isolato
di idrogeno
orbitali atomici
sovrapposti
H2
+
a)
b)
H2
Energia
°
d0 = 0,75 A
Distanza
tra gli atomi
0
c)
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10. La teoria del legame di valenza
Infatti, applicando l'equazione di SchroÈdinger a un sistema formato da due atomi isolati
posti a una distanza tale da sovrapporre due orbitali atomici di valenza contenenti ciascuno un elettrone spaiato, si ottiene una soluzione matematica dalla quale risulta che il
valore dell'energia di questo sistema, e cioeÁ della molecola, eÁ minore della somma dell'energia dei due atomi isolati.
Per esempio, se due atomi isolati di idrogeno si avvicinano reciprocamente fino a
sovrapporre i rispettivi orbitali atomici 1s ognuno dei quali occupato da un solo elettrone, si forma la molecola dell'idrogeno (H2) nella quale la coppia di elettroni di
legame appartiene saltuariamente ora all'uno e ora all'altro atomo di idrogeno, mentre
l'energia di un tale sistema eÁ minore della somma dell'energia dei due atomi isolati
(fig. 10.1a).
Si noti che, a causa della sovrapposizione degli orbitali 1s (fig. 10.1b), la densitaÁ elettronica risulta massima nello spazio compreso tra i nuclei, il che eÁ determinante per la
formazione di un legame covalente.
Nel grafico di figura 10.1c eÁ rappresentato l'andamento dell'energia del sistema
formato dai due atomi di idrogeno in funzione della loro distanza; il valore di tale energia,
man mano che gli atomi si avvicinano, diminuisce fino a raggiungere un valore minimo
(massima stabilitaÁ del sistema) per una certa distanza d0, in corrispondenza della
formazione della molecola H2 ; d0 rappresenta dunque la lunghezza del legame (0,75 AÊ
per la molecola di idrogeno), mentre E0 rappresenta l'energia liberata nella formazione
della molecola dai due atomi di idrogeno isolati (e coincide, a meno del segno, con
l'energia necessaria per dissociare la molecola in atomi liberi). Se la distanza diminuisce
ulteriormente, l'energia del sistema tende invece ad aumentare, fino a superare il valore
corrispondente a quello dei due atomi isolati (considerato uguale a zero per convenzione), per l'insorgere di forze repulsive che determinano una maggiore instabilitaÁ del
sistema.
Se si avvicinano reciprocamente due atomi isolati di elio (Z ˆ 2):
"#
&
1s2
fino a sovrapporre i rispettivi orbitali di valenza 1s, la meccanica quantistica ci consente di
affermare che non si forma la molecola di elio (He2), in quanto essendo giaÁ presenti due
elettroni appaiati su ognuno dei due orbitali atomici di valenza, l'energia del sistema
risultante eÁ maggiore dell'energia ottenuta sommando quella dei due atomi isolati di elio.
Se due atomi di litio (Z ˆ 3):
"#
#
& &
1s2
2s1
si avvicinano reciprocamente fino a sovrapporre i rispettivi orbitali atomici di valenza
2s, i due elettroni spaiati in essi contenuti possono appartenere saltuariamente ora
all'uno ora all'altro atomo di litio, i quali pertanto si legano con un legame covalente
per formare la molecola di litio (Li2), la cui esistenza, oltre ad essere matematicamente
prevista in quanto l'energia di questo sistema risulta minore di quella ottenuta sommando l'energia dei due atomi isolati di litio, eÁ stata sperimentalmente accertata allo
stato gassoso.
Se due atomi di berillio (Z ˆ 4):
"#
"#
&
&
1s2
2s2
si avvicinano reciprocamente fino a sovrapporre i rispettivi orbitali atomici di valenza 2s,
non si forma la molecola di berillio (Be2), per le stesse ragioni giaÁ esposte per la molecola
di elio (He2).
140
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 10.2
..................................................................................................................................................................................................................
3. Ibridazione degli orbitali atomici
Formazione del
legame covalente tra
un atomo di idrogeno
e un atomo di fluoro
nella molecola HF.
Figura 10.3
Formazione del legame covalente tra due
atomi di fluoro nella
molecola F2 (non sono indicati gli altri
orbitali 2p completi).
.........................................................................................................
3
Se un atomo isolato di idrogeno (Z ˆ 1):
"
&
1s1
e un atomo isolato di fluoro (Z ˆ 9):
"#
"#
"#
"#
#
&
&
&
&
&
|‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚{z‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚}
1s2
2s2
2p5
si avvicinano reciprocamente fino a sovrapporre rispettivamente l'orbitale atomico 1s e
l'orbitale atomico 2p1x sui quali eÁ distribuito un solo elettrone, si forma la molecola dell'acido
fluoridrico (HF) nella quale i due atomi sono legati con legame covalente, e il cui contenuto
energetico risulta minore della somma delle energie dei due atomi isolati (fig. 10.2).
orbitale semipieno
1s1 di un atomo
isolato di idrogeno
orbitale semipieno
2p1x di un atomo
isolato di fluoro
orbitali atomici sovrapposti
HF
+
+
+
+
Se due atomi isolati di fluoro (Z ˆ 9):
"#
"#
"#
"#
"
&
&
&
&
&
|‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚{z‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚}
1s2
2s2
2p5
si avvicinano reciprocamente fino a sovrapporre i rispettivi orbitali atomici 2p1x sui quali eÁ
distribuito un solo elettrone, si forma la molecola di fluoro (F2) nella quale i due atomi
sono legati con legame covalente, e il cui contenuto energetico risulta minore della somma
dell'energia dei due atomi isolati (fig. 10.3).
orbitale semipieno
2p1x di un atomo
isolato di fluoro
orbitale semipieno
2p1x di un atomo
isolato di fluoro
+
+
orbitali atomici sovrapposti
+
+
+
F2
+
+
IBRIDAZIONE DEGLI ORBITALI ATOMICI
Questo concetto, introdotto da Pauling, considera l'ipotesi che due o piuÁ orbitali atomici,
appartenenti allo stesso atomo, possano fondersi insieme formando due o piuÁ orbitali
atomici, detti ibridi, uguali fra loro sia per l'energia sia per la forma e che sono orientati
nello spazio in direzioni diverse da quelle degli orbitali atomici di origine.
Una simile ipotesi eÁ stata pienamente confermata dalla meccanica quantistica: combinando matematicamente due o piuÁ orbitali atomici, i quali come noto sono le soluzioni
dell'equazione di SchroÈdinger, si ottengono delle nuove equazioni che ammettono tante
soluzioni quanti sono gli orbitali atomici combinati. A queste soluzioni eÁ stato dato il
nome di orbitali atomici ibridi.
CosõÁ, per esempio, l'esistenza della molecola dell'idruro di berillio (BeH2), e il fatto
sperimentalmente accertato che i due legami covalenti fra l'atomo di berillio e i due atomi
di idrogeno hanno la stessa energia e sono orientati nello spazio a 1808 l'uno rispetto
all'altro (molecola lineare):
180°
H
Be
H
141
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 10.4
Ibridazione sp.
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
10. La teoria del legame di valenza
ha potuto trovare una spiegazione definitiva solo ammettendo l'ibridazione degli orbitali
atomici di valenza dell'atomo di berillio. Infatti, dato che in un atomo di berillio (Z ˆ 4)
nel suo stato fondamentale:
"#
"#
&
&
&
& &
|‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚{z‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚}
1s2
2s2
2p
non esistono i due elettroni spaiati indispensabili per formare i due legami covalenti con i
due atomi di idrogeno, si deve ammettere che uno dei due elettroni relativi all'orbitale
atomico di valenza 2s venga promosso in uno qualsiasi dei tre orbitali atomici 2p
isoenergetici. In questo modo si forma un atomo di berillio nello stato eccitato, la cui
struttura elettronica eÁ la seguente:
"#
"
"
&
&
&
&
&
|‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚{z‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚}
1s2
2s1
2p1
Combinando poi matematicamente i due orbitali atomici, ovvero quello 2s e quello 2p la
cui energia eÁ definita da un solo elettrone, si ottiene una nuova equazione che ammette due
sole soluzioni e cioeÁ due nuovi orbitali atomici i quali risultano identici sia per l'energia che
per la forma. A queste soluzioni eÁ stato dato il nome di orbitali atomici ibridi sp (esse-pi),
in quanto sono il risultato della fusione di un orbitale atomico s e di un orbitale atomico p
appartenenti allo stesso atomo.
Per i due orbitali atomici ibridi sp, eÁ risultato inoltre che la densitaÁ di carica elettrica
associata agli elettroni eÁ massima in due regioni dello spazio orientate a 1808 l'una rispetto
all'altra (fig. 10.4).
due orbitali atomici ibridi sp a 180°
orbitale atomico puro px
ibridazione sp
+
orbitale atomico puro s
Dalla successiva sovrapposizione di ciascuno di questi due orbitali ibridi dell'atomo di
berillio con l'orbitale atomico 1s di un atomo di idrogeno, la cui simmetria geometrica eÁ
sferica, si forma la molecola BeH2 nella quale l'atomo di berillio eÁ legato a due atomi di
idrogeno mediante due legami covalenti disposti a 1808 l'uno rispetto all'altro e il cui
contenuto energetico, calcolato in base alla teoria del legame di valenza, eÁ minore di
quello ottenuto sommando l'energia di due atomi isolati di idrogeno e di uno di berillio.
Sempre in termini di ibridazione degli orbitali atomici puoÁ essere spiegata la simmetria
geometrica della molecola di molti altri composti, come per esempio di quella del fluoruro di
boro (BF3). Infatti, eÁ stato sperimentalmente accertato che la molecola di questo composto eÁ
planare, e quindi sia l'atomo di boro sia i tre atomi di fluoro sono disposti su uno stesso
piano e che i tre legami covalenti stabiliti fra l'atomo di boro e i tre atomi di fluoro sono
perfettamente identici in termini di energia e orientati a 1208 l'uno rispetto all'altro:
F
120°
F
B
F
142
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 10.5
Ibridazione sp2 .
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3. Ibridazione degli orbitali atomici
Ebbene, questo fatto sperimentale ha trovato l'esatta interpretazione matematica in quanto, considerando un atomo di boro (Z ˆ 5) nel suo stato fondamentale:
"#
"#
"
&
&
&
& &
1s2
2s2
2p1
se uno dei due elettroni dell'orbitale atomico 2s viene promosso su uno dei due orbitali
atomici non occupati 2p, si forma un atomo eccitato di boro la cui configurazione
elettronica eÁ la seguente:
"#
"
"
"
&
&
&
&
&
1s2
2s1
2p1x
2p1y
2pz
nella quale compaiono tre elettroni spaiati quanti sono appunto i legami covalenti che
l'atomo di boro contrae con i tre atomi di fluoro.
Se ora combiniamo matematicamente l'orbitale atomico 2s con i due orbitali atomici
2p (per esempio quello px e quello py), ciascuno contenente un solo elettrone, si ottiene
una nuova equazione che ammette tre sole soluzioni, e cioeÁ tre orbitali ibridi che sono
perfettamente equivalenti sia per l'energia che per la forma, i quali vengono denominati
orbitali ibridi sp2 (esse-pi-due) in quanto sono il risultato della fusione di un orbitale
atomico s con due orbitali atomici p appartenenti allo stesso atomo. Anche in questo caso
la meccanica quantistica ci fornisce l'indicazione che la probabilitaÁ spaziale di trovare i tre
elettroni relativi ai tre orbitali ibridi eÁ massima in tre regioni dello spazio orientate
planarmente a 1208 l'una rispetto all'altra (fig. 10.5).
tre orbitali atomici
ibridi sp2 a 120°
orbitale
atomico puro s
ibridazione sp2
120°
orbitale
atomico puro py
120°
120°
orbitale atomico puro px
Infine, dalla successiva sovrapposizione di ciascuno di questi tre orbitali ibridi dell'atomo
di boro con l'orbitale atomico p di un atomo di fluoro (Z ˆ 9), quello cioeÁ relativo
all'unico elettrone spaiato 2p:
"#
"#
"#
"#
"
&
&
&
&
&
|‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚{z‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚}
1s2
2s2
2p5
si forma la molecola del fluoruro di boro nella quale l'atomo di boro eÁ legato a tre atomi di
fluoro mediante tre legami covalenti disposti sullo stesso piano e a 1208 l'uno rispetto
all'altro, e il cui contenuto energetico, calcolato in base alla teoria del legame di valenza, eÁ
minore di quello ottenuto sommando l'energia di ogni atomo che concorre a formare la
molecola.
In modo del tutto analogo puoÁ essere matematicamente spiegato il fatto che l'atomo di
carbonio (Z ˆ 6):
"#
"#
"
"
& & &
& &
|‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚{z‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚}
1s2
2s2
2p2
143
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 10.6
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
10. La teoria del legame di valenza
il cui stato fondamentale contiene due soli elettroni spaiati, e quindi dovrebbe essere
bivalente, forma tuttavia un numero elevatissimo di composti, il capostipite dei quali eÁ il
metano (CH4) in cui il carbonio si comporta da tetravalente, e cioeÁ invece di due, impegna
quattro elettroni (spaiati) per formare quattro legami covalenti i quali, nel caso della
molecola del metano, sono perfettamente identici in termini di forma ed energia, e sono
orientati nello spazio formando l'uno rispetto all'altro un angolo di 1098280 .
Infatti, se nell'atomo di carbonio un elettrone viene promosso dall'orbitale 2s a quello
non occupato 2p (2pz), per cui si ha la struttura elettronica eccitata:
"#
"
"
"
"
&
&
&
&
&
1s2
2s1
2p1x
2p1y
2p1z
e poi vengono matematicamente combinati i tre orbitali atomici 2p con quello 2s
(contenenti ciascuno un solo elettrone), si ottiene una nuova equazione che ammette
quattro soluzioni, quindi quattro orbitali atomici ibridi perfettamente equivalenti
nell'energia e nella forma, i quali vengono denominati orbitali ibridi sp3 (esse-pi-tre) in
quanto sono il risultato della fusione di un orbitale atomico s con tre orbitali atomici p
appartenenti allo stesso atomo. Le quattro soluzioni ottenute ci forniscono inoltre
l'indicazione che la probabilitaÁ spaziale di trovare i quattro elettroni relativi ai quattro
orbitali eÁ massima in quattro direzioni a 1098280 l'una rispetto all'altra, ovvero secondo le
direzioni ottenute congiungendo il centro di un tetraedro con i relativi vertici (fig. 10.6a).
a) I quattro orbitali
ibridi sp3 del carbonio.
b) La molecola del
metano.
1s
nucleo
sp3
109°28'
sp3
1s
sp3
sp3
1s
a)
b)
1s
Dalla sovrapposizione di questi quattro orbitali ibridi dell'atomo di carbonio, ognuno dei
quali eÁ occupato da un solo elettrone, con l'orbitale s (a simmetria sferica) di quattro distinti
atomi di idrogeno, si forma la molecola del metano (CH4) il cui contenuto di energia, in
base ai risultati della meccanica quantistica, eÁ minore sia del contenuto energetico dell'ipotetico sistema CH2, nel quale un atomo di carbonio stabilisce solo due legami covalenti
come dovrebbe essere previsto dalla sua struttura elettronica nello stato fondamentale, sia
del contenuto energetico ottenuto sommando l'energia di un atomo isolato di carbonio e di
quattro atomi isolati di idrogeno (fig. 10.6b).
Generalizzando i casi presi ad esempio, possiamo concludere che tutte le volte che un
atomo forma due o piuÁ legami covalenti legandosi con altri atomi uguali o diversi, sebbene contenga nello stato fondamentale (sugli orbitali di valenza) un numero di elettroni
spaiati minore di quello che ha impegnato nei legami, eÁ possibile spiegare questa apparente contraddizione solo in termini di ibridazione degli orbitali atomici di quell'atomo.
144
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Tabella 10.1
....................................................................
4. Ibridazione trigonale e digonale dell'atomo di carbonio
Alcune ibridazioni
degli orbitali atomici.
Figura 10.7
.........................................................................................................................................................................................................................................................
4
I tre orbitali ibridi sp2
e l'orbitale atomico
puro 2pz dell'atomo
di carbonio.
Orbitali
atomici
coinvolti
Orbitali
atomici ibridi
Numero
di orbitali
ibridi
Angoli
fra
orbitali
Esempi
Geometria
della
molecola
(1)s ‡ (1)p
(1)s ‡ (2)p
(1)s ‡ (3)p
sp
sp2
sp3
2
3
4
1808
1208
1098280
BeH2
BF3
CH4
lineare
planare
tetraedrica
Oltre all'ibridazione degli orbitali atomici s e p che abbiamo precedentemente illustrato, e
che viene riassunta nella tabella 10.1, sono possibili anche le ibridazioni di altri orbitali
atomici appartenenti ad uno stesso atomo, sulle quali peroÁ non riteniamo il caso soffermarci.
IBRIDAZIONE TRIGONALE E DIGONALE
DELL'ATOMO DI CARBONIO
EÁ interessante far notare che nell'atomo di carbonio sono possibili, oltre l'ibridazione di
tipo sp3 ora descritta, che viene detta tetraedrica, anche l'ibridazione di tipo sp2 detta
trigonale e quella di tipo sp detta digonale.
Mentre nell'ibridazione tetraedrica (sp3) si ha il mescolamento di un orbitale atomico
s e di tre orbitali atomici p dell'atomo di carbonio nello stato eccitato, con formazione
di quattro orbitali ibridi sp3 perfettamente equivalenti per forma ed energia e orientati a
1098280 l'uno rispetto all'altro, nel caso dell'ibridazione trigonale (sp2) si verifica il mescolamento di un orbitale atomico s e di due orbitali atomici p dell'atomo di carbonio
nello stato eccitato, con l'ottenimento di tre orbitali ibridi sp2 perfettamente equivalenti
per forma ed energia. Quindi per l'atomo di carbonio nello stato eccitato:
"#
"
"
"
"
&
&
&
&
&
1s2
ibridazione sp2:
2s1
2p1x
2p1y
2p1z
"#
"
"
"
"
&
&
&
&
&
|‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚{z‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚}
1s2
2p1z
orbitali ibridi sp2
isoenergetici
Mentre i tre orbitali ibridi sp2 sono orientati nello stesso piano con un angolo di 1208
l'uno rispetto all'altro, la distribuzione della carica dell'elettrone che occupa il quarto
orbitale atomico non ibridato (2pz) eÁ orientata perpendicolarmente al piano contenente i
tre orbitali ibridi (fig. 10.7).
z
ibrido sp2
ibrido sp2
orbitale
puro
2pz
x
y
ibrido sp2
145
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 10.8
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
10. La teoria del legame di valenza
Nell'ibridazione digonale o lineare (sp), si verifica invece il mescolamento di un orbitale
atomico s e di un orbitale atomico p dell'atomo di carbonio nello stato eccitato, con
l'ottenimento di due orbitali ibridi sp perfettamente equivalenti per forma e per energia.
Quindi, per l'atomo di carbonio nello stato eccitato:
"#
"
"
"
"
&
&
&
&
&
1s2
2s1
2p1x
2p1y
2p1z
ibridazione sp:
"#
"
"
"
"
&
&
&
&
&
|‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚{z‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚‚}
1s2
2p1y
orbitali ibridi sp
isoenergetici
2p1z
I due orbitali ibridi sp sono disposti sullo stesso piano a 1808 l'uno rispetto all'altro,
mentre la distribuzione della carica dei due elettroni relativi agli orbitali atomici non
ibridati (2py e 2pz) eÁ orientata in due direzioni perpendicolari fra di loro, una delle quali eÁ
perpendicolare al piano sul quale eÁ distribuita la nuvola elettronica dei due orbitali ibridi
sp (fig. 10.8).
z
I due orbitali atomici
ibridi sp e i due orbitali
atomici puri ( py e pz )
dell'atomo di carbonio.
orbitale
puro 2py
orbitale
ibrido sp
orbitale
puro 2pz
y
x
orbitale ibrido sp
Solo ammettendo che nell'atomo di carbonio eÁ possibile l'ibridazione di tipo sp2 si puoÁ
spiegare per quale motivo la molecola dell'etilene (C2H4) eÁ planare, e perche i due atomi
di carbonio sono legati con un doppio legame covalente, mentre l'angolo di legame
C Ð H, come pure quello fra i due atomi di idrogeno legati all'atomo di carbonio, misura
circa 1208:
H
H
C
C
H
0°
12
120°
H
Infatti, la simmetria geometrica di questa molecola puoÁ essere esaurientemente spiegata
ammettendo che ciascuno dei due atomi di carbonio, in seguito a ibridazione sp2 (con il
risultato di tre orbitali ibridi sp2 e un orbitale puro pz), contragga due legami covalenti
(C Ð H) con due atomi di idrogeno mediante la sovrapposizione di due dei tre orbitali
ibridi sp2 (tutti orientati planarmente a 1208 l'uno rispetto all'altro) con l'orbitale sferico
1s di ciascun atomo di idrogeno; a loro volta i due atomi di carbonio si legano tra loro con
un doppio legame covalente, l'uno formato dalla sovrapposizione reciproca dei rimanenti
146
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 10.11
Modello dei legami
nella molecola
dell'acetilene.
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
10. La teoria del legame di valenza
In modo analogo, solo ammettendo l'ibridazione di tipo sp dell'atomo di carbonio eÁ
possibile spiegare perche la molecola dell'acetilene (o etino, C2H2) eÁ lineare e perche i
due atomi di carbonio sono legati tra loro con un triplo legame covalente:
180°
H
C
C
H
Infatti, la simmetria geometrica di questa molecola puoÁ essere esaurientemente spiegata
ammettendo che ciascuno dei due atomi di carbonio, in seguito a ibridazione sp (con il
risultato di due orbitali ibridi sp e di due orbitali puri p), contragga un legame covalente
(C Ð H) con un atomo di idrogeno mediante la sovrapposizione di uno dei due orbitali
ibridi sp (orientati linearmente a 1808 l'uno rispetto all'altro) con l'orbitale sferico 1s
dell'atomo di idrogeno (legame di tipo s). A loro volta, i due atomi di carbonio si legano
tra loro con un triplo legame covalente: uno formato dalla sovrapposizione reciproca dei
rimanenti due orbitali ibridi sp, uno per ciascun atomo di carbonio (legame di tipo s), gli
altri due formati dalla sovrapposizione reciproca delle due coppie di orbitali p non
ibridati (una coppia per ciascun atomo di carbonio) le cui nuvole elettroniche, come in
precedenza sottolineato, sono orientate in due direzioni perpendicolari, a loro volta
perpendicolari all'orientazione della nuvola elettronica degli orbitali atomici ibridi sp:
avremo quindi, in questo caso, due legami di tipo p (fig. 10.11).
H C
z
C H
x
1s
y
148
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
1s
QUESITI
.......................................................................................................................................................................
QUESITI
1. In base alla teoria del legame di valenza, qual eÁ la
formula molecolare del composto formato da boro
e cloro? E quale dovrebbe essere l'angolo fra i
legami B Ð Cl? Se l'indagine sperimentale ha accertato che gli angoli B Ð Cl si trovano sullo stesso
piano e a 1208 l'uno rispetto all'altro, qual eÁ la
spiegazione fornita dalla teoria del legame di valenza?
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
9. Quale ibridazione degli orbitali atomici dell'atomo
di carbonio ci si dovrebbe aspettare nel composto
CCl2F2 (freon)?
10. Indica almeno una delle ragioni per le quali eÁ stato
necessario ricorrere al concetto di ibridazione degli
orbitali atomici.
2. Scrivi la formula molecolare del composto tra
zolfo e idrogeno in base alla teoria del legame di
valenza.
11. Lo stagno, elemento classificato nel quarto gruppo
del sistema periodico, forma con il cloro il composto
covalente SnCl4. Spiega, in base alla teoria del legame di valenza, la formazione di questo composto.
3. Scrivi la formula molecolare del composto tra
azoto e idrogeno in base alla teoria del legame di
valenza.
12. Per quale ragione eÁ stato necessario introdurre il
concetto di risonanza o mesomeria? Che cosa si
intende per ibrido di risonanza?
4. Come puoi spiegare il fatto che, nell'ammoniaca,
gli angoli di legame N Ð H sono disposti nello
spazio con un angolo di 1078?
13. Applicando la regola dell'ottetto, scrivi le due strutture elettroniche della molecola dell'anidride solforosa (SO2). Qual eÁ la vera struttura elettronica di
questa molecola se i due legami S Ð O sono perfettamente identici in termini di energia e di lunghezza?
5. Qual eÁ il significato concettuale di ibridazione degli
orbitali atomici e di orbitale atomico ibrido?
6. Quanti orbitali atomici ibridi si possono ottenere
dall'ibridazione di tre orbitali atomici puri?
7. Nell'ibridazione sp3, quanti orbitali atomici ibridi
si ottengono? Spiega perche non esiste alcuna differenza in termini di energia e di forma per questi
orbitali ibridi.
8. Qual eÁ la distribuzione reciproca spaziale degli
orbitali ibridi sp2?
14. Scrivi le formule elettroniche limite del composto
CO.
15. Applicando la regola dell'ottetto, scrivi le due
strutture elettroniche della molecola dell'ozono
(O3). Qual eÁ la vera struttura elettronica di questa
molecola se eÁ risultato che i tre atomi di ossigeno si
trovano ai vertici di un triangolo isoscele aperto
alla base e che i legami ossigeno-ossigeno sono
perfettamente identici?
149
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
11
...............................................................................................................................................................................................................................................
1
La teoria degli orbitali
molecolari
GLI ORBITALI MOLECOLARI
La teoria degli orbitali molecolari, la piuÁ moderna fra quelle elaborate allo scopo di
interpretare il legame che si instaura tra gli atomi, eÁ basata sui criteri matematici
suggeriti dalla meccanica quantistica allo stesso modo della teoria del legame di
valenza. PeroÁ, a differenza di quest'ultima, essa fornisce una piuÁ rigorosa interpretazione del legame chimico, come per esempio quello che tiene legati gli atomi nei
metalli.
Il punto di partenza di questa teoria eÁ quello di considerare che al legame fra gli atomi
non concorrono solo gli elettroni di valenza, ma in generale tutti gli elettroni degli atomi
costituenti la molecola. Nella molecola cosõÁ concepita, non esistono piuÁ elettroni che
appartengono ai singoli atomi, ma essi sono tutti ridistribuiti nella molecola su nuovi
livelli energetici denominati appunto orbitali molecolari.
Traducendo in termini matematici questa affermazione e cioeÁ applicando l'equazione
di SchroÈdinger a una molecola, vale a dire a un sistema formato da un insieme di elettroni
appartenenti indifferentemente a due o piuÁ nuclei di atomi uguali o diversi, si sono
ottenute alcune soluzioni di questa equazione che descrivono sia l'energia del sistema, sia
la sua forma geometrica. A queste soluzioni matematiche eÁ stato dato il nome di orbitali
molecolari (OM) il cui significato concettuale eÁ analogo a quello degli orbitali atomici
(OA).
Data la complessitaÁ di questa teoria, ci limiteremo a illustrare brevemente il procedimento matematico da essa suggerito per prevedere l'esistenza e stabilire la struttura elettronica dei sistemi molecolari piuÁ semplici, vale a dire di quelli formati
dall'unione di due atomi uguali (molecole biatomiche omonucleari come per esempio H2, He2, Li2, N2). La formazione di una molecola biatomica a partire da due
atomi uguali isolati, posti a una distanza tale da poter interagire tra loro, viene
studiata matematicamente combinando linearmente (sommando o sottraendo) gli
orbitali atomici (le funzioni d'onda c) dei due atomi. Una simile combinazione lineare degli orbitali atomici deve essere effettuata in base a precise regole, nel
senso che vanno sommati o sottratti tra loro gli orbitali atomici caratterizzati sia
dalla medesima energia (per esempio l'orbitale atomico 1s di un atomo con quello 1s
dell'altro atomo; l'orbitale atomico 2s di un atomo con quello 2s dell'altro atomo;
e cosõÁ via), sia dalla medesima orientazione spaziale (per esempio l'orbitale atomico 2px di un atomo con quello 2px dell'altro atomo; l'orbitale atomico 2py con quello 2py ; l'orbitale atomico 2pz con quello 2pz dell'altro atomo). CosõÁ , sommando o
sottraendo l'orbitale atomico 1s di un atomo con quello 1s dell'altro atomo, si
ottengono due nuove funzioni d'onda c (una con l'operazione di addizione e l'altra con l'operazione di sottrazione) che vengono denominate orbitali moleco150
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 11.1
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
1. Gli orbitali molecolarI
lari.1 Queste due nuove funzioni d'onda ci forniscono, alla stessa maniera degli orbitali
atomici, non solo i valori dell'energia di questi orbitali molecolari, ma ci danno,
mediante la loro elevazione al quadrato (c2), la distribuzione spaziale della nuvola
elettronica ad essi associata, vale a dire la forma degli orbitali molecolari. In particolare,
l'orbitale molecolare risultante dall'addizione di due orbitali atomici 1s eÁ caratterizzato
da un'energia minore di quella ottenuta sommando le energie dei due orbitali atomici
di partenza; inoltre la densitaÁ elettronica di questo orbitale molecolare eÁ simmetricamente distribuita attorno a una linea congiungente i due nuclei, detta asse di legame, ed
eÁ massima tra i due nuclei stessi. Un simile orbitale molecolare viene allora detto
orbitale molecolare legante di tipo sigma e simboleggiato con s1s (sigma-uno-esse)
(fig. 11.1).2
asse di legame
Formazione di un
orbitale molecolare
legante di tipo sigma
con simmetria
cilindrica.
Figura 11.2
Formazione di un
orbitale molecolare
antilegante di tipo
sigma.
+
1s
più
1s
Inversamente, l'orbitale molecolare risultante dalla sottrazione dei due orbitali atomici 1s
sopra considerati eÁ caratterizzato da un'energia maggiore di quella ottenuta sommando le
energie dei due orbitali atomici di partenza; inoltre la densitaÁ elettronica di questo
orbitale molecolare, anche se simmetricamente distribuita attorno all'asse di legame,
risulta nulla tra i due nuclei. Un simile orbitale molecolare viene allora detto orbitale
molecolare antilegante di tipo sigma e simboleggiato con s1s (sigma asteriscato-uno-esse)
(fig. 11.2).3
piano nodale
(probabilità nulla di
trovare gli elettroni)
asse
di legame
−
1s
meno
1s
1 Á
E bene precisare che un orbitale molecolare non deve essere confuso con un orbitale ibrido. L'orbitale atomico
ibrido eÁ il risultato della combinazione di orbitali atomici appartenenti allo stesso atomo, mentre l'orbitale molecolare eÁ il
risultato della combinazione di due orbitali atomici appartenenti a due distinti atomi.
2
L'operazione di addizione di due orbitali atomici equivale alla combinazione lineare di due funzioni d'onda le cui
ampiezze, nella regione dello spazio compresa tra i due nuclei, sono dello stesso segno: tutte e due positive o tutte e due
negative; per cui, in analogia con l'ottica ondulatoria, l'ampiezza totale dell'onda risultante nella regione internucleare
viene esaltata (interferenza positiva ˆ rafforzamento).
3
L'operazione di sottrazione di due orbitali atomici equivale alla combinazione lineare di due funzioni d'onda le cui
ampiezze, nella regione dello spazio compresa fra i nuclei, sono di segno opposto: l'una positiva e l'altra negativa, o
viceversa; per cui, in analogia con l'ottica ondulatoria, l'ampiezza totale dell'onda risultante nella regione internucleare eÁ
nulla (interferenza negativa ˆ annullamento).
151
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 11.3
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
11. La teoria degli orbitali molecolari
Livelli energetici dell'orbitale molecolare
legante (s1s ) e di
quello antilegante
(s1s ) confrontati con
quelli dei due orbitali
atomici 1s di partenza.
Figura 11.4
Confronto tra le
energie degli orbitali
molecolari leganti e
antileganti risultanti
rispettivamente dalla
combinazione lineare
degli orbitali atomici
1s e 2s di due atomi
uguali.
Nella figura 11.3 vengono schematizzati i livelli energetici degli orbitali molecolari leganti e
antileganti risultanti dalla combinazione lineare dei due orbitali atomici 1s di due atomi uguali.
Incremento
di
energia
Incremento
di
energia
쐓
1s
1s
Combinando linearmente l'orbitale atomico 2s di un atomo con quello 2s dell'altro
atomo, si ottengono due nuove funzioni d'onda c, vale a dire due orbitali molecolari:
quello legante s2s e quello antilegante s2s le cui simmetrie (forme) sono del tutto simili
rispettivamente a quelle degli orbitali molecolari s1s e s1s , e le cui energie vengono
schematizzate nella figura 11.4.
Incremento
di
energia
Incremento
di
energia
쐓
2s
2s
쐓
1s
1s
Combinando linearmente i tre orbitali atomici 2p (2px , 2py e 2pz) di un atomo con i
tre orbitali atomici 2p dell'altro atomo, in modo peroÁ da sommare o sottrarre coppie
di orbitali con la medesima orientazione spaziale, si ottengono sei orbitali molecolari:
tre leganti e tre antileganti. In particolare, tenendo conto che i tre orbitali atomici di
tipo p sono orientati nello spazio lungo tre direzioni ortogonali tra loro, ne consegue
che la combinazione di due orbitali atomici orientati come quelli px (fig. 6.2 a
pag. 94) porta alla formazione di un orbitale molecolare legante e di un orbitale
molecolare antilegante ambedue con simmetria sigma rispetto all'asse di legame.
Questi due orbitali molecolari vengono allora simboleggiati rispettivamente con s2px
e s2px (fig. 11.5).
152
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 11.5
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
1. Gli orbitali molecolarI
Formazione dell'orbitale molecolare legante sp e di quello
antilegante sp in
seguito alla combinazione lineare di due
orbitali atomici di tipo
p orientati come in
figura.
Figura 11.6
Formazione dell'orbitale molecolare legante pp e di quello
antilegante pp in seguito alla combinazione lineare di due
orbitali atomici di tipo
p orientati come in
figura.
asse di
legame
+
più
2px
2px
piano
nodale
asse
di legame
−
2px
meno
2px
Invece la combinazione di due orbitali atomici orientati come quelli py (fig. 6.2 a pag. 94)
porta alla formazione di due orbitali molecolari, uno legante e l'altro antilegante,
caratterizzati da simmetria di tipo pi greco (p), cosõÁ definita perche la densitaÁ della
carica elettronica (la nuvola di probabilitaÁ elettronica) relativa a questi orbitali molecolari
non eÁ simmetricamente distribuita attorno all'asse di legame, ma eÁ concentrata al di sopra
e al di sotto del piano contenente questo asse.
asse di
legame
+
2py
più
y
2py
piano
nodale
−
asse
di legame
2py
meno
2py
y
Nell'orbitale molecolare legante, simboleggiato con p2py , la densitaÁ di carica eÁ massima tra
i due nuclei, mentre in quello antilegante, simboleggiato con p2py , la nuvola di probabilitaÁ
eÁ minima tra i due nuclei (fig. 11.6).
Infine, la combinazione di due orbitali atomici orientati come quelli pz (fig. 6.2 a
pag. 94) porta alla formazione di due orbitali molecolari, uno legante e l'altro
antilegante, simboleggiati rispettivamente con p2pz e p2pz , caratterizzati anch'essi da
una simmetria p (pi greco) come quelli p2py e p2py , e la cui forma puoÁ essere ottenuta
ruotando frontalmente di 908 il piano della figura 11.6.
153
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 11.7
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
11. La teoria degli orbitali molecolari
Confronto tra le
energie degli orbitali
molecolari leganti e
antileganti risultanti
rispettivamente dalla
combinazione lineare
degli orbitali atomici
1s, 2s e 2p di due
atomi uguali.
쐓
Incremento
di
energia
쐓
2px
2py
Incremento
di
energia
쐓
2pz
2pz
2py
2px
쐓
2s
2s
쐓
1s
1s
I livelli energetici delle tre coppie di orbitali molecolari, risultanti dalla combinazione
lineare dei tre orbitali atomici di tipo p di due atomi uguali, vengono schematizzati nella
figura 11.7 dalla quale puoÁ essere dedotto che i due orbitali molecolari leganti py e pz
hanno la medesima energia (sono isoenergetici), come pure sono isoenergetici i due
orbitali molecolari antileganti py e pz .4
Riassumiamo qui di seguito i punti piuÁ significativi della teoria degli orbitali molecolari:
1. La somma di due orbitali atomici di due atomi equivale alla sovrapposizione dei due
orbitali, e questa operazione matematica fornisce come risultato una funzione d'onda
(un'equazione) la cui soluzione c viene denominata orbitale molecolare legante.
L'energia dell'orbitale molecolare legante eÁ minore della somma delle energie dei due
orbitali atomici di partenza; inoltre, la nuvola di probabilitaÁ elettronica associata a
questo orbitale molecolare risulta massima tra i due nuclei e pertanto essa esercita
un'azione cementante che li tiene uniti (attrazione tra i due atomi).
2. La sottrazione di due orbitali atomici di due atomi equivale alla non sovrapposizione dei
due orbitali, e questa operazione matematica fornisce come risultato una funzione
d'onda (un'equazione) la cui soluzione c viene denominata orbitale molecolare
antilegante. L'energia dell'orbitale molecolare antilegante eÁ maggiore della somma
delle energie dei due orbitali atomici di partenza; inoltre, la nuvola di probabilitaÁ
elettronica associata a questo orbitale molecolare risulta nulla tra i due nuclei, e pertanto
essa non puoÁ esercitare un'azione di schermo tra i medesimi (repulsione tra i due atomi).
4
Si tenga presente che il diagramma energetico degli orbitali molecolari schematizzato nella figura 11.7 non eÁ
immutabile. In alcuni casi infatti, a causa dell'interazione tra le nuvole elettroniche degli orbitali molecolari, l'energia
dell'orbitale molecolare legante s2px puoÁ risultare minore di quella dei due orbitali molecolari leganti p2py e p2pz .
154
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.............................................................
2. Configurazione elettronica delle molecole biatomiche omonucleari
...............................................................................................................................................................................................................................................................
2
3. Il numero di orbitali molecolari ottenibili eÁ uguale alla somma degli orbitali atomici
combinati.
4. L'orbitale molecolare legante di tipo sigma eÁ caratterizzato da una nuvola elettronica
distribuita simmetricamente attorno all'asse di legame. In questo caso il legame che
tiene uniti i due atomi viene denominato legame sigma (simmetria cilindrica).
5. L'orbitale molecolare legante di tipo pi greco eÁ caratterizzato da una nuvola
elettronica distribuita al di sopra e al di sotto del piano su cui si trova l'asse di
legame. In questo caso il legame che tiene uniti i due atomi viene denominato
legame pi greco.
CONFIGURAZIONE ELETTRONICA DELLE MOLECOLE
BIATOMICHE OMONUCLEARI
A questo punto ci poniamo la seguente domanda: eÁ possibile stabilire la struttura
elettronica delle molecole biatomiche omonucleari alla medesima maniera con la quale
abbiamo imparato a costruire la struttura elettronica degli atomi? La risposta eÁ senz'altro
affermativa, in quanto saraÁ sufficiente applicare delle regole del tutto simili a quelle
dettate in precedenza per distribuire ordinatamente gli elettroni sugli orbitali atomici.
Le regole sono:
. gli elettroni disponibili devono essere distribuiti sugli orbitali molecolari;
. il numero di elettroni disponibili eÁ uguale al numero totale di elettroni contenuti sugli
orbitali atomici combinati;
. il numero di orbitali molecolari eÁ uguale al numero di orbitali atomici combinati;
. il riempimento degli orbitali molecolari avviene secondo l'ordine della loro energia
crescente che, deducibile dalla figura 11.7, per comoditaÁ di rappresentazione elencheremo, procedendo da sinistra verso destra, nella maniera seguente:
s1s
s1s
s2s
s2s
p2py
p2pz
s2px
p2py
p2pz
s2px
. ciascun orbitale molecolare (legante o antilegante) puoÁ ospitare al massimo due
elettroni purche con spin antiparallelo (principio di esclusione di Pauli);
. il riempimento degli orbitali molecolari isoenergetici avviene secondo la regola di
Hund o della massima molteplicitaÁ (si procede dapprima al mezzo riempimento degli
orbitali molecolari caratterizzati dalla medesima energia);
. affinche avvenga un legame tra due atomi deve risultare un eccesso di elettroni leganti
(quelli che occupano gli orbitali molecolari leganti) nei confronti di quelli antileganti
(quelli che occupano gli orbitali molecolari antileganti);
. il numero totale di legami tra due atomi, detto ordine di legame, si ottiene dividendo
per due l'eccesso di elettroni leganti.
Facciamo ora qualche esempio.
a) Stabilisci se, in base alla teoria degli orbitali molecolari, puoÁ essere prevista l'esistenza
di una molecola di idrogeno a partire da due atomi isolati di questo elemento (Z ˆ 1).
Configurazione elettronica dell'atomo: 1s1
numero di orbitali atomici di partenza ˆ 2 (un orbitale atomico 1s per ogni atomo)
numero di orbitali molecolari ottenuti ˆ 2 (uno s1s e uno s1s †
numero di elettroni totali ˆ 2 (uno per ciascun atomo)
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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11. La teoria degli orbitali molecolari
Configurazione elettronica della molecola:
"# &
&
s
s
1s
1s
dalla quale risulta un eccesso di elettroni leganti uguale a due, e quindi un ordine di
legame uguale a uno (2 : 2 ˆ 1). Pertanto l'esistenza della molecola H2, nella quale i
due atomi di idrogeno sono legati con un singolo legame di tipo sigma, viene confermata dalla teoria degli orbitali molecolari.
b) Stabilisci se, in base alla teoria degli orbitali molecolari, puoÁ essere prevista l'esistenza
della molecola di elio a partire da due atomi isolati di questo elemento (Z ˆ 2).
Configurazione elettronica dell'atomo: 1s2
numero di orbitali atomici di partenza ˆ 2 (un orbitale atomico 1s per ogni atomo)
numero di orbitali molecolari ottenuti ˆ 2 (uno s1s e uno s1s †
numero di elettroni totali ˆ 4 (due per ciascun atomo)
Configurazione elettronica della molecola:
"#
"#
&
&
s
s
1s
1s
dalla quale non risulta alcun eccesso di elettroni leganti e quindi un ordine di legame
uguale a zero (0 : 2 ˆ 0). Pertanto, in base alla teoria degli orbitali molecolari,
l'esistenza della molecola He2 eÁ molto poco probabile.
c) Stabilisci se, in base alla teoria degli orbitali molecolari, puoÁ essere prevista l'esistenza
della molecola di litio a partire da due atomi isolati di questo elemento (Z ˆ 3).
Configurazione elettronica dell'atomo: 1s22s1
numero di orbitali atomici di partenza ˆ 4 (due orbitali atomici per ogni atomo)
numero di orbitali molecolari ottenuti ˆ 4 (due s e due s*)
numero di elettroni totali ˆ 6 (tre per ciascun atomo)
Configurazione elettronica della molecola:
"#
"#
"#
&
&
&
&
s
s
s
s
1s
1s
2s
2s
dalla quale risulta un eccesso di elettroni leganti uguali a due, e quindi un ordine di
legame uguale a uno (2 : 2 ˆ 1). Pertanto l'esistenza della molecola Li2, nella quale i
due atomi di litio sono legati con un singolo legame di tipo sigma, viene confermata
dalla teoria degli orbitali molecolari.5
d) Stabilisci se, in base alla teoria degli orbitali molecolari, puoÁ essere prevista l'esistenza
della molecola di azoto a partire da due atomi isolati di questo elemento (Z ˆ 7).
Configurazione elettronica dell'atomo: 1s22s22p3
numero di orbitali atomici di partenza ˆ 10 (cinque per ogni atomo, ossia i due
orbitali atomici 1s e 2s e i tre orbitali
atomici 2p)
numero di orbitali molecolari ottenuti ˆ 10 (tre s, tre s*, due p e due p*)
numero di elettroni totali ˆ 14 (sette per ciascun atomo)
5
Alla medesima conclusione siamo pervenuti mediante la teoria del legame di valenza.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.............................................................................................
3. Configurazione elettronica delle molecole biatomiche eteronucleari
Figura 11.8
...........................................................................................................................................................................................................................
3
Configurazione elettronica della molecola:
"# &
"# &
"# &
"#
&
s
s
s
s
1s
1s
2s
2s
"#
&
p
2pz
"#
&
p
"#
&
s
2px
&
p
2pz
&
p
&
s
2px
2py
2py
dalla quale risulta un eccesso di elettroni leganti uguale a sei e quindi un ordine di
legame uguale a tre (6 : 2 ˆ 3). Pertanto l'esistenza della molecola N2, nella quale i due
atomi di azoto sono legati con un triplo legame, uno di tipo sigma e gli altri due di tipo
pi greco, viene confermata dalla teoria degli orbitali molecolari:
N
N
CONFIGURAZIONE ELETTRONICA DELLE MOLECOLE
BIATOMICHE ETERONUCLEARI
Per descrivere la struttura elettronica delle molecole formate da due atomi diversi, si
seguono, in linea di massima, le stesse regole dettate per le molecole biatomiche omonucleari. In questo caso peroÁ eÁ importante tener conto che gli orbitali atomici di partenza
possono non essere caratterizzati dalla medesima energia in quanto appartenenti ad atomi
diversi e che i due differenti atomi possono non disporre di un uguale numero di orbitali
atomici per formare orbitali molecolari. Allora, condizioni vincolanti per poter combinare
due orbitali atomici appartenenti a due atomi diversi sono che essi posseggano energie simili
e che la loro simmetria geometrica (la loro forma) sia tale da consentirne la sovrapposizione.
Una volta verificate queste due condizioni, si procede alla costruzione della configurazione
elettronica della molecola nella maniera indicata in precedenza: si riempiono, con tutti gli
elettroni disponibili, gli orbitali molecolari a partire da quello caratterizzato dalla minore
energia, tenendo conto al tempo stesso del principio di esclusione di Pauli (al massimo due
elettroni con spin antiparallelo su ciascun orbitale molecolare) e la regola di Hund (si
completa dapprima il mezzo riempimento degli orbitali molecolari isoenergetici).
Uno dei risultati piuÁ significativi della teoria degli orbitali molecolari eÁ il concetto di
delocalizzazione degli elettroni, che sostituisce il concetto di risonanza (come viene
espresso dalla teoria del legame di valenza): mentre infatti la teoria della risonanza
considera come riferimento delle formule limite, in cui gli elettroni p sono localizzati fra
due determinati atomi, formando legami di tipo p, nella teoria degli orbitali molecolari gli
elettroni sono «delocalizzati» su tutti gli atomi interessati (tre o piuÁ), formando un legame
di tipo p esteso su tutto l'insieme.
In tal modo viene interpretata la struttura del benzene, in cui gli elettroni p dei legami p
sono delocalizzati su tutti e sei gli atomi di carbonio, formando due nuvole elettroniche al
di sopra e al di sotto del piano contenente gli atomi (fig. 11.8).
Delocalizzazione
degli elettroni nella
molecola del benzene.
157
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
11. La teoria degli orbitali molecolari
............................................................................................................
QUESITI
1. Indica qual eÁ la differenza di fondo fra la teoria del
legame di valenza e la teoria degli orbitali molecolari.
pi greco, quale si romperaÁ per primo se la sostanza
viene fortemente riscaldata?
7. Spiega perche gli alcani sono meno reattivi degli
alcheni e degli alchini.
2. Il significato di orbitale molecolare eÁ squisitamente
matematico oppure anche fisico?
8. Che cosa si intende per combinazione lineare di
due orbitali atomici?
3. Spiega la differenza fra un orbitale atomico ibrido
e un orbitale molecolare.
4. In che cosa differiscono un orbitale molecolare legante sigma e un corrispondente orbitale molecolare
antilegante?
5. Qual eÁ la differenza fra un orbitale molecolare sigma (s) e un orbitale molecolare pi greco (p)?
6. Se nelle molecole di una sostanza, due atomi sono
legati con due legami uno dei quali sigma e l'altro
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
9. Che cos'eÁ l'ordine di legame?
10. Qual eÁ la differenza tra il concetto di risonanza e il
concetto di delocalizzazione?
11. In che cosa differisce un orbitale molecolare legante p da un orbitale molecolare antilegante p*?
12. Quali sono le condizioni per poter combinare gli
orbitali atomici di due atomi differenti, secondo la
teoria degli orbitali molecolari?
158
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
12
Figura 12.1
Alcune isoterme di
gas reali.
.........................................................................................................................................................................................................................................
1
Gas reali
COEFFICIENTI DI COMPRESSIBILITAÁ
Mentre l'applicazione ai gas reali dell'equazione di stato dei gas perfetti PV ˆ n RT fornisce risultati teorici che si discostano di poco da quelli osservati quando essi si trovano a
bassa pressione e a temperatura elevata, significative deviazioni si hanno invece quando la
pressione del gas reale eÁ molto elevata, oppure la sua temperatura eÁ sufficientemente bassa.
Queste deviazioni dal comportamento ideale possono essere illustrate graficamente
per mezzo del cosiddetto coefficiente di compressibilitaÁ del gas, il quale viene definito
dal rapporto:
PV
coefficiente di compressibilita ˆ
n RT
e che, per un gas ideale, eÁ ovviamente uguale a uno a tutte le temperature:
PV
ˆ1
n RT
(per i gas ideali)
Se in un sistema di due assi cartesiani ortogonali riportiamo i dati sperimentali del
coefficiente di compressibilitaÁ di alcuni gas reali (in ordinata), contro i valori della
pressione cui essi vengono man mano sottoposti (in ascissa), e operiamo a temperatura
costante, otteniamo una serie di curve isoterme sperimentali, il cui andamento si discosta
sensibilmente da quello di un gas ideale (fig. 12.1).
Coefficiente
di
compressibilità
PV
nRT
( )
1,5
°C)
H 2 (0
°C)
He (0
1,0
0,5
gas ideale
N2 (0 °C)
2
CO
(40
°C
)
0
Pressione (atm)
159
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
12. Gas reali
Dall'esame del grafico della figura 12.1, si puoÁ osservare che mentre l'idrogeno e l'elio,
relativamente alla temperatura di 0 8C, hanno il coefficiente di compressibilitaÁ sempre
maggiore di uno, l'anidride carbonica alla temperatura di 40 8C, e l'azoto alla temperatura
di 0 8C, hanno il coefficiente di compressibilitaÁ minore di uno entro un certo intervallo di
pressioni applicate.
Dagli studi effettuati per dare una valida spiegazione a questi fatti, si eÁ concluso che
l'andamento anomalo dei gas reali nei confronti di quelli ideali eÁ dovuto essenzialmente a
due fattori, e precisamente:
1. Le molecole dei gas reali hanno un proprio volume.
2. Fra le molecole dei gas reali esistono forze di attrazione.
Mentre il contributo del primo fattore eÁ tale da provocare un aumento del coefficiente di
compressibilitaÁ rispetto a quello di un gas ideale, ovvero:
PV
>1
n RT
(effetto dovuto al volume proprio delle molecole)
il secondo fattore contribuisce invece a diminuire tale coefficiente, nel senso che:
PV
< 1 (effetto dovuto alle attrazioni fra le molecole)
n RT
Vediamo ora qual eÁ l'interpretazione teorica fornita a questi due fatti.
Mentre la pressione ideale (Pideale) esercitata da n moli di un gas perfetto a una data
temperatura T e in un recipiente di volume V eÁ tale che si verifica la condizione:
P(ideale) V
ˆ1
n RT
per uno stesso numero n di moli di gas reale, nelle stesse condizioni di temperatura T, non
tutto il volume V del recipiente eÁ a disposizione delle molecole del gas, in quanto esse ne
occupano materialmente una parte essendo dotate di volume proprio. CioÁ si traduce nel
fatto che a paritaÁ di numero di molecole di gas ideale e di gas reale, contenute separatamente in due recipienti aventi lo stesso volume V e posti alla stessa temperatura T,
quelle del gas reale hanno a disposizione un volume minore di quello a disposizione delle
molecole del gas ideale. Pertanto, il numero di urti che le molecole del gas reale esercitano
sulle pareti del recipiente nell'unitaÁ di tempo eÁ maggiore del numero di urti effettuati
dalle molecole del gas ideale, e quindi anche la pressione effettiva esercitata dal gas reale
(Preale ),1 eÁ maggiore di quella teoricamente prevista (Pideale), e quindi si ha:
Preale > Pideale
Pertanto, a causa di questo effetto, il coefficiente di compressibilitaÁ di un gas reale eÁ
maggiore di quello di un gas ideale:
Preale V
> 1 (effetto dovuto al volume proprio delle molecole)
n RT
Inversamente, poiche fra le molecole dei gas reali esistono reciproche forze di attrazione
(forze di van der Waals), accade che, per esempio, quando due molecole del gas sono
1
In base alla teoria cinetica, la pressione di un gas eÁ determinata dal numero di urti nell'unitaÁ di tempo che le
particelle gassose esercitano sulle pareti del recipiente. Si noti che molto spesso i due termini pressione esercitata dal gas e
pressione esercitata sul gas vengono usati indifferentemente. Questo eÁ giustificato dal fatto che se un gas viene sottoposto
isotermicamente alla pressione di 10 atm mediante compressione, esso riduce il proprio volume fino a quando la sua
pressione uguaglia quella applicata. Pertanto, in condizioni di equilibrio, la pressione esercitata dal gas Pi (pressione
interna) eÁ uguale alla pressione esercitata sul gas dall'esterno Pe (pressione esterna): Pi ˆ Pe (in condizioni di equilibrio).
160
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
...................................................................................................................
2. Temperatura di Boyle
Figura 12.2
Isoterme a 0 8C
dell'idrogeno e
dell'azoto.
..........................................................................................................................................................................................................
2
sufficientemente vicine, possono per un certo istante rimanere «invischiate» l'una con
l'altra; oppure la traiettoria dell'una, a causa dell'attrazione esercitata dall'altra molecola,
puoÁ essere deviata con conseguente rallentamento della sua velocitaÁ media. In tutti e due i
casi, il numero di urti che nell'unitaÁ di tempo le molecole esercitano sulle pareti del
recipiente eÁ minore di quello teoricamente prevedibile, e quindi la pressione effettiva
esercitata dal gas reale eÁ minore di quella teorica (ideale): Preale < Pideale .
Pertanto, a causa di questo effetto, il coefficiente di compressibilitaÁ del gas reale eÁ
minore di quello di un gas ideale:
Preale V
< 1 (effetto dovuto alle attrazioni molecolari)
n RT
Il fatto che per alcuni gas reali, come per esempio l'azoto e l'anidride carbonica, il
coefficiente di compressibilitaÁ sia minore di uno fino a un certo valore di pressione
applicata per poi diventare maggiore di uno oltre questo valore di pressione, puoÁ essere
facilmente interpretato ammettendo che in tutti i gas reali puoÁ prevalere l'effetto delle
attrazioni molecolari su quello del volume proprio delle molecole o viceversa, e cioÁ solo in
dipendenza della temperatura del gas.
TEMPERATURA DI BOYLE
Per illustrare il concetto che abbiamo ora esposto a proposito del comportamento dell'anidride carbonica e dell'azoto, prendiamo in esame il grafico della figura 12.1, limitandoci per semplicitaÁ alle due isoterme a 0 8C dell'idrogeno e dell'azoto che, per i nostri
propositi, sono quelle piuÁ rappresentative (fig. 12.2).
Coefficiente
di
compressibilità
PV
nRT
( )
1,5
H 2 (0
1,0
°C)
PV = 1 (gas ideale)
n RT
N2 (0 °C)
PV
< 1 (attrazioni molecolari)
n RT
0,5
0
PV > 1 (volume delle molecole)
n RT
P' (150 atm)
Pressione (atm)
Come si puoÁ osservare, il diagramma eÁ stato diviso in due regioni:
a) la regione nella quale il coefficiente di compressibilitaÁ del gas reale eÁ maggiore di uno
(effetto predominante del volume proprio delle molecole);
b) la regione nella quale il coefficiente di compressibilitaÁ del gas reale eÁ minore di uno
(effetto predominante delle attrazioni molecolari).
161
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 12.3
Alcune isoterme
dell'azoto.
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
12. Gas reali
Ebbene, il fatto che l'idrogeno, alla temperatura di 0 8C e sotto qualsiasi pressione, abbia
un coefficiente di compressibilitaÁ sempre maggiore di uno, significa che per questo gas, a
quella temperatura, prevale sempre l'effetto del volume proprio delle molecole nei
confronti della loro mutua attrazione. Invece, il fatto che per l'azoto alla temperatura di
0 8C, esista una pressione P 0 (150 atm) al di sotto della quale prevale l'effetto dell'attrazione delle molecole e al di sopra della quale prevale invece l'effetto del volume proprio
delle molecole significa che, comprimendo il gas alla temperatura di 0 8C, le molecole
dapprima si attraggono, e questo eÁ l'effetto che prevale, peroÁ, oltre il valore P 0 della
pressione applicata, le molecole dell'azoto non possono ulteriormente avvicinarsi e quindi
prevale, da questo punto in poi, l'effetto del loro volume.
L'inversione dei due effetti, attrazione molecolare-volume proprio delle molecole, non eÁ
una caratteristica peculiare dell'azoto e dell'anidride carbonica, ma eÁ comune a tutti i gas
reali, in quanto essa dipende solo dalla loro temperatura.
Infatti, se in un diagramma analogo a quelli considerati in precedenza, riportiamo i
dati sperimentali relativi alle isoterme di 50 8C, 0 8C, 100 8C e 164 8C dell'azoto,
otteniamo le curve qualitativamente riprodotte nella figura 12.3.
Coefficiente
di
compressibilità
PV
nRT
( )
– 50 °C
prevalenza
del volume
delle molecole
0 °C
100 °C
1,5
164 °C
1,0
gas ideale
0,5
prevalenza
delle forze
di attrazione
delle molecole
0
Pressione (atm)
Dal grafico si puoÁ osservare che, mentre alle temperature di 50 8C, 0 8C e 100 8C l'azoto presenta il fenomeno dell'inversione dei due effetti che peroÁ eÁ sempre meno appariscente con l'aumentare della temperatura, a 164 8C e oltre, il fenomeno non si verifica piuÁ
qualunque sia la pressione cui il gas viene sottoposto. EÁ evidente allora che l'inversione
dei due effetti, essendo legata alla temperatura del gas, deve la sua ragione all'energia
cinetica delle molecole, nel senso che per ogni gas esiste una caratteristica temperatura al
di sotto della quale l'attrazione fra le molecole puoÁ prevalere sulla loro energia cinetica,
mentre al di sopra di essa l'attrazione molecolare non potraÁ mai prevalere sulla loro
energia cinetica (prevale sempre il volume proprio delle molecole). A questa temperatura
eÁ stato dato il nome di temperatura di Boyle.2
Inoltre, poiche dal grafico della figura 12.3 risulta che l'isoterma dell'azoto relativa alla
temperatura di Boyle (164 8C) ha un andamento che per piccoli valori della pressione
applicata eÁ coincidente con quello dell'isoterma di un gas ideale, possiamo anche
affermare che alla temperatura di Boyle i gas reali hanno un comportamento ideale per
piccoli valori di pressione applicata.
2
Robert Boyle (1627-1691), chimico irlandese. La temperatura di 164 8C eÁ un dato teorico.
162
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
3. Equazione di van der Waals
.................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3
EQUAZIONE DI VAN DER WAALS
Sono state proposte diverse equazioni di stato per i gas reali che, analogamente all'equazione di stato dei gas perfetti, consentissero di prevedere teoricamente il loro
comportamento in dipendenza della variazione dei parametri: pressione, temperatura e
volume del gas.
Fra queste equazioni, la piuÁ nota eÁ quella proposta da Johannes van der Waals3 che,
relativamente a n moli di gas reale, viene cosõÁ formulata:
n2
P ‡ a 2 (V
V
nb) ˆ n RT
(12:1)
nella quale:
n eÁ il numero di moli del gas;
P eÁ la pressione effettivamente esercitata dal gas (Preale );
V eÁ il volume del recipiente in cui il gas eÁ contenuto;
R eÁ la costante universale dei gas;
T eÁ la temperatura assoluta del gas;
a e b sono due costanti empiriche caratteristiche per ogni gas reale.
Nell'equazione da lui proposta, van der Waals tiene conto delle forze di attrazione fra
le molecole del gas reale, che contribuiscono a diminuirne la pressione, mediante il
termine correttivo a n2=V 2 che va sommato alla pressione effettiva del gas per riportarla al valore ideale (teorico); allo stesso modo tiene conto del volume proprio delle
molecole del gas reale mediante il termine correttivo nb, che va invece sottratto dal
volume V del recipiente, in modo che la differenza (V nb) rappresenti il volume
libero effettivamente a disposizione delle n moli del gas reale.4
Poiche il termine correttivo an2=V 2 deve avere le dimensioni di una pressione in
quanto deve essere sommato alla pressione del gas, ne risulta che, esprimendo quest'ultima in atmosfere e il volume del gas in litri, l'unitaÁ di misura della costante a deve essere:
litro2 atmosfera
mole2
ovvero
(L2 atm mol 2 )
Poiche il termine correttivo nb deve avere le dimensioni di un volume, dato che deve
essere sottratto al volume del gas, ne risulta che esprimendo quest'ultimo in litri, l'unitaÁ di
misura della costante b eÁ la seguente:
litro
mole
ovvero
(L mol 1 )
Nella tabella 12.1 vengono riportati i valori delle costanti a e b, per alcuni gas reali molto
comuni.
3
Johannes Diderik van der Waals (1837-1923) fisico olandese, premio Nobel per la fisica nel 1910.
La costante b che eÁ diversa da gas a gas, eÁ nota anche con il nome di covolume, e rappresenta il volume
materialmente occupato da una mole di gas reale (un numero di Avogadro di molecole). Poiche la forma geometrica
piuÁ probabile delle molecole eÁ quella sferica, si puoÁ dimostrare che il volume materialmente occupato da un numero di
Avogadro di molecole, messe l'una accanto all'altra, eÁ circa quattro volte il loro volume totale geometrico. Questo percheÂ
fra una molecola e quelle adiacenti esistono degli spazi vuoti che non possono essere utilizzati.
4
163
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Tabella 12.1
...................................................................................................
12. Gas reali
Costanti di van der
Waals e temperatura
di Boyle per alcuni
gas reali.
Tabella 12.2
......................................................................................................................................................................................................................
4
Temperatura e pressione critica di alcuni
gas reali.
a (L2 atm mol
Gas
acqua
aria
ammoniaca
anidride carbonica
azoto
butano normale
cloro
elio
etano
idrogeno
metano
neon
ossigeno
propano
2
) b 100 (L mol
5,46
1,30
4,17
3,59
1,39
14,5
6,49
0,0341
5,49
0,244
2,25
0,211
1,36
8,66
1
) Temp. di Boyle ( C)
3,05
3,53
3,71
4,27
3,91
12,3
5,62
2,37
6,38
2,66
4,28
1,71
3,18
8,45
Ð
7,38
Ð
442
54,1
Ð
Ð
250
Ð
167
237
151
159
Ð
TEMPERATURA CRITICA E LIQUEFAZIONE DEI GAS
EÁ stato trovato sperimentalmente che per tutti i gas reali esiste una caratteristica
temperatura, detta temperatura critica del gas (Tc , se espressa in kelvin; tc ; se espressa in
gradi Celsius), al di sotto della quale il gas puoÁ passare allo stato liquido anche per sola
compressione, e al di sopra della quale, qualunque sia la pressione esercitata sul gas, questo
non potraÁ mai passare allo stato liquido. La pressione minima alla quale il gas deve essere
compresso, affinche alla temperatura critica passi allo stato liquido, prende il nome di
pressione critica (Pc ) del gas.
Nella tabella 12.2 vengono riportate la temperatura critica (in gradi Celsius) e la corrispondente pressione critica (in atmosfere) di alcuni gas reali molto comuni.
Dai dati tabellati si puoÁ osservare che, per esempio, dato che la temperatura critica dell'anidride carbonica eÁ uguale a 31 8C, se comprimiamo questo gas mantenendolo a una temperatura superiore a quella critica (per esempio a 50 8C), esso non
potraÁ mai liquefare nemmeno se fosse sottoposto alla piuÁ elevata pressione possibile.
Se invece comprimiamo il gas CO2 mantenendolo alla temperatura critica (31 8C),
esso passa allo stato liquido quando la pressione alla quale viene sottoposto assume
il valore di 72,9 atm (pressione critica). EÁ chiaro che, raffreddando un gas al di sotto
della sua temperatura critica, la pressione richiesta per farlo passare allo stato
Gas
Temperatura critica (8C)
acqua
ammoniaca
anidride carbonica
azoto
butano normale
cloro
elio
etano
idrogeno
metano
neon
ossigeno
propano
374
133
31,0
147
152
144
268
32,4
240
81,9
229
118
96,8
164
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Pressione critica (atm)
218
111
72,9
33,5
37,5
76,1
2,26
48,2
12,8
45,8
26,9
50,1
42,0
Tabella 12.3
Temperatura di
liquefazione di alcuni gas reali a
P ˆ 1 atm.
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
4. Temperatura critica e liquefazione dei gas
liquido assume via via valori sempre minori con il diminuire della temperatura del
gas.
Riferendoci in particolare alla pressione di 1 atm, eÁ possibile liquefare tutti i gas
reali comprimendoli a questa pressione, purche la temperatura alla quale essi si
trovano sia sufficientemente bassa. PiuÁ esattamente, la temperatura alla quale il gas
liquefa alla pressione di 1 atm, coincide con la sua temperatura (o punto) normale di
ebollizione. Nella tabella 12.3 sono riportate le temperature di liquefazione di alcuni
gas, alla pressione di 1 atm, che, per quanto detto, corrispondono alle temperature
normali di ebollizione del gas liquefatto.
Gas
Temperatura normale di
liquefazione (ebollizione) (8C)
elio
idrogeno
azoto
aria
ossigeno
metano
propano
ammoniaca
butano
acqua
269
253
196
191,3 -194,4
183
164
44,5
33,5
0,5
100,0
Dai dati riportati in tabella, si puoÁ osservare, per esempio, che l'azoto puoÁ essere
liquefatto comprimendolo sotto la pressione di una atmosfera, purche esso sia stato
raffreddato alla temperatura di 196 8C, che eÁ appunto la temperatura normale di
ebollizione dell'azoto liquido. Pertanto, se poniamo in un recipiente aperto dell'azoto
liquido e la temperatura e la pressione sono quelle ambiente, esso entra subito in
ebollizione, e per evitare cioÁ dovremmo mantenere la temperatura al di sotto di 196 8C.
Per questa ragione eÁ molto pericoloso conservare dell'azoto liquido in un recipiente
chiuso mantenuto a temperatura ambiente, in quanto esso, trovandosi a una temperatura
superiore a quella critica ( 147 8C, vedi tabella 12.2), passa immediatamente allo stato
gassoso esercitando una notevole pressione sulle pareti del recipiente. La stessa regola
vale ovviamente per tutti quei gas la cui temperatura critica eÁ minore di quella ambiente.
L'aria, essendo una miscela principalmente di azoto e ossigeno, non ha una temperatura
di liquefazione definita, ma un intervallo di liquefazione (ebollizione), come si puoÁ notare
nella tabella 12.3; lo stesso vale ovviamente per la sua temperatura critica, che eÁ uguale,
all'incirca, a 141 8C.
Anche la temperatura critica di un gas deve essere messa in stretta relazione sia con le
forze attrattive che si esercitano fra le sue molecole, sia con la loro energia cinetica media,
nel senso che maggiore eÁ l'intensitaÁ delle forze attrattive, piuÁ elevata eÁ la temperatura
critica del gas. CosõÁ, per esempio, i gas nei quali le forze di attrazione fra le molecole sono
molto deboli (elio, azoto, idrogeno ecc.) hanno una temperatura critica molto bassa, in
quanto l'energia cinetica delle molecole prevale sull'intensitaÁ delle forze di attrazione e
quindi il gas liquefa piuÁ difficilmente; invece, i gas nei quali le forze di attrazione fra le
molecole sono molto intense (ammoniaca, cloro, acqua ecc.), hanno una temperatura
critica piuÁ elevata perche tali forze prevalgono sull'energia cinetica delle molecole e
quindi il gas liquefa piuÁ facilmente.
Per quanto detto sopra, ne consegue che fra la temperatura di Boyle (TB) e quella
critica (Tc), deve esistere una certa relazione, in quanto ambedue sono legate all'energia
cinetica delle molecole del gas e alla loro mutua forza di attrazione. Questa relazione eÁ
165
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................
12. Gas reali
stata trovata per via matematica mediante l'equazione di van der Waals, ed eÁ risultato:
TB ˆ 3,38 Tc
mentre dai dati sperimentali per molti gas eÁ risultato:
TB ˆ 2,5 Tc
A questo punto, precisato il significato di temperatura critica di un gas, possiamo chiarire
anche la differenza fra i gas e i vapori:
si definiscono gas gli aeriformi che si trovano a una temperatura superiore a quella critica e
che quindi sono incondensabili; 5 si definiscono vapori gli aeriformi che si trovano a una
temperatura inferiore a quella critica e che quindi possono essere condensati.6
Per esempio, l'acqua alla temperatura di 375 8C eÁ un gas incondensabile per compressione, mentre a una temperatura di 373 8C eÁ un vapore condensabile per compressione,
in quanto la sua temperatura critica eÁ uguale a 374 8C.
QUESITI
............................................................................................................................................................................
1. Tenendo conto del coefficiente di comprimibilitaÁ
di un gas:
PV
n RT
7. Definisci la temperatura critica di un gas e spiega
la differenza fra questa e la temperatura normale
di ebollizione di un gas liquefatto.
8. Perche l'aria liquida potrebbe essere usata come
esplosivo?
illustra qualitativamente le deviazioni di un gas
reale dal comportamento ideale.
2. Mediante il grafico della figura 12.1, paragona fra
loro, per pressioni non molto elevate, le forze di
attrazione delle molecole dei diversi gas: azoto,
idrogeno e anidride carbonica. A un dato valore di
pressione, si puoÁ anche osservare che il coefficiente di compressibilitaÁ dell'azoto diventa maggiore di quello dell'idrogeno. Questo fatto eÁ legato
al volume proprio delle molecole?
3. Definisci la temperatura di Boyle di un gas.
4. Di quali effetti tiene conto l'equazione che van der
Waals ha proposto per i gas reali?
5. Definisci il covolume di un gas reale.
6. Mediante l'equazione di van der Waals, indica in
quale o quali dei seguenti casi l'andamento di un gas
reale si avvicina di piuÁ a quello di un gas ideale:
a) la temperatura del gas contenuto in un recipiente chiuso viene diminuita;
b) la massa del gas contenuta nel recipiente chiuso
a temperatura costante viene raddoppiata;
c) il volume del gas viene raddoppiato a temperatura costante.
5
6
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20 esercizi interattivi
9. Qual eÁ la differenza fra un gas e un vapore?
10. Spiega perche comprimendo un vapore in presenza del suo liquido, la pressione del vapore rimane costante, mentre una parte del vapore condensa. L'energia fornita con la compressione, come viene spesa?
11. Spiega perche usando per l'autotrazione il gas
metano, questo eÁ contenuto nelle bombole allo
stato di gas compresso, mentre usando per l'autotrazione una miscela di gas butano e propano,
essi sono contenuti nelle bombole allo stato liquido (gas di petrolio liquefatti, G.P.L.)
12. Per quale ragione eÁ consigliabile a temperatura
ambiente l'uso di bombole di azoto compresso,
piuttosto che di bombole di azoto liquido?
13. L'idrogeno e l'elio compressi alla temperatura ambiente si raffreddano. PercheÂ?
14. Perche l'aria liquida deve essere conservata in vasi
aperti a temperatura ambiente?
Per sola compressione.
Per sola compressione.
166
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13
...............................................................................................................................................................................................................................................
1
Caratteri generali
dei liquidi e dei solidi
TEORIA CINETICA MOLECOLARE
Le indagini sperimentali condotte sulla materia allo stato liquido hanno accertato che, in
questa fase di aggregazione, le particelle delle sostanze sono collocate nello spazio
tridimensionale con un grado di disordine che eÁ intermedio fra quello dei gas (grado
di completo disordine), e quello dei solidi cristallini (grado di ordine quasi perfetto).
In base alla teoria cinetica molecolare, i liquidi vengono classificati in liquidi molecolari e liquidi ionici, ed essi hanno tutti in comune le seguenti proprietaÁ:
. sia fra le molecole di un liquido molecolare (acqua, ammoniaca, acetone, idrogeno ecc.),
.
.
.
.
.
che fra gli ioni di un liquido ionico (cloruro di sodio, nitrato di potassio, ossido di litio ecc.),
esistono forze di coesione di natura elettrica (legami dipolo-dipolo, legami a idrogeno,
legami di van der Waals, legami ionici), la cui intensitaÁ eÁ molto piuÁ elevata rispetto a quella
che puoÁ essere riscontrata fra le molecole di un gas. Per questa ragione i liquidi, a
differenza dei gas, hanno una superficie ben definita, sebbene non siano dotati di rigiditaÁ;
con l'aumentare della temperatura, il volume dei liquidi aumenta in misura praticamente trascurabile rispetto all'incremento del volume dei gas;
a differenza dei gas, le distanze intermolecolari nei liquidi sono nettamente inferiori e
dello stesso ordine di grandezza di quelle dei solidi cristallini. Per questa ragione la
densitaÁ dei liquidi eÁ molto piuÁ vicina a quella dei solidi che non a quella dei gas, ed eÁ
molto piuÁ elevata1 di quella dei gas;
allo stesso modo dei solidi, i liquidi sono praticamente incomprimibili;
allo stesso modo delle molecole dei gas, le molecole dei liquidi sono dotate di un
costante e disordinato movimento, a differenza delle particelle dei solidi cristallini che
possono compiere solo movimenti oscillatori rispetto a una posizione fissa da esse
occupata nel cristallo. Per questa ragione, i liquidi assumono sempre la forma del
recipiente che li contiene ed evaporano molto piuÁ facilmente dei solidi;
l'energia cinetica media delle particelle dei liquidi, come peraltro quella dei solidi, e
ovviamente quella dei gas, eÁ proporzionale alla temperatura assoluta, ma eÁ inferiore, a
paritaÁ di condizioni, a quella posseduta dalle molecole dei gas. Questo perche fra le
molecole dei liquidi esistono forze di coesione piuÁ intense di quelle esistenti fra i gas. Con
l'aumentare della temperatura, aumenta l'energia cinetica delle molecole dei liquidi, e
pertanto aumentando proporzionalmente anche il loro volume, la loro densitaÁ diminuisce.2
1
Si ricordi che la densitaÁ di una sostanza viene definita dall'equazione d ˆ m=V e quindi, poiche una data massa m
di una sostanza gassosa occupa un volume V piuÁ grande di quello da essa occupato allo stato liquido, la sua densitaÁ allo
stato liquido eÁ maggiore di quella allo stato di gas o di vapore.
2
Fa eccezione l'acqua, la cui densitaÁ aumenta nell'intervallo di temperatura compreso fra 0 8C e 4 8C.
167
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
13. Caratteri generali dei liquidi e dei solidi
Figura 13.1
..................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
2
VISCOSITAÁ
Per viscositaÁ si intende comunemente la difficoltaÁ che incontra la massa di un fluido (un
liquido o un gas), a scorrere liberamente in un condotto. Questo fenomeno viene anche
denominato attrito interno, in quanto un simile impedimento dipende dalle forze di
coesione esistenti fra le molecole del fluido, che esercitano un'azione frenante al libero
scorrimento degli strati di sostanza gli uni sugli altri. Infatti, per interpretare correttamente il fenomeno, si deve ammettere che il movimento della massa, per esempio di un
liquido all'interno di un condotto cilindrico, eÁ la risultante dello spostamento di strati
lamellari concentrici di sostanza, ciascuno dei quali scorre su quello adiacente con una
velocitaÁ che eÁ massima per quello centrale, mentre decresce gradualmente procedendo
verso l'esterno, fino a che la velocitaÁ diventa praticamente uguale a zero per lo strato
lamellare aderente alla parete del condotto (fig. 13.1).
condotto cilindrico
Movimento lamellare
di un liquido che
scorre in un condotto
cilindrico.
Figura 13.2
Movimento della
massa di un liquido
provocato da una
forza applicata tangenzialmente alla sua
superficie libera.
Per esprimere con una legge questa proprietaÁ che la materia manifesta anche allo stato
solido (malleabilitaÁ e duttilitaÁ dei metalli), consideriamo un liquido in quiete contenuto in
un recipiente aperto e supponiamo di applicare su di esso una forza diretta tangenzialmente alla sua superficie libera. In conseguenza di cioÁ, una lamina di liquido superficiale
cominceraÁ a scorrere con una certa velocitaÁ nella direzione e nel verso della forza
applicata, e quindi trasmetteraÁ il suo movimento a tutte le molecole degli strati sottostanti
paralleli, nei quali puoÁ essere idealmente suddivisa tutta la massa del liquido. Ciascuno
strato di liquido si muoveraÁ poi con una velocitaÁ via via decrescente, a causa delle forze di
coesione esistenti fra le molecole (fig. 13.2).
superficie libera
del liquido
F
v
h
fondo del recipiente
!
Indicando con F la forza applicata tangenzialmente alla superficie libera del liquido, con
A l'area della lamina superficiale del liquido, con !
v la sua velocitaÁ e con h la sua distanza
dalla lamina aderente sul fondo del recipiente, un gran numero di esperienze ha mostrato
che per quasi tutti i liquidi eÁ verificata l'identitaÁ:
F
v
ˆh
(13:1)
A
h
nella quale il coefficiente di proporzionalitaÁ h (eta) prende il nome di viscositaÁ dinamica
del liquido. Questo coefficiente, ricavato dall'equazione (13.1), fornisce:
Fh
(13:2)
hˆ
Av
168
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.........................................................................................................................................
3. Tensione superficiale dei liquidi
Figura 13.3
....................................................................................................................................................................................
3
per cui, esprimendo le grandezze fisiche che compaiono nella (13.2) nelle corrispondenti
unitaÁ di misura adottate nel Sistema Internazionale (S.I.), e cioeÁ la forza F in newton (N),
la distanza h in metri (m), la superficie A in metri quadrati (m2) e la velocitaÁ v in metri al
secondo (m/s), risulta che l'unitaÁ di misura della viscositaÁ dinamica nel S.I. eÁ il newton per
secondo al metro quadrato …N s=m2 †. Tuttavia molto spesso, poiche i valori numerici
espressi in questa unitaÁ di misura sono troppo piccoli, viene usata l'unitaÁ pratica poise (P),
che eÁ dieci volte piuÁ piccola dell'unitaÁ espressa nel S.I.:
Ns
Ns
o anche 10 P ˆ 1 2
1 P ˆ 0,1 2
m
m
Inoltre, vengono anche usate le unitaÁ supplementari di detta unitaÁ pratica, e cioeÁ il
centipoise (cP; 1 cP ˆ 1 10 2 P), e il millipoise (mP; 1 mP ˆ 1 10 3 P).
La viscositaÁ di un liquido eÁ praticamente indipendente dalla pressione, mentre invece
varia sensibilmente con la temperatura, e precisamente essa diminuisce con l'aumentare
della temperatura. Il fenomeno inverso si verifica invece nei gas e questo perche nei
liquidi l'aumento della temperatura, e quindi dell'energia cinetica delle molecole,
favorisce l'allontanamento delle une dalle altre e quindi diminuisce l'attrito interno
dovuto alle forze di coesione. Nei gas invece, l'aumento dell'energia cinetica delle
molecole, che sono giaÁ praticamente indipendenti le une dalle altre, favorisce l'incremento del numero di urti reciproci e contro le pareti del recipiente: in questo modo
aumenta la probabilitaÁ di collisione delle molecole fra di loro, oppure contro le pareti del
recipiente e quindi la viscositaÁ dei gas aumenta con l'aumentare della temperatura.
TENSIONE SUPERFICIALE DEI LIQUIDI
Un'altra proprietaÁ dei liquidi legata anch'essa alle forze di coesione fra le particelle che li
costituiscono, eÁ lo stato di tensione delle molecole che si trovano sulla superficie di
separazione tra la fase liquida della sostanza e la sovrastante fase gassosa che eÁ formata
normalmente dai vapori del liquido e dall'aria. Allo stato tensionato della superficie libera
di un liquido si daÁ il nome di tensione superficiale o energia superficiale. Varie tipologie
di fenomeni quali la sfericitaÁ delle goccioline di acqua o di mercurio sulla superficie di un
vetro, l'avanzamento di un liquido in un tubicino capillare, il galleggiamento in acqua
delle polveri di un metallo, sono provocate dalla tensione superficiale.
Il fatto che le molecole distribuite sulla superficie libera di un liquido (o anche di un
solido), siano in uno stato tensionato nei confronti di quelle che si trovano all'interno della
massa, puoÁ essere facilmente spiegato se si tiene conto della struttura intima della materia.
Infatti, ogni molecola che si trova nell'interno di un liquido o di un solido eÁ soggetta a forze di
attrazione bilanciate esercitate dalle altre molecole che la circondano; invece ogni molecola che
si trova sulla superficie libera di un liquido o di un solido eÁ soggetta a forze di attrazione non
bilanciate la cui risultante eÁ diretta verso il centro della massa del liquido o del solido. Questo
perche ogni molecola sulla superficie eÁ circondata da un numero di molecole che nella fase
condensata sottostante eÁ maggiore di quello della fase gassosa sovrastante (fig. 13.3).
Forze di attrazione
cui eÁ soggetta una
molecola nell'interno
della massa e sulla
superficie libera di un
liquido.
molecola sulla
superficie libera
di un liquido
molecola nell’interno
della massa di
un liquido
169
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 13.4
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
13. Caratteri generali dei liquidi e dei solidi
Per questa ragione, le molecole che si trovano sulla superficie di un liquido o di un solido si
trovano in uno stato di maggiore energia rispetto a quelle che si trovano nell'interno della
massa, e pertanto, volendo incrementare l'area della superficie libera di una sostanza liquida o
solida, vale a dire per aumentare il numero di molecole superficiali, eÁ necessario compiere un
lavoro. Questo lavoro serve appunto a fornire alle molecole che si trovano nella fase condensata l'energia che esse posseggono in superficie. Il lavoro richiesto per incrementare di una
unitaÁ l'area della superficie di separazione fra due liquidi immiscibili, oppure fra un liquido e
un solido, oppure fra un solido e un gas, eÁ detto tensione interfacciale. La tensione interfacciale fra un liquido e un gas che non si sciolga in esso eÁ invece detta tensione superficiale di un
liquido. Dalla definizione data, l'unitaÁ di misura della tensione superficiale (tensione interfacciale) di una sostanza, nel S.I., eÁ il joule a metro quadrato (J/m2), o anche il newton a metro
(N/m), e questo percheÂ3 1 J ˆ 1 N 1 m. In questo caso l'unitaÁ di misura della tensione
superficiale ha le dimensioni di una forza divisa per una lunghezza, e questo fatto trova la sua
giustificazione se si tiene conto che a causa dello stato tensionato della loro superficie, i liquidi
si comportano come se fossero ricoperti da una pellicola elastica che, contraendosi, tende a
occupare la minima superficie possibile. Consideriamo un telaio provvisto di un lato mobile di
lunghezza l, e dopo averlo immerso in un liquido, per esempio acqua saponata, mediante lo
spostamento del lato mobile facciamo formare una pellicola di liquido la cui superficie sia per
esempio A (fig. 13.4). Ebbene, per mantenere lo stato di equilibrio del lato mobile l, e cioeÁ per
vincere la tendenza spontanea della pellicola di liquido a contrarsi per occupare la minima
estensione superficiale possibile, eÁ necessario applicare al lato mobile del telaio una forza F la
cui intensitaÁ, come eÁ stato dimostrato sperimentalmente, eÁ indipendente dall'area A della
pellicola, ma dipende solo dalla lunghezza del lato mobile del telaio.
pellicola di liquido
Effetto della tensione
superficiale dei liquidi.
A
l
F
Si spiega allora perche le gocce di acqua o di mercurio assumono sul vetro una forma quasi
sferica: la superficie di una sfera eÁ infatti la piuÁ piccola superficie di un solido geometrico che
possa contenere l'unitaÁ di volume di un liquido. Per esempio, 1 L (1 dm3) di acqua puoÁ essere
contenuto in una sfera il cui raggio eÁ uguale a 0,621 dm e la cui superficie totale eÁ uguale a
4,84 dm2;4 il medesimo volume di acqua puoÁ essere invece contenuto, per esempio, in un
cubo il cui spigolo (l ) eÁ uguale a 1 dm e la cui superficie totale (S ˆ 6 l 2) eÁ uguale a 6 dm2.
La tensione superficiale dei liquidi dipende sia dalla loro natura, cioeÁ dalla struttura
delle molecole che li costituiscono, sia dalla temperatura e dalla pressione. Con l'aumentare della temperatura, la tensione superficiale dei liquidi diminuisce, fino ad annullarsi
alla temperatura critica del liquido considerato, oltre la quale, come noto, esso puoÁ esistere solo allo stato gassoso.
3
Infatti:
1 N1 m
ˆ 1 N=m.
m2
4
Il volume V di una sfera di raggio r e la sua superficie totale S sono dati rispettivamente da:
4
Vˆ
p r3 e S ˆ 4 p r2
3
per cui, ponendo r ˆ 0,621 dm, otteniamo: V ˆ 1 dm3 e S ˆ 4,84 dm2 .
1 J=m2 ˆ
170
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
4. I solidi
Figura 13.5
.................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
4
I SOLIDI
In linea del tutto generale, le sostanze che hanno una forma propria, vale a dire che sono
dotate di rigiditaÁ e di un contorno ben definito, vengono dette solidi. In realtaÁ per stato
solido della materia si deve intendere solo quello cristallino, il quale si differenzia nettamente dallo stato amorfo che eÁ caratteristico di alcune sostanze rigide, come per esempio
il vetro, la gomma, la lacca.
Mentre nello stato amorfo le particelle delle sostanze (atomi o molecole) sono disposte
nello spazio tridimensionale in modo disordinato, o perlomeno senza alcuna periodicitaÁ,
nello stato cristallino, invece tali particelle sono disposte nello spazio tridimensionale con
regolare periodicitaÁ. Questa affermazione, oltre ad essere il frutto di rigorose esperienze
effettuate facendo interagire i raggi X con la materia allo stato solido (diffrazione dei raggi X), trova il suo fondamento dall'osservazione delle proprietaÁ macroscopiche delle sostanze solide. Infatti, tutte quelle sostanze solide che sono caratterizzate dal medesimo
valore numerico di una loro proprietaÁ fisica (come per esempio l'indice di rifrazione), in
qualunque direzione questa proprietaÁ venga misurata, sono dette amorfe. Pertanto una
caratteristica peculiare delle sostanze amorfe eÁ l'isotropia, e cioeÁ la costanza di tutte le
proprietaÁ fisiche in qualunque direzione esse vengano misurate. Ebbene, una simile
proprietaÁ puoÁ essere spiegata solo ammettendo una distribuzione spaziale casuale e non
periodica delle particelle di queste sostanze. Invece, tutte quelle sostanze solide, e sono la
maggior parte, per le quali una qualsiasi loro proprietaÁ fisica non viene espressa dal
medesimo valore numerico in tutte le direzioni, ma almeno una di queste proprietaÁ varia
bruscamente lungo una direzione, sono dette cristalline. Pertanto, una caratteristica peculiare delle sostanze cristalline eÁ l'anisotropia, e cioeÁ la brusca variazione di una qualsiasi
loro proprietaÁ fisica in almeno una direzione nella quale questa proprietaÁ viene misurata:
ebbene, una simile proprietaÁ puoÁ essere spiegata solo ammettendo una distribuzione
spaziale regolare e periodica delle particelle delle sostanze cristalline.
EÁ bene precisare che l'anisotropia di una sostanza solida cristallina si manifesta solo
quando si prende in esame la singola unitaÁ cristallina, e cioeÁ il monocristallo, nel quale la
periodicitaÁ delle particelle costituenti si estende regolarmente su tutta la sua massa.
Questo percheÂ, in pratica, la maggior parte delle sostanze solide cristalline eÁ formata da
un grandissimo numero di piccoli monocristalli raggruppati insieme, ciascuno dei quali eÁ
detto grano del cristallo. Dato che ogni grano eÁ orientato a caso nello spazio tridimensionale, ne consegue una distribuzione che statisticamente eÁ analoga a quella delle
particelle di una sostanza amorfa e quindi puoÁ accadere che una sostanza cristallina sia
isotropa, e cioeÁ abbia le medesime proprietaÁ fisiche in tutte le direzioni. Per esempio,
mentre la capacitaÁ di un monocristallo di grafite di condurre la corrente elettrica dipende
dalla direzione lungo la quale tale proprietaÁ viene misurata (anisotropia), in un aggregato
di cristallini di grafite, ciascuno dei quali eÁ orientato a caso, la proprietaÁ di condurre la
corrente elettrica eÁ uguale in tutte le direzioni (isotropia) (fig. 13.5).
Orientazione casuale
dei grani in un cristallo macroscopico.
Una sostanza cristallina si differenzia da una sostanza amorfa per alcune caratteristiche
fisiche peculiari, come, per esempio, una definita temperatura di fusione (punto di
171
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 13.6
........................................................................................................................................................................................................................................................................................
13. Caratteri generali dei liquidi e dei solidi
fusione) e una velocitaÁ di accrescimento che eÁ diversa nelle diverse direzioni. Infatti, se
raffreddiamo una sostanza amorfa liquefatta, come il vetro fuso, essa con il diminuire
della temperatura diventa sempre piuÁ viscosa per poi passare allo stato di rigiditaÁ senza
che il fenomeno sia caratterizzato da un arresto della temperatura. Se invece raffreddiamo
una sostanza cristallina liquefatta, come per esempio il cloruro di sodio fuso, con il
diminuire della temperatura la sua viscositaÁ non subisce alcuna variazione, e quando la
temperatura ha raggiunto un determinato valore, si puoÁ osservare che in seno al liquido
cominciano a separarsi cristallini della sostanza. Da questo momento in poi continuando
a sottrarre calore, la temperatura rimane costante fino a quando tutto il liquido si eÁ
solidificato. La temperatura costante alla quale si verifica il fenomeno, eÁ detta punto di
fusione della sostanza. Ogni sostanza cristallina ha un suo caratteristico punto di fusione.
Se sospendiamo una sferetta di silicato di sodio (sostanza amorfa) in una sua soluzione
acquosa concentrata, e operiamo in modo tale da far evaporare il solvente a velocitaÁ
costante, dopo un certo tempo si puoÁ osservare che, in seguito al deposito di nuova
sostanza, il diametro della sferetta eÁ aumentato (fig. 13.6). Questo fatto indica evidentemente che la velocitaÁ di accrescimento di una sostanza amorfa eÁ uguale in tutte le direzioni.
sferetta originale
di silicato di sodio
Accrescimento di una
sostanza amorfa
(silicato di sodio).
Figura 13.7
sferetta di silicato di
sodio dopo evaporazione
di una parte del solvente
soluzione acquosa
di silicato di sodio
Se invece sospendiamo una sferetta di cloruro di sodio (sostanza cristallina) in una sua
soluzione acquosa e operiamo in modo tale da far evaporare il solvente a velocitaÁ costante,
dopo un certo tempo si puoÁ osservare che in seguito al deposito di nuova sostanza, la sferetta
ha modificato la sua forma originale, in quanto ha assunto la forma di un cubo (fig. 13.7).
sferetta originale
di cloruro di sodio
Accrescimento di una
sostanza cristallina
(cloruro di sodio).
.................................
5
cristallo di cloruro
di sodio dopo
accrescimento
soluzione acquosa
di cloruro di sodio
Questo fatto indica che la velocitaÁ di accrescimento di una sostanza cristallina non eÁ
uguale in tutte le direzioni. Esamineremo ora alcune proprietaÁ comuni a tutte le sostanze
cristalline precisando peroÁ che simili proprietaÁ si riferiscono sempre al singolo individuo
cristallino o monocristallo.
IL RETICOLO CRISTALLINO
La distribuzione regolare e periodica delle particelle (atomi, molecole, ioni) che
costituiscono una sostanza cristallina puoÁ essere descritta con un modello geometrico
regolare formato da un insieme di punti, denominati nodi, nei quali si considera
172
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 13.8
Reticolo cristallino.
Figura 13.9
Filare di un reticolo
cristallino.
Figura 13.10
Piano reticolare.
.......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
5. Il reticolo cristallino
concentrata tutta la massa di ciascuna particella. Unendo i nodi con una serie di linee
immaginarie, si ottiene un reticolo spaziale o reticolo cristallino (fig. 13.8).
In un reticolo cristallino si possono distinguere i seguenti elementi:
1. I nodi, che sono i centri di equilibrio delle particelle materiali (atomi, molecole, ioni)
della sostanza cristallina. Se queste particelle sono della stessa natura chimica, per
esempio tutti atomi di sodio, e sono ugualmente orientate nello spazio tridimensionale, il reticolo cristallino viene detto semplice. Se invece i nodi rappresentano
particelle di natura chimica diversa, esempio ioni Na‡ e ioni Cl , il reticolo cristallino
viene detto composto.
2. I filari, che sono formati da un insieme di nodi orientati nella stessa direzione e che si
trovano ad una distanza (a) costante l'uno dall'altro, e che eÁ caratteristica per le differenti sostanze cristalline (fig. 13.9). I filari si identificano con gli spigoli dei cristalli.
a
3. I piani reticolari, che sono costituiti da un insieme di nodi che sono regolarmente
arrangiati lungo una superficie (fig. 13.10). Le caratteristiche di un piano reticolare
sono definite dalle due grandezze lineari a e b, e dall'angolo a (fig. 13.10), mediante le
quali risulta determinato un parallelogrammo elementare regolare. Ogni piano reticolare puoÁ essere immaginato come il risultato della ripetizione periodica del
parallelogrammo elementare lungo due dimensioni dello spazio. Pertanto un parallelogrammo elementare eÁ il piuÁ piccolo piano reticolare che ne conserva tutte le caratteristiche chimiche e fisiche, allo stesso modo con il quale le proprietaÁ di un tessuto rispecchiano quelle di ogni singola cellula che lo compongono. Con la differenza
a
parallelogrammo
elementare
b
173
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 13.11
Parallelepipedo
elementare o cella
elementare.
....................................................................................................................................................................................................................
13. Caratteri generali dei liquidi e dei solidi
......................................................................................................
6
peroÁ che, mentre la cellula eÁ un'entitaÁ fisica ben definita, il parallelogrammo elementare eÁ un'entitaÁ immaginaria, in quanto eÁ immaginaria ogni linea reticolare. Solo i nodi
del reticolo cristallino sono entitaÁ fisiche reali. I piani reticolari si identificano con le
facce esterne dei cristalli.
4. La cella elementare: immaginando di spostare perpendicolarmente a se stesso un
piano reticolare, si ottiene il reticolo cristallino, il quale eÁ caratterizzato da tre
grandezze lineari a, b e c, definite dalla distanza di due nodi consecutivi nelle tre
dimensioni dello spazio, e da tre grandezze angolari a, b e g, che sono definite dagli angoli reciproci di queste tre direzioni spaziali. Queste sei grandezze determinano un parallelepipedo elementare, la cui ripetizione lungo le tre direzioni primarie si puoÁ immaginare che dia origine all'intero edificio del reticolo cristallino
(fig. 13.11).
a
b
c
Il parallelepipedo elementare conserva tutte le proprietaÁ chimiche, fisiche e geometriche del reticolo spaziale di un cristallo, ed eÁ chiamato cella elementare. Pertanto un
monocristallo puoÁ essere considerato formato da un insieme di celle elementari che si
ripetono regolarmente nello spazio tridimensionale in modo da rispecchiare la
simmetria esterna del cristallo medesimo. Questa ipotesi in un certo senso eÁ coerente
con il processo naturale della sfaldatura dei cristalli i quali, quando vengono frantumati, danno origine a frammenti che conservano le caratteristiche geometriche del
cristallo originale.
TIPI DI RETICOLI CRISTALLINI
EÁ stato trovato che per descrivere la simmetria geometrica esterna di tutti i cristalli conosciuti,
sono necessari quattordici tipi di reticoli cristallini, elencati nella figura 13.12.
Alcuni di questi reticoli sono caratterizzati dal fatto che oltre ai nodi sugli spigoli,
contengono altri nodi addizionali, e pertanto vengono detti composti. A loro volta i
reticoli composti vengono indicati con nomi diversi, in dipendenza della disposizione
spaziale dei nodi. Quello che contiene un nodo al centro viene detto a corpo centrato;
quello che contiene un nodo al centro di ogni faccia viene detto a facce centrate; infine
quello che contiene un nodo al centro di due sole facce parallele viene detto ad estremitaÁ
centrate.
Dato che un reticolo cristallino composto puoÁ essere sempre ottenuto dalla combinazione di celle elementari, eÁ stato possibile definire solo sette sistemi cristallografici, nei
quali vengono classificati tutti i diversi tipi di cristalli. Nella tabella 13.1 vengono elencate
le sette classi dei cristalli, con accanto l'indicazione delle caratteristiche lineari e angolari
della cella elementare.
174
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 13.12
I quattordici reticoli
cristallini.
Tabella 13.1
I sette sistemi
cristallografici.
.......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
6. Tipi di reticoli cristallini
b
a
c
cubico
cubico a facce
centrate
cubico a corpo
centrato
tetragonale
ortorombico
ortorombico
a basi centrate
tetragonale a
corpo centrato
ortorombico
a corpo centrato
monoclino a
basi centrate
monoclino
triclino
Sistema
cubico o monometrico
ortorombico
a facce centrate
esagonale
Caratteristiche
lineari
aˆbˆc
Caratteristiche
angolari
a ˆ b ˆ g ˆ 908
romboedrico
Esempi
NaCl; Au; C (diamante)
tetragonale
a ˆ b 6ˆ c
a ˆ b ˆ g ˆ 908
Sn (bianco); TiO2
rombico o ortorombico
a 6ˆ b 6ˆ c
a ˆ b ˆ g ˆ 908
monoclino
a 6ˆ b 6ˆ c
a ˆ b ˆ 908; g 6ˆ 908
CaCO3 (aragonite);
S8 (alfa); BaSO4
S8 (beta); KClO3
triclino
a 6ˆ b 6ˆ c
a 6ˆ b 6ˆ g 6ˆ 908
CuSO4 5H2O
trigonale o romboedrico
aˆbˆc
a ˆ b ˆ g 6ˆ 908
CaCO3 (calcite); Al2O3
esagonale
a ˆ b 6ˆ c
a ˆ b ˆ 908; g ˆ 1208 C (grafite); Mg; Bi
175
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
13. Caratteri generali dei liquidi e dei solidi
....................................................................................................................................................................................
7
..................................................................................................................................
8
POLIMORFISMO
EÁ stato trovato che una medesima sostanza semplice o composta, puoÁ cristallizzare in due
o piuÁ diverse forme cristalline classificate in sistemi cristallografici differenti, ciascuna
delle quali eÁ stabile entro determinati limiti di pressione e di temperatura.
A un simile fenomeno eÁ stato dato il nome di polimorfismo se eÁ relativo a una sostanza
composta, e di allotropia se eÁ relativo a una sostanza semplice. Per esempio, la sostanza
composta carbonato di calcio (CaCO3), si trova in natura in due distinte forme cristalline:
la calcite che cristallizza nel sistema trigonale e l'aragonite che cristallizza nel sistema
rombico (polimorfismo); cosõÁ pure la sostanza semplice carbonio (C) si trova in natura in
due distinte forme cristalline: il diamante che cristallizza nel sistema monometrico e la
grafite che cristallizza nel sistema esagonale (allotropia).
Le differenti forme cristalline della medesima sostanza hanno le stesse proprietaÁ chimiche,
ma si differenziano, a volte nettamente, nelle proprietaÁ fisiche, con particolare riferimento al
piano di sfaldatura, alle proprietaÁ ottiche, alla durezza, all'indice di rifrazione, alla conducibilitaÁ elettrica e alla densitaÁ. Per esempio, il diamante eÁ una sostanza durissima, incolore,
trasparente, e un ottimo isolante elettrico; invece la grafite, che eÁ la sua modificazione
allotropica, eÁ una sostanza tenerissima, nera, opaca, e buona conduttrice dell'elettricitaÁ.
La trasformazione da una forma cristallina a un'altra, avviene sempre a una temperatura costante che eÁ caratteristica per ciascuna sostanza polimorfa. Questa temperatura
prende il nome di punto di trasformazione della sostanza. Pertanto, il punto di trasformazione presenta tutte le caratteristiche dei passaggi di stato (solido-liquido, liquidovapore, o viceversa), peroÁ con questa sostanziale differenza: mentre i passaggi di stato di
aggregazione di una sostanza, avvengono sempre reversibilmente, la trasformazione di
una sostanza da una forma cristallina a un'altra, puoÁ avvenire anche irreversibilmente. In
particolare, se la trasformazione cristallina avviene sempre alla medesima temperatura e
pressione sia in un verso sia in quello opposto, il fenomeno eÁ reversibile, e allora viene
indicato con il nome di enantiotropia; se invece questa condizione non eÁ verificata, il
fenomeno viene indicato con il nome di monotropia.
ISOMORFISMO
Il fenomeno per il quale due o piuÁ sostanze diverse cristallizzano separatamente formando dei cristalli con caratteri geometrici molto simili, viene detto isomorfismo, mentre
le sostanze vengono dette isomorfe. Pertanto due o piuÁ sostanze isomorfe possono
cristallizzare insieme formando soluzioni solide, vale a dire che se un miscuglio di dette
sostanze viene portato allo stato fuso o di soluzione, e poi si raffredda il fuso, o si fa
evaporare il solvente, come risultato si ottengono dei cristalli che vengono detti cristalli
misti, e cioeÁ una soluzione solida. Infatti i nodi reticolari dei cristalli misti, sono occupati a
caso dagli atomi o dagli ioni che formavano le sostanze di partenza.
Un esempio classico di isomorfismo eÁ quello dell'allume di cromo KCr(SO4)2 12 H2O
(cristalli di colore violetto scuro), e dell'allume di potassio KAl(SO4)2 12 H2O (cristalli
incolori). Evaporando una soluzione acquosa di un miscuglio di questi due sali, si ottiene una
soluzione solida formata da cristalli misti, il cui colore eÁ di un violetto piuÁ o meno intenso, in
dipendenza della quantitaÁ iniziale di allume di cromo.
Affinche due sostanze siano isomorfe, non eÁ indispensabile che esse abbiano proprietaÁ
chimiche molto simili, come eÁ il caso degli allumi sopra citati, ma eÁ anche sufficiente che esse
abbiano formula chimica analoga, e che i raggi degli atomi o degli ioni che le costituiscono
siano di poco differenti fra loro. Infatti, solo in base a quest'ultima condizione eÁ possibile
spiegare il fatto che le forme cristalline classificate nel sistema rombico, fluoborato di potassio
(KBF4), solfato di bario (BaSO4) e perclorato di potassio (KClO4), sono isomorfe.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
QUESITI
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QUESITI
1. Spiega perche la viscositaÁ viene detta anche attrito
interno.
2. Spiega perche la viscositaÁ di un liquido diminuisce
con l'aumentare della temperatura, mentre il fenomeno inverso si verifica nei gas.
3. Spiega perche la viscositaÁ dei gas dipende anche
dalla pressione mentre quella dei liquidi eÁ praticamente indipendente da questa variabile.
4. Spiega perche la viscositaÁ dell'acqua eÁ superiore a
quella dell'etere etilico alla medesima temperatura.
5. Come si spiega il valore molto elevato della viscositaÁ
degli oli?
6. In quale modo la teoria cinetica molecolare spiega lo
stato tensionato della superficie libera di un liquido?
7. Spiega perche le proprietaÁ chimiche e fisiche della
superficie delle sostanze liquide o solide sono a
volte nettamente diverse da quelle nell'interno
della massa.
8. Distingui fra il significato fisico di energia superficiale e quello di tensione superficiale. Utilizzare un
termine o l'altro eÁ praticamente analogo. Per quale
motivo?
9. Spiega perche la tensione superficiale dell'acqua eÁ
molto piuÁ elevata di quella dell'acetone alla medesima temperatura.
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
10. Perche eÁ piuÁ facile ottenere un'emulsione, ovvero una
dispersione omogenea di goccioline di etere etilico in
acqua, piuttosto che di olio di oliva in acqua?
11. Spiega perche la maggior parte dell'acqua, spillata da
un astronauta all'interno di una capsula orbitante
intorno alla Terra, assume la forma di una sfera.
12. Spiega perche un insetto puoÁ galleggiare sull'acqua sebbene la sua densitaÁ sia maggiore di
quella del liquido.
13. Definisci lo stato amorfo e lo stato cristallino e indica
alcune proprietaÁ mediante le quali si possono facilmente distinguere questi due stati della materia.
14. Spiega il significato dei termini isotropia e anisotropia.
15. Sebbene l'anisotropia sia una peculiaritaÁ dello
stato cristallino, tuttavia molte sostanze cristalline
risultano in pratica isotrope. PercheÂ?
16. Spiega il significato dei termini polimorfismo, isomorfismo, allotropia e monotropia.
17. Due vaschette aventi la medesima forma a parallelepipedo sono riempite completamente con sfere
di ghiaccio di uguale diametro impaccate in modo
da occupare il maggiore spazio possibile. Le sfere
nel primo recipiente hanno il raggio di 1 mm,
mentre quelle nel secondo hanno il raggio di 1 cm.
Se il ghiaccio fonde, in quale dei due recipienti il
livello dell'acqua eÁ maggiore?
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
14
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1
Passaggi di stato
di aggregazione
della materia
CURVE DI RISCALDAMENTO E DI RAFFREDDAMENTO
I passaggi di stato di aggregazione di una sostanza pura sono caratteristici di ogni
sostanza: essi avvengono a una ben determinata temperatura (fissata la pressione esterna),
che rimane costante durante tutto il passaggio di stato. Nel processo entra in gioco una
certa quantitaÁ di calore, detto calore latente1 l2 (calore latente molare se riferito a una
mole di sostanza, per cui le unitaÁ di misura saranno cal/mol oppure J/mol). Se si suppone
di fornire calore alla sostanza, i possibili passaggi di stato sono:
.
.
.
.
fusione: passaggio da solido a liquido;
ebollizione: passaggio da liquido a vapore;
sublimazione: passaggio da solido a vapore;
transizione cristallina: passaggio da una forma cristallina a a una forma cristallina b.
Quest'ultimo passaggio si verifica per quei solidi che esistono in due (o piuÁ) forme
cristalline (che abbiamo indicato con a e b). Le corrispondenti temperature a cui si
verificano questi passaggi di stato si chiameranno: temperatura di fusione, di ebollizione, di sublimazione, di transizione cristallina. Se il passaggio di stato avviene alla
pressione di una atmosfera, si specifica: temperatura normale di fusione, di ebollizione
ecc. E cosõÁ i corrispondenti calori latenti si chiameranno: calore latente di fusione, di
ebollizione ecc. Ovviamente, per il principio di conservazione dell'energia, il calore
latente di sublimazione saraÁ la somma del calore latente di fusione e di quello di ebollizione:
lsub ˆ l fus ‡ l eb
Poiche un passaggio di stato avviene a pressione costante, il calore latente si identifica con
la variazione della funzione entalpia (di cui si tratteraÁ piuÁ ampiamente nella parte di
termodinamica), che, per i passaggi di stato visti sopra, avraÁ segno positivo, essendo il
calore assorbito dalla sostanza:
l ˆ DH > 0
La curva di riscaldamento di una sostanza pura ha l'andamento riprodotto nella figura
(14.1): in essa si nota che il calore fornito alla sostanza fa dapprima aumentare la sua
temperatura, che rimane invece costante durante tutto il passaggio di stato.
1
Latente perche il calore somministrato al sistema non si manifesta con l'aumento di temperatura della sostanza, ma
viene speso solo per vincere le forze di coesione esistenti fra le sue particelle.
2
Lettera greca lambda.
178
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 14.1
.............................................................................................................................................................................................................................................................
2. Teoria cinetica molecolare dei passaggi di stato
Temperatura
Curva di riscaldamento
di una sostanza solida
pura.
Figura 14.2
Curva di raffreddamento dei vapori di
una sostanza pura.
............................................................
2
E
punto di
ebollizione
C (ebollizione)
D
(fusione)
punto di
fusione
A
B
calore di
ebollizione
calore di
fusione
Calore fornito
al sistema
0
Se il calore eÁ sottratto alla sostanza, avvengono i passaggi di stato esattamente inversi a
quelli precedenti e i calori latenti sono identici, ma di segno opposto (l ˆ DH < 0). I
passaggi di stato saranno cosõÁ indicati:
.
.
.
.
condensazione (o liquefazione): passaggio da vapore a liquido;
solidificazione (o cristallizzazione): passaggio da liquido a solido;
brinamento (o deposizione): passaggio da vapore a solido;
passaggio di fase cristallina: passaggio da una fase cristallina b a una fase cristallina a.
La temperatura di condensazione coincideraÁ con la temperatura di ebollizione, quella di
solidificazione con quella di fusione, e cosõÁ via.
La curva di raffreddamento avraÁ andamento analogo, ma di verso opposto, alla curva
di riscaldamento (fig. 14.2).
Temperatura
A
B
punto di condensazione
(condensazione)
C
(solidificazione)
E
D
punto di solidificazione
F
calore di
condensazione
calore
di
solidif.
Calore sottratto
al sistema
0
TEORIA CINETICA MOLECOLARE DEI PASSAGGI DI STATO
La teoria cinetica molecolare fornisce la seguente interpretazione dei passaggi di stato di
aggregazione della materia:
1. Fusione (solido ! liquido). Il calore fornito alla sostanza solida fa aumentare la sua
temperatura, e quindi l'energia cinetica delle sue particelle disposte regolarmente su
nodi del reticolo cristallino. Con l'incremento della temperatura, in un dato momento
l'energia cinetica di tali particelle prevale sulle loro mutue forze di coesione, per cui
esse si arrangiano nello spazio tridimensionale in modo irregolare e disordinato. Da
179
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.................................................................................................................................................................................................................................................................
14. Passaggi di stato di aggregazione della materia
..........................................................
3
questo istante in poi, l'energia termica che viene fornita alla sostanza viene spesa solo
per vincere le forze di coesione fra le sue particelle, e non per incrementare la loro
energia cinetica, quindi avviene il passaggio di stato solido ! liquido, senza che la
temperatura subisca alcun incremento. Il calore fornito per vincere le forze di coesione
delle particelle del solido eÁ appunto il calore latente di fusione della sostanza.
2. Solidificazione (liquido ! solido). Il calore sottratto dalla sostanza allo stato liquido fa
diminuire la sua temperatura, e quindi anche l'energia cinetica delle sue particelle, il
cui movimento diventa pertanto sempre meno caotico. A una temperatura sufficientemente bassa, le particelle cominciano ad assumere, all'interno della massa della
sostanza liquida, delle posizioni di equilibrio nello spazio tridimensionale. Da questo
momento in poi, la sottrazione di calore dal sistema non fa diminuire la sua
temperatura, in quanto il calore sottratto eÁ quello di solidificazione della sostanza,
quello cioeÁ che viene liberato quando le sue particelle si distribuiscono con regolare
periodicitaÁ nello spazio tridimensionale.
3. Ebollizione (liquido ! vapore). Tutti i liquidi, come anche i solidi, evaporano, e un simile
fenomeno eÁ dovuto al fatto che alcune molecole della sostanza liquida o solida, che si
trovano sulla sua superficie di separazione con l'ambiente esterno, posseggono energia
cinetica sufficiente per sfuggire da tale superficie e passare nella fase gassosa sovrastante.
Pertanto fornendo del calore a una sostanza liquida aumenta la probabilitaÁ che un
maggior numero di molecole passino dalla fase liquida a quella di vapore. Inoltre, ogni
piccolissima bolla di gas (per esempio di aria), aderente sul fondo o sulla parete del
recipiente contenente il liquido che viene riscaldato, forma una superficie interna in seno
alla massa del liquido, nella quale si raccolgono alcuni vapori della sostanza. Se la
pressione di questi vapori eÁ uguale, o leggermente superiore a quella esterna che grava
sulla superficie del liquido, dall'interno della sua massa salgono delle bolle di vapore e si
verifica quindi l'ebollizione del liquido. Un simile fenomeno non va confuso con
l'evaporazione. Infatti, l'evaporazione eÁ un fenomeno limitato alle sole molecole
distribuite sulla superficie libera di un liquido, mentre l'ebollizione eÁ un fenomeno che
coinvolge tutte le molecole della massa del liquido. Quando un liquido inizia a bollire, la
sua temperatura rimane costante in quanto il calore che viene fornito (calore latente di
evaporazione al punto di ebollizione) viene speso solo per vincere le forze di coesione fra
le sue particelle allo stato liquido, e non per aumentare la loro energia cinetica.
4. Condensazione (vapore ! liquido). Raffreddando i vapori di una sostanza, l'energia
cinetica media delle sue particelle diminuisce per cui a un certo punto le loro mutue
forze di coesione prevalgono e la sostanza inizia a passare allo stato liquido. Durante il
processo della liquefazione la temperatura rimane costante, in quanto il calore che
viene sottratto dal sistema eÁ quello che viene liberato nella formazione del legame fra le
particelle allo stato liquido (energia di legame).
Ragionamenti del tutto analoghi a quelli ora descritti vengono seguiti nel passaggio di
stato solido ! vapore e in quello inverso vapore ! solido.
EQUAZIONE DI CLAPEYRON
L'influenza della pressione esterna sulla temperatura alla quale si verifica il passaggio di
stato di aggregazione di una sostanza puoÁ essere prevista applicando una equazione che eÁ
stata dedotta da BenoõÃt-Paul-EÂmile Clapeyron3 in base ai concetti di termodinamica che
verranno chiariti in capitoli successivi.
3
BenoõÃt-Paul-EÂmile Clapeyron (1799-1864), ingegnere francese.
180
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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3. Equazione di Clapeyron
Pertanto ci limiteremo per il momento alla formulazione finale dell'equazione che eÁ la
seguente:
dP
l
ˆ
(14:1)
dT TDV
in cui:
dP ˆ
dT ˆ
l ˆ
T ˆ
DV ˆ
variazione infinitamente piccola della pressione esterna di equilibrio;
variazione infinitamente piccola della temperatura esterna di equilibrio;
calore latente molare di fusione (evaporazione, sublimazione) della sostanza;
temperatura, in gradi kelvin, di fusione (ebollizione, sublimazione) della sostanza;
differenza fra il volume della sostanza nello stato finale di aggregazione e quello
nello stato di aggregazione iniziale.
Vediamo ora alcune applicazioni dell'equazione di Clapeyron.
In tutti i passaggi di stato per i quali eÁ verificata la condizione:
dP
>0
dT
l'aumento della pressione esterna (dP > 0), provoca un aumento della temperatura
(dT > 0) a cui il passaggio di stato si verifica. In tutti i passaggi di stato per i quali eÁ
verificata la condizione
dP
<0
dT
l'aumento della pressione esterna (dP > 0), provoca una diminuzione della temperatura
(dT < 0) a cui il passaggio di stato si verifica. Ebbene, in base alla (14.1), la condizione:
dP
>0
dT
eÁ verificata quando ovviamente il rapporto:
l
>0
TDV
e cioeÁ quando il passaggio di stato avviene con assorbimento di calore da parte del sistema,
come nella fusione, nell'ebollizione e nella sublimazione, in cui l eÁ positivo, e quando DV eÁ
anch'esso positivo.4 Affinche poi il termine DV sia maggiore di zero, il passaggio di stato deve
avvenire con aumento di volume e questo si verifica sempre nella trasformazione solidoliquido e liquido-vapore, e di regola in quella solido-vapore. Pertanto, in questa condizione,
possiamo affermare che il punto di ebollizione, oppure il punto di fusione di una sostanza,
viene innalzato dall'aumento della pressione esterna. Alla pressione esterna di 1 atm l'acqua
pura bolle a 100 8C, mentre alla pressione esterna di 10 atm essa bolle a 180 8C; cosõÁ pure,
alla pressione esterna di 1 atm, lo stagno fonde a 231,9 8C, mentre alla pressione esterna di
100 atm esso fonde a 232,2 8C. Da quest'ultimo esempio si puoÁ dedurre che in genere la
variazione della pressione esterna influenza di poco il punto di fusione di una sostanza.
Nel caso del tutto particolare nel quale il passaggio di stato solido ! liquido avviene
con diminuzione di volume (DV < 0), come nella fusione del ghiaccio, del bismuto e del
nitrato di potassio, in base all'equazione di Clapeyron (14.1) otteniamo:
dP
<0
dT
4
La temperatura assoluta non puoÁ mai assumere valori negativi.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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14. Passaggi di stato di aggregazione della materia
Figura 14.3
Evaporazione di un
liquido in un recipiente chiuso.
.....................................................................................................................................................................................
4
quindi risulta che, all'aumento della pressione esterna (dP > 0), fa riscontro la diminuzione della temperatura (dT < 0) di fusione della sostanza. Il ghiaccio comune sotto la
pressione esterna di 1 atm fonde a 0 8C, mentre sotto la pressione di 2 atm, fonde a
0,0076 8C, e sotto la pressione di 290 atm fonde a 2 8C.
Certamente un ragionamento del tutto analogo a quello ora seguito per i passaggi di
stato solido ! liquido ! vapore ai quali abbiamo applicato l'equazione di Clapeyron,
puoÁ essere esteso ai passaggi di stato inversi vapore ! liquido ! solido tenendo presente peroÁ che in questi casi il calore latente l che compare nella (14.1) eÁ negativo.
EÁ chiaro a questo punto che, se l'aumento della pressione esterna fa innalzare il punto
di ebollizione di un liquido, la diminuzione della pressione esterna deve necessariamente
farlo abbassare. Questa conclusione, cui siamo pervenuti applicando al passaggio di stato
l'equazione di Clapeyron, eÁ d'altra parte giaÁ prevista dalla teoria cinetica molecolare per la
quale un liquido bolle quando la pressione di vapore delle sue molecole all'interno della
massa eguaglia quella sovrastante la sua superficie libera. Diminuendo la pressione sopra
il liquido, viene facilitata la fuoriuscita delle sue molecole gassose dall'interno della massa,
e quindi esso bolle a una temperatura inferiore. Questa caratteristica trova applicazione
pratica per purificare, mediante distillazione, i liquidi che hanno un elevato punto
normale di ebollizione, oppure che possono decomporsi se riscaldati a temperatura
elevata. Infatti, riscaldando il liquido da purificare in un recipiente in cui eÁ stata creata
una bassa pressione, esso bolle a una temperatura nettamente inferiore al punto di
normale ebollizione, e i vapori ottenuti vengono poi condensati mediante un refrigerante.
PRESSIONE DI VAPORE
EÁ noto che quando un liquido contenuto in un recipiente aperto viene messo in comunicazione con l'ambiente circostante (nell'aria), esso comincia ad evaporare, e il
fenomeno prosegue finche nel recipiente non rimane che una goccia di liquido. Un simile
fenomeno eÁ noto con il nome di evaporazione. Inoltre, eÁ noto che la velocitaÁ di evaporazione di un liquido non dipende solo dalla sua natura, ma eÁ favorita da tre parametri;
da un'elevata area della sua superficie libera, dall'aumento della temperatura nonche da
una bassa pressione esterna.
Se invece un liquido puro viene introdotto in un recipiente chiuso munito di manometro,
nel quale eÁ stato fatto precedentemente il vuoto (fig. 14.3) ed esso viene mantenuto a
temperatura costante, si puoÁ osservare che il manometro segna una pressione via via
crescente, che a un certo punto raggiunge un valore costante purche non venga variata la
temperatura. Si puoÁ inoltre facilmente verificare che per ogni liquido un simile valore di
pressione dipende solo dalla temperatura, in quanto operando con una massa diversa del
medesimo liquido, e in un recipiente di forma diversa, la pressione segnata dal manometro,
alla temperatura data, eÁ sempre la stessa. La pressione costante che il vapore di un liquido,
contenuto in un recipiente chiuso, esercita a una data temperatura, prende il nome di
pressione di vapore o di tensione di vapore del liquido a quella temperatura.
manometro
vuoto
LIQUIDO
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Figura 14.4
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4. Pressione di vapore
L'interpretazione del fenomeno ora descritto viene fornita su scala molecolare tenendo
conto che, come nei gas, la distribuzione dell'energia cinetica delle molecole dei liquidi eÁ
tale che solo un piccolo numero di esse possiede elevata energia;5 questo perche in
conseguenza del loro movimento caotico all'interno della massa liquida (o gassosa),
capita che ad ogni istante, in seguito alle collisioni fortuite fra le molecole, alcune di esse
hanno velocitaÁ praticamente nulla (energia cinetica minima), mentre altre, e sono le
meno numerose, hanno velocitaÁ massima (energia cinetica massima). Pertanto, se
consideriamo le molecole distribuite sulla superficie libera di un liquido contenuto in
un recipiente aperto, accade che quelle che possiedono maggiore energia cinetica
sfuggono facilmente dalla massa liquida e passano nella fase di vapore dell'atmosfera
circostante. Se la temperatura dell'ambiente esterno rimane costante, la distribuzione
dell'energia cinetica delle molecole sulla superficie libera del liquido rimane statisticamente inalterata, e cosõÁ altre molecole, quelle con maggior energia, sfuggono ancora
dalla massa liquida e passano nella fase di vapore. Il processo continua quindi fino a
quando evapora tutto il liquido.
Diversamente, nel caso in cui un liquido eÁ contenuto in un recipiente chiuso, aumenta
la probabilitaÁ di collisione delle molecole presenti nella fase gassosa sovrastante con
quelle distribuite sulla superficie libera del liquido e pertanto le molecole gassose con
minore energia cinetica, urtando contro quelle del liquido, rimangono invischiate e
rientrano nella fase liquida. Mentre all'inizio dell'evaporazione del liquido le molecole
contenute nella fase gassosa sovrastante sono poche, e quindi sono poco numerosi gli urti
con invischiamento, con il procedere dell'evaporazione il numero di tali urti aumenta e
quindi, se la temperatura del recipiente chiuso viene mantenuta costante, si perviene a
una condizione di equilibrio dinamico caratterizzata dal fatto che, da quell'istante in poi,
il numero di molecole che passano dalla fase liquida a quella di vapore eÁ uguale al numero
di molecole che passano dalla fase di vapore a quella liquida. La pressione esercitata dalle
molecole nella fase di vapore in questa condizione di equilibrio eÁ appunto la pressione di
vapore del liquido. Un fenomeno simile a quello ora descritto per i liquidi eÁ presentato
anche dai solidi, in quanto anche per essi, quando sono contenuti in un recipiente chiuso
mantenuto a temperatura costante, si stabilisce un equilibrio dinamico fra le molecole
nella fase solida e quelle nella fase di vapore. In questo caso la pressione di equilibrio del
vapore viene detta pressione di vapore del solido, o pressione di sublimazione, ed eÁ
caratterizzata da valori numerici inferiori a quelli che la medesima sostanza presenta alla
stessa temperatura, quando essa si trova allo stato liquido.
Pressione di
vapore (mmHg)
a) Variazione della
pressione di vapore
di una sostanza liquida o solida con la
temperatura. b) Tensioni di vapore di due
liquidi A e B e corrispondenti temperature normali di ebollizione.
acetone
acqua
naftalina
Pressione di
vapore (mmHg)
B
A
Pest = 760 mmHg
0
(a)
0
Temperatura (°C)
teb(A)
teb(B)
Temperatura (°C)
(b)
5
L'energia fra le molecole eÁ come il denaro fra gli uomini: «I poveri sono numerosi, i ricchi sono pochi» (E. A.
Moelwyn-Hughes).
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14. Passaggi di stato di aggregazione della materia
Come in precedenza affermato, la pressione di vapore P 0 di un liquido puro, e cosõÁ quella
di un solido puro, dipendono solo dalla temperatura (aumentando all'aumentare di
questa), e una simile dipendenza puoÁ essere diagrammata ponendo la pressione di vapore
della sostanza contro la relativa temperatura. In questo modo, per ogni sostanza, si
ottiene una curva (sperimentale) esponenziale, il cui andamento qualitativo eÁ riprodotto
nel grafico della figura 14.4a.
Da tale grafico, eÁ anche possibile determinare la temperatura di ebollizione del liquido:
infatti, poicheÂ, per quanto detto in precedenza, un liquido bolle quando la sua pressione di
vapore uguaglia la pressione esterna applicata, eÁ sufficiente tracciare la retta orizzontale
corrispondente alla pressione esterna e leggere sull'asse delle ascisse la temperatura corrispondente al punto d'incontro di tale retta con la curva del liquido (fig. 14.4b). EÁ anche
evidente, sempre dallo stesso grafico, come un aumento della pressione esterna determini
un innalzamento del punto di ebollizione (e viceversa una diminuzione di pressione).
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QUESITI
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20 esercizi interattivi
1. Elenca le differenze fra fusione, evaporazione, ebollizione e sublimazione di una sostanza pura.
11. In che modo eÁ possibile realizzare direttamente il
passaggio di stato solido ! vapore?
2. Elenca le differenze fra cristallizzazione, liquefazione e brinamento di una sostanza pura.
12. Quale equazione interpreta l'andamento della pressione di vapore di una sostanza con la temperatura?
3. Elenca le differenze fra punto di ebollizione e
punto normale di ebollizione di un liquido.
4. Elenca le differenze fra evaporazione ed ebollizione
di un liquido.
5. Spiega in che modo la teoria cinetica molecolare
interpreta l'evaporazione e l'ebollizione di un liquido.
6. Spiega in che modo la teoria cinetica molecolare
interpreta la condizione di equilibrio liquido-vapore.
7. Perche il calore messo in gioco nei passaggi di
stato viene chiamato calore latente?
8. Spiega su scala molecolare perche la temperatura
rimane costante durante i passaggi di stato di aggregazione, sebbene venga sottratto (oppure fornito) del calore al sistema.
9. In che modo la pressione esterna influenza il
punto di fusione (di ebollizione, di sublimazione)
di una sostanza?
10. Perche il calore latente molare di fusione di una
sostanza deve coincidere con il calore latente molare di solidificazione della medesima sostanza sotto
la stessa pressione?
13. Per quale dei due passaggi di stato, fusione ed
ebollizione, la pressione ha maggiore influenza?
14. EÁ esatta l'affermazione secondo cui la pressione di
vapore di un liquido aumenta in modo direttamente proporzionale alla temperatura?
15. Che effetto ha sulla temperatura di ebollizione la
presenza di forti legami di coesione tra le molecole
di un liquido?
16. Con quale funzione di stato si identifica il calore
latente in un passaggio di stato?
17. A un sistema formato da un recipiente chiuso in
cui eÁ contenuto del liquido in equilibrio con il suo
vapore a una data temperatura, viene fornito del
calore in modo da portarlo a una temperatura
stabilita: qual eÁ il meccanismo con cui il sistema si
riporta in equilibrio alla nuova temperatura?
18. Occorre piuÁ calore per il passaggio di stato di una
sostanza da liquido a vapore o per il passaggio da
solido a vapore? A che cosa corrisponde la differenza tra i due calori in gioco?
19. Perche il punto di fusione del ghiaccio diminuisce
all'aumentare della pressione esterna?
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15
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1
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2
Sistemi a un solo
componente puro
SISTEMI CHIMICI OMOGENEI ED ETEROGENEI
Si definisce omogeneo un sistema chimico formato da una sostanza pura oppure da un
insieme di sostanze che, in equilibrio fra di loro, sono distribuite in un'unica fase (gassosa,
liquida, oppure solida). Se invece le sostanze che compongono il sistema si trovano in
differenti fasi di aggregazione, allora il sistema viene detto eterogeneo. Le fasi di un sistema
sono costituite da quelle regioni che in ogni punto sono caratterizzate dalle medesime
proprietaÁ chimiche e fisiche, e che sono separate le une dalle altre da contorni ben definiti.
Per esempio, un liquido puro (acqua), un solido puro (ghiaccio), un aeriforme puro (vapore
d'acqua), ciascuno considerati separatamente, costituiscono un sistema omogeneo formato da un solo componente (acqua), e da una sola fase (solida, liquida o aeriforme); un
liquido puro in equilibrio con il suo vapore (acqua-vapore d'acqua), oppure un liquido
puro in equilibrio con il suo solido (acqua-ghiaccio), ciascuno considerati separatamente,
costituiscono un sistema eterogeneo formato da un solo componente (acqua) distribuito in
due fasi, rispettivamente liquido-vapore e liquido-solido; un miscuglio di due o piuÁ gas,
oppure una soluzione di un solido in un liquido, o una soluzione di due o piuÁ liquidi,
ciascuno considerati separatamente, costituiscono un sistema omogeneo formato da due o
piuÁ componenti distribuiti in un'unica fase (gassosa, o liquida).
Lo studio degli equilibri eterogenei (polifasici) si propone essenzialmente di stabilire le
condizioni per le quali i fattori che regolano detti equilibri possono essere modificati a
piacere, entro peroÁ ragionevoli limiti, senza che essi vengano alterati, e cioeÁ senza che in
conseguenza delle variazioni apportate si verifichi la scomparsa o la comparsa di almeno
una fase rispetto a quelle giaÁ esistenti.
I sistemi chimici eterogenei piuÁ semplici da studiare sono quelli formati da un solo
componente puro distribuito in due o piuÁ fasi (per esempio acqua liquida in equilibrio con
il proprio vapore); mentre risultano piuÁ complicati i sistemi eterogenei multicomponenti, e
cioeÁ quelli costituiti da piuÁ specie chimiche, distribuite in piuÁ di una fase. Questi ultimi
sono, ovviamente i piuÁ interessanti, in quanto i problemi di chimica industriale, biologia,
metallurgia, inquinamento coinvolgono sempre un insieme di sostanze in reazione.
DIAGRAMMI DI FASE DEI SISTEMI A UN COMPONENTE PURO
Lo studio degli equilibri fra le fasi di un componente puro, come per esempio l'acqua, eÁ
molto semplice, e consiste nel registrare i dati sperimentali pressione-temperatura ai quali
esiste, per la sostanza considerata, una sola fase o piuÁ di una fase in equilibrio. Questi dati
sperimentali vengono riportati in un grafico bidimensionale pressione-temperatura che
prende il nome di diagramma di fase o diagramma di stato della sostanza. Ogni sostanza
pura ha un suo caratteristico diagramma di fase.
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15. Sistemi a un solo componente puro
Diagramma di fase
dell'acqua (non in
scala).
DIAGRAMMA DI FASE DELL'ACQUA
Nella figura 15.1 viene riprodotto il diagramma di fase dell'acqua, costruito da una
serie di dati sperimentali pressione-temperatura nei tre stati di aggregazione della
sostanza.
Nel grafico si possono distinguere tre superfici (solido, liquido, vapore) separate da tre
linee: ST, TC e TA. Su tutti i punti della curva ST, l'acqua solida (il ghiaccio) eÁ in equilibrio
con il suo vapore (punti di equilibrio di sublimazione); su tutti i punti della curva TC,
l'acqua liquida eÁ in equilibrio con il suo vapore (punti di equilibrio di evaporazione); su tutti
i punti della retta TA, l'acqua solida eÁ in equilibrio con quella liquida (punti di equilibrio di
fusione). Il punto T prende il nome di punto triplo, poiche in questo punto coesistono, in
equilibrio, le tre fasi: solida, liquida e di vapore dell'acqua. Il punto triplo eÁ caratterizzato da
un unico valore di temperatura e di pressione, che per l'acqua eÁ rispettivamente 0,01 8C e
4,58 mmHg. EÁ bene precisare subito che il punto triplo di una sostanza pura non coincide con
il suo punto di fusione. Infatti, il punto di fusione eÁ la temperatura alla quale la fase solida,
liquida e di vapore di una sostanza sono in equilibrio in presenza di aria (o di altri gas
estranei); mentre al punto triplo le tre fasi della sostanza sono in equilibrio senza alcuna altra
sostanza estranea presente. Per esempio, il punto di fusione del ghiaccio eÁ uguale a 0 8C sotto
la pressione di 1 atm esercitata dall'aria sovrastante il solido, mentre il punto triplo della
medesima sostanza eÁ uguale a 0,01 8C sotto la pressione di 4,58 mmHg esercitata dal vapore
dell'acqua pura a quella temperatura. Si noti anche che le pressioni corrispondenti alla curva
di sublimazione ST e a quella di evaporazione TC sono quelle sperimentali calcolate
riscaldando rispettivamente il ghiaccio e l'acqua in un recipiente chiuso precedentemente
svuotato dall'aria. Invece, le pressioni corrispondenti alla retta di fusione TA sono quelle a
cui il ghiaccio viene sottoposto comprimendolo in un recipiente che contiene anche un gas
inerte (per esempio azoto) sul quale, mediante uno stantuffo, vengono esercitate pressioni
via via crescenti. In altre parole, la retta TA rappresenta la variazione del punto di fusione del
ghiaccio al variare della pressione esterna.
Nel grafico della figura 15.1 il punto F eÁ il punto normale di fusione del ghiaccio
(0,00 8C); il punto E eÁ il punto normale di ebollizione dell'acqua (100,0 8C); il punto C eÁ il
punto critico dell'acqua (374 8C e 218 atm), oltre il quale non puoÁ esistere l'equilibrio
liquido-vapore, in quanto oltre la temperatura critica (374 8C), l'acqua esiste solo allo stato
di gas.
Pressione
(mmHg)
A (1,52×106 mmHg)
C (374 °C, 218 atm)
LIQUIDO
E
F
760
SOLIDO
Figura 15.1
.................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3
T
4,58
VAPORE
S
0,00 0,01
100,0
Temperatura (°C)
L'andamento esponenziale della curva ST (di sublimazione) e di quella TC (di
evaporazione) eÁ regolato dall'equazione di Clapeyron (si ricordi che, nell'equazione di
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4. Diagramma di fase dell'anidride carbonica
....................................................................................
4
Clapeyron, la temperatura eÁ espressa in kelvin):
dP
l
ˆ
dT TDV
giaÁ esaminata in precedenza.
Essa corrisponde alla derivata della funzione P ˆ f(T), e indica quindi la pendenza
delle curve in ogni punto: questo permette di definire l'andamento di tali curve, che
risulta crescente (derivata positiva), in quanto tutte le grandezze che compaiono nell'equazione, e cioeÁ l sublimazione oppure levaporazione , T, DV risultano positive: tutto questo
in accordo col fatto che la pressione di vapore di un solido o di un liquido aumenta
all'aumentare della temperatura.
La differente pendenza delle due curve puoÁ essere spiegata qualitativamente prolungando la curva di evaporazione TC oltre il punto triplo e tenendo conto che, a paritaÁ di
temperatura, la pressione di vapore di un liquido eÁ maggiore di quella della medesima
sostanza allo stato solido. Infatti, la libertaÁ di movimento, e quindi la facilitaÁ di evaporazione delle particelle di una sostanza in fase liquida, eÁ maggiore di quella delle
particelle della medesima sostanza in fase solida.
Anche l'andamento della curva di fusione TA (praticamente rettilineo), dal quale
risulta che il punto di fusione del ghiaccio diminuisce con l'aumentare della pressione
esterna (derivata negativa della retta), eÁ regolato dall'equazione di Clapeyron, tenendo
conto che in questo caso DV (Vliquido Vsolido ) eÁ negativo, in quanto la fusione del
ghiaccio si verifica con diminuzione di volume.1
Noto il diagramma di fase di una sostanza pura, eÁ possibile prevedere facilmente quali
devono essere le condizioni sperimentali piuÁ favorevoli per l'esistenza di una sola fase di
aggregazione della sostanza, oppure affinche due o tutte e tre le fasi di detta sostanza
possano coesistere in equilibrio.
Per esempio, prendendo in esame il diagramma di stato dell'acqua (fig. 15.1), ogni coppia di valori di pressione e di temperatura, arbitrariamente scelta, definisce un punto nel
diagramma. Se tale punto rappresentativo si trova in una delle tre regioni del diagramma
(solido, liquido o vapore) significa che, nelle condizioni sperimentali scelte, eÁ stabile la fase di
aggregazione della sostanza, in cui detto punto eÁ individuato. Se il punto rappresentativo
coincide con uno dei punti allineati su una delle tre linee ST, oppure TC, oppure TA, significa che nelle condizioni sperimentali da noi scelte, sono in equilibrio rispettivamente le fasi
solido-vapore, oppure liquido-vapore, oppure solido-liquido della sostanza. Se infine il punto rappresentativo coincide esattamente con il punto T del diagramma (punto triplo),
significa che abbiamo scelto l'unica condizione sperimentale (0,01 8C e 4,58 mmHg) nella
quale coesistono in equilibrio tutte e tre le fasi dell'acqua.
DIAGRAMMA DI FASE DELL'ANIDRIDE CARBONICA
Nella figura 15.2 viene riprodotto il diagramma sperimentale di fase dell'anidride
carbonica per il quale valgono le stesse regole illustrate per quello dell'acqua della figura
15.1. Questo diagramma si differenzia da quest'ultimo, essenzialmente perche il punto
triplo dell'anidride carbonica coincide con la temperatura di 57 8C e con la pressione di
5,2 atm, superiore cioeÁ a quella standard di 1 atm. Questo fatto significa che se, a partire
da temperature molto basse, riscaldiamo l'anidride carbonica solida sotto la pressione
esterna costante di 1 atm, la sostanza sublima alla temperatura di 78 8C senza passare
1
A pressioni enormemente elevate (oltre 1,52 106 mmHg ˆ 2000 atm) esistono altre strutture cristalline del
ghiaccio per le quali il passaggio di stato solido ! liquido si verifica con aumento di volume, per cui la retta TA assume
un andamento opposto, rappresentato con un tratteggio nella fig. 15.1.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 15.2
Diagramma di fase
dell'anidride carbonica.
.................................................................................................................................
15. Sistemi a un solo componente puro
Figura 15.3
Diagramma di fase
dello zolfo (non in
scala).
.............................................................................................................................................................................................
5
allo stato liquido (fig. 15.2).
Pressione
(atm)
LIQUIDO
SOLIDO
5,2
T
VAPORE
1,0
– 78
– 57
Temperatura (°C)
Infatti, dal diagramma di fase si vede chiaramente che la retta di equilibrio solido-liquido
esiste solo per valori di pressione esterna superiori a 5,2 atm.
Il fatto che l'anidride carbonica solida, sotto la pressione normale di 1 atm, si trovi in
equilibrio con i propri vapori alla temperatura di 78 8C, trova una pratica applicazione
con l'impiego di questa sostanza come refrigerante per la conservazione degli alimenti
(pesci, gelati, verdure). Il noto ghiaccio secco, cosõÁ denominato perche alla pressione di
1 atm sviluppa vapori senza fondere, non eÁ altro che anidride carbonica allo stato solido.
DIAGRAMMA DI FASE DELLO ZOLFO
Come noto, lo zolfo puro esiste in natura in due modificazioni cristalline (allotropia), e
precisamente quella rombica detta zolfo a che eÁ stabile alla temperatura ambiente fino a
95,5 8C, e quella monoclina detta zolfo b che eÁ stabile da 95,5 8C fino alla temperatura di
fusione (119 8C).
I dati sperimentali pressione-temperatura ottenuti riscaldando lo zolfo in un recipiente
chiuso precedentemente svuotato dell'aria, sono riassunti nel diagramma di fase riprodotto nella figura 15.3.
Pressione
(mmHg)
9,80 ×105
F
LIQUIDO
D
C
2,5 ×10-2
1,0 ×10-2
B
H
VAPORE
A
95,5
113
119
151 Temperatura (°C)
Nel diagramma, la curva AB esprime la variazione della pressione di vapore (pressione di
sublimazione) dello zolfo a (rombico) con la temperatura; quando quest'ultima diventa uguale
a 95,5 8C (pressione di sublimazione ˆ 10 2 mmHg), lo zolfo a passa a zolfo b (monoclino), e
la temperatura rimane costante durante tutto il tempo necessario per la trasformazione
(passaggio di fase cristallina). La curva BC esprime la variazione della pressione di
sublimazione dello zolfo (monoclino) con la temperatura; quando quest'ultima diventa uguale
a 119 8C (pressione di sublimazione ˆ 2,5 10 2 mmHg), lo zolfo b fonde e la temperatura
rimane costante durante tutto il tempo necessario per la fusione (passaggio di stato di
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QUESITI
aggregazione). La curva CD esprime la variazione della pressione di vapore dello zolfo liquido
con la temperatura. Raffreddando lo zolfo liquido, si verificano le trasformazioni inverse a
quelle ora descritte (enantiotropia). EÁ bene tuttavia precisare che la trasformazione da una
forma cristallina in un'altra avviene molto lentamente e pertanto riscaldando rapidamente lo
zolfo a, questo fonde alla temperatura di 113 8C senza trasformarsi in zolfo b (punto H del
grafico della figura 15.3); e cosõÁ pure, raffreddando rapidamente lo zolfo liquido, questo
cristallizza a 113 8C nella forma a, che eÁ instabile, invece che in quella b stabile a 119 8C. A sua
volta la forma b instabile si trasforma lentamente nella forma a stabile a temperatura ambiente.
Nel grafico della figura 15.3, le linee BF e CF esprimono rispettivamente l'andamento
del punto di trasformazione dello zolfo a in zolfo b, e del punto di fusione dello zolfo b,
con il variare della pressione esterna. Sempre nel diagramma di fase della figura 15.3 sono
state indicate le regioni del campo di esistenza delle diverse fasi dello zolfo (rombico,
monoclino, liquido e vapore). Si noti infine che il diagramma di fase dello zolfo cosõÁ come
riprodotto in figura 15.3, non eÁ in scala, e pertanto il punto normale di fusione
(P ˆ 1 atm) dello zolfo b coincide praticamente con quello di 119 8C ottenuto sperimentalmente riscaldandolo in assenza di aria.
Le due rette BF e CF si incontrano nel punto triplo F individuato dal valore della
pressione esterna uguale a 9,80 105 mmHg (1290 atm) e di quello della temperatura
uguale a 151 8C; prolungando queste due rette, si puoÁ facilmente verificare che a
pressioni superiori a 9,80 105 mmHg, lo zolfo a fonde senza passare a zolfo b, anche
se viene riscaldato lentamente. Pertanto possiamo affermare che il fenomeno del
polimorfismo dello zolfo non si verifica a pressioni esterne superiori a questo valore.2
.....................................................................................................................
QUESITI
1. Spiega le differenze fra un sistema omogeneo e un
sistema eterogeneo.
2. Definisci le fasi di un sistema eterogeneo.
3. Spiega la differenza fra il punto triplo e il punto di
fusione di una sostanza.
4. Perche la curva di sublimazione di una sostanza eÁ
piuÁ ripida della sua curva di evaporazione?
5. EÁ possibile tagliare a temperatura esterna costante
di 0 8C e a pressione esterna costante di 760 mmHg
una colonna di ghiaccio utilizzando una fune di
acciaio alle cui due estremitaÁ siano saldati due pesi (che rappresentano la sola forza esercitata sulla
colonna di ghiaccio)?
6. In che modo eÁ possibile far sublimare il ghiaccio?
7. Il ghiaccio puoÁ bollire?
8. In quali condizioni il ghiaccio non galleggia sull'acqua?
9. Che cos'eÁ il ghiaccio secco? Quali sono le sue applicazioni pratiche?
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20 esercizi interattivi
10. Perche non eÁ possibile pattinare su una lastra di
ghiaccio secco?
11. In quali condizioni non eÁ verificato il polimorfismo
dello zolfo?
12. Tenendo conto che l'acqua ha la massima densitaÁ a
4 8C e che il ghiaccio ha una densitaÁ minore di
quella dell'acqua, spiega perche non possono esistere strati profondi di acqua di mare con temperatura inferiore a 4 8C.
13. Indica un metodo pratico mediante il quale sia
possibile ottenere i dati sperimentali che definiscono i punti allineati rispettivamente sulle curve
ST, TC e TA del diagramma di stato dell'acqua
riprodotto nella figura 15.1.
14. Indica quante fasi vi sono in un sistema formato da
un'emulsione di acqua ed etere etilico.
15. Indica le fasi esistenti ai tre punti tripli stabili dello
zolfo.
16. Come si fa a liquefare il ghiaccio secco?
2
Infatti, se riscaldiamo lo zolfo rombico a pressioni superiori a 9,80 105 mmHg (1290 atm), il punto rappresentativo incontra prima la linea CF relativa agli equilibri solido-liquido, per cui lo zolfo rombico fonde senza passare a
monoclino. Invece, effettuando il riscaldamento a pressioni inferiori a 9,80 105 mmHg, il punto rappresentativo
incontra prima la linea BF relativa agli equilibri zolfo rombico-zolfo monoclino, e quindi, prima di fondere, lo zolfo
rombico si trasforma in monoclino.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
16
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1
.....................................................................
2
ProprietaÁ colligative
delle soluzioni
SOLUZIONI
Le soluzioni possono essere definite come una porzione di materia formata da due o piuÁ
sostanze pure, le cui molecole, intimamente e omogeneamente mescolate, sono distribuite in un'unica fase che puoÁ essere liquida, solida o gassosa. In dipendenza di cioÁ, si fa
una distinzione fra soluzioni liquide, soluzioni solide e soluzioni gassose.
Le soluzioni liquide sono quelle formate da uno o piuÁ liquidi sciolti in un altro liquido
(acqua ‡ alcol etilico); oppure da uno o piuÁ solidi sciolti in un liquido (saccarosio ‡
acqua), oppure da uno o piuÁ gas sciolti in un liquido (ossigeno ‡ acqua).
Le soluzioni solide sono quelle formate da uno o piuÁ solidi sciolti in un solido (per
esempio una lega rame ‡ zinco); oppure da un gas sciolto in un solido (azoto ‡ cromo).
Le soluzioni gassose sono quelle formate da due o piuÁ gas (come l'aria).
Le soluzioni piuÁ semplici sono quelle formate da due soli componenti, uno dei quali
viene detto solvente (quello presente in quantitaÁ maggiore), e l'altro viene detto soluto
(quello presente in quantitaÁ minore). In un capitolo precedente abbiamo giaÁ illustrato le
soluzioni sotto l'aspetto della loro concentrazione, del meccanismo di solubilitaÁ, dell'influenza della temperatura sulla quantitaÁ di soluto che puoÁ essere disciolto da una data
quantitaÁ di solvente; inoltre abbiamo anche fatto la distinzione fra le soluzioni degli
elettroliti e le soluzioni dei non elettroliti. Nel presente capitolo, in particolare, studieremo le relazioni che esistono fra la temperatura, la pressione e la concentrazione di
equilibrio, e le fasi di un sistema formato da due o piuÁ componenti puri.
Prima di affrontare questi problemi, eÁ bene precisare che faremo una distinzione fra
componenti volatili e componenti non volatili.
Sono volatili tutte quelle sostanze liquide o solide che hanno una pressione di vapore
apprezzabile alla temperatura ambiente; mentre tutte quelle sostanze che a temperatura
ordinaria non hanno una pressione di vapore o di sublimazione apprezzabile, possono
essere considerate non volatili.
ABBASSAMENTO DELLA PRESSIONE DI VAPORE
DI UNA SOLUZIONE
Le soluzioni diluite formate da un liquido e da uno o piuÁ soluti non volatili mostrano
proprietaÁ caratteristiche che dipendono esclusivamente dal numero di particelle di soluto
nella soluzione, indipendentemente dalla loro natura chimica. Simili proprietaÁ vengono
indicate con il nome di proprietaÁ colligative, ed esse comprendono:
.
.
.
.
l'abbassamento della pressione di vapore della soluzione (del solvente);
l'innalzamento del punto di ebollizione della soluzione;
l'abbassamento del punto di solidificazione della soluzione (del solvente);
la pressione osmotica della soluzione.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
..............................................................................................................................................................
3. Innalzamento del punto di ebollizione e abbassamento del punto di solidificazione di una soluzione
............................................................................................................................................................
3
Nelle relazioni che riguardano le proprietaÁ colligative, la concentrazione delle soluzioni
viene espressa in molalitaÁ. La molalitaÁ di una soluzione (m) viene definita dal rapporto fra
il numero di moli di soluto per ogni kilogrammo (1000 g) di solvente puro, ed essa puoÁ
essere calcolata mediante l'equazione:
molalita (m) ˆ
numero di moli di soluto (n)
massa del solvente (kg)
(16:1)
L'abbassamento (la depressione) della pressione di vapore di una soluzione eÁ legato al
fatto che, se consideriamo una soluzione diluita di un soluto non volatile in un solvente
liquido, la tensione di vapore della soluzione eÁ determinata solo dal solvente (A) che eÁ il
componente volatile.1
Poiche alla superficie della soluzione giungono non solo molecole di solvente, ma
anche molecole di soluto non volatile, si avraÁ come conseguenza che la tendenza a
volatilizzare del solvente risulta depressa dalla presenza contemporanea del soluto, col
risultato di un abbassamento della tensione di vapore della soluzione rispetto al solvente
puro. Si dimostra che tale abbassamento eÁ proporzionale alla molalitaÁ della soluzione:
DP ˆ PA0
PA ˆ KP m
(16:2)
in cui:
PA0 ˆ pressione di vapore del solvente puro A;
PA ˆ pressione di vapore del solvente A nella soluzione e quindi (essendo il soluto non
volatile) pressione di vapore della soluzione;
KP ˆ costante molale di abbassamento della pressione di vapore della soluzione;
m ˆ molalitaÁ della soluzione.
INNALZAMENTO DEL PUNTO DI EBOLLIZIONE (EBULLIOSCOPIA)
E ABBASSAMENTO DEL PUNTO DI SOLIDIFICAZIONE (CRIOSCOPIA)
DI UNA SOLUZIONE
A causa dell'abbassamento della pressione di vapore del solvente in una soluzione diluita
contenente un soluto non volatile, a ogni valore di temperatura, la pressione di vapore
della soluzione (P ˆ PA ) eÁ minore di quella del solvente puro (PA0 ) alla medesima temperatura. Questo fatto puoÁ essere rappresentato graficamente mediante la figura 16.1 che
riproduce il diagramma sperimentale di fase di solvente liquido (come l'acqua) e di una
sua soluzione diluita contenente un soluto non volatile.
Dall'andamento della pressione di vapore della soluzione, indicato dalla curva tratteggiata, si vede chiaramente che il punto di ebollizione della soluzione, per esempio quello te0
sotto la pressione di 1 atm, eÁ maggiore del punto di ebollizione te del solvente puro sotto la
stessa pressione. La differenza fra i valori di questi due punti prende il nome di
innalzamento del punto (normale) di ebollizione della soluzione, e viene indicato con Dte :
Dte ˆ te0
te
(16:3)
Sempre dal diagramma della figura 16.1 risulta che la curva della pressione di vapore della
soluzione, incontra la curva ST di sublimazione del solvente solido (il ghiaccio), a una
temperatura inferiore a quella del punto triplo (T) del solvente puro. Pertanto il punto triplo della soluzione coincide con il punto T 0 , nel quale a una ben definita pressione e
1
Si tenga presente che, in questo specifico caso, indichiamo con la lettera P (maiuscola) la pressione di vapore del
componente A in quanto si tratta dell'unico componente volatile presente nella soluzione e quindi, a rigore, non si tratta
di una pressione parziale (che verrebbe indicata con la lettera p minuscola).
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Pressione
(mmHg)
F´
LIQUIDO
F
E
E´
D
O
760 = 1 atm
LI
e
nt
lve ne
o
s
io
luz
so
T
VAPORE
T´
t´c
Temperatura
(°C)
tc
tc
te
t´e
{
S
{
Diagramma di fase
dell'acqua e di una
soluzione acquosa
diluita.
SO
Figura 16.1
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
16. ProprietaÁ colligative delle soluzioni
te
temperatura, coesistono in equilibrio il solido puro, la soluzione e il vapore. In conseguenza
di cioÁ, il punto di solidificazione della soluzione, come quello tc0 sotto la pressione di 1 atm, eÁ
minore del punto di solidificazione tc del solvente puro sotto la stessa pressione. La
differenza fra i valori di questi due punti, prende il nome di abbassamento del punto
(normale) di solidificazione (o di congelamento) della soluzione, e viene indicato con Dtc :
Dtc ˆ tc0
tc
(16:4)
Poiche sia il Dte che il Dtc di una soluzione diluita contenente un soluto non volatile sono una
diretta conseguenza dell'abbassamento della pressione di vapore della soluzione, che a sua
volta dipende dalla concentrazione del soluto, ne consegue che queste due grandezze sono
legate alla concentrazione del soluto da equazioni del tutto analoghe alla (16.2), e cioeÁ:
Dte ˆ Keb m
(16:5)
Dtc ˆ Kcr m
(16:6)
In queste equazioni:
m ˆ concentrazione molale del soluto;
Keb ˆ costante ebullioscopica: costante molale di innalzamento del punto di ebollizione
della soluzione;
Kcr ˆ costante crioscopica: costante molale di abbassamento del punto di congelamento
della soluzione.
Dalle relazioni (16.5) e (16.6) si vede come le costanti ebullioscopica e crioscopica
equivalgono rispettivamente all'innalzamento del punto di ebollizione e all'abbassamento
del punto di congelamento di una soluzione di molalitaÁ unitaria. In realtaÁ soluzioni simili non
sono sufficientemente diluite per poter applicare le relazioni sopra citate per cui Keb e Kcr
potrebbero essere considerate l'innalzamento del punto di ebollizione e l'abbassamento del
punto di congelamento di una soluzione di molalitaÁ unitaria che conservi il comportamento
tipico di una soluzione estremamente diluita. (Si tratta quindi di uno stato ipotetico.) Inoltre
la corrispondenza fra i valori teorici attesi e quelli sperimentali saraÁ tanto migliore quanto piuÁ i
soluti non siano volatili e non diano luogo a fenomeni associativi ne fra loro ne con il solvente.
Il valore numerico di queste due costanti dipende dalla natura del solvente, e generalmente per il medesimo solvente Keb eÁ diverso da Kcr.
EÁ bene precisare che, se una soluzione eÁ formata da due o piuÁ soluti non volatili, la
molalitaÁ m che compare nella (16.5) e nella (16.6), si puoÁ ottenere sommando semplicemente la molalitaÁ dei singoli soluti.
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.......................................................................................................................................................
4. Pressione osmotica
Tabella 16.1
Costanti ebullioscopiche e crioscopiche
di alcuni solventi
espresse in
8C kg mol 1 .
Figura 16.2
Due liquidi separati
da una membrana
semipermeabile.
....................................................................................................................................................................
4
Nella tabella 16.1 vengono riportate le costanti ebullioscopiche e crioscopiche di alcuni
solventi molto comuni.
Solvente
Punto normale di
ebollizione (88C)
Keb
100,0
0,512
acetone
56,5
1,73
alcol etilico
78,5
1,22
117,3
1,99
118,9
3,10
16,6
3,90
benzene
80,1
2,53
5,5
4,90
cloroformio
61,2
3,63
±
±
etere etilico
34,5
1,19
±
±
naftalina
±
±
80,22
7,00
nitrobenzene
±
±
5,7
6,90
acqua
acido acetico
Punto normale di
solidificazione (88C)
0,00
±
Kcr
1,86
±
* Questa unitaÁ di misura eÁ facilmente deducibile dalla 16.5 e dalla 16.6.
PRESSIONE OSMOTICA
Alcune membrane naturali o artificiali come per esempio la carta pergamena o il cellophane
vengono dette semipermeabili in quanto si lasciano attraversare solo dalle molecole di
alcune sostanze. Il meccanismo selettivo per il quale queste membrane mostrano simili
proprietaÁ, non eÁ completamente chiarito. Tuttavia, in alcuni casi, esso puoÁ essere
interpretato ammettendo che una membrana semipermeabile si comporti come un vero e
proprio filtro che lascia passare solo le particelle (le molecole) di una determinata grandezza.
Consideriamo ora un tubo di vetro a forma di U contenente in un braccio del solvente
puro, e nell'altro braccio una soluzione del medesimo solvente; i due liquidi siano inoltre
separati per mezzo di una membrana semipermeabile che si lasci attraversare dalle
molecole del solvente e non da quelle del soluto (fig. 16.2).
solvente
puro
soluzione
membrana
semipermeabile
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Figura 16.3
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
16. ProprietaÁ colligative delle soluzioni
In questa condizione accade che il numero di molecole di solvente che, in conseguenza del
loro caotico movimento, urtano contro la parete della membrana semipermeabile, in
contatto con il solvente puro, eÁ maggiore del numero di molecole di solvente che urtano
contro la parete della membrana in contatto con la soluzione. Pertanto, dato che la
membrana non puoÁ essere attraversata dalle molecole del soluto, il risultato netto eÁ quello
del passaggio di un certo numero di molecole di solvente verso la soluzione. Ovviamente un
fenomeno del tutto analogo si verifica se i due bracci del tubo della figura 16.2 sono riempiti
con due soluzioni dello stesso solvente aventi peroÁ una differente concentrazione: la
soluzione piuÁ diluita si comporta come il solvente puro, e pertanto si ha un passaggio netto
di alcune molecole di solvente dalla soluzione piuÁ diluita verso quella piuÁ concentrata.
Il flusso di molecole di solvente verso la soluzione, oppure il flusso di molecole di
solvente da una soluzione piuÁ diluita a quella piuÁ concentrata, attraverso una membrana
semipermeabile, eÁ noto con il nome di osmosi. Se la temperatura e la pressione sui due
bracci del tubo a U sono le medesime, a causa del fenomeno dell'osmosi, l'altezza del
livello della soluzione piuÁ concentrata aumenta, e il processo prosegue fino a quando la
pressione idrostatica della colonna di liquido di altezza h, che si eÁ formata nella soluzione
piuÁ concentrata, impedisce l'ulteriore flusso in essa di molecole di solvente (fig. 16.3).
Equilibrio spontaneo
nel fenomeno
osmotico.
Figura 16.4
h
solvente
puro
soluzione
membrana
semipermeabile
Il fenomeno dell'osmosi potrebbe essere impedito esercitando sulla soluzione piuÁ concentrata, mediante uno stantuffo, una pressione sufficiente da impedire il flusso delle
molecole di solvente (fig. 16.4).
Equilibrio forzato nel
fenomeno osmotico.
solvente
puro
soluzione
membrana
semipermeabile
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5. ProprietaÁ colligative delle soluzioni acquose degli elettroliti
.............................................................................................................................
5
Ebbene, la pressione che deve essere applicata sopra una soluzione affinche del solvente
puro non attraversi la membrana semipermeabile che la separa da un'altra soluzione piuÁ
diluita, o dal solvente puro, viene detta pressione osmotica (p) della soluzione.
Tutte le esperienze pratiche hanno mostrato che la pressione osmotica di una soluzione, a una data temperatura, dipende solo dalla sua concentrazione, quindi solo dal
numero di particelle di soluto in essa contenute, indipendentemente dalla loro natura.
Pertanto anche la pressione osmotica eÁ una proprietaÁ colligativa di una soluzione.
Il calcolo teorico della pressione osmotica di una soluzione viene effettuato applicando
l'equazione:
pV ˆ n RT
(16:7)
in cui:
p ˆ pressione osmotica della soluzione (atm);
V ˆ volume della soluzione (L);
n ˆ numero di moli di soluto;
R ˆ costante universale dei gas (0,082 L atm mol 1 K 1 );
T ˆ temperatura assoluta della soluzione.
Se la soluzione in esame contiene due o piuÁ soluti, la grandezza n della (16.7) va sostituita
con la somma del numero di moli di tutti i soluti; inoltre, dato che il rapporto n/V (moli
di soluto/volume della soluzione in litri) esprime la concentrazione molare del soluto, e
dato che per soluzioni molto diluite la molaritaÁ (M) e la molalitaÁ (m) di una soluzione
sono praticamente coincidenti, la (16.7) puoÁ anche essere scritta nella forma:
p ˆ m RT
(16:8)
Si deve infine sottolineare che, poiche le proprietaÁ colligative delle soluzioni sono indipendenti dalla natura del soluto, ma dipendono solo dal numero delle sue particelle, si ha
come conseguenza che soluzioni di soluti diversi nel medesimo solvente, aventi peroÁ la
stessa concentrazione, alla medesima temperatura, hanno uguale pressione osmotica
(isotoniche), uguale abbassamento della pressione di vapore, uguale abbassamento del
punto di congelamento e uguale innalzamento del punto di ebollizione.
PROPRIETAÁ COLLIGATIVE DELLE SOLUZIONI ACQUOSE
DEGLI ELETTROLITI
Come eÁ noto, gli elettroliti in soluzione (generalmente acquosa) subiscono il fenomeno
della dissociazione elettrolitica, in conseguenza del quale da ogni particella di elettrolita
che si dissocia, si formano due o piuÁ particelle denominate ioni. Dato che le proprietaÁ
colligative delle soluzioni dipendono in pratica dal numero di particelle di soluto, e sono
indipendenti dalla loro natura, ne consegue che i dati sperimentali relativi alle proprietaÁ
colligative delle soluzioni degli elettroliti non coincidono con quelli che possono essere
dedotti teoricamente, cioeÁ in assenza della dissociazione elettrolitica. In particolare, una
soluzione acquosa di un non elettrolita, per esempio una soluzione 0,1 m di saccarosio, a
paritaÁ di tutte le altre condizioni, ha la pressione osmotica, l'innalzamento del punto di
ebollizione, l'abbassamento del punto di congelamento, la depressione della pressione di
vapore minori di quelli corrispondenti posseduti da una soluzione acquosa 0,1 m di
cloruro di sodio, in quanto quest'ultimo, in seguito a dissociazione totale, libera un
numero doppio di particelle (un catione Na‡ e un anione Cl per ogni particella NaCl).
Pertanto, poiche il valore teorico della proprietaÁ colligativa della soluzione di un elettrolita eÁ minore di quello calcolabile sperimentalmente, affinche i valori numerici di
queste due grandezze coincidano, eÁ necessario moltiplicare il valore teorico della proprietaÁ colligativa della soluzione per un fattore correttivo maggiore di uno.
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16. ProprietaÁ colligative delle soluzioni
.............................................................................................................................
QUESITI
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20 esercizi interattivi
1. Elenca le proprietaÁ colligative di una soluzione e precisane sommariamente le caratteristiche distintive.
7. Illustra le caratteristiche peculiari di una membrana semipermeabile.
2. Da quale fattore principale dipende la proprietaÁ
colligativa di una soluzione?
8. Illustra il fenomeno dell'osmosi.
3. Definisci la concentrazione molale di un soluto in
una soluzione e spiega perche questa grandezza eÁ
indipendente dalla temperatura.
4. Quale altra grandezza che esprime la concentrazione di un soluto in una soluzione eÁ indipendente
dalla temperatura?
5. Con tre moli di un dato soluto si prepara, a temperatura ambiente, una soluzione acquosa 3 M.
Spiega perche la molalitaÁ della medesima soluzione
eÁ maggiore della sua concentrazione molare.
6. Considera le due equazioni:
Dte ˆ Keb m
e Dtc ˆ Kcr m
Attribuisci un significato concreto alla costante
ebullioscopica (Keb ) e a quella crioscopica (Kcr ) del
solvente.
9. Quali caratteristiche comuni hanno due soluzioni
isotoniche di due soluti diversi?
10. Qual eÁ la grandezza che permette di passare dalla
molaritaÁ alla molalitaÁ di una soluzione?
11. Produce un maggior abbassamento del punto di
congelamento di una soluzione acquosa l'aggiunta
a un litro di acqua di 100 g di glicerina (P.M. ˆ
92,1 u) o di glicole etilenico (P.M. ˆ 62 u)?
12. A paritaÁ di concentrazione molare, eÁ maggiore la
pressione osmotica di una soluzione di acido
acetico o di acido cloridrico?
13. Se, in un tubo a U, i cui bracci sono separati da
una membrana semipermeabile, contenente da
una parte solvente puro e dall'altra una soluzione,
si applica, dalla parte della soluzione, una pressione maggiore della pressione osmotica, quale fenomeno avviene?
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17
..................................................................................................................
1
..........................................................................................................................
2
I sistemi termodinamici
OGGETTO DELLA TERMODINAMICA CHIMICA
Perche avviene una reazione chimica? A questa domanda che ci siamo posti fin da quando
abbiamo iniziato a studiare i fenomeni chimici si potrebbe rispondere: le sostanze reagiscono fra loro perche hanno affinitaÁ chimica l'una per l'altra.
La risposta sarebbe troppo superficiale, e certamente non ci consentirebbe di prevedere quando le specie chimiche possono reagire, e tanto meno di comprendere percheÂ
da esse si formano determinati prodotti piuttosto che altri. Di qui la necessitaÁ di una
esatta valutazione dei fenomeni chimici, che svincolata da qualsiasi empirismo, ci consenta di esprimere con un numero l'affinitaÁ chimica delle sostanze.
Questa naturale esigenza viene pienamente soddisfatta dalla termodinamica chimica,
il cui obiettivo principale eÁ appunto l'interpretazione dei fenomeni chimici mediante leggi
generali per mezzo delle quali sia possibile:
1. Prevedere se in determinate condizioni sperimentali una reazione chimica puoÁ avvenire spontaneamente.
2. Calcolarne la resa teorica.
3. Avere precise indicazioni sulle condizioni piuÁ adatte affinche la resa della reazione sia
massima.
CALORE E LAVORO
Per risolvere il problema dell'affinitaÁ chimica delle sostanze, eÁ necessario anzitutto prendere
in esame le relazioni fra due forme di energia: il calore e il lavoro. Il calore potremmo
definirlo come energia che si trasmette spontaneamente da un corpo piuÁ caldo a uno piuÁ
freddo facendo aumentare la temperatura di quest'ultimo; il lavoro come energia che viene
prodotta quando una forza agisce nello spazio.1 Ebbene, come vedremo, l'interdipendenza
fra questi due diversi aspetti dell'energia viene completamente chiarita dalla termodinamica, scienza che si articola essenzialmente su due principi dedotti dall'esperienza:
. il primo principio stabilisce che esiste una equivalenza fra il calore e il lavoro (meccanico,
elettrico, magnetico ecc.);
. il secondo principio stabilisce che non eÁ possibile trasformare integralmente il calore in
lavoro.
1
L'unitaÁ di misura del calore eÁ la caloria (cal); 1 cal eÁ la quantitaÁ di calore che bisogna fornire a 1 g di acqua distillata
e disaerata per portare la sua temperatura da 14,5 8C a 15,5 8C, alla pressione atmosferica. Molto spesso viene usata
l'unitaÁ pratica kilocaloria (kcal); 1 kcal ˆ 1000 cal.
Nel Sistema Internazionale (S.I.), calore e lavoro, essendo entrambi forme di energia, vengono espressi con la stessa
unitaÁ di misura, e cioeÁ il joule ( J): un joule eÁ il lavoro compiuto dalla forza di 1 N quando il suo punto di applicazione si
sposta di 1 m nella direzione in cui essa agisce.
197
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
17. I sistemi termodinamici
Figura 17.1
Sistema termodinamico.
Figura 17.2
Sistema termodinamico.
Figura 17.3
..................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3
SISTEMA, CONTORNO E AMBIENTE
La deduzione dei due principi della termodinamica presuppone la definizione:
.
.
.
.
del sistema termodinamico;
del contorno del sistema;
dell'ambiente esterno;
delle grandezze di stato.
Sistema termodinamico: si definisce sistema termodinamico una o piuÁ sostanze che
possono reagire fra loro (sistema chimico), oppure possono essere chimicamente inerti
(sistema fisico). Per esempio, una data massa di gas che si espande in un cilindro (sistema
fisico), o una data massa di idrogeno e di cloro che reagiscono in un recipiente (sistema
chimico), sono sistemi termodinamici. I sistemi termodinamici sono sempre costituiti da
una parte percettibile di materia, e quindi, essendo dotati di massa, occupano una porzione
piuÁ o meno limitata dello spazio.
contorno
del
sistema
contorno
del
sistema
gas
sistema
termodinamico
Contorno del sistema: il contorno del sistema eÁ identificabile con la superficie chiusa,
reale o ideale, che delimita il sistema. Le pareti del cilindro, o le pareti del recipiente degli
esempi precedenti, sono il contorno del sistema (figg. 17.1 e 17.2).
contorno
del
sistema
idrogeno +
cloro =
acido
cloridrico
contorno
del
sistema
sistema
termodinamico
Ambiente esterno o esterno: l'ambiente esterno al sistema eÁ identificabile con tutti i
corpi materiali o con tutte le sorgenti di energia ad immediato contatto con esso e che
possono scambiare energia, oppure materia, oppure ambedue, con il sistema stesso
(figg. 17.3 e 17.4).
Sistema termodinamico e il suo esterno.
gas
contorno
del sistema
sistema
ambiente
esterno
198
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 17.4
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3. Sistema, contorno e ambiente
ambiente
esterno
(Ag⫹NO⫺3 )
Sistema termodinamico e il suo esterno.
Figura 17.5
Sistema isolato.
Na+ Cl−
contorno
del sistema
sistema
ambiente
esterno
A sua volta il sistema termodinamico viene classificato in: isolato, chiuso e aperto. Il sistema
si dice isolato quando vengono presi in esame contemporaneamente il sistema e il suo
esterno. Un sistema isolato non puoÁ scambiare energia e materia con l'esterno2 (fig. 17.5).
contorno
gas
sistema
esterno
Il sistema si dice chiuso quando la sua massa eÁ costante nel tempo, e cioeÁ attraverso il suo
contorno non puoÁ avvenire trasferimento di materia. Un sistema chiuso puoÁ scambiare
con l'esterno solo energia (fig. 17.3).
Il sistema termodinamico si dice aperto quando esso puoÁ scambiare con l'esterno sia
energia sia materia (fig. 17.4).
EÁ bene sottolineare che un sistema termodinamico costituito da sostanze in reazione
(sistema chimico) eÁ a rigore un sistema chiuso perche la massa totale del sistema, anche
dopo la reazione, eÁ rimasta inalterata sebbene sia variata la sua composizione. Tuttavia un
sistema chimico puoÁ essere anche considerato aperto, in quanto idealmente eÁ possibile
passare dallo stato iniziale (prima della reazione), allo stato finale (a reazione avvenuta),
sottraendo dal sistema, attraverso il suo contorno, i reagenti e aggiungendovi i prodotti
della reazione.
Grandezze di stato o variabili di stato: se in meccanica la posizione (lo stato) di un
corpo in quiete eÁ individuata quando sono noti i valori delle coordinate condotte dal
baricentro del corpo alla terna degli assi cartesiani scelta come riferimento, in termodi2
Solo l'Universo eÁ un sistema isolato.
199
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17. I sistemi termodinamici
..............................................
4
namica lo stato di un sistema, per esempio una mole di gas, eÁ noto quando si conoscono i
valori assunti in quello stato dalle tre grandezze fisiche: pressione (P), temperatura assoluta
(T), e volume (V). A queste tre grandezze eÁ stato dato il nome di variabili di stato, in
quanto il loro valore ci consente di individuare un solo stato del sistema il quale puoÁ
essere facilmente riprodotto.
Per esempio, lo stato di una mole di gas che alla temperatura T ˆ 273 K esercita
la pressione P ˆ 760 mmHg e occupa un volume V ˆ 22,414 L, non solo eÁ diverso
dallo stato della stessa mole di gas quando essa si trova alla temperatura di 293 K, ma
puoÁ essere facilmente riprodotto purche le grandezze di stato assumano di nuovo i
valori:
T ˆ 273 K
P ˆ 760 mmHg
V ˆ 22,414 L
L'individuare o il poter riprodurre lo stato di un sistema materiale mediante le proprietaÁ
macroscopiche della materia (pressione, temperatura, volume), che possono essere
facilmente misurate, eÁ condizione essenziale per la termodinamica, la quale, ignorando
volutamente le teorie atomiche-molecolari legate agli aspetti microscopici del sistema (ai
microstati), ci fornisce tuttavia i metodi piuÁ generali e piuÁ efficaci per studiare e
comprendere i fenomeni naturali.
Se la termodinamica «classica» non prende in considerazione l'aspetto «microscopico» dei sistemi, la termodinamica statistica si fonda invece sul presupposto
dell'esistenza degli atomi e delle molecole, elaborando dei metodi che permettono di
dedurre le proprietaÁ macroscopiche in base al comportamento delle particelle che
costituiscono il sistema; e la meccanica quantistica prende l'avvio dal principio che
l'energia (particolarmente a livello atomico e subatomico) venga scambiata dalle
particelle non secondo valori continui, ma per quantitaÁ «discrete», cioeÁ in modo
discontinuo.
Uno studio della termodinamica che tenga conto anche dei concetti di base di queste
ultime due discipline, oltre a darci la possibilitaÁ di approfondire la conoscenza delle
grandezze molecolari, ci permetteraÁ di interpretare sotto nuovi e piuÁ ampi punti di vista
gli stessi concetti della termodinamica «classica».
EÁ bene anche sottolineare che una caratteristica peculiare delle variabili di stato (P, V, T),
e cosõÁ pure di tutte le funzioni di stato che verranno in seguito definite, eÁ che la loro
variazione per il passaggio del sistema da uno stato iniziale (1) a uno stato finale (2) non
dipende dai valori intermedi assunti dalla variabile, o come comunemente si dice, non
dipende dal cammino percorso dal sistema, ma dipende esclusivamente dai valori assunti
dalla variabile nello stato finale e in quello iniziale. Per esempio, se una data massa di gas
passa da una pressione P1 ˆ 1 atm a una pressione P2 ˆ 10 atm, la variazione della
pressione del gas eÁ DP ˆ 10 1 ˆ 9 atm, indipendentemente dal modo in cui il sistema eÁ
passato dallo stato iniziale a quello finale.
FUNZIONI DI STATO
Un sistema termodinamico, vale a dire una o piuÁ sostanze oggetto dei nostri studi,
possiede delle caratteristiche proprietaÁ che vengono espresse dalle relative grandezze.
Alcune di queste grandezze, come per esempio la massa, la densitaÁ, la composizione
molare, il volume, la pressione e la temperatura ci sono familiari, altre invece, come
l'energia interna, l'entalpia, l'entropia e l'energia libera non lo sono altrettanto. Questo
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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4. Funzioni di stato
perche con queste ultime grandezze vengono esaminate quelle proprietaÁ dei sistemi
termodinamici mediante le quali eÁ possibile studiarne il comportamento secondo i metodi
dettati dalla termodinamica.3 Quest'ultima, come giaÁ sottolineato, studia le trasformazioni delle diverse forme di energia che si verificano quando un sistema termodinamico, venendo a interagire con altri sistemi o con l'ambiente che lo circonda, passa a
una condizione (stato) finale che eÁ in genere diversa da quella iniziale (evoluzione del
sistema). Pertanto, uno dei primi compiti della termodinamica eÁ quello di descrivere, in
qualsiasi momento, lo stato in cui si trova un sistema termodinamico, e cioÁ implica la
conoscenza di una serie di proprietaÁ e relative grandezze del sistema, mediante le quali
tutte le altre proprietaÁ possano essere determinate. Ora noi diciamo che conosciamo lo
stato di un sistema termodinamico quando conosciamo i valori di una minima serie di
parametri (pressione, temperatura, massa, volume ecc.) dai quali dipendono queste
proprietaÁ (grandezze); inoltre, poicheÂ, la conoscenza di questi parametri ci fornisce la
conoscenza dello stato del sistema, essi prendono il nome di parametri di stato o anche di
variabili di stato o di grandezze di stato. A loro volta, tutte quelle proprietaÁ del sistema, o
meglio, tutte quelle grandezze del sistema (per esempio energia interna, entalpia, entropia
e cosõÁ via) i cui valori dipendano esclusivamente dai parametri di stato, prendono il nome
di funzioni di stato del sistema. Il valore di una funzione di stato eÁ pertanto determinato
unicamente dai valori che i parametri di stato assumono nelle condizioni (nello stato) in
cui si trova il sistema che stiamo studiando.
Per i sistemi chimici, e cioeÁ per sostanze in reazione, tipici parametri di stato sono la
temperatura (T), la pressione (P), il volume (V) e la composizione molare o frazioni molari
(n1, n2, n3, ...) del sistema;4 tipiche funzioni di stato sono l'energia interna (U), l'entalpia
(H), l'entropia (S) e l'energia libera (G) del sistema.
La dipendenza delle funzioni di stato del sistema dalle variabili (parametri) di stato del
sistema viene simboleggiata con equazioni generali del tipo5
U ˆ f (P, V , n1 , n2 , n3 , :::)
H ˆ f (P, T, n1 , n2 , n3 , :::)
G ˆ f (T, P, n1 , n2 , n3 , :::)
S ˆ f (T, P, n1 , n2 , n3 , :::)
valide per sistemi chimici formati da piuÁ di una sostanza in reazione; oppure equazioni
generali del tipo:
U ˆ f (P, V , n)
H ˆ f (P, T, n)
U ˆ f (P, T, n)
P ˆ f (U, V , n)
T ˆ f (P, V , n)
valide per sistemi chimici formati da una sola sostanza in reazione; oppure da equazioni
generali del tipo:
U ˆ f (P, T)
P ˆ f (U, V )
H ˆ f (P, T)
T ˆ f (U, V )
T ˆ f (P, V )
valide per sistemi chimici formati da una quantitaÁ definita (una mole) di sostanza in
reazione.
3
Con la parola termodinamica si deve intendere la termodinamica classica, e cioeÁ quella scienza che studia le leggi
generali che governano la trasformazione di sistemi materiali costituiti da quantitaÁ apprezzabile di materia, e non le leggi
che governano il comportamento delle singole particelle (atomi, molecole, ioni) che li costituiscono.
4
Con i simboli n1, n2, n3, ... si indicano il numero di moli di ciascuna delle sostanze che costituiscono il sistema
chimico.
5
Si legga: «U uguale f (funzione) di P, V, n1, n2, n3, ...; H uguale f di P, T, n1, n2, n3, ...; G uguale f di T, P, n1, n2,
n3, ...»; e cosõÁ via.
201
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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17. I sistemi termodinamici
In tutte queste equazioni, il simbolo della grandezza che si trova a sinistra del segno di
uguaglianza rappresenta la funzione di stato del sistema (la variabile dipendente); il
simbolo o i simboli delle grandezze che si trovano all'interno della parentesi, a destra del
segno di uguaglianza, rappresentano i parametri di stato (le variabili indipendenti) da cui
dipende la funzione di stato (la variabile dipendente); la lettera f rappresenta l'operazione
o le operazioni matematiche necessarie per calcolare il valore di una funzione di stato noti
i valori dei parametri di stato da cui essa dipende. Da quanto sopra detto, possiamo anche
dire che le simboleggiature con le quali viene indicata la dipendenza delle funzioni di
stato del sistema dai parametri di stato del sistema indicano che esiste una formula
matematica mediante la quale eÁ possibile calcolare il valore di una funzione di stato una
volta che siano noti i valori dei parametri di stato del sistema, nonche le relazioni
matematiche che legano fra loro detti parametri. Queste relazioni matematiche prendono
il nome di equazioni di stato del sistema, tuttavia la determinazione delle loro formule
analitiche non eÁ compito della termodinamica la quale, pur utilizzando queste equazioni,
prende semplicemente atto che esse esistono.
Dagli esempi sopra riportati, utilizzati per indicare in quale modo si esprime la
dipendenza delle funzioni di stato del sistema dalle variabili di stato del sistema, si vede
chiaramente che non esiste una distinzione precisa tra parametri di stato e funzioni di
stato, in quanto una medesima grandezza, come per esempio la temperatura, puoÁ essere
un parametro di stato del sistema (una variabile indipendente) come nell'equazione
generale:
U ˆ f (P, T)
in base alla quale, note la pressione e la temperatura del sistema, si puoÁ calcolare la sua
energia interna; oppure essa puoÁ essere una funzione di stato del sistema (una variabile
dipendente) come nell'equazione generale:
T ˆ f (U, V )
in base alla quale, noti l'energia interna e il volume del sistema, si puoÁ calcolare la sua
temperatura.
Ora, dato che al variare dei valori dei parametri di stato variano anche quelli delle
funzioni di stato del sistema, a causa della dipendenza di queste ultime dalle prime, ne
consegue che per descrivere lo stato di un sistema termodinamico, cioeÁ le sue proprietaÁ, eÁ
necessario che siano noti con esattezza i valori di tutti quei parametri che definiscono
queste proprietaÁ. Tali parametri per i sistemi chimici, sono la temperatura, la pressione (o
il volume) e il numero di moli di ciascuna sostanza che costituisce il sistema. Inoltre,
poiche solo in condizioni di equilibrio del sistema, come per esempio di un sistema
chimico, il numero di moli di ciascun componente eÁ univocamente determinato, e cosõÁ
pure lo sono la pressione, il volume e la temperatura,6 ne consegue che l'esatta descrizione
dello stato di un sistema chimico, e in generale di un qualsiasi sistema termodinamico,
puoÁ essere fatta solo se quest'ultimo si trova in equilibrio con tutti gli altri corpi con i quali
eÁ in contatto, e cioeÁ quando esso eÁ in equilibrio con l'ambiente che lo circonda.7 Questo
fatto comporta che le funzioni di stato di un sistema termodinamico, data la loro
dipendenza dai parametri di stato, possono essere definite, o in altre parole, assumono un
significato termodinamico, solo se il sistema si trova in uno stato di equilibrio: le funzioni
di stato descrivono solo stati di equilibrio dei sistemi termodinamici.
6
Solo in condizioni di equilibrio il valore di ciascuno di questi parametri eÁ uguale in ogni parte del sistema.
Se per esempio i valori della temperatura e/o della pressione esterne al sistema (dell'ambiente esterno) non
coincidessero con quelle del sistema, quest'ultimo non si troverebbe in equilibrio: esso tenderaÁ a raggiungerlo modificando i valori di questi parametri fino a quando essi coincideranno con quelli dell'ambiente esterno.
7
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
6. Trasformazioni aperte e trasformazioni chiuse o cicliche
...............................................................................................
5
Figura 17.6
.......................................................................................................................................................................................................................
6
SISTEMI A DUE E A TRE VARIABILI
Molto spesso prenderemo in esame le trasformazioni del sistema termodinamico concettualmente piuÁ semplice ovvero quelle di una mole di gas perfetto, in quanto le trasformazioni subite da un tale sistema possono essere rappresentate in un diagramma delimitato da due assi cartesiani ortogonali (per esempio pressione-volume, P/V). Infatti, per
individuare ad ogni istante lo stato di un simile sistema, sono sufficienti due sole delle tre
variabili di stato (P, V, T), e pertanto il sistema eÁ a due variabili.8
Qualunque altro sistema termodinamico, come per esempio un sistema chimico, eÁ a
piuÁ di due variabili (una di queste eÁ quella legata alla variazione della composizione del
sistema durante la reazione), e pertanto in questo caso, una qualsiasi trasformazione subita dal sistema deve essere rappresentata solo nello spazio tridimensionale.
Tuttavia, anche servendoci del modello costituito da un sistema ideale (una mole di gas
perfetto), le leggi generali per esso dedotte possono essere estese, come vedremo, anche ai
sistemi reali (sistemi chimici).
TRASFORMAZIONI APERTE E TRASFORMAZIONI CHIUSE
O CICLICHE
Se una mole di gas perfetto (sistema chiuso a due variabili), passa con continuitaÁ da uno
stato iniziale (1) individuato dai valori P1 della pressione e V1 del volume, ad uno stato
finale (2), diverso da quello iniziale, definito dai valori P2 e V2 delle medesime variabili di
stato, diremo che il sistema ha subito una trasformazione aperta. Se invece la trasformazione eÁ tale che il sistema, dopo essere passato con continuitaÁ attraverso successivi stati
sempre diversi tra loro, torna nel medesimo stato iniziale, diremo che esso ha subito una
trasformazione chiusa, o come comunemente si dice, che ha descritto un ciclo.
Questi due tipi di trasformazione sono rappresentati, nel piano P/V, dalle figure 17.6 e
17.7 rispettivamente.
P
Trasformazione aperta.
Figura 17.7
2
P2
1
P1
0
V1
V2
V
P
Trasformazione ciclica.
1= 2
0
V
8
Per una mole di gas perfetto, essendo valida l'equazione PV ˆ RT, note due variabili di stato eÁ automaticamente
definita anche la terza.
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17. I sistemi termodinamici
Figura 17.8
Criterio egoistico.
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7
Durante la trasformazione, sia essa aperta oppure ciclica, fra il sistema e il suo esterno
avvengono scambi di energia sia sotto forma di calore (scambi termici), sia sotto forma di
lavoro meccanico (scambi meccanici o dinamici).9
Le piuÁ comuni trasformazioni di un sistema termodinamico possono essere:
.
.
.
.
isoterme: il sistema evolve a temperatura costante;
isocore: il sistema evolve a volume costante;
isobare: il sistema evolve a pressione esterna costante;
adiabatiche: il sistema evolve senza scambiare calore con l'esterno.
CONVENZIONE DEI SEGNI
Purtroppo non esiste unitaÁ di indirizzo in tutta la letteratura specializzata sulla convenzione del segno, positivo o negativo, con cui indicare quando una certa quantitaÁ di calore
o di lavoro viene ceduta dal sistema all'ambiente esterno o viceversa. I criteri comunemente seguiti sono due: il criterio egoistico e il criterio misto.
Nel criterio egoistico, si eÁ convenuto di assumere come protagonista il sistema termodinamico, e pertanto si fa precedere dal segno positivo l'energia (calore o lavoro) che il
sistema riceve dall'esterno e dal segno negativo l'energia (calore o lavoro) che il sistema
cede all'esterno. Indicando rispettivamente con i simboli Q e L il calore e il lavoro
scambiati dal sistema, risulta (fig. 17.8):
calore assorbito dal sistema: ‡Q
calore ceduto dal sistema: Q
lavoro compiuto sul sistema: ‡L
lavoro compiuto dal sistema: L
ESTERNO
calore (+)
lavoro (+)
SISTEMA
calore (–)
lavoro (–)
ESTERNO
Invece in base al criterio misto, si fa precedere dal segno positivo il calore assorbito dal
sistema e dal segno negativo il calore ceduto dal sistema (come nel criterio egoistico);
mentre si fa precedere dal segno negativo il lavoro compiuto sul sistema e dal segno
positivo il lavoro compiuto dal sistema (fig. 17.9):
calore assorbito dal sistema: ‡Q
calore ceduto dal sistema: Q
lavoro compiuto sul sistema: L
lavoro compiuto dal sistema: ‡L
9
Con il termine scambi si deve intendere indifferentemente energia trasferita dal sistema all'esterno o viceversa.
Inoltre, in genere, un sistema puoÁ scambiare con l'esterno oltre che lavoro meccanico, lavoro di altra natura, per esempio
elettrico.
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Criterio misto.
8
............................................................................................................................................................................................
Figura 17.9
...................................................................................................................
8. Principio zero della termodinamica
ESTERNO
calore (+)
lavoro (–)
SISTEMA
calore (–)
lavoro (+)
ESTERNO
I due criteri differiscono pertanto solo per il segno che precede il lavoro scambiato. Noi seguiremo il criterio misto, il quale, oltre ad essere adottato dalla maggior parte degli
Autori, trova la sua giustificazione nella teoria dei cicli motori che fu uno dei primi
problemi affrontati dalla termodinamica. Vedremo comunque, una volta formulato
analiticamente il primo principio della termodinamica, che adottando l'uno o l'altro
criterio si perviene sempre ai medesimi risultati.
PRINCIPIO ZERO DELLA TERMODINAMICA
Abbiamo giaÁ definito il calore come una forma di energia che fluisce tra due corpi,
e cioeÁ da quello piuÁ caldo a quello piuÁ freddo. EÁ necessario a questo punto definire meglio cosa si intende per «caldo» e «freddo», indipendentemente dalle nostre
sensazioni soggettive su tali qualitaÁ possedute dai corpi. Una misura oggettiva di
queste proprietaÁ viene definita dalla temperatura, grandezza caratteristica di ogni
corpo, come il volume o la pressione. Essa eÁ un indice dello stato di agitazione termica
delle particelle costituenti il corpo: piuÁ intensi sono i movimenti delle particelle (cioeÁ
piuÁ elevata eÁ la loro energia cinetica media), piuÁ alta saraÁ la temperatura, che indica
percioÁ il livello termico raggiunto dal corpo. Si verifica sperimentalmente che due
corpi di natura diversa, a cui eÁ stata fornita la stessa quantitaÁ di calore, conseguono un
diverso innalzamento di temperatura (si dice che essi hanno una diversa «capacitaÁ
termica»).
La possibilitaÁ di misurare la temperatura di un corpo si basa sul principio zero della
termodinamica, che dice:
due corpi in equilibrio termico con un terzo, sono in equilibrio termico tra loro.
Essere in equilibrio termico significa allora avere la stessa temperatura: ne deriva che, una
volta stabilita la temperatura di un corpo di riferimento (termometro) in funzione di certe
sue proprietaÁ (come la pressione, o il volume, o una proprietaÁ elettrica, ottica ecc.),
mettendo questo corpo a contatto con un altro di cui si vuole misurare la temperatura,
all'equilibrio, si dovraÁ verificare che le temperature dei due corpi sono le stesse: nota
quindi la temperatura del termometro, questa saraÁ anche la temperatura del corpo in
esame. Se qualsiasi altro corpo, posto a contatto col termometro, determina la stessa
variazione della proprietaÁ caratteristica dello strumento, significa che tale corpo ha la
stessa temperatura del precedente: se i due corpi fossero posti a contatto, si troverebbero
in equilibrio termico, e non vi sarebbe alcuno scambio di calore tra loro (il calore fluisce
solo se vi eÁ differenza di livello termico, cioeÁ di temperatura, tra due corpi).
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
..........................................................................
17. I sistemi termodinamici
Il termometro ideale, che non si basa su sostanze particolari, come il mercurio, l'alcol ecc.
(le cui proprietaÁ non variano sempre regolarmente con la temperatura) eÁ il termometro a
gas perfetto, per il quale vale la relazione (a pressione costante):
V1 V2
ˆ
T1 T2
Quindi il volume di un gas perfetto (misurato a pressione costante) puoÁ essere usato come
indice della temperatura del gas stesso e degli altri corpi con cui viene messo a contatto,
una volta scelto un punto di riferimento per la temperatura; attualmente il punto di
riferimento scelto eÁ il punto triplo dell'acqua,10 alla cui temperatura si attribuisce il valore
di 273,16 K.
1. Come si definiscono calore e lavoro?
2. Qual eÁ l'unitaÁ di misura del calore nel S.I.?
3. Definisci la caloria e il joule.
.........................................................................................................................
QUESITI
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
13. Se il corpo A eÁ in equilibrio termico con il corpo B
e questo eÁ in equilibrio termico con il corpo C,
mettendo a contatto A e C puoÁ fluire del calore tra
i due corpi?
4. Come si definisce una grandezza di stato? E una
variabile di stato?
14. Esiste una vera differenza tra variabile di stato e
funzione di stato?
5. Che cos'eÁ una trasformazione ciclica?
15. Elenca diverse forme di energia.
6. Che cos'eÁ un processo adiabatico?
7. Come si definisce un sistema isolato?
8. Qual eÁ la condizione affinche il calore passi da un
corpo a un altro?
9. Che cos'eÁ il punto triplo di una sostanza?
10. Quale valore di temperatura eÁ stato attribuito al
punto triplo dell'acqua?
11. Che cosa si intende per termometro ideale?
12. Qual eÁ l'inconveniente dei termometri usati in pratica, come per esempio il termometro a mercurio?
10
16. Che cos'eÁ una equazione di stato?
17. In quali condizioni devono essere definite le funzioni di stato di un sistema?
18. Che cosa si intende per stato di equilibrio di un
sistema?
19. Se un sistema compie un lavoro uguale a 20 J,
come viene indicato tale lavoro in base al criterio
egoistico e in base al criterio misto?
20. Se un sistema cede una quantitaÁ di calore pari a
50 J, come viene indicato tale calore in base al
criterio egoistico e in base al criterio misto?
Il punto triplo dell'acqua eÁ il punto (unico) a cui coesistono in equilibrio acqua, ghiaccio e vapore.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
18
Figura 18.1
Esperienza di Joule.
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1
Primo principio
della termodinamica
EQUIVALENZA FRA CALORE E LAVORO
Abbiamo giaÁ definito il calore come una forma di energia, collegata con il moto disordinato delle particelle (agitazione termica). L'equivalenza tra il calore (energia termica) e le
altre forme di energia eÁ stata stabilita per la prima volta da James Joule,1 con una
esperienza (esperienza di Joule) in cui una certa quantitaÁ di lavoro viene trasformata
integralmente in calore. In un recipiente termicamente isolato (fig. 18.1), contenente una
data quantitaÁ d'acqua, delle piccole pale vengono fatte ruotare tramite la caduta di pesi P
da una certa altezza: per attrito con l'acqua, l'energia meccanica si trasforma integralmente in calore;2 delle sporgenze impediscono che si generi un moto vorticoso (invece
che turbolento), che impedirebbe la trasformazione voluta.
m
P
P
m
h
Un termometro misura l'innalzamento di temperatura dell'acqua (viene ripetuta piuÁ volte
la caduta dei corpi, per rendere piuÁ sensibile tale innalzamento di temperatura), da cui si
risale alla quantitaÁ di calore ottenuta dalla trasformazione dell'energia potenziale:
Ep ˆ 2 mgh
in cui m ˆ massa del corpo, g ˆ accelerazione di gravitaÁ (9,8 m/s2), h ˆ altezza da cui
cadono i pesi P.
1
James Prescott Joule (1818-1889), fisico inglese.
I pesi devono scendere a velocitaÁ molto bassa, in modo da rendere trascurabile la parte di energia potenziale che si
trasforma in energia cinetica.
2
207
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 18.2
............................................................................................................................................................................................................................
18. Primo principio della termodinamica
Trasformazione a) di
lavoro elettrico e b)
di lavoro meccanico
in calore.
...............................................................................................
2
a)
b)
Altre esperienze furono poi eseguite per trasformare in calore il lavoro elettrico o
meccanico (figg. 18.2a e b): nel primo caso, una resistenza percorsa da corrente trasforma
in calore l'energia elettrica (Eel ):
Eel ˆ Q V
in cui Q ˆ quantitaÁ di corrente che passa nel circuito e V ˆ differenza di potenziale
applicata.
Nel secondo caso, si trasforma in calore il lavoro di compressione di un gas contenuto
in un cilindro munito di pistone e immerso in acqua. Se P eÁ la pressione applicata, V1 e V2
sono rispettivamente il volume iniziale e quello finale del gas, il lavoro di compressione eÁ
dato da:
L ˆ P (V2 V1 )
Tutte queste esperienze hanno condotto al seguente risultato, che esprime l'equivalenza
tra calore e lavoro:
1 cal ˆ 4,184 J (equivalente meccanico del calore)
o, viceversa:
1 J ˆ 0,2390 cal (equivalente termico del lavoro)
Resta quindi dimostrato che calore e lavoro sono interconvertibili secondo un ben
definito rapporto, e trattandosi di due forme di energia, possono esprimersi nelle stesse
unitaÁ di misura (il joule nel S.I., o la caloria, o altre unitaÁ).
ENERGIA INTERNA
Se un qualsiasi sistema materiale, per esempio una certa massa di gas contenuta in un
cilindro munito di pistone,3 compie una trasformazione chiusa (un ciclo), durante il
processo fra il sistema e l'esterno si verificano scambi termici e scambi dinamici parziali,
sia positivi che negativi. Infatti se in un certo istante della trasformazione il gas viene
compresso, sul sistema viene effettuato un lavoro dall'esterno ( L0 ), se invece in un altro
istante della trasformazione il gas si espande, il sistema compie lavoro sull'esterno (‡L00 );
cosõÁ pure, se in un dato istante della trasformazione il gas si riscalda, il sistema riceve
calore dall'esterno (‡Q 0 ), se invece in un altro istante si raffredda, il sistema cede calore
( Q 00 ).
3
Per poter confrontare l'entitaÁ di energia scambiata dai sistemi materiali eÁ necessario riferirsi sempre all'unitaÁ di
massa del sistema, e cioeÁ a 1 kg (S.I.); in chimica, molto spesso come unitaÁ di massa viene scelta una mole di sostanza.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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2. Energia interna
Se a ciclo ultimato indichiamo con Q la somma algebrica di tutti gli scambi termici parziali
effettuati dal sistema e con L la somma algebrica di tutti gli scambi dinamici parziali
sempre effettuati dal sistema, si trova che tali valori, espressi nelle stesse unitaÁ di misura,
sono uguali tra loro:
QˆL
oppure:
Q
Lˆ0
Se un sistema chimico (a massa costante) subisce una qualsiasi trasformazione aperta,
nella quale lo stato iniziale non coincide con quello finale, la somma degli scambi termici
complessivi non coincide piuÁ con la somma degli scambi dinamici complessivi, cioeÁ non eÁ
piuÁ valida in generale la relazione:
QˆL
di conseguenza:
Q
L 6ˆ 0
(18:1)
Poiche Q e L non sono altro che forme di energia con le quali si eÁ tenuto conto di tutti gli
scambi energetici effettuati dal sistema, dalla (18.1) si puoÁ dedurre che in una
trasformazione aperta la differenza fra queste due forme di energia messe in gioco dal
sistema, essendo diversa da zero, deve coinvolgere necessariamente la variazione di una
certa energia posseduta dal sistema stesso, e cioeÁ deve essere:
Q
L ˆ Denergia del sistema
(18:2)
Se per semplicitaÁ supponiamo che il sistema considerato sia fermo rispetto a un punto di
riferimento, la variazione della sua energia, non potendo essere determinata ne dalla
variazione della sua energia cinetica ne di quella potenziale, puoÁ identificarsi solo con la
variazione della sua energia interna (U), e cioeÁ deve essere:
Denergia del sistema ˆ DU (variazione di energia interna del sistema)
pertanto la (18.2) diventa:
Q
L ˆ DU
(18:3)
che costituisce la formulazione matematica del primo principio della termodinamica applicabile alle trasformazioni aperte (non cicliche).
La variazione di energia interna del sistema (DU) corrisponde pertanto alla variazione
dell'energia legata alla struttura della materia che lo costituisce, nella quale si sommano tutte
le energie delle sue particelle: energia cinetica di traslazione delle singole molecole,
energia di oscillazione (vibrazione) e di rotazione degli atomi e dei gruppi atomici nelle
molecole, energia degli elettroni e dei nuclei negli atomi, energia dei legami chimici.
L'energia interna (U) di un sistema materiale, dipendendo ovviamente dalla quantitaÁ di
materia da cui eÁ costituito, eÁ una grandezza estensiva (come per esempio il volume), a
differenza delle grandezze intensive (densitaÁ, indice di rifrazione, pressione di vapore
ecc.) che sono indipendenti dalla massa. Misurando il calore (Q) e il lavoro (L) scambiati
dal sistema in kJ mol 1 dalla (18.3) risulta che l'unitaÁ di misura dell'energia interna (U) eÁ
il kJ mol 1 .
Il valore assoluto dell'energia interna di un sistema materiale non eÁ noto a causa della
molteplicitaÁ delle variabili che sarebbero necessarie per definire l'energia di ogni singola
particella, ma cioÁ non rappresenta una difficoltaÁ per la termodinamica, per la quale ha
importanza solo il valore della variazione di energia interna DU subita dal sistema in
seguito a una qualsiasi trasformazione, valore che, come vedremo, puoÁ essere calcolato
facilmente.
209
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 18.3
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
18. Primo principio della termodinamica
P
2
Passaggio del sistema
dallo stato (1) allo
stato (2) attraverso
tre vie (a, b, c).
a
b
c
1
V
L'energia interna di un sistema materiale eÁ una funzione di stato in quanto la sua
variazione (DU) per il passaggio del sistema da uno stato iniziale (1) cui compete un valore
di energia interna U1, a uno stato finale (2) cui compete un valore di energia interna U2, eÁ
sempre la stessa indipendentemente dal percorso che il sistema ha seguito per passare dallo
stato iniziale a quello finale. Per esempio, se un sistema passa dallo stato iniziale (1) a
quello finale (2), seguendo i tre percorsi diversi a, b, c, indicati in figura 18.3, il valore di
DU ˆ U2 U1 eÁ sempre uguale nei tre casi. Infatti se cosõÁ non fosse, potremmo portare il
sistema dallo stato (1) a quello (2) seguendo per esempio il percorso a, con il quale si ha la
variazione di energia interna DUa ; oppure seguendo il percorso c, con il quale si ha la
variazione di energia interna DUc , che, per l'ipotesi fatta, dovremmo ammettere essere
diversa da DUa (DUa > DUc ). Pertanto, se l'energia interna non fosse una funzione di stato,
potremmo sottoporre il sistema a una trasformazione ciclica portandolo attraverso il percorso a dallo stato (1) a quello (2), e poi per il percorso c dallo stato (2) a quello (1) per cui,
alla fine di ogni ciclo, avremmo un guadagno netto di energia (DUa DUc ) che verrebbe
creata dal nulla, in quanto il sistema alla fine del ciclo eÁ tornato nelle stesse condizioni iniziali
di partenza. Questo risultato, essendo in contrasto con l'esperienza, in quanto tutti i tentativi fatti per realizzare una macchina che creasse energia dal nulla sono falliti, conferma
che l'energia interna eÁ una funzione di stato: impossibilitaÁ del moto perpetuo di prima
specie.
EÁ ovvio che se un sistema subisce una trasformazione ciclica, la variazione della
funzione di stato (DU) eÁ uguale a zero, in quanto lo stato finale del sistema coincide con
quello iniziale (U2 ˆ U1 ), quindi:
DU ˆ 0 nelle trasformazioni cicliche
Se il sistema termodinamico eÁ costituito da una mole di gas reale, l'energia interna eÁ
funzione di due delle tre variabili di stato:
U ˆ f (P, T†
oppure U ˆ f (P, V )
oppure U ˆ f (V, T)
mentre se il sistema eÁ ideale, e cioeÁ eÁ costituito da una mole di gas perfetto, l'energia
interna eÁ funzione solo della temperatura: U ˆ f (T). Infatti, poiche l'energia interna eÁ
determinata fra l'altro dai moti di traslazione, di vibrazione e di rotazione delle molecole e
degli atomi (moti dipendenti dalla temperatura) nonche dalle interazioni fra le singole
molecole, e cioeÁ dalle reciproche forze di attrazione e di repulsione (dipendenti dalla
pressione), avendo escluso con la definizione di gas perfetto questi ultimi tipi di
interazione, l'energia interna dei sistemi ideali eÁ funzione solo della temperatura. Pertanto,
l'applicazione del primo principio a una trasformazione aperta e isoterma di un sistema
ideale porta alla formulazione della (18.3) nella forma Q ˆ L, in quanto, non variando la
temperatura, risulta DU ˆ 0.
Prendendo infine in esame la formulazione analitica del primo principio nella forma
valida per una trasformazione ciclica, Q L ˆ 0 e cioeÁ Q ˆ L, per la quale il calore
(energia) che il sistema assorbe dall'ambiente esterno viene ceduto dal sistema all'ambiente
esterno sotto forma di una quantitaÁ equivalente di lavoro (energia) o viceversa, oppure
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
...................................................................
3. Il calore e il lavoro non sono in genere funzioni di stato
Figura 18.4
Il sistema libera
energia solo sotto
forma di calore di
attrito.
Figura 18.5
......................................................................................................................................................................................................................................................
3
Il sistema libera
energia sotto forma
di calore e di lavoro
meccanico.
nella forma valida per una trasformazione aperta, Q L ˆ DU, per la quale la differenza
tra le due forme di energia (calore e lavoro) scambiate dal sistema con l'esterno eÁ uguale
alla variazione di un'altra forma di energia, e cioeÁ di quella interna del sistema, possiamo
senz'altro affermare che queste due relazioni, dedotte dall'esperienza, sintetizzano la legge
universale della conservazione dell'energia o primo principio della termodinamica:
l'energia totale di un sistema e dell'ambiente esterno, vale a dire di un sistema isolato (solo
l'universo eÁ un sistema isolato), si conserva anche se essa puoÁ essere convertita da una
forma di energia in un'altra forma. In altre parole, l'energia non puoÁ essere ne creata neÂ
distrutta, per cui l'energia dell'universo eÁ costante.
IL CALORE E IL LAVORO NON SONO
IN GENERE FUNZIONI DI STATO
Mentre l'energia interna (U) di un sistema materiale eÁ una funzione di stato, altrettanto
non puoÁ essere detto in generale per il calore (Q) e il lavoro (L) scambiati dal sistema
quando essi vengono considerati separatamente. Infatti si puoÁ dimostrare che il loro
valore numerico eÁ in genere diverso in dipendenza del cammino percorso dal sistema
durante la trasformazione: essi sono quindi funzioni di percorso.
Per esempio, possiamo far cadere nel vuoto un blocco di marmo di peso P da una
quota maggiore a a una quota minore b in due modi diversi:
1. Facendolo cadere liberamente, e in questo caso il blocco di marmo non compie alcun
lavoro ma libera solo calore in seguito all'urto contro il piano rigido b (fig. 18.4).
P
a
calore
calore
P
b
2. Collegando il blocco di marmo posto sul piano a mediante una fune e una carrucola a
un altro blocco di marmo di peso P 0 minore di P, e che si trova inizialmente sul piano
b. Il blocco di marmo di peso P, lasciato cadere dalla quota a a quella b, compie lavoro
(solleva il blocco di marmo di peso P 0 ), mentre, in seguito all'urto, sul piano rigido b
libera una quantitaÁ di calore che eÁ minore di quella liberata nel caso precedente (calore
di attrito) (fig. 18.5).
+
a
P
P´
lavoro
calore
b
P´
P
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.....................................................
18. Primo principio della termodinamica
......................................................................................................................................................................................................................................................................
4
Nei due esempi, lo stato iniziale e lo stato finale del sistema (del blocco di marmo di peso
P) coincidono, ma il calore e il lavoro scambiati sono diversi: nel primo esempio il lavoro eÁ
uguale a zero, e tutta l'energia liberata dal sistema si manifesta solo sotto forma di calore;
nel secondo esempio, il sistema libera la sua energia potenziale in parte sotto forma di
lavoro e in parte sotto forma di calore. Se il calore e il lavoro fossero funzioni di stato, in
ambedue i casi avrebbero dovuto coincidere. Solo la somma algebrica del calore e del
lavoro scambiati da un sistema eÁ una funzione di stato, in quanto detta somma si identifica
con la variazione di energia interna del sistema (DU).
PROCESSI REVERSIBILI E PROCESSI IRREVERSIBILI
Se un sistema subisce una trasformazione tale che lo stato iniziale e finale siano infinitamente vicini, la formulazione analitica del primo principio della termodinamica viene
scritta nella forma differenziale:
dU ˆ dQ dL
(18:4)
nella quale dU eÁ la variazione elementare (infinitamente piccola) dell'energia interna del
sistema, mentre dQ e dL sono il calore e il lavoro elementari scambiati dal sistema con
l'esterno.4
Il prendere in esame invece delle trasformazioni finite, le trasformazioni infinitesime
dei sistemi materiali, eÁ giustificato dal fatto che l'applicazione del calcolo differenziale allo
studio dei fenomeni naturali eÁ di basilare importanza per la scienza, in quanto, solo
seguendo l'evoluzione di un fenomeno istante per istante si puoÁ essere certi che la legge
che lo interpreta matematicamente conservi la sua validitaÁ durante tutto il tempo in cui
esso si verifica.
Pertanto, estendendo questo concetto alla termodinamica, scienza che studia le
trasformazioni dei sistemi materiali per mezzo di funzioni matematiche dette funzioni
di stato con le quali viene definita una certa proprietaÁ macroscopica del sistema stesso, e
dato che i valori assunti da queste funzioni di stato (energia interna, che abbiamo giaÁ
definito, entalpia, entropia ed energia libera, che definiremo in seguito), dipendono da
quelli assunti dalle variabili di stato (P, V, T), per essere sicuri che un determinato stato
del sistema in un dato istante della trasformazione possa essere definito da un unico
valore della pressione, del volume e della temperatura, eÁ necessario supporre che il sistema evolva in modo infinitamente lento (quasi statico o reversibile), e cioeÁ attraverso
successive e quasi impercettibili variazioni delle variabili di stato, e quindi della funzione
di stato dalla quale il sistema viene definito. Infatti, solo ammettendo che una certa trasformazione evolva reversibilmente, siamo sicuri che un dato valore, per esempio della
pressione, con il quale viene definito lo stato del sistema in un dato istante, eÁ la pressione
di tutto il sistema e non di una sua sola parte.5 Ovviamente un processo reversibile eÁ al
limite un meccanismo ideale, tuttavia esso eÁ di importanza fondamentale per la termo4
Il simbolo d sta a significare che l'energia interna U di un sistema materiale eÁ una funzione di stato, o come si
dice in linguaggio matematico, dU eÁ un differenziale esatto; invece il simbolo d (delta) significa che in generale il
calore e il lavoro scambiati dal sistema non sono funzioni di stato, e cioeÁ non sono differenziali esatti. Per motivi
esclusivamente di praticitaÁ, indicheremo da ora in avanti le variazioni infinitesime del calore e del lavoro rispettivamente con dQ e dL.
5
Lo stato di un qualsiasi sistema termodinamico che si trova in condizioni di non equilibrio non eÁ descrivibile
termodinamicamente: la termodinamica descrive solo lo stato dei sistemi le cui proprietaÁ non cambiano nel tempo, e cioeÁ
solo lo stato dei sistemi che si trovano in equilibrio con l'ambiente che li circonda. Il parametro tempo viene volutamente
ignorato dalla termodinamica classica. Per esempio, se comprimiamo rapidamente una data massa di gas contenuta in un
cilindro munito di pistone mobile, non possiamo identificare con un unico valore di pressione lo stato del gas, in quanto
le molecole che si trovano in contatto con lo stantuffo sono sottoposte a una pressione maggiore di quella cui sono
sottoposte le molecole all'interno della massa (processo irreversibile).
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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4. Processi reversibili e processi irreversibili
dinamica, in quanto solo in queste condizioni eÁ stato possibile dedurre delle leggi generali
applicabili anche ai fenomeni reali che, come vedremo, sono tutti irreversibili.
Poiche una delle condizioni essenziali per la reversibilitaÁ di un fenomeno, eÁ che esso
possa evolvere indifferentemente sia in un verso che nel verso opposto, e cioeÁ reversibilitaÁ
eÁ sinonimo di equilibrio fra sistema ed esterno, le condizioni necessarie e sufficienti
affinche un fenomeno, per esempio la compressione o l'espansione di un gas, possa essere
dichiarato reversibile, sono tre:
1. Equilibrio istante per istante della trasformazione fra la pressione esterna al sistema
(Pe ) e quella interna del sistema (Pi ); e cioeÁ al limite, deve essere Pe ˆ Pi .
2. Equilibrio istante per istante della trasformazione fra la temperatura esterna (Te ) e
quella interna del sistema (Ti ); e cioeÁ al limite, deve essere Te ˆ Ti .
3. Assenza di attriti.
Se anche una sola di queste condizioni venisse a mancare, la trasformazione non puoÁ
essere dichiarata reversibile. Infatti, se a un dato istante della trasformazione la pressione
interna Pi del sistema fosse diversa da quella esterna Pe, e cioeÁ la loro differenza assumesse
un valore finito, il sistema tenderebbe a evolvere spontaneamente in una sola direzione
(espansione o compressione), e quindi in modo irreversibile. CosõÁ pure, se a un dato
istante della trasformazione la temperatura interna del sistema Ti fosse diversa da quella
dell'esterno Te, poiche l'esperienza ci insegna che il calore si trasmette spontaneamente
sempre dal corpo piuÁ caldo a quello piuÁ freddo, lo scambio termico sistema-esterno
avverrebbe in una sola direzione (dal sistema verso l'esterno o viceversa), e quindi in
modo irreversibile. Infine, l'assenza di attriti durante la trasformazione eÁ indispensabile,
in quanto i fenomeni di attrito coinvolgono sempre dissipazione di calore verso l'esterno e
quindi verrebbe alterato l'equilibrio fra la temperatura interna Ti e quella esterna Te.
Un processo reversibile eÁ quindi una successione continua di stati istantanei di
equilibrio della pressione e della temperatura fra il sistema e l'esterno, che, anche se
nella realtaÁ non eÁ mai verificata, svolge un ruolo di notevole importanza teorica per la
scienza, come abbiamo in precedenza sottolineato.
Tutti i fenomeni spontanei naturali sono irreversibili, in quanto una delle cause piuÁ
appariscenti della loro irreversibilitaÁ eÁ l'attrito che accompagna sempre queste trasformazioni. EÁ chiaro quindi che le reazioni chimiche spontanee sono tutte irreversibili.
A questo punto ci si potrebbe chiedere: «Se una trasformazione reversibile non eÁ mai
realizzabile in pratica, perche dovremmo prenderla in esame?». La risposta a questa
domanda l'abbiamo giaÁ data quando abbiamo illustrato la caratteristica peculiare delle
funzioni di stato. Infatti abbiamo detto che il valore numerico della variazione di una
funzione di stato, in seguito a una trasformazione finita del sistema, eÁ indipendente dal
cammino percorso, e cioeÁ dal fatto che il sistema eÁ pervenuto allo stato finale reversibilmente o irreversibilmente. Pertanto, se un sistema chimico passa da uno stato iniziale
(quello dei reagenti) a uno stato finale (quello dei prodotti), si calcola la variazione della
funzione con la quale viene definito lo stato del sistema supponendo che la trasformazione sia avvenuta in modo reversibile, e cioeÁ infinitamente lento: il valore numerico
ottenuto con questo artificio coincide senz'altro con quello relativo alla trasformazione
reale (irreversibile).
Il termine «reversibile» eÁ dovuto al fatto che, se si inverte il segno delle variazioni dei
parametri (come la temperatura e la pressione) che hanno dato origine alla trasformazione, il sistema ripercorre in senso inverso lo stesso cammino. Questo vale anche per
l'ambiente esterno che ha interagito con il sistema: se per esempio del calore eÁ stato
assorbito dal sistema, nel processo inverso esso viene ceduto all'ambiente esterno; se del
lavoro eÁ stato compiuto dal sistema, lo stesso lavoro nel processo inverso viene fatto sul
sistema: in tal modo, sia il sistema che l'ambiente esterno ritornano allo stato iniziale.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
18. Primo principio della termodinamica
...........................................................................................................................................................................................................................
5
........................................................................................
6
CALCOLO INFINITESIMALE
A questo punto sorge una domanda: in quale modo si puoÁ calcolare la variazione di una
funzione di stato del sistema quando questo, sia pure reversibilmente, passa da uno stato
iniziale a uno stato finale? Ebbene, una risposta a questa domanda puoÁ essere data solo
ricorrendo all'aiuto della matematica e precisamente al metodo matematico del calcolo
infinitesimale.
Premesso che l'analisi infinitesimale eÁ uno strumento matematico di straordinaria
efficacia per lo studio rigoroso dei problemi relativi a innumerevoli campi della scienza e
della tecnica (problemi di geometria, di fisica, di chimica, di missilistica, e in generale che
riguardino un qualsiasi fenomeno naturale), facciamo notare che essa si articola essenzialmente su due tecniche di calcolo che sono l'una il completamento dell'altra: il calcolo
differenziale e il calcolo integrale. Con la tecnica del calcolo differenziale l'evoluzione di
un qualsiasi sistema, come la traiettoria di un missile, il flusso di un liquido in un
condotto, una reazione chimica ecc., viene seguita concettualmente istante per istante in
termini di variazioni infinitamente piccole delle variabili di stato del sistema (temperatura, pressione, volume e composizione per i sistemi chimici) e quindi delle funzioni di
stato (energia interna, entalpia, entropia ed energia libera per i sistemi chimici) definite
da queste variabili.6 In questo modo l'evoluzione del sistema procede, idealmente,
attraverso successivi e ordinati stati di equilibrio, e cioeÁ reversibilmente, come appunto
richiesto per lo studio termodinamico delle trasformazioni dei sistemi materiali. Con la
tecnica del calcolo integrale si calcola invece la variazione finita della funzione di stato del
sistema quando esso passa da uno stato iniziale a uno stato finale, sommando semplicemente le infinite piccolissime variazioni della funzione di stato del sistema che si
sono susseguite durante tutta la trasformazione. Ebbene, il calcolo della piccolissima
variazione di una generica funzione di stato del sistema (variabile dipendente) al variare
infinitamente piccolo dei parametri (variabili indipendenti) da cui essa dipende, viene
matematicamente risolto con l'operazione di derivazione, e cioeÁ calcolando semplicemente la derivata di quella funzione. In questo modo si ottiene l'espressione matematica
che ci fornisce la variazione infinitamente piccola della funzione di stato, e cioeÁ il
cosiddetto differenziale della funzione. Invece, il calcolo della variazione finita della
funzione di stato che stiamo studiando, per il passaggio del sistema dallo stato iniziale a
quello finale, viene matematicamente risolto con l'operazione di integrazione, e cioeÁ
calcolando semplicemente l'integrale della funzione ottenuta differenziando (derivando)
la funzione di stato considerata.
CALCOLO DEL LAVORO SCAMBIATO DAL SISTEMA
IN UNA TRASFORMAZIONE APERTA
Si consideri una mole di gas perfetto contenuta in un cilindro di sezione a munito di
stantuffo a perfetta tenuta, privo di peso e che scorra senza attrito; il gas si trova poi in
equilibrio con l'esterno (Pe ˆ Pi ; Te ˆ Ti ). La pressione esterna costante Pe che preme
sullo stantuffo eÁ data per definizione dalla forza F che agisce sull'unitaÁ di superficie, e cioeÁ:
Pe ˆ
F
a
6
Una piccolissima variazione in un verso o nell'altro dei parametri di stato del sistema, fa sõÁ che quest'ultimo possa
evolvere in una direzione o in quella opposta.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 18.6
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6. Calcolo del lavoro scambiato dal sistema in una trasformazione aperta
e la forza totale agente sul pistone eÁ allora:
F ˆ Pe a
(18:5)
Se ora la mole di gas, senza che avvenga variazione della pressione esterna Pe , si espande
reversibilmente dal volume iniziale V1 a quello finale V2, il pistone si solleva di un'altezza
h, e il lavoro L scambiato dal sistema, essendo dato per definizione dal prodotto della
forza per lo spostamento del suo punto di applicazione, eÁ espresso dalla relazione:
LˆFh
e tenendo conto della (18.5) si ha:
L ˆ Pe a h
Espansione isobara di
un gas.
(18:6)
Pe
Pe
h
Pe
ΔV = a × h
Pe
V2 = V1 + ΔV
V1
Ma il prodotto a h (vedi figura 18.6) eÁ l'incremento di volume DV ˆ V2
questo caso DV > 0), e quindi la (18.6) diventa:
L ˆ Pe (V2
o anche:
V1 (in
V1 )
L ˆ Pe DV
(18:7)
La (18.7) eÁ stata ottenuta per una mole di gas perfetto, mentre per n moli di gas assume la
formulazione:
L ˆ nPe DV
(18:8)
Ovviamente si perviene alle medesime equazioni (18.7) e (18.8) se facciamo subire al gas
perfetto una contrazione reversibile del volume, sempre a pressione esterna costante, solo
che in questo caso risulta DV < 0.
Possiamo allora affermare che le equazioni (18.7) e (18.8) ci consentono di calcolare il
lavoro meccanico di espansione (di compressione) scambiato reversibilmente da un gas
perfetto, quando la pressione esterna rimane costante durante tutta la trasformazione
subita dal sistema, cioeÁ quando esso passa dal volume iniziale V1 a quello finale V2 senza
variazione della pressione esterna. Il lavoro meccanico cosõÁ calcolato, essendo Pe ed n
quantitaÁ sempre positive, nell'espansione eÁ positivo in quanto DV eÁ maggiore di zero e
quindi esso eÁ compiuto dal sistema; invece nella compressione eÁ negativo, in quanto DV eÁ
minore di zero, e quindi eÁ compiuto sul sistema.
Se durante la compressione (espansione) del gas la pressione esterna non rimane
costante, vale a dire la pressione iniziale che grava sul gas non coincide con quella finale,
per calcolare il lavoro totale scambiato dal sistema eÁ necessario applicare il calcolo
differenziale, e cioeÁ supporre che il processo avvenga in modo reversibile, ovvero con
estrema lentezza. Pertanto si considera una serie di variazioni infinitamente piccole dV
del volume del gas, durante ciascuna delle quali il lavoro elementare (infinitesimo) dL
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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18. Primo principio della termodinamica
......................................................................................................................................................................................................................................
7
scambiato dal sistema eÁ dato dal prodotto:
dL ˆ Pe dV
in cui con Pe si deve intendere il valore assunto dalla pressione esterna a ogni istante della
trasformazione. Il lavoro totale scambiato dal sistema puoÁ essere allora calcolato sommando gli infiniti lavori elementari dL scambiati durante tutta la trasformazione, e cioeÁ
risolvendo l'integrale definito fra il limite (1) dello stato iniziale e il limite (2) dello stato
finale:
Z 2
Z V2
dL ˆ
Pe dV
(18:9)
L1 2 ˆ
1
V1
Ebbene, per risolvere l'integrale (18.9) eÁ necessario conoscere la legge che governa la
variazione della pressione esterna Pe durante tutta la trasformazione.
CALCOLO DEL LAVORO SCAMBIATO DA UN GAS PERFETTO
IN UNA TRASFORMAZIONE ISOTERMA E REVERSIBILE
Poiche per una mole di gas perfetto dall'equazione di stato risulta che:
PV ˆ RT
da cui:
Pˆ
RT
V
e poiche nel caso di una trasformazione (compressione o espansione) reversibile, la
pressione esterna Pe esercitata sul gas si identifica in ogni istante con quella interna Pi
del gas (Pe ˆ Pi), in questo caso particolare l'integrale (18.9) puoÁ essere facilmente
risolto sostituendo Pe con Pi, e quest'ultimo con il rapporto RT/V. Pertanto:
Z
L1
2
ˆ
V2
V1
Z
Pe dV ˆ
V2
V1
Z
Pi dV ˆ
V2
V1
RT
dV
V
Dato che R eÁ una costante e la temperatura T eÁ pure costante, il termine RT puoÁ essere
portato fuori dal segno di integrazione, per cui possiamo scrivere:
Z
L1
2
ˆ RT
V2
V1
dV
V
e risolvendo l'integrale definito:
7
L1
2
ˆ RT ln V2
RT ln V1 ˆ RT ln
V2
V1
(18:10)
Quest'ultima eÁ valida per una mole di gas perfetto; mentre per n moli di gas essa diventa:
L1
7
2
ˆ nRT ln
Ricordiamo che dalle regole di integrazione:
Z x2
dx
ˆ ln x2
x1 x
V2
V1
ln x1 ˆ ln
(18:11)
x2
x1
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.........................................................................................
8. Diagrammi indicatori del lavoro meccanico scambiato da una mole di gas perfetto
Figura 18.7
.................................................................................................................................................................................................................................
8
Lavoro scambiato da
una mole di gas
ideale in una espansione isobara.
Figura 18.8
Lavoro scambiato da
una mole di gas
ideale in una espansione reversibile.
Infine, poiche per una trasformazione isoterma di un gas perfetto eÁ verificata l'identitaÁ:
P1 V1 ˆ P2 V2
V2 P1
ˆ
V1 P2
da cui
la (18.10) puoÁ essere anche cosõÁ formulata:
L1
2
P1
P2
ˆ RT ln
e per n moli:
L1
2
ˆ n RT ln
(18:12)
P1
P2
(18:13)
Le equazioni dalla (18.10) alla (18.13) consentono di calcolare il lavoro di espansione (compressione) scambiato con l'esterno da un gas perfetto in condizioni reversibili e isoterme.8
DIAGRAMMI INDICATORI DEL LAVORO MECCANICO
SCAMBIATO DA UNA MOLE DI GAS PERFETTO
1ë caso. Trasformazione aperta reversibile o irreversibile, a pressione esterna costante, dal
volume V1 al volume V2 (fig. 18.7).
P
Pe
L1-2 = Pe ΔV
0
V1
V2
V
La superficie tratteggiata misura il lavoro netto scambiato dal sistema in quanto in questo
caso L1 2 ˆ Pe DV in cui DV eÁ la base del rettangolo e Pe la relativa altezza.
2ë caso. Lavoro scambiato in un processo generico reversibile dallo stato iniziale (1) a
quello finale (2) (fig. 18.8).
P
2
P2
1
P1
2
L1-2 = ∫ Pe dV
1
0
V1
V2
V
8
Si tenga presente che, in tutte queste relazioni, l'indice (1) va riferito sempre allo stato iniziale e l'indice (2) allo
stato finale del sistema.
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Figura 18.9
.......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
18. Primo principio della termodinamica
Lavoro scambiato da
una mole di gas
ideale in una espansione isoterma reversibile.
Figura 18.10
Lavoro scambiato da
una mole di gas
ideale in una trasformazione ciclica.
L'area tratteggiata eÁ misurata dal valore dell'integrale definito:
Z
V2
V1
Pe dV
3ë caso. Lavoro scambiato in una trasformazione isoterma e reversibile dallo stato (1) allo
stato (2) (fig. 18.9).
P
1
P1
2
P2
0
V1
V2
V
L'area tratteggiata eÁ misurata dall'equazione:
L1
2
V2
V1
ˆ RT ln
4ë caso. Lavoro scambiato in una trasformazione ciclica reversibile (fig. 18.10).
P
a
2
1
b
0
V1
V2
V
L'area tratteggiata eÁ misurata dalla differenza dei valori dei due integrali definiti:
Z
V2
V1
Z
Pe dV
V1
V2
Pe dV
Infatti, con il primo integrale si ottiene l'area compresa tra V1 e V2 seguendo il percorso a,
mentre con il secondo integrale si ottiene l'area compresa tra V2 e V1 seguendo il
percorso b.
Possiamo ancora notare come questi diagrammi mettano in luce il fatto che il lavoro non eÁ
una funzione di stato: infatti, se il sistema passa dallo stato iniziale (1) allo stato finale (2)
attraverso due diverse trasformazioni (due cammini diversi), cambia l'area sottesa alle
curve che rappresentano i due processi nel piano (P, V ), e cioeÁ cambia il lavoro compiuto
o assorbito dal sistema (fig. 18.11).
218
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 18.11
...............................................................................................
9. Lavoro scambiato da un gas perfetto in una trasformazione irreversibile
Lavoro scambiato da
una mole di gas
ideale in due diverse
trasformazioni tra gli
stessi stati iniziale e
finale.
Figura 18.12
...........................................................................................................................................................................................................................
9
Lavoro scambiato da
una mole di gas
ideale in una espansione isobara irreversibile.
P
1
2
0
V2
V1
V
LAVORO SCAMBIATO DA UN GAS PERFETTO
IN UNA TRASFORMAZIONE IRREVERSIBILE
Consideriamo un gas che si espande contro una pressione esterna costante, inferiore alla
propria di un valore finito:
Pgas > Pest
In questo caso, il processo di espansione avviene in un tempo finito, piuÁ o meno rapido, e
non puoÁ essere considerato di conseguenza un processo reversibile.
Il lavoro di espansione irreversibile si calcola con la stessa relazione vista per una
espansione isobara reversibile:
L ˆ Pest DV ˆ Pest …V2
V1 †
in quanto la forza che deve vincere il gas per espandersi eÁ dovuta alla pressione esterna, e
non eÁ legata alla pressione propria del gas.
L'area del rettangolo rappresenta anche in questo caso il lavoro in gioco; la linea 10 -2
peroÁ non rappresenta lo stato del sistema in ogni istante dell'espansione, come avviene
invece per un processo reversibile (fig. 18.12).
P
1
P1 = Pgas
1
P2 = Pest
0
´
2
V1
V2
219
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
V
..............................................................................
18. Primo principio della termodinamica
...............................................................................................
10
................................................................................................................
11
Se in particolare l'ambiente esterno rifornisce il gas di una quantitaÁ di calore uguale al
lavoro da esso compiuto, in modo che la temperatura del gas sia la stessa all'inizio e alla
fine dell'espansione, e se la pressione finale del gas coincide con la pressione esterna, i
punti che rappresentano lo stato iniziale (punto 1) e lo stato finale (punto 2) del sistema
appartengono alla stessa isoterma (vedi figura 18.12), per cui si possono scrivere le
seguenti relazioni:
RT
RT
V2 ˆ
V1 ˆ
P1
P2
e il lavoro irreversibile puoÁ essere cosõÁ espresso:
RT RT
ˆ RT 1
L ˆ Pest (V2 V1 ) ˆ P2
P2
P1
P2
P1
LAVORO MASSIMO COMPIUTO DAL SISTEMA
Il lavoro meccanico messo in gioco in un processo reversibile eÁ il lavoro massimo che il
sistema puoÁ compiere sull'esterno. Infatti, sarebbe possibile aumentare il lavoro compiuto dal sistema solo aumentando la pressione esterna Pe (dL ˆ Pe dV ), ma poiche nel
processo reversibile quest'ultima differisce di un infinitesimo dalla pressione interna Pi
del sistema, al limite Pe ˆ Pi , eÁ chiaro che aumentando la Pe di una quantitaÁ finita, il
processo di espansione del gas diviene impossibile in quanto esso viene compresso.
La conclusione cui siamo pervenuti con questo semplice ragionamento, puoÁ essere
generalizzata per tutte le forme di lavoro che un sistema termodinamico compie sull'esterno (per esempio lavoro elettrico), vale a dire che solo in condizioni di reversibilitaÁ il
sistema compie il massimo lavoro.
Con ragionamento del tutto analogo, potremo affermare che il lavoro compiuto
dall'esterno sul sistema (per esempio il lavoro di compressione di un gas) eÁ quello
minimo, se tale lavoro viene compiuto in condizioni di reversibilitaÁ.
ESPANSIONE REVERSIBILE ED ESPANSIONE IRREVERSIBILE
DI UN GAS PERFETTO
Sulla base dei concetti esposti nei precedenti paragrafi, vediamo come puoÁ essere
ipotizzato il meccanismo di svolgimento di un processo reversibile, a confronto con un
processo reale irreversibile e vedremo come il processo reversibile rappresenti il caso
limite. Come esempio, consideriamo l'espansione isoterma e reversibile di un gas perfetto.
Supponiamo che il gas sia contenuto in un recipiente munito di stantuffo ideale (privo
di peso e che scorra senza attrito), e siano PA , VA , T i parametri iniziali del gas. Affinche il
gas possa compiere un'espansione reale (irreversibile), eÁ necessario che la pressione
esterna sia inferiore a quella del gas:.
Pest < Pgas
Supponiamo per esempio che Pest ˆ P1 (fig. 18.13); supponiamo inoltre che una sorgente
di calore, a temperatura T, fornisca al gas il calore equivalente al lavoro compiuto, in modo
che la temperatura finale del gas coincida ancora con il valore iniziale T (infatti se Q ˆ L,
dal primo principio risulta DU ˆ 0 e per un gas perfetto anche DT saraÁ allora uguale a
zero).
220
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 18.13
.......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
11. Espansione reversibile ed espansione irreversibile di un gas perfetto
Lavoro dovuto a successive espansioni di
un gas contro una
pressione esterna costante (pressioni
esterne: P1 , P2 , P3 , P4 ,
PB ).
Figura 18.14
Il lavoro dovuto a
successive espansioni
di un gas contro una
pressione esterna costante (le differenze
tra la pressione del
gas e la pressione
esterna sono minori
rispetto a quelle di
figura 18.13).
P
A
PA
1
C
P1
2
P2
3
P3
4
P4
B
PB
0
VA
V1
V2
V3
V4
VB
V
Se lo stantuffo eÁ libero di muoversi, il gas si espande bruscamente contro la pressione
esterna P1, compiendo un lavoro dato da: L ˆ Pest DV ˆ P1 (V1 VA ). Nel piano (P, V )
tale lavoro corrisponde all'area del rettangolo (VA V1 1 C) (fig. 18.13). Quando il gas, in
seguito all'espansione, si trova nel punto 1, esso non puoÁ espandersi ulteriormente, in
quanto la sua pressione uguaglia quella esterna. Se vogliamo che il gas continui ad
espandersi, dovremo abbassare la pressione esterna, portandola ad esempio al valore P2:
il gas puoÁ cosõÁ espandersi ancora, fino a raggiungere il punto 2, e il lavoro di espansione
corrisponde ancora all'area di un rettangolo, come in figura 18.13. Il processo si ripete,
finche il gas ha raggiunto lo stato finale (punto B), e il lavoro complessivo compiuto dal
gas saraÁ dato dalla somma di tutti i rettangoli di figura 18.13.9 Se ripetiamo tale serie di
espansioni (sempre partendo dal punto A), diminuendo peroÁ la differenza tra la pressione
esterna e la pressione del gas (fig. 18.14), si nota come piuÁ piccole sono tali differenze di
P
A
PA
B
PB
0
VA
VB
V
9
Praticamente, queste successive espansioni si potrebbero realizzare caricando lo stantuffo con tanti piccoli pesi, e
togliendoli via via per diminuire la pressione che grava sul gas.
221
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 18.15
.............................................................................................................................................................................................................
18. Primo principio della termodinamica
Lavoro di espansione
isoterma e reversibile
di un gas.
............................................................................................................
12
P
A
PA
B
PB
0
VA
VB
V
pressione, piuÁ l'area complessiva si avvicina all'area sottesa alla curva (isoterma
corrispondente a un'iperbole equilatera) tra i punti A e B.
EÁ evidente che se la pressione esterna differisce di un infinitesimo o, al limite, eÁ uguale alla
pressione del gas, il lavoro totale compiuto corrisponde esattamente all'area suddetta
(fig. 18.15): ma questa condizione (Pest ˆ Pgas ) eÁ quella ipotetica realizzabile in un
processo reversibile (infatti in tali condizioni il sistema si trova in equilibrio con
l'ambiente esterno). Tale lavoro percioÁ, che eÁ il massimo lavoro ottenibile in un'espansione isoterma, e che il calcolo integrale dimostra essere uguale a:
L ˆ n RT ln
VB
VA
eÁ solo un valore limite, non realizzabile praticamente se non in un tempo infinitamente
lungo (come appunto si verifica, per definizione, in un processo reversibile).
CALORE SPECIFICO
Si definisce capacitaÁ termica (c) di un sistema materiale la quantitaÁ di calore (Q) necessaria per aumentare di 1 K (o 1 ëC, allora indicheremo la temperatura con la lettera t)
la sua temperatura, per cui, volendo aumentare di un certo intervallo DT (Dt) la temperatura di un corpo, la quantitaÁ di calore necessaria saraÁ:
Q ˆ c DT
(quando DT ˆ 1, si ha appunto Q ˆ c).
Se il sistema eÁ formato dall'unitaÁ di massa (1 kg), la capacitaÁ termica viene detta calore
specifico (CS ), per cui la quantitaÁ di calore necessaria per innalzare la massa di m kg di
una sostanza di DT, saraÁ:
Q ˆ CS m DT
(18:14)
e l'unitaÁ di misura del calore specifico risulta essere J kg 1 K 1 .
Se l'unitaÁ di massa eÁ il grammo, ovviamente il calore specifico eÁ espresso in
J g 1 K 1.
222
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
12. Calore specifico
Se si esprime la massa in moli, il calore specifico viene detto calore specifico molare
(CS; m ), e la (18.14) puoÁ sostituirsi con l'espressione:
Q ˆ CS; m n DT
(18:15)
in cui n eÁ il numero di moli, per cui il calore molare risulta espresso in J mol 1 K 1 .
Poiche in pratica la capacitaÁ termica (e quindi anche il calore specifico) varia con la
temperatura, eÁ preferibile studiare il fenomeno in termini infinitesimi, e pertanto, applicando il calcolo differenziale alla (18.15), possiamo scrivere: dQ ˆ CS; m n dT, da cui:
1 dQ
CS; m ˆ
(18:16)
n dT
in cui dQ eÁ il calore elementare assorbito da n moli di sostanza per l'aumento di
temperatura dT.
In pratica, il calore specifico viene misurato mantenendo costante o il volume (calore
specifico molare a volume costante CV) o la pressione (calore specifico molare a
pressione costante CP), per cui, la (18.16) assume la forma di una derivata parziale, e
cioeÁ rispettivamente:
1 @Q
(18:17)
CV ˆ
n @T V
1 @Q
CP ˆ
n @T P
(18:18)
Mentre la differenza tra i due calori specifici, per solidi e liquidi, eÁ quasi trascurabile, nel
caso di un gas essa eÁ notevole, e precisamente si trova che CP > CV , cioeÁ il calore
specifico a pressione costante eÁ maggiore di quello a volume costante: questo perche a
pressione costante, una parte del calore assorbito dal gas viene utilizzato per compiere
lavoro (PDV † quando esso, in seguito al riscaldamento, si espande contro la pressione
esterna. Infatti, riscaldando una mole di gas a volume costante, il calore fornito serve solo
per aumentare la temperatura, mentre se il gas eÁ libero di espandersi, occorre fornire
calore anche perche esso possa compiere lavoro contro la pressione esterna.
Pertanto, se vogliamo aumentare di 1 K la temperatura di una mole di gas a pressione
esterna costante, dobbiamo fornire la quantitaÁ di calore:
CP ˆ CV ‡ PDV
(18:19)
Consideriamo allora una mole di gas perfetto di volume iniziale V1 , alla temperatura
iniziale T, che viene riscaldato di 1 K a pressione esterna costante P (che in condizioni di
equilibrio si identifica con la pressione del gas stesso) e sia V2 il volume finale. Possiamo
allora applicare l'equazione di stato dei gas perfetti per lo stato iniziale e finale del gas:
PV1 ˆ RT
PV2 ˆ R (T ‡ 1)
da cui, sottraendo la prima espressione dalla seconda:
PV2 PV1 ˆ R (T ‡ 1) RT
P(V2 V1 ) ˆ R (T ‡ 1 T)
PDV ˆ R ˆ L
R rappresenta quindi il lavoro compiuto da una mole di gas perfetto, quando esso viene
riscaldato di 1 K (1 ëC) a pressione costante. Sostituendo infine nella (18.19):
C P ˆ CV ‡ R
223
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
(18:20)
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
18. Primo principio della termodinamica
Per mezzo della (18.20), noto il calore specifico molare a volume costante (CV ) di un gas
ideale (o a comportamento ideale), se ne calcola facilmente il calore specifico molare a
pressione costante (CP ).
Se riscaldiamo una mole di gas a volume costante, il sistema non compie nessun lavoro,
per cui, tenendo conto dell'espressione del primo principio data dalla (18.3):
Q
si ottiene:
L ˆ U
QV ˆ U
(in cui QV indica appunto che il processo avviene a volume costante).
Questo significa che tutto il calore fornito va a incrementare l'energia interna del
sistema; ma, in base alla (18.15), per una mole di gas perfetto risulta:
QV ˆ CV T ˆ U
Questa espressione indica quindi che il calore specifico a volume costante CV corrisponde
all'aumento dell'energia interna del sistema per l'incremento di un grado di temperatura.
Vediamo quindi quali sono le forme di energia interna che una molecola di gas
perfetto puoÁ possedere:
. energia traslazionale: cioeÁ energia cinetica della particella che si sposta nello spazio con
una certa velocitaÁ;
. energia rotazionale: le molecole poliatomiche, oltre a spostarsi nello spazio, possono
ruotare intorno al proprio baricentro;
. energia vibrazionale: dovuta all'oscillazione degli atomi intorno a una posizione di
equilibrio, corrispondente alla distanza di legame;
. energia elettronica: relativa ai livelli energetici occupati dagli elettroni nella molecola.
A tutte queste forme di energia (che costituiscono quella che viene definita energia
termica, in quanto dipendente dalla temperatura) occorrerebbe poi sommare, per avere
l'energia totale, l'energia al punto zero, valore non noto e costante, che la particella
avrebbe se tutte le sue forme di energia termica si trovassero nel piuÁ basso stato possibile,
cioeÁ allo zero assoluto.
Tenendo presente quanto esposto, i valori dei calori specifici dei gas perfetti trovano
una logica spiegazione:
a) i gas monoatomici possiedono evidentemente solo energia traslazionale, quindi, per
aumentare di un grado la loro temperatura, occorre incrementare solo questa forma di
energia; essi infatti possiedono i valori piuÁ bassi di calore specifico e dalla teoria cinetica si
dimostra che:
3
CV ˆ R
2
e quindi:
5
CP ˆ CV ‡ R ˆ R
2
b) per aumentare di un grado la temperatura di un gas biatomico, occorre incrementare
non solo l'energia traslazionale, ma anche l'energia rotazionale e quella vibrazionale,
quindi i calori specifici assumono valori superiori; a bassa temperatura i valori si
mantengono comunque inferiori ai valori teorici, in quanto non sono ancora attivi i moti
vibrazionali e la molecola si comporta come un «rotatore rigido»; aumentando la
temperatura, i calori specifici aumentano e tendono ai valori teorici;
c) per i gas poliatomici (come H2O e CO2) i calori specifici assumono in genere valori
maggiori, rispetto ai gas biatomici, per l'aumento della complessitaÁ molecolare, che
determina un aumento dei modi vibrazionali della particella (vedi tabella 18.1).
224
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
......................
13. Primo principio e trasformazioni fondamentali dei gas perfetti
...............................................................................................................................................................................................................................................................................................
13
(Da notare che l'energia elettronica non entra in gioco, in quanto le differenze di energia
tra un livello elettronico e il successivo sono molto elevate e le molecole, se non sono
sottoposte a forti eccitazioni, si trovano tutte nel loro stato fondamentale.)
PRIMO PRINCIPIO E TRASFORMAZIONI FONDAMENTALI
DEI GAS PERFETTI
Il primo principio della termodinamica, per una generica trasformazione infinitesima
effettuata da un sistema, si puoÁ scrivere:
dU ˆ dQ
dL
(18:21)
Se il lavoro in gioco eÁ solo di tipo meccanico, si ha:
dU ˆ dQ
PdV
(18:22)
In base a questa espressione analitica del primo principio, vediamo quali conclusioni si
possono trarre per le trasformazioni piuÁ comuni relative a un gas perfetto.
. Trasformazione isoterma e reversibile
Poiche l'energia interna di un gas perfetto eÁ funzione solo della temperatura, se per
ipotesi si ha:
dT ˆ 0
saraÁ anche:
dU ˆ 0
per cui la (18.22) diventa
dQ ˆ PdV
(18:23)
il che significa che tutto il calore dQ che il sistema assorbe viene utilizzato per compiere il lavoro PdV.
Per un processo finito, si dovraÁ integrare la (18.23):
Z
0
Q
Z
dQ ˆ
V2
V1
PdV
L'integrale a sinistra dell'espressione eÁ di immediata risoluzione (esprime il calore
totale Q). L'integrale a destra eÁ giaÁ stato risolto per il lavoro di espansione isoterma e
reversibile di un gas perfetto, per cui otterremo infine:
Q ˆ L ˆ nRT ln
V2
P1
ˆ nRT ln
V1
P2
(18:24)
. Trasformazione isocora
Per un processo isocoro (cioeÁ a volume costante) il lavoro di espansione evidentemente
eÁ nullo, per cui la (18.22) diventa:
dU ˆ dQV
225
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
(18:25)
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
18. Primo principio della termodinamica
in cui il pedice V mette in evidenza che il calore eÁ scambiato a volume costante. Questo
significa che se il sistema assorbe calore dall'ambiente esterno, la sua energia interna
aumenta di un uguale valore, cioeÁ:
il calore scambiato da un sistema a volume costante si identifica con la variazione
dell'energia interna del sistema.
Come giaÁ osservato, il calore assorbito da un corpo puoÁ essere messo in relazione con
l'aumento di temperatura che ne risulta:
dQV ˆ nCV dT
in cui CV eÁ il calore specifico molare a volume costante. Abbiamo quindi le seguenti
uguaglianze:
(18:26)
dU ˆ dQV ˆ nCV dT
Integrando questa espressione, e supponendo che il calore specifico del gas sia
costante, si puoÁ scrivere:
(18:27)
DU ˆ QV ˆ n CV DT
Poiche l'energia interna di un gas perfetto eÁ funzione solo della temperatura, la
relazione:
dU ˆ n CV dT
o quella per un processo finito:
DU ˆ n CV DT
saraÁ sempre valida, per qualunque tipo di processo (e non solo per i processi a volume
costante), quando si tratti di calcolare l'aumento di energia interna di un gas perfetto,
in conseguenza di un aumento di temperatura.
Possiamo ancora ricavare la seguente relazione, ricordando la (18.17):
1 dQ
1 dU
ˆ
CV ˆ
n dT V n dT V
che per un gas perfetto risulteraÁ cosõÁ semplificata:
CV ˆ
1 dU
n dT
. Trasformazione isobara
Per una trasformazione isobara (cioeÁ a pressione costante), possiamo scrivere:
dQP ˆ dU ‡ PdV
e integrando, tenendo conto che P eÁ costante:
QP ˆ DU ‡ PDV
(18:28)
La (18.28) puoÁ essere scritta anche:
QP ˆ U2
ˆ U2
U1 ‡ P …V2
U1 ‡ PV2
V1 †
PV1
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13. Primo principio e trasformazioni fondamentali dei gas perfetti
riordinando i termini al secondo membro si ha infine:
QP ˆ (U2 ‡ PV2 )
(U1 ‡ PV1 )
L'espressione (U ‡ PV ) viene indicata con il simbolo H:
H ˆ U ‡ PV
(18:29)
cui si daÁ il nome di entalpia o contenuto termico totale di un sistema, in quanto con
essa si tiene conto, oltre che dell'energia delle particelle che costituiscono il sistema
materiale (energia interna), anche dell'energia determinata dalla pressione e dal
volume del sistema stesso, la quale viene espressa tramite il prodotto PV che ha le
dimensioni di un lavoro (energia).
Possiamo quindi scrivere:
QP ˆ DH
cioeÁ:
il calore scambiato da un sistema a pressione costante, si identifica con la variazione
dell'entalpia del sistema.
Dalla (18.29) risulta che l'entalpia, essendo legata all'energia interna, eÁ anch'essa una
grandezza estensiva, dipendente cioeÁ dalla massa, e che se il sistema eÁ un gas perfetto,
essa eÁ funzione solo della temperatura:
H ˆ f (T)
mentre per un gas reale l'entalpia eÁ funzione di due delle tre variabili di stato, e cioeÁ:
H ˆ f (T, P) oppure H ˆ f (P, V ) oppure H ˆ f (V, T)
Infatti, abbiamo giaÁ fatto osservare che l'energia interna U, per esempio di una mole di
gas perfetto, dipende solo dalla temperatura, e cosõÁ pure il prodotto PV (infatti
PV ˆ RT): quindi H ˆ f (T) per i sistemi ideali. Sempre dalla (18.29) possiamo inoltre
dedurre che l'entalpia eÁ una funzione di stato, in quanto l'energia interna eÁ una funzione
di stato e la pressione e il volume sono variabili di stato. Quindi la variazione di entalpia
di un sistema materiale, in seguito a un qualsiasi processo, eÁ data dalla differenza fra il
valore da essa assunto allo stato finale (Hfin ) meno quello assunto allo stato iniziale
(Hin ), indipendentemente dalla reversibilitaÁ o irreversibilitaÁ della trasformazione:
DH ˆ Hfin
Hin
Poiche l'entalpia ha le dimensioni di un'energia, essa verraÁ espressa in joule (o in calorie).
In modo del tutto analogo a quanto visto per i processi isocori, possiamo mettere in
relazione il calore assorbito in una trasformazione isobara con la variazione di temperatura subita dal sistema:
(18:30)
dQP ˆ dH ˆ n CP dT
da cui:
QP ˆ DH ˆ n CP DT
(18:31)
Potremo inoltre scrivere (considerando H funzione di temperatura e pressione):10
1 @Q
1 @H
CP ˆ
ˆ
n @T P n @T P
10
Poiche l'entalpia per un gas perfetto eÁ funzione solo della temperatura, la relazione (18.31), in modo analogo a
quanto visto per l'energia interna, eÁ valida non solo per un processo isobaro, ma per qualsiasi processo che porti il
sistema dalla temperatura T1 alla temperatura T2 . Inoltre, dalle relazioni H ˆ U ‡ PV ˆ U ‡ RT risulta immediatamente quest'altra relazione, per calcolare la variazione di entalpia per un gas ideale: DH ˆ DU ‡ RDT (per mole),
oppure DH ˆ DU ‡ nRDT (per n moli).
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........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
18. Primo principio della termodinamica
che per un gas perfetto diventa:
CP ˆ
1 dH
n dT
L'applicazione di questa nuova funzione eÁ di notevole importanza, in processi sia fisici
sia chimici. Per esempio, in un passaggio di stato, poiche si tratta di un processo isobaro
(oltre che isotermo), il calore in gioco (calore latente), si identifica con la variazione di
entalpia del sistema:
l ˆ DH
Avremo quindi, riferendoci a una mole, il calore latente molare (o entalpia molare) di
fusione, di ebollizione, di sublimazione, di transizione cristallina: per questi processi,
il calore latente (e quindi DH) avraÁ segno positivo (calore assorbito; per la transizione
cristallina deve intendersi in questo caso il passaggio dalla fase stabile a bassa
temperatura a quella stabile ad alta temperatura). Per i processi inversi (solidificazione,
condensazione, brinamento, transizione cristallina dalla fase stabile ad alta temperatura a quella stabile a bassa temperatura), il calore latente saraÁ evidentemente uguale in
valore assoluto ma di segno opposto (calore ceduto).
Il significato del calore latente viene messo in evidenza considerando per esempio i
due contributi (DU e PDV ) all'entalpia di vaporizzazione: una parte notevole del
calore latente fornito al liquido incrementa l'energia interna del sistema (DU), in
quanto viene utilizzata per scindere i legami esistenti tra le molecole allo stato liquido
(nel caso dell'acqua, per esempio, legami a idrogeno), e una parte (minore) viene
utilizzata dal sistema per compiere il lavoro (PDV ) di espansione contro la pressione
esterna (a causa dell'aumento di volume nel passaggio da liquido a vapore)
L ˆ PDV ˆ P(Vvap
Vliq )
Le reazioni chimiche avvengono molto spesso in un recipiente aperto a pressione
costante, quindi il calore di reazione si identifica con la variazione di entalpia del
sistema chimico:
DH ˆ S Hprodotti S Hreagenti ˆ QP
Quest'ultima relazione indica che il calore scambiato in una reazione condotta a
pressione costante, poiche coincide con la variazione di una funzione di stato, eÁ
indipendente da eventuali reazioni intermedie, ma dipende solo dallo stato iniziale
(entalpia dei reagenti) e dallo stato finale (entalpia dei prodotti).
Da notare che l'uguaglianza:
DH ˆ QP
eÁ stata ricavata partendo dall'ipotesi che l'unico lavoro in gioco sia quello meccanico
PDV ; nel caso che il sistema esegua anche lavoro d'altro tipo, come accade in una pila,
in cui viene compiuto del lavoro elettrico, le precedenti conclusioni dovranno essere
modificate. Infatti, tenendo presente l'espressione del primo principio:
Q ˆ DU ‡ L
se il lavoro eÁ sia di tipo meccanico che elettrico, cioeÁ:
sostituendo:
L ˆ PDV ‡ Lel
Q ˆ DU ‡ PDV ‡ Lel
Avendo definito a P costante:
DU ‡ PDV ˆ DH
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Tabella 18.1
.......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
13. Primo principio e trasformazioni fondamentali dei gas perfetti
Calori specifici dei
gas ideali e rapporto
g ˆ CP =CV .
potremo concludere che:
QP ˆ DH ‡ Lel
EÁ evidente che solo nel caso che l'unico lavoro in gioco sia di tipo meccanico, eÁ valida
l'uguaglianza:
QP ˆ DH
. Trasformazione adiabatica
Una trasformazione subita da un sistema materiale, senza che questo scambi calore
con l'ambiente esterno viene detta adiabatica. Applicando il primo principio a tale
trasformazione, poiche dev'essere:
dQ ˆ 0
si avraÁ:
dU ˆ
dL
(18:32)
il che significa che se il sistema compie lavoro sull'esterno (dL > 0), la variazione di
energia interna (dU) risulteraÁ negativa: il lavoro compiuto dal sistema viene fatto a
spese della sua energia interna. Viceversa, se viene compiuto lavoro sul sistema (dL < 0),
la variazione di energia interna (dU) risulteraÁ positiva: il lavoro compiuto sul sistema
risulta immagazzinato come energia interna.
Possiamo ancora dedurre che, poicheÂ:
dU ˆ n CV dT ˆ
dL
(18:33)
a un lavoro fatto dal sistema corrisponde una diminuzione di temperatura dello stesso,
mentre a un lavoro fatto sul sistema corrisponde un aumento di temperatura.
Dalla (18.33) per integrazione otteniamo il lavoro adiabatico per un processo finito:
Lˆ
n CV DT
(18:34)
La relazione che lega la pressione e il volume in un processo adiabatico eÁ data
dall'equazione di Poisson:
PV g ˆ costante
in cui g ˆ CP =CV .
Il rapporto g ˆ CP =CV assume valori diversi, a seconda dell'atomicitaÁ del gas; poiche i
calori specifici aumentano con l'aumentare della complessitaÁ molecolare, mentre la
loro differenza si mantiene costante (e uguale a R), il rapporto g ˆ CP =CV eÁ massimo
per i gas monoatomici, diminuisce per i gas biatomici, e cosõÁ via per i gas poliatomici,
come appare dalla tabella 18.1.
Gas monoatomici
CV ˆ
3
R
2
CP ˆ
5
R
2
g ˆ 1,66
Gas biatomici (a bassa T )
CV ˆ
5
R
2
CP ˆ
7
R
2
g ˆ 1,4
Gas triatomici, molecole lineari (es. CO2 ) (a bassa T )
CV ˆ
5
R
2
CP ˆ
7
R
2
g ˆ 1,4
Gas triatomici, molecole angolari (es. H2 O) (a bassa T )
CV ˆ 3 R
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CP ˆ 4 R
g ˆ 1,33
Figura 18.16
....................................................................................................................................................
18. Primo principio della termodinamica
Trasformazione adiabatica (linea continua) e isoterme (linee tratteggiate).
Nel piano P, V la trasformazione adiabatica ha una pendenza piuÁ «ripida» rispetto a
un'isoterma; questo deriva dal fatto che in un'espansione adiabatica e reversibile (per
esempio da A a B nella figura 18.16), il gas si raffredda, e quindi la curva deve intersecare delle isoterme a temperature sempre piuÁ basse.
P
T1 T2 T3 T4 T5
A
B
V
Matematicamente, la pendenza della curva adiabatica varia al variare di g: piuÁ alta eÁ
l'atomicitaÁ del gas, piuÁ il valore di g diminuisce (tende a 1), e l'andamento della curva
adiabatica si avvicina a quello di un'isoterma.
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QUESITI
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QUESITI
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20 esercizi interattivi
1. Qual eÁ la caratteristica peculiare delle variabili di
stato e delle funzioni di stato?
Boyle, si tratta di una isoterma reversibile o irreversibile?
2. Perche l'energia interna di un gas ideale dipende
solo dalla massa e dalla temperatura del gas?
16. Perche il calore specifico di un gas misurato a
pressione costante eÁ maggiore del calore specifico
misurato a volume costante?
3. Spiega in base a quali criteri vengono proposte le
due seguenti formulazioni matematiche del primo principio della termodinamica:
Q
L ˆ DU
Q ‡ L ˆ DU
4. Perche la variazione dell'energia interna di un sistema ideale in una trasformazione ciclica, oppure in
una trasformazione isoterma coincidono? La stessa
cosa puoÁ essere detta per i sistemi reali? PercheÂ?
5. Il rapporto fra il calore e il lavoro scambiati da un
sistema materiale con l'esterno, in una trasformazione
ciclica, eÁ uguale a una costante universale. Qual eÁ la
conseguenza piuÁ significativa di cioÁ?
6. Perche eÁ molto utile assumere come modello le
trasformazioni di un gas ideale?
7. Qual eÁ per la scienza l'utilitaÁ del calcolo differenziale? Che cosa significa in pratica applicare a
un fenomeno il calcolo differenziale?
8. Che cosa si intende per processo reversibile? Esiste
realmente un processo veramente reversibile? Esiste
una relazione fra calcolo differenziale e fenomeno
reversibile?
9. Quali sono le condizioni necessarie affinche l'espansione o la compressione di un gas avvengano
reversibilmente?
10. Che cosa definiscono le funzioni termodinamiche
di stato? Quali sono le variabili da cui esse normalmente dipendono nelle trasformazioni dei gas?
11. Che cosa si propone il moto perpetuo di prima specie, e perche deve essere dichiarato assurdo?
12. Perche la variazione di energia interna, in seguito a
una trasformazione di un sistema materiale, coincide sia per il processo reversibile sia per quello
irreversibile? Se la risposta fosse negativa, quali
conseguenze ne dovrebbero essere tratte?
13. Tutti i fenomeni spontanei e cioeÁ tutti i fenomeni
naturali sono irreversibili. PercheÂ?
14. In quali casi una trasformazione irreversibile puoÁ
essere dichiarata isoterma?
15. Quando nel grafico della pressione in funzione
del volume viene rappresentata un'isoterma di
17. Perche in genere il calore specifico di un solido,
misurato a volume costante, eÁ poco diverso dal
calore specifico misurato a pressione costante?
18. La stessa quantitaÁ di calore fornita a volume costante a una mole di argon oppure a una mole di
ossigeno provoca lo stesso innalzamento di temperatura?
19. Perche il calore specifico CV di un gas biatomico eÁ
maggiore del calore specifico CV di un gas monoatomico?
20. Occorre piuÁ calore per scaldare un gas da T1 a T2 a
volume costante oppure a pressione costante?
21. In quali processi calore e lavoro scambiati da un
sistema coincidono con la variazione di una funzione di stato?
22. In quali casi la variazione di entalpia, in un processo isobaro, non coincide con il calore scambiato
dal sistema?
23. Nella fusione di una data quantitaÁ di ghiaccio il
lavoro in gioco ha segno positivo o negativo?
24. Una certa quantitaÁ di ghiaccio, alla temperatura di
20 8C, viene riscaldata a pressione atmosferica,
finche non si trasforma completamente in vapore a
150 8C: di quali contributi entalpici occorre tener
conto per calcolare la variazione complessiva di
entalpia del sistema?
25. Una mole di gas ideale viene portata dalla temperatura di 25 8C alla temperatura di 125 8C: per calcolare la variazione dell'energia interna del sistema,
eÁ necessario specificare come avviene il processo?
26. Un gas ideale si espande in un caso isotermicamente e reversibilmente, in un altro caso adiabaticamente e reversibilmente, partendo dalle stesse
condizioni iniziali e raggiungendo lo stesso volume
finale: eÁ maggiore il lavoro compiuto dal gas nel
primo o nel secondo caso?
27. Se un gas perfetto viene compresso adiabaticamente
e reversibilmente, come varia la sua temperatura?
28. Se il calore specifico a pressione costante CP di un
gas eÁ uguale a 29 J mol 1 K 1 , quanto vale il suo
calore specifico a volume costante CV ?
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19
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1
...................................................................
2
Termochimica
IL PRIMO PRINCIPIO APPLICATO AI SISTEMI CHIMICI
Una reazione chimica, che consiste in un cambiamento della natura delle sostanze dovuto alla
scissione di alcuni legami e alla formazione di altri (cui compete un diverso contenuto
energetico rispetto ai precedenti), comporta sempre un assorbimento o una cessione di calore
all'ambiente esterno da parte del sistema chimico. Se l'insieme dei fenomeni che si verificano
comporta un assorbimento di calore, la reazione si dice endotermica, se invece si ha sviluppo
di calore, la reazione si dice esotermica. L'effetto termico di una reazione (detto anche
tonalitaÁ termica) viene studiato tramite opportuni calorimetri, suddivisi in due tipi:
. calorimetri a volume costante: la reazione avviene in un recipiente chiuso, per cui, in
base al primo principio:
QV ˆ DU
(19:1)
. calorimetri a pressione costante: la reazione avviene in un recipiente aperto, sotto una
pressione costante (il piuÁ delle volte quella atmosferica) per cui:
QP ˆ DH
(19:2)
Possiamo quindi affermare che il calore svolto o assorbito in una reazione chimica si
identifica con la variazione di una funzione di stato (l'energia interna o l'entalpia), purcheÂ
il processo avvenga a volume costante o a pressione costante: questo significa che tale
calore eÁ indipendente dal cammino percorso dal sistema, e cioeÁ da eventuali reazioni
intermedie, ma dipende solo dal contenuto energetico dei reagenti (stato iniziale) e da
quello dei prodotti (stato finale).
QV ˆ DU ˆ SUprodotti
SUreagenti 1
A pressione costante: QP ˆ DH ˆ SHprodotti
SHreagenti
A volume costante:
LEGGE DI HESS
Le relazioni cui siamo pervenuti applicando il primo principio della termodinamica alle
reazioni chimiche, e cioeÁ:
DU ˆ QV
e
DH ˆ QP
1
Il simbolo S (sommatoria) ha il significato di una somma algebrica estesa a una serie di grandezze omogenee.
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2. Legge di Hess
costituiscono il fondamento della legge di Hess2 che eÁ la legge guida della termochimica,
e che puoÁ essere cosõÁ enunciata:
il calore scambiato in una reazione che si svolge a pressione esterna costante o a volume
costante eÁ indipendente dalle eventuali reazioni intermedie, ma dipende solo dallo stato
iniziale e finale del sistema chimico, e cioeÁ dall'energia interna o dall'entalpia dei reagenti e
dei prodotti della reazione.
EÁ opportuno sottolineare, al fine di evitare confusioni, che in accordo con il criterio egoistico e con quello misto, il valore numerico del DH o del DU di una reazione eÁ preceduto
dal segno negativo se il calore eÁ ceduto dal sistema (reazione esotermica) e dal segno positivo
se il calore eÁ assorbito dal sistema (reazione endotermica). In termochimica eÁ abitudine
assumere come protagonista l'esterno, per cui si fa precedere dal segno positivo il calore
svolto nella reazione e dal segno negativo quello assorbito. Per esempio, la reazione:
3
S(s) ‡ O2(g) ! SO3(g)
2
a pressione esterna costante avviene con sviluppo di 395 kJ per ogni mole di SO3 gassosa
che si forma, e per quanto detto eÁ:
3
DH ˆ HSO3
HS ‡ HO2
2
e cioeÁ
QP ˆ
395 kJ=mol
Invece in termochimica il calore svolto nella reazione viene cosõÁ indicato:
…QP ˆ ‡395 kJ=mol†
EÁ opportuno anche sottolineare, come conseguenza del primo principio, che se viene
considerato il processo inverso di una data reazione, la relativa quantitaÁ di calore messa in
gioco eÁ uguale ma di segno opposto a quella messa in gioco nel processo diretto.3
Vediamo ora alcune importanti applicazioni della legge di Hess.
Per esempio non eÁ possibile, per via calorimetrica diretta, la misura sperimentale del
calore messo in gioco nella reazione di sintesi dell'ossido di carbonio a partire dal carbonio (grafite) e dall'ossigeno gassoso, in quanto si forma sempre anidride carbonica gassosa. In base alla legge di Hess, il problema puoÁ essere facilmente risolto misurando, a una
data temperatura, il calore di formazione dell'anidride carbonica dagli elementi, e sempre
alla stessa temperatura,4 il calore di formazione dello stesso composto a partire dall'ossido
di carbonio e dall'ossigeno.
Infatti, la reazione di sintesi dell'anidride carbonica a partire dal carbonio (grafite) e
dall'ossigeno, si puoÁ considerare che possa avvenire sia in un'unica fase a) (percorso
diretto):5
a) Cgrafite ‡ O2(g) ! CO2(g) con DH1 ˆ
393,5 kJ=mol
2
Germain Henri Hess (1802-1850), chimico russo.
Tale affermazione eÁ anche nota come legge di Lavoisier-Laplace. Questo perche se il DH della reazione diretta non
fosse uguale al DH della reazione inversa, potremmo condurre una medesima reazione prima in un verso (DH1 ) e poi in
quello opposto ( DH2 ) e, a ciclo ultimato, essendo per ipotesi DH1 diverso da DH2 , avere creato dal nulla o distrutto
energia, in quanto il sistema eÁ tornato nelle medesime condizioni iniziali.
4
Si ricordi che l'entalpia dipende dalla temperatura.
5
Poiche le reazioni vengono generalmente condotte in recipienti aperti (a pressione esterna costante) la grandezza
DH viene preferita alla grandezza DU per descrivere le variazioni di energia dei sistemi chimici.
3
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19. Termochimica
......................................
3
sia attraverso due fasi distinte b) e c) con la formazione intermedia dell'ossido di carbonio
(percorso indiretto):
1
b) Cgrafite ‡ O2(g) ! CO(g) con DHx ˆ ?
2
1
c) CO(g) ‡ O2(g) ! CO2(g) con DH2 ˆ 282 kJ=mol
2
Se ora schematizziamo queste tre fasi nel modo seguente:
Stato intermedio
CO
1
C + – O2
2
CO
ΔHx
C + O2
Stato iniziale
1
CO + – O2
2
CO2
ΔH2
C+O2
CO2
ΔH1
CO2
Stato finale
tenendo conto che l'entalpia eÁ una funzione di stato, e che nei due percorsi, quello diretto
e quello indiretto, lo stato iniziale e quello finale del sistema coincidono, deve essere:
DHx ‡ DH2 ˆ DH1 da cui DHx ˆ DH1
DH2
e sostituendo i dati a nostra disposizione:
DHx ˆ
393,5 kJ=mol ‡ 282 kJ=mol ˆ
111,5 kJ=mol
che eÁ il calore di formazione di CO a partire dagli elementi.
Generalizzando il caso preso ad esempio, possiamo formulare la seguente regola:
il calore di formazione di un composto eÁ dato dalla somma dei calori di combustione degli
atomi degli elementi che lo compongono meno il calore di combustione del composto
stesso.
L'importanza della funzione di stato entalpia non solo eÁ dovuta al fatto che essa ha
permesso di risolvere i problemi della termochimica, come in particolare quello del
calcolo teorico della quantitaÁ di calore liberata nella combustione di un combustibile
(liquido, solido o gassoso), ma anche perche essa eÁ strettamente legata alla resa teorica di
una reazione, dato che la costante di equilibrio eÁ notevolmente influenzata dal DH di
reazione. Infatti, come vedremo, il rendimento di un processo chimico non puoÁ essere
calcolato se non si tiene conto dei valori dell'entalpia dei reagenti e dei prodotti.
Per questa ragione si eÁ trovato molto utile riportare in una tabella i valori dell'entalpia
del maggior numero di specie chimiche, in modo da poter calcolare rapidamente la variazione di entalpia legata a una reazione senza doverne effettuare la misura sperimentale
diretta.
STATO STANDARD
CosõÁ come non eÁ noto il valore assoluto dell'energia interna, non lo eÁ neanche quello
dell'entalpia, ma in termodinamica chimica cioÁ che interessa eÁ il valore numerico della sua
variazione in seguito a una reazione, che, in base alla legge di Hess, puoÁ essere ottenuto o
per misura sperimentale diretta o per calcolo indiretto.
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3. Stato standard
Per esempio, nella reazione di sintesi di una mole di acido cloridrico:
1
1
H2(g) ‡ Cl2(g) ! HCl(g)
2
2
la variazione di entalpia (DH) eÁ data dalla differenza tra l'entalpia di una mole di acido
cloridrico meno la somma dell'entalpia di 0,5 mol di idrogeno e di 0,5 mol di cloro, e il
suo valore numerico, in base alla (19.2), e cioeÁ
DH ˆ QP
si identifica con la quantitaÁ di calore scambiato nel processo condotto a pressione esterna
costante.
Poiche l'entalpia eÁ legata all'energia interna del sistema, la quale a sua volta dipende sia
dalla temperatura sia dallo stato di aggregazione delle sostanze, eÁ evidente che la variazione di entalpia, e cioeÁ il calore di reazione, eÁ diverso per la stessa reazione in dipendenza
sia della temperatura a cui avviene la reazione, sia dello stato di aggregazione dei reagenti
e dei prodotti. Avremo quindi, per la stessa reazione, piuÁ valori del DH non solo al variare
della temperatura ma anche al variare dello stato di aggregazione delle specie chimiche
coinvolte nel processo. Per uniformitaÁ di valutazione, e poiche non interessano i valori
assoluti dell'entalpia dei sistemi materiali, si eÁ convenuto di riferirsi a un arbitrario punto
di riferimento detto stato standard, dal quale calcolare la variazione di entalpia di tutte le
specie chimiche.
Lo stato standard di ciascun elemento o composto viene definito come lo stato di
aggregazione piuÁ stabile che l'elemento o composto presenta sotto la pressione di 1 atm
e alla temperatura di 298 K (25 8C);6 inoltre, per convenzione, a ciascun elemento nel suo
stato standard viene assegnato il valore di entalpia uguale a zero.
Per esempio, lo stato standard dell'ossigeno eÁ quello gassoso, lo stato standard del mercurio
eÁ quello liquido, lo stato standard dello zolfo eÁ lo zolfo rombico, in quanto questi sono gli
stati di aggregazione piuÁ stabili degli elementi considerati, sotto la pressione di 1 atm e alla
temperatura di 25 8C (la loro entalpia in questo stato eÁ uguale a zero per convenzione).
Nel caso di due o piuÁ sostanze in reazione, che sotto la pressione di 1 atm e a 25 8C si
trovano allo stato gassoso, lo stato standard di ciascuna di esse eÁ verificato quando la loro
pressione parziale eÁ uguale 1 atm (sistemi gassosi ideali): ne consegue che in una miscela di
gas l'entalpia di ciascun elemento gassoso (idrogeno, ossigeno, cloro, fluoro ecc.) eÁ uguale a
zero quando la sua pressione parziale eÁ pari a 1 atm. Pertanto, considerando la reazione di
sintesi di una mole di acido cloridrico (gas a 1 atm) a partire dagli elementi idrogeno (gas a
1 atm) e cloro (gas a 1 atm), e cioeÁ con i reagenti e i prodotti nei rispettivi stati standard:
1
1
H2(gas, 1 atm) ‡ Cl2(gas, 1 atm) ! HCl(gas, 1 atm)
2
2
possiamo affermare che la quantitaÁ di calore (QP), scambiato dal sistema chimico con
l'esterno quando la reazione eÁ condotta a pressione esterna costante, coincide numericamente con l'entalpia standard di formazione di una mole di acido cloridrico. Questa grandezza denominata entalpia molare standard di formazione viene simboleggiata con H8, in
cui l'indice «8» indica che sia i reagenti sia i prodotti si trovano nei rispettivi stati standard.
6
Attualmente viene considerata pressione standard la pressione di 1 bar (1 bar ˆ 105 Pa; 1 atm ˆ 1,013 25 bar). I
valori delle entalpie standard di formazione tabulati alla temperatura di 25 8C e pressione di 1 atm, differiscono in modo
minimo dai valori standard tabulati in base all'attuale convenzione. Lo stesso vale per altre grandezze standard, che
verranno trattate in seguito.
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19. Termochimica
Infatti, indicando con DH8 la variazione di entalpia standard per la reazione considerata
prima otteniamo:
DH8 ˆ H8finale
ˆ H8prodotti
ˆ H8HCl
H8iniziale
H8reagenti
1
1
H8 ‡ H8
2 H2 2 Cl2
ma H8H2 ˆ H8Cl2 ˆ 0 (elementi nei rispettivi stati standard).
Pertanto:
DH8 ˆ H8HCl (0 ‡ 0)
e poiche DH8 ˆ QP otteniamo H8HCl ˆ QP . Dato che l'entalpia dipende dalla temperatura, anche l'entalpia molare standard di formazione (H8) delle sostanze eÁ funzione della
temperatura, e pertanto eÁ necessario precisare la temperatura alla quale essa viene riferita
indicandola in gradi kelvin in basso a destra del simbolo della grandezza.7
Per sottolineare l'utilitaÁ della definizione dello stato standard delle specie chimiche,
consideriamo ancora un esempio: facendo reagire a 25 8C e a pressione esterna costante
0,5 mol di idrogeno gassoso (1 atm) e 0,5 mol di iodio solido, eÁ risultato (dato sperimentale) che per ogni mole di HI gassoso (1 atm) che si forma, vengono assorbiti dal
sistema 26,48 kJ:
1
1
H2(gas, 1 atm) ‡ I2(s) ! HI(gas, 1 atm)
2
2
DH8 ˆ 26,48 kJ=mol
pertanto, poiche anche in questo caso i reagenti e i prodotti si trovano tutti negli stati
standard, e tenendo conto che l'entalpia degli elementi (idrogeno e iodio) nei rispettivi
stati standard eÁ uguale a zero, la quantitaÁ di calore corrispondente a 26,48 kJ/mol si
identifica con l'entalpia molare standard di formazione dell'acido iodidrico a 25 8C:
H8HI ˆ 26,48 kJ=mol
Si tenga presente che accanto alla formula delle specie chimiche coinvolte in una reazione
deve essere sempre indicato il relativo stato di aggregazione, e se questo eÁ gassoso, la
relativa pressione parziale, e cioÁ per due ovvie ragioni:
. se gli elementi dai quali viene sintetizzata una data sostanza si trovano nei rispettivi
stati standard, puoÁ essere loro assegnato valore di entalpia nullo;
. si deve tener conto dello stato di aggregazione del prodotto della reazione, in quanto se
esso si ottiene allo stato solido, liquido o gassoso, il suo calore di formazione eÁ diverso,
e quindi anche la sua entalpia molare standard di formazione eÁ diversa.
Da ora in avanti, e solo per comoditaÁ, ometteremo l'indicazione della pressione parziale
delle specie chimiche gassose coinvolte in una reazione dando per scontato che essa eÁ pari
a 1 atm.
Per esempio, facendo reagire a 25 8C e a pressione esterna costante 1 mol di idrogeno
gassoso (1 atm) e mezza mole di ossigeno gassoso (1 atm), per ogni mole di acqua liquida
formata eÁ risultato che vengono liberati dal sistema 285,85 kJ, e cioeÁ:
H2(g) ‡
1
O2(g) ! H2 O(l)
2
DH8 ˆ
285,85 kJ=mol
7
Da ora in avanti, e solo per praticitaÁ, indicheremo l'entalpia molare standard di formazione delle sostanze a 25 8C,
e solo per questa temperatura, invece che con il simbolo H8298 , con quello piuÁ semplice H8.
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4. Entalpia standard di reazione
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APPENDICE TABELLE
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4
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
APPENDICE TABELLE
per cui il valore di DH8 della reazione eÁ identificabile con l'entalpia molare standard di
formazione di una mole (18 g) di acqua liquida a 25 8C a partire dai suoi elementi nei
rispettivi stati standard. Volendo calcolare l'entalpia molare standard di formazione di
una mole di acqua allo stato di vapore, si deve tener conto del calore latente di evaporazione dell'acqua che alla temperatura di 25 8C eÁ uguale a 44,06 kJ/mol. Dato che questo
calore viene liberato dal sistema nel passaggio di stato vapore-liquido, esso eÁ ovviamente
giaÁ compreso nei 285,85 kJ/mol liberati nella formazione di una mole di acqua liquida.
Pertanto, l'entalpia molare standard di formazione dell'acqua allo stato di vapore (gas) a
25 8C eÁ ottenuta con il semplice calcolo:
H8H2 O(g) ˆ
285,85 kJ=mol ‡ 44,06 kJ=mol ˆ
241,79 kJ=mol
Pertanto eÁ lecito scrivere:
1
H2(g) ‡ O2(g) ! H2 O(g)
2
DH8 ˆ
241,79 kJ=mol
Nell'Appendice online (tabella A.3) vengono elencati i valori numerici dei calori molari
standard di formazione, o entalpie molari standard di formazione, di alcune sostanze alla
temperatura di 25 8C.
ENTALPIA STANDARD DI REAZIONE
Un'altra importante applicazione della legge di Hess consente di calcolare indirettamente
l'effetto termico, e cioeÁ il valore di DH8, relativo a una qualsiasi reazione, mediante i dati
tabellati delle entalpie molari standard di formazione delle sostanze. Ovviamente, poicheÂ
i dati tabellati sono riferiti alla temperatura di 25 8C, il valore di DH8 cosõÁ calcolato eÁ
quello della reazione quando essa avviene alla medesima temperatura.
Per esempio, data la seguente reazione a 25 8C:
CH4(g) ‡ 2 O2(g) ! CO2(g) ‡ 2 H2 O(l)
indichiamo con DH8 la variazione di entalpia alla temperatura data, e tenendo presente
che l'entalpia eÁ una funzione di stato e che dipende dalla massa, possiamo scrivere
rispettivamente:
DH8 ˆ SH8prodotti
SH8reagenti
e:
DH8 ˆ [H8CO2 ‡ 2 H8H2 O ]
[H8CH4 ‡ 2 H8O2 ]
Poiche dai dati riportati nell'Appendice online risulta:
H8CO2 ˆ
393,50 kJ=mol
H8O2 ˆ 0,00 (per convenzione)
H8H2 O ˆ
285,85 kJ=mol
H8CH4 ˆ
74,85 kJ=mol
sostituendoli nell'ultima equazione sopra scritta otteniamo:
DH8 ˆ
393,50 ‡ [(2 ( 285,85)]
ˆ
[( 74,85) ‡ 0,00] ˆ
890,35 kJ (per ogni mole di metano che reagisce)
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19. Termochimica
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5
Il risultato ottenuto indica che quando a pressione esterna costante e a 25 8C, una mole di
metano (1 atm) reagisce con due moli di ossigeno (1 atm), formando una mole di anidride
carbonica (1 atm) e due moli di acqua liquida, e cioeÁ quando sia i reagenti che i prodotti si trovano nei rispettivi stati standard, nella reazione vengono liberati 890,35 kJ;
o in altre parole, la variazione di entalpia standard (DH8) della reazione a 25 8C eÁ uguale a
890,35 kJ.
CALCOLO DI DH DA DU
Poiche le esperienze calorimetriche vengono in genere effettuate per mezzo della bomba
calorimetrica, recipiente ermeticamente chiuso (a volume costante), il calore messo in
gioco nella reazione si identifica con DU (DU ˆ QV ). Noto il valore di DU della reazione,
si puoÁ calcolare facilmente il valore di DH.
Sappiamo infatti che l'entalpia eÁ legata all'energia interna dalla relazione:
H ˆ U ‡ PV
Se consideriamo dapprima una variazione infinitesima dH, otteniamo:
dH ˆ dU ‡ d(PV )
(19:3)
Se integriamo la (19.3) fra lo stato iniziale (1) e quello finale (2):
Z
1
2
Z
dH ˆ
1
2
Z
dU ‡
1
2
d(PV )
risolvendo gli integrali:
DH ˆ DU ‡ D(PV )
(19:4)
Nell'equazione (19.4) il termine D(PV ) ha il significato di differenza fra la somma dei
prodotti PV delle sostanze finali e la somma dei prodotti PV delle sostanze iniziali.
Se la reazione avviene fra sostanze liquide o solide, e cioeÁ allo stato condensato, dato
che la pressione e il volume dei reagenti e dei prodotti rimangono praticamente inalterati,
il D(PV ) eÁ trascurabile, e pertanto il DH e il DU, per simili reazioni, sono praticamente
coincidenti (QP ˆ QV ).
Invece, nelle reazioni in fase gassosa si deve tener conto del termine D(PV ), che nel
caso di sostanze gassose a comportamento ideale si ottiene applicando a ciascun gas
l'equazione dei gas perfetti:
PV ˆ nRT
8
dalla quale risulta:
D(PV ) ˆ Dn(RT)
e quest'ultima confrontata con la (19.4) fornisce:
DH ˆ DU ‡ Dn(RT)
8
(19:5)
Infatti, la variazione del prodotto PV, in una reazione che avviene a temperatura costante, coincide solo con la
variazione del numero di moli (Dn) delle sostanze gassose che vi partecipano, in quanto R eÁ una costante e cosõÁ pure eÁ
costante la temperatura.
238
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
......................
6. Energia di legame
....................................................................................................................................................................................................................................................................................................
6
Il termine Dn che compare nella (19.5) si ottiene facilmente sottraendo dalla somma delle
moli totali dei prodotti della reazione, la somma delle moli totali dei reagenti, facendo
peroÁ attenzione di tener conto solo delle moli delle sostanze allo stato gassoso.
ENERGIA DI LEGAME
Si definisce energia di legame (di un legame covalente) l'energia che si sviluppa quando si
forma il legame tra due atomi che si trovano allo stato di gas monoatomici (o, inversamente, l'energia necessaria per scindere tale legame e portare gli elementi allo stato gassoso monoatomico).
In realtaÁ, sarebbe piuÁ rigoroso parlare di entalpia di legame poiche in effetti eÁ la
variazione di entalpia DH quella che viene calcolata.
Tale valore eÁ stato determinato per i vari legami (per esempio: C2
2C, C2
2H, C2
2O,
O2
2H) in base ai dati termochimici e per mezzo della legge di Hess. Per calcolare
l'energia del legame O2
2H si scelgono due serie di reazioni, in cui si formano uno o piuÁ
legami O2
2H e i cui stati iniziale e finale coincidano, e si calcola la variazione di entalpia
DH che deve essere la stessa nei due casi:
1
1) H2(g) ‡ O2(g) ! H2 O(g) DH 1 ˆ 241,79 kJ=mol
2
(calore di formazione standard di H O )
2
2) H2 ! 2 H(g)
3)
(g)
DH2 ˆ ‡435,93 kJ=mol
(calore di dissociazione di H2(g) in due atomi isolati allo
stato gassoso)
1
O2(g) ! O(g)
2
DH3 ˆ ‡246,86 kJ=mol
(metaÁ del calore di dissociazione di una mole di O2(g) in
due atomi isolati allo stato gassoso)
2 H(g) ‡ O(g) ! H2 O(g)
DHx ˆ calore di formazione di H2 O(g) dagli elementi
allo stato di gas monoatomici
Per la legge di Hess, avremo:
DH1 ˆ DH2 ‡ DH3 ‡ DHx cioe
DHx ˆ 924,58 kJ
241,79 ˆ 435,93 ‡ 246,86 ‡ DHx
Dividendo tale valore per due, otteniamo il calore svolto nella formazione del legame O2
2H:
energia di legameO2
2H ˆ
924,58
ˆ
2
462,29 kJ=mol
Le due diverse vie seguite possono anche essere messe in evidenza tramite lo schema
seguente:
2 H(g) + O(g)
ΔH2
ΔH3
ΔHx
H2(g) + –1 O2(g)
2
ΔH1
H2O(g)
239
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Tabella 19.1
.............................................................................................................................................................................................................
19. Termochimica
Alcuni valori di entalpie di legame.
.............................................................................................................
7
Seguendo analoghi procedimenti, sono state ricavate le energie di legame dei vari gruppi,
di cui alcuni sono elencati nella tabella 19.1.
Legame
Entalpia di legame (kJ/mol)
CÐH
CÐC
C C
CÐO
C O
C Ð Cl
NÐH
OÐH
H Ð Cl
HÐH
O O
N N
Cl Ð Cl
415,9
347,3
610,9
355,6
740,6
338,9
389,1
464,4
430,9
435,1
493,7
945,6
242,7
Note tali energie, eÁ possibile risalire all'energia di formazione di un qualsiasi composto
semplicemente facendo la somma delle energie dei vari legami covalenti presenti nella
molecola (additivitaÁ delle energie di legame). Tali valori sono in genere in discreto
accordo con quelli ottenuti sperimentalmente; causa di errore eÁ quella di considerare ogni
legame a seÂ, indipendentemente dalla presenza di altri legami nella molecola che possono
alterarne la stabilitaÁ; inoltre, come nel calcolo dell'energia del legame C Ð H in CH4 , il
valore ottenuto eÁ spesso una media tra le energie di piuÁ gruppi uguali presenti; un'altra
fonte di errore eÁ dovuta alla presenza di forme risonanti nella molecola, che la rendono
piuÁ stabile (energia di legame piuÁ negativa, cioeÁ piuÁ alta, in valore assoluto, del previsto).
Le energie di legame possono anche essere utilizzate per calcolare il calore di reazione,
considerando che in una reazione si verifica la scissione di determinati legami (cui competeraÁ energia di legame positiva), e formazione di nuovi legami (energia di legame
negativa): la somma algebrica di tali energie corrisponderaÁ al DH di reazione (tenendo
conto peroÁ delle possibili cause di errore di cui si eÁ parlato prima).
ENERGIA DI RISONANZA
Se calcoliamo l'energia di formazione della CO2 dalle energie di legame, otteniamo
(considerando la formula di struttura O C O):
DHf ˆ 2(C
O) ˆ 2 ( 740,6) ˆ
1481,2 kJ=mol
Se invece calcoliamo tale energia di formazione dai dati sperimentali, considerando il
seguente schema:
C(g) + 2 O(g)
+716,72 +493,7
C(s) + O2(g)
ΔHx
– 393,5
CO2(g)
240
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7. Energia di risonanza
otteniamo:
716,72 ‡ 493,7 ‡ DHx ˆ
393,5
da cui:
DHx ˆ
1603,9 kJ=mol
La differenza tra i due valori (circa 123 kJ) eÁ attribuita alla risonanza:
O
C
O
! OÐ C
O
CÐO
! O
A causa di questa particolare struttura, come sappiamo, il composto risulta piuÁ stabile
rispetto a quanto ci si aspetterebbe sulla base delle normali formule di struttura; infatti,
l'energia effettivamente liberata nella sua formazione (1603,9 kJ) eÁ maggiore del valore
teorico (1481,2 kJ): la molecola, formandosi dai suoi elementi, sviluppa una quantitaÁ di
energia maggiore, e quindi risulta piuÁ stabile (si potrebbe anche dire, inversamente, che
occorreraÁ una maggiore quantitaÁ di energia per scindere la molecola nei suoi atomi).
In base alla stessa teoria, siamo in grado di dare una spiegazione soddisfacente delle
proprietaÁ dei composti aromatici. Per calcolare l'energia di legame del benzene:
H
C
H
C
H
C
C
H
C
H
C
H
facciamo la somma delle seguenti energie di legame:
energia di legame ˆ 6 (C2
2H) ‡ 3 (C2
2C) ‡ 3(C C)
ˆ 6( 415,9) ‡ 3( 347,3) ‡ 3( 610,9)
ˆ
5370 kJ=mol
Se calcoliamo la stessa grandezza dai dati sperimentali:
6 C(g) + 6 H(g)
6 × 716,72 3 × 436
6 C(s) + 3 H2(g)
ΔHx
+ 82,93
C6H6(g)
82,93⫽ 6(716,72) ⫹ 3(436) ⫹ ΔHx
ΔHx ⫽ ⫺5525,4 kJ/mol
Esiste quindi una notevole differenza (circa 155 kJ) tra i due valori, risultando piuÁ alto (in
valore assoluto) quello calcolato dai dati sperimentali rispetto a quello basato sui supposti
legami presenti nella molecola (tre legami semplici e tre legami doppi tra gli atomi di
carbonio): nella formazione del composto, in realtaÁ, viene sviluppata una quantitaÁ di
energia maggiore del previsto, in quanto si originano dei legami piuÁ stabili. Tale fatto si
spiega ammettendo che esista una delocalizzazione dei doppietti elettronici condivisi, per
cui il carattere effettivo di tali legami risulta un ibrido di risonanza tra un legame semplice
e un doppio legame.
La differenza tra il valore teorico dell'energia di formazione e quello effettivo si dice
energia di risonanza (e in questo caso corrisponde a circa 155 kJ/mol).
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19. Termochimica
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QUESITI
1. Perche il calore svolto o assorbito in una reazione a
pressione o a volume costante eÁ indipendente dalle
eventuali reazioni intermedie?
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
11. Se non fosse valida la legge di Hess, quale principio verrebbe contraddetto?
3. Perche l'entalpia di un gas ideale dipende solo
dalla temperatura?
12. Per una reazione esotermica, che avviene con
aumento del numero di moli gassose, eÁ maggiore, in valore assoluto, il calore sviluppato
a pressione costante o quello a volume costante?
4. Spiega il significato di entalpia confrontando quella di una mole di acqua liquida con quella di una
mole di acqua vapore.
13. Si ottiene piuÁ calore dalla combustione del metano, se l'acqua si forma allo stato liquido o allo stato
di vapore?
5. Perche l'entalpia di un sistema materiale eÁ una
funzione di stato?
6. EÁ stato utile definire uno stato standard per tutte
le sostanze? PercheÂ? Definisci lo stato standard
delle specie chimiche prese singolarmente e delle
specie chimiche in una miscela gassosa.
14. Come si spiega il fatto che il processo di dissoluzione di un sale in acqua eÁ esotermico oppure
endotermico?
2. Indica in che modo potrebbe essere realizzata una
reazione a pressione esterna costante.
7. Perche eÁ necessario indicare lo stato di aggregazione delle sostanze quando queste sono coinvolte
in una reazione?
8. In che modo eÁ stato possibile tabellare i valori
delle entalpie molari standard di formazione dei
composti chimici? Perche esse vengono normalmente riferite alla temperatura di 25 8C?
9. Spiega che cosa indicano le seguenti simboleggiature: DH8 e DH0 .
10. In quali casi il calore di reazione a pressione
costante, per una reazione in fase gassosa, coincide
con il calore di reazione a volume costante?
15. Nel calcolo del calore di formazione di un composto dalle energie di legame, quali sono le possibili
cause che rendono tale valore in disaccordo con
quello ottenuto sperimentalmente?
16. Come si definisce l'energia di risonanza?
17. Data la reazione A2 ‡ B2 ! 2 AB, se l'energia di
legame A Ð B eÁ minore sia dell'energia di legame
A Ð A che di B Ð B, la reazione eÁ esotermica o
endotermica?
18. Se nella molecola del benzene fossero presenti
legami semplici alternati a legami doppi tra gli
atomi di carbonio, nella sua combustione si otterrebbe piuÁ o meno calore di quello che si ottiene
effettivamente?
242
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20
...................................................................................................................................
1
...............................................................................................
2
Secondo e terzo principio
della termodinamica
LIMITI DI VALIDITAÁ DEL PRIMO PRINCIPIO
DELLA TERMODINAMICA
Anche se il primo principio della termodinamica ha risolto il problema degli scambi di
energia fra sistema ed esterno, non ha tuttavia fornito alcuna indicazione sul perche talvolta gli scambi si verificano spontaneamente in un senso piuttosto che in un altro. Infatti,
in accordo con il primo principio, purche l'energia non venga ne creata ne distrutta, due
corpi a temperatura diversa messi in contatto potrebbero non dar luogo ad alcun trasferimento di calore, oppure potrebbe anche essere trasferito del calore dal corpo piuÁ
freddo a quello piuÁ caldo. Queste ipotesi sono peroÁ in netto contrasto con l'esperienza, in
quanto il calore si trasmette spontaneamente sempre dal corpo piuÁ caldo a quello piuÁ
freddo fino a che non viene raggiunta una temperatura uniforme per tutti e due i corpi.1
Da un punto di vista prettamente chimico poi, sebbene il primo principio della
termodinamica, con la definizione delle funzioni di stato energia interna ed entalpia,
abbia risolto il problema degli scambi di energia che si verificano fra un sistema chimico e
l'esterno, non ci ha fornito tuttavia alcuna indicazione per calcolare il rendimento di una
reazione, ne ci ha fornito una risposta a questa domanda: perche avvengono le reazioni
chimiche?
Quindi, al fine di approfondire le nostre conoscenze sui fenomeni chimici, eÁ
indispensabile definire altre due funzioni di stato, e precisamente l'entropia, che eÁ una
diretta conseguenza del secondo principio della termodinamica, e l'energia libera.
IL SECONDO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA
E LE MACCHINE TERMICHE
Il calore si trasferisce spontaneamente da corpi piuÁ caldi a corpi meno caldi fino a che essi
non pervengono alla medesima temperatura (equilibrio termico); le sostanze diffondono
spontaneamente da zone con maggiore concentrazione a zone con minore concentrazione fino a che la concentrazione non diventa uniforme in tutte le zone (equilibrio di concentrazione); una palla di gomma fatta cadere sul pavimento a un certo punto cessa
di rimbalzare (equilibrio meccanico); una miscela di combustibile (per esempio metano)
e di comburente (per esempio aria) brucia fino a quando la reazione si arresta per
l'esaurimento del combustibile o del comburente o di tutti e due (equilibrio chimico).
Questi e altri fenomeni che possiamo sperimentare ogni giorno, costituiscono l'essenza
1
Equilibrio termico.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
20. Secondo e terzo principio della termodinamica
del secondo principio (o seconda legge) della termodinamica:
tutti i sistemi materiali evolvono spontaneamente fino a raggiungere uno stato di
equilibrio.
Il secondo principio della termodinamica prende l'avvio da problemi assai lontani dal
campo dei fenomeni chimici, in quanto eÁ stato dedotto da considerazioni sulla trasformazione del calore in lavoro per mezzo di macchine termiche.
Le macchine termiche sono dispositivi per mezzo dei quali un fluido (un gas o un
vapore) viene sottoposto a una trasformazione ciclica il cui risultato finale puoÁ essere:
a) la conversione del calore fornito dall'esterno in lavoro compiuto dalla macchina sull'esterno; in questo caso la macchina eÁ detta motrice, e il ciclo da essa realizzato (per
mezzo del fluido) eÁ detto diretto;
b) la conversione del lavoro fornito dall'esterno in calore ceduto dalla macchina all'esterno; in questo caso la macchina eÁ detta frigorigena, e il ciclo da essa realizzato (per
mezzo del fluido) eÁ detto inverso.
Il calore in gioco nel ciclo termico viene scambiato dalla macchina con sorgenti esterne,
intendendosi per sorgente di calore (o serbatoio di calore) un sistema a temperatura uniforme, che sia in grado di assorbire o cedere calore senza che la sua temperatura vari nel
tempo. Per esempio sono sorgenti di calore l'acqua del mare, l'atmosfera, e in generale
corpi con capacitaÁ termica molto elevata. I piuÁ classici enunciati del secondo principio
sono due.
EÁ impossibile che avvenga un processo naturale il cui unico effetto sia il trasferimento
spontaneo del calore da un corpo piuÁ freddo a un corpo piuÁ caldo.
Questo eÁ l'enunciato di Clausius,2 e il suo significato puoÁ essere immediatamente
compreso se si pensa che i cibi in un frigorifero non si raffreddano se, tra l'altro, non
lo si chiude (tra l'altro perche l'esperienza insegna che il calore procede spontaneamente
dalle alte verso le basse temperature, e quindi il processo inverso eÁ possibile solo fornendo
lavoro dall'esterno).
EÁ impossibile che avvenga un processo naturale il cui unico effetto sia l'estrazione di calore
da una riserva termica a temperatura costante e la trasformazione integrale del calore
assorbito in lavoro meccanico.
Questo eÁ l'enunciato di Kelvin,3 e il suo significato puoÁ essere immediatamente compreso
se si pensa che una nave non puoÁ solcare l'oceano sfruttando il calore dell'acqua del mare
in cui essa si muove. Supponiamo infatti, in contrasto con questo principio, di disporre di
un solo serbatoio di calore e di una macchina termica che possa prelevare del calore (Q)
da questo serbatoio e, al termine di ogni ciclo, trasformarlo integralmente in lavoro
meccanico (L) fatto sull'esterno4 (fig. 20.1).
2
Rudolph Julius Emanuel Clausius (1822-1888), fisico tedesco.
William Thomson (1824-1907), fisico inglese; egli assunse il nome di lord Kelvin (1892) quando gli fu conferito il
titolo di barone Kelvin. CosõÁ i nomi di Thomson e di Kelvin vengono usati indifferentemente nella letteratura scientifica.
4
Questa affermazione sembrerebbe coerente con il primo principio della termodinamica, in quanto in un processo
ciclico la variazione dell'energia interna del sistema (del fluido che opera nella macchina termica) eÁ DU ˆ 0, per cui la
formulazione generale del primo principio (DU ˆ Q L) assume la forma Q ˆ L; risultato, questo, che porterebbe a
concludere che il calore Q assorbito dalla macchina termica viene integralmente trasformato in lavoro meccanico L.
Nella nota alla pagina seguente (nota 6) chiariremo per quale motivo questa conclusione eÁ errata.
3
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 20.1
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
2. Il secondo principio della termodinamica e le macchine termiche
Un dispositivo che
viola il secondo principio della termodinamica.
Figura 20.2
Schema di funzionamento di una macchina termica.
ro (
lavo calore)
serbatoio
di
calore
calore (Q)
macchina
termica
lavoro (L)
sull’esterno
Se fosse possibile costruire un simile dispositivo, si potrebbe fare in modo di riversare nel
serbatoio di calore, sotto forma di calore di attrito, il lavoro meccanico prodotto dalla
macchina (linea tratteggiata della figura 20.1), per cui, da una parte, la riserva di energia
del serbatoio rimarrebbe costante, mentre dall'altra la macchina termica, muovendosi
continuamente senza consumare energia, realizzerebbe il moto perpetuo di seconda specie,
cosiddetto perche viola la seconda legge della termodinamica.5
Purtroppo, il moto perpetuo di seconda specie eÁ un sogno irrealizzabile: il secondo
principio della termodinamica lo vieta.
Per poter trasformare l'energia termica (calore) in energia meccanica (lavoro) bisogna
disporre di almeno due sorgenti di calore, l'una a una temperatura maggiore dell'altra. In
altre parole, una macchina termica fornisce lavoro meccanico solo se, nel caso piuÁ
semplice, viene collegata con due sorgenti di calore, una delle quali viene detta sorgente
superiore perche si trova a una temperatura, per esempio T1 , maggiore di quella dell'altra
sorgente T2 , che viene detta sorgente inferiore. In questo caso la macchina preleva, per
esempio, Q1 calorie dalla sorgente superiore, una parte delle quali le trasforma in un
equivalente ammontare di lavoro meccanico, mentre le rimanenti calorie, per esempio
Q 2 , le riversa nella sorgente inferiore6 (fig. 20.2).
sorgente
superiore
T1
Q (+)
(c
as alor 1
so
rbi e
to)
macchina
termica
e
lor
(ca uto)
d
ce
sistema
termodinamico
(un fluido)
lavoro (+): L = +Q1 – Q2
(compiuto sull’esterno)
sorgente
inferiore
T2
Il vapore che esce dai cilindri delle macchine a vapore e dalle turbine a vapore conserva
gran parte del calore fornitogli dalla caldaia (sorgente superiore); i gas espulsi dal tubo
di scappamento di un motore a scoppio o di un motore Diesel conservano gran parte del
calore che si sviluppa dalla combustione nella camera di scoppio (sorgente superiore). Il
calore trattenuto dal vapore o dai gas della combustione eÁ quello che le macchine
termiche riversano nella sorgente inferiore; quest'ultima, nelle macchine a vapore eÁ un
refrigerante, mentre nelle macchine a combustione interna eÁ l'atmosfera (l'ambiente
esterno).
5
Una macchina che realizza il moto perpetuo di seconda specie eÁ leggermente meno «miracolosa» della macchina che realizza il moto perpetuo di prima specie che, violando la prima legge della termodinamica, presume di
creare energia dal nulla.
6
Questa affermazione non eÁ in contrasto con la formulazione della prima legge della termodinamica (DU ˆ Q L)
che in un processo ciclico (DU ˆ 0) assume la forma Q ˆ L; infatti il calore Q che compare in questa uguaglianza eÁ
quello netto (Q1 Q 2 ) effettivamente utilizzato dalla macchina termica.
245
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
............................
20. Secondo e terzo principio della termodinamica
........................................................................................................................................................................................................................................................................................
3
PoicheÂ, sempre dall'esperienza, sappiamo che eÁ invece possibile trasformare integralmente il lavoro in calore, il secondo principio stabilisce anche che per la trasformazione
inversa esistono precise limitazioni, e cioeÁ che la conversione del lavoro in calore eÁ un
fenomeno irreversibile.
RENDIMENTO DI UN CICLO MOTORE
Si definisce rendimento termodinamico7 di un ciclo motore semplice8 la frazione di calore
assorbita dalla macchina che puoÁ essere trasformata in lavoro meccanico o in altra forma
di energia, e cioeÁ il rapporto fra il calore effettivamente utilizzato dalla macchina e il
calore da essa assorbito alla sorgente superiore.
Pertanto, se la quantitaÁ di calore Q1 (positiva) viene assorbita dal sistema alla sorgente
superiore, e quella negativa Q 2 viene restituita dal sistema alla sorgente inferiore, in base
al primo principio, essendo in una trasformazione ciclica DU ˆ 0, ricaviamo:
QˆL
e poiche il calore Q effettivamente utilizzato dal sistema eÁ:
(20:1)
9
Q ˆ Q1 ‡ Q 2
sostituendo nella (20.1) otteniamo L ˆ Q1 ‡ Q 2 (se consideriamo i valori assoluti delle
quantitaÁ di calore, risulta piuÁ chiaro che il lavoro compiuto eÁ dato dalla differenza tra il
calore assorbito e il calore ceduto: L ˆ Q1 Q 2 †:
Quindi il rendimento termodinamico h (eta) di una macchina termica semplice, e cioeÁ
la frazione di calore assorbita trasformata in lavoro, puoÁ essere cosõÁ formulato:
hˆ
Q1 ‡ Q 2
Q1
(20:2)
L
Q1
(20:3)
oppure:
hˆ
o anche:
hˆ1‡
Q2
Q1
(20:4)
EÁ possibile dimostrare che, anche utilizzando le due stesse sorgenti (superiore e inferiore), il rendimento di una macchina ciclica eÁ diverso in dipendenza delle trasformazioni con le quali il ciclo viene realizzato. Il massimo rendimento teorico si ha con una
macchina che compie un particolare ciclo reversibile, noto come ciclo di Carnot, il quale eÁ
il classico e unico esempio di un ciclo semplice reversibile.
7
Per rendimento termodinamico di un ciclo motore si deve intendere esclusivamente quello legato alle particolari
trasformazioni subite dal sistema, e cioeÁ alle caratteristiche termodinamiche del ciclo indipendentemente dalle caratteristiche meccaniche della macchina che lo realizza.
8
Un ciclo motore semplice eÁ quello realizzato da una macchina termica mediante due soli scambi di calore: uno
positivo Q1 , alla temperatura T1 , e uno negativo Q 2 a T2 < T1 .
9
La somma dei due termini Q1 e Q 2 eÁ una somma algebrica; naturalmente, in fase di calcolo, si deve tenere conto che
Q1 eÁ una quantitaÁ positiva, e Q 2 eÁ invece una quantitaÁ negativa.
246
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4. Ciclo di Carnot
Figura 20.3
Ciclo di Carnot.
.................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
4
CICLO DI CARNOT
Il ciclo di Carnot10 eÁ un ciclo semplice, simmetrico e reversibile (ideale) (fig. 20.3),
caratterizzato da due soli scambi termici: uno positivo e l'altro negativo. L'unico modo
per realizzare i due scambi termici eÁ quello di servirsi di due trasformazioni isoterme
reversibili: l'una alla temperatura T1 e l'altra alla temperatura T2 (T1 > T2 ); inoltre,
poiche con le due isoterme gli scambi termici fra sistema ed esterno sono soddisfatti,
l'unico modo per poter completare il ciclo eÁ quello di servirsi di due trasformazioni
adiabatiche reversibili nelle quali appunto non si verifica alcuno scambio di calore con
l'esterno.
Pressione
P1
A
Q1
T1
B
P2
P4
D
Q2
L
T2
P3
0
C
V1
V4
V2
V3
Volume
Le quattro trasformazioni ideali del ciclo di Carnot possono essere cosõÁ riassunte:
1. Espansione isoterma e reversibile del gas dallo stato iniziale A allo stato finale B alla
temperatura costante T1 . Il gas che nello stato A occupa il volume V1 alla pressione P1 ,
per mezzo di un cilindro munito di stantuffo a perfetta tenuta contenuto in un grande
termostato, viene fatto espandere isotermicamente e in modo infinitamente lento
(reversibile) fino a occupare il volume V2 alla pressione P2 .
2. Espansione adiabatica e reversibile del gas dallo stato B allo stato C. Avvolgendo il
cilindro con un perfetto isolante termico, il gas, dal volume V2 e pressione P2 , viene
fatto espandere adiabaticamente e reversibilmente fino a occupare il volume V3 alla
pressione P3 . In questa trasformazione il gas compie lavoro sull'esterno a spese della
propria energia interna, e quindi la sua temperatura diminuisce passando dal valore T1
a quello T2 .
3. Compressione isoterma e reversibile del gas dallo stato C a quello D alla temperatura
costante T2 . Il cilindro viene di nuovo introdotto in un altro termostato posto alla
temperatura T2 , e il gas viene compresso reversibilmente dal volume V3 e pressione P3
fino al volume V4 e pressione P4 .
4. Compressione adiabatica e reversibile del gas dallo stato D a quello di partenza A. Il
cilindro viene di nuovo ricoperto con il materiale isolante, e il gas viene poi compresso
reversibilmente e adiabaticamente dal volume V4 e pressione P4 fino al volume iniziale
V1 e pressione iniziale P1 .
In quest'ultima trasformazione, il gas riceve lavoro dall'esterno e pertanto aumenta la
propria energia interna per cui la sua temperatura passa dal valore T2 , a quello
maggiore T1 .
10
Sadi Nicolas LeÂonard Carnot (1796-1832), fisico francese.
247
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........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
20. Secondo e terzo principio della termodinamica
Poiche la macchina di Carnot realizza un ciclo semplice, il suo rendimento, espresso dalla
relazione:
hˆ
Q1 ‡ Q 2
Q1
dipende dal calore scambiato dal sistema alle due sorgenti, e per calcolarlo eÁ sufficiente
prendere in esame solo gli scambi termici effettuati nelle due trasformazioni isoterme,
essendo ovviamente nullo lo scambio termico nelle due adiabatiche.11
Se il sistema eÁ una mole di gas perfetto, si dimostra che:
hˆ1
T2
T1
(20:5)
La (20.5) eÁ la formulazione piuÁ significativa del rendimento di una macchina termica
reversibile di Carnot in quanto da essa eÁ possibile dedurre:
1. Il rendimento termodinamico di una macchina termica che realizza un ciclo reversibile
di Carnot dipende solo dalla temperatura delle due sorgenti ed eÁ indipendente dalla
natura del fluido con il quale il ciclo viene realizzato purche questo sia un gas a comportamento ideale.
2. Il rendimento della macchina eÁ tanto maggiore quanto maggiore eÁ il salto termico tra
le due sorgenti (piuÁ precisamente quanto minore eÁ il rapporto T2 =T1 ).
3. Essendo T2 < T1 , il rendimento della macchina eÁ sempre minore di uno. Non eÁ quindi
possibile con una macchina termica, anche la piuÁ semplice possibile, assorbire calore e
trasformarlo integralmente in lavoro; infatti quest'ultima condizione eÁ verificata solo
se la temperatura della sorgente inferiore eÁ uguale a zero kelvin.12
Per esempio, una macchina termica di Carnot che opera con la sorgente superiore posta a
120 8C e con la sorgente inferiore posta a 60 8C, ha un rendimento massimo teorico:
T2
ˆ1
T1
hˆ1
333
ˆ 16%
393
e cioeÁ su 100 J prelevati dalla macchina alla sorgente superiore, solo 16 potrebbero essere
trasformati in lavoro, mentre i rimanenti 84 J vengono ceduti alla sorgente inferiore posta
alla temperatura di 60 8C; questi 84 J potrebbero eventualmente essere parzialmente
riutilizzati mediante un'altra macchina termica di Carnot, la cui sorgente superiore fosse
posta alla temperatura di 60 8C e quella inferiore a una temperatura minore di 60 8C.
Si puoÁ dimostrare che:
tutte le macchine termiche reversibili funzionanti a cicli di Carnot, purche utilizzino le due
stesse sorgenti di calore, hanno il medesimo rendimento, indipendentemente dalla natura
della sostanza con la quale il ciclo viene realizzato (teorema di Carnot).
11
Si noti che il lavoro in gioco lungo le due adiabatiche eÁ complessivamente nullo; infatti:
LB-C ˆ
CV (T2
T1 )
LD-A ˆ CV (T1 T2 )
per cui LB-C ‡ LD-A ˆ 0.
12
Lo zero assoluto eÁ termodinamicamente irraggiungibile, in quanto una macchina termica il cui rendimento fosse
uguale a uno, realizzerebbe, contravvenendo l'enunciato del secondo principio e quindi l'esperienza, il cosiddetto moto
perpetuo di seconda specie che presume la trasformazione integrale del calore in lavoro per mezzo di una sola sorgente
di energia termica (in condizioni isoterme). L'irraggiungibilitaÁ dello zero assoluto costituisce uno degli enunciati del terzo
principio della termodinamica.
248
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Ciclo frigorifero.
5
........................................................
Figura 20.4
.................................................................................................................................................................................................................................................................
5. Uguaglianza di Clausius ed entropia
Tale rendimento non puoÁ essere ne minore ne maggiore del rendimento di un ciclo di
Carnot, che rappresenta quindi il limite massimo a cui una macchina termica puoÁ
tendere, o che puoÁ uguagliare (a seconda che lavori irreversibilmente o reversibilmente),
ma che non puoÁ mai superare:
il rendimento di una macchina termica reversibile di Carnot eÁ il massimo rendimento di
una macchina termica.
Gli studi di Carnot sulle macchine termiche hanno determinato tutti i successivi progressi
in questo campo: dato che il rendimento di una macchina termica dipende innanzitutto
dal salto di temperatura sorgente-refrigerante, e poiche non eÁ conveniente abbassare la
temperatura del refrigerante al di sotto della temperatura ambiente, tutti gli sforzi sono
stati diretti allo scopo di aumentare la temperatura della sorgente; nelle macchine a
vapore cioÁ si ottiene riscaldando l'acqua sotto pressione (decine di atmosfere) in modo da
innalzarne il punto di ebollizione; nei motori a scoppio e nei motori Diesel per mezzo di
un processo di combustione che genera altissime temperature.
Pressione
A
T1
D
B
T2
+Q2
C
Volume
Notiamo ancora che, se il ciclo di Carnot viene compiuto da una macchina termica13 in
senso inverso, si realizza un ciclo frigorifero, in cui la macchina assorbe calore (Q 2 ) dalla
sorgente piuÁ fredda (T2 ) e cede calore (Q1 ) alla sorgente piuÁ calda (T1 ) (fig. 20.4): il
lavoro complessivo, in questo caso, invece che essere compiuto dal sistema, viene
assorbito, cioeÁ viene effettuato dall'esterno sul sistema (per trasferire del calore da una
sorgente piuÁ fredda a una piuÁ calda, occorre effettuare lavoro).
Questo eÁ appunto il principio di funzionamento del frigorifero, in cui del calore viene
estratto dall'ambiente interno dell'apparecchio (la sorgente fredda a temperatura T2 ) e,
con il consumo di una certa quantitaÁ di lavoro (elettrico), del calore viene trasferito
all'esterno (la sorgente calda a temperatura T1 ).
UGUAGLIANZA DI CLAUSIUS ED ENTROPIA
Poiche il rendimento di una macchina di Carnot puoÁ essere espresso con la relazione
(20.4), e cioeÁ:
Q2
hˆ1‡
Q1
13
La macchina eÁ detta macchina frigorigena.
249
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 20.5
Ciclo composto.
Figura 20.6
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
20. Secondo e terzo principio della termodinamica
oppure con la (20.5), e cioeÁ:
hˆ1
uguagliando queste due relazioni otteniamo:
1‡
da cui:
e cioeÁ:
e infine:
T2
T1
Q2
ˆ1
Q1
Q2
ˆ
Q1
T2
T1
Q2
ˆ
T2
Q1
T1
T2
T1
Q1 Q 2
‡
ˆ0
T1 T2
(20:6)
Dalla (20.6), nota come uguaglianza di Clausius, si puoÁ dedurre che in un ciclo di Carnot
reversibile la somma algebrica dei rapporti degli scambi termici effettuati dal sistema alle
due sorgenti e le rispettive temperature assolute di scambio eÁ uguale a zero.
Prendiamo ora in esame un qualunque ciclo reversibile composto (caratterizzato cioeÁ da
piuÁ di due scambi termici), e dopo averlo rappresentato sul piano P/V, per mezzo di una
serie di curve isoterme e adiabatiche reversibili attraversanti il diagramma, suddividiamolo in un certo numero di cicli di Carnot pure reversibili (figura 20.5).
Pressione
curva isoterma
curva adiabatica
0
Volume
Confrontando due generici cicli parziali della figura 20.5, e precisamente quello reale
ABCD compiuto dal sistema, e quello di Carnot EFGH corrispondente (fig. 20.6) si puoÁ
dimostrare che essi si equivalgono geometricamente, e pertanto la superficie totale, ottenuta dalla somma delle superfici di tutti i cicli parziali di Carnot del ciclo composto, eÁ
perfettamente equivalente a quella ricoperta da tutto il ciclo originale.14
Pressione
Due cicli parziali: uno
reale e l'altro ideale
(di Carnot).
E
curva isoterma
B
A
C
H
D
0
curva
adiabatica
F
G
Volume
14
Si noti che un ciclo semplice o composto puoÁ essere dichiarato reversibile solo se tutte le trasformazioni cui esso eÁ
interessato sono reversibili. Anche se una sola di queste trasformazioni eÁ irreversibile, il ciclo non eÁ piuÁ reversibile.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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5. Uguaglianza di Clausius ed entropia
Tenendo conto che le linee centrali dei cicli sono percorse in senso opposto in un ciclo e
nel successivo, e che quindi i loro contributi, agli effetti del lavoro complessivo, si annullano, possiamo concludere che l'insieme di tutti i cicli parziali si riduce a una curva a zigzag, e che tale curva tenderaÁ a coincidere con la curva originaria, quanto piuÁ piccoli sono i
cicli parziali considerati.
Applicando l'uguaglianza di Clausius a ogni ciclo parziale reversibile di Carnot in cui eÁ
stato suddiviso il ciclo composto originale otteniamo:
Q1 Q 2
‡
ˆ0
T1 T2
Q3 Q4
‡
ˆ 0 ::::::
T3 T4
Qn
Tn
1
1
‡
Qn
ˆ0
Tn
in cui Q1 , Q 2 , Q3 , Q4 ..., Qn 1 , Qn , sono le quantitaÁ finite di calore scambiate reversibilmente dal sistema alle sorgenti del ciclo composto situate rispettivamente alle
temperature costanti T1 , T2 , T3 , T4 , ..., Tn 1 , Tn . Se ora sommiamo tutti i termini di
cui sopra, otteniamo l'equazione:
Qi(rev)
ˆ0
(20:7)
S
Ti
nella quale Qi(rev) eÁ una generica quantitaÁ finita di calore scambiata reversibilmente dal sistema alla corrispondente temperatura Ti .
Se le curve adiabatiche con le quali si suddivide il ciclo composto originale vengono
tracciate in modo da essere vicinissime l'una all'altra, da ciascun ciclo parziale di
Carnot si ottiene un gruppo di cicli infinitesimi per cui ogni scambio termico parziale
finito Qi fra il sistema e l'esterno diventa uno scambio elementare (infinitesimo) dQ.
Pertanto al segno di sommatoria della (20.7) va sostituito quello di integrazione, e cioeÁ
otteniamo:
I
dQrev
ˆ0
(20:8)
T
I
nella quale il simbolo
assume il significato di sommatoria di grandezze infinitesime
estesa a tutto il ciclo composto (integrale esteso a tutto il ciclo), mentre il pedice «rev»
indica che il ciclo considerato eÁ reversibile, e cioeÁ percorribile indifferentemente in senso
orario e viceversa. Se nell'equazione (20.8), nota con il nome di integrale di Clausius, al
rapporto infinitesimo:
dQrev
T
sostituiamo la quantitaÁ pure infinitesima dS, e cioeÁ poniamo:
dQrev
ˆ dS
T
I
dS ˆ 0
otteniamo:
(20:9)
(20:10)
e risolvendo l'integrale ciclico (20.10) otteniamo DS ˆ 0.
Poiche in una trasformazione ciclica, solo la variazione di una funzione di stato o di una
variabile di stato (P, V, T ) eÁ uguale a zero, possiamo senz'altro affermare che la grandezza
S che compare nella (20.10) eÁ una funzione di stato. Questa grandezza eÁ stata chiamata
da Clausius entropia.
La definizione della funzione di stato entropia eÁ di notevole importanza per la
termodinamica chimica, in quanto studiando i fenomeni chimici in termini di variazioni
entropiche eÁ stato possibile risolvere non solo il problema dell'affinitaÁ chimica delle
sostanze, ma soprattutto quello del calcolo teorico della resa di una reazione.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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20. Secondo e terzo principio della termodinamica
.......................................................................................................................
6
Se un sistema materiale subisce una trasformazione aperta, finita e reversibile, il risultato
della risoluzione dell'integrale di Clausius non eÁ piuÁ uguale a zero, ma si ottiene una
grandezza (positiva o negativa) data dalla differenza tra l'entropia del sistema nello stato
finale (S2 ) e l'entropia nello stato iniziale (S1 ), e cioeÁ:
Z
1
2
dQrev
ˆ
T
Z
2
1
dS ˆ S2
S1 ˆ DS
(20:11)
Se poi la trasformazione del sistema eÁ anche isoterma (T ˆ costante), la (20.11) puoÁ
essere scritta nella forma:
Z
1 2
dQrev ˆ DS
T 1
da cui:
Qrev
ˆ S2
T
S1 ˆ DS
(20:12)
nella quale Qrev eÁ il calore netto scambiato dal sistema nel processo isotermo.
Se invece una trasformazione eÁ adiabatica e reversibile, dalla (20.11) ricaviamo che eÁ
anche isoentropica, in quanto, essendo lo scambio termico nullo (dQ ˆ 0) ed essendo la
temperatura assoluta T sempre positiva, diventa DS ˆ 0 (S2 ˆ S1 ).
Dalle precedenti relazioni, eÁ evidente che l'unitaÁ di misura dell'entropia, nel S.I., eÁ il
J/K ( J K 1 ). Poiche l'entropia, oltre che funzione di stato, risulta anche grandezza
estensiva (il calore scambiato dipende dalla massa del sistema, e l'entropia eÁ appunto
legata alla quantitaÁ di calore scambiato), possiamo riferire tale grandezza alla quantitaÁ
unitaria di sostanza (la mole): avremo quindi l'unitaÁ entropica (u.e.):
1 JK
1
mol
1
ˆ 1 u:e:
CALCOLO DELLA VARIAZIONE DI ENTROPIA
DEI SISTEMI MATERIALI
Abbiamo precedentemente avuto occasione di sottolineare che per la termodinamica, come per tutte le altre scienze, eÁ essenziale studiare l'evoluzione dei sistemi materiali come se questa avvenisse in modo reversibile, e cioeÁ attraverso una successione
infinitamente lenta di stati di equilibrio, in quanto solo in queste condizioni lo stato
del sistema puoÁ essere definito a ogni istante con un unico valore, per esempio di
pressione o di temperatura, che eÁ identico in ogni parte del sistema. Pertanto, per calcolare la variazione di entropia legata all'evoluzione di un qualsiasi sistema materiale, si suppone sempre che il processo avvenga reversibilmente, quindi eÁ possibile il calcolo dell'integrale di Clausius limitato fra lo stato iniziale (1) e quello finale (2) della trasformazione:
Z 2
dQrev
ˆ DS
T
1
Ottenuto in questo modo il valore numerico del DS, questo coincide anche con quello
della variazione di entropia del sistema qualora, come realmente avviene, l'identico
processo fosse avvenuto irreversibilmente, e questo perche l'entropia eÁ una funzione
di stato.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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6. Calcolo della variazione di entropia dei sistemi materiali
Prima di calcolare la variazione di entropia legata alle trasformazioni del sistema piuÁ
semplice che si conosca, e cioeÁ a una mole di gas perfetto, eÁ necessario premettere che
questa grandezza, oltre a dipendere dalla massa,15 dipende sia dalla temperatura alla quale
il sistema materiale scambia il calore con l'esterno, sia dalla pressione o dal volume del
sistema: infatti, la quantitaÁ di calore che un sistema (per esempio una mole di gas perfetto)
puoÁ scambiare a pressione esterna costante (QP ), eÁ diversa da quella che lo stesso sistema
puoÁ scambiare a volume costante (QV ).
1. La variazione di entropia di una mole di gas perfetto che si espande reversibilmente e
isotermicamente dal volume V1 a quello V2 , si calcola nel seguente modo.
Il primo principio della termodinamica, essendo in questo caso DU ˆ 0 (dato che la
trasformazione avviene a temperatura costante), assume la forma:
Qrev ˆ Lrev
Poiche in una trasformazione isoterma e reversibile (vedi 20.1) risulta che:
Qrev
ˆ DS
T
e tenendo conto che il lavoro reversibile in una trasformazione isoterma viene calcolato mediante la relazione:
V2
ˆ Qrev
Lrev ˆ RT ln
V1
sostituendo questo risultato nella precedente relazione otteniamo:
DS ˆ
RT ln
T
V2
V1
e semplificando:
DS ˆ R ln
V2
V1
(20:13)
che eÁ valida per una mole di gas perfetto.
Per n moli di gas, dato che l'entropia eÁ una grandezza estensiva, si ha ovviamente:
DS ˆ n R ln
V2
V1
(20:14)
Mediante le equazioni (20.13) e (20.14) possiamo pertanto calcolare la variazione di
entropia di un gas ideale che si espande isotermicamente dal volume V1 a quello V2 ,
sia reversibilmente sia irreversibilmente.
Poiche per una data massa di gas perfetto in una trasformazione a temperatura
costante eÁ verificata l'identitaÁ:
P1 V1 ˆ P2 V2
da cui:
V2 P1
ˆ
V1 P2
15
L'entropia eÁ una grandezza estensiva in quanto essendo legata alla quantitaÁ di calore scambiato, masse diverse di
uno stesso sistema, sottoposte al medesimo processo, scambiano quantitaÁ diverse di calore.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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20. Secondo e terzo principio della termodinamica
le (20.13) e (20.14) assumono rispettivamente anche la forma:
DS ˆ R ln
P1
P2
DS ˆ n R ln
(20:15)
P1
P2
(20:16)
mediante le quali si puoÁ calcolare la variazione di entropia di un gas perfetto quando a
temperatura costante passa dalla pressione P1 a quella P2 , sia reversibilmente sia
irreversibilmente.
2. La variazione di entropia di una mole di gas perfetto che a pressione esterna costante
viene riscaldato reversibilmente dalla temperatura T1 a quella T2 , si calcola sempre
risolvendo l'integrale espresso dalla (20.11), e cioeÁ:
Z 2
dQrev
ˆ DS
T
1
tenendo poi conto che a pressione costante dQrev ˆ dH (vedi relazione 18.30) e che
dH ˆ CP dT, possiamo scrivere:
Z T2
CP dT
DS ˆ
T
T1
ma dato che CP ˆ costante (sistema ideale) si ha:
Z T2
dT
DS ˆ CP
T1 T
e risolvendo l'integrale:16
DS ˆ CP ln T2
CP ln T1 ˆ CP ln
T2
T1
(20:17)
valida per una mole di gas.
Mentre, per n moli, otteniamo:
DS ˆ n CP ln
T2
T1
(20:18)
Mediante le equazioni (20.17) e (20.18) possiamo calcolare la variazione di entropia di
un gas ideale quando a pressione esterna costante viene riscaldato dalla temperatura
T1 a quella T2 , sia reversibilmente sia irreversibilmente.17
3. In modo del tutto analogo al precedente, si calcola la variazione di entropia di un gas
perfetto quando a volume costante viene riscaldato, reversibilmente o irreversibilmente, dalla temperatura T1 , a quella T2 . In questo caso si deve tener conto che a
16
Si ricorda che, dalle regole di integrazione:
Z x2
dx
ˆ ln x2
x1 x
ln x1 ˆ ln
x2
x1
17
Tali formule risolutive sono applicabili anche per il riscaldamento a pressione costante di qualsiasi sistema
materiale (liquido, solido o gassoso), con la limitazione che CP si mantenga costante con la temperatura (in pratica
utilizzando valori medi dei calori specifici).
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 20.7
.......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
6. Calcolo della variazione di entropia dei sistemi materiali
volume costante dQrev ˆ dU (vedi relazione 18.25) e che dU ˆ CV dT, pertanto
otteniamo:
DS ˆ CV ln
T2
T1
(20:19)
DS ˆ nCV ln
T2
T1
(20:20)
valida per una mole di gas.
Mentre per n moli otteniamo:
4. Per calcolare DS per una generica trasformazione di una mole di gas ideale che
riscaldata reversibilmente passa dalla temperatura T1 a quella T2 , e dal volume V1 a
quello V2 , si immagina che la trasformazione proceda attraverso due fasi distinte
(fig. 20.7):
Pressione
Trasformazione generica di un gas perfetto dallo stato A allo
stato B; per il calcolo
del DS, la trasformazione effettiva puoÁ
essere sostituita dalla
isoterma A ! C e
poi dall'isocora
C ! B.
T1
T2
B
P2
P1
A
C
V1
V2
Volume
a) la mole del gas viene portata isotermicamente e reversibilmente da V1 a V2 per cui
si ha una variazione di entropia che in base alla (20.13) eÁ data da:
DS0 ˆ R ln
V2
V1
b) la mole del gas viene portata reversibilmente, mantenendo il volume costante, dalla
temperatura T1 a quella T2 per cui si ha una variazione di entropia che, in base alla
(20.19), eÁ data da:
T2
DS00 ˆ CV ln
T1
Quindi la variazione totale di entropia del sistema eÁ data da:18
DStot ˆ DS0 ‡ DS00
e cioeÁ:
DS ˆ R ln
V2
T2
‡ CV ln
V1
T1
(20:21)
che eÁ applicabile per una mole di gas ideale.
18
Questa operazione eÁ rigorosa in quanto, essendo l'entropia una funzione di stato del sistema, la sua variazione eÁ
indipendente dal cammino percorso dal sistema, e cioeÁ dal modo in cui il sistema eÁ passato dallo stato iniziale a quello
finale.
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20. Secondo e terzo principio della termodinamica
.............................................................................................................................................................................
7
Per n moli di gas la (20.21) diventa:
DS ˆ n R ln
V2
T2
‡ n CV ln
V1
T1
(20:22)
Le (20.21) e (20.22) dedotte per un processo reversibile, per quanto sottolineato in
precedenza, sono applicabili anche ai processi irreversibili.
5. Il calcolo di DS per il passaggio di una sostanza da una forma cristallina a un'altra forma cristallina (per esempio diamante ! grafite; zolfo rombico ! zolfo monoclino) e
viceversa, oppure per i processi di fusione, di ebollizione e di sublimazione (passaggi di
stato di aggregazione della materia) e viceversa, eÁ molto semplice. Infatti, in questi casi,
dato che la pressione e la temperatura sono costanti, il sistema eÁ in equilibrio con
l'ambiente esterno, e pertanto questi processi sono tutti reversibili. Quindi per il
calcolo di DS eÁ sufficiente applicare la (20.12) e cioeÁ:
DS ˆ
Qrev
T
nella quale, in dipendenza del fenomeno considerato, alla grandezza Qrev va sostituito
il calore latente molare di transizione, o di fusione, o di ebollizione, della sostanza,
mentre alla grandezza T va sostituita la temperatura assoluta (costante) alla quale
avviene la trasformazione.
ENTROPIA E PROCESSI IRREVERSIBILI
Finora ci siamo occupati principalmente di processi reversibili: sappiamo peroÁ che i
processi naturali, spontanei, sono tutti irreversibili (e che i processi reversibili sono
soltanto ideali, casi limite dei processi reali). Vediamo ora quali informazioni
possiamo ottenere dalla funzione entropia, quando si considerano dei processi
irreversibili. Notiamo intanto che il termine stesso «irreversibile» suggerisce l'idea
di una precisa direzione nello svolgersi di un processo; per esempio, sono tipici
processi irreversibili:
.
.
.
.
.
il passaggio di calore da un corpo piuÁ caldo a uno piuÁ freddo;
l'espansione di un gas nel vuoto;
la diffusione di due soluzioni a diversa concentrazione;
una reazione chimica spontanea;
la trasformazione dell'energia cinetica di un corpo in movimento in energia termica
(calore) per urto contro una parete rigida.
Sappiamo anche che l'irreversibilitaÁ di tali processi eÁ dovuta al fatto che essi non avvengono spontaneamente in senso contrario: non si eÁ mai constatato che un gas che occupa
tutto un recipiente si contragga verso una zona del recipiente, lasciando vuota l'altra
parte, o che due gas mescolati si separino spontaneamente: perche questo avvenga, eÁ
necessario spendere lavoro, che si trasforma in calore ceduto a una sorgente (il che
determina delle modifiche permanenti sull'ambiente esterno).
Per dimostrare questo assunto, consideriamo, per esempio, una mole di gas ideale,
nelle condizioni iniziali rappresentate dal punto A di figura 20.8. Se la pressione del gas
(P1 ) eÁ nettamente superiore a quella esterna, e il gas eÁ contenuto in un recipiente con
parete mobile non vincolata, esso compiraÁ una brusca espansione contro la pressione esterna, fino al volume V2 , compiendo il lavoro (isobaro) corrispondente all'area del rettangolo
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 20.8
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
7. Entropia e processi irreversibili
Espansione irreversibile CB e compressione reversibile BA
di un gas ideale.
Pressione
A (P1, V1)
T
Pest = P2
C
B (P2, V2)
V1
V2
Volume
CBV2 V1 di figura 20.8. Se inoltre il gas eÁ a contatto con una sorgente di calore, la sua
temperatura, alla fine del processo, non eÁ variata, per cui:
DU ˆ 0
L ˆ Pest (V2
e quindi:
V1 )
Q1 ˆ L1
(Il gas ha assorbito tanto calore quanto eÁ stato il lavoro effettuato.)
EÁ evidente che tale processo, per il modo in cui si svolge, eÁ senz'altro irreversibile. Se
ora vogliamo riportare il gas alle condizioni iniziali, potremo farlo, comprimendolo
isotermicamente e reversibilmente lungo BA (in tal modo, il lavoro che facciamo eÁ quello
minimo). Anche in questo caso DU ˆ 0, e quindi Q 2 ˆ L2 , cioeÁ il lavoro di compressione
isoterma si trasforma in calore ceduto alla sorgente a temperatura T. Avremo quindi come
risultato netto dell'intero processo (espansione irreversibile e ripristino del sistema,
mediante un processo reversibile, allo stato iniziale), che una certa quantitaÁ di lavoro eÁ
stata trasformata in calore, ceduto a una sorgente: in questo caso, tale lavoro eÁ dato
dall'area ABC di figura 20.8 corrispondente alla differenza tra il lavoro di compressione e
quello di espansione. Tale condizione risulta connessa inevitabilmente con qualsiasi
processo irreversibile, per cui, generalizzando, possiamo concludere che, quando avviene
un processo irreversibile, il sistema puoÁ essere riportato allo stato iniziale, ma non
l'ambiente esterno, che subisce una modificazione permanente. Se avessimo considerato
l'espansione del gas nel vuoto (processo che presenta il massimo grado di irreversibilitaÁ),
le considerazioni sarebbero state analoghe, con la differenza che, in questo caso, tutto il
lavoro sarebbe stato trasformato in calore, ceduto alla sorgente. Infatti, durante
l'espansione nel vuoto, il gas non compie alcun lavoro, per cui l'unico lavoro in gioco
eÁ quello che l'ambiente esterno compie per riportare il sistema alle condizioni iniziali.
Invece, un processo reversibile eÁ tale se, invertendo il segno delle variabili che hanno
causato la trasformazione, sia il sistema sia l'ambiente ritornano nelle condizioni iniziali:
per l'espansione isoterma, come sappiamo, la reversibilitaÁ si ottiene (teoricamente) se la
pressione esterna si mantiene sempre inferiore di un infinitesimo rispetto a quella interna
del gas; l'espansione allora segue l'andamento di un'iperbole equilatera, e coincide, a
parte il verso, con il processo di compressione reversibile visto prima; in tal modo,
ritornando il sistema allo stato iniziale, tutti gli scambi termici e dinamici si annullano, sia
per il sistema sia per l'ambiente.
Vedremo ora come lo svolgimento di un qualsiasi processo irreversibile comporti
sempre un aumento globale di entropia, per l'insieme sistema ‡ ambiente. Consideriamo
dapprima un sistema termodinamico che passa reversibilmente da uno stato iniziale a uno
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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20. Secondo e terzo principio della termodinamica
stato finale, vicinissimo a quello iniziale, assorbendo dall'esterno il calore elementare
(infinitesimo) dQrev e proponiamoci di calcolare la variazione infinitesima di entropia del
sistema (dSsis ) e quella infinitesima dell'ambiente esterno (dSamb ). Considerato che, in un
processo reversibile, la temperatura Tsis del sistema e quella Tamb dell'ambiente esterno
sono praticamente coincidenti (Tsis ˆ Tamb ), se il sistema assorbe il calore infinitesimo
dQrev dall'ambiente esterno, in base alla (20.9) esso aumenta la propria entropia della
quantitaÁ infinitesima:
dQrev
dSsis ˆ
Tsis
mentre l'ambiente esterno (dato che Tsis ˆ Tamb ) diminuisce la propria entropia della
medesima quantitaÁ infinitesima:
dQrev
dQrev
dSamb ˆ
ˆ
Tamb
Tsis
per cui risulta:
dSsis ‡ dSamb ˆ
dQrev
Tsis
dQrev
ˆ 0 (nei processi infinitesimi reversibili)
Tamb
Quest'ultima, per un processo finito reversibile, assume la forma:
DSsis ‡ DSamb ˆ 0 (nei processi reversibili finiti†
(20:23)
Se invece di acquistare calore, il sistema cede calore reversibilmente all'ambiente esterno,
cambieranno solo i segni delle variazioni di entropia: avremo una diminuzione di entropia
per il sistema e un corrispondente aumento per l'ambiente, col risultato che la somma eÁ
ancora zero. Dato che l'insieme sistema-ambiente esterno costituisce un sistema isolato, e
poiche quanto dedotto per un particolare processo reversibile si potrebbe ripetere in
generale per tutti i processi reversibili, giungendo alle stesse conclusioni, possiamo
sintetizzare questi risultati nella forma:
DSsis ‡ DSamb ˆ DSsistema isolato ˆ 0 (nei processi reversibili)
(20:24)
Pertanto, in base alla (20.24), possiamo affermare che:
in una trasformazione reversibile l'entropia del sistema aumenta o diminuisce nella
medesima misura con la quale diminuisce o aumenta l'entropia dell'ambiente esterno,
per cui, in un cambiamento reversibile, la variazione globale dell'entropia di un sistema
isolato eÁ uguale a zero.
Consideriamo ora il medesimo sistema termodinamico che, assorbendo dall'esterno il
calore infinitesimo dQ irr , passa spontaneamente, e quindi irreversibilmente, attraverso gli
stessi stati iniziale e finale, vicinissimi tra loro, esaminati in precedenza per il processo
reversibile.
Ebbene, dato che gli stati iniziale e finale del sistema coincidono sia per il processo reversibile sia per quello irreversibile, e dato che l'entropia eÁ una funzione di stato del sistema,
ne consegue che i due valori della variazione infinitesima dell'entropia del sistema, vale a
dire quello per la trasformazione reversibile e quello per la trasformazione irreversibile,
sono identici nei due casi. Pertanto il sistema aumenta la propria entropia della quantitaÁ
infinitesima:
dSsis ˆ
dQ irr dQrev
ˆ
Tsis
Tsis
258
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
(20:25)
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
7. Entropia e processi irreversibili
Invece, la diminuzione infinitesima dell'entropia dell'ambiente esterno, espressa dalla
relazione:
dSamb ˆ
dQ irr
Tamb
eÁ minore, in valore assoluto, dell'aumento infinitesimo dell'entropia del sistema:
dQ irr dQ irr <
T T sis
amb
o anche
dQ irr dQ irr >
T T sis
amb
Questo percheÂ, affinche del calore venga ceduto spontaneamente, e quindi irreversibilmente, dall'ambiente esterno al sistema, la temperatura dell'ambiente esterno Tamb
deve essere maggiore della temperatura del sistema Tsis .19 Pertanto possiamo scrivere:
dSsis ‡ dSamb ˆ
dQ irr
Tsis
dQ irr
> 0 (nei processi infinitesimi irreversibili)
Tamb
Quest'ultima disuguaglianza, applicata a una trasformazione finita e irreversibile, assume
la forma:
DSsis ‡ DSamb > 0 (nei processi finiti irreversibili)
o quella equivalente:
DSsis ‡ DSamb ˆ DSsistema isolato > 0 (nei processi irreversibili)
(20:26)
Se il sistema, invece che assorbire, cede calore all'ambiente esterno, dovremo innanzitutto
supporre che la sua temperatura sia maggiore di quella dell'ambiente esterno: con un
procedimento del tutto analogo al precedente, si puoÁ notare che il sistema subisce una
diminuzione di entropia, e l'ambiente esterno un aumento, ma anche in questo caso la
variazione globale eÁ maggiore di zero:
dSsis ‡ dSamb ˆ
dQ irr dQ irr dQ irr
‡
ˆ
Tsis
Tamb
Tamb
dQ irr
>0
Tsis
Quest'ultima disuguaglianza, applicata a una trasformazione finita e irreversibile, assume
la forma identica a quella espressa dalla (20.26):
DSsis ‡ DSamb ˆ DSsistema isolato > 0 (nei processi irreversibili)
(20:27)
Poiche la relazione (20.27) trovata per questo particolare processo irreversibile, potrebbe
essere confermata per qualsiasi altro processo irreversibile, possiamo affermare che:
in una trasformazione irreversibile l'entropia del sistema aumenta in misura maggiore di
quanto diminuisce l'entropia dell'ambiente esterno, oppure l'entropia del sistema
diminuisce in misura minore di quanto aumenta l'entropia dell'ambiente esterno, per
cui, in un cambiamento irreversibile, la variazione globale dell'entropia di un sistema
isolato eÁ sempre maggiore di zero.
19
Il calore viene trasferito spontaneamente solo da un corpo piuÁ caldo a uno meno caldo (secondo principio della
termodinamica).
259
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.............................................................................................................................................
20. Secondo e terzo principio della termodinamica
..............................................................................................................................................................................
8
Poiche i fenomeni naturali sono tutti irreversibili (spontanei, non di equilibrio) e poicheÂ
l'universo eÁ un sistema isolato, l'entropia dell'universo aumenta sempre, e tende ad assumere il massimo valore.20
Il principio di accrescimento dell'entropia puoÁ essere considerato l'enunciato piuÁ generale
del secondo principio della termodinamica, in quanto gli altri enunciati riguardano aspetti
particolari dei fenomeni e sono comunque una conseguenza di questa legge generale. In
effetti, l'entropia si puoÁ definire come la «freccia» che indica la direzione in cui evolvono tutti
i processi naturali: anche quando un fenomeno, preso di per seÂ, avviene con diminuzione di
entropia, possiamo affermare che vi saraÁ qualche altro sistema esterno per il quale l'entropia
aumenta in misura tale da compensare in eccesso la diminuzione dell'altro sistema, cosõÁ che la
variazione globale (sistema ‡ ambiente ˆ sistema isolato) risulti sempre positiva.
Fenomeni che comportano una diminuzione di entropia, come la formazione del
ghiaccio, la cristallizzazione di un sale da una soluzione, la sintesi di macromolecole altamente organizzate (per esempio la sintesi delle proteine a partire da una miscela di amminoacidi), possono avvenire spontaneamente; questo dovraÁ peroÁ essere compensato da
un aumento di entropia (in misura maggiore in valore assoluto) da parte dell'ambiente, in
modo che sia sempre verificato: DSuniverso > 0. Il criterio della massima entropia potrebbe
essere senz'altro adottato da noi per decidere sulla spontaneitaÁ e sulla condizione di
equilibrio dei sistemi chimici, tuttavia, poiche le reazioni chimiche vengono usualmente
condotte in sistemi non isolati, una simile scelta sarebbe legata a condizioni sperimentali
di difficile realizzazione pratica, per cui saraÁ opportuno definire ancora un'altra funzione
(l'energia libera) per trattare i fenomeni chimici in modo adeguato.
DISUGUAGLIANZA DI CLAUSIUS
Consideriamo una macchina termica che compia
cioeÁ irreversi un ciclo di Carnot reale,
T1 T2
se esso eÁ compiubile: poiche il rendimento del ciclo eÁ massimo e dato da h ˆ
T1
to reversibilmente, ne deduciamo che in questo caso il rendimento saraÁ inferiore; durante
il funzionamento della macchina reale, infatti, si verificano fenomeni «dissipativi» (attriti,
dispersioni di calore ecc.) che sono invece assenti nei processi ideali, e che hanno come
conseguenza di abbassare il rendimento teorico quindi: hirr < hrev , cioeÁ:
Q1 ‡ Q 2 T1 T2
<
Q1
T1
(20:28)
(Q1 e Q 2 sono le quantitaÁ di calore scambiate con le due sorgenti in modo irreversibile.)
Dalla (20.28) si ricava ancora:
Q2
T2
<1
1‡
Q1
T1
Q1 Q 2
‡
<0
T1 T2
(20:29)
In modo analogo a quanto svolto per i processi reversibili, consideriamo un ciclo
composto (in cui il numero di sorgenti eÁ illimitato) compiuto da una macchina
termica in parte irreversibilmente (tratto ABirr della figura 20.9) e in parte reversibilmente (tratto BArev ): tale ciclo nel suo complesso, come eÁ giaÁ stato notato, saraÁ
20
L'energia dell'universo eÁ costante, l'entropia dell'universo tende a un massimo (enunciato di Clausius del secondo
principio).
260
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 20.9
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
8. Disuguaglianza di Clausius
Pressione
Ciclo composto irreversibile.
irr
ev
er
sib
ile
re
v
er
sib
ile
A
B
Volume
senz'altro da considerarsi irreversibile). Poiche tale ciclo si puoÁ suddividere in tanti
cicli di Carnot irreversibili, a ciascuno dei quali possiamo applicare la (20.29), si
deduce che per l'intero ciclo saraÁ valida la disuguaglianza:
Q irr
<0
S
T
che, al limite (scambi infinitesimi di calore con le varie sorgenti) puoÁ essere sostituita
dall'integrale esteso al ciclo:
I
dQ irr
< 0 …disuguaglianza di Clausius†
(20:30)
T
Tale integrale puoÁ quindi essere suddiviso in due parti (quella reversibile e quella irreversibile):
I
Z B
Z A
dQ irr
dQ irr
dQrev
ˆ
‡
<0
(20:31)
T
T
T
A
B
Per una proprietaÁ elementare degli integrali:
Z A
Z B
dQrev
dQrev
ˆ
T
T
B
A
e sostituendo nella (20.30):
Z
B
A
Z
dQ irr
T
B
A
da cui si deduce:
Ma:
Z
B
A
dQ irr
<
T
Z
dQrev
<0
T
B
A
dQrev
T
dQ irr dQrev
<
T
T
dQrev
ˆ dS
T
quindi:
(20:32)
dQ irr
< dS
T
o anche:
dS >
dQ irr
T
261
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
(20:33)
Figura 20.10
Espansione (a)
e compressione (b)
reversibile
e irreversibile
di un gas perfetto.
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
20. Secondo e terzo principio della termodinamica
Vediamo di chiarire con un esempio il significato della (20.33). Supponiamo che un gas
perfetto si espanda da V1 a V2 a temperatura costante (fig. 20.10a): nel caso dell'espansione reversibile (curva AB), il calore acquistato dal sistema corrisponde all'area
sottesa dall'isoterma AB (essendo Q ˆ L), mentre nel caso dell'espansione irreversibile
(da C a B) il calore corrisponde all'area del rettangolo V1CBV2, valore evidentemente
minore rispetto al valore precedente:
Qrev > Qirr
per cui:
Qrev Qirr
>
T
T
e cioe:
DS >
Qirr
T
Consideriamo ora il caso della compressione: se il gas viene compresso isotermicamente e
reversibilmente da B ad A, il calore ceduto (uguale al lavoro di compressione) eÁ sempre
dato dall'area sottesa dalla curva AB percorsa in senso inverso, per cui il calore ha segno
negativo (calore ceduto). Se invece il sistema subisce una compressione irreversibile, a
temperatura costante, esso dovraÁ essere compresso isotermicamente alla pressione costante
P1, perche possa essere riportato allo stato iniziale (fig. 20.10b). Il lavoro compiuto sul gas eÁ
dato allora dall'area sottesa dal rettangolo V1ADV2 e questo saraÁ anche il calore ceduto dal
sistema, calore maggiore, in valore assoluto, del calore ceduto reversibilmente:
jQrev j < jQirr j
per cui:
Qrev Qirr
>
T
T
e cioe:
DS >
Qirr
T
In entrambi i casi, quindi, la variazione di entropia del sistema eÁ maggiore del rapporto
Qirr
sia che il calore venga acquistato sia che venga ceduto dal sistema.
T
P
P1
P2
P
A
P1
C
B
P2
A
D
C
B
V
V
V1
V2
V1
V2
b)
a)
Le (20.32) e (20.33) possono sintetizzarsi nell'unica espressione:
dS 5
dQ
T
in cui il segno di uguaglianza vale per i processi reversibili, il segno di disuguaglianza per
quelli irreversibili.
Consideriamo adesso un sistema isolato, che non possa quindi avere con l'esterno neÂ
scambi termici ne dinamici; per un tale sistema, dovraÁ verificarsi, per un qualsiasi pro262
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
...............................................................................................
9. Significato dell'entropia
................................................................................................................................................................................................................................
9
cesso infinitesimo che avvenga all'interno del sistema stesso:
dQ ˆ 0
il che porta a concludere che se il processo eÁ reversibile:
dS ˆ
dQ
ˆ0
T
e se il processo e finito:
DS ˆ 0
Se il processo eÁ irreversibile:
dS >
dQ
T
quindi:
dS > 0
e se il processo e finito:
DS > 0
Questo conferma in modo generalizzato quanto enunciato in precedenza: l'entropia di un
sistema isolato (dell'universo) non varia in seguito a un processo reversibile; l'entropia
aumenta, se avviene un processo irreversibile.
SIGNIFICATO DELL'ENTROPIA
Mentre non ci sentiremmo del tutto impreparati per rispondere alla domanda: «che cos'eÁ
l'energia?», non altrettanto lo saremmo di fronte alla domanda «che cos'eÁ l'entropia?».
Ma in effetti, sappiamo veramente che cosa eÁ l'energia? Affermare che l'energia eÁ qualcosa
di indistruttibile insito nei corpi materiali e tra questi trasferibile, che puoÁ assumere
diverse forme (meccanica, termica, elettrica, elettromagnetica ecc.), sarebbe sufficiente
per precisarne l'intima natura? Certamente no, se si pensa che, in base alla teoria della
relativitaÁ, esiste un'equivalenza tra materia ed energia nel senso che l'una puoÁ essere
convertita nell'altra e viceversa. Allora alla domanda «che cos'eÁ l'energia?» non
potremmo che dare una risposta evasiva del tipo: «l'energia eÁ ogni cosa».
Il fatto di non conoscere l'intima natura dell'energia non costituisce tuttavia un
impedimento per la termodinamica classica in quanto, per i propositi di quest'ultima, eÁ
importante sapere che:
. l'energia eÁ una funzione di stato, e questo eÁ un altro enunciato del primo principio
della termodinamica;
. quando un sistema materiale evolve da uno stato di equilibrio a un altro stato di
equilibrio, la variazione della sua energia, per esempio DH o DU, puoÁ essere calcolata,
come abbiamo giaÁ visto, mediante misure calorimetriche.
Alla medesima maniera, per i propositi della termodinamica classica, non importa se non
conosciamo l'intima natura dell'entropia, ma eÁ importante sapere che:
. l'entropia eÁ una funzione di stato, e questo eÁ un altro enunciato del secondo principio
della termodinamica;
. l'entropia dei sistemi materiali puoÁ essere calcolata mediante misure calorimetriche.
Il fatto di non sapere che cos'eÁ l'entropia non ha tuttavia impedito di proporne alcune
interpretazioni suggerite non da cioÁ che essa eÁ, ma da come essa si comporta. Sotto questo
aspetto, una delle interpretazioni piuÁ soddisfacenti e intuitive dell'entropia eÁ senz'altro
quella proposta per primo da Ludwig Boltzmann21 che ne suggerõÁ un significato a livello
molecolare. Boltzmann, infatti, appuroÁ che l'entropia eÁ strettamente collegata con la
distribuzione casuale degli atomi e delle molecole nello spazio tridimensionale e con il
grado di dispersione delle loro energie, e questa constatazione lo portoÁ a concludere che
maggiore eÁ l'entropia, maggiore eÁ il disordine.
21
Ludwig Boltzmann (1844-1906), fisico austriaco.
263
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
20. Secondo e terzo principio della termodinamica
Figura 20.11
..................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
10
INTERPRETAZIONE STATISTICO-MOLECOLARE DELL'ENTROPIA
L'interpretazione fornita dell'entropia, ossia come misura del disordine molecolare dei
sistemi materiali, eÁ giustificata dal fatto che tutte le volte che un sistema subisce una
trasformazione che comporta un arrangiamento finale piuÁ caotico delle sue particelle, un
simile fenomeno eÁ sempre accompagnato da un aumento di entropia. Per arrangiamento
piuÁ caotico deve intendersi sia una disposizione spaziale piuÁ disordinata, sia una maggiore
dispersione delle energie possedute dalle particelle, cui corrisponde, come sappiamo, il
raggiungimento da parte del sistema di uno stato piuÁ probabile (che puoÁ essere realizzato
nel maggior numero di modi, cioeÁ con il maggior peso statistico). In definitiva, possiamo
cosõÁ riassumere questi concetti:
maggiore entropia ˆ maggiore disordine ˆ maggior numero di modi in cui si puoÁ realizzare
una certa disposizione spaziale o energetica rispetto alle altre ˆ stato piuÁ probabile
Un processo che avvenga in un sistema isolato, come sappiamo, daÁ sempre origine a un
aumento di entropia, e questo, dal punto di vista statistico-molecolare, eÁ spiegato in modo
del tutto soddisfacente: un sistema isolato, non in equilibrio, tende a portarsi spontaneamente verso uno stato piuÁ probabile (sia per quel che riguarda la distribuzione casuale
delle particelle sia la distribuzione delle energie), per cui l'entropia aumenta, fino a
raggiungere un valore massimo (stato di equilibrio). Il processo opposto (corrispondente
a una diminuzione di entropia) non potraÁ mai avvenire spontaneamente, in quanto si
tratterebbe di un processo poco probabile (anche se statisticamente non impossibile) e
quindi praticamente non realizzabile.
Espansione irreversibile di un gas.
Per esempio, se un gas contenuto in un recipiente (fig. 20.11) viene messo in contatto con un
altro recipiente vuoto, esso tenderaÁ a occupare in modo uniforme tutto lo spazio a sua disposizione, perche questo eÁ lo stato piuÁ probabile che esso puoÁ assumere: in effetti, eÁ estremamente improbabile che le molecole, animate da moti casuali in tutte le direzioni, permangano tutte nel primo recipiente (o anche si addensino maggiormente in uno solo dei due).
Il numero complessivo di modi in cui possiamo disporre n particelle in due recipienti,
secondo il calcolo combinatorio, eÁ dato da:22
Wtot ˆ 2N
Poiche la disposizione in cui tutte le particelle sono contenute in uno solo dei due
recipienti eÁ unica, la sua probabilitaÁ di avverarsi rispetto a quelle totali saraÁ:
Pˆ
22
1
2N
A , cioeÁ W
&&&&
Infatti una sola particella si puoÁ disporre in due recipienti in due modi: A
&&&&&&&&
tot
2
ˆ 21 . Se le
B A A B
AB , cioeÁ Wtot ˆ 2 2 ˆ 2 . Se le particelle
particelle sono due, raddoppiano i modi possibili: AB
sono tre, i modi possibili raddoppiano ancora rispetto al caso precedente: Wtot ˆ 2 2 2 ˆ 23 , e cosõÁ via; in generale,
quindi, i modi di disporre N particelle in due recipienti sono Wtot ˆ 2N .
264
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
...........................................................................................................................................................................
11. La degradazione dell'energia
.................................................................................................................................................
11
e se consideriamo una mole di gas (N ˆ NA , numero di Avogadro), avremo:
Pˆ
1
26,021023
cioeÁ un numero estremamente basso, che conferma, in termini di probabilitaÁ matematica,
quanto si puoÁ supporre intuitivamente.
Viceversa, la probabilitaÁ di avere un numero di particelle praticamente uguale nei
due recipienti saraÁ quella massima tra tutte, come dimostra il calcolo combinatorio,
cioeÁ la disposizione uniforme eÁ quella che ha la massima probabilitaÁ, e questo eÁ tanto
piuÁ vero quanto piuÁ alto eÁ il numero di particelle; se poi consideriamo quantitaÁ di
materia dell'ordine di una mole, in cui il numero di particelle eÁ enorme, tale
probabilitaÁ risulta vicinissima all'unitaÁ, per cui possiamo concludere che la disposizione uniforme, avendo la massima probabilitaÁ matematica rispetto a ogni altra, saraÁ la
sola effettivamente realizzata.
Poiche dunque l'evoluzione spontanea di un sistema isolato avviene sempre nel senso
di una maggiore probabilitaÁ, e poiche a tale direzione spontanea corrisponde un aumento
di entropia, dovraÁ esistere una precisa relazione tra l'entropia e il numero di modi in cui si
puoÁ realizzare lo stato di un sistema; tale relazione, trovata da Boltzmann, eÁ la seguente:
S ˆ K ln W
in cui:
(20:34)
K ˆ costante di Boltzmann ˆ R=NA (NA ˆ numero di Avogadro);
W ˆ numero di modi in cui si puoÁ realizzare una data configurazione (peso statistico o
probabilitaÁ).
La (20.34) evidenzia appunto che maggiore eÁ la probabilitaÁ di uno stato, maggiore eÁ la sua
entropia.
LA DEGRADAZIONE DELL'ENERGIA
In tutti i processi spontanei, irreversibili, come possiamo notare dall'esperienza,
l'energia, sotto qualunque forma si manifesti (elettrica, cinetica, potenziale, radiante
ecc.) tende sempre a trasformarsi, in tutto o in parte, in calore: eÁ questo il principio di
degradazione dell'energia (che puoÁ essere assunto come altro enunciato del secondo
principio), secondo cui tutte le forme di energia tendono spontaneamente a dissiparsi
come calore, la forma piuÁ disordinata, piuÁ «degradata» di energia; il processo
contrario (la trasformazione di calore in lavoro) non avviene invece spontaneamente:
sappiamo infatti che l'energia cinetica di un corpo, forma ordinata di energia in
quanto corrisponde a un moto coerente di tutte le particelle del corpo, si trasforma,
per urto o per attrito, in calore, energia posseduta dalle molecole sotto forma di moti
caotici in tutte le direzioni; e sappiamo anche che tali moti non danno mai origine
spontaneamente a un moto ordinato di tutte le particelle, cioeÁ in energia cinetica del
corpo: la trasformazione di calore in lavoro presenta tutte le limitazioni derivanti dal
secondo principio (trasformazione non integrale; necessitaÁ di avere almeno due
sorgenti a disposizione). Nel caso che il processo non coinvolga una trasformazione
di energia (per esempio l'espansione di un gas nel vuoto, il passaggio di calore tra due
corpi a diversa temperatura), un tale processo ha come conseguenza la perdita di
utilizzabilitaÁ dell'energia del sistema (il gas avrebbe infatti potuto compiere un lavoro,
se l'espansione fosse avvenuta contro una pressione esterna; il calore, che eÁ passato
direttamente dal corpo piuÁ caldo a quello piuÁ freddo, avrebbe potuto essere utilizzato
da una macchina termica per produrre lavoro).
265
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Tabella 20.1
..................................................................................................................................................................................................
20. Secondo e terzo principio della termodinamica
Relazioni riassuntive
tra le grandezze Q, L,
U, H, S, nelle trasformazioni reversibili
fondamentali dei gas
perfetti.
.....................................................................................................................
12
In tutti i casi, in seguito a un processo naturale, l'energia complessiva di un sistema, se
esso eÁ isolato, resta costante (l'energia non si crea e non si distrugge), ma risulta dispersa su
un maggior numero di livelli, cioeÁ si presenta in una forma piuÁ disordinata, che non si
trasforma spontaneamente in altre forme di energia (il passaggio dal disordine all'ordine
non eÁ un processo spontaneo, essendo estremamente poco probabile).
Riassumendo, si puoÁ affermare che:
in un processo spontaneo, cioeÁ irreversibile, a un aumento di entropia corrisponde una
degradazione dell'energia.
I due principi della termodinamica si potrebbero allora sintetizzare in un'unica espressione:
l'energia di un sistema isolato in evoluzione spontanea resta costante, ma tende a
degradarsi.
Trasformazione
isoterma (T costante)
Q
ˆL
L
DU
ˆ nRT ln
V2
V1
ˆ nRT ln
P1
P2
ˆ0
DH
ˆ0
DS
ˆ nR ln
V2
V1
ˆ nR ln
P1
P2
isocora (V costante)
ˆ DU
ˆ0
ˆ nCV DT
ˆ nCP DT
ˆ nCV ln
T2
T1
isobara (P costante)
ˆ DH
ˆ PDV
ˆ nCV DT
ˆ nCP DT
ˆ nCP ln
T2
T1
adiabatica (Q ˆ 0)
ˆ0
ˆ
ˆ nCV DT
ˆ nCP DT
ˆ0
DU
TERZO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA
Come eÁ stato possibile tabellare le entalpie molari standard delle sostanze mediante
esperienze calorimetriche e applicando la legge di Hess, allo stesso modo si eÁ proceduto
per le entropie molari standard delle sostanze; a differenza peroÁ dell'energia interna U e
dell'entalpia H, i valori assoluti di entropia S dei sistemi materiali sono noti e possono
essere calcolati mediante misure calorimetriche molto accurate, eseguite a partire dalle
piuÁ basse temperature possibili, e cioeÁ nelle vicinanze dello zero assoluto (lo zero della
scala Kelvin). Infatti, in base alla definizione di entropia, consideriamo un solido
cristallino puro allo zero assoluto. Poiche in un simile sistema le singole particelle sono
arrangiate nello spazio tridimensionale secondo un ordine quasi perfetto, eÁ giustificato
ammettere che, in assenza di disordine, l'entropia di un solido cristallino perfetto deve
essere uguale a zero.
Questa ipotesi, confermata fra l'altro da un gran numero di risultati sperimentali,
costituisce il fondamento del terzo principio della termodinamica, il quale stabilisce che:
ogni sostanza pura ha un valore positivo di entropia, il quale diventa uguale a zero allo zero
assoluto quando essa, in queste condizioni, eÁ un solido cristallino perfetto.
266
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
12. Terzo principio della termodinamica
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
APPENDICE TABELLE
Pertanto, se a pressione esterna costante forniamo reversibilmente (in modo infinitamente lento) del calore a una sostanza solida pura, incrementandone la temperatura da
0 (kelvin) fino a T (kelvin), la variazione di entropia di un simile sistema in base alla (20.9),
eÁ data da:
Z T
dQP(rev)
DS ˆ
T
0
ma:
dQP ˆ dH
e:
per cui l'integrale precedente assume la forma:
Z
DS ˆ ST S0 ˆ
dH ˆ CP dT
T
0
CP
dT
T
(20:35)
nella quale S0 rappresenta l'entropia della sostanza alla temperatura di 0 K, ST eÁ l'entropia della medesima sostanza alla temperatura di T K, mentre CP eÁ la sua capacitaÁ termica
molare a pressione costante. Poiche in base al terzo principio della termodinamica
S0 ˆ 0, la (20.35) diventa:
Z T
CP
dT
(20:36)
ST ˆ
0 T
Pertanto, mediante l'equazione (20.36) possiamo calcolare facilmente l'entropia assoluta (ST) di una qualsiasi sostanza a una qualsiasi temperatura purche sia nota l'equazione che esprime la dipendenza del suo calore specifico dalla temperatura. Questa
dipendenza, che per temperature vicine a quella ambiente eÁ espressa dalla formula
empirica:
CP ˆ a ‡ bT ‡ cT 2 ‡ :::
per basse temperature (vicine allo zero assoluto) eÁ espressa dalla legge di Debye:
CP ˆ aT 3
in cui a eÁ una costante caratteristica per ciascuna sostanza.
Il procedimento esposto, valido innanzitutto per una sostanza solida, si puoÁ applicare
anche alle sostanze liquide e gassose, se si tiene conto anche dei contributi al DS dovuti ai
passaggi di stato (compresa eventualmente la transizione cristallina): per esempio, l'entropia di una sostanza gassosa a una certa temperatura saraÁ data dalla somma dei seguenti
termini:
Z Teb
Z T
Z Tfus
CP(g)
CP(s)
DHfus
CP(l)
DHeb
dT ‡
dT ‡
dT
‡
‡
S(T) ˆ
T
Tfus
T
Teb
Teb T
0
Tfus
in cui:
CP(s) , CP(l) e CP(g) sono rispettivamente i calori specifici della sostanza allo stato solido,
liquido e gassoso; DHfus eÁ il calore latente di fusione e DHeb il calore latente di ebollizione.
I valori assoluti delle entropie molari standard (S8) di alcune sostanze sono
riportati nella tabella A.3 nell'Appendice online, relativamente alla temperatura di
25 8C e pressione pari a 1 atm. Da questi valori tabellati, essendo l'entropia una
funzione di stato, si calcola facilmente la variazione di entropia standard di una
reazione (DS8) mediante la relazione:
DS8 ˆ SS8prodotti
SS8reagenti
(20:37)
Vedremo che la conoscenza dei valori di DH8 e DS8 di una reazione chimica eÁ particolarmente importante, in quanto rende possibile il calcolo teorico della costante di equilibrio.
267
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
20. Secondo principio della termodinamica
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QUESITI
1. Quali problemi risolve, e quali problemi lascia
insoluti il primo principio della termodinamica
applicato alle reazioni chimiche?
2. Che cos'eÁ una macchina termica?
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20 esercizi interattivi
16. In quale modo eÁ rappresentato il ciclo di Carnot
reversibile nel piano T-S?
17. In che cosa consiste la degradazione dell'energia
nei processi irreversibili?
3. Quali sono le condizioni necessarie e sufficienti
affinche una macchina termica possa compiere
lavoro sull'esterno?
18. Quali cambiamenti subiscono l'energia interna e
l'entropia di un sistema isolato che evolve a) reversibilmente, b) irreversibilmente?
4. Il rendimento termodinamico (ideale) di una macchina termica eÁ maggiore del rendimento reale. Per
quale motivo?
19. PuoÁ avvenire spontaneamente una trasformazione
in cui l'entropia del sistema subisce una diminuzione?
5. Perche il ciclo di Carnot viene preso a modello per
ricavare il rendimento termodinamico di una macchina termica?
20. Quali sono i modi in cui puoÁ essere enunciato il
secondo principio della termodinamica?
6. In quale particolare situazione il rendimento termodinamico di una macchina termica potrebbe
essere uguale a uno? Quale conseguenza se ne
dovrebbe dedurre?
7. In che modo con una macchina termica potrebbe
essere ottenuto lavoro meccanico sfruttando l'energia termica dell'acqua di mare?
8. Quale macchina termica realizzerebbe il moto
perpetuo di prima specie, e quale il moto perpetuo
di seconda specie?
9. Qual eÁ l'importanza del ciclo di Carnot per la
definizione della funzione di stato entropia?
10. Dimostra matematicamente, mediante l'integrale
di Clausius, che l'entropia eÁ una funzione di stato.
11. Perche l'entropia di un gas dipende anche dalla
pressione e dal volume del gas?
12. Perche in un ciclo irreversibile la variazione di
entropia di un sistema materiale eÁ uguale a zero?
13. Indica le regole che possono essere stabilite con il
criterio della massima entropia. Quando queste
regole possono essere applicate alle reazioni chimiche?
14. Dimostra, con alcuni esempi, che l'entropia puoÁ
essere considerata una misura del disordine molecolare dei sistemi materiali.
15. Supponi di distendere un filo di nylon tirandolo
per le due estremitaÁ: l'entropia del sistema aumenta o diminuisce?
21. Come si puoÁ trasferire calore da un corpo piuÁ
freddo a uno piuÁ caldo?
22. Se un sistema compie un processo ciclico irreversibile, come varia l'entropia complessiva del
sistema? E quella dell'ambiente?
23. Da quali variabili dipende l'entropia di un gas
perfetto?
24. Perche la variazione di entropia nel passaggio di
stato dell'acqua da liquido a vapore eÁ maggiore
della variazione di entropia nel passaggio di stato
da solido a liquido?
25. Come si spiega, dal punto di vista statistico-molecolare, la diminuzione di entropia di un gas che
viene raffreddato a volume costante?
26. Su quali presupposti si basa il terzo principio della
termodinamica?
27. In quali modi si puoÁ enunciare il terzo principio
della termodinamica?
28. Come si spiega il basso valore dell'entropia molare
standard del carbonio?
29. EÁ possibile che allo zero assoluto un solido cristallino abbia entropia diversa da zero?
30. Se l'entropia molare standard del benzene liquido
eÁ uguale a 173 J=K mol e quella del benzene
gassoso eÁ uguale a 269,2 J=K mol, quanto vale il
calore latente di evaporazione del benzene alla
temperatura di 25 8C?
31. Qual eÁ l'utilitaÁ di conoscere le entropie assolute
delle sostanze pure?
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21
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1
L'energia libera
INTRODUZIONE AL CONCETTO DI ENERGIA LIBERA
La funzione di stato entropia, come giaÁ rilevato, non puoÁ essere scelta per misurare la
spontaneitaÁ dei fenomeni chimici, in quanto le reazioni vengono di solito condotte in
sistemi non isolati. Per superare questa difficoltaÁ, eÁ stata definita una nuova funzione
termodinamica, l'energia libera, detta anche funzione di Gibbs.1
Essa viene matematicamente definita dalla relazione:
GˆH
TS
ed eÁ una funzione di stato, in quanto eÁ legata alle funzioni di stato entalpia ed entropia, e
alla variabile di stato temperatura. Misurando l'entalpia di un sistema materiale in
kilojoule per mole (kJ/mol), e la sua entropia in kilojoule per mole per kelvin (kJ/
mol K), l'unitaÁ di misura dell'energia libera saranno i kilojoule per mole. Vediamo come
si puoÁ giungere al concetto di energia libera.
Come sappiamo, il secondo principio della termodinamica afferma che l'entropia di un
sistema isolato, in cui si verifichi un processo irreversibile (quindi spontaneo), deve sempre
aumentare: DSsistema isolato > 0. Nel caso che il sistema di per se non costituisca un sistema
isolato, in quanto a contatto con l'ambiente esterno, con il quale scambia energia, possiamo
sempre utilizzare il suddetto criterio, se immaginiamo di inglobare in cioÁ che definiamo
«sistema isolato» anche l'ambiente esterno che interagisce col sistema vero e proprio: per
questo insieme saraÁ ancora valida la relazione DSsistema isolato ˆ DSsis ‡ DSamb > 0. Espresso
in tal modo, il principio di accrescimento dell'entropia diventa un criterio di facile
applicazione per stabilire se una reazione chimica puoÁ avvenire spontaneamente oppure no.
Le reazioni in genere sono fatte avvenire a contatto con l'ambiente esterno, capace di
acquistare il calore ceduto dal sistema, se la reazione eÁ esotermica (DH < 0), o di cedere
calore al sistema, se la reazione eÁ endotermica (DH > 0), in modo che la temperatura di
questo resti costante. Naturalmente il calore scambiato dall'ambiente esterno avraÁ segno
opposto al calore scambiato dal sistema, cioeÁ (se il processo avviene a pressione costante):
DHamb ˆ DHsis . Inoltre l'ambiente esterno, per definizione, eÁ un corpo con capacitaÁ
termica cosõÁ grande che la sua temperatura non varia in seguito a uno scambio termico; in
altre parole, l'acquisto o la cessione di calore (in questo caso il DH di reazione) non altera
sensibilmente il suo stato, per cui possiamo supporre che tale calore sia scambiato
dall'ambiente reversibilmente, oltre che isotermicamente. Di conseguenza, la variazione
di entropia dell'ambiente saraÁ:
DHsis
DSamb ˆ
T
1
Josiah Willard Gibbs (1839-1903), chimico e fisico statunitense, fondatore della termodinamica chimica.
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21. L'energia libera
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2
Il calcolo del DS del sistema deve essere effettuato a partire dalle entropie assolute dedotte dal
terzo principio (infatti il valore del DH di una reazione coincide con il calore scambiato dal
sistema in modo irreversibile): DSsis ˆ SSprodotti SSreagenti . La variazione totale di entropia
del «sistema isolato», formato dal sistema e dal suo ambiente, saraÁ percioÁ:
DStotale ˆ
DHsis
‡ DSsis
T
e tale variazione, se il processo si svolge spontaneamente (irreversibilmente), dovraÁ
assumere valore positivo:
DH
‡ DS > 0
DStotale ˆ
T
da cui: TDS DH > 0 e infine: DH TDS < 0. In base alla definizione data di energia libera: G ˆ H T S, se facciamo il differenziale totale di questa funzione, otteniamo: dG ˆ dH TdS SdT, e imponendo che la temperatura sia costante (dT ˆ 0):
dG ˆ dH TdS, che per un incremento finito diventa:
DG ˆ DH
TDS
(21:1)
Potremo allora concludere che, per un processo spontaneo: DGT , P < 0. Risulta quindi
che in un processo naturale, cioeÁ spontaneo, che avvenga a temperatura e pressione
costanti, la grandezza energia libera diminuisce: questo saraÁ il criterio generale per stabilire
se un processo che si verifica in tali condizioni eÁ spontaneo oppure no.
Di conseguenza, se si verifica che: DGT , P > 0, potremo concludere che il processo
non eÁ spontaneo (nel verso indicato, mentre lo sarebbe in quello opposto).
Se infine: DGT , P ˆ 0, il sistema si trova all'equilibrio, cioeÁ non ha alcuna tendenza a
evolvere ne in un senso ne in quello opposto.
Queste ultime relazioni si possono sintetizzare nell'unica simboleggiatura:
<0
DG 5
(21:2)
che riassume le condizioni termodinamiche per mezzo delle quali siamo in grado di
prevedere la spontaneitaÁ o meno di una reazione chimica condotta a pressione esterna e
temperatura costanti.
L'applicazione pratica delle condizioni sintetizzate dalla (21.2) presuppone ovviamente la conoscenza del valore numerico dell'energia libera del sistema chimico, sia prima
della reazione (energia libera dei reagenti), sia a reazione avvenuta (energia libera dei
prodotti); noti questi valori, ed essendo l'energia libera una funzione di stato, possiamo
ottenere il valore di DG della reazione tramite la relazione:
DG ˆ SGprodotti
SGreagenti
(21:3)
ENERGIA LIBERA E LAVORO UTILE
Supponiamo di far avvenire una reazione chimica spontanea in una pila: essa produrraÁ del
lavoro elettrico, che possiamo definire lavoro utile, Lu , per distinguerlo dal lavoro accidentale cioeÁ il lavoro di volume legato alla sola variazione del numero di moli gassose dei
prodotti e dei reagenti. Tale lavoro eÁ quello massimo se il processo avviene in condizioni
di reversibilitaÁ, cioeÁ se si svolge in modo infinitamente lento; tale condizione limite si
realizzerebbe per mezzo di una batteria esterna che imponga agli elettrodi una differenza
di potenziale quasi uguale (che differisce di un infinitesimo) a quella determinata dalla
pila (la forza elettromotrice) (fig. 21.1).
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Figura 21.1
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2. Energia libera e lavoro utile
Tre diversi modi di
realizzare una reazione chimica spontanea: a) mediante lo
spostamento del cursore C, la differenza
di potenziale V che si
oppone alla forza
elettromotrice E della
pila differisce sempre
da questa di un infinitesimo (E eÁ maggiore di V di un valore
dV): il processo avviene in modo infinitamente lento e
quindi eÁ reversibile e
il lavoro che viene
compiuto nel circuito
esterno eÁ quello
massimo; b) la pila si
scarica in un tempo
finito, cioeÁ irreversibilmente, erogando
corrente con una
certa intensitaÁ, che
puoÁ essere utilizzata
nel circuito esterno
per produrre un lavoro, che peroÁ non eÁ
quello massimo; c) la
reazione avviene per
mescolamento diretto dei reagenti ed eÁ
quindi completamente irreversibile; il lavoro utile eÁ nullo.
(–)
(+)
batteria
V
A
Pt
(–)
(+)
Fe3+ Fe2+
e
B
C
Pt
Pt
MnO4– Mn2+
H+
MnO4–
(–)
(+)
MnO4– Mn2+
H+
Fe3+ Fe2+
a)
Pt
Fe2+ H+
b)
V AC ˆ Epila
DG ˆ 357 kJ
Lu ˆ jDGj ˆ 357 kJ
c)
V pila < E pila
DG ˆ 357 kJ
Lu < jDGj
DG ˆ 357 kJ
Lu ˆ 0
Supponendo dunque che il sistema chimico evolva reversibilmente, il lavoro
elementare dL da esso messo in gioco eÁ: dL ˆ dLu ‡ PdV (in cui dLu rappresenta
una forma di lavoro utile), per cui il primo principio della termodinamica applicato
al sistema considerato assume la forma: dU ˆ dQrev dLu PdV . Ma, in base alla
relazione: dQrev ˆ TdS, il primo principio puoÁ essere cosõÁ formulato:
dU ˆ TdS
dLu
PdV
Consideriamo adesso il differenziale totale dell'energia libera G ˆ H
dG ˆ dH
TdS
SdT
(21:4)
T S:
(21:5)
Il differenziale totale dell'entalpia H ˆ U ‡ PV eÁ dato da: dH ˆ dU ‡ PdV ‡ VdP.
Sostituendo quest'ultima nella (21.5) si ottiene: dG ˆ dU ‡ PdV ‡ VdP TdS SdT,
e sostituendo in questa espressione il differenziale di U dato dalla (21.4), otteniamo:
dG ˆ TdS dLu PdV ‡ PdV ‡ VdP TdS SdT, che semplificata diventa:
dLu ‡ VdP
dG ˆ
SdT
(21:6)
A pressione e temperatura costanti, dP ˆ 0 e dT ˆ 0, quindi in queste condizioni sperimentali la (21.6) diventa:
dGrev ˆ
dLu
(a pressione e temperatura costanti)
(21:7)
La variazione finita di energia libera DG del sistema, che a pressione e temperatura
costanti va dallo stato iniziale (quello definito dai reagenti) allo stato finale (i prodotti), si
ottiene integrando e risolvendo la (21.7), per cui risulta:
DGrev ˆ
Lu
(21:8)
in cui Lu eÁ il lavoro utile scambiato dal sistema con l'esterno.
Quest'ultima relazione, ricavata supponendo che il sistema evolva in condizioni di
reversibilitaÁ, puoÁ essere applicata anche ai fenomeni reali (irreversibili), in quanto
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21. L'energia libera
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3
essendo l'energia libera una funzione di stato del sistema, la sua variazione DG dipende
solo dallo stato finale e dallo stato iniziale. Pertanto possiamo affermare che:
la variazione di energia libera legata a una reazione chimica condotta in condizioni
sperimentali di pressione esterna e di temperatura costanti, si identifica (a meno del segno)
con il lavoro utile scambiato dal sistema in condizioni di reversibilitaÁ.2
Naturalmente, poiche un processo reversibile eÁ un processo ideale, il lavoro utile che si
ottiene in pratica da una reazione eÁ sempre inferiore (in valore assoluto) al valore DG, e al
limite (per un processo completamente irreversibile), tale lavoro eÁ nullo.
Per esempio, la reazione in soluzione: 5 Fe2‡ ‡ MnO4 ‡ 8 H‡ ! 5 Fe3‡ ‡ Mn2‡ ‡
‡ 4 H2 O ha una variazione di energia libera (per concentrazioni unitarie di tutte le
specie): DG ˆ 357 kJ. Se facessimo avvenire la reazione in una pila, a temperatura e
pressione costanti, e in modo infinitamente lento (quindi al limite in modo perfettamente
reversibile), il lavoro ottenuto coinciderebbe (a meno del segno) con la variazione di
energia libera; all'opposto, in condizioni di completa irreversibilitaÁ (che si realizza
mescolando direttamente i reagenti), non si ottiene alcun lavoro utile. La variazione di
energia libera peroÁ eÁ la stessa, in quanto l'energia libera eÁ una funzione di stato, e tale
risultato resta valido come criterio per stabilire se una reazione puoÁ avvenire spontaneamente o meno (fig. 21.1).3
RELAZIONE TRA ENERGIA LIBERA, ENTALPIA ED ENTROPIA
IN UNA REAZIONE
Tenendo presente l'espressione data dalla (21.1) possiamo vedere come concorrono alla
spontaneitaÁ di una reazione i due termini, il fattore entalpico DH (cioeÁ il calore di reazione
a pressione costante), e il fattore entropico DS (variazione di entropia della reazione).
Potranno infatti verificarsi diverse possibilitaÁ:
a) se la reazione eÁ esotermica (DH < 0) e avviene con aumento di entropia (DS > 0), essa
saraÁ sempre spontanea, in quanto la variazione di energia libera: DG ˆ DH TDS
saraÁ negativa, a tutte le temperature;
b) se la reazione eÁ endotermica (DH > 0), e avviene con diminuzione di entropia (DS <0),
ambedue i fattori sono sfavorevoli alla spontaneitaÁ del processo, in quanto la variazione
di energia libera saraÁ sempre positiva, a qualunque temperatura:4 DG ˆ DH TDS > 0;
c) quando DH e DS hanno lo stesso segno (il caso che piuÁ comunemente si verifica nelle
reazioni chimiche), la temperatura diventa determinante per la spontaneitaÁ o meno del
processo; infatti, se DH e DS sono entrambi positivi, dalla relazione: DG ˆ DH TDS
2
Si noti che non eÁ indispensabile che la pressione e la temperatura rimangano sempre costanti durante tutto il
processo; eÁ sufficiente infatti che la temperatura e la pressione finali della reazione coincidano con la temperatura e la
pressione iniziali.
3
Si noti l'analogia con l'espansione isoterma di un gas perfetto: se questo si espande nel vuoto (processo completamente irreversibile), il lavoro compiuto eÁ uguale a zero, mentre in condizioni di reversibilitaÁ (pressione del gas sempre
superiore di un infinitesimo a quella esterna), il lavoro corrispondente eÁ quello massimo.
4 Á
E bene sottolineare che la non spontaneitaÁ di un fenomeno non eÁ sinonimo di impossibilitaÁ al verificarsi dello
stesso; una reazione non spontanea in certe condizioni sperimentali, non eÁ detto che sia impossibile, in quanto il processo
potrebbe essere realizzato intervenendo forzatamente dall'esterno. La reazione eÁ detta allora forzosa. A questo tipo di
reazioni appartengono i processi elettrolitici. Per esempio, nell'elettrolisi dell'acido cloridrico in soluzione acquosa:
2 HCl(aq) ! H2(g) ‡ Cl2(g)
si verifica una reazione (la dissociazione dell'acido cloridrico nei suoi elementi allo stato gassoso) che spontaneamente
non potrebbe avvenire: il lavoro esterno (lavoro elettrico) fornito al sistema da una sorgente di corrente continua (per
esempio una batteria) permette invece lo svolgersi di tale reazione in condizioni ambiente.
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Figura 21.2
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3. Relazione tra energia libera, entalpia ed entropia in una reazione
Andamento del valore del DG di una reazione rispetto alla
temperatura: a) reazione endotermica
che avviene con
aumento di entropia;
b) reazione esotermica che avviene con
diminuzione di entropia.
possiamo dedurre che solo a temperature sufficientemente elevate il valore di TDS saraÁ
maggiore di DH, il che renderaÁ negativo DG, e quindi spontanea la reazione; se DH e
DS sono entrambi negativi, saraÁ necessario che la temperatura sia sufficientemente
bassa affinche la loro differenza abbia valore negativo. Questi due casi sono evidenziati
nei diagrammi delle figure 21.2a e 21.2b: ammettendo che DH e DS siano costanti
rispetto alla temperatura, l'espressione DG ˆ DH TDS assume l'andamento di una
retta (il cui coefficiente angolare eÁ dato da DS).
ΔG (kJ)
ΔG (kJ)
S
TΔ
ΔH
+
+
ΔG
0
0
T0
ΔG
T0
T (K)
–
T (K)
–
ΔH
TΔS
b)
a)
Possiamo notare ancora alcuni casi particolari (interessanti anche dal punto di vista pratico), riguardo alla variazione di energia libera di una reazione:
a) se in una reazione esotermica (DH < 0), il valore di DS eÁ molto piccolo, come per
esempio nella reazione: C(s) ‡ O2(g) ! CO2(g) , risulteraÁ che: DG  DH < 0, cioeÁ tutta
l'energia termica liberata puoÁ essere «teoricamente» convertita in lavoro utile (per
esempio lavoro elettrico). Questo eÁ uno degli aspetti termodinamici piuÁ interessanti
delle pile a combustibile, per mezzo delle quali viene realizzata la combustione
«fredda» in condizioni isoterme. Infatti il rendimento di questi dispositivi eÁ sottratto
alle limitazioni che il secondo principio impone al funzionamento delle macchine
termiche, il cui rendimento non puoÁ superare quello massimo teorico della macchina di
Carnot:
T2
hˆ1
T1
Se, come invece avviene in genere nelle reazioni esotermiche a temperatura ambiente, il termine TDS non eÁ trascurabile (e DS < 0), solo una parte (DG) dell'energia
sviluppata (DH) puoÁ essere utilizzata per produrre lavoro elettrico, cioeÁ la differenza
DH TDS ˆ DG. Da qui ha origine il termine «energia libera» (cioeÁ libera di essere
trasformata in lavoro utile). Si noti ancora che a temperature bassissime si avraÁ
DG  DH: allo zero assoluto solo le reazioni esotermiche sarebbero spontanee;
b) il caso opposto si ha quando: DH  0. In questo caso la reazione eÁ possibile solo se
avviene con aumento di entropia, per cui: DG  TDS risulteraÁ negativo. In questo
caso la «spinta» all'avanzamento della reazione eÁ data solo dall'aumento di entropia,
evento sempre favorevole perche avvenga un qualsiasi processo. EÁ quanto si verifica,
per esempio, nel mescolamento di due soluzioni a diversa concentrazione: se non si
tratta di soluzioni concentrate, l'effetto termico eÁ minimo, mentre l'entropia aumenta
perche aumenta il disordine dovuto al mescolamento; il lavoro utile, corrispondente
alla diminuzione di energia libera, puoÁ essere sfruttato se il processo si fa avvenire in
una pila (pile a concentrazione).
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21. L'energia libera
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4
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5
CALCOLO DELLA VARIAZIONE DI ENERGIA LIBERA
DI UNA REAZIONE
A questo punto, abbiamo la possibilitaÁ di calcolare la variazione di energia libera di una
reazione: infatti, dai valori tabellati delle entalpie di formazione in condizioni standard,
possiamo calcolare la variazione di entalpia DH8 della reazione, e dai valori delle entropie
molari standard possiamo calcolare la variazione di entropia DS8. Quindi dalla relazione
DG8 ˆ DH8 TDS8 otteniamo la variazione di energia libera nelle condizioni date.
Inoltre, con l'approssimazione che i valori di DH8 e di DS8 rimangano costanti con la
temperatura, possiamo trovare la temperatura al di sopra della quale si inverte il senso
della spontaneitaÁ del processo (temperatura T0 delle figure 21.2a e 21.2b).
EÁ bene anche sottolineare che una data reazione avviene tanto piuÁ spontaneamente quanto piuÁ negativa eÁ la variazione dell'energia libera (DG), e cioeÁ quanto piuÁ
piccola eÁ l'energia libera dei prodotti e quanto piuÁ grande eÁ l'energia libera dei
reagenti (sapendo che DG ˆ SGprodotti SGreagenti ). Pertanto, se da determinate
sostanze possono formarsi prodotti diversi in seguito a due o piuÁ reazioni competitive, eÁ termodinamicamente favorita la reazione competitiva per la quale si ha la
maggiore diminuzione di energia libera (DG piuÁ negativo). Tuttavia un DG negativo non eÁ
sempre sufficiente per poter senz'altro affermare che una data reazione avverraÁ istantaneamente, in quanto, a causa di impedimenti di natura cinetica, essa, sebbene favorita dal punto
di vista termodinamico, potrebbe in pratica non verificarsi affatto.5
In conclusione, mentre la termodinamica chimica fornisce la chiave per prevedere il
verificarsi o meno di un fenomeno chimico, essa tuttavia non daÁ alcuna informazione sul
tempo richiesto affinche esso si verifichi:6 puoÁ accadere infatti che da determinati reagenti
si ottengano i prodotti termodinamicamente meno favoriti, proprio perche la velocitaÁ di
reazione di questi ultimi eÁ la piuÁ elevata.
ENERGIA LIBERA MOLARE STANDARD DI FORMAZIONE
Se, per esempio, volessimo calcolare il valore del DG8 per la reazione di sintesi dell'acqua:
H2(g) ‡
1
O2(g) ! H2 O(g)
2
dai dati tabellati a 25 8C di H8 e di S8 di ogni sostanza interessata, poicheÂ:
DH8 ˆ H8H2 O
e
H8H2 ‡
DS8 ˆ S8H2 O
1
H8
2 O2
1
S8H2 ‡ S8O2
2
5
Per esempio, se in un recipiente chiuso riscaldato a 25 8C poniamo dell'idrogeno puro (P ˆ 1 atm) e dell'ossigeno
puro (P ˆ 1 atm), la velocitaÁ della seguente reazione:
H2(g) ‡
1
O2(g) ! H2 O(g)
2
DG8 ˆ
228,6 kJ=mol
eÁ estremamente lenta in assenza di catalizzatori (spugna di platino) sebbene nel fenomeno si abbia una notevole variazione negativa di energia libera standard.
6
Questo problema viene invece affrontato e risolto dalla cinetica chimica.
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6. Energia libera ed energia libera standard dei sistemi materiali
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6
sostituendo i dati otteniamo:
DH8 ˆ
241 790
DS8 ˆ 188,7
…0,00 ‡ 0,00† ˆ
…130,6 ‡ 102,5† ˆ
Pertanto, applicando la nota relazione: DG8 ˆ DH8
DG8 ˆ
241 790
298 (
241 790 J
44,4 u:e:
TDS8 si ha:
44,4) ˆ
228,6 kJ=mol
Il risultato ottenuto indica che se confrontiamo a 25 8C l'energia libera di una mole di
acqua allo stato gassoso con pressione parziale di una atmosfera (energia libera del gas nel
suo stato standard), con quella a 25 8C di una mole di idrogeno gassoso e di mezza mole
di ossigeno gassoso, ciascuno con pressione parziale di 1 atm (energia libera nei rispettivi
stati standard), questi ultimi hanno un contenuto di energia libera standard che supera di
228,6 kJ quello di una mole di acqua gassosa nel suo stato standard. Poiche non sono noti
i valori assoluti delle energie libere delle sostanze, in analogia alla convenzione adottata
per le loro entalpie molari standard di formazione, eÁ stata posta convenzionalmente uguale
a zero, a tutte le temperature, l'energia libera degli elementi quando essi si trovano nei
rispettivi stati standard ad attivitaÁ unitaria.7 Pertanto il DG88 relativo alla reazione di sintesi
di una sostanza a partire dai suoi elementi, tutti nei rispettivi stati standard, viene indicato
con il nome di energia libera molare standard di formazione di quella sostanza.
Applicando quindi alla reazione di sintesi dell'acqua la relazione (21.3) e cioeÁ
DG8 ˆ SG8prodotti
si ha:
DG8 ˆ G8H2 O
1
G8H2 ‡ G8O2
2
SG8reagenti
ˆ
228 600 J=mol
e poiche per convenzione: G8H2 ˆ G8O2 ˆ 0 ne consegue che: G8H2 O ˆ 228 600 J=mol.
Seguendo un procedimento analogo a quello ora illustrato, eÁ possibile tabellare
l'energia libera molare standard di formazione …DG8† di ogni sostanza a una data
temperatura e utilizzando tali valori, calcolare il DG8 di una qualsiasi reazione, facendo
la differenza tra i valori dei DG8 di formazione dei prodotti e i DG8 di formazione dei
reagenti, in modo del tutto analogo a quanto si eÁ fatto per il calcolo del DH8 di reazione
dalle entalpie di formazione standard.
Qualora il valore del DG8 di una reazione non fosse noto, esso potrebbe essere
calcolato indirettamente combinando opportunamente alcune reazioni delle quali siano
conosciuti i relativi DG8: questo perche l'energia libera eÁ una funzione di stato.
ENERGIA LIBERA ED ENERGIA LIBERA STANDARD
DEI SISTEMI MATERIALI
Il valore assoluto dell'energia libera dei sistemi materiali non eÁ noto, come non lo eÁ il
valore assoluto della loro energia interna e della loro entalpia, ma questo fatto non
costituisce una limitazione per la termodinamica chimica in quanto per essa eÁ importante
conoscere solo la variazione dell'energia libera che si verifica quando un sistema chimico
passa da uno stato iniziale (quello dei reagenti) a uno stato finale (quello dei prodotti della
reazione). Questo perche eÁ la conoscenza del DG della reazione che ci fornisce la chiave
per poter prevedere la spontaneitaÁ o meno di una reazione quando essa viene fatta
avvenire a pressione e a temperatura costanti.
7
In un sistema ideale l'attivitaÁ di ciascuna specie chimica coincide con la sua pressione parziale se si tratta di un gas;
con la sua concentrazione se si tratta di soluti.
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21. L'energia libera
Vediamo ora come si puoÁ calcolare l'energia libera di un sistema materiale. Supponiamo che
un sistema termodinamico, che per semplicitaÁ consideriamo costituito da una mole di gas
perfetto, passi da uno stato iniziale con energia libera G1 a uno stato finale con energia libera
G2. Ebbene, applicando alla trasformazione il calcolo infinitesimale, e cioeÁ ammettendo la
reversibilitaÁ del processo, la variazione infinitesima dG dell'energia libera del sistema eÁ data
dalla relazione (21.6):
dG ˆ dLu ‡ VdP SdT
ma dato che in questo caso l'unica forma di lavoro fornito dal sistema eÁ di tipo meccanico
(PdV), essendo dLu uguale a zero, la 21.6 diventa:
dG ˆ VdP
SdT
(21:9)
Se il processo oltre che reversibile eÁ anche isotermo (dT ˆ 0), otteniamo:
dG ˆ VdP
(21:10)
e poicheÂ, per una mole di gas perfetto, dall'equazione di stato risulta che:
Vˆ
la (21.10) diventa:
dG ˆ
RT
P
RT
dP
P
(21:11)
Per valutare la variazione finita di energia libera DG, per il passaggio isotermo della mole
di gas perfetto da una pressione iniziale P0 a una finale P, basta integrare la (21.11):
Z 2
Z P
dP
dG ˆ G2 G1 ˆ DG ˆ
RT
P
1
P0
ma dato che R eÁ una costante e T eÁ mantenuta costante, otteniamo:
Z P
dP
DG ˆ (G2 G1 ) ˆ RT
P0 P
e infine risolvendo l'integrale definito:8
(G2
G1 ) ˆ DG ˆ RT ln
P
P0
(21:12)
Se ora consideriamo di riferirci a uno stato iniziale di riferimento, cioeÁ a uno stato standard da cui iniziare la valutazione dell'energia libera di ogni sostanza, ne consegue che (in
base a quanto visto prima) lo stato standard dei gas ideali in un miscuglio gassoso e a ogni
temperatura eÁ quello in cui la loro pressione parziale eÁ di una atmosfera. Pertanto
indicando con G8 l'energia libera del gas ideale nel suo stato standard iniziale, la (21.12)
puoÁ essere cosõÁ formulata (G1 ˆ G8):
P
(G2 G8† ˆ RT ln
P0
ma P0 ˆ 1 atm (pressione standard del gas) quindi: G2 ˆ G8 ‡ RT ln P che generalizzata diventa:
G ˆ G8 ‡ RT ln P
(21:13)
8
Si ricordi che, per le regole di integrazione:
Z x2
dx
ˆ ln x2
x1 x
ln x1 ˆ ln
x2
:
x1
276
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QUESITI
in cui G eÁ l'energia libera di una mole di gas ideale alla pressione P e alla temperatura T,
mentre G8, denominata energia libera standard, eÁ la sua energia libera alla stessa temperatura T e quando la sua pressione eÁ di una atmosfera (energia libera nello stato standard).
Visto che l'energia libera eÁ una grandezza estensiva, la (21.13), relativamente a n moli di
gas ideale, assume la forma:
nG ˆ nG8 ‡ nRT ln P
(21:14)
Mentre l'energia libera …G† di un gas ideale dipende dalla temperatura e dalla pressione
esterna, la sua energia libera standard …G8† dipende solo dalla temperatura. Infatti,
qualunque sia il valore numerico della pressione esterna al sistema, quella del sistema, e
quindi quella del gas nel suo stato standard, deve essere uguale a una atmosfera.
Normalmente i valori numerici delle energie libere standard G8 delle sostanze vengono riferiti alla temperatura di 25 8C. EÁ bene precisare che la grandezza P che compare
nella (21.13) e nella (21.14), sebbene coincida numericamente con la pressione del gas, eÁ
tuttavia espressa da un numero adimensionale, in quanto eÁ ottenuta dal rapporto fra la
pressione attuale del gas (in atmosfere) e quella del gas nello stato standard …P0 ˆ 1 atm†:
Si noti inoltre che per i gas reali, i quali a causa delle mutue interazioni molecolari
si discostano dal comportamento ideale, l'energia libera eÁ quella standard quando, qualunque sia la temperatura esterna, la loro attivitaÁ (a) eÁ uguale a uno. Pertanto la relazione (21.14), valida per un gas ideale: nG ˆ nG8 ‡ nRT ln P, per un gas reale assume la
forma corretta:
nG ˆ nG8 ‡ nRT ln a
(21:15)
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QUESITI
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20 esercizi interattivi
1. Per quale ragione eÁ stata definita la funzione
energia libera? Perche eÁ una funzione di stato, e
perche si definisce libera?
10. In quali condizioni si potrebbe sfruttare integralmente come lavoro utile la variazione di energia
libera di una reazione spontanea?
2. Confronta le condizioni termodinamiche di variazione di equilibrio di un sistema isolato espresse
in termini di variazione di entropia con quelle
espresse in termini di variazione di energia libera
di un sistema chimico (non isolato).
11. Qual eÁ la differenza tra lavoro di volume e lavoro
utile di una reazione spontanea?
3. Proponi qualche esempio con il quale confermare
che una reazione chimica non spontanea non eÁ
necessariamente impossibile.
4. In quali casi il calore totale di una reazione (DH)
puoÁ coincidere con il lavoro utile (DG)?
5. In quali condizioni l'energia libera di un gas ideale
e quella di un gas reale eÁ quella standard?
6. Indica quando le sostanze gassose in un recipiente
di reazione si trovano nei rispettivi stati standard.
7. L'energia libera standard (G8) di una sostanza eÁ la
stessa a tutte le temperature?
8. Dimostra matematicamente, mediante la relazione
DG ˆ DH TDS, che in una reazione endotermica
spontanea viene prodotto lavoro utile.
9. Una reazione che avviene con aumento di entropia
del sistema si puoÁ definire senz'altro spontanea?
12. Una reazione che avviene con diminuzione di entropia (a temperatura e pressione costanti) puoÁ
avvenire spontaneamente?
13. Come si calcola l'energia libera di formazione standard di un composto?
14. Un soluto A si ripartisce fra due liquidi immiscibili
a e b: qual eÁ la condizione necessaria affinche il
sistema sia in equilibrio?
15. Una reazione endotermica che avviene con diminuzione di entropia puoÁ avvenire spontaneamente?
16. Per quale motivo una reazione, per la quale DG<0,
puoÁ non avvenire praticamente? Come si puoÁ superare questa difficoltaÁ?
17. Qual eÁ la differenza tra energia libera di formazione
ed energia libera standard di una sostanza?
18. Perche la grandezza P che compare nell'espressione
G ˆ G8 ‡ RT ln P eÁ un numero adimensionale?
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
22
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1
L'energia libera
e gli equilibri chimici
VARIAZIONE DELL'ENERGIA LIBERA IN UNA REAZIONE
EQUAZIONE DI VAN'T HOFF
Per valutare la spontaneitaÁ di una reazione condotta in determinate condizioni sperimentali, esaminiamo per esempio quella della sintesi dell'ammoniaca:
N2(g) ‡ 3 H2(g) ! 2 NH3(g)
e supponiamo di fotografare il processo a un dato istante nel quale siano pN2 , pH2 , e pNH3 le
pressioni parziali arbitrarie (qualsiasi) dei reagenti e dei prodotti alla temperatura costante T e
sotto la pressione esterna costante P. Se, in queste condizioni sperimentali, la somma
dell'energia libera dei prodotti eÁ maggiore di quella data dalla somma delle energie libere
dei reagenti (DG > 0), significa che in quell'istante la reazione non procede spontaneamente da
sinistra verso destra ma nel verso opposto, e cioeÁ in quello della dissociazione dell'ammoniaca;
se invece la somma dell'energia libera dei prodotti eÁ minore di quella data dalla somma delle
energie libere dei reagenti (DG < 0), la reazione in quell'istante procede nel verso della sintesi
dell'ammoniaca; se infine, la somma dell'energia libera dei prodotti eÁ uguale a quella dei
reagenti (DG ˆ 0), la reazione, in quell'istante, eÁ all'equilibrio.
Nelle due ipotesi DG > 0 e DG < 0, trattandosi di stati di non equilibrio, dovranno
verificarsi rispettivamente: a) una diminuzione dell'energia libera dei prodotti e un
aumento di quella dei reagenti; b) un aumento dell'energia libera dei prodotti e una
diminuzione di quella dei reagenti, in modo che, in ambedue i casi, il sistema chimico
pervenga all'equilibrio (DG ˆ 0).
Per tradurre analiticamente queste considerazioni, applichiamo all'esempio preso in esame
la relazione (21.3): DG ˆ SGprodotti SGreagenti tenendo conto che in base alla (21.14)
l'energia libera di ciascuna sostanza partecipante alla reazione eÁ data rispettivamente:
2 GNH3 ˆ 2 G8NH3 ‡ 2 RT ln pNH3
GN2 ˆ G8N2 ‡ RT ln pN2
3 GH2 ˆ 3 G8H2 ‡ 3 RT ln pH2
nelle quali le pressioni parziali pNH3, pN2 e pH2 sono le pressioni qualsiasi in un certo istante della reazione.1
Poiche in base alla nota proprietaÁ dei logaritmi delle potenze ( ln xa ˆ a ln x) possiamo
scrivere: 2 GNH3 ˆ 2 G8NH3 ‡ RT ln p2NH3 e 3 GH2 ˆ 3 G8H2 ‡ RT ln p3H2 , otteniamo:
DG ˆ [2 G8NH3 ‡ RT ln p2NH3 ]
[G8N2 ‡ RT ln pN2 ‡ 3 G8H2 ‡ RT ln p3H2 ]
1
In queste espressioni, in base alla (21.12), al posto delle pressioni dovrebbe, a rigore, porsi il rapporto p=p0 (dove la
lettera p si riferisce alle pressioni parziali): se peroÁ p0 viene considerato uguale a 1, il denominatore puoÁ essere sottinteso,
ma eÁ da tenere presente comunque che i termini che esprimono le pressioni sono in realtaÁ numeri adimensionali.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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1. Variazione dell'energia libera in una reazione. Equazione di van't Hoff
e raggruppando:
DG ˆ 2 G8NH3
posto: DG8 ˆ 2 G8NH3
G8N2
G8N2
3 G8H2 ‡ RT ln
p2NH3
pN2 p3H2
3 G8H2 si ha:
DG ˆ DG8 ‡ RT ln
p2NH3
pN2 p3H2
(22:1)
in cui il valore DG8, ottenuto mediante l'operazione:
DG8 ˆ SG8prodotti
SG8reagenti
(22:2)
eÁ la variazione di energia libera standard della reazione, eÁ cioeÁ la variazione di
energia libera della reazione quando le pressioni parziali arbitrarie dei reagenti e dei
prodotti assumono il valore di una atm,2 e cioeÁ quando essi sono tutti nei rispettivi
stati standard.
Generalizzando la relazione (22.1) ricavata per la sintesi dell'ammoniaca ad una qualsiasi reazione in fase gassosa del tipo: a A ‡ b B ! c C ‡ d D otteniamo l'equazione:
DG ˆ DG8 ‡ RT ln
pcC pdD
paA pbB
(22:3)
nota con il nome di equazione di van't Hoff.3
EÁ bene sottolineare che la frazione ad argomento del logaritmo4 che compare nell'equazione (22.3), sebbene analoga alla formulazione matematica della costante di equilibrio di una reazione, ha un significato concettuale del tutto diverso. Infatti, le pressioni
parziali che compaiono in essa, essendo quelle relative a una condizione di non equilibrio, variano man mano che la reazione procede spontaneamente in un verso o nel verso opposto, e solo quando questa eÁ pervenuta all'equilibrio, esse coincidono con quelle
che compaiono nella costante di equilibrio (Kp ). Pertanto, quando le pressioni parziali
arbitrarie dei reagenti e dei prodotti assumono il valore di equilibrio, la (22.3) assume la
forma:
!
pcC pdD
DG ˆ DG8 ‡ RT ln a
pA pbB
equilibrio
o anche:
DG ˆ DG8 ‡ RT ln Kp
ma poiche all'equilibrio DG ˆ 0, da quest'ultima otteniamo:
DG8 ˆ
(22:4)
RT ln Kp
Pertanto l'equazione che lega la variazione di energia libera di una reazione condotta a
pressione e temperatura costanti, in condizioni di non equilibrio, puoÁ essere cosõÁ
formulata in base alle (22.3) e (22.4):
DG ˆ
RT ln Kp ‡ RT ln
pcC pdD
paA pbB
2
(22:5)
Infatti, posto nella (22.1) pNH3 ˆ pN2 ˆ pH2 ˆ 1 atm, si ha ln 1 ˆ 0 e quindi DG ˆ DG8.
Jacobus Hendricus van't Hoff (1852-1911), chimico olandese, premio Nobel nel 1901. L'equazione (22.3) eÁ anche
indicata con il nome di isoterma di reazione ed eÁ applicabile alle reazioni che non si trovano all'equilibrio.
4
Tale frazione eÁ indicata come quoziente di reazione.
3
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22. L'energia libera e gli equilibri chimici
Se una reazione avviene in fase condensata, per esempio in soluzione acquosa molto
diluita, tenendo conto che in questa condizione si assume f ˆ 1 e quindi a ˆ C
(numericamente), l'energia libera di un soluto nella soluzione diluita eÁ espressa dalla
relazione:
nG ˆ n G8 ‡ nRT ln C
in cui C eÁ la sua concentrazione molare e G8 la sua energia libera quando eÁ in concentrazione unitaria (nello stato standard). Con un procedimento del tutto analogo a quello
seguito per le reazioni in fase gassosa, si perviene all'equazione finale:
DG ˆ
RT ln Kc ‡ RT ln
[C]c [D]d
[A]a [B]b
(22:6)
nella quale Kc eÁ la costante di equilibrio espressa in funzione delle concentrazioni molari
delle sostanze partecipanti alla reazione, mentre le concentrazioni che compaiono sotto il
termine logaritmico sono quelle di non equilibrio.
Mentre la variazione di energia libera (DG) di una reazione eÁ una grandezza che, a
una data temperatura e pressione, puoÁ assumere valori numerici diversi, in dipendenza cioeÁ da quelli assunti nel recipiente di reazione dalle pressioni (concentrazioni)
arbitrarie dei reagenti e dei prodotti, la variazione di energia libera standard (DG8) eÁ
una grandezza che dipende solo dalla temperatura e dalla natura chimica dei reagenti e
dei prodotti e quindi, a temperatura costante, ha un valore numerico caratteristico per
ogni data reazione.
In altri termini, la variazione di energia libera (DG) fornisce una misura dell'affinitaÁ
chimica delle sostanze, e cioeÁ della tendenza dei reagenti a formare determinati prodotti a
pressione e a temperatura costanti, in quanto:
. per DG > 0, nelle condizioni date, dai reagenti non si formano i prodotti;
. per DG < 0, nelle condizioni date, dai reagenti si formano i prodotti;
. per DG ˆ 0, nelle condizioni date, reagenti e prodotti sono in equilibrio.
Invece la variazione di energia libera standard (DG8), essendo indipendente dalla pressione
esterna, come in precedenza sottolineato, fornisce una misura dell'affinitaÁ chimica delle sostanze quando, a pressione esterna costante, le loro pressioni parziali nel recipiente di reazione sono tutte uguali ad 1 atm (affinitaÁ normale DG8). Inoltre, dato che l'affinitaÁ normale
della reazione eÁ legata alla costante di equilibrio corrispondente, mediante l'equazione:
DG8 ˆ
RT ln Kp
essa ci fornisce anche l'entitaÁ del rendimento della reazione, in quanto, come vedremo,
tanto piuÁ eÁ negativo il DG8, tanto piuÁ grande eÁ il valore numerico della costante di
equilibrio. Nel caso particolare in cui risulti DG8 ˆ 0, che ovviamente si verifica solo
quando la sommatoria dell'energia libera standard dei prodotti eÁ uguale alla sommatoria
dell'energia libera standard dei reagenti (si veda l'equazione 22.2), la costante di
equilibrio della reazione (Kp ) diventa uguale a uno.5 Pertanto, quando eÁ verificata questa
particolare condizione, i reagenti, ciascuno con pressione parziale (concentrazione)
uguale a uno, e cioeÁ nei rispettivi stati standard, sono in equilibrio con i prodotti ciascuno
con pressione parziale (concentrazione) uguale a uno, e cioeÁ anch'essi nei rispettivi stati
standard.
5
Infatti, in questo caso particolare risulta:
DG8 ˆ
RT ln 1 ˆ 0
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
................................................
2. Importanza della funzione energia libera
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2
Se invece DG8 < 0, allora Kp > 1, cioeÁ partendo dai componenti tutti a pressioni parziali uguali a 1 atm, la reazione si sposta da sinistra verso destra, ovvero la resa in
prodotti aumenta. Al contrario, se DG8 > 0, allora Kp < 1 e la reazione si sposta nel
verso opposto a quello desiderato, cioeÁ verso la formazione di sostanze reagenti, a spese
dei prodotti (sempre partendo da pressioni parziali unitarie). EÁ bene sottolineare che le
costanti di equilibrio Kp e Kc , in base alle precedenti considerazioni, sono espresse da
numeri adimensionali.
IMPORTANZA DELLA FUNZIONE ENERGIA LIBERA
La funzione di stato energia libera, legata all'entalpia che eÁ stata dedotta dal primo
principio della termodinamica, e legata all'entropia che eÁ stata dedotta dal secondo
principio della termodinamica, ha consentito di pervenire ai seguenti importanti
risultati:
1. eÁ stata confermata per via termodinamica la legge dell'equilibrio chimico, in quanto
dalla (22.4) risulta:
DG8
ln Kp ˆ
(22:7)
RT
per cui, dato che DG8 per una data reazione dipende solo dalla temperatura, la Kp
della medesima reazione eÁ una costante a temperatura costante:
Kp ˆ f (T)
2. nota a una qualsiasi temperatura la variazione di energia libera standard di una data
reazione (DG8), applicando la (22.7) possiamo calcolare la relativa costante di equilibrio, e quindi prevederne il rendimento teorico alla temperatura data. La variazione
di energia libera standard (a 25 8C) si puoÁ calcolare dai valori tabellati delle entalpie
di formazione H8 e delle entropie molari S8, da cui si ottiene:
DG8 ˆ DH8
TDS8
3. applicando l'equazione di van't Hoff (22.5) e cioeÁ:
DG ˆ
RT ln Kp ‡ RT ln
pcC pdD
paA pbB
noto il valore di Kp di una data reazione, eÁ possibile calcolarne teoricamente la variazione di energia libera (DG) per qualsiasi valore, arbitrariamente scelto, delle pressioni parziali (concentrazioni) di ciascuna sostanza partecipante alla reazione e quindi prevedere, in quelle condizioni, la spontaneitaÁ o meno del processo.
In altre parole se nelle condizioni sperimentali scelte risultasse DG > 0, e cioeÁ una reazione non spontanea, eÁ sempre possibile farla avvenire ugualmente nel verso desiderato
intervenendo dall'esterno, e cioeÁ modificando le pressioni parziali dei reagenti o dei prodotti (o di ambedue contemporaneamente), in modo da ottenere DG < 0 applicando
sempre la (22.5). Per questa ragione la variazione di energia libera di una reazione, detta
anche forza motrice della reazione, non solo dipende dalla temperatura e dalla natura chimica dei reagenti e dei prodotti (DG8), ma dipende anche dalle loro concentrazioni (attivitaÁ) e cioeÁ dalla massa attiva di dette sostanze. (Il valore DG8, detto anche affinitaÁ normale di reazione, eÁ svincolato dall'influenza delle masse attive dei reagenti e dei prodotti,
infatti DG8 ˆ RT ln Kp .)
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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22. L'energia libera e gli equilibri chimici
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3
Un altro modo per abbassare il DG di una reazione, sempre allo scopo di spostare
l'equilibrio verso destra, cioeÁ di aumentarne la resa, eÁ quello di agire sulla pressione totale
del sistema, per esempio aumentandola, nel caso che la reazione avvenga con diminuzione del numero di moli gassose. Consideriamo la reazione generica in fase gassosa:
A‡B!C
La variazione di energia libera di tale reazione eÁ la seguente:
RT ln Kp ‡ RT ln
DG ˆ
pC
pA pB
(essendo pA , pB e pC le pressioni parziali iniziali).
Per la legge di Dalton, le pressioni parziali si possono esprimere in funzione delle
frazioni molari:
pi ˆ xi Ptot
sostituendo allora nella isoterma di van't Hoff:
DG ˆ
RT ln Kp ‡ RT ln
xC Ptot
xA Ptot xB Ptot
ˆ
RT ln Kp ‡ RT ln
xC 1
xA xB Ptot
si deduce allora che, senza variare il numero di moli delle specie presenti, quindi restando
invariato il rapporto:
xC
xA xB
se si aumenta la pressione totale, il valore di DG tende ad abbassarsi (con conseguente
spostamento della reazione verso destra).
PiuÁ in generale si puoÁ scrivere:
DG ˆ
RT ln Kp ‡ RT ln
xcC xdD Dn
P
xaA xbB tot
(Dn ˆ variazione del numero di moli gassose), da cui si deduce l'influenza sul valore del
DG esercitato dalla pressione totale.
Ancora, eÁ possibile realizzare una reazione che abbia DG > 0 se si fornisce dall'esterno
del lavoro al sistema (invece che ottenerlo dal sistema): eÁ il caso dei processi di elettrolisi.
Per esempio, la reazione in soluzione acquosa:
2 HCl ! H2 ‡ Cl2
eÁ una reazione non spontanea (DG > 0): eÁ possibile farla avvenire in una cella elettrolitica,
fornendo lavoro sotto forma di energia elettrica (come si vedraÁ nel capitolo sull'elettrolisi).
ISOBARA DI VAN'T HOFF
Un problema di notevole importanza a livello industriale, e precisamente quello del
calcolo della costante di equilibrio di una reazione a una qualsiasi temperatura, puoÁ essere
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3. Isobara di van't Hoff
risolto dalla termodinamica chimica mediante un'equazione nota con il nome di isobara di
van't Hoff, la quale esprime l'andamento della costante di equilibrio di una reazione con
il variare della temperatura mantenendo costante la pressione esterna. Questa equazione
puoÁ essere ricavata in modo non esattamente rigoroso prendendo in esame le due note
relazioni:
a† DG8 ˆ RT ln Kp
b† DG8 ˆ DH8
TDS8
dal confronto delle quali si ottiene:
RT ln Kp ˆ
da cui:
ln Kp ˆ
DH8 ‡ TDS8
DH8 DS8
‡
RT
R
(22:8)
Poiche la variazione della costante di equilibrio con la temperatura viene espressa
matematicamente dalla derivata di questa grandezza rispetto alla variabile T, derivando
la (22.8) rispetto alla temperatura e ammettendo che DH8 e DS8 della reazione siano
indipendenti dalla temperatura, e cioeÁ costanti, otteniamo:
DH8 DS8
d ln Kp
d
ˆ
‡
dT
RT
R
dT
e applicando le regole delle derivate, si ha:
DH8
d ln Kp
d
d DS8
ˆ
‡
dT
RT
R
dT
dT
Poiche la derivata di una costante rispetto a una variabile eÁ zero, anche la derivata rispetto
alla temperatura del rapporto DS8=R eÁ zero, in quanto R eÁ una costante e DS8 eÁ costante
per ipotesi; la derivata rispetto alla temperatura del rapporto DH8=RT, dato che DH8 si
ammette costante, non eÁ altro che la derivata del prodotto di una costante DH8=R per la
variabile 1/T: il suo valore eÁ quindi dato dal prodotto della costante DH8=R per la
derivata di 1/T, che eÁ uguale a 1=T 2 .
Il risultato finale percioÁ eÁ il seguente:
d ln Kp DH8
ˆ
dT
RT 2
(22:9)
Infine, dato che DH8, e cioeÁ la variazione di entalpia della reazione quando i reagenti e i
prodotti sono tutti nei rispettivi stati standard, e il relativo valore di DH, ovvero la variazione di entalpia della medesima reazione quando dette sostanze non sono tutte nei rispettivi stati standard, sono due grandezze che differiscono numericamente di poco fra
loro, la (22.9) puoÁ essere scritta nella forma:
d ln Kp
DH
ˆ
dT
RT 2
(22:10)
La (22.10) eÁ la formulazione matematica dell'isobara di van't Hoff, che eÁ di fondamentale
importanza per lo studio dei fenomeni chimici, in quanto:
a) noto il valore del DH di una data reazione, si puoÁ prevedere quale influenza esercita la
temperatura sull'equilibrio chimico;
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 22.1
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22. L'energia libera e gli equilibri chimici
b) noto il valore numerico della costante di equilibrio di una reazione a una data temperatura, se ne puoÁ calcolare la costante di equilibrio a un'altra temperatura;
c) noti due dati della costante di equilibrio di una reazione a due diverse temperature, si
puoÁ calcolare la tonalitaÁ termica (DH) della medesima reazione.
Infatti, se una reazione eÁ endotermica (DH > 0), dalla (22.10) si ha:
d ln Kp
>0
dT
in quanto sia R che la temperatura assoluta sono sempre positivi. Questo significa
che nelle reazioni endotermiche, a un incremento positivo della temperatura
(dT > 0), deve far riscontro un incremento positivo della grandezza d ln Kp e cioeÁ
praticamente l'aumento del valore numerico della costante di equilibrio della reazione. PoicheÂ, per convenzione, al numeratore della costante di equilibrio compaiono le pressioni parziali (le concentrazioni) dei prodotti della reazione, l'aumento del valore della Kp eÁ sinonimo di aumento del numeratore della costante di
equilibrio, e pertanto le reazioni endotermiche sono favorite dall'aumento della
temperatura (l'equilibrio si sposta verso destra). Alle stesse conclusioni si arriva se
si considera che d ln Kp =dT rappresenta la derivata della funzione ln Kp rispetto
alla temperatura, e che, se tale derivata eÁ crescente (per DH > 0), la funzione eÁ
crescente, cioeÁ la funzione ln Kp (e quindi anche Kp ) aumenta all'aumentare della
temperatura.
Nel caso di una reazione esotermica (DH < 0), dalla (22.10) si ha:
d ln Kp
<0
dT
Questo significa che, nelle reazioni esotermiche, a un incremento positivo della
temperatura (dT > 0), deve far riscontro in pratica una diminuzione del valore numerico
della costante di equilibrio della reazione. Pertanto le reazioni esotermiche sono sfavorite
dall'aumento della temperatura (l'equilibrio si sposta verso sinistra). In altre parole, se la
derivata della funzione ln Kp rispetto a T eÁ negativa, la funzione ln Kp (e quindi anche Kp )
diminuisce al'aumentare della temperatura (fig. 22.1).
Kp
ΔH
>
0
Variazione della costante di equilibrio in
funzione della temperatura.
ΔH <
0
T
Se ora integriamo la (22.10) fra i limiti T1 e T2 di due temperature alle quali corrispondono
rispettivamente le due costanti di equilibrio K1 e K2 di una data reazione, otteniamo:
d ln Kp ˆ
DH
dT
RT 2
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
(22:11)
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3. Isobara di van't Hoff
Dalle regole di integrazione eÁ noto che:
Z
d ln x ˆ ln x ‡ costante
Z
dT
ˆ
T2
1
‡ costante
T
per cui applicando queste regole alla (22.11) e ammettendo in prima approssimazione che
il valore del DH della reazione sia costante nell'intervallo di temperatura T1 T2 ,
otteniamo:
K2 DH 1
1
(22:12)
ˆ
ln
K1
R T1 T2
che eÁ la formula risolutiva dell'isobara di van't Hoff, la cui validitaÁ eÁ peroÁ verificata
esattamente solo se l'intervallo di temperatura eÁ sufficientemente piccolo in modo da
poter considerare costante il DH della reazione.
Comunque, anche con questa limitazione, la (22.12) ci consente:
a) di calcolare la variazione di entalpia di una reazione (DH) noti due dati della costante
di equilibrio (K1 e K2) alle due rispettive temperature T1 e T2;
b) noti a una data temperatura T1 il DH e la costante di equilibrio K1 di una reazione, di calcolarne la costante di equilibrio K2 a un'altra temperatura T2, e quindi di poter prevedere
teoricamente la resa termodinamica di una reazione a una qualsiasi temperatura.
A risultati ugualmente interessanti conduce l'integrazione indefinita della (22.10); infatti
otteniamo (con passaggi analoghi a quelli visti per l'integrazione definita):
Z
Z
DH dT
d ln Kp ˆ
R T2
da cui, sempre supponendo DH costante con la temperatura:
Z
Z
DH
dT
d ln Kp ˆ
R
T2
e, per quanto detto sopra sulla risoluzione dei due integrali indefiniti:
ln Kp ‡ costante ˆ
DH 1
‡ costante
R T
Riunendo in un'unica costante le due costanti di integrazione si ha:6
ln Kp ˆ
DH 1
‡ costante
R T
(22:13)
Questo risultato permette di esprimere graficamente ln Kp in funzione di 1=T in modo
semplice; infatti, ponendo:
1
xˆ
e y ˆ ln Kp
T
si ottiene l'equazione di una retta del tipo y ˆ a x ‡ c, in cui a ˆ
DH=R rappresenta la
6
Si noti che la (22.13) coincide con la (22.8) se sostituiamo la costante con il rapporto DS8=R (uno dei presupposti eÁ
appunto che il valore di DS8 possa essere considerato costante).
285
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 22.2
........................................................................................................................................
22. L'energia libera e gli equilibri chimici
pendenza (coefficiente angolare) della retta, per cui questa saraÁ ascendente o discendente
a seconda del segno del DH. Basta conoscere due punti di tale retta (cioeÁ due valori di Kp
a due diverse temperature) per tracciare la retta, il che permette di ricavare poi la costante
di equilibrio a qualunque altra temperatura; inoltre, la misura della tangente dell'angolo a
ci permette di risalire al valore del DH della reazione (fig. 22.2). Infatti
DH Dy
ˆ
R
Dx
tg a ˆ
ln Kp
Variazione di ln Kp in
funzione di 1=T per
reazioni esotermiche
ed endotermiche.
ΔH <
α
Δy
>0
Δx
1/T
............................................................................................................................................................
QUESITI
1. Qual eÁ il diverso significato per DG e DG8 di una
data reazione?
3. In quale caso particolare il DG8 di una data reazione eÁ uguale a zero? Qual eÁ il corrispondente
valore della costante di equilibrio?
4. Proponi due esempi numerici per dimostrare che
tanto piuÁ negativo eÁ DG8 di una data reazione,
tanto maggiore eÁ il rendimento nei prodotti.
5. Mediante le due relazioni:
TDS8
e
DG8 ˆ
RT ln Kp
riassumi, in poche parole, l'importanza dell'applicazione ai fenomeni chimici del primo e del
secondo principio della termodinamica.
6. Mediante i dati tabellati delle entropie molari
standard a 25 8C, e sapendo che da argento metallico e cloro gassoso si forma spontaneamente
cloruro di argento cristallino, dimostra che eÁ errata
l'affermazione secondo la quale i processi spontanei avvengono con aumento di entropia del sistema non isolato.
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20 esercizi interattivi
7. Mediante l'equazione di van't Hoff dimostra matematicamente che la costante di equilibrio di una
reazione atermica (DH ˆ 0) non eÁ influenzata
dalla variazione della temperatura.
2. Mentre durante l'evolversi di una data reazione a
pressione e temperatura costanti, il DG8 di una
data reazione eÁ una grandezza costante, altrettanto
non puoÁ dirsi per DG: PercheÂ?
DG8 ˆ DH8
ΔH
0
8. Quali problemi ha risolto l'isobara di van't Hoff?
9. Esponi brevemente il metodo grafico termodinamico per la risoluzione di alcuni problemi industriali.
10. Su quali fattori si puoÁ agire per favorire una reazione?
11. Immergendo una barretta di zinco in una soluzione
di sale di argento, avviene la reazione spontanea
Zn ‡ 2 Ag‡ ! Zn2‡ ‡ 2 Ag. Come si puoÁ ottenere
del lavoro utile da tale processo?
12. In quali condizioni il lavoro utile ottenibile da una
reazione coincide esattamente (in valore assoluto)
con la variazione di energia libera?
13. Quali sono le approssimazioni che occorre fare per
ottenere l'isobara di van't Hoff nella forma data
dalla (22.9)?
14. Che cos'eÁ il quoziente di reazione?
15. Se si mettono a contatto due soluzioni di solfato di
zinco a diversa concentrazione, le due soluzioni
diffondono finche la concentrazione della soluzione finale non eÁ uniforme. Come si puoÁ ottenere
del lavoro utile da tale processo?
286
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
23
..........................................................................................................................................................................................................................................
1
L'energia libera
e gli equilibri di fase
EQUAZIONE DI CLAPEYRON
Consideriamo, a una data temperatura e pressione, due fasi in equilibrio (1) e (2) di una
medesima sostanza, per esempio un liquido e il suo vapore, e indichiamo rispettivamente
con Gmol(1) e con Gmol(2) l'energia libera di una mole di questa sostanza in ciascuna delle
due fasi. Poiche l'equilibrio di un qualsiasi sistema materiale eÁ espresso matematicamente
dalla condizione:
DG ˆ 0
ne consegue che per la sostanza pura considerata deve essere verificata l'identitaÁ:
Gmol(1) ˆ Gmol(2)
Immaginiamo ora un successivo stato di equilibrio cui la sostanza perviene in seguito alle
variazioni infinitesime (dT e dP) della temperatura e della pressione originali. In conseguenza di cioÁ l'energia libera della mole di sostanza nella fase (1) diventa:
Gmol(1) ‡ dGmol(1)
mentre nella fase (2) diventa:
Gmol(2) ‡ dGmol(2)
e poiche questo nuovo stato eÁ sempre di equilibrio, deve essere:
Gmol(1) ‡ dGmol(1) ˆ Gmol(2) ‡ dGmol(2)
ma dato che Gmol(1) ˆ Gmol(2) , eÁ anche:
dGmol(1) ˆ dGmol(2)
(23:1)
Per stabilire la relazione fra variazione di pressione e temperatura e variazione dello stato
di equilibrio della sostanza distribuita nelle due fasi, applichiamo l'equazione (21.9) e cioeÁ
dG ˆ VdP
SdT
quindi la (23.1) diventa:
Vmol(1) dP
Smol(1) dT ˆ Vmol(2) dP
Smol(2) dT
da cui:
(Smol(2)
Smol(1) ) dT ˆ (Vmol(2)
Vmol(1) ) dP
287
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
23. L'energia libera e gli equilibri di fase
e infine:
dP
S
ˆ mol(2)
dT Vmol(2)
Smol(1)
Vmol(1)
che puoÁ essere scritta nella forma:
dP DSmol
ˆ
dT DVmol
(23:2)
nella quale DSmol e DVmol indicano rispettivamente la variazione di entropia e di volume
della sostanza, quando una mole di essa passa dalla fase (1) alla fase (2).
Poiche all'equilibrio DG ˆ 0, dall'equazione:
DG ˆ DH
TDS
risulta:
DSmol ˆ
DHmol
T
per cui la (23.2) viene cosõÁ formulata:
dP
DHmol
ˆ
dT TDVmol
(23:3)
nella quale DHmol eÁ la variazione di entalpia di una mole di sostanza quando essa passa
dalla fase (1) alla fase (2) (e coincide con il calore latente l).
La (23.3) eÁ la nota equazione di Clapeyron,1 ed eÁ molto importante sia per lo studio
degli equilibri di fusione, di evaporazione e di sublimazione, sia per lo studio degli
equilibri tra le due forme cristalline di una stessa sostanza (per esempio zolfo rombico e
zolfo monoclino, diamante e grafite, ecc.). Essa indica l'andamento della pressione di
vapore di un liquido o di un solido al variare della temperatura, o anche l'influenza della
pressione esterna sulla temperatura a cui si verifica un passaggio di stato di aggregazione.
Consideriamo infatti uno qualsiasi dei seguenti passaggi di stato (in cui DH assume
sempre un valore positivo, cioeÁ corrisponde al calore assorbito dal sistema):
solido ! liquido ‡ DHfusione
solido ! vapore ‡ DHsublimazione
liquido ! vapore ‡ DHevaporazione
solido (a) ! solido (b) ‡ DHtransizione cristallina
si deduce, dall'equazione di Clapeyron, che a un aumento di pressione (dP > 0)
corrisponde un aumento di temperatura (dT > 0), cioeÁ che dP/dT eÁ positivo solo se
DV > 0 (in quanto la temperatura assoluta non puoÁ mai assumere valori negativi). Questo eÁ
senz'altro vero nel passaggio da una fase condensata a un vapore (il volume di un vapore eÁ
molto maggiore del volume di un solido o di un liquido). Nei passaggi di stato tra fasi
condensate si verificano delle eccezioni, di cui la piuÁ importante eÁ quella rappresentata
dall'acqua: infatti, nel passaggio ghiaccio ! acqua si ha contrazione di volume, cioeÁ DV < 0,
per cui dP/dT < 0; a un aumento di pressione esterna corrisponde una diminuzione della
temperatura di equilibrio solido-liquido, per cui la curva che daÁ l'andamento di P in
funzione di T eÁ inclinata verso sinistra (derivata negativa); in altre parole, la temperatura di
fusione del ghiaccio diminuisce all'aumentare della pressione esterna.
1
BenoõÃt-Paul-EÂmile Clapeyron (1799-1864), ingegnere francese.
288
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.................
2. Equazione di Clausius-Clapeyron
Figura 23.1
......................................................................................................................................................................................................................................................................................................
2
Variazione della
pressione di vapore
di una sostanza liquida o solida con la
temperatura.
Figura 23.2
Variazione del logaritmo decimale della
pressione di vapore
di una sostanza liquida o solida con il
reciproco della temperatura assoluta.
L'equazione di Clapeyron eÁ stata discussa anche al cap. 14, cui si rimanda; si vedano anche
i relativi diagrammi di stato pressione-temperatura (cap. 15).
EQUAZIONE DI CLAUSIUS-CLAPEYRON
Come in precedenza affermato, la pressione di vapore di un liquido puro, e cosõÁ pure
quella di un solido puro, dipendono solo dalla temperatura e una simile dipendenza puoÁ
essere diagrammata ponendo la pressione di vapore della sostanza in funzione della
relativa temperatura. In questo modo, per ogni sostanza, si ottiene una curva (sperimentale) esponenziale, il cui andamento qualitativo eÁ riprodotto nel grafico della figura 23.1.
Pvapore (mmHg)
acetone
acqua
naftalina
0
T (ºC)
Un altro metodo per rappresentare una simile dipendenza eÁ quello di riportare in un
diagramma il logaritmo decimale della pressione di vapore della sostanza in funzione del
reciproco della sua temperatura assoluta (1/T). In questo modo per ciascuna sostanza si
ottiene una retta (sperimentale), il cui andamento eÁ riprodotto qualitativamente nel
grafico della figura 23.2.
log Pvapore
acetone
acqua
naftalina
1/ T
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........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
23. L'energia libera e gli equilibri di fase
L'andamento esponenziale delle curve del grafico in figura 23.1 e quello lineare delle rette
del grafico in figura 23.2 eÁ regolato dall'equazione di Clausius-Clapeyron, che puoÁ essere
ricavata da quella di Clapeyron (23.3), modificata in una forma approssimata, applicabile
allo studio degli equilibri nei quali una delle due fasi della sostanza eÁ gassosa, e cioeÁ a
quelli di evaporazione e di sublimazione.
Una prima approssimazione eÁ quella di trascurare il volume di una mole di sostanza
nella fase condensata, per esempio in quella liquida, nei confronti di quello occupato da
una mole di sostanza gassosa, e cioeÁ ponendo:
DVmol ˆ Vmol(g)
Vmol(l) ˆ Vmol(g)
per cui la (23.3) diventa:
dP
DHmol
ˆ
dT TVmol(g)
(23:4)
Una simile approssimazione eÁ lecita se si tiene conto che, per esempio, una mole di acqua
(18 g) allo stato liquido occupa un volume di circa 18 mL, mentre allo stato di vapore
occupa il volume di circa 22 400 mL (in condizioni normali).
Una seconda approssimazione eÁ quella di ammettere che il vapore della sostanza abbia
il comportamento di un gas ideale, e quindi per una mole di tale vapore risulta:
Vmol(g) ˆ
RT
P
pertanto la (23.4) diventa:
dP PDHmol
ˆ
RT 2
dT
e separando le variabili, otteniamo la relazione finale:
dP DHmol
dT
ˆ
RT 2
P
(23:5)
che costituisce la formulazione dell'equazione di Clausius-Clapeyron. Integrando questa
equazione fra i limiti T1 e T2 della temperatura, e quelli corrispondenti P1 e P2 della
pressione di vapore della sostanza, si ottiene l'espressione:
Z T2
Z P2
dP
DHmol
dT
ˆ
RT 2
P
P1
T1
Ammettendo infine una terza approssimazione, e cioeÁ che DHmol sia indipendente dalla
temperatura, la precedente relazione diventa:
Z P2
Z
Z
dP DHmol T2 dT DHmol T2 2
ˆ
T dT
ˆ
2
R
R
P1 P
T1 T
T1
e risolvendo gli integrali otteniamo:2
P2 DHmol
ln
ˆ
P1
R
2
Z
Si ricordi che per le regole di integrazione:
1
T1
1
T2
dx
ˆ ln x ‡ costante;
x
(23:6)
Z
dx
ˆ
x2
290
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
1
‡ costante.
x
............................................................................................................................................................................................................................................................
3. Equilibri tra fasi condensate
................................................................
3
Nonostante le approssimazioni fatte, l'equazione (23.6) si applica con ottimi risultati al
calcolo della pressione di vapore di un liquido o di un solido a una temperatura prescelta,
noti i dati sperimentali della sua pressione di vapore a un'altra temperatura, e il suo calore
latente molare di evaporazione o di sublimazione: oppure, inversamente, tenendo presente la relazione che esiste tra pressione di vapore e temperatura di ebollizione, la (23.6)
puoÁ essere utilizzata per calcolare la temperatura di ebollizione di un liquido a una data
pressione, nota la temperatura di ebollizione del liquido a un'altra pressione (per esempio
nota la sua temperatura normale di ebollizione); gli stessi criteri valgono, naturalmente,
per il calcolo della temperatura di sublimazione di un solido a una data pressione. Molto
spesso eÁ il calore latente di evaporazione (o di sublimazione) di una sostanza che mediante
l'equazione (23.6) viene calcolato dai dati sperimentali della sua pressione di vapore a due
diverse temperature. In questo caso, peroÁ, il calore latente calcolato eÁ solo approssimato,
in quanto l'equazione (23.6) eÁ stata ottenuta ammettendo che esso sia indipendente dalla
temperatura.
Mediante l'integrazione indefinita della (23.5), si ottiene:
Z
Z
dP DHmol dT
ˆ
R
P
T2
da cui:
DHmol 1
‡ costante
ln P ‡ costante ˆ
R
T
infine, conglobando le due costanti in un'unica costante:
DHmol 1
‡ costante
R
T
ln P ˆ
Da questa espressione si deduce la dipendenza esponenziale della pressione di vapore
dalla temperatura (si veda la figura 23.1); infatti, per definizione stessa di logaritmo, dalla
precedente espressione si ricava (omettiamo per maggiore semplicitaÁ il pedice «mol»):
Pˆe
DH=RT ‡ cost
ˆ ecost e
DH=RT
ˆAe
DH=RT
da cui si vede come la pressione e la temperatura siano legate da una relazione esponenziale (la pressione aumenta esponenzialmente al crescere della temperatura).
Portando inoltre in un grafico ln P in funzione di 1=T, si ottiene una retta con coefficiente angolare DH=R; portando in grafico il logaritmo decimale log P in funzione di
1=T, il coefficiente angolare saraÁ DH=2,3 R (si veda la figura 23.2).
PercioÁ, noti almeno due valori di pressione di vapore a due diverse temperature, si puoÁ
tracciare la retta ln P in funzione di 1/T e ricavare quindi la pressione di vapore a qualunque temperatura, in un intervallo abbastanza ampio (sempre ammessa la costanza del
calore latente con la temperatura).
EQUILIBRI TRA FASI CONDENSATE
Nell'integrazione dell'equazione di Clapeyron per gli equilibri tra fasi condensate (fusione, transizione cristallina), non si puoÁ piuÁ trascurare il volume di una fase, come si eÁ
fatto per gli equilibri solido-vapore e liquido-vapore, in quanto le due fasi hanno volumi
molari non molto differenti tra loro.
Dalla (23.3), separando le variabili, si ottiene:
dP ˆ
DHmol dT
DVmol T
291
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
..............................................................................................
23. L'energia libera e gli equilibri di fase
e integrando tra due limiti T1 e T2 e le due corrispondenti pressioni P1, P2 (ammettendo
che DHmol e DVmol siano entrambi costanti al variare della temperatura e della pressione):
Z
Z P2
DHmol T2 dT
dP ˆ
DVmol T1 T
P1
da cui:
P2
P1 ˆ
DHmol
T2
ln
DVmol
T1
(23:7)
Questa equazione permette di ricavare, per esempio, la temperatura di fusione di un solido
a una data pressione, nota la temperatura di fusione a un'altra pressione (e noto il calore
latente di fusione e la variazione di volume nel passaggio dalla fase solida alla fase liquida). Si
noti che, se si esprime la pressione in atmosfere e il volume in litri, in questo caso l'unitaÁ di
misura del calore latente eÁ espressa in L atm mol 1 come si ricava facilmente dalla (23.7).
......................................................................................................................................................................................................
QUESITI
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20 esercizi interattivi
1. Spiega, in base all'equazione di Clausius-Clapeyron,
perche la pressione di vapore di un liquido (o di
un solido) aumenta con la temperatura.
10. Per la maggior parte delle sostanze, il punto di
fusione aumenta o diminuisce all'aumentare della
pressione?
2. L'aumento di pressione provoca la diminuzione
della temperatura di congelamento dell'acqua.
Applicando al passaggio di stato liquido-solido
l'equazione di Clapeyron, spiega perche il ghiaccio
galleggia sull'acqua.
11. Perche non si possono applicare le approssimazioni
adottate per l'equazione di Clausius-Clapeyron
all'equilibrio solido ! liquido?
12. EÁ maggiormente influenzato dalla pressione esterna il punto di fusione o il punto di ebollizione di
una sostanza?
3. Quali approssimazioni sono state adottate per ricavare l'equazione di Clausius-Clapeyron? Si possono applicare le stesse approssimazioni all'equilibrio S(rombico) ! S(monoclino) ?
4. Una mole di benzene allo stato liquido eÁ in equilibrio, a una data temperatura, con una mole di
benzene allo stato di vapore. EÁ maggiore l'energia
libera del liquido o del vapore? L'entalpia del liquido o del vapore? L'entropia del liquido o del
vapore?
5. Le curve esponenziali di figura 23.1 presentano un
limite al crescere della temperatura?
6. Per quali equilibri di fase eÁ valida l'equazione di
Clausius-Clapeyron?
7. La temperatura di fusione del ghiaccio eÁ maggiore
a pressione atmosferica o alla pressione di 500
atm?
8. Se una sostanza eÁ presente contemporaneamente in
fase liquida e in fase vapore, e si verifica che
Gmol(vap) > Gmol(liq) il sistema eÁ all'equilibrio? Quale
processo spontaneo tende ad avvenire?
9. Quali condizioni si verificano al punto triplo di
una sostanza pura?
13. Quali sono le applicazioni dell'equazione di ClausiusClapeyron?
14. In base a quale principio il calore latente di sublimazione si puoÁ ottenere dalla somma del calore latente di fusione e del calore latente di evaporazione?
15. Alla temperatura di 10 8C e pressione di 1 atm, eÁ
maggiore l'energia libera di una mole di ghiaccio o
quella di una mole di acqua liquida?
16. Perche applicando l'equazione di Clapeyron agli
equilibri tra fasi condensate, non si puoÁ trascurare
nell'equazione il volume di una delle due fasi?
17. In quali casi il rapporto dP/dT dell'equazione di
Clapeyron assume valore negativo?
18. In quali condizioni il ghiaccio puoÁ sublimare?
19. Qual eÁ l'andamento della pressione di vapore di
un liquido in funzione della temperatura?
20. Un mole di acqua allo stato liquido e una mole di
acqua allo stato solido sono in equilibrio alla temperatura di 0 8C e pressione di 1 atm. EÁ maggiore
l'energia libera del liquido o del solido? L'entalpia
del liquido o del solido? L'entropia del liquido o
del solido?
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
24
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1
Cinetica delle reazioni
CONCETTI FONDAMENTALI SULLE REAZIONI CHIMICHE
Le reazioni chimiche sono quei processi nei quali, in seguito alla rottura dei legami chimici
esistenti fra gli atomi delle molecole delle sostanze messe a reagire, gli atomi liberati si
arrangiano in modo diverso contraendo fra loro nuovi legami per formare le molecole
delle sostanze finali.
Lo studio delle reazioni chimiche si propone essenzialmente due obiettivi principali, e
cioeÁ:
1. esaminare quali condizioni devono essere soddisfatte affinche una data reazione avvenga spontaneamente;
2. esaminare quali sono i fattori che influiscono sul tempo richiesto affinche una data
reazione giunga a completezza.
Il primo di questi problemi viene affrontato dalla termodinamica chimica, e cioeÁ da
quella branca della chimica fisica che considera solo l'aspetto energetico delle reazioni,
nel senso che essa, dal semplice confronto tra l'energia dei reagenti e dei prodotti della
reazione, fornisce la chiave per prevedere la spontaneitaÁ o meno di un fenomeno chimico.
Tuttavia, la termodinamica chimica non fornisce alcuna indicazione sul tempo necessario
affinche una reazione chimica spontanea giunga a completezza.
Quest'ultimo problema viene invece affrontato dalla cinetica chimica, e cioeÁ da quella
branca della chimica fisica che considera le reazioni chimiche sotto i due aspetti piuÁ
significativi dal punto di vista pratico, e cioeÁ la loro velocitaÁ e il loro meccanismo.
La conoscenza della velocitaÁ di una reazione eÁ infatti un problema che riveste una
notevole importanza industriale, in quanto, individuati i fattori che possono influenzarla,
eÁ possibile controllare la velocitaÁ del processo, evitando per esempio che esso avvenga o
troppo lentamente, oppure cosõÁ velocemente da essere esplosivo.
La conoscenza del meccanismo secondo il quale procede una reazione eÁ anch'esso un
problema di grande attualitaÁ, in quanto ha tracciato il cammino per l'interpretazione dei
processi biochimici che avvengono nell'interno delle cellule, fatto che ha portato a intensificare le ricerche sulle sostanze che, con il loro meccanismo di azione selettivo, possano
distruggere le cellule cancerose.
Il meccanismo di una reazione, e cioeÁ la successione di una serie di stadi intermedi dalla
somma dei quali si ottiene il processo globale, a volte eÁ molto complicato ed eÁ caratteristico
per ogni reazione. Il metodo principale per decifrare il meccanismo di una data reazione eÁ
basato sulla conoscenza della legge che governa la sua velocitaÁ e consiste nel proporre
diversi meccanismi per la reazione considerata, accettando come piuÁ probabile quello che
eÁ in migliore accordo con i dati della velocitaÁ di reazione ottenuti sperimentalmente.
293
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
24. Cinetica delle reazioni
..................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
2
VELOCITAÁ DELLE REAZIONI CHIMICHE
Per velocitaÁ di reazione si intende la quantitaÁ di sostanza reagente che viene consumata
nell'unitaÁ di tempo, o anche la quantitaÁ di sostanza che viene prodotta nell'unitaÁ di tempo.
Normalmente la quantitaÁ di sostanza, consumata o prodotta, viene indicata mediante la
sua concentrazione molare, mentre il tempo viene espresso in secondi.
La velocitaÁ di una reazione viene calcolata solo mediante misure sperimentali che vengono eseguite con apparecchiature piuÁ o meno complesse, ciascuna delle quali eÁ adatta
per un particolare tipo di reazione. CosõÁ, per esempio, se la reazione avviene con sviluppo
di gas, come la seguente:
CaCO3(s) ! CaO(s) ‡ CO2(g)
il suo procedere nel tempo puoÁ essere seguito facendola avvenire in un recipiente chiuso
mantenuto a temperatura costante e misurando, a intervalli regolari di tempo, la pressione del gas nell'interno del recipiente. Una tecnica, del tutto identica a quella ora descritta, viene seguita per le reazioni in fase gassosa che avvengono con aumento oppure
con diminuzione di volume, come per esempio nelle seguenti:
2 CO2(g) ! 2 CO(g) ‡ O2(g)
(aumento di volume)
N2(g) ‡ 3 H2(g) ! 2 NH3(g)
(diminuzione di volume)
Nelle reazioni in cui sono coinvolte sostanze otticamente attive, la relativa velocitaÁ puoÁ
essere calcolata mediante misure polarimetriche; nelle reazioni redox, la velocitaÁ puoÁ
essere calcolata mediante misure elettrometriche (conduttometria, polarografia ecc.);
nelle reazioni in cui si formano o scompaiono sostanze colorate, la velocitaÁ puoÁ essere
calcolata mediante misure spettrofotometriche e cosõÁ via.
L'esperienza ci insegna che la velocitaÁ delle reazioni dipende dalla natura dei reagenti,
dalla loro concentrazione, dalla temperatura e dalla presenza di catalizzatori.
Per quel che riguarda la natura dei reagenti, basta considerare che mentre alcune reazioni
in soluzione avvengono quasi istantaneamente, come per esempio quelle di neutralizzazione (H‡ ‡ OH ! H2 O), altre reazioni, come per esempio quelle di precipitazione,
possono essere istantanee (Ag‡ ‡ Cl ! AgCl), oppure possono avvenire in un tempo
molto piuÁ lungo (Mg2‡ ‡ C2 O24 ! MgC2 O4 ); cosõÁ pure alcune reazioni di ossidoriduzione sono quasi istantanee (5 Fe2‡ ‡ MnO4 ‡ 8 H‡ ! 5 Fe3‡ ‡ Mn2‡ ‡ 4 H2 O),
mentre altre sono molto lente (2 Fe3‡ ‡ Sn2‡ ! 2 Fe2‡ ‡ Sn4‡ ).
Considerando invece l'influenza della concentrazione dei reagenti sulla velocitaÁ della
reazione, questa puoÁ essere facilmente compresa se si tiene conto che una delle condizioni
affinche da due molecole reagenti si formi una nuova particella, eÁ che esse vengano in
reciproco contatto. PiuÁ grande eÁ la concentrazione dei reagenti, maggiore eÁ il numero
delle rispettive molecole e quindi piuÁ elevata eÁ la probabilitaÁ di un loro mutuo contatto.
Ovviamente, un simile ragionamento eÁ rigorosamente valido solo se la reazione avviene
in fase omogenea, vale a dire solo se le sostanze reagenti si trovano distribuite in un'unica
fase (liquida o gassosa). Se la reazione avviene in fase eterogenea, e cioeÁ se le sostanze
reagenti sono distribuite in due o piuÁ fasi, al fattore concentrazione deve essere sostituito
il fattore area della superficie di separazione tra le fasi delle sostanze reagenti. Tanto piuÁ
grande eÁ la superficie di contatto fra dette fasi, tanto maggiore eÁ la velocitaÁ della reazione.
Per esempio, un pezzo di carbone brucia lentamente all'aria, mentre il medesimo pezzo di
carbone, ridotto in polvere finissima, brucia con esplosione perche la superficie di
contatto fra i reagenti (carbone-ossigeno dell'aria) eÁ notevolmente aumentata.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.............................................................
3. Legge della velocitaÁ delle reazioni chimiche
...............................................................................................................................................................................................................................................................
3
Per quel che riguarda l'influenza della temperatura sulla velocitaÁ delle reazioni, basta
considerare la conservazione dei cibi mediante refrigerazione. Come regola generale, peroÁ
del tutto orientativa, l'aumento di 10 8C della temperatura fa raddoppiare, e a volte
addirittura triplicare, la velocitaÁ delle reazioni.
Infine, un'idea dell'influenza dei catalizzatori sulla velocitaÁ delle reazioni puoÁ essere
data da una miscela di idrogeno e di ossigeno gassosi, che a temperatura ambiente rimane
praticamente inalterata anche per anni; aggiungendo peroÁ a questa miscela un pezzetto di
platino spugnoso, la reazione fra i due gas avviene rapidamente con la produzione di
acqua.
LEGGE DELLA VELOCITAÁ DELLE REAZIONI CHIMICHE
Consideriamo la reazione fra le sostanze A e B che formano la sostanza C:
aA ‡ bB ! cC
Ebbene, a temperatura costante, la dipendenza della velocitaÁ di questa reazione dalla
concentrazione dei reagenti eÁ data dall'equazione:
v ˆ k [A]m [B]n
(24:1)
che esprime matematicamente la legge della velocitaÁ della reazione. In questa equazione,
v simboleggia la velocitaÁ della reazione, [A] e [B] le concentrazioni molari dei reagenti, m
e n sono due esponenti che possono essere interi o frazionari, mentre k eÁ una costante che
prende il nome di costante specifica di velocitaÁ della reazione, il cui valore numerico
dipende solo dalla natura dei reagenti e dalla temperatura. Sia la costante k che i due
numeri m e n non possono essere dedotti teoricamente, ma possono essere calcolati solo
sperimentalmente. Infatti, i due esponenti m e n rappresentano le appropriate potenze
cui devono essere elevate le concentrazioni delle sostanze che compaiono nella equazione
della velocitaÁ, affincheÂ, nota la costante k, il calcolo teorico della velocitaÁ della reazione,
effettuato applicando l'equazione (24.1), fornisca un risultato che sia in un buon accordo
con quello determinato sperimentalmente. I due esponenti m e n esprimono l'ordine
della reazione, in quanto m rappresenta l'ordine della reazione rispetto alla sostanza A,
mentre n rappresenta l'ordine della reazione rispetto alla sostanza B; la loro somma
(m ‡ n) esprime l'ordine della reazione globale o semplicemente l'ordine della reazione.
EÁ bene sottolineare subito che i valori numerici di m e n non coincidono necessariamente con quelli dei coefficienti stechiometrici a e b della reazione bilanciata presa come
modello: eÁ infatti possibile che uno di questi esponenti sia uguale a zero. Per esempio, se
m eÁ uguale a zero, la legge della velocitaÁ della reazione sopra considerata eÁ espressa
dall'equazione:
v ˆ k [A]0 [B]n ˆ k [B]n
per cui viene matematicamente espresso il fatto sperimentale che la velocitaÁ della reazione
data eÁ indipendente dalla concentrazione della sostanza A, ma dipende solo da quella
della sostanza B.1
Per determinare sperimentalmente l'ordine di reazione di ciascun reagente in una data
reazione, e per calcolare la costante specifica della velocitaÁ della reazione, si misura, nel
tempo, la variazione della concentrazione del reagente in esame partendo da quantitaÁ
note iniziali del medesimo e mantenendo costanti tutti gli altri fattori che influenzano la
velocitaÁ della reazione.
1
Si tenga presente che una potenza elevata all'esponente zero eÁ uguale a uno.
295
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
........................................................................
4
2 NO…g† ‡ Cl2(g) ! 2 NOCl(g)
eÁ risultato che la legge della sua velocitaÁ eÁ espressa dall'equazione:
v ˆ k [NO]2 [Cl2 ]
eÁ chiaro che per accelerarne (oppure per rallentarne) la velocitaÁ, eÁ preferibile aumentare (oppure diminuire) la concentrazione del reagente NO piuttosto che quella del
reagente Cl2.
La figura 24.1 mette in evidenza l'andamento della velocitaÁ iniziale per una reazione di
ordine zero (v ˆ k), di primo ordine (v ˆ k [A]), e di secondo ordine (v ˆ k [A]2 ), al
variare della concentrazione del reagente A.
ine
v (mol/L·s)
do o
rd
VelocitaÁ iniziale di
una reazione in funzione della concentrazione di reagente.
Per esempio, se la sostanza a reagire eÁ una sola (reazione di decomposizione termica), si
opera a temperatura costante misurando la velocitaÁ di scomparsa del reagente, o la
velocitaÁ di comparsa dei prodotti della reazione; se invece la reazione in esame avviene
per esempio fra due sostanze, si mantiene costante la temperatura e la concentrazione di
uno dei reagenti, e si varia la concentrazione dell'altro (o viceversa).
Noti a una data temperatura la costante specifica di velocitaÁ e l'ordine della reazione di
ciascun reagente, eÁ possibile non solo calcolare teoricamente la velocitaÁ iniziale di
reazione alla temperatura data, qualunque sia la concentrazione iniziale dei reagenti,
ma puoÁ anche essere controllata la velocitaÁ iniziale della reazione, tenendo conto
dell'influenza su di essa della concentrazione di ciascun reagente.
Per esempio, poiche per la reazione
sec
on
Figura 24.1
....................................................................................................................................................................................................................................................
24. Cinetica delle reazioni
ne
rdi
oo
m
pri
ordine
zero
[A] (mol/L)
EQUAZIONE CINETICA DELLE REAZIONI DEL PRIMO ORDINE
La determinazione dell'ordine di una reazione, cosõÁ come illustrato negli esempi precedenti, eÁ stata effettuata calcolando la velocitaÁ iniziale della reazione. Tuttavia, un simile
procedimento fornisce risultati validi solo se la velocitaÁ della reazione eÁ sufficientemente
lenta da poter ammettere che la velocitaÁ iniziale misurata sia proprio quella relativa alla
concentrazione iniziale dei reagenti. Se invece la reazione eÁ veloce, accade che la velocitaÁ
misurata non eÁ quella corrispondente alla concentrazione iniziale dei reagenti, in quanto
una parte pur minima di essi si eÁ consumata.
Per tenere conto di questo fatto, eÁ necessario ricorrere al calcolo differenziale, e cioeÁ
considerare la velocitaÁ della reazione a ogni istante. Data, per esempio, la reazione del
296
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........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
4. Equazione cinetica delle reazioni del primo ordine
primo ordine:
A ! prodotti
con la quale indichiamo genericamente che la sostanza A tende a decomporsi in altre
sostanze, l'equazione della legge di velocitaÁ della reazione di tale sostanza:
v ˆ k [A]
(24:2)
puoÁ essere matematicamente espressa nella forma differenziale:
vˆ
d [A]
dt
(24:3)
nella quale d [A] indica la diminuzione infinitamente piccola della concentrazione della
sostanza A in un tempo infinitamente piccolo dt.
Confrontando la (24.2) con la (24.3), possiamo scrivere:
vˆ
d [A]
ˆ k[ A]
dt
(24:4)
nella quale la simboleggiatura [A] sta a indicare la concentrazione attuale della sostanza
reagente.
La (24.4) scritta nella forma:
d[A]
ˆ k dt
[A]
(24:5)
ci consente di calcolare la variazione globale della concentrazione della sostanza A
dopo un intervallo finito di tempo. Infatti, se indichiamo con [A]0 la concentrazione iniziale della sostanza A, e cioeÁ quella corrispondente al tempo t ˆ 0, eÁ possibile
ricavare la concentrazione della medesima sostanza dopo il tempo t dall'inizio della
reazione, calcolando l'integrale della (24.5) compreso fra i limiti [A]0 e [A] della
concentrazione iniziale e finale della sostanza A, e i relativi tempi 0 (zero) e t di
reazione, vale a dire:
Z
[A]
[A]0
d[ A]
ˆ
[A]
Z
t
0
k dt
Tenendo conto che k eÁ una costante dipendente solo dalla temperatura e dalla natura dei
reagenti, per una data reazione che avviene a temperatura costante possiamo scrivere la
precedente nella forma:
Z [A]
Z t
d[A]
dt
(24:6)
ˆk
[A]0 [A]
0
Poiche dalle regole di integrazione eÁ noto che:
Z x2
dx
x2
ˆ ln
x1
x
x1
la risoluzione della (24.6) fornisce:
ln
[A]
ˆ kt
[A]0
297
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 24.2
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
24. Cinetica delle reazioni
Concentrazione del
reagente A in funzione
del tempo per una reazione del primo ordine.
Nella figura sono tracciate due rette tangenti
alla curva, che rappresentano le velocitaÁ (di
segno cambiato, infatti
v ˆ d[A]=dt) al
tempo t ˆ 0 e al
tempo generico t; la
tangente al tempo
t ˆ 0 rappresenta la
velocitaÁ iniziale della
reazione, ed eÁ massima
perche eÁ massima la
concentrazione
del reagente.
e cioeÁ:
ln
[A]0
ˆ kt
[A]
(24:7)
Infine, poiche ln a ˆ 2,303 log a, la (24.7) assume la forma:
log
[A]0
k
ˆ
t
[A]
2,303
(24:8)
kˆ
2,303
[A]0
log
[A]
t
(24:9)
oppure l'altra equivalente:
La (24.9) eÁ nota come equazione cinetica di una reazione del primo ordine.
L'importanza di questa equazione eÁ legata al fatto che, sostituendo in essa due dati
sperimentali qualsiasi della concentrazione del reagente A compresi in un intervallo di
tempo t espresso in secondi per convenzione, se la reazione eÁ del primo ordine, si deve
ottenere sempre il medesimo valore numerico della costante specifica di velocitaÁ della
reazione (k).
Inoltre, dato che il rapporto sotto logaritmo della (24.9) eÁ adimensionale, ne consegue
l'importante conclusione che il valore numerico di tale rapporto eÁ indipendente dalle
unitaÁ di misura scelte per esprimere la quantitaÁ della sostanza A, la quale puoÁ essere
espressa indifferentemente in moli, grammi, numero di atomi, numero di molecole,
pressione parziale, gradi di rotazione della luce polarizzata, e cosõÁ via.
Si puoÁ seguire graficamente l'andamento di una reazione del primo ordine: considerando infatti la (24.7):
[A]0
ˆ kt
ln
[A]
otteniamo:
[A]
ˆ e kt
[A]0
da cui:
[A] ˆ [A]0 e
kt
dove e eÁ la base dei logaritmi naturali. Riportando in un grafico la concentrazione del reagente [A] in funzione del tempo t, otteniamo una curva, da cui risulta che la concentrazione di A diminuisce esponenzialmente nel tempo (fig. 24.2); essendo inoltre la curva
asintotica rispetto all'ascissa, tale concentrazione si annullerebbe per t ˆ 1; in pratica,
naturalmente, il tempo di completa trasformazione di A avraÁ un valore finito.
Concentrazione
del reagente A
[A]0
0
t
298
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Tempo
5. Periodo di emivita o tempo di dimezzamento
..................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
5
PERIODO DI EMIVITA O TEMPO DI DIMEZZAMENTO
Un altro metodo per verificare se una data reazione eÁ del primo ordine, eÁ basato sul
cosiddetto periodo di emivita o tempo di dimezzamento di una sostanza. Infatti, abbiamo visto che per una reazione del primo ordine del tipo:
A ! prodotti
la legge della relativa velocitaÁ eÁ espressa dall'equazione:
v ˆ k [A]
con la quale si indica, in pratica, che a temperatura costante la velocitaÁ della reazione
in qualunque tempo t eÁ proporzionale solo alla concentrazione della sostanza al
medesimo tempo t. Pertanto, se dopo un dato tempo t1 dall'inizio di una reazione del
primo ordine, si eÁ consumata la quantitaÁ di sostanza equivalente per esempio a 1/3 di
quella originale, la velocitaÁ della reazione al tempo t1 eÁ uguale a 2/3 di quella iniziale,
e cosõÁ via.
Il tempo necessario affinche risulti consumata la metaÁ di una data quantitaÁ di campione messo a reagire viene indicato con il nome di periodo di emivita o tempo ( periodo) di
dimezzamento del campione in esame, e viene simboleggiato con t1=2 .
EÁ chiaro quindi che in una reazione del primo ordine, per ogni successivo periodo di
dimezzamento, la quantitaÁ di sostanza in reazione si riduce della metaÁ rispetto alla quantitaÁ corrispondente al precedente periodo. Pertanto, se indichiamo con [A]0 la concentrazione della sostanza all'inizio di un periodo qualsiasi di dimezzamento, la sua concentrazione [A] dopo il tempo t1=2 deve essere [A]0 =2. Quindi l'equazione cinetica (24.9)
relativa a una reazione del primo ordine, e cioeÁ:
kˆ
2,303
[A]0
log
[A]
t
applicata dopo il tempo di reazione t ˆ t1=2 , diventa:
kˆ
2,303
[A]0
log
[A]0 =2
t1=2
e cioeÁ:
kˆ
2,303
log 2
t1=2
da cui:
kˆ
0,693
t1=2
(24:10)
o anche:
t1=2 ˆ
0,693
k
(24:11)
Dalla (24.11) risulta evidente che il tempo di dimezzamento di una reazione del primo
ordine eÁ indipendente dalla quantitaÁ iniziale di sostanza; mentre dalla (24.10) risulta che
l'unitaÁ di misura della costante specifica di velocitaÁ di una reazione del primo ordine eÁ
l'inverso di quella con cui viene espresso il tempo di reazione (in genere l'unitaÁ di misura
della costante k eÁ il «secondo alla meno uno», s 1 ).
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 24.3
........................................................................................................................................................................................................
24. Cinetica delle reazioni
Tempo di dimezzamento per una reazione del primo ordine.
.................................................................................................................
6
L'importanza dell'equazione (24.9) eÁ legata soprattutto al fatto che, nota la costante
specifica di velocitaÁ di reazione di una sostanza che reagisce secondo una reazione del
primo ordine, eÁ possibile calcolare teoricamente non solo il tempo necessario affinche una
data quantitaÁ di detta sostanza venga dimezzata, ma anche la quantitaÁ di essa che ha reagito dopo un periodo di tempo scelto a piacere.
Concentrazione del reagente A
[A]0
[A]0
2
[A]0
4
[A]0
8
t1/2
t1/2
t1/2
t1/2
Tempo
Nella figura 24.3 viene indicato il tempo di dimezzamento per una reazione del primo
ordine; si nota che esso eÁ costante, qualunque sia la concentrazione iniziale da cui viene
calcolato, infatti:
[A]0
. tempo affinche la concentrazione [A]0 diventi
ˆ t1=2
2
[A]0
[A]0
diventi
ˆ t1=2
. tempo affinche la concentrazione
2
4
[A]0
[A]0
diventi
ˆ t1=2 ... e cosõÁ via.
. tempo affinche la concentrazione
4
8
DATAZIONE DEI REPERTI ARCHEOLOGICI
Una importante applicazione della cinetica chimica eÁ quella che consente di stabilire
l'etaÁ approssimata dei resti fossili di organismi animali, di manufatti antichi, rocce,
mediante il cosiddetto metodo di datazione con isotopi radioattivi.
Infatti, la decomposizione dei nuclei degli atomi radioattivi eÁ una tipica reazione del
primo ordine, in quanto la velocitaÁ con la quale ogni elemento radioattivo si disintegra eÁ
indipendente dalla presenza di atomi di altri elementi e dalla quantitaÁ iniziale di sostanza
radioattiva. Pertanto, indicando con N0 il numero iniziale di atomi radioattivi di un
elemento e con N il numero di atomi radioattivi dopo il tempo t, l'equazione cinetica
relativa alla disintegrazione radioattiva degli atomi dell'elemento considerato viene
espressa con una forma analoga alla (24.9), e precisamente:
lˆ
2,303
N0
log
N
t
(24:12)
nella quale l (lambda) eÁ la costante di velocitaÁ di disintegrazione radioattiva degli atomi
dell'elemento considerato. Anche il tempo di dimezzamento degli atomi di un elemento
300
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
....................................................................................................................................................................................
7. Equazione cinetica delle reazioni del secondo ordine
.........................................................................................................................................
7
radioattivo viene espresso da una equazione analoga alla (24.11), e cioeÁ:
t1=2 ˆ
0,693
l
(24:13)
Ciascun elemento radioattivo ha un suo caratteristico periodo di dimezzamento (o emivita), e
questo fatto consente di distinguere gli atomi di un elemento radioattivo da quelli di un altro
elemento radioattivo. Per esempio, il periodo di emivita dell'isotopo del carbonio 14C eÁ
uguale a 5730 anni, e questo fatto trova fra l'altro importante applicazione per datare l'etaÁ
dei reperti archeologici.
Infatti, a causa del bombardamento delle radiazioni cosmiche sull'atmosfera terrestre, una
parte dell'azoto 14N in essa contenuto viene trasformato nell'isotopo del carbonio 14C. Questo
isotopo, a differenza degli altri due isotopi dello stesso elemento, 12C e 13C, esistenti in natura,
eÁ radioattivo ed emettendo una particella b si trasforma di nuovo in azoto 14N in un periodo di
dimezzamento che eÁ stato calcolato essere di circa 5730 anni. Il 14C presente nell'atmosfera
terrestre forma con l'ossigeno l'anidride carbonica, che in parte viene fissata stabilmente sulla
Terra allo stato di carbonato, mentre in parte entra nel ciclo vitale degli organismi viventi.
Pertanto, dato che il tempo di dimezzamento del 14C eÁ di circa 5730 anni, eÁ stato
calcolato con buona approssimazione che la quantitaÁ di anidride carbonica contenente
14
C rimane praticamente costante nel tempo, dato che la quantitaÁ di essa che non ritorna
in ciclo perche fissata allo stato di carbonio inattivo (calcare, carbone, petrolio, ecc.) viene
reintegrata dalle radiazioni cosmiche. Per questa ragione, negli organismi viventi (animali
e vegetali) la quantitaÁ di 14C eÁ costante, ed eÁ stato calcolato che tale quantitaÁ corrisponde a
un'attivitaÁ radioattiva pari a 13 disintegrazioni al minuto per ogni grammo di carbonio
naturale (miscela dei tre isotopi 12C, 13C, 14C).
Quando un organismo vivente muore, l'assorbimento di 14C si interrompe, e pertanto
la quantitaÁ di questo isotopo in esso contenuto si dimezza in un tempo pari a 5730 anni.
Quindi, misurando l'attivitaÁ radioattiva di un campione di materiale contenente carbonio,
la sua etaÁ puoÁ essere stimata con buona approssimazione.
EQUAZIONE CINETICA DELLE REAZIONI DEL SECONDO ORDINE
Prendiamo in considerazione una reazione del secondo ordine del tipo:
a A ‡ b B ! prodotti
dove a 6ˆ b e [A]0 6ˆ [B]0 :
L'equazione cinetica in forma integrata eÁ la seguente:
2,303
[B]0 [A]
log
kˆ
t (b [A]0 a [B]0 )
[A]0 [B]
(24:14)
Se a ˆ b ˆ 1 e [A]0 6ˆ [B]0 l'equazione cinetica in forma differenziale eÁ:
vˆ
che integrata fornisce il risultato:
kˆ
d [A]
ˆ k [A][B]
dt
2,303
[B]0 [A]
log
t([A]0 [B]0 )
[A]0 [B]
(24:15)
(24:16)
Infine, se a ˆ b ˆ 1 e [A]0 ˆ [B]0 per la (24.15) la legge della velocitaÁ eÁ la seguente:
vˆ
d[A]
ˆ k [A]2
dt
301
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
(24:17)
..........................................................................................................................
24. Cinetica delle reazioni
...............................................................................................................................................................................................
8
che integrata daÁ luogo a:
1 1
kˆ
t [A]
1
[A]0
(24:18)
Le equazioni (24.17) e (24.18) possono essere applicate anche alle reazioni del secondo
ordine del tipo:
2 A ! prodotti
Un esempio eÁ la reazione di decomposizione dell'acido iodidrico:
2 HI ! H2 ‡ I2
che segue la legge della velocitaÁ
d[HI]
ˆ k [HI]2
dt
Se ora esprimiamo il tempo in secondi e la concentrazione delle sostanze in moli/litro si
verifica facilmente dalle (24.14), (24.16) e (24.18) che l'unitaÁ di misura della costante
specifica di velocitaÁ delle reazioni del secondo ordine eÁ il litro/mole secondo (L/mol s).
EQUAZIONE CINETICA DELLE REAZIONI DEL TERZO ORDINE
Le reazioni del terzo ordine sono molto rare e quelle studiate in fase gassosa sono tutte del
tipo:
2 A ‡ B ! prodotti
La relativa legge della velocitaÁ eÁ espressa dall'equazione differenziale:
vˆ
d [A]
ˆ k [A]2 [B]
dt
Esempi tipici di reazione del terzo ordine in fase gassosa sono:
2 NO ‡ O2 ! 2 NO2
2 NO ‡ Cl2 ! 2 NOCl
Il risultato si semplifica notevolmente se la concentrazione iniziale della sostanza A risulta
essere uguale a quella della sostanza B, il che si puoÁ sempre volutamente realizzare,
oppure se la reazione eÁ del tipo:
3 A ! prodotti
In questo caso avremo:
d[A]
ˆ k [A]3
vˆ
dt
che integrata diventa:
!
1
1
1
(24:19)
kˆ
2 t [A]2 [A]20
Esprimendo il tempo in secondi e le concentrazioni in moli/litro, si puoÁ facilmente
verificare dalla (24.19) che l'unitaÁ di misura della costante specifica di velocitaÁ di una
reazione del terzo ordine eÁ il litro2 /mole2 secondo (L2 =mol2 s).
302
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 24.4
Andamento di una
reazione del primo
ordine, del secondo
ordine e del terzo
ordine.
........................................................................................................................................
9. Reazioni di ordine zero
Figura 24.5
Reazione di ordine
zero.
.........................................................................................................................................................................................
9
Nella figura 24.4 eÁ rappresentato l'andamento di tre reazioni (una del primo ordine, una
del secondo, una del terzo); esse sono state scelte in modo che, partendo dalla stessa
concentrazione iniziale [A]0 per tutte, esse abbiano lo stesso tempo di dimezzamento: si
puoÁ notare che, mentre per la reazione del primo ordine, t1=2 rimane costante, per quella
del secondo ordine il tempo di dimezzamento cresce al diminuire della concentrazione di
A, e lo stesso avviene, in modo ancora piuÁ pronunciato, per quella del terzo ordine.
Concentrazione del reagente A
[A]0
[A]0
2
terzo o
rdine
seco
n do o r
dine
prim
o or
dine
t1/2
Tempo
REAZIONI DI ORDINE ZERO
Si definiscono di ordine zero quelle reazioni la cui velocitaÁ eÁ indipendente dalla concentrazione del reagente, e quindi eÁ costante nel tempo, cioeÁ:
d[A]
ˆk
(24:20)
dt
Il grafico relativo alla velocitaÁ di reazione in funzione della concentrazione eÁ dato
semplicemente da una retta orizzontale (si veda la figura 24.1). Separando le variabili
nella (24.20) e integrando, si ottiene:
dA ˆ k dt
Z [A]
Z t
d[A] ˆ k
dt
vˆ
[A]0
[A]
0
[A]0 ˆ
[A] ˆ [A]0
kt
kt
(24:21)
Portando in grafico l'equazione cinetica ottenuta (24.21), si ottiene una retta come quella
della figura 24.5.
[A] (mol/L)
[A]0
t (s)
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
.........................................................................
24. Cinetica delle reazioni
...................................................................................................................................................................................................................................................
10
Sono di ordine zero, per esempio, le reazioni fotochimiche e le reazioni nel campo della
catalisi eterogenea. Si nota comunque che le reazioni di ordine zero, in genere, tendono a
diventare del primo ordine per bassi valori di concentrazione del reattivo.
Consideriamo, per esempio, una sostanza gassosa A che reagisce alla superficie di un
catalizzatore solido (catalisi eterogenea): se la sua pressione eÁ abbastanza alta, tutti i
«centri attivi» del catalizzatore sono occupati dal reagente, e un ulteriore incremento di
pressione (e quindi di concentrazione) di A non influenza la velocitaÁ della reazione, che
rimane costante, per cui la reazione eÁ di ordine zero. Se peroÁ la pressione eÁ sufficientemente bassa, solo una frazione dei centri attivi eÁ coperta dal reagente adsorbito, e la
velocitaÁ diventa proporzionale alla pressione di A: in queste condizioni, quindi, la
reazione eÁ del primo ordine.2
MOLECOLARITAÁ E MECCANISMO DELLE REAZIONI
Abbiamo in precedenza sottolineato che la conoscenza della legge che governa la velocitaÁ di
una reazione, e quindi la conoscenza dell'ordine della reazione, eÁ il punto di partenza per
indagare sul suo meccanismo. Abbiamo inoltre precisato che per meccanismo di una data
reazione si deve intendere una successione di processi elementari in ciascuno dei quali si forma un composto intermedio, fino all'ottenimento delle sostanze finali. Pertanto, l'equazione con la quale viene rappresentata una reazione chimica non rispecchia affatto il meccanismo della reazione, in quanto essa in realtaÁ procede quasi sempre attraverso stadi intermedi, con formazione di composti instabili che non sono necessariamente rivelabili sperimentalmente, ma che il piuÁ delle volte vengono suggeriti dalla legge di velocitaÁ della reazione medesima.
In ogni processo elementare, possono essere coinvolte una o piuÁ molecole, e questo
fatto viene indicato con il nome di molecolaritaÁ del processo elementare. Se in un
processo elementare, vale a dire in uno stadio intermedio della reazione, viene coinvolta
una sola molecola, il processo elementare viene detto monomolecolare:
A ! S (stadio intermedio)
Un processo elementare eÁ detto bimolecolare se vengono coinvolte contemporaneamente due
molecole uguali o diverse:
A ‡ A ! S (stadio intermedio)
A ‡ B ! S (stadio intermedio)
Un processo elementare eÁ detto trimolecolare se vengono coinvolte contemporaneamente tre
molecole uguali o diverse:
A ‡ A ‡ A ! S (stadio intermedio)
A ‡ A ‡ B ! S (stadio intermedio)
A ‡ B ‡ C ! S (stadio intermedio)
I processi elementari con una molecolaritaÁ maggiore di tre sono molto poco probabili.
EÁ bene precisare che la molecolaritaÁ di un processo elementare non coincide in genere
con l'ordine della reazione globale. La molecolaritaÁ eÁ un concetto teorico mediante il
quale viene suggerito uno stadio del meccanismo della reazione, mentre l'ordine della
reazione eÁ un dato sperimentale ottenuto dalla legge della velocitaÁ.
2
Nel campo della catalisi eterogenea (in cui cioeÁ il catalizzatore eÁ in una fase diversa da quella dei reagenti), eÁ
condizione essenziale che almeno un reagente venga «adsorbito» alla superficie del catalizzatore (in genere un solido, per
esempio un metallo, in forma finemente suddivisa), legandosi a questo con un legame di tipo fisico o chimico, con
formazione di composti intermedi piuÁ o meno labili: tale combinazione facilita quindi la scissione dei legami originari e la
formazione dei prodotti finali.
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11. Cinetica dei sistemi complessi di reazioni
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11
Per esempio, per la reazione in fase gassosa:
2 NO ‡ O2 ! 2 NO2
la legge della velocitaÁ dedotta sperimentalmente eÁ la seguente:
v ˆ k [NO]2 [O2 ]
per cui risulta che essa eÁ del terzo ordine (m ‡ n ˆ 2 ‡ 1 ˆ 3). Pertanto, dalla legge della
velocitaÁ si potrebbe dedurre che la reazione avviene con un singolo processo elementare
trimolecolare nel quale vengono coinvolte contemporaneamente due molecole di NO e
una molecola di O2. Poiche i processi elementari trimolecolari sono poco probabili, per la
reazione considerata viene invece suggerito un meccanismo che procede attraverso i due
processi elementari:
NO ‡ O2 ! NO3
(processo elementare bimolecolare)
NO3 ‡ NO ! 2 NO2
(processo elementare bimolecolare)
2 NO ‡ O2 ! 2 NO2
(processo globale)
A ciascuno dei processi elementari di una data reazione compete una caratteristica
velocitaÁ di reazione, che eÁ espressa da una legge in cui le potenze delle concentrazioni dei
reagenti coincidono questa volta con il relativo coefficiente stechiometrico. Ora, dato che
una reazione puoÁ procedere con una successione di processi elementari, eÁ chiaro che la
velocitaÁ della reazione globale eÁ condizionata dalla velocitaÁ con la quale si verifica la
reazione del processo elementare piuÁ lento. Per esempio, se in una catena di montaggio
per automobili che puoÁ fornire 500 vetture complete al giorno, tutti i reparti di
montaggio procedono con la necessaria velocitaÁ a eccezione di quello del montaggio
dei contakilometri che procede con il ritmo di 450 unitaÁ al giorno, eÁ chiaro che la catena
di montaggio non puoÁ fornire piuÁ di 450 vetture complete al giorno.
CINETICA DEI SISTEMI COMPLESSI DI REAZIONI
Finora si sono considerate reazioni particolarmente semplici, in quanto si ammetteva che
esse fossero le uniche possibili e avvenissero in modo completo. PuoÁ accadere, peroÁ, che la
reazione non giunga a compimento, ma che si realizzi uno stato di equilibrio tra prodotti e
reagenti, oppure che le reazioni in gioco siano piuÁ di una (contemporanee o successive tra
loro), per cui la cinetica del processo risulta piuÁ complessa di quanto finora considerato.
Distingueremo a questo proposito i seguenti tipi di reazioni.
a) Reazioni reversibili (di equilibrio). Come sappiamo, molte reazioni avvengono sia in
un senso che in quello opposto: inizialmente, la velocitaÁ della reazione diretta prevale
rispetto a quella inversa, finche all'equilibrio le due velocitaÁ si equivalgono (equilibrio
dinamico). Consideriamo la seguente reazione reversibile (di primo ordine sia in un
verso che nell'altro):
k1
A ! B
k
1
La velocitaÁ di trasformazione di A eÁ data da:
vA ˆ k1 [A]
e analogamente la velocitaÁ di reazione di B:
vB ˆ k
1
[B]
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24. Cinetica delle reazioni
per cui la velocitaÁ effettiva con cui A si trasforma in B saraÁ data dalla differenza tra le
due opposte velocitaÁ:
d[A]
vˆ
(24:22)
ˆ k1 [A] k 1 [B]
dt
Nota la concentrazione iniziale [A]0 , si puoÁ esprimere la concentrazione di B in funzione
di quella di A, in quanto:
[A]
[B] ˆ [A]0
per cui, sostituendo nella (24.22):
vˆ
d[A]
ˆ k1 [A]
dt
k 1 ([A]0
[A]†
Risolvendo questa equazione differenziale, si ottiene:
[A] ˆ [A]0
k
1
‡ k1 e (k1 ‡k
k1 ‡ k 1
1 )t
Ricordando che la costante di equilibrio eÁ data dal rapporto tra le due costanti di
velocitaÁ diretta e inversa (almeno per le reazioni elementari, per le quali cioeÁ il meccanismo di reazione coincide con l'equazione stechiometrica):
kˆ
k1
k 1
si deduce che eÁ possibile correlare dati cinetici con dati di equilibrio, per esempio si
puoÁ calcolare il valore della k 1 , nota la k1 e la costante di equilibrio.
b) Reazioni parallele (competitive). Si verificano quando la stessa sostanza puoÁ dare contemporaneamente piuÁ reazioni:
k1
B
A
k2
C
In questo caso, la velocitaÁ di trasformazione globale di A eÁ data dalla somma delle
singole velocitaÁ:
d [A]
vtot ˆ
ˆ k1 [A] ‡ k2 [A] ˆ (k1 ‡ k2 )[A]
dt
Esempi di questo tipo di reazione sono:
. la decomposizione termica del clorato di potassio:
4 KClO3 ! 3 KClO4 ‡ KCl
KClO3 ! KCl ‡
3
O2
2
. la nitrazione dei derivati del benzene (con formazione dei nitroderivati orto-, meta-,
para-);
. disidratazione degli alcoli ad alcheni oppure ad eteri, per esempio:
2CH22
2OH ! CH2 ECH2 ‡ H2 O
CH32
2CH22
2OH ! CH3 CH22
2O2
2CH2 CH3 ‡ H2 O
2 CH32
In reazioni di questo tipo, se si utilizza un adatto catalizzatore, si potraÁ favorire una reazione
piuttosto che l'altra, ottenendo in prevalenza il prodotto desiderato a spese degli altri.
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Figura 24.6
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
11. Cinetica dei sistemi complessi di reazioni
c) Reazioni consecutive. Si tratta di due o piuÁ reazioni in cui il prodotto della prima
reazione diventa il reagente nella successiva:
k1
k2
A !B !C
Si eÁ giaÁ notato che, in una serie di reazioni consecutive, se una di esse eÁ molto piuÁ lenta
delle altre, eÁ questa che governa la cinetica dell'intero processo; nel caso che le velocitaÁ
siano invece confrontabili tra loro (cioeÁ che le costanti specifiche di velocitaÁ siano dello
stesso ordine di grandezza), la cinetica complessiva del processo eÁ influenzata da ogni
singolo stadio. Tenendo conto che in ogni istante deve essere:
[A]0 ˆ [A] ‡ [B] ‡ [C]
si ottengono le curve rappresentate in figura 24.6, che indicano come variano A, B, C
durante la reazione. Si vede che A diminuisce secondo la legge esponenziale delle
reazioni del primo ordine, mentre C aumenta e tende al valore di [A]0 (quando la
reazione eÁ completa). Invece il composto intermedio B dapprima aumenta, ma quando
la sua concentrazione cresce, cresce anche la sua velocitaÁ di trasformazione, per cui,
dopo aver raggiunto un valore massimo, la sua concentrazione si abbassa e tende ad
annullarsi.
Concentrazioni
Variazione delle concentrazioni in reazioni consecutive del
primo ordine.
[A]
[C]
[B]
Tempo
Una notevole semplificazione nello studio di queste reazioni, si ha facendo ricorso
all'ipotesi dello stato stazionario, per cui si ammette che la concentrazione di B, una volta
che la reazione eÁ avviata, rimanga costante nel tempo, il che equivale a dire che la velocitaÁ
di formazione di B eÁ uguale alla velocitaÁ della sua trasformazione nel composto C:3
d[B]
ˆ k1 [A]
dt
k2 [B] ˆ 0
Vedremo un tipo di reazioni consecutive in cui si fa ricorso a tale ipotesi, a proposito
delle reazioni enzimatiche.
3
Poiche la velocitaÁ di formazione di B eÁ proporzionale alla concentrazione del reagente A, possiamo scrivere:
vformaz: ˆ
d[BŠ
ˆ k1 ‰AŠ
dt
e poiche la velocitaÁ di trasformazione di B in C eÁ proporzionale alla concentrazione di B:
vtrasformaz: ˆ
d[BŠ
ˆ k2 ‰BŠ
dt
Quindi la velocitaÁ di effettiva formazione di B eÁ data dalla differenza tra la velocitaÁ con cui B si forma e la velocitaÁ con cui
si trasforma:
d[BŠ
ˆ k1 ‰AŠ k2 ‰BŠ
vˆ
dt
Nell'ipotesi dello stato stazionario, tale velocitaÁ deve risultare nulla.
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24. Cinetica delle reazioni
d) Reazioni a catena: si tratta di reazioni successive, costituite da un numero illimitato di
stadi, in cui un reattivo che si consuma in uno stadio si riforma nel successivo (propagatore di catena). Questo in genere eÁ un radicale (per esempio H , Cl , radicale
alchilico R ) che si forma nello stadio di inizio (a opera della luce, del calore, o di una
sostanza detta attivatore), e che induce la propagazione della catena, consumandosi in
una reazione e riformandosi nella successiva, e determinando cosõÁ uno stato stazionario
del processo (catena lineare), finche un casuale incontro tra due radicali provoca la
terminazione della catena stessa.
Un esempio eÁ dato dalla reazione tra H2 e Cl2, che ha un decorso a catena in presenza
di radiazione ultravioletta; infatti un quanto di radiazione, colpendo una molecola di
cloro, la dissocia in atomi che danno origine alla reazione a catena:
hn
stadio di attivazione: Cl2 ! 2 Cl
propagazione:
Cl ‡ H2 ! HCl ‡ H
H ‡ Cl2 ! HCl ‡ Cl
terminazione:
H ‡ Cl ! HCl
H ‡ H ! H2
Cl ‡ Cl ! Cl2
In realtaÁ, le reazioni di terminazione sono poco probabili, per esempio la reazione:
H ‡ H ! H2
eÁ cosõÁ fortemente esotermica che la molecola si ridissocia immediatamente. Se peroÁ tale
reazione avviene sulle pareti del recipiente, che sono in grado di assorbire il calore di
reazione, allora la terminazione diventa possibile. L'effetto delle pareti ha quindi un
ruolo notevole nello svolgimento delle reazioni a catena.
In certi casi, un radicale ne genera a sua volta piuÁ di uno, con effetto ramificante
sull'andamento delle catene, che si moltiplicano molto velocemente, per cui la reazione
assume carattere esplosivo.4 EÁ quanto avviene nella reazione tra idrogeno e ossigeno:
2 H2 ‡ O2 ! 2 H2 O
A opera del calore (o di una scarica elettrica) si innesca la reazione con formazione di
radicali OH :
inizio:
H2 ‡ O2 ! 2 OH
propagazione:
OH ‡ H2 ! H2 O ‡ H
ramificazione:
H ‡ O2 ! O ‡ OH
O ‡ H2 ! OH ‡ H
Si nota come un radicale H produca tre radicali, che a loro volta possono dare origine
ad altre catene, e cosõÁ via.
4
Per autoaccelerazione della reazione causata dal calore di reazione, che innalza la temperatura del sistema.
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QUESITI
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QUESITI
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20 esercizi interattivi
1. Definisci la velocitaÁ di reazione e il meccanismo di
reazione.
12. Illustra il significato di tempo di dimezzamento o
periodo di emivita di una sostanza.
2. Indica da quali fattori dipende la velocitaÁ delle reazioni.
13. Indica su quali fondamenti eÁ basata la datazione
dei reperti archeologici mediante la radioattivitaÁ.
3. L'esplosione accidentale nelle miniere di carbone
non eÁ provocata da infiltrazioni di gas combustibili, ma dal carbone medesimo. Spiega percheÂ.
14. Spiega la differenza fra molecolaritaÁ e ordine di reazione.
4. Spiega il significato degli esponenti (m e n) cui
vengono elevate le concentrazioni delle sostanze
reagenti nell'equazione che esprime la legge di velocitaÁ della reazione.
5. Spiega perche gli esponenti (m e n) nella legge
della velocitaÁ di reazione, possono non coincidere
con i coefficienti stechiometrici delle sostanze nella
reazione bilanciata.
6. Da quali fattori dipende la costante specifica di
velocitaÁ della reazione?
7. Gli esponenti m e n, e cosõÁ pure la costante specifica di velocitaÁ, non possono essere dedotti teoricamente, ma solo sperimentalmente. PercheÂ?
8. Spiega la differenza fra reazioni del primo, del
secondo e del terzo ordine, e indica per quali di
esse il tempo di reazione dipende, e in che misura,
dalla concentrazione di sostanza reagente.
9. Essendo noto che la seguente reazione:
A ‡ B ! prodotti
eÁ del secondo ordine, scrivi tre differenti leggi di
velocitaÁ che possono essere ad essa applicate.
10. EÁ stato trovato sperimentalmente che la velocitaÁ
della seguente reazione:
A2 ‡ B ‡ C ! prodotti
eÁ direttamente proporzionale sia alla concentrazione di A2 che alla concentrazione di C, mentre eÁ indipendente dalla concentrazione di B. Scrivi la
legge di velocitaÁ per questa reazione.
11. La seguente reazione:
2 A ‡ B ! prodotti
eÁ del primo ordine rispetto ad A e del primo ordine rispetto a B. Scrivi la legge di velocitaÁ della
reazione e indica l'ordine globale di reazione.
15. Quale importanza riveste la conoscenza dell'ordine di una reazione?
16. L'ordine globale di una reazione eÁ determinato
dalla molecolaritaÁ di uno dei processi elementari
secondo i quali essa procede. Qual eÁ questo processo elementare?
17. Quale processo elementare condiziona la velocitaÁ
di una reazione?
18. Il meccanismo di una reazione rispecchia una serie
di fatti accertati sperimentalmente, oppure si tratta
di una serie di ipotesi?
19. Se la costante specifica di velocitaÁ di una reazione
eÁ uguale a 0,05 s 1 , qual eÁ il suo valore espresso in
min 1 ?
20. Perche le reazioni trimolecolari sono in genere
molto lente?
21. Come eÁ legata la costante di equilibrio, in una reazione elementare reversibile, con le costanti specifiche di velocitaÁ della reazione diretta e della reazione inversa?
22. Se un reagente si puoÁ trasformare contemporaneamente secondo due diverse reazioni, come si
puoÁ favorire la trasformazione del reagente secondo una sola delle due reazioni?
23. Che cosa si intende per ipotesi dello stato stazionario?
24. Qual eÁ la differenza tra una reazione a catena lineare e una reazione a catena ramificata?
25. Quali sono gli stadi attraverso cui si svolge una
reazione a catena?
26. Come si puoÁ attivare lo stadio di inizio di una
reazione a catena?
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25
Figura 25.1
..................................................................................................................................................................................................................................
1
Teoria della cinetica
delle reazioni
LEGGE DELLA DISTRIBUZIONE DELLE VELOCITAÁ MOLECOLARI
In precedenza abbiamo avuto occasione di sottolineare che, a temperatura costante, non
tutte le molecole di una data massa di gas posseggono la medesima velocitaÁ. Questo
percheÂ, in conseguenza del loro movimento caotico, le molecole urtano casualmente fra
di loro e anche contro le pareti del recipiente in cui esse sono contenute quindi, ad ogni
istante, alcune molecole del gas posseggono una elevata velocitaÁ, mentre altre sono
praticamente ferme. Dato che l'energia cinetica di ciascuna molecola eÁ determinata dalla
sua velocitaÁ, questo significa che in una data massa di gas, ad ogni istante esiste una
distribuzione dell'energia delle molecole che, a una data temperatura, non eÁ uguale per
tutte, ma eÁ compresa fra un valore minimo che eÁ praticamente uguale a zero, e un valore
massimo che praticamente eÁ infinito.
Quanto abbiamo affermato viene espresso matematicamente dalla legge di MaxwellBoltzmann,1 il cui andamento grafico eÁ rappresentato dalle note curve di distribuzione energetica di figura 25.1, e tali conclusioni teoriche si trovano in perfetto
accordo con i dati sperimentali ottenuti nella determinazione delle velocitaÁ (e quindi
delle energie cinetiche) delle molecole gassose.
N/ E
Curve di distribuzione
dell'energia cinetica
delle molecole di una
data massa di gas a
due temperature T1 e
T2 (T2 > T1 ); d N eÁ il
numero di molecole
con energia compresa fra E ed E ‡ d E.
T1
T2
E (energia cinetica)
0
1
James Clerk Maxwell (1831-1879), fisico e matematico scozzese; Ludwig Boltzmann (1844-1906), fisico austriaco.
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...........................................................................
2. Teoria degli urti molecolari
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2
Visto che la superficie compresa dentro ciascuna curva eÁ equivalente al numero totale di
molecole, le due superfici racchiuse dalle due curve della figura 25.1 sono uguali, in
quanto sono relative alla medesima massa di gas alle due temperature T1 e T2 .
Dalla figura 25.1 si puoÁ dedurre che, indipendentemente dalla temperatura, sono
pochissime le molecole con energia cinetica molto piccola oppure molto elevata. Inoltre,
nel campione alla temperatura piuÁ bassa T1 , la distribuzione dell'energia cinetica delle
molecole eÁ concentrata in un intervallo non molto ampio di valori per cui quasi tutte le
molecole hanno energia cinetica piccola e di poco diversa fra loro; invece, nel medesimo
campione, alla temperatura piuÁ elevata T2 , l'energia cinetica delle molecole eÁ distribuita
in un intervallo piuÁ ampio di valori per cui aumentando la temperatura, aumenta il
numero di molecole con energia piuÁ elevata.
TEORIA DEGLI URTI MOLECOLARI
In base alla teoria classica delle collisioni molecolari, affinche una reazione possa avvenire, eÁ necessario che le molecole dei reagenti si urtino, e pertanto la velocitaÁ della
reazione eÁ proporzionale al numero di molecole che si urtano nell'unitaÁ di tempo. Questo
significa che se in un recipiente contenente i reagenti A e B avviene la reazione:
A ‡ B ! prodotti
tutte le volte che una molecola di A urta contro una molecola di B, la velocitaÁ della
reazione, a temperatura costante, deve essere proporzionale al prodotto delle concentrazioni dei reagenti, e cioeÁ:
v ˆ k [A] [B]
(25:1)
Infatti, se raddoppiamo la concentrazione di A, cioeÁ viene raddoppiato nel recipiente il
numero di molecole di questa sostanza, la probabilitaÁ che le molecole di A urtino contro
le molecole di B eÁ raddoppiata e di conseguenza raddoppia anche la velocitaÁ della reazione. Se invece di raddoppiare la concentrazione di A viene raddoppiata la concentrazione di B, anche in questa condizione la velocitaÁ di reazione raddoppia. Se raddoppiamo
contemporaneamente il numero di molecole di A e di B nel recipiente di reazione, ne
consegue ovviamente che la velocitaÁ della reazione risulta quadruplicata, e cosõÁ via. Ebbene, un simile andamento della velocitaÁ della reazione al variare della concentrazione dei
reagenti eÁ esattamente prevedibile mediante l'equazione (25.1) la quale esprime la ben
nota legge della velocitaÁ di reazione.
La teoria degli urti molecolari cosõÁ come l'abbiamo esposta, necessita tuttavia di alcune importanti precisazioni, in quanto non tutti gli urti fra le molecole sono efficaci, vale
a dire che non eÁ possibile che ogni collisione fra le molecole dei reagenti faccia procedere
la reazione. Infatti, dalla teoria cinetica molecolare eÁ stato calcolato che, nelle condizioni
ordinarie di temperatura e pressione, il numero di urti al secondo fra le molecole di un
gas, la cui concentrazione eÁ pari a 1 mol/L, eÁ estremamente grande e cioeÁ dell'ordine di
grandezza di 1030 collisioni al secondo, qualunque sia la natura del gas. Questo significa
che non solo la velocitaÁ delle reazioni in fase gassosa dovrebbe essere enorme, ma
dovrebbe essere per tutte dello stesso ordine di grandezza. Questo fatto eÁ peroÁ in netto
contrasto con i dati sperimentali, in quanto eÁ risultato che la velocitaÁ delle reazioni, anche
se fatte avvenire nelle medesime condizioni sperimentali, eÁ a volte nettamente diversa. Per
esempio, a 300 8C, la velocitaÁ della reazione del secondo ordine:
2 NO2(g) ! 2 NO(g) ‡ O2(g)
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25. Teoria della cinetica delle reazioni
.........................................................................................................................
3
eÁ uguale a circa 5 10 1 mol=L s, mentre alla stessa temperatura, la velocitaÁ della
reazione del secondo ordine:
2 HI(g) ! H2(g) ‡ I2(g)
eÁ pari a circa 1; 2 10 6 mol=L s. Pertanto si eÁ dovuto ammettere che la velocitaÁ delle
reazioni non eÁ determinata solo dalla collisione molecolare, ma anche da altri due fattori, e
precisamente l'orientamento reciproco delle molecole dei reagenti all'atto dell'urto e la
loro energia.
Il primo fattore eÁ giustificato dal fatto che affinche l'urto, per esempio di una molecola
di HI contro un'altra molecola di HI, sia efficace al fine di produrre una molecola di H2 e
una molecola di I2, eÁ necessario che la loro reciproca orientazione spaziale sia tale da
favorire la reazione:
H
H
H
collisione
H
H
I
I
(urto efficace)
+
I
I
H
I
I
e non quella:
H
H
I
I
+
collisione
H
H
I
I
H
I
(urto non efficace)
H
I
Il secondo fattore, e cioeÁ quello legato all'energia delle molecole, eÁ il piuÁ importante nei
riguardi della possibilitaÁ che gli urti fra le molecole dei reagenti siano efficaci ai fini dell'avanzamento della reazione. Per poter comprendere l'influenza di questo fattore energetico, eÁ necessario prendere in esame l'andamento della velocitaÁ delle reazioni al variare
della temperatura.
VELOCITAÁ DI REAZIONE E TEMPERATURA
In precedenza abbiamo fatto notare che la velocitaÁ delle reazioni aumenta con l'aumentare della temperatura e che, come regola del tutto orientativa, essa viene in genere
raddoppiata per l'incremento di 10 8C. Ora, in base alla teoria cinetica molecolare, eÁ stato
possibile calcolare che l'incremento del numero di urti al secondo fra le molecole di una
data massa di gas eÁ trascurabile rispetto all'aumento di 10 8C della temperatura. Pertanto,
non eÁ possibile interpretare il raddoppio delle velocitaÁ delle reazioni con l'incremento del
numero di urti fra le molecole dei reagenti, anche tenendo conto di un loro orientamento
spaziale favorevole per il verificarsi della reazione. Se invece prendiamo in esame la legge
della distribuzione di Maxwell-Boltzmann dell'energia delle molecole di una data massa di
gas a due temperature diverse (fig. 25.1), il forte aumento della velocitaÁ delle reazioni con
l'aumentare della temperatura trova un'esatta spiegazione. Infatti, dato che con l'aumentare della temperatura aumenta apprezzabilmente il numero delle molecole che hanno
maggiore energia, se ammettiamo che l'urto fra le molecole dei reagenti eÁ efficace solo se
esse posseggono una ben definita energia, eÁ chiaro che l'aumento della velocitaÁ della reazione con l'aumentare della temperatura eÁ determinato esclusivamente dal fatto che, a
temperatura piuÁ elevata, un maggior numero di molecole di reagenti posseggono l'energia
sufficiente affinche i loro urti reciproci siano efficaci.
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Figura 25.2
........................................................................................................................................................................................
4. Equazione di Arrhenius
L'energia minima necessaria che devono possedere le molecole dei reagenti affinche la
reazione proceda, eÁ chiamata energia di attivazione della reazione, e viene indicata con
Ea . Poiche ogni reazione chimica coinvolge la rottura dei legami esistenti fra gli atomi
delle molecole dei reagenti e la formazione di nuovi legami fra gli atomi delle molecole dei
prodotti, per ciascuna reazione esiste una caratteristica energia di attivazione. Se l'energia
posseduta dalle molecole dei reagenti eÁ uguale o maggiore a quella critica Ea necessaria
per provocare la rottura dei legami fra gli atomi che le costituiscono, la reazione avviene,
mentre se detta energia eÁ minore di quella critica Ea , la reazione non avviene.
dN/dE
Numero di molecole
che possiedono un'energia cinetica uguale
o maggiore di Ea a
due diverse temperature.
................................................................................................................................
4
T1
T2 > T1
Ea
E (energia cinetica)
Nella figura 25.2, che rappresenta ancora in forma grafica la legge di distribuzione di
Maxwell-Boltzmann, il numero di particelle che possiedono un'energia cinetica uguale o
maggiore a quella di attivazione Ea eÁ dato dall'area tratteggiata al di sotto della curva. Si
puoÁ notare come, aumentando la temperatura, tale numero cresca nettamente, il che
spiega il forte aumento della velocitaÁ di reazione all'aumentare della temperatura.
EQUAZIONE DI ARRHENIUS
La dipendenza della velocitaÁ di reazione dalla temperatura viene formulata matematicamente dall'equazione di Arrhenius:2
nella quale:
k ˆ
A ˆ
Ea ˆ
R ˆ
T ˆ
k ˆ Ae
Ea =RT
(25:2)
costante specifica di velocitaÁ della reazione;
costante caratteristica della reazione (detta «fattore di frequenza»);
energia di attivazione della reazione;
costante universale dei gas;
temperatura assoluta.
Dalla (25.2) risulta evidente perche la costante di velocitaÁ (e quindi anche la velocitaÁ di
reazione) cresce esponenzialmente all'aumentare della temperatura, e al diminuire dell'energia di attivazione Ea .
Tale espressione eÁ del tutto analoga all'isobara di van't Hoff che esprime la dipendenza
della costante di equilibrio dalla temperatura; in effetti sappiamo che tale costante eÁ
2
Svante August Arrhenius (1859-1927), chimico e fisico svedese, premio Nobel nel 1903.
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Figura 25.3
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
25. Teoria della cinetica delle reazioni
Andamento della costante specifica di
velocitaÁ in funzione
della temperatura.
Figura 25.4
Variazione del logaritmo della costante
specifica della velocitaÁ di reazione con il
reciproco della temperatura assoluta.
uguale al rapporto tra le costanti specifiche di velocitaÁ della reazione diretta e inversa
(relazione valida a rigore solo per le reazioni semplici, come giaÁ sottolineato):
Keq ˆ
kd
ki
per cui eÁ lecito attribuire alle singole costanti specifiche lo stesso andamento esponenziale
dedotto per la Keq (fig. 25.3).
Costante specifica
di velocità (k)
Temperatura (T )
Se esprimiamo la (25.2) in forma logaritmica, otteniamo:
ln k ˆ ln A
Ea 1
R T
(25:3)
Ponendo in un diagramma i dati sperimentali di ln k in funzione dell'inverso della temperatura assoluta corrispondente (1/T), otteniamo una retta, il cui andamento qualitativo
eÁ riprodotto nella figura 25.4.
ln k
ln k1
Δy
ln k2
Δx
1/T1
1/T2
1/T
Il coefficiente angolare di tale retta (la tangente all'angolo che essa forma con l'asse delle
ascisse) eÁ dato dal rapporto Ea =R per cui, una volta noto questo, si puoÁ ricavare
l'energia di attivazione Ea .
Indicando con Dy la differenza fra due dati qualsiasi di ln k, e con Dx la differenza dei
due dati 1=T ad essi corrispondenti, il rapporto Dy=Dx fornisce il coefficiente angolare
della retta nella figura 25.4.
314
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Figura 25.5
......................................................................................................................................................
5. Teoria del complesso attivato
Il diverso andamento
di ln k in funzione di
1/T per due diverse
reazioni, dovuto al diverso valore dell'energia di attivazione Ea
(maggiore per la retta
b, caratteristica di una
reazione la cui velocitaÁ
risente maggiormente
di un cambiamento di
temperatura rispetto
alla reazione corrispondente alla retta a).
.................................................................................................................................................................
5
Come eÁ evidente dall'espressione (25.3), il valore dell'energia di attivazione Ea
determina la maggiore o minore pendenza della retta: se infatti l'energia di attivazione
ha un valore basso, anche il rapporto ( Ea =R), ovvero il coefficiente angolare, saraÁ
basso, in valore assoluto (retta a di figura 25.5). CioÁ significa che, al variare della
temperatura, la costante specifica di velocitaÁ varia di poco: la velocitaÁ di reazione eÁ
poco influenzata dalla temperatura.
ln k
b
a
1/T
Se invece Ea ha un valore elevato, anche Ea =R saraÁ alto (in valore assoluto) e la retta
corrispondente saraÁ caratterizzata da una forte pendenza (retta b): al variare della
temperatura, ln k cambia fortemente, cioeÁ la velocitaÁ della reazione eÁ molto sensibile a
un cambiamento di temperatura.
TEORIA DEL COMPLESSO ATTIVATO
In base alle teorie piuÁ moderne, la reazione fra due molecole che si urtano non avviene percheÂ
esse giaÁ posseggono l'energia di attivazione Ea , ma questa energia viene da esse acquistata a
spese della loro energia cinetica, man mano che esse si avvicinano reciprocamente l'una
all'altra. In altre parole, l'energia cinetica (traslazionale) posseduta da due molecole che sono
sul punto di entrare in collisione, viene convertita in energia potenziale, e precisamente in
energia vibrazionale degli atomi che le costituiscono. In conseguenza di cioÁ, via via che le
molecole dei reagenti si avvicinano, aumenta la frequenza di oscillazione degli atomi lungo i
rispettivi assi di legame, per cui alcuni legami possono rompersi, mentre altri possono formarsi
con un diverso e temporaneo arrangiamento degli atomi. Simili continui cambiamenti della
struttura molecolare dei reagenti procedono a spese dell'energia cinetica delle loro molecole,
fino a quando da esse prende origine un composto intermedio con una elevata energia e quindi
dotato di alta instabilitaÁ, al quale si daÁ il nome di complesso attivato o di stato di transizione.
Dallo stato di transizione si formano poi i prodotti della reazione.
La successione delle variazioni di energia che accompagnano la formazione del complesso attivato a partire da due molecole separate A e B, e il successivo ottenimento dei
prodotti C e D, eÁ indicata nel grafico della figura 25.6.
Nella figura 25.6, sull'asse delle ordinate viene riportato il valore dell'energia
potenziale del sistema considerato, che non va confusa con quella cinetica, la quale eÁ
solamente energia traslazionale e non potenziale. L'energia potenziale di una molecola eÁ
determinata, tra l'altro, oltre che dall'energia dei legami fra gli atomi che la costituiscono,
anche dalla simmetria geometrica della molecola medesima.
Sull'asse delle ascisse del grafico in figura 25.6 viene riportata una grandezza, detta
coordinata della reazione, il cui valore numerico eÁ legato tra l'altro (e non solo) alle
distanze fra gli atomi delle molecole reagenti.
315
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 25.6
...........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
25. Teoria della cinetica delle reazioni
Variazione dell'energia potenziale delle
molecole dei reagenti
A e B, con il variare
delle loro distanze
interatomiche.
a) Reazione esotermica; b) reazione
endotermica.
La differenza fra l'energia potenziale Eca del complesso attivato e quella EA‡B dei reagenti, fornisce l'energia di attivazione Ea della reazione; la differenza fra l'energia potenziale dei reagenti EA‡B e quella dei prodotti di reazione EC‡D , corrisponde all'energia
netta che viene messa in gioco nel corso della reazione, ed essa eÁ indipendente dal valore
dell'energia Ea del complesso attivato. In particolare, se l'energia potenziale EA‡B dei
reagenti eÁ maggiore di quella EC‡D dei prodotti (vedi figura 25.6), la reazione avviene con
sviluppo di energia (DE) che viene generalmente liberata sotto forma di calore; se invece
l'energia potenziale EC‡D dei prodotti della reazione eÁ maggiore di quella EA‡B dei
reagenti, la reazione avviene con assorbimento di energia (generalmente di calore) da parte
del sistema.
Energia
potenziale
Eca
Energia
potenziale
complesso
attivato
complesso
attivato
Eca
Ea
Ea
EC+D
EA+B
A+B
EA+B
C+D
ΔE
A+B
ΔE
C+D
EC+D
Coordinata della reazione
Coordinata della reazione
a)
b)
Nel primo caso la reazione viene detta esotermica, nel secondo caso essa viene detta
endotermica. Tenendo presenti i grafici di figura 25.6 e ricordando l'espressione della
costante di equilibrio di una reazione (elementare) in funzione della costante di velocitaÁ:
Keq ˆ
in cui:
kd
ki
kd ˆ costante specifica di velocitaÁ della reazione diretta
ki ˆ costante specifica di velocitaÁ della reazione inversa
possiamo interpretare dal punto di vista cinetico l'andamento delle reazioni esotermiche
ed endotermiche al variare della temperatura.
Consideriamo il diagramma di figura 25.6a relativo a una reazione esotermica: poiche l'energia di attivazione della reazione diretta (Ea ) eÁ minore dell'energia di attivazione
della reazione inversa, che, come si vede dal grafico, corrisponde a (Ea ‡ DE), si deduce
che la reazione diretta eÁ meno influenzata dalla temperatura della reazione inversa, in
quanto il rapporto Ea =R (che, come sappiamo, nel grafico ln k in funzione di 1/T
rappresenta il coefficiente angolare della retta) in valore assoluto eÁ inferiore al rapporto
(Ea ‡ DE)=R riferito alla reazione inversa. Quindi, all'aumentare della temperatura, la
kd cresce piuÁ lentamente della ki , per cui il rapporto kd =ki ˆ Keq va diminuendo all'aumentare della temperatura: resta quindi confermato il fatto che le reazioni esotermiche
sono sfavorite da un aumento di temperatura.
Il contrario avviene naturalmente per le reazioni endotermiche (fig 25.6b), per le quali,
all'aumentare della temperatura, la kd cresce piuÁ rapidamente della ki (l'energia di
attivazione della reazione diretta Ea eÁ maggiore dell'energia di attivazione della reazione
inversa, uguale a (Ea DE): di conseguenza, il rapporto kd =ki ˆ Keq aumenta con la
316
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 25.7
.................................................................................................
QUESITI
Il diverso andamento
della costante di velocitaÁ della reazione
diretta e della reazione inversa rispetto
alla temperatura:
a) per reazioni esotermiche, b) per reazioni endotermiche.
temperatura e questo significa che le reazioni endotermiche sono favorite da un aumento di
temperatura (fig. 25.7).
ln k
ln k
ki
ki
kd
kd
1/T
1/T
a)
b)
................................................................................................................................................
QUESITI
1. Illustra il significato della legge di Maxwell-Boltzmann sulla distribuzione delle velocitaÁ molecolari
delle molecole di una data massa di gas.
2. La legge di Maxwell-Boltzmann eÁ il frutto di risultati sperimentali, oppure eÁ stata dedotta teoricamente?
3. Indica come varia la distribuzione dell'energia cinetica delle molecole di una data massa di gas al
variare della temperatura.
4. Illustra sommariamente la teoria delle collisioni molecolari sulla cinetica delle reazioni.
5. Indica quali sono le obiezioni di fondo alla teoria
delle collisioni molecolari e precisa in che modo
esse vengono superate.
6. Definisci l'energia di attivazione di una reazione e
spiega perche per ciascuna reazione esiste una ben
definita energia di attivazione.
7. Precisa qual eÁ l'importanza pratica dell'equazione
di Arrhenius.
8. Spiega la differenza tra energia cinetica ed energia
potenziale di una molecola.
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
20 esercizi interattivi
9. Illustra in modo sintetico la teoria del complesso
attivato.
10. Spiega perche l'ammontare di energia del complesso attivato non influisce sulla quantitaÁ totale di
energia emessa o assorbita nel corso della reazione.
11. Spiega la differenza fra uno stadio intermedio della
reazione e il corrispondente stato di transizione o
complesso attivato.
12. Spiega perche il complesso attivato di una reazione
non puoÁ essere isolato.
13. Se tutti gli urti molecolari fossero efficaci, quali sarebbero le conseguenze sulle velocitaÁ molecolari?
14. Da quali fattori dipendono gli urti efficaci?
15. Quali sono i fattori che determinano il valore della
costante specifica di velocitaÁ?
16. Se, per una data reazione, all'aumentare della temperatura la costante di velocitaÁ della reazione diretta aumenta piuÁ rapidamente della costante di
velocitaÁ della reazione inversa, la reazione eÁ esotermica o endotermica?
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26
Figura 26.1
.......................................................................................................................................................................................................................................
1
Catalisi
CATALIZZATORI
Alcune sostanze, denominate da JoÈns Berzelius1 catalizzatori, hanno la proprietaÁ di
accelerare la velocitaÁ delle reazioni, senza prendere attivamente parte al fenomeno, in
quanto alla fine della reazione non risultano chimicamente alterate (in alcuni casi il
catalizzatore interviene nel senso di ritardare lo svolgimento di una reazione, e allora si
parla di catalisi negativa).
Il fatto che la velocitaÁ di una data reazione puoÁ essere accelerata dalla presenza di
un catalizzatore, si spiega ammettendo che quest'ultimo si combini con le sostanze
reagenti, per cui la reazione procede attraverso una successione di stadi intermedi
in cui si formano dei complessi attivati che richiedono una energia di attivazione inferiore a quella della reazione non catalizzata. Questo concetto viene illustrato graficamente nella figura 26.1 nella quale Ea corrisponde all'energia di attivazione della reazione in assenza del catalizzatore, mentre Ea0 ed Ea00 corrispondono alle energie di attivazione degli stadi intermedi in presenza di catalizzatore: minore eÁ l'energia necessaria alle molecole perche possano reagire, maggiore saraÁ il numero di molecole che possiedono tale energia, per cui si avraÁ un aumento della velocitaÁ di reazione (fig. 26.2).
Energia
potenziale
Influenza del catalizzatore sull'energia di
attivazione di una
reazione. (Ea : energia
di attivazione della
reazione non catalizzata; Ea0 , Ea00 : energie
di attivazione delle
reazioni intermedie in
presenza di catalizzatore).
[AB]
complesso attivato
senza catalizzatore
Ea
E´a
E´´a
A+B
C+D
Coordinata di reazione
1
JoÈns Jacob Berzelius (1789-1848), chimico svedese.
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Figura 26.2
...........................................................................................................................................................................................................................................
2. Caratteristiche generali della catalisi
dN/dE
Energia di attivazione
di una reazione non
catalizzata (Ea ) e catalizzata (Ea0 ) e numero di molecole
corrispondente.
.................................................................................
2
E
Ea
Eá
Per renderci conto degli aumenti di velocitaÁ di reazione che la presenza di un catalizzatore
puoÁ indurre, consideriamo una generica reazione del primo ordine:
A!B
Il tempo necessario alla trasformazione del 50% di A in B, si puoÁ calcolare per mezzo
della relazione (24.11):
0,693
t1=2 ˆ
k
dove k eÁ la costante cinetica data dall'espressione:
k ˆ Ae
Ea
RT
Ora, se si considera, per esempio, che a 400 K la reazione non catalizzata abbia un'energia
di attivazione pari a 200 000 J/mol e che in presenza di un catalizzatore la stessa valga
120 000 J/mol, le due costanti di velocitaÁ relative saranno:
per la reazione catalizzata:
da cui:
0
t1=2
k2 e
ˆ ˆ
00
t1=2 k1 e
k1 ˆ A e
200 000
8;31400
k2 ˆ A e
120 000
8;31400
120 000
8;31400
200 000
8;31400
2,1 10
7,4 10
16
27
3 1010
Possiamo quindi notare che, in seguito alla diminuzione di 80 000 J/mol di energia di
attivazione, il tempo di dimezzamento della reazione catalizzata si riduce di circa trenta
miliardi di volte.
CARATTERISTICHE GENERALI DELLA CATALISI
Le proprietaÁ fondamentali dei catalizzatori possono essere cosõÁ sintetizzate:
1. Il catalizzatore si deve ritrovare alla fine della reazione chimicamente inalterato (non
cosõÁ si puoÁ dire del suo stato fisico, che puoÁ presentare aspetto diverso dopo un certo
tempo di impiego). In generale, se la reazione non catalizzata avviene nel modo
seguente:
A ‡ B ! P (P ˆ prodotti)
in presenza di un catalizzatore X, lo svolgimento della stessa si puoÁ cosõÁ descrivere:
A ‡ X ! AX
AX ‡ B ! P ‡ X
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..............................................................
26. Catalisi
................................................................................................................
3
.............................................................................................
4
...............................
5
2. Il catalizzatore si limita a variare la velocitaÁ di una reazione (catalizzatore positivo se
accelera, negativo se ritarda la reazione), mentre non influenza la posizione dell'equilibrio
chimico (non varia la costante di equilibrio), il che significa che esso fa variare nella stessa
misura le costanti di velocitaÁ della reazione diretta e della reazione inversa: per esempio, il
nichel catalizza sia la reazione di idrogenazione che di deidrogenazione degli idrocarburi;
lo ione H3 O‡ catalizza sia la reazione di esterificazione che quella di idrolisi degli esteri.
3. Il catalizzatore agisce in quantitaÁ comunque piccole: esso puoÁ trovarsi nella stessa fase
delle sostanze reagenti (e allora si parla di catalisi omogenea) o in una fase diversa da
quella dei reagenti (catalisi eterogenea).
CATALISI NEGATIVA
Alcune sostanze vengono indicate con il nome di catalizzatori negativi o inibitori o anche
veleni dei catalizzatori, in quanto hanno la proprietaÁ di annullare l'azione del catalizzatore, che eÁ appunto quella di accelerare la velocitaÁ della reazione desiderata.
L'azione dell'inibitore puoÁ svolgersi secondo diversi meccanismi. Spesso, tale azione
consiste nella combinazione dell'inibitore con il catalizzatore: cosõÁ, nel caso delle reazioni
eterogenee, il «veleno» impedisce la combinazione del catalizzatore con le sostanze reagenti.
Per esempio, l'adsorbimento di arsenico o di acido solfidrico sulla superficie del platino
spugnoso impedisce permanentemente al catalizzatore di esplicare la sua attivitaÁ. Un esempio
di questo tipo di inibizione in soluzione si ha nella ossidazione del solfito sodico con O2
gassoso, catalizzata da ioni Cu2‡ : la reazione viene inibita per aggiunta di ioni CN o di alcoli
come il mannitolo, a causa della complessazione dello ione rameico da parte di tali composti.
EÁ stato accertato che frequentemente l'effetto del catalizzatore negativo eÁ quello di
interrompere le catene tramite le quali si propagano molte reazioni. Si eÁ giaÁ notata l'azione
negativa delle pareti sulle reazioni a catena. CosõÁ, l'azione «antidetonante» del piombo
tetraetile, Pb(C2 H5 )4 , consiste nell'interrompere le catene con cui si propaga la combustione della miscela aria-benzina durante la fase di compressione nel motore a scoppio.
TRASFORMAZIONE DI CATALIZZATORI OMOGENEI
IN CATALIZZATORI ETEROGENEI
Lo svantaggio maggiore della catalisi omogenea consiste nella separazione del catalizzatore dai prodotti di reazione in modo da evitare sue perdite che possono essere anche
tanto onerose da non rendere competitivo il processo.
A seguito di cioÁ, in questi ultimi anni, si stanno studiando opportuni supporti per
catalizzatori omogenei in modo da renderli eterogenei e realizzare il piuÁ possibile i vantaggi
delle due tecniche cioeÁ elevata attivitaÁ cinetica propria della catalisi omogenea ed enzimatica e
facile separabilitaÁ propria della catalisi eterogenea. EÁ chiaro che il legame tra supporto e
catalizzatore deve essere di tipo chimico in modo da evitare un suo dilavamento e non per
semplice impregnazione come per i sistemi eterogenei per reazioni in fase gassosa. I supporti
utilizzati possono essere sia inorganici come silice e allumina oppure organici come resine
sintetiche analoghe a quelle utilizzate per lo scambio ionico, o naturali come la cellulosa. Per la
fissazione degli enzimi si usano in genere come matrici polistirene, cellulosa o vetro poroso.
CATALISI ENZIMATICA
Una importantissima classe di catalizzatori eÁ costituita da particolari proteine prodotte dalle cellule degli organismi viventi, cui si daÁ il nome di catalizzatori biologici o, semplicemente, enzimi. Essi sono proteine ad alto peso molecolare ( 106 ) costituite da una
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............................................................................................................................................................................................................................................
6. Cinetica enzimatica
.................................................................................
6
sequenza di amminoacidi con una particolare disposizione spaziale che eÁ determinata a livello genico e che ne condiziona in modo specifico la funzione. Necessaria all'esplicazione
della funzione enzimatica eÁ la presenza di piccole molecole organiche e/o di particolari
ioni metallici detti coenzimi.
La funzione degli enzimi si esplica sia nell'interno che al di fuori delle cellule che li producono, ed eÁ di vitale importanza per la sopravvivenza, in quanto quasi tutte le reazioni
che avvengono negli organismi viventi, come per esempio quelle che consentono l'utilizzazione degli alimenti, sono catalizzate dagli enzimi.
La caratteristica piuÁ significativa degli enzimi eÁ la loro elevata specificitaÁ, cioeÁ la
proprietaÁ di catalizzare solo una particolare reazione (idrolisi, esterificazione, ossidazione,
decarbossilazione, ecc.) a carico di determinati gruppi di sostanze indicate con il nome
generico di substrato. Questo perche gli enzimi, anche se la loro matrice comune eÁ
costituita dagli amminoacidi, si differenziano gli uni dagli altri a seconda del numero e del
tipo di amminoacidi che li costituiscono (struttura primaria), e quindi dalla disposizione
spaziale assunta dalla macromolecola proteica (indicata, a seconda del grado di complessitaÁ, come struttura secondaria e terziaria). Se poi l'enzima eÁ formato da piuÁ molecole
proteiche (subunitaÁ) associate tra loro, si dice che esso possiede una struttura quaternaria.
CosõÁ per esempio la ptialina, enzima prodotto dalle ghiandole salivari, catalizza la
degradazione dell'amido in glucosio, l'ureasi catalizza la scissione dell'urea in ammoniaca e
anidride carbonica, la tripsina catalizza la scissione del legame peptidico delle proteine, e cosõÁ
via. Alcuni enzimi mostrano addirittura una specificitaÁ assoluta, nel senso che essi esplicano la
loro azione catalitica solo a carico di un ben determinato substrato. In questi casi, anche una
piccolissima alterazione della struttura chimica del substrato rende inefficace l'enzima.
L'elevata specificitaÁ degli enzimi dipende dalla forma della loro macromolecola e da
quella del substrato: solo se la forma dell'enzima, e in particolare la zona detta sito attivo,
eÁ perfettamente coincidente con quella del substrato, l'enzima esplica la sua attivitaÁ
catalizzatrice (esiste una certa analogia tra enzima-substrato e chiave-serratura).
Da quanto detto si nota come gli enzimi possono catalizzare molti tipi di reazioni
chimiche con meccanismi di catalisi diversi a seconda dell'enzima, del substrato e del
particolare tipo di reazione, tuttavia eÁ possibile individuare alcuni aspetti caratteristici e
comuni della catalisi enzimatica. Gli enzimi sono caratterizzati da elevati numeri di turnover (103 -105 s 1 ) che rappresentano il numero di moli di substrato trasformate in prodotto nell'unitaÁ di tempo e per unitaÁ di concentrazione di enzima e sono quindi una
misura della loro attivitaÁ catalitica.
La velocitaÁ delle reazioni catalizzate da enzimi varia con il pH, presentando dei valori
ottimali a pH molto spesso vicini alla neutralitaÁ. Questa dipendenza dal pH puoÁ essere
spiegata tenendo presente la natura anfotera delle proteine.
CINETICA ENZIMATICA
Le basi della cinetica enzimatica furono poste dalla teoria di Michaelis e Menten, i quali
elaborarono un modello che, se pure semplificato rispetto alla complessa realtaÁ dei fenomeni cellulari, risulta idoneo per interpretare le caratteristiche fondamentali delle reazioni enzimatiche.
Tale teoria si basa sui seguenti punti.
1. La velocitaÁ di reazione dipende sia dalla concentrazione del substrato che da quella
dell'enzima (trattandosi di reazione omogenea): quando il substrato ha saturato completamente l'enzima presente, formando il complesso enzima-substrato, la velocitaÁ raggiunge un valore massimo, e un ulteriore aumento della concentrazione del substrato
non porta a un aumento della velocitaÁ di reazione.
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26. Catalisi
2. L'enzima E reagisce dapprima con il substrato S, per dare il complesso ES, secondo
una reazione reversibile:
k1
E ‡ S ! ES
k
(26:1)
1
in cui:
k1 ˆ costante specifica di velocitaÁ della reazione diretta;
k 1 ˆ costante specifica di velocitaÁ della reazione inversa.
3. A sua volta il complesso ES si decompone, trasformandosi nei prodotti finali P e
liberando l'enzima nella sua forma primitiva E: si trascura in questo caso la reazione
inversa, che avviene con velocitaÁ minima, essendo minima la quantitaÁ di prodotto nello
stadio iniziale:
k2
ES ! E ‡ P
(26:2)
in cui k2 ˆ costante specifica di velocitaÁ.
Il processo globale consiste quindi di due reazioni consecutive, per la prima delle quali
esiste uno stato di equilibrio:
E ‡ S ! ES ! E ‡ P
4. Durante la reazione, la concentrazione del prodotto intermedio ES raggiunge un valore costante (ipotesi dello stato stazionario): eÁ quindi tale valore che determina la velocitaÁ di formazione dei prodotti finali.
Esaminiamo nei dettagli tutto il processo. La formazione del complesso ES avviene secondo la reazione (26.1) diretta, e la sua velocitaÁ di formazione saraÁ:
vformazione ˆ k1 [E][S]
Il complesso ES a sua volta si dissocia secondo la (26.1) inversa e la (26.2), per cui la
velocitaÁ di dissociazione saraÁ:
vdissociazione ˆ k 1 [ES] ‡ k2 [ES] ˆ (k
1
‡ k2 )[ES]
In condizioni stazionarie, la velocitaÁ di formazione di ES uguaglia la velocitaÁ di decomposizione:
k1 [E][S] ˆ (k
1
‡ k2 )[ES]
(26:3)
Poiche [E] rappresenta la concentrazione dell'enzima libero ed [ES] la concentrazione
dell'enzima combinato, la loro somma daraÁ la concentrazione totale dell'enzima [E]0 :
[E] ‡ [ES] ˆ [E]0
da cui:
[E] ˆ [E]0
[ES]
e sostituendo nella (26.3):
k1 ([E]0
[ES]) [S] ˆ (k
1
‡ k2 )[ES]
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Figura 26.3
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
6. Cinetica enzimatica
da cui:
k1 [E]0 [S]
k1 [ES][S] ˆ (k
k1 [ES][S] ‡ (k
1
1
‡ k2 )[ES]
‡ k2 )[ES] ˆ k1 [E]0 [S]
Raccogliendo e ricavando [ES]:
[ES] ˆ
k1 [E]0 [S]
k1 [S] ‡ k 1 ‡ k2
Abbiamo quindi ottenuto la concentrazione di ES in funzione delle concentrazioni del
substrato, dell'enzima totale e delle costanti di velocitaÁ. Quindi la velocitaÁ di formazione
del prodotto saraÁ:
d[ES]
k1 [E]0 [S]
ˆ k2 [ES] ˆ k2
vˆ
dt
k1 [S] ‡ k 1 ‡ k2
Dividendo numeratore e denominatore di tale rapporto per k1, si ha:
vˆ
Il rapporto (k
1
k2 [E]0 [S]
1 ‡ k2
‡ [S]
k1
k
‡ k2 )=k1 viene indicato con KM (costante di Michaelis-Menten):
vˆ
k2 [E]0 [S]
KM ‡ [S]
(26:4)
Si tratta dell'equazione di Michaelis-Menten.
La (26.4) permette di calcolare la velocitaÁ iniziale della reazione in funzione della
concentrazione di substrato [S] (per una data concentrazione di enzima [E]0 ): in un
grafico, tale funzione ha l'andamento di una iperbole, come nella figura 26.3.
v
VelocitaÁ di reazione
enzimatica in funzione della concentrazione di substrato.
vmax
vmax
2
KM
[S]
Da tale figura, si puoÁ osservare che:
. per basse concentrazioni di S, la reazione eÁ praticamente del primo ordine, in quanto la
velocitaÁ cresce in modo proporzionale all'aumento di S (essendo l'enzima ancora in
forte eccesso rispetto al substrato, la sua concentrazione si puoÁ considerare costante);
. per alte concentrazioni di substrato, la velocitaÁ tende a un massimo (vmax ) che indica la
completa combinazione dell'enzima con il substrato: un ulteriore aumento della
concentrazione di quest'ultimo non modifica piuÁ la velocitaÁ di reazione (reazione di
ordine zero); tale valore massimo eÁ solo proporzionale alla concentrazione massima
dell'enzima (quindi [E]0 ):
vmax ˆ k2 [E]0
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 26.4
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
26. Catalisi
(come si puoÁ anche dedurre matematicamente dalla (26.4) in cui, se [S] assume valori
molto elevati, KM diventa trascurabile rispetto a [S] e il rapporto si riduce appunto a
k2 [E]0 ).
PercioÁ l'equazione di Michaelis-Menten si puoÁ anche scrivere:
vˆ
vmax [S]
KM ‡ [S]
(26:5)
La costante KM puoÁ essere definita nel modo seguente: se si considera la velocitaÁ di
reazione corrispondente alla metaÁ di quella massima, cioeÁ
vˆ
vmax
2
e si sostituisce nella (26.5), si ottiene
KM ˆ [S]
cioeÁ la costante di Michaelis-Menten coincide numericamente con la concentrazione di substrato [S] necessaria per raggiungere una velocitaÁ di reazione uguale alla metaÁ di quella
massima (si veda la figura 26.3).
Il valore della KM eÁ caratteristico per ogni enzima e indica l'affinitaÁ dell'enzima per il
suo substrato: piuÁ bassa eÁ KM e minore eÁ la concentrazione di substrato [S] che permette
di ottenere la metaÁ della velocitaÁ massima (vmax ); cioÁ indica che enzima e substrato hanno
grande tendenza a reagire. Viceversa, un valore elevato di KM significa che occorre una
significativa concentrazione di substrato per raggiungere la metaÁ della velocitaÁ massima
(E ed S hanno poca tendenza a reagire). Riassumendo:
. bassa KM ˆ alta affinitaÁ enzima-substrato;
. alta KM ˆ bassa affinitaÁ enzima-substrato.
L'equazione di Michaelis-Menten si puoÁ tradurre graficamente in un altro modo che
risulta di utile applicazione. Se si inverte la (26.5), si ottiene:
1
KM
1
‡
ˆ
v vmax [S] vmax
Riportando in un grafico 1=v in funzione di 1=[S] (grafico dei doppi reciproci), tale funzione eÁ rappresentata da una retta, in cui l'intercetta sull'asse delle ascisse eÁ data da
1=KM , quella sulle ordinate da 1=vmax e la pendenza eÁ data da KM =vmax (fig. 26.4). Tale
grafico permette di ricavare facilmente le grandezze che compaiono nell'equazione di
Michaelis-Menten.
1
v
Equazione di Michaelis-Menten nel
grafico dei doppi reciproci.
α
tg α =
KM
vmax
1
vmax
1/[S]
–1/KM
324
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
QUESITI
................................................................................................................................................
QUESITI
1. Definisci i catalizzatori e indica in che modo viene
interpretato il loro meccanismo di azione.
2. Perche i catalizzatori non influenzano la condizione di equilibrio di una reazione?
3. Spiega la differenza fra catalisi omogenea e catalisi
eterogenea.
4. La concentrazione del catalizzatore influenza la velocitaÁ di una reazione?
5. Spiega la differenza fra enzima e substrato.
6. Spiega l'elevata specificitaÁ degli enzimi.
7. Spiega la differenza fra catalizzatori e inibitori. In
che modo agiscono gli inibitori?
8. Definisci le reazioni a catena.
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20 esercizi interattivi
paratamente, non reagiscono con la sostanza C.
Una miscela di A, B e C non reagisce affatto. La
sostanza C eÁ una sostanza inerte o un inibitore?
11. Perche al di sopra di una certa temperatura l'attivitaÁ catalitica di un enzima si riduce fino ad annullarsi?
12. Per due enzimi che agiscono sullo stesso substrato, le
costanti di Michaelis-Menten sono rispettivamente:
0
00
ˆ 3 10 3 e KM
ˆ 8 10 2 . Quale dei due
KM
enzimi ha maggiore affinitaÁ per il substrato?
13. Il catalizzatore della reazione di esterificazione in
soluzione acquosa eÁ lo ione H3 O‡. Qual eÁ il catalizzatore per l'idrolisi di un estere in soluzione
acquosa?
14. In quali modi si puoÁ aumentare la velocitaÁ di una
reazione?
9. Addizionando a temperatura ambiente una soluzione di permanganato di potassio a una soluzione di
ossalato di sodio acida per acido solforico, non si nota
alcuna apprezzabile decolorazione per un lungo periodo di tempo; peroÁ, appena la decolorazione avviene, essa procede velocemente. PercheÂ?
15. Spiega la differenza tra struttura primaria, secondaria, terziaria e quaternaria di un enzima.
10. La sostanza A reagisce con la sostanza B per formare il prodotto D. Le sostanze A e B, prese se-
17. Come si spiega la forte dipendenza dal pH dell'azione
catalitica degli enzimi?
16. Che cos'eÁ il numero di turnover di un enzima?
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27
Tabella 27.1
UnitaÁ elettriche.
............................................................................................................................................................................................................................................
1
Conversione dell'energia
chimica in energia elettrica
OGGETTO DELL'ELETTROCHIMICA
L'elettrochimica studia le relazioni tra due forme di energia che vengono coinvolte nelle
reazioni di ossidoriduzione (redox), e cioeÁ l'energia chimica e l'energia elettrica. Infatti, in
questi processi, si verifica al tempo stesso sia la trasformazione della materia, e quindi
viene messa in gioco energia chimica, sia il trasferimento di cariche elettriche (elettroni)
da una specie chimica ad un'altra, per cui viene messa in gioco energia elettrica.
Questa branca della chimica, nata con le esperienze di Alessandro Volta1 che per
primo ha realizzato (1799) la trasformazione dell'energia chimica in energia elettrica, ha
risolto problemi di notevole importanza teorica e pratica, come per esempio il calcolo
della costante di equilibrio delle reazioni redox, della costante di instabilitaÁ dei complessi,
del prodotto di solubilitaÁ e dei coefficienti di attivitaÁ degli elettroliti in soluzione. Inoltre,
ha introdotto nuove tecniche per l'ottenimento dei metalli allo stato di notevole purezza e
per una efficace protezione dei materiali metallici dalla corrosione. Infine, nel campo
dell'analisi chimica, eÁ stato possibile mettere a punto nuove tecniche di analisi strumentale (conduttometria, potenziometria, elettrogravimetria, polarografia ecc.), che in molti
casi hanno sostituito quelle dell'analisi classica molto meno precise e piuÁ laboriose.
Grandezza
elettrica
Simbolo
UnitaÁ
di misura
Simbolo
unitaÁ
di misura
Relazione
con le altre
grandezze
Carica elettrica
q
coulomb
C
q ˆ I t*
IntensitaÁ di corrente elettrica
I
ampere
A
Iˆ
Resistenza elettrica
R
ohm
Rˆ
Tensione elettrica; differenza
di potenziale elettrico; forza
elettromotrice
V
volt
V
V ˆIR
Potenza
P
watt
W
P ˆV I
Energia
E
joule
J
E ˆV q
* Il tempo t va espresso in secondi.
1
Alessandro Volta (1745-1827), fisico italiano.
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q
t
V
I
........................
2. La pila Daniell
...............................................................................................................................................................................................................................................................................................
2
Per la migliore comprensione delle leggi che governano le relazioni fra l'energia chimica e
l'energia elettrica, nella tabella 27.1 vengono elencate le piuÁ comuni grandezze elettriche
che useremo in seguito, le relative unitaÁ di misura e le loro relazioni reciproche.2
LA PILA DANIELL
Se immergiamo una lamina di zinco metallico in una soluzione contenente ioni Cu2‡ ,
dopo un po' di tempo possiamo rilevare che la superficie della lamina venuta a contatto
con la soluzione si eÁ ricoperta di un sottile strato di rame metallico, mentre nella
soluzione, insieme agli ioni Cu2‡ inizialmente presenti, sono contenuti anche ioni Zn2‡ .
Un simile fenomeno viene rappresentato per mezzo della reazione:
Zn ‡ Cu2‡ ! Zn2‡ ‡ Cu
(27:1)
la quale non eÁ altro che una reazione di ossidoriduzione che viene ottenuta dalla somma
di due semireazioni: una di ossidazione, nella quale una specie chimica cede elettroni (in
questo caso gli atomi di zinco metallico), e l'altra di riduzione, nella quale una specie
chimica acquista elettroni (in questo caso gli ioni Cu2‡ ):
Zn ! Zn2‡ ‡ 2 e
(perdita di elettroni)
2‡
!
Cu
(acquisto di elettroni) (27:2)
Cu ‡ 2 e
Zn ‡ Cu2‡ ! Zn2‡ ‡ Cu
reazione di ossidazione
reazione di riduzione
totale
Poiche la reazione presa in esame si verifica spontaneamente, viene liberata dal sistema
chimico una certa quantitaÁ di energia chimica o, con linguaggio termodinamico, la reazione
avviene con una diminuzione di energia libera (DG < 0). Ma sotto quale forma si manifesta
l'energia chimica liberata dal sistema? Nel caso preso ad esempio, essa puoÁ essere liberata
sotto forma di calore la cui quantitaÁ puoÁ essere misurata in modo abbastanza semplice. Infatti,
se poniamo in un calorimetro una soluzione acquosa di CuSO4 e la mescoliamo con
65,37/2 ˆ 32,69 g (un equivalente) di polvere di zinco, avviene la reazione di spostamento:
Zn ‡ Cu2‡ ! Zn2‡ ‡ Cu
mentre si separano 63,54/2 ˆ 31,77 g (un equivalente) di rame metallico in polvere e
contemporaneamente vengono liberati dal sistema chimico 107 530 J. EÁ possibile peroÁ
convertire l'energia chimica, che in questo modo viene liberata sotto forma di calore, anche in
un'altra forma di energia, per esempio in energia elettrica. Infatti, la stessa reazione avvenuta
nel calorimetro puoÁ essere realizzata con un dispositivo, noto con il nome di pila Daniell,3
formato da due recipienti separati da un setto poroso, contenenti l'uno una soluzione acquosa
di ioni Zn2‡ (per esempio una soluzione di ZnSO4 ) nella quale eÁ immersa parzialmente una
lamina di zinco metallico, e l'altro una soluzione acquosa di ioni Cu2‡ (per esempio una
soluzione di CuSO4 ) nella quale eÁ immersa parzialmente una lamina di rame metallico.4
2
Si tenga presente che, nel Sistema Internazionale, la grandezza elettrica fondamentale eÁ l'ampere (A), e che
quindi tutte le altre grandezze elettriche, in questo sistema, sono grandezze derivate. Si definisce ampere l'intensitaÁ
di corrente costante che, percorrendo due conduttori rettilinei e paralleli di lunghezza infinita, di sezione circolare
e diametro infinitesimo, posti tra loro alla distanza di 1 m nel vuoto, produce tra i due conduttori una forza pari a
2 10 7 N=m.
3
John Frederic Daniell (1790-1845), chimico e fisico inglese.
4
Il setto poroso interposto fra le due soluzioni ha la funzione di evitarne il rapido mescolamento, senza peroÁ impedirne il reciproco contatto.
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Pila Daniell.
3
.........................................................................................................................................
Figura 27.1
.......................................................................................................................................................................................
27. Conversione dell'energia chimica in energia elettrica
M
conduttore
esterno
A
e
e
Zn
Cu
Cu2+
Zn2+
setto poroso
Collegando le due lamine emergenti dalle due soluzioni con un conduttore metallico nel quale
eÁ inserito uno strumento di misura di intensitaÁ della corrente elettrica (A), si puoÁ osservare che
questo segnala un flusso di elettroni diretti dallo zinco al rame e cioeÁ una corrente elettrica che
potrebbe essere utilizzata per far funzionare un adatto motore elettrico (M) (fig. 27.1).
Se verifichiamo lo stato del sistema dopo che la pila ha erogato energia elettrica, possiamo
rilevare che sono avvenute alcune trasformazioni, e precisamente che la lamina di rame eÁ aumentata di peso, mentre quella di zinco si eÁ in parte disciolta: questo significa che nei due
scompartimenti della pila formati dalle due soluzioni separate dal setto poroso, ciascuno dei
quali prende il nome di semicella galvanica, sono avvenute spontaneamente due semireazioni,
una di riduzione:
Cu2‡ ‡ 2 e ! Cu (la lamina di rame aumenta di peso)
e l'altra di ossidazione:
Zn ! Zn2‡ ‡ 2 e (la lamina di zinco si discioglie)
che sommate danno la reazione globale: Cu2‡ ‡ Zn ! Zn2‡ ‡ Cu cioeÁ quella stessa realizzata in un calorimetro. Mentre in quel caso l'energia chimica si eÁ liberata solo sotto forma di
calore, per mezzo della pila Daniell essa si eÁ trasformata, almeno in parte, in energia elettrica.
POTENZIALE DELL'ELETTRODO
Poiche eÁ noto che, affinche il tratto di un conduttore metallico sia percorso da una
corrente elettrica, eÁ necessario che le sue estremitaÁ siano sede di un potenziale elettrico
diverso, si deve ammettere che fra le due lamine metalliche emergenti dalle due soluzioni
della pila Daniell deve esistere una differenza di potenziale elettrico (d.d.p.) responsabile
del flusso di elettroni avvenuto nel circuito esterno.
L'esistenza di questa d.d.p. puoÁ essere spiegata nel seguente modo: quando un metallo
viene immerso in una soluzione contenente gli ioni del metallo, possono verificarsi due
casi limite, e cioeÁ il passaggio in soluzione di alcuni atomi del metallo allo stato di cationi,
oppure il deposito sul metallo, allo stato di atomi neutri, di alcuni cationi contenuti nella
soluzione.5 Nel primo caso, alcuni atomi del metallo abbandonano il reticolo cristallino e
passano nella fase liquida allo stato di ioni positivi idratati secondo la reazione:
Me ‡ n H2 O ! Men‡
(H2 O)n ‡ n e, per cui sulla superficie del metallo in contatto con la soluzione vengono ad accumularsi cariche elettriche negative, in quanto, rispetto allo stato
iniziale, la superficie risulta impoverita di cariche elettriche positive (quelle dei cationi
passati in soluzione); contemporaneamente la soluzione si eÁ arricchita, rispetto allo stato
iniziale, di cariche elettriche positive, e cioeÁ di quelle dei cationi passati in soluzione. Le
cariche negative distribuite sulla superficie del metallo esercitano poi un'attrazione
5
La quantitaÁ di metallo che passa in soluzione o di cationi che si depositano sul metallo eÁ estremamente piccola, e
cioeÁ dell'ordine di 10 9 g/L.
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Figura 27.2
Semicella galvanica.
Figura 27.3
Semicella galvanica.
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
3. Potenziale dell'elettrodo
elettrostatica sugli ioni positivi della soluzione, per cui si crea un doppio strato elettrico
nell'interfase metallo-soluzione analogo a quello esistente fra le armature di un condensatore (fig. 27.2).
(–)
Me
+ –
– +
+ –
– +
+ –
– +
+ –
– +
+ –
– +
+ –
– +
+ –
– +
+++++++
Fra la lamina di metallo e la soluzione si crea quindi una d.d.p., denominata potenziale
dell'elettrodo il cui valore assoluto, come vedremo, non eÁ misurabile sperimentalmente in
alcun modo.
EÁ bene precisare che il doppio strato elettrico che cosõÁ si forma eÁ di natura dinamica, e cioeÁ,
una volta raggiunto l'equilibrio, il numero di atomi del metallo che passano in soluzione allo
stato di ioni eÁ uguale al numero degli ioni metallici che si depositano sulla lamina allo stato di
atomi neutri. Se il metallo eÁ immerso in acqua pura, l'equilibrio viene raggiunto con notevole
difficoltaÁ a causa di fenomeni convettivi e di diffusione, mentre viene raggiunto rapidamente se
il metallo viene immerso in una soluzione contenente giaÁ gli ioni del metallo stesso. Una volta
raggiunto l'equilibrio, la d.d.p. fra il metallo e la soluzione rimane costante nel tempo purcheÂ
non vengano variate la temperatura o la concentrazione degli ioni contenuti nella soluzione.
Nel caso inverso, e cioeÁ quello del deposito dei cationi della soluzione sulla lamina del
! Me ‡ n H2 O, una volta raggiunto l'equimetallo secondo la reazione: Men‡
(H2 O)n ‡ n e
librio, sulla superficie del metallo, rispetto allo stato iniziale, risulta distribuito un eccesso
di cariche positive (quelle dei cationi che dalla soluzione si sono «introdotti» nel reticolo
cristallino), mentre la soluzione si eÁ arricchita delle cariche negative degli anioni del sale,
non piuÁ bilanciate dalle cariche positive dei cationi che si sono depositati sul metallo. Le
cariche negative contenute in eccesso nella soluzione si distribuiscono, per l'attrazione
elettrostatica giaÁ accennata, a diretto contatto con la superficie positiva del metallo; anche
in questo caso si crea un doppio strato elettrico, e di conseguenza una d.d.p. metallosoluzione (fig. 27.3).
(+)
Me
–
–
–
–
–
–
–
–
+
+
+
+
+
+
+
–––
+ –
+ –
+ –
+ –
+ –
+ –
+ –
–––
Nell'esempio classico della pila Daniell, la barretta di zinco immersa nella soluzione di ioni
Zn2‡ si carica negativamente per il passaggio in soluzione di atomi di metallo allo stato di ioni
Zn2‡ idratati, mentre quella di rame immersa nella soluzione di ioni Cu2‡ si carica positivamente per il depositarsi sulla sua superficie di cationi Cu2‡ secondo le due semireazioni:6
( ) Zn ! Zn2‡ ‡ 2 e
(ossidazione)
(‡) Cu2‡ ‡ 2 e ! Cu (riduzione)
(27:3)
(27:4)
Assumendo come polaritaÁ dell'elettrodo il segno della carica elettrica distribuita sulla
superficie del metallo immerso nella soluzione, la lamina di zinco costituisce il polo negativo
6
Si omettono per semplicitaÁ le molecole di acqua di idratazione.
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Figura 27.4
Pila Daniell.
Figura 27.5
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
27. Conversione dell'energia chimica in energia elettrica
della pila che viene detto anodo, mentre la lamina di rame costituisce il polo positivo della pila
che viene detto catodo. Dato che le due lamine hanno un potenziale elettrico diverso,
collegandole con un conduttore metallico esterno possiamo comprendere perche si verifica
un flusso di elettroni diretti dallo zinco al rame7 (fig. 27.4).
anodo
Zn
Zn2+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
(–)
+
+
+
+
+ SO42–
+
+
+
+
+
+
conduttore
esterno
e
e
(+) Cu
Cu2+
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
catodo
–
–
–
–
– SO2–
4
–
–
–
–
–
–
setto poroso
A circuito chiuso, e cioeÁ durante il funzionamento della pila, gli equilibri elettrodici (27.3)
e (27.4) vengono continuamente alterati in quanto la soluzione della semicella di zinco si
arricchisce continuamente di cationi Zn2‡ e cioeÁ di cariche positive, mentre contemporaneamente quella di rame si impoverisce di cationi Cu2‡, e cioeÁ di cariche positive.
I due fenomeni concomitanti provocano percioÁ al polo negativo della pila (nel semielemento a zinco) un accumulo di cariche positive nella fase liquida dovute ai cationi
Zn2‡ passati in soluzione, e al polo positivo (nel semielemento a rame) un accumulo di
cariche negative nella fase liquida dovute all'eccesso di anioni (per esempio SO24 ) non
piuÁ bilanciati dai cationi Cu2‡ che si sono depositati sulla lamina di rame.
Per compensare questo squilibrio di cariche elettriche che si verifica ai poli della pila
durante il suo funzionamento, eÁ indispensabile che le due soluzioni siano in qualche
modo poste in contatto fra di loro, al fine di assicurare l'elettroneutralitaÁ di tutto il sistema.8 A questa esigenza provvede il setto poroso interposto fra le due semicelle, il quale,
essendo permeabile agli ioni, consente la loro libera migrazione da una semicella all'altra
e, precisamente, dell'eccesso di ioni Zn2‡ verso il polo positivo e dell'eccesso di ioni SO24
verso il polo negativo (fig. 27.5).
e
Migrazione degli ioni
nell'interno della pila
Daniell.
Zn
(–)
conduttore
esterno
e
(+) Cu
Zn2+
SO42–
setto poroso
Quando la reazione globale che si verifica in una pila, che nel caso della pila Daniell eÁ la
seguente:
Zn ‡ Cu2‡ ! Zn2‡ ‡ Cu
perviene all'equilibrio, la pila eÁ scarica. Infatti, all'equilibrio, il sistema chimico non libera
piuÁ energia in quanto la velocitaÁ della reazione diretta eÁ uguale alla velocitaÁ di quella inversa.
7
Il verso reale della corrente elettrica continua, cioeÁ il flusso di elettroni, eÁ diretto, esternamente al circuito, dal polo
negativo al polo positivo della pila; per convenzione internazionale, la corrente elettrica continua si considera diretta,
esternamente al generatore, dal polo positivo a quello negativo.
8
Senza il collegamento interno delle due semicelle si interrompe quasi istantaneamente il flusso di elettroni nel
circuito esterno.
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4. Potenziale di diffusione
Figura 27.6
..................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
4
POTENZIALE DI DIFFUSIONE
Durante il funzionamento della pila, in conseguenza della diversa velocitaÁ di migrazione
degli ioni che diffondono attraverso il setto poroso che separa le due semicelle, sulla
superficie di separazione delle due soluzioni delimitate dalle pareti del setto si verifica un
accumulo asimmetrico di cariche elettriche che daÁ origine a un altro doppio strato elettrico fra le due pareti, la cui d.d.p. eÁ detta potenziale di diffusione o di contatto. Per
esempio, nel caso della pila Daniell, poiche gli ioni SO24 che migrano dal polo positivo a
quello negativo sono piuÁ mobili degli ioni Zn2‡ che migrano nel verso opposto, si verifica
un eccesso di cariche negative (SO24 ) sulla parete del setto poroso in contatto con la
soluzione di ZnSO4 , e un difetto di cariche elettriche negative (SO24 ) sulla parete del
setto poroso in contatto con la soluzione di CuSO4 (fig. 27.6).
Figura 27.7
e
e
Potenziale di contatto.
(–)
Zn
Zn2+
SO42–
SO42–
(+) Cu
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
+
+
+
+
+
+
+
+ Cu2+ SO42–
+
+
+
SO42–
+
+
+
+
+
Il potenziale di diffusione che cosõÁ prende origine, ha in genere valori molto piccoli e
difficilmente determinabili, e pertanto viene eliminato con opportuni accorgimenti sperimentali.9 Uno di questi consiste nel collegare le due semicelle mediante un ponte salino
contenente come fase attiva una soluzione acquosa satura di un elettrolita binario univalente (per esempio KCl, NaNO3 , NH4 NO3 ), il cui catione ha una velocitaÁ di migrazione molto vicina a quella dell'anione. L'elettrolita in questione eÁ normalmente contenuto in un tubicino di vetro ripiegato a ponte, nel quale esso eÁ stato introdotto mescolato
con gelatina vegetale (agar-agar) che funziona da supporto inerte. L'elettroneutralitaÁ
globale della pila, e cioeÁ il contatto fra le due semicelle, viene allora assicurata dall'anione e
dal catione dell'elettrolita, i quali, per esempio nella pila Daniell, si sostituiscono agli ioni
SO24 eccedenti nel semielemento a rame e a quelli Zn2‡ eccedenti nel semielemento a
zinco nei cui confronti hanno mobilitaÁ pressoche analoga, e pertanto consentono di eliminare, almeno in massima parte, il potenziale di contatto (fig. 27.7).
Collegamento di due
semielementi galvanici mediante il ponte
salino.
conduttore
esterno
ponte salino
e
e
Cl–
Zn
Cu
K+
Zn2+
SO42–
Cu2+
SO42–
9
La sua eliminazione eÁ auspicabile in quanto il suo valore, seppure molto piccolo, altera sempre la d.d.p. effettivamente esistente tra i poli di una pila.
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27. Conversione dell'energia chimica in energia elettrica
..................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
5
ASPETTI TERMODINAMICI
I risultati cui siamo pervenuti per via sperimentale, e cioeÁ la possibilitaÁ di trasformare
l'energia chimica liberata in una reazione redox in energia elettrica possono essere previsti
teoricamente, applicando alcuni concetti della termodinamica chimica. Infatti sappiamo
che l'energia messa in gioco per produrre lavoro utile eÁ data da: Lu ˆ DG in cui DG eÁ la
variazione di energia libera; a sua volta la variazione di energia libera si ottiene dalla
differenza DG ˆ DH TDS in cui DH eÁ il calore di reazione («energia termica totale») e
TDS il calore entropico («energia vincolata»).
I due termini concorrono quindi al valore risultante del DG (che per una reazione
spontanea dev'essere negativo), sommandosi o sottraendosi tra loro, a seconda dei rispettivi segni, e quindi del tipo di reazione. Abbiamo visto che facendo reagire in un calorimetro un grammo-equivalente di zinco metallico (32,69 g) con un grammo-equivalente
di ioni rameici (31,77 g) vengono liberati 107 530 J, e che la medesima reazione puoÁ essere
fatta avvenire in un dispositivo noto con il nome di pila Daniell. In quest'ultimo caso eÁ
stato sperimentalmente accertato che, quando la concentrazione iniziale delle due soluzioni di CuSO4 e di ZnSO4 contenute separatamente nelle due semicelle eÁ 1 M, esiste fra i
poli della pila (a 25 8C) la d.d.p. di 1,1 V, e che facendo erogare corrente alla pila in un
tempo abbastanza lungo e con intensitaÁ molto piccola,10 dopo il passaggio nel circuito
esterno della carica elettrica di 96 487 C (coulomb) risultano depositati al polo positivo
31,77 g di rame metallico (un equivalente), mentre al polo negativo sono passati in soluzione 32,69 g di zinco (un equivalente). Poiche il lavoro elettrico (Lu ) eÁ dato dal prodotto della carica elettrica totale (q) per la d.d.p. (V) attraverso la quale essa si eÁ trasferita,
il lavoro elettrico fornito dalla pila per il passaggio nel circuito esterno di 96 487 C eÁ dato
da:
(27:5)
Lu ˆ q V
per cui: Lu ˆ 96 487 1,1 ˆ 106 136 V C (volt coulomb) e poiche 1 V (unitaÁ di
misura della d.d.p.) 1 C (unitaÁ di misura della carica elettrica) ˆ 1 J (un joule) risulta:
Lu ˆ 106 136 J. Pertanto, senza il dispositivo della pila, la reazione:
Cu2‡
(un equivalente)
‡
Zn
(un equivalente)
!
Zn2‡
(un equivalente)
‡
Cu
(un equivalente)
avviene spontaneamente con sviluppo di calore pari a 107 530 J (DH ˆ 107 530 J); invece,
con un simile dispositivo, eÁ possibile convertire una parte dell'energia termica in lavoro elettrico (106 136 J), mentre una minima parte di essa, e cioeÁ 107 530 J ‡ 106 136 J ˆ
ˆ 1394 J, si manifesta sotto forma di calore (calore di natura entropica TDS).11 Quest'ultimo, essendo liberato dal sistema chimico a temperatura costante, in base al secondo
principio della termodinamica non puoÁ essere utilizzato per produrre lavoro, in quanto la
trasformazione del calore in lavoro presuppone almeno due sorgenti di calore: una a temperatura maggiore e l'altra a temperatura minore.
10
CioÁ allo scopo di evitare che la d.d.p. di 1,1 V possa variare apprezzabilmente durante il funzionamento della pila.
Questo risultato si ottiene applicando l'equazione DG ˆ DH TDS ricordando che, per la convenzione dei
segni adottata (criterio misto), il calore liberato dal sistema chimico eÁ negativo e il lavoro prodotto dal sistema eÁ positivo.
Dato che nel caso preso a esempio eÁ risultato:
11
DH ˆ
otteniamo:
107 530 J (calore totale liberato)
DG ˆ ‡Lu ˆ ‡106 136 J (lavoro prodotto)
TDS ˆ DH
ˆ
ˆ
DG
107 530 J ‡ 106 136 J
1394 J (calore entropico ceduto all'esterno)
332
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Figura 27.8
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
5. Aspetti termodinamici
e
Schema di pila formata da un elettrodo
di prima specie e uno
di terza specie.
Cl–
Zn
Zn2+
Pt
K+
SO42–
Fe3+
Fe2+
SO42–
Consideriamo adesso un'altra reazione redox:
Zn ‡ 2 Fe3‡ ! Zn2‡ ‡ 2 Fe2‡
Facendo avvenire tale reazione in un calorimetro (anche in questo caso riferendoci a un
equivalente per ogni sostanza), vengono liberati circa 125 500 J. La stessa reazione puoÁ
essere fatta avvenire in una pila come quella di figura 27.8, ottenuta collegando una
barretta di zinco, immersa in una soluzione di un sale di zinco, con una barretta di un
metallo inerte (come il platino), immerso in una soluzione contenente un sale ferrico e un
sale ferroso («elettrodo di terza specie», come vedremo piuÁ avanti). In tal caso si puoÁ
accertare che se le concentrazioni delle due soluzioni sono 1 M per tutte le specie ioniche,
la d.d.p. esistente fra i poli della pila (a 25 8C) eÁ pari a 1,53 V. Facendo poi passare corrente con intensitaÁ molto piccola, quando nel circuito esterno eÁ passata una quantitaÁ di
carica pari a 96 487 C, al polo negativo eÁ passato in soluzione un equivalente di zinco, e al
polo positivo un equivalente di sale ferrico eÁ stato ridotto a ferroso, per cui il lavoro
elettrico fornito dalla pila eÁ dato da:
L ˆ q V ˆ 96 487 1,53 ˆ 147 625 J
Questo significa che, senza il dispositivo della pila, la reazione:
Zn ‡ 2 Fe3‡ ! Zn2‡ ‡ 2 Fe2‡
avviene spontaneamente con sviluppo di calore pari a circa 125 500 J (DH ˆ 125 500 J),
mentre con un simile dispositivo, eÁ possibile ottenere un lavoro elettrico di 147 625 J;
quindi:
DG ˆ 147 625 J
DH ˆ 125 500 J
La differenza:
DH DG ˆ 125 500 ( 147 625) ˆ ‡ 22 125 J
corrisponderaÁ a TDS, in base alla relazione:
DG ˆ DH
TDS
cioeÁ:
TDS ˆ ‡22 125 J
da cui, poiche T ˆ 298 K:
DS ˆ ‡74,24 J/K
In questo caso, il termine TDS (energia vincolata, cioeÁ calore positivo assorbito dall'esterno) si sommeraÁ alla variazione di entalpia DH, per determinare la variazione di energia
libera:
DG ˆ DH TDS
147 625 125 500
298 (‡74,24)
333
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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27. Conversione dell'energia chimica in energia elettrica
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6
Il lavoro fornito dal sistema eÁ percioÁ dovuto non solo all'energia termica sviluppata, ma
anche all'aumento di entropia che si determina per il fatto che nella reazione un solido
cristallino (lo zinco metallico) si scioglie, passando allo stato di ione idratato disperso nel
solvente. Possiamo affermare quindi che l'aumento del disordine del sistema contribuisce
alla spontaneitaÁ del processo; in questo caso, sia il fattore energetico (DH) sia quello
entropico (DS) agiscono nello stesso senso, ovvero spingono il sistema verso la formazione
dei prodotti finali, cioeÁ favoriscono la reazione.
Infine, poiche la variazione di energia libera del sistema chimico si identifica con il
lavoro utile messo in gioco, ne consegue che quando la reazione globale che si verifica
nella pila eÁ pervenuta all'equilibrio …DG ˆ 0†, la pila eÁ scarica in quanto, essendo DG ˆ 0,
deve essere Lu ˆ 0.
EQUAZIONE DI NERNST
Indicando con E la differenza fra il potenziale elettrico assunto dalla lamina e quello
assunto dal velo della soluzione degli ioni del metallo in cui essa eÁ immersa, eÁ possibile
ricavare una relazione che lega il potenziale E della semicella con la temperatura e con la
concentrazione degli ioni nella soluzione.
Ammettendo infatti che la reazione elettrodica sia quella del passaggio di ioni metallici
allo stato di atomi del metallo secondo la semireazione diretta di riduzione:
Men‡ ‡ n e ! Me
applicando l'equazione di van't Hoff otteniamo:
DG ˆ DG8 ‡ RT ln
[Me]
[Men‡ ]
(27:6)
in cui DG eÁ la variazione di energia libera della semireazione, [Men‡ ] e [Me] sono le
concentrazioni molari di equilibrio delle sostanze contenute nella semicella, DG8 eÁ la
variazione di energia libera standard della semireazione, cioeÁ la variazione di energia libera
quando le concentrazioni delle sostanze assumono valore unitario, R eÁ la costante universale dei gas e T eÁ la temperatura assoluta.12
Poiche DG si identifica con il lavoro utile scambiato nel processo, e poiche una forma
di lavoro utile eÁ quella elettrica, che eÁ ottenuta dal prodotto della carica elettrica totale (q)
per la d.d.p. (V) attraverso cui essa si eÁ trasferita, essendo:
DG ˆ
possiamo scrivere:
DG ˆ
Lu
(q V )
(27:7)
Quando nella semireazione considerata una mole di cationi metallici passa allo stato di
atomi di metallo, la carica elettrica totale che si trasferisce attraverso la d.d.p. E (metallo12
Si ribadisce che, rigorosamente, al posto delle concentrazioni molari delle specie chimiche che compaiono nella
(27.6), dovrebbero essere indicate le attivitaÁ a da esse assunte nella soluzione, intendendo, per attivitaÁ, l'effettiva
concentrazione della specie chimica che prende parte attiva alla reazione. In una soluzione, l'attivitaÁ di un soluto eÁ
uguale al prodotto della sua concentrazione molare per un coefficiente f detto coefficiente di attivitaÁ, e cioeÁ:
aˆCf
In soluzioni molto diluite (concentrazione minore di 10 2 M), si assume f ˆ 1, e pertanto in questi casi l'attivitaÁ coincide
con la concentrazione molare C del soluto.
Per i liquidi puri e per i solidi puri si eÁ assunto convenzionalmente che la loro attivitaÁ sia unitaria quando essi si
trovano nei rispettivi stati standard, intendendo per stato standard di una specie chimica pura, lo stato di aggregazione
piuÁ stabile che essa ha alla temperatura di 25 8C e sotto la pressione di 1 atm.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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6. Equazione di Nernst
soluzione) eÁ uguale a nF, in cui n eÁ la valenza del catione, mentre F (costante di
Faraday) eÁ la carica elettrica totale uguale a 96 487 C (valore arrotondato a 96 500 C) trasportata da un grammo-equivalente di ioni.13 Pertanto, sostituendo nella (27.7) al posto
di V il potenziale E dell'elettrodo, e al posto di q la carica elettrica totale nF trasferita per
il passaggio di una mole di cationi dalla soluzione allo stato metallico, otteniamo:
DG ˆ
nFE
(27:8)
e sostituendo questo risultato nella (27.6) si ha:
nFE ˆ DG8 ‡ RT ln
e cambiando di segno:
nFE ˆ
DG8
RT ln
[Me]
[Men‡ ]
[Me]
[Men‡ ]
(27:9)
Dato che il metallo eÁ un solido puro, la sua concentrazione (attivitaÁ) viene posta convenzionalmente uguale a uno, e pertanto la (27.9) diventa:
Eˆ
DG8 RT
‡
ln [Men‡ ]
nF
nF
(27:10)
Poiche il valore DG8 di una data reazione dipende solo dalla temperatura, il primo
termine al secondo membro della (27.10), a temperatura costante, eÁ una costante caratteristica di ogni reazione in quanto anche n ed F sono costanti; quindi ponendo:
DG8
ˆ E8 (costante)
nF
(27:11)
otteniamo che il potenziale (E) dell'elettrodo viene espresso matematicamente dalla relazione:
RT
(27:12)
ln [Men‡ ]
E ˆ E8 ‡
nF
che eÁ la nota equazione di Nernst.14
13
Infatti, poiche la carica elettrica elementare (positiva o negativa) trasportata da uno ione monovalente positivo
(per esempio, Na‡ ) o negativo (per esempio, Cl ) eÁ:
1,602 10
19
C (carica dell'elettrone)
e poiche un grammo-equivalente (un equivalente) di ioni monovalenti eÁ numericamente uguale a una mole di atomi, e
cioeÁ a un numero di Avogadro (NA ) di atomi:
NA ˆ 6,023 1023 atomi
un equivalente di ioni monovalenti trasporta la carica elettrica totale:
q ˆ 1,602 10
19
6,023 1023 ˆ 96 487 C
Nel caso di ioni bivalenti, un equivalente di essi eÁ numericamente uguale alla metaÁ di una mole di atomi e cioeÁ alla metaÁ di
un numero di Avogadro di atomi:
6,023 1023
ˆ 3,0115 1023 cationi bivalenti
2
e poiche ogni ione bivalente trasporta una carica doppia di quella dell'elettrone, la carica elettrica totale trasportata da un
equivalente di ioni bivalenti eÁ:
6,023 1023
ˆ 96 487 C
q ˆ …2 1; 602 10 19 † 2
e cosõÁ via.
Pertanto la carica elettrica totale trasportata da un grammo-equivalente di ioni, qualunque ne sia la valenza ionica, eÁ
sempre uguale a 96 487 C. Questa quantitaÁ di elettricitaÁ viene denominata faraday (F):
1 F ˆ 96 487 C=eq (valore arrotondato a 96 500 C=eq)
EÁ chiaro, a questo punto, che una mole di ioni monovalenti (6,023 1023 ioni) la cui valenza ionica (n) eÁ uguale a uno,
trasporta la carica elettrica totale di nF coulomb, e cioeÁ di 96 487 C; mentre una mole di ioni bivalenti, e cioeÁ un numero
di Avogadro di ioni la cui valenza ionica (n) eÁ uguale a due, trasporta la carica elettrica totale doppia, e cioeÁ (96 487 2)
coulomb ˆ 192 974 C; e cosõÁ via.
14
Walther Hermann Nernst (1864-1941), chimico e fisico tedesco, premio Nobel nel 1920.
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27. Conversione dell'energia chimica in energia elettrica
Questa equazione, generalizzata a una qualsiasi semireazione di riduzione del tipo:
a Ox ‡ n e ! b Rid
Zn2‡ ‡ 2 e ! Zn
che avviene in una semicella galvanica, assume la forma generale:
E ˆ E8 ‡
in cui:
RT
[Ox]a
ln
nF
[Rid]b
(27:13)
[Ox]a ˆ concentrazione molare (attivitaÁ) di equilibrio di tutte le sostanze che acquistano
elettroni (le cosiddette forme ossidate); mentre a eÁ il relativo coefficiente stechiometrico nella semireazione bilanciata;
[Rid]b ˆ concentrazione molare (attivitaÁ) di equilibrio di tutte le sostanze che cedono
elettroni (le cosiddette forme ridotte); mentre b eÁ il relativo coefficiente stechiometrico nella semireazione bilanciata;
E ˆ potenziale di riduzione dell'elettrodo perche legato a una semireazione diretta di
riduzione;
E8ˆ potenziale standard o potenziale normale di riduzione dell'elettrodo, cioeÁ il valore
del potenziale dell'elettrodo quando le concentrazioni (attivitaÁ) di equilibrio delle
forme ossidate e delle forme ridotte contenute nella semicella sono uguali a uno (le
specie chimiche sono in equilibrio nei rispettivi stati standard);
R ˆ costante universale dei gas;
T ˆ temperatura assoluta;
n ˆ numero di moli di elettroni trasferiti nella semireazione elettrodica,15 o anche il
numero di equivalenti per mole di sostanza (n ˆ eq/mol);
F ˆ un faraday, e cioeÁ 96 500 C (coulomb) per equivalente di sostanza (C/eq);
ln ˆ logaritmo naturale.
Per esempio, il potenziale di riduzione di un semielemento galvanico nel quale si trovano
in equilibrio le seguenti specie chimiche:
MnO ‡ 8 H‡ ‡ 5 e ! Mn2‡ ‡ 4 H2 O
4
viene cosõÁ formulato:
E ˆ E8 ‡
[MnO4 ] [H‡ ]8
RT
ln
5F
[Mn2‡ ] [H2 O]4
Ammettendo poi che nella semicella la soluzione acquosa sia molto diluita, per cui si puoÁ
considerare uguale a uno l'attivitaÁ del solvente (acqua pura), possiamo scrivere:
[MnO4 ] [H‡ ]8
RT
ln
5F
[Mn2‡ ]
Dato che una pila, denominata anche elemento galvanico o cella galvanica, eÁ formata dal
collegamento di due semielementi galvanici, eÁ possibile calcolare teoricamente la d.d.p.
(Ecella ) esistente fra i poli della pila applicando la formula di Nernst separatamente ai due
elettrodi, e sottraendo poi dal potenziale dell'elettrodo numericamente maggiore (E‡ ), il
potenziale dell'elettrodo numericamente minore (E ), e cioeÁ:
E ˆ E8 ‡
Ecella ˆ E‡
E
15
Il numero n si identifica con la valenza del catione se la semireazione elettrodica eÁ del tipo:
(n ˆ 3)
Fe3‡ ‡ 3 e ! Fe
Se invece la semireazione elettrodica eÁ del tipo:
Fe3‡ ‡ 1 e ! Fe2‡ (n ˆ 1)
il numero n si identifica con il numero di moli di elettroni trasferite nella semireazione.
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7. Calcolo del potenziale relativo dell'elettrodo
...........................................................................................................................................................................................
7
Nel seguire questa regola eÁ necessario calcolare i potenziali dei due elettrodi (E‡ ed E )
tutti e due come potenziali di riduzione, altrimenti, come meglio saraÁ mostrato in seguito,
si perverrebbe a risultati teorici contrastanti con quelli osservati sperimentalmente. Da
ora in poi, in base a una convenzione internazionale sulla quale avremo occasione di
soffermarci, calcoleremo separatamente i potenziali degli elettrodi applicando la formula
di Nernst (27.13), e cioeÁ ammetteremo che nelle due semicelle si verifichino semireazioni
di riduzione. Si noti, infine, che se ci riferiamo alla temperatura di 25 8C, per cui T ˆ 298
K, e dato che:
R ˆ 8,309 J K 1 mol
F ˆ 96 500 C/eq
n ˆ eq/mol
risulta:16
1
ˆ 8,309 V C K
1
mol
1
RT
8,309 298
0,059
ln ˆ
2,3 log ˆ
log
nF
n 96 500
n
e pertanto a 25 8C il potenziale di riduzione di un elettrodo si calcola con la formula di
Nernst:
0,059
[Ox]a
(27:14)
log
E ˆ E8 ‡
n
[Rid]b
CALCOLO DEL POTENZIALE RELATIVO DELL'ELETTRODO
Mediante la formula di Nernst non eÁ possibile calcolare teoricamente il valore assoluto del
potenziale E dell'elettrodo in quanto non eÁ noto il valore assoluto del potenziale standard E8;
d'altra parte, non eÁ possibile in alcun modo effettuarne la misura sperimentale diretta in
quanto un qualunque dispositivo adatto allo scopo, per esempio un voltmetro, dovrebbe
essere collegato mediante un terminale metallico con la lamina del metallo che fa parte della
semicella galvanica, mentre l'altro terminale dovrebbe essere introdotto nella soluzione per
stabilire il contatto con lo strato delle cariche elettriche distribuite nell'interfase metallosoluzione. Ebbene, in quest'ultimo caso, si viene a creare, per il fenomeno giaÁ visto in
precedenza, un altro doppio strato elettrico terminale dello strumento/soluzione, e pertanto la
d.d.p. misurata eÁ quella esistente fra i due metalli immersi nella stessa soluzione, e cioeÁ fra la
lamina dell'elettrodo e il terminale dello strumento, e non quella che ci eravamo proposti di
misurare.
Per superare questo ostacolo, si eÁ convenuto di misurare la d.d.p. esistente ai poli di
una pila particolare formata dal collegamento di due elettrodi, uno dei quali eÁ quello a
potenziale incognito e l'altro eÁ invece un elettrodo di riferimento o standard, al quale per
convenzione eÁ stato assegnato un potenziale uguale a zero a tutte le temperature. Con questo artificio, il dato della d.d.p. esistente ai poli della pila coincide senz'altro con il potenziale dell'elettrodo in esame, ma il suo valore numerico non eÁ quello assoluto, bensõÁ
quello relativo al potenziale dell'elettrodo di riferimento.
L'elettrodo standard eÁ formato da una soluzione acquosa di ioni H‡ (H3 O‡ ) in concentrazione 1 M (HCl 1 M) in cui «pesca» una lamina di platino platinato sulla quale gorgoglia idrogeno gassoso con pressione di 1 atm; esso viene denominato elettrodo standard o
elettrodo normale a idrogeno (S.H.E. ˆ standard hydrogen electrode).17
16
Esprimendo le grandezze R, T, n ed F nelle unitaÁ di misura sopra precisate, il rapporto 0,059/n risulta espresso in
volt; il simbolo n che compare al denominatore della frazione eÁ quello di un numero adimensionale che coincide con il
numero di moli di elettroni messo in gioco nella semireazione elettrodica.
17
In seguito ne illustreremo le caratteristiche costruttive.
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.............................................................
27. Conversione dell'energia chimica in energia elettrica
Figura 27.9
Elettrodo di prima
specie.
.........................................................................................................................................................................................................................................................
8
EÁ bene sottolineare che la d.d.p. esistente ai poli di una pila deve essere misurata a circuito
aperto, e cioeÁ in condizioni tali che essa non eroghi corrente; infatti, se si usasse un comune
voltmetro, questo per funzionare assorbirebbe una certa quantitaÁ di corrente che dovrebbe
essere fornita dalla pila, e pertanto verrebbero alterati gli equilibri elettrodici preesistenti, con
conseguente variazione della concentrazione degli ioni contenuti nelle due semicelle e quindi
del potenziale di ciascun elettrodo. Anche questa difficoltaÁ eÁ stata superata con l'impiego di
particolari strumenti (i potenziometri e i voltmetri elettronici) con i quali viene misurata, a
circuito aperto, la massima d.d.p. esistente ai poli della pila. Questa grandezza prende il nome
di forza elettromotrice della pila ( f.e.m.) e viene simboleggiata con Ecella .
TIPI DI ELETTRODI
In elettrochimica si definisce comunemente elettrodo, un sistema formato da un conduttore
di prima classe (metallo, lega metallica, grafite ecc.) immerso parzialmente in una fase a
conduzione ionica e cioeÁ in una soluzione, generalmente acquosa, di un conduttore di seconda classe (di un elettrolita).
In base alla definizione data, gli elettrodi piuÁ comuni vengono classificati in:
.
.
.
.
elettrodi di prima specie;
elettrodi di seconda specie;
elettrodi di terza specie;
elettrodi a gas.
Gli elettrodi di prima specie sono formati dalla lamina di un metallo immersa parzialmente
in una soluzione acquosa contenente gli ioni dello stesso metallo: per esempio una lamina
di argento in una soluzione di ioni Ag‡ (fig. 27.9).
terminale
Ag
Ag+
Simboleggiatura dell'elettrodo:18
Ag+
Ag/Ag‡
Reazione elettrodica di riduzione:
Ag‡ ‡ 1 e ! Ag
Potenziale di riduzione dell'elettrodo a 25 8C:
E ˆ E8 ‡ 0,059 log [Ag‡ ]
Gli elettrodi di seconda specie sono formati dalla lamina di un metallo ricoperta con uno
strato di sale poco solubile del metallo, il tutto immerso nella soluzione contenente gli
18
La linea inclinata (/) fra il simbolo chimico o la formula chimica delle diverse sostanze contenute nella semicella
galvanica indica un contatto fra un solido e un liquido, oppure fra un solido e un gas, oppure fra due solidi, ecc.
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 27.10
........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
8. Tipi di elettrodi
anioni del sale poco solubile: per esempio una lamina di argento ricoperta di cloruro di
argento immersa in una soluzione di anioni cloridrici (fig. 27.10).
terminale
Ag
Elettrodo di seconda
specie.
Figura 27.11
Elettrodo di terza
specie o redox.
AgCl
Cl–
Cl–
Simboleggiatura dell'elettrodo: Ag/AgCl/Cl . Reazione elettrodica di riduzione:
AgCl ‡ 1 e ! Ag ‡ Cl
nella quale compaiono appunto tutte le sostanze che formano l'elettrodo.
Potenziale di riduzione dell'elettrodo a 25 8C:
E ˆ E8 ‡ 0,059 log
[AgCl]
[Ag] [Cl ]
PoicheÂ
[AgCl] ˆ 1 (solido cristallino)
[Ag] ˆ 1 (metallo puro)
la precedente relazione diventa:
E ˆ E8
0,059 log [Cl ]
Gli elettrodi di terza specie, detti anche elettrodi redox, sono formati da una lamina di
metallo inerte19 immersa parzialmente in una soluzione contenente contemporaneamente
la forma ossidata e la forma ridotta di una medesima sostanza: per esempio una lamina di
platino in una soluzione contenente ioni ferrici (Fe3‡ ) e ioni ferrosi (Fe2‡ ) (fig. 27.11).
terminale
Pt
Fe3+
Fe2+
Simboleggiatura dell'elettrodo: Pt/Fe3‡ ; Fe2‡ . Reazione elettrodica di riduzione:
Fe3‡ ‡ 1 e ! Fe2‡
Potenziale di riduzione dell'elettrodo a 25 8C:
E ˆ E8 ‡ 0,059 log
[Fe3‡ ]
[Fe2‡ ]
Gli elettrodi a gas sono formati dalla lamina di un metallo inerte20 (generalmente di
platino) in contatto diretto sia con le molecole di un gas, sia con gli ioni del gas contenuti
19
La lamina di metallo inerte, sebbene costituisca una delle fasi dell'elettrodo, tuttavia non partecipa alla reazione
elettrodica ed ha la sola funzione di prelevare elettroni dagli ioni in soluzione o fornirli ad essa.
20
La lamina esplica la stessa funzione indicata nella nota precedente.
339
Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 27.12
Elettrodo a gas.
Figura 27.13
..........................................................................................................................................................................................................................................
27. Conversione dell'energia chimica in energia elettrica
in una soluzione acquosa: per esempio una lamina di platino in contatto con molecole di
idrogeno gassoso e con ioni H‡ (H3 O‡ ) (fig. 27.12).
terminale
Pt
H+
H2(g)
H+
Simboleggiatura dell'elettrodo: Pt/H2(g) /H‡ . Reazione elettrodica di riduzione:
2 H‡ ‡ 2 e ! H2(g)
Potenziale di riduzione dell'elettrodo a 25 8C:21
E ˆ E8 ‡
0,059
[H‡ ]2
log
PH2
2
Agli elettrodi a gas appartiene l'elettrodo standard a idrogeno (S.H.E.) usato come
elettrodo di riferimento, come giaÁ visto (fig. 27.13).
terminale
Elettrodo standard a
idrogeno.
...........................................................................
9
H2(g) (1atm)
H2(g) (1atm)
sifone per
il collegamento
con l’altra
semicella
lamina di platino
soluzione acida
([H+] = 1M)
L'elettrodo viene cosõÁ schematizzato:
Pt/H2 (1 atm)/H‡ (1 M)
LA SERIE DEI POTENZIALI NORMALI O POTENZIALI STANDARD
DI RIDUZIONE DEGLI ELETTRODI
Collegando l'elettrodo standard a idrogeno (S.H.E.) con uno degli elettrodi sopra elencati,
nei quali le concentrazioni di equilibrio delle specie chimiche partecipanti alla reazione
elettrodica siano unitarie, e cioeÁ nei rispettivi stati standard, e misurando la f.e.m. della
pila cosõÁ formata,22 eÁ stato possibile tabellare i dati sperimentali dei potenziali standard E8
di un gran numero di elettrodi, i cui valori, come abbiamo giaÁ detto, sono relativi al
potenziale dell'elettrodo di riferimento.
21
22
In prima approssimazione si puoÁ identificare l'attivitaÁ di un gas reale con la sua pressione espressa in atmosfere.
Durante questa misura la pila ovviamente non deve erogare corrente.
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9. La serie dei potenziali normali o potenziali standard di riduzione degli elettrodi
Per esempio, a 25 8C, la f.e.m. di una pila formata da un elettrodo standard di zinco
(forma ossidata costituita da ioni Zn2‡ in concentrazione 1 M e forma ridotta da Zn metallico in concentrazione unitaria per convenzione), e da un elettrodo standard a idrogeno eÁ di 0,76 V. PoicheÂ, per quanto giaÁ detto, la f.e.m. di una pila si ottiene sottraendo
dal potenziale dell'elettrodo numericamente maggiore (E‡ ), quello dell'elettrodo numericamente minore (E ), e cioeÁ:
Ecella ˆ E‡
E
applicando questa relazione al caso in esame, e trattandosi di potenziali standard degli
elettrodi, possiamo scrivere:
Ecella ˆ E8(‡)
E8(
)
ma dato che:
Ecella ˆ 0,76 V
otteniamo:
0,76 ˆ E8(‡)
E8(
)
Ma il potenziale standard dell'elettrodo di riferimento eÁ uguale a zero (per convenzione), e
pertanto 0,76 V eÁ il potenziale standard dell'elettrodo in esame.
Il segno positivo o negativo che precede il valore numerico del potenziale standard
(E8) dell'elettrodo in esame viene stabilito seguendo il criterio esposto di seguito.
Se, facendo funzionare la pila, l'elettrodo in esame ha minore tendenza ad acquistare
elettroni rispetto a quello di riferimento, il suo potenziale standard viene fatto precedere
dal segno negativo; inversamente, se l'elettrodo in esame ha maggiore tendenza ad acquistare elettroni rispetto a quello di riferimento, il suo potenziale standard viene fatto precedere dal segno positivo.
In base a questo criterio, il segno negativo ha il significato di una minore tendenza a
ridursi degli ioni contenuti nella semicella in esame rispetto agli ioni H‡ contenuti in
quella standard, e pertanto il verso reale della corrente elettrica nel circuito esterno eÁ:
e
( ) elettrodo in esame ! elettrodo standard (‡)
Ovviamente, il segno positivo che precede il valore numerico del potenziale standard
dell'elettrodo ha il significato di una maggiore tendenza a ridursi degli ioni contenuti nella
semicella in esame rispetto agli ioni H‡ contenuti in quella standard, e pertanto il flusso di
elettroni nel circuito esterno della pila eÁ invertito, e cioeÁ:
e
( ) elettrodo standard ! elettrodo in esame (‡)
Con questo criterio, basato sulla capacitaÁ di ridursi (di acquistare elettroni) delle specie
chimiche contenute nella semicella in esame, le semireazioni elettrodiche vengono sempre
scritte nel verso di una riduzione:
a Ox ‡ n e ! b Rid
Se ora riprendiamo in esame la pila formata dall'elettrodo standard di zinco e da quello
standard di idrogeno, durante il funzionamento della pila si verificano agli elettrodi le due
semireazioni spontanee:
anodo ( )
Zn ! Zn2‡ ‡ 2 e
(ossidazione)
catodo (‡)
2 H‡ ‡ 2 e ! H2(g)
(riduzione)
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...................................................................................................................................................................................................
27. Conversione dell'energia chimica in energia elettrica
www.online.zanichelli.it/pasquettopatrone
APPENDICE TABELLE
Figura 27.14
.......................................................................................................................
10
dalle quali risulta che l'elettrodo di zinco ha minore tendenza a ridursi rispetto agli
ioni H‡ . Pertanto il potenziale standard 0,76 V calcolato rispetto a quello di riferimento, in base al criterio esposto (minore tendenza ad acquistare elettroni), viene
fatto precedere dal segno negativo; quindi la semireazione elettrodica relativa viene
scritta nel verso di una riduzione, e il potenziale standard del semielemento viene
detto di riduzione:
Zn2‡ ‡ 2 e ! Zn
E8 ˆ
0,76 V
Lo stesso procedimento, con il quale eÁ stato tabellato a 25 8C il potenziale standard di
riduzione dell'elettrodo di zinco, puoÁ essere seguito per tutti gli altri elettrodi. Infatti, se
colleghiamo un elettrodo standard di rame, formato da una lamina di rame metallico
immersa parzialmente in una soluzione di CuSO4 1 M con un elettrodo standard di
idrogeno, e misuriamo a 25 8C la f.e.m. della pila, otteniamo il valore di 0,34 V. Poiche il
potenziale dell'elettrodo di riferimento eÁ uguale a zero (per convenzione), il potenziale
standard dell'elettrodo di rame eÁ 0,34 V. Per stabilirne il segno, si fa funzionare la pila, e si
puoÁ osservare che si verificano spontaneamente le due semireazioni elettrodiche:
anodo ( )
H2(g) ! 2 H‡ ‡ 2 e
(ossidazione)
catodo (‡)
Cu2‡ ‡ 2 e ! Cu
(riduzione)
dalle quali risulta che gli ioni Cu2‡ hanno maggiore tendenza a ridursi (ad acquistare
elettroni) rispetto agli ioni H‡ . Pertanto il potenziale standard di riduzione dell'elettrodo
di rame viene fatto precedere dal segno positivo:
Cu2‡ ‡ 2 e ! Cu
E8 ˆ ‡0,34 V
Il criterio qui esposto e cioeÁ quello dei potenziali standard di riduzione eÁ quello raccomandato nella conferenza di Stoccolma del 1953 dall'Unione Internazionale di Chimica
Pura e Applicata (I.U.P.A.C.) ed eÁ quello ormai universalmente adottato. Nella tabella A.4
nell'Appendice online sono elencati i potenziali standard di riduzione di alcuni elettrodi,
alla temperatura di 25 8C.
CALCOLO TEORICO DELLA F.E.M. DI UNA PILA
Se colleghiamo con un ponte salino l'elettrodo di prima specie Al/Al3‡ (10 1 M) con
l'elettrodo di terza specie Pt/Fe3‡ (10 1 M)/Fe2‡ (10 2 M) si ottiene una pila la cui f.e.m.
(Ecella ) si calcola teoricamente, in base alla regola che giaÁ conosciamo, sottraendo dal
potenziale dell'elettrodo con potenziale di riduzione piuÁ positivo (0,83 V), quello dell'elettrodo con potenziale di riduzione meno positivo ( 1,68 V), e cioeÁ:
Ecella ˆ E‡ E
e dato che:
E‡ ˆ 0,83 V
E ˆ
1,68 V
e
Elemento galvanico o
pila.
ponte
salino
Pt
Al
Al3+
Al3+
Fe2+
Fe3+
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
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11. ProprietaÁ ossidanti e riducenti dei sistemi redox
...............................................................................................................................................................................................
11
risulta:
Ecella ˆ 0,83
( 1,68) ˆ 2,51 V
Se poi cortocircuitiamo i due elettrodi con un conduttore metallico esterno, si verifica un
flusso di elettroni diretti, esternamente al circuito, dalla barretta di alluminio a quella di
platino (fig. 27.14), e questo percheÂ, piuÁ eÁ positivo il potenziale di riduzione di un semielemento, maggiore eÁ la sua capacitaÁ di ridursi, e cioeÁ di acquisire elettroni. Pertanto l'elettrodo:
Pt/Fe3‡ ; Fe2‡
il cui potenziale di riduzione eÁ pari a 0,83 V, sottrae elettroni all'elettrodo Al/Al3‡ il cui
potenziale di riduzione eÁ pari a 1,68 V (meno positivo); quest'ultimo eÁ pertanto il polo
negativo della pila che viene cosõÁ schematizzata:
( )Al/Al3‡ (10
1
M)//Fe2‡ (10
2
M); Fe3‡ (10
1
M)/Pt(‡)
(Si noti che, nella schematizzazione di una pila, per convenzione viene scritto a sinistra
sempre il polo negativo, mentre il ponte salino viene simboleggiato con due segmenti
paralleli.)
PROPRIETAÁ OSSIDANTI E RIDUCENTI DEI SISTEMI REDOX
Per valutare teoricamente le proprietaÁ ossidanti o riducenti di un sistema chimico nei
confronti di un altro, eÁ molto utile, almeno in prima approssimazione, confrontare i
rispettivi potenziali standard di riduzione. Infatti abbiamo giaÁ avuto occasione di sottolineare che quanto piuÁ positivo (meno negativo) eÁ il potenziale di riduzione di un dato sistema redox rispetto ad un altro, tanto piuÁ questo ha la capacitaÁ di sottrargli elettroni; pertanto, riferendoci ai potenziali standard tabellati a 25 8C, le proprietaÁ ossidanti
di un sistema sono tanto maggiori quanto piuÁ positivo eÁ il suo potenziale standard di riduzione.
Per esempio, confrontando a 25 8C i due sistemi redox:
Ag‡ ‡ 1 e ! Ag
E8 ˆ 0,80 V
Cu2‡ ‡ 2 e ! Cu
E8 ˆ 0,34 V
possiamo prevedere che fra le due specie chimiche, e cioeÁ ioni Ag‡ e ioni Cu2‡ , hanno maggiore capacitaÁ di assumere elettroni, e cioeÁ di ridursi, gli ioni Ag‡ che non quelli Cu2‡ .
Pertanto, se introduciamo dell'argento metallico in una soluzione 1 M di nitrato rameico,
non si verificheraÁ mai spontaneamente il processo redox:
2 Ag ‡ Cu (NO3 )2 ! 2 AgNO3 ‡ Cu
in quanto questa reazione, dovendo essere il risultato della somma delle due semireazioni:
2 Ag ! 2 Ag‡ ‡ 2 e
2‡
Cu
totale
‡ 2 e ! Cu
(ossidazione)
(riduzione)
2 Ag ‡ Cu2‡ ! 2 Ag‡ ‡ Cu
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Pasquetto, Patrone FONDAMENTI DI CHIMICA FISICA © Zanichelli 2012
Figura 27.15
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27. Conversione dell'energia chimica in energia elettrica
eÁ in contrasto con i dati dei potenziali standard tabellati dei due sistemi, in base ai quali
devono essere gli ioni Ag‡ ad assumere elettroni nei confronti degli ioni Cu2‡ .
Invece eÁ termodinamicamente spontaneo il processo inverso, e cioeÁ:
2 AgNO3 ‡ Cu ! Cu(NO3 )2 ‡ 2 Ag
in quanto eÁ il risultato delle due semireazioni:
2 Ag‡ ‡ 2 e ! 2 Ag
2‡
Cu ! Cu
totale
....................................................................
‡ 2e
(ossidazione)
2 Ag ‡ ‡ Cu ! Cu2‡ ‡ 2 Ag
in coerenza con i potenziali standard di riduzione dei due sistemi.
Questa conclusione, alla quale siamo pervenuti teoricamente, puoÁ essere confermata con
una esperienza semplicissima. Infatti, se formiamo una pila collegando due elettrodi, uno
dei quali sia costituito da una lamina di argento immersa parzialmente in una soluzione 1M
di ioni Ag‡ , e l'altro da una lamina di rame immersa parzialmente in una soluzione 1M di
ioni Cu2‡ , e colleghiamo i due semielementi con un conduttore metallico esterno, avvengono spontaneamente le due semireazioni:
Ag‡ ‡ 1 e ! Ag
Cu ! Cu2‡ ‡ 2 e
totale
(riduzione)
(ossidazione)
2 Ag‡ ‡ Cu ! 2 Ag ‡ Cu2‡
La pila in questione eÁ riprodotta nella figura 27.15 e puoÁ essere cosõÁ schematizzata:
( )Cu/Cu2‡ (1 M)//Ag‡ (1 M)/Ag (‡)
e
Elemento galvanico o
pila.
12
(riduz
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