ISTITUTO STATALE D`ARTE “San Leucio” Caserta

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ISTITUTO STATALE D’ARTE “San Leucio”
Caserta
Anno Scolastico 2014/2015
CLASSI SECONDE
Motivazioni didattiche
L’itinerario proposto si colloca all’interno dei percorsi didattici curricolari delle classi seconde e
coinvolge diverse discipline, dalla storia alla storia dell’arte, e le tematiche affrontate dalle
discipline d’indirizzo di tutte le sezioni, ordinamentali e sperimentali.
L’itinerario focalizza l’attenzione sull’arte nel periodo compreso fra il Duecento e il Cinquecento,
con particolare attenzione agli affreschi di Giotto della Cappella Scrovegni e al Classicismo tardo
rinascimentale del Palladio. Prevede, inoltre, una tappa nella ridente cittadina umbra di Orvieto, per
visitare il Duomo gotico con i meravigliosi affreschi di Luca Signorelli, e la fruizione delle
emergenze più importanti di città d’arte quali Verona, Vicenza e Padova.
INDICAZIONI GENERALI
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Il viaggio prevede un soggiorno di quattro giorni (tre pernottamenti), nel periodo 10-13
aprile 2015.
gruppo di 50 studenti + 5 accompagnatori;
viaggio in bus;
sistemazione in un unico albergo a tre stelle ubicato a Sottomarina di Chioggia (VE);
visitare;
servizio di carico e scarico nel centro delle città, il più possibile vicino ai luoghi da visitare
nella giornata, come da programma.
sistemazione in stanze al massimo quadruple per gli alunni e singole per gli accompagnatori;
trattamento di pensione completa (solo cena il primo giorno, 10 aprile; mezza pensione
l’ultimo giorno, 13 aprile);
pranzi e servizi come da programma;
guide qualificate per le visite alle città, così come indicato nel programma;
copertura assicurativa per tutta la durata del viaggio.
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Itinerario di visita
I giorno (venerdì 10 aprile)
- Partenza da San Leucio (viaggio in bus): alle ore 7.00.
- Sosta (pranzo a sacco a carico dei partecipanti) a Orvieto. Visita guidata (con guida fornita
dall’agenzia) al Duomo, con particolare attenzione agli affreschi di Luca Signorelli.
- Nel tardo pomeriggio arrivo in Veneto, sistemazione in albergo e cena
II giorno (sabato 11 aprile)
- Prima colazione e cena in albergo. Pranzo in ristorante in località prossima ai luoghi da
visitare.
- Partenza da Sottomarina alle ore 8;00.
- Arrivo a Verona presumibilmente alle ore 10;00.
- Intera giornata: visita guidata alla città di Verona. (Arena, Basilica di San Zeno, casa di Giulietta).
Guide a carico dell’agenzia, prenotazioni a carico dell’agenzia, ingressi a carico degli
alunni.
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Rientro in albergo e cena alle 21;00.
III giorno (domenica 12 aprile)
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Prima colazione e cena in albergo. Pranzo in ristorante in località prossima ai luoghi da visitare.
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Partenza da Sottomarina alle ore 8;30.
In mattinata visita guidata (guide fornita dall’agenzia) alla città di Vicenza, con particolare
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riguardo agli edifici progettati dal Palladio. Alle ore 11;00 visita guidata al Teatro Olimpico del
Palladio (guida, prenotazione e ingressi a carico dell’agenzia);
Nel pomeriggio trasferimento a Padova e visita guidata alla Cappella degli Scrovegni
affrescata da Giotto. Arrivo presso la Cappella degli Scrovegni entro e non oltre le ore
16;00. Ingressi: 1° gruppo di 24 alunni + guida alle ore 16;30; 2° gruppo di 19 alunni e
docenti + guida alle ore 16;45; 3° gruppo di 12 alunni e docenti + guida alle ore 17;00.
Ingressi prepagati dalla scuola. CODICE TRANSAZIONE: TLITE0529893381768
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IV giorno (13 aprile)
- Prima colazione in albergo. Pranzo ad Arezzo.
- Ore 8;00 partenza per Caserta.
- Sosta per il pranzo ad Arezzo e breve visita libera della città.
- Arrivo a Caserta in tarda serata.
- Per ingresso alla Casa di Giulietta a Verona: biglietto ridotto per scolaresche, 1 euro
Non necessarie prenotazioni. Informazioni al
045 8034303
- Per ingresso all’Arena di Verona: biglietto ridotto per scolaresche, 1 euro
Prenotazioni al
045 8003204
- Per ingresso alla Basilica di San Zeno a Verona: biglietto ridotto per scolaresche, 2
euro
Prenotazioni al 045.592813
- Per ingresso al Teatro Olimpico del Palladio a Vicenza : biglietto ridotto per
scolaresche, 2 euro
Prenotazioni al 041 2719044
Primo giorno: Caserta/Orvieto/Sottomarina
Il Duomo di Orvieto
Gioiello dell'arte gotica italiana, fu costruito sulle fondamenta di un tempio etrusco, dopo che erano state
demolite la cattedrale di Santa Maria e la chiesetta di San Costanzo. La costruzione del Duomo, iniziata nel
1290, nacque dal bisogno di custodire il lino insanguinato del Miracolo di Bolsena e, soprattutto,
dall'orgoglio degli orvietani di mostrare la loro grandezza. Ci sono dei dubbi sull'attribuzione dei disegni
originali dell'edificio e della facciata: forse il primo capomastro della fabbrica del Duomo fu Fra' Bevignate
da Gubbio (costruttore, insieme ai fratelli Pisano della Fontana Maggiore di Perugia) che probabilmente
operò su disegni di Arnolfo di Cambio. Un ventennio più tardi assunse la direzione dei lavoriil senese
Lorenzo Maitani , detto il "Maestro Sottile" che, a causa di alcuni cedimenti sui muri perimetrali dell'edificio,
dovette costruire due archi rampanti di sostegno (in parte ancora visibili), entro cui furono in seguito
ricavate le Cappelle di San Brizio e del SS Corporale. Al Maitani sono anche attribuiti i bassorilievi sui
pilastri della facciata e i disegni originali della stessa. E' comunque certo che l'artista senese conferì a tutto il
complesso un’ impronta di rilievo cui i numerosi architetti e capomastri che lo seguirono dovettero riferirsi.
Nel 1347 subentrò nella direzione dei lavori Andrea Pisano e, presumibilmente nel 1359, Andrea di Cione
detto l'Orcagna, cui è attributo lo splendido rosone. Seguirono Giovannino di Meuccio e Antonio Federighi,
che operò fra il 1451 e il 1456, inserendo sul paramento moduli di ispirazione ormai rinascimentale, come le
dodici edicolette che si aprono sopra il rosone. Solo in pieno Cinquecento, con Michele Sanmicheli, si
realizzarono la cuspide mediana e le due laterali, che, nonostante l'epoca, riflettono pienamente lo stile
gotico originario. Stesso discorso per le guglie: quella alta di sinistra, realizzata a partire dal 1505 ed
ultimata, da Ippolito Scalza, nel 1569; quella alta di destra, a partire dal 1516 e completata, da Antonio da
Sangallo il Giovane, nel 1543. Terminerà la facciata Ippolito Scalza con la costruzione delle ultime guglie
(1571-91). Così malgrado lo scorrere dei secoli, la facciata appare ancora oggi stilisticamente uniforme, come
se fosse stata realizzata in pochi anni.
Nel 1540 Papa Paolo III Farnese fece spostare il coro ligneo dei canonici dall'inizio della navata centrale alla
tribuna, rendendo così visibile l'altare maggiore che, da centro devozionale, divenne
anche centro visivo della chiesa; fece pavimentare l'area occupata dal coro con una
decorazione a gigli farnesiani, ancora visibili; non fu invece realizzato il nuovo soffitto
a cassettoni progettato per il papa da Antonio da Sangallo il Giovane. Seguì, verso la
fine del XVI secolo, una serie di interventi in chiave manieristica - barocca, di cui oggi
restano solo poche tracce dopo un'opera di "restauro" di fine Ottocento: vennero
eseguite delle grandi statue marmoree, che costituiranno le serie degli Apostoli e dei
Santi che e che furono dislocate in tutta la chiesa. Sulla parete sinistra furono aperte
cinque cappelle decorate con affreschi alle quali si addossarono altari di stucco. A
completamento della trasformazione interna fu posto nella zona superiore del
transetto sinistro il grande organo (opera dello Scalza, 1580) che, con la sua ricca
ornamentazione, la sua policromia, le sue dorature, ancora oggi sembra alludere all'intero impianto
decorativo barocco e manierista. Alla realizzazione di questi interventi presero parte molti artisti famosi
provenienti dai grandi centri artistici del tempo: Taddeo e Federico Zuccari, il Pomarancio, Gerolamo
Muziano (oltre naturalmente a quelli già menzionati); figure di spicco furono i due artisti orvietani Ippolito
Scalza, per la parte architettonica e scultorea, e Cesare Nebbia, per quella pittorica.
Un capitolo a parte lo meritano i mosaici che decorano la facciata: si tratta sicuramente di un'anomalia per lo
stile gotico, la loro realizzazione è ispirata probabilmente alla cultura romana paleocristiana, forse dovuta
all'effetto di splendore e di ricchezza che si voleva raggiungere in una cattedrale divenuta simbolo
dell'orgoglio cittadino. Molti furono i maestri vetrai, i pittori, i mosaicisti coinvolti nell'impresa, che, iniziata
nel 1321, proseguì fino al XVI sec.: lo stesso Lorenzo Maitani, sotto la cui direzione venne eseguita la
decorazione musiva sui piani delle torri, sulle fasce e sulle cornici, Giovanni di Bonino, che lavorò anche alla
vetrata della tribuna, l'Orcagna, che tra il 1359-60 eseguì il Battesimo di Cristo e l'artista romano Nello di
Giacomino e Fra' Giovanni di Leonardello.
A quest'ultimo e al pittore orvietano Ugolino di Prete Ilario si deve la messa in opera dei mosaici
dell'Annunciazione e della Natività; da ricordare è anche un altro pittore e mosaicista locale: Piero di Puccio
da Orvieto, attivo tra il 1370 e il 1380. Nel '500 Cesare Nebbia lavorò al quadro del frontespizio maggiore;
successivamente molte scene figurative a mosaico subirono numerosi restauri che ne alterarono la forma e lo
stile originari, oppure furono sostituiti e interamente rifatti. Molti dei quadri attuali furono eseguiti, infatti,
nel Sei-Settecento; in occasione del V Centenario del Duomo (1790) alcuni mosaici originali furono staccati
ed offerti in omaggio a papa Pio VI (1785-9); di questi, l'unico superstite è il quadro con la Natività di Maria,
dal 1891 conservato al Victoria and Albert Museum di Londra. Le opere di maggior caratura che adornano la
facciata del Duomo di Orvieto sono comunque i marmi a bassorilievo che decorano i quattro piloni divisori
ai tre portali e che raffigurano scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. Come già accennato sono
attribuiti al Maitani e collaboratori e rappresentano un prezioso cimelio della scultura trecentesca in Italia. Le
tre porte bronzee che immettono nel tempio sono opera dello scultore contemporaneo Emilio Greco. La
porta centrale presenta un bassorilievo scene relative alle Opere di Misericordia (1965-70).
L’interno è formato da tre ampie navate con
copertura lignea a capriate. Nella tribuna e
nel transetto il soffitto si presenta con volte a
crociera. Il progetto originale, che seguiva
ancora i dettami dell'arte romanica,
prevedeva la classica abside semicircolare
che fu poi trasformata dal Maitani nella
attuale tribuna quadrata. Le grandi colonne
cilindriche
furono
impostate
sempre
alternando basalto e travertino, come in
tutto
il
perimetro
esterno
(esclusa
naturalmente la facciata). La tribuna è
decorata da un vasto ciclo pittorico costituito
dalle Storie della Vergine, che occupa oltre
2.700 metri quadrati. Nel 1370 vennero
commissionati gli affreschi al pittore e
mosaicista orvietano Ugolino di Prete Ilario, che
si era già distinto nel cantiere della cattedrale per aver realizzato tra il 1357 e il 1364, insieme a Fra' Giovanni
di Leonardello, le pitture della Cappella del SS.mo Corporale.
La Cappella di San Brizio
Con la sua "opulenza figurativa" (J.Riess), esprime una concezione spaziale e decorativa profondamente
diversa rispetto all'interno sobrio e spoglio della Cattedrale, e costituisce una delle testimonianze più
rappresentative della pittura rinascimentale italiana.
Il nuovo, importante elemento architettonico - una cappella in onore dell'Assunta chiamata Cappella Nova venne aggiunto nel fianco destro del Duomo tra il 1406 e il 1444. E' conosciuta anche come Cappella della
Madonna di San Brizio da quando vi fu trasferita nel 1622 l'antica icona della Madonna di San Brizio che
tuttora si trova presso l'altare maggiore: una tavola di stile bizantino, enigmatica quanto a datazione e
attribuzione, in cui è raffigurata su fondo oro la Vergine in trono con il Bambino, affiancata dagli Angeli e
sovrastata dal volto di Cristo. La struttura fu costruita a ridosso del lato meridionale del transetto, nel luogo
dove sorgeva una cappellina dedicata ai Magi e la "sacrestia vecchia", inglobando nelle due pareti laterali gli
speroni e gli archi rampanti eretti al tempo di Lorenzo Maitani, e fa da pendant con la Cappella del
SS.Corporale.
Malgrado la letteratura sul Duomo sia discorde sull'identificazione dei finanziatori dell'impresa (la Curia
Romana, i Medici o signori locali) sicuramente vi prese parte la famiglia Monaldeschi (come ricordato dagli
stemmi negli angoli della vela delle Vergini) con lasciti erogati nel 1462, '94, '98. La decorazione della
Cappella fu comunque realizzata sotto l'attento controllo e con fondi propri dell'Opera del Duomo, come
testimonia, ancora oggi, lo stemma della Fabbrica collocato sull'arco d'ingresso.
Per la decorazione delle volte e delle pareti l'Opera del Duomo diede inizialmente incarico al frate
domenicano Giovanni da Fiesole (1395-1455), noto come il Beato Angelico, già famoso come artista della
corte pontificia. Il contratto venne stipulato nel giugno del 1447 e prevedeva la presenza del pittore presso il
cantiere orvietano durante i mesi estivi fino al compimento del ciclo pittorico; tra gli aiuti dell'Angelico
figurava il giovane Benozzo Gozzoli (1421-1497. L'angelicus pictor iniziò la decorazione dalla volta della
crociera sopra l'altare. Nella vela che sovrasta l'altare dipinse il Cristo Giudice, assiso in trono con i simboli
iconografici del Pantocrator e contornato da schiere di Cherubini, Serafini, Troni e Angeli, e in quella alla sua
sinistra i Profeti (PROPHETARUM LAUDABILIS NUMERUS). Alla bottega dell'Angelico è da attribuire
anche la decorazione dei costoloni con motivi floreali e vegetali e delle cornici delle vele con ritratti
all'interno di medaglioni.
Alla fine dell'estate del 1447, come previsto, l'artista sospese i lavori per tornare al cantiere vaticano: in realtà,
ad Orvieto non fece più ritorno lasciando incompiuta la grande impresa.
Dopo vani tentativi e lunghe trattative con i più famosi pittori dell'epoca, compreso il Perugino, l'opera
iniziata dall'Angelico fu ripresa e portata a termine cinquant'anni più tardi da Luca Signorelli (1445-1523). Il
cortonese, definito dai documenti "famosissimus pictor in tota Italia", fu ingaggiato nel 1499 per completare la
decorazione delle volte sulla base dei disegni dell'Angelico.
Iniziando dalla campata interna, e riprendendo il progetto del suo predecessore, dipinse la vela alla destra
del Cristo Giudice con le immagini degli Apostoli e della Vergine (GLORIOSUS APOSTOLORUM CHORUS)
e la vela di fronte con le figure di angeli che recano i Simboli della Passione (SIGNA IUDICIUM
INDICANTIA). Nella volta della campata verso l'ingresso raffigurò i Dottori della Chiesa (DOCTOR SAPIENS
ORDO), i Martiri (MARTYRUM CANDIDATUS EXERCITUS), i Patriarchi (NOBILIS PATRIARCHARUM
COETUS) e il Coro delle Vergini (CASTARUM VIRGINUM COHORS), leggibili in questa sequenza partendo
da destra.
Un secondo contratto, stipulato il 27 aprile del 1500, impegnava il Signorelli, e i suoi numerosi aiuti, ad
affrescare le pareti della cappella. Nel corso dei tre anni successivi presero forma nei lunettoni le scene del
Giudizio universale; nella zoccolatura la fitta e fantasiosa decorazione a grottesche, interrotta dai riquadri con
gli "uomini illustri" contornati da scene tratte dalle loro opere; nel basamento figure mitologiche di tritoni e
nereidi, simili a lastre di sarcofagi classici.
L'assetto attuale della Cappella è il risultato di una serie di trasformazioni che includono rifacimenti, opere
di manutenzione, restauri, fino agli ultimi restauri del 1989-96, i quali hanno interessato la struttura muraria
e soprattutto il ciclo pittorico col duplice obiettivo di migliorare le condizioni climatico - ambientali della
Cappella e di ristabilire i toni originali dei colori, riportando anche alla luce parti inedite degli affreschi
dietro l'altare e all'interno di un'intercapedine nella parete occidentale.
Visione d’insieme
Luca Signorelli e
Beato angelico,
particolare de I fatti
dell'Anticristo
Beati in Paradiso
Resurrezione della carne
Dannati all'Inferno
Secondo giorno: Verona
Passeggiando per le vie del centro storico, lungo le sponde dell'Adige, la città dell'amore mostra le sue
meraviglie. Segnata da diverse epoche, Verona racconta con le sue architetture, l'avvicendarsi di varie
dominazioni: dall'insediamento romano, all'età dei comuni, all'epoca della Signoria degli Scaligeri fino alle
dominazioni veneziana e asburgica.
Nella centralissima Piazza Bra si erge maestosa l'Arena, l'anfiteatro romano che ospita da decenni la
prestigiosa stagione lirica estiva. Sul "liston", il largo marciapiede che segue l'andamento della piazza, si
affacciano Palazzo Barbieri e della Gran Guardiamentre altri edifici nobiliari ospitano i locali solitamente
frequentati da veronesi e turisti da tutto il mondo.
Poco distante la Casa di Giulietta, con il famoso balcone, accoglie migliaia di visitatori affascinati dalla
storia di Romeo e Giulietta, i due amanti della famosissima tragedia di Shakespeare.
Piacevole è passeggiare in Piazza delle Erbe, mescolandosi alla gente che anima quotidianamente il mercato
cittadino. Per fare un salto nel passato, nel periodo di massimo splendore della Signoria Scaligera basta
andare in Piazza dei Signori e ammirare Palazzo di Cangrande e la Loggia di Fra Giocondo, Palazzo di
Cansignorio e Palazzo della Ragione.
Meritano una sosta il Duomo, al cui interno è conservata la famosa pala del Tiziano, e poco lontano
la Basilica di Santa Anastasia e il Teatro Romano. Da non perdere anche la visita alla Basilica di San
Zeno, affascinante esempio di architettura romanica, e Castelvecchio, l'antico maniero fatto erigere nel XIV
secolo da Cangrande II della Scala, attualmente sede del Museo Civico di Verona.
Verona è una città che si vive attraverso l'arte e le tante emozioni che sa suscitare. Passeggiando tra i palazzi,
le chiese e le piazze sarà un viaggio che condurrà nella storia, mentre su tutto aleggerà l'amore tormentato
degli infelici amanti shakespeariani.
BASILICA DI SAN ZENO
Principale capolavoro del romanico in Italia, la basilica di San Zeno è uno degli edifici più importanti della
città. E' dedicata all'ottavo vescovo di Verona, un santo di origine africana a cui si attribuiscono numerosi
miracoli e la conversione delle popolazioni venete. Il nucleo originario della Basilica di San Zeno risale al IV
secolo, quando una piccola chiesa fu eretta vicino al luogo di sepoltura del Santo.
Attraverso numerosi interventi e rifacimenti è arrivata all'attuale forma alla fine del primo millennio, per
volontà del Vescovo Raterio e dell'imperatore Ottone I: una chiesa a tre navate e tre absidi, larga come
l'attuale, ma più corta e provvista di cripta. Allungata e ingrandita dopo il terremoto che nel 1117 colpì
Verona e tutto il nord Italia, venne completata nel 1398 con rifacimenti del soffitto e dell'abside in stile
gotico. La facciata, in tufo e marmo è caratterizzata dal grande rosone circolare, opera del Brioloto e
decorato da sei statue che raffigurano altrettanti momenti della condizione umana: l'uomo sul trono, che poi
precipita, viene schiacciato dalla sventura e poi si riprende e risale creando la Ruota della Fortuna. Fu una
delle prime finestre romaniche, caratteristica che passò al gotico. Sotto il rosone troviamo il protiro, semplice
ed elegante struttura architettonica sostenuta da colonne che poggiano su leoni, con decorazioni scultoree che
rappresentano figure di mesi, profeti e piante. Magnifico il Portale, un PREZIOSO MANUFATTO
RIVESTITO CON 48 FORMELLE IN BRONZO realizzate tra il X e il XII secolo da diversi autori. Vi sono
raffigurate scene tratte dalla vita di Cristo e dall'Antico Testamento. Ai lati del portale meritano attenzione
anche i bassorilievi del XII secolo, con soggetti sacri di biblica ispirazione e profani riguardanti re
Teodorico. A destra della basilica si innalza un campanile di 72 metri che ne riprende lo stile alternando
fasce di tufo e cotto, e che racchiude le più antiche campane di Verona, fuse nel 1149. Sulla sinistra il
chiostro e la torre merlata, ultimi resti di una grande abbazia benedettina.
L'interno della chiesa, con pianta a croce latina a tre navate, presenta una peculiare suddivisione su tre livelli:
LA CRIPTA E' IN BASSO, SOVRASTATA PRIMA DALLA CHIESA PLEBANA E POI DAL
PRESBITERIO (o Chiesa Superiore) a cui si accede mediante due maestose scalinate in marmo.
Particolarmente interessanti sono la fonte battesimale del XII secolo, la grande coppa monolitica in porfido,
posta sulla sinistra dell'entrata, proveniente dalle terme romane e le due ali di affreschi, realizzate tra il
duecento ed il trecento, che testimoniano l'evoluzione dell'arte pittorica veronese. Le opere di maggiore
valore sono ospitate nell'abside maggiore: lo splendido Trittico del Mantegna raffigurante la Madonna in
trono, e la grande statua in marmo dei San Zeno, realizzata nel XIII secolo raffigura il santo che sorride
bonariamente mentre regge il bastone pastorale da cui pende un pesce. Dalla gradinata centrale si accede alla
cripta, dove è conservato il corpo del Santo. Suddivisa in nove navate con gli archi sostenuti da 49 colonne
(tutte con capitelli differenti) è una piacevole contaminazione di stili ed epoche differenti. I resti del santo, il
cui volto è ricoperto da una maschera d'argento, sono conservati in una teca di cristallo e avvolti in abito
vescovile. Anche il grande Chiostro (a cui si accede attraverso la navata di sinistra) è in stile romanico e
risale al XII secolo: composto da numerosi archetti sorretti da colonnine binate, racchiude antichi sepolcri,
preziosi affreschi e una edicola che conteneva il lavatoio dei frati. Particolare e suggestiva la vista che questo
luogo offre della Basilica e della sommità del campanile.
ARENA DI VERONA
Costruito presumibilmente nella I metà del I secolo d.C., è il monumento più famoso di Verona ed una tappa
d'obbligo per chi visita questa città.
E’ il quarto anfiteatro dopo il Colosseo di Roma, quello di Capua e quello di Milano e, come tutte le
costruzioni adibite a spettacoli di lotte tra gladiatori e cacce ad animali feroci ed esotici, è formato da una
zona centrale con sabbia (da qui l'origine del nome del complesso) ed una parte che circonda la prima,
formata da una cavea a gradinate di larghezza costante.
Le due parti appena descritte erano separate tra loro da un alto podio sul quale s’installavano delle reti
protettive perché gli spettatori restassero incolumi, soprattutto durante gli spettacoli di caccia. Sia il podio
che le gradinate sono state ricostruite e, mentre in passato le gradinate erano divise in settori orizzontali
(moeniana), oggi sono un blocco unico.
La sua forma ellittica era stata concepita sia per poter contenere quanti più spettatori possibile (ne poteva
contenere 30 mila tutti con una buona visuale) sia perché ci fosse spazio sufficiente di movimento per chi si
esibiva. Oggi si accede al monumento passando per i cosiddetti arcovoli.
I muri interni sono costituiti da ciottoli di fiume, malta e fasce formate da tre corsi di laterizi; ciottoli e
cemento formano invece le volte e nella parte superiore delle stesse troviamo dei blocchetti irregolari di tufo
per alleggerirne il peso. Le membrature portanti e le strutture architravate sono formate da pietra calcarea
perché ci sia la massima resistenza alla compressione.
Dell’anello esterno oggi è rimasto solo un breve tratto, la cosiddetta ala e la causa è l’utilizzo durante i secoli
del monumento come cava di pietre: nel 1840, quando fu dichiarata “gradibus vacua” e i gradoni iniziarono
ad essere utilizzati per attingere materiale per costruire altri complessi.
Il prospetto esterno è formato da blocchi di pietra calcarea della Valpolicella combinati con bugnato bianco e
rosato. Il risultato è una bicromia, evidenziata dall’alternarsi dei due tipi di pietra. Lo stile della facciata è in
ordine architettonico tuscanico.
Gli archi del I e del II piano sono sostenuti da pilastri decorati da lesene e cornici semplici che ne sostengono
l’imposta, mentre quelli del II piano contengono finestre arcuate e il fatto che siano arretrate rispetto alla
superficie crea un effetto di chiaroscuro.
L’architettura dell’Arena è caratterizzata da potenza, semplicità e funzionalità e influenzerà le opere
cinquecentesche del Palladio e del Sanmicheli. Come testimonianza di quanto si svolgeva nell’Arena,
abbiamo due copie di un’iscrizione, una conservata al museo Maffeiano e l’altra a quello Archeologico, di
una certa Licina che lascia in testamento una sostanziale somma in denaro per far svolgere una caccia alle
fiere in nome del figlio Quinto Domizio Alpino; e una lettera scritta da Plinio il Giovane all’amico Massimo
nella quale, si congratula per lo svolgersi dei giochi, emblema del buon cuore del destinatario della missiva.
Nel museo archeologico sono oggi conservate alcune sculture che un tempo abbellivano il complesso: una
mano di un pugile, in bronzo, protetta dal caestus (una sorta d’antico guantone); una testa di gladiatore
realizzata in tufo, con tutto il viso coperto fatta eccezione per gli occhi e infine una testa femminile
idealizzata.
Dopo il periodo romano, il complesso ha svolto diverse funzioni. Già dal Medioevo, gli arcovoli esterni
erano proprietà del Comune e l'interno era adibito a giostre e tornei; nel corso dei secoli gli arcovoli sono
stati adibiti a vari usi, anche per relegarci le prostitute della città e, fino al XIX secolo, per ospitare botteghe
artigianali.
Lo spazio interno serviva per amministrare la giustizia, poi come palco per feste e intrattenimenti di vario
genere. A partire dal 1913, anno della prima rappresentazione dell’Aida di Verdi, è il palco della stagione
lirica estiva.
Casa di Giulietta
L'edificio, risalente al XIII sec., fu a lungo proprietà della famiglia Cappello, il cui stemma è scolpito
sull’arco interno del cortile. L’identificazione dei Cappello con i Capuleti ha dato origine alla convinzione
che lì sorgesse la casa di Giulietta, eroina della tragedia di Shakespeare.
La dimora medievale restaurata pittorescamente da Antonio Avena a metà degli anni '30, è stata nel recente
passato adibita a mostre temporanee.
L’edificio presenta una bella facciata interna in mattoni a vista, un portale in stile gotico, finestre trilobate,
una balaustra che mette in comunicazione dall’esterno i vari corpi della casa e, ovviamente, il famoso
balcone.
Nel cortile è collocata la statua in bronzo di Giulietta, opera dello scultore Nereo Costantini.
La casa di Giulietta è una delle suggestive sedi che la città mette a disposizione degli sposi per la
celebrazione del loro matrimonio.
Terzo giorno: Vicenza/Padova
Padova: Cappella degli Scrovegni
La Cappella degli Scrovegni, capolavoro della pittura del Trecento
italiano ed europeo, è considerato il ciclo più completo di affreschi
realizzato dal grande maestro toscano Giotto nella sua maturità.
Colore e luce, poesia e pathos, l'uomo e Dio, il senso della natura e
della storia, il senso di umanità e di fede fusi assieme per narrare in
un modo unico, irripetibile le storie della Madonna e di Cristo.
Sette secoli fa, nell'anno del primo Giubileo (1300), fu posta la prima
pietra della Cappella che Enrico Scrovegni, ricco banchiere e uomo
d'affari padovano, aveva fatto erigere a completamento del palazzo.
Per adornare l'edificio, destinato ad accogliere lui stesso e i suoi
discendenti dopo la morte, Enrico chiamò due tra i più grandi artisti
del tempo: a Giovanni Pisano commissionò tre statue d'altare in marmo raffiguranti la Madonna con Bambino
tra due diaconi, a Giotto la decorazione pittorica della superficie muraria. Giotto termina gli affreschi della
Cappella entro i primi mesi del 1306. In questa data "...la cappella presenta un'architettura molto semplice: un'aula
rettangolare con volta a botte, un'elegante trifora gotica in facciata, alte e strette finestre sulla parete sud, un'abside
poligonale poi sopraelevata per la cella campanaria". Giotto era un artista già celebre: aveva lavorato per il papa
nella Basilica di San Francesco in Assisi e in San Giovanni in Laterano a Roma, a Padova nella Basilica di
Sant’Antonio e nel Palazzo Comunale (detto "della Ragione"). A lui
venne affidato il compito di raffigurare una sequenza di storie
tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento che culminavano nella
morte e resurrezione del Figlio di Dio e nel Giudizio Universale,
allo scopo di sollecitare chi entrava nella Cappella a rimeditare sul
suo sacrificio per la salvezza dell'umanità. Il ciclo pittorico della
Cappella è sviluppato in tre temi principali: gli episodi della vita di
Gioacchino e Anna, gli episodi della vita di Maria e gli episodi
della vita e morte di Cristo. In basso a questi affreschi, una serie di
riquadri illustra le allegorie dei Vizi e delle Virtù. Egli immaginò
una struttura architettonica in finti marmi dipinti che sorregge la
volta dall'aspetto di cielo stellato e i riquadri con le storie della Vergine e di Cristo. L'opera fu ultimata in
tempi molto brevi tanto che nel 1305, dopo 2 soli anni di lavoro, la Cappella era tutta decorata e veniva
consacrata per la seconda volta. Non si sa nulla, ancora oggi, della storia della Cappella fino all''800, quando
rischiò di scomparire per il disinteresse dei nuovi proprietari che avevano lasciato crollare il portico sulla
facciata ed il palazzo fatto costruire da Enrico.Questi eventi si rifletterono negativamente sulla Cappella,
rimasta senza appoggio e priva di protezione sul lato sinistro e sulla facciata. L'intervento del Comune, che nel
frattempo l'aveva acquistato (1881), servì ad impedirne la perdita, ma sia l'edificio che gli affreschi erano già
gravemente danneggiati. Furono messi in opera radicali interventi di restauro soprattutto a fine '800 e agli
inizi degli anni '60. Ma più recentemente si era venuto a creare un nuovo fenomeno di degrado causato
dall'inquinamento, per cui il colore si polverizzava e cadeva.
Per capire come interviene, per alcuni anni furono effettuate indagini scientifiche mirate dai cui risultati si
potè dedurre cosa fare per rallentare il degrado e, soprattutto, per impedire che in futuro esso subisse di
nuovo pericolose accelerazioni. Gli interventi conseguenti ebbero conclusione quando, il 31 maggio 2000,
venne attivato il Corpo Tecnologico Attrezzato (CTA), "polmone tecnologico" a protezione del più importante
ciclo pittorico di Giotto ed uno dei più importanti di tutti i tempi. Solo dopo averne controllato per un anno il
corretto funzionamento di prevenzione ambientale si sono potute iniziare le operazioni di conservazione e di
restauro.
IL RESTAURO EFFETTUATO
I criteri seguiti, esposti in occasione della presentazione al pubblico del
progetto di restauro il 12 giugno 2001. presso il Museo civico agli
Eremitani, sono:
1. Interventi conservativi d'urgenza nelle zone a massimo rischio
2. Attenuazione delle disomogeneità cromatiche derivanti da differenti
interventi di restauro (Botti e Bertolli fine '800, Tintori inizi anni '60)
3. Quanto al punto 1. si è proceduto al consolidamento dell'intonaco e
della pellicola pittorica ed alla rimozione delle efflorescenze saline, che
ottundevano il rilievo plastico delle immagini oltre a mantenere attivo
il degrado; per il punto 2. gli aspetti più importanti riguardano, per la loro estensione, le mancanze del
colore azzurro di fondo e le stuccature di lacune dell'intonaco
dovute a vecchi restauri. Le lacune nell'azzurro vengono
"abbassate" cioè fatte arretrare otticamente in modo da non
dare fastidio a chi guarda pur senza ripristinare il colore
mancante e si cerca di fare assumere alle stuccature un aspetto
il più possibile omogeneo, di "intonaco abbassato", perchè
interferiscano al minimo nella lettura dell'immagine. In casi
particolarmente significativi (per esempio la finta architettura
dipinta che sorregge tutta la decorazione e sostiene riquadri) le
lacune vengono reintegrate "a tratteggio"e - come sempre negli
interventi
sulle
lacune
-
ad
acquerello.
Le architetture palladiane a Vicenza
Palladio fu senza ombra di dubbio uno dei maggiori
architetti italiani del Cinquecento. Dal 1540 al giorno
della sua morte egli ideò imponenti edifici civili che
mutarono l'aspetto di Vicenza e della sua Provincia.
Vicenza e Palladio, un binomio indissolubile perché
l'una, senza l'altro, non esiste e l'altro ha lasciato
concentrato in questo territorio, nonostante abbia
lavorato anche in altre province, la più alta
concentrazione dei suoi mirabili capolavori.
Vicenza è infatti oggi tra le città italiane con il numero
più elevato di complessi monumentali in rapporto
all'estensione e ciò la rende un vero e proprio
inaspettato gioiello agli occhi di quei visitatori che
passeggiano in centro storico. Per questo motivo, nel
dicembre del 1994 la “Città del Palladio” è stata inserita
nella Lista del Patrimonio Mondiale dell'UNESCO in
quanto gli edifici palladiani sono considerati
d'interesse eccezionale e di valore universale ed hanno
esercitato una grande influenza sulla cultura mondiale.
Una gran parte dell'opera architettonica di Palladio fu
realizzata nel territorio cittadino a partire dal 1540 e
l'architetto lavorò indistintamente sia per committenti
privati che per la committenza pubblica, contribuendo
a mutare in modo profondo l'aspetto della città.
Il noto francese storico dell'arte Courajod definì
Vicenza "un luogo benedetto dal cielo, uno di quei nidi
preparati dalla natura per la nascita dell'arte italiana, la quale, al
principio della Rinascenza, non mancò di fiorirvi". Ma sono forse le parole di Goethe, nel suo "Viaggio in Italia",
che più di ogni altre riescono ad esprimere il valore, l'importanza e il fascino dell’opera palladiana che
risiede in città: "sono giunto da poche ore, ma ho già fatto una scorsa per la città e ho visto il Teatro Olimpico
e gli edifici del Palladio ... soltanto avendo innanzi agli occhi questi monumenti, se ne può comprendere il
grande valore. Con la loro mole e con la loro imponenza essi devono, per dir così, riempire gli occhi, mentre
con la bella armonia delle loro dimensioni, non solo nel disegno astratto, ma in tutto l'insieme della
prospettiva, sia per quello che sporge, che per quello che rientra, appagano lo spirito. E questo è proprio,
secondo me, il caso del Palladio: un uomo straordinario, e per quello che ha sentito in sé, e per quello che ha
saputo esprimere fuori da sé."
Basilica Palladiana
"Basilica significa casa regale: e anco perché vi stanno i giudici a rendere ragione al popolo. Queste basiliche de'nostri
tempi sono sopra i volti; né quali poi si ordinano le botteghe per diverse arti, e mercantie della città; e vi si fanno anco le
prigioni."(da "Il Terzo Libro dell'Architettura di A. Palladio")
La Basilica, opera paradigmatica dell'architettura
palladiana, si trova nel luogo più rappresentativo della
città che ha accolto e visto crescere il grande architetto,
piazza dei Signori, già luogo del foro romano e della
platea medievale. L'edificio in questione è il cosiddetto
Palazzo della Ragione, antica sede dell'autorità civile. Sul
finire del Quattrocento si decise di cingere l'originaria
costruzione gotica, caratterizzata dalla copertura in rame
a carena rovesciata, con un doppio ordine di logge che ne
nobilitasse l'immagine. Questa prima iniziativa finì nel
peggiore dei modi, con un crollo ad appena due anni
dall'inaugurazione e altri quaranta furono necessari
perché che il Comune si potesse trarre d'imbarazzo. Nella
lista di consulenti architettonici spiccano i nomi del Sansovino (1538), del Serlio (1539), del Sanmicheli (1541)
e da ultimo di Giulio Romano (1542). Come talora capita nelle questioni troppo controverse, a prevalere è
una soluzione interna: Andrea Palladio, il giovane architetto cresciuto all'ombra dell'umanista Gian Giorgio
Trissino, che con le sue conoscenze altolocate avrà ruolo determinante nel far accettare questa candidatura al
consiglio comunale. L'incarico è affidato al Palladio pur sotto la supervisione di Giacomo da Porlezza,
titolare della bottega nella quale il giovane ha fatto esperienza dapprima come lavorante e poi come pratico
d'architettura, fino alla piena autonomia. È proprio il Palladio a coniare per l'edificio un nome coerente alle
sue convinzoni: Basilica, come nell'antica Roma veniva chiamato il luogo dove si gestivano la politica e gli
affari più importanti. A 38 anni il Palladio ottiene la prima importante commissione pubblica, che al di là del
lauto e prolungato compenso (5 ducati al mese per tutta la vita), corrisponde alla consacrazione ufficiale
come architetto della città di Vicenza. Perché l'incarico diventi operativo, tuttavia, dovrà aspettare altri tre
anni, fino al 1549, tanto sarà necessario per fugare le residue incertezze del governo cittadino. Il progetto del
Palladio si basa sulla ripetizione del modulo della 'serliana', vale a dire una struttura composta da un arco a
luce costante affiancato da due aperture laterali rettangolari, di larghezza variabile e quindi in grado di
assorbire le differenze di ampiezza delle campate, specie negli angoli dell'edificio (lo schema prende nome
da Sebastiano Serlio, che lo divulgò in un trattato architettonico del 1537). Il materiale utilizzato è una pietra
bianca proveniente da Piovene Rocchette, località alle falde dell'Altopiano di Asiago; lo si può definire unico
nel suo genere perché la cava andrà esaurita allo scopo. Il costo complessivo dell'opera, notevolissimo, fu di
60mila ducati, peraltro ripartiti su 65 anni, visto che il cantiere si concluse nel 1614, 34 anni dopo la morte
dell'architetto. Quanto alle vicende più recenti della Basilica, vanno ricordati soprattutto gli effetti dei
bombardamenti della seconda guerra mondiale, che letteralmente sventrarono l'edificio. Negli ultimi
cinquant'anni la Basilica è stata teatro di spettacoli ed anche di eventi sportivi, partite di pallacanestro,
soprattutto, quando negli anni 60-70 le squadre vicentine femminili dominavano il campionato nazionale. In
anni recenti è prevalsa la destinazione a spazio espositivo, ferma restando la tradizionale presenza delle
botteghe d'oreficeria al piano terreno.
Teatro Olimpico
Per i grandi architetti la suprema regola delle proporzioni nasce dall'animo. Grazie al Palladio, l'architettura italiana è
diventata ancora una volta universale.(Ottavio Cabiati)
Il Teatro Olimpico è una delle
meraviglie artistiche di Vicenza. Si
trova all'interno del cosiddetto
Palazzo del Territorio, che prospetta
su piazza Matteotti, all'estremità
orientale
di
corso
Palladio,
principale direttrice del centro
storico. Nel Rinascimento infatti un
teatro non è un edificio a se stante come diventerà di prassi in seguito ma
consiste
nell'allestimento
temporaneo di spazi all'aperto o di
volumi preesistenti; nel caso di
Vicenza, cortili di palazzo o il salone
del Palazzo della Ragione. Nel 1580
il Palladio ha 72 anni quando riceve
l'incarico dall'Accademia Olimpica, il
consesso culturale di cui egli stesso fa
parte, di approntare una sede teatrale stabile. Il progetto si ispira dichiaratamente ai teatri romani descritti
da Vitruvio: una cavea gradinata ellittica, cinta da un colonnato, con statue sul fregio, fronteggiante un
palcoscenico rettangolare e un maestoso proscenio su due ordini architettonici, aperto da tre arcate e ritmato
da semicolonne, all'interno delle quali si trovano edicole e nicchie con statue e riquadri con bassorilievi. La
critica definisce l'opera 'manierista' per l'intenso chiaroscuro, accentuato tra l'altro da una serie di espedienti
ottici dettati dalla grande esperienza dell'architetto: Il progressivo arretramento delle fronti con l'altezza,
compensato visivamente dalle statue sporgenti; il gioco di aggetti e nicchie che aumentano l'illusione di
profondità. Il Palladio appronta il disegno pochi mesi prima della sua morte e non lo vedrà realizzato; sarà il
figlio Silla a curarne l'esecuzione consegnando il teatro alla città nel 1583. La prima rappresentazione, in
occasione del Carnevale del 1585, è memorabile: la scelta ricade su una tragedia greca, l'Edipo Re di Sofocle,
e la scenografia riproduce le sette vie di Tebe che si intravedono nelle cinque aperture del proscenio con un
raffinato gioco prospettico. L'artefice di questa piccola meraviglia nella meraviglia è Vincenzo Scamozzi,
erede spirituale del Palladio. L'effetto è così ben riuscito che queste sovrastrutture lignee diventeranno parte
integrante stabile del teatro. Sempre allo Scamozzi viene affidata anche la realizzazione degli ambienti
accessori: l'Odeo, ovvero la sala dove avevano luogo le riunioni dell'Accademia, e l'Antiodeo, decorati nel
Seicento con riquadri monocromi del valente pittore vicentino Francesco Maffei. La fama del nuovo teatro si
sparge prima a Venezia e poi in tutta Italia suscitando l'ammirazione di quanti vi vedevano materializzato il
sogno umanistico di far rivivere l'arte classica. Poi, nonostante un avvio così esaltante, l'attività dell'Olimpico
venne interrotta dalla censura antiteatrale imposta dalla Controriforma e il teatro si riduce a semplice luogo
di rappresentanza: vi viene accolto papa Pio VI nel 1782, l'imperatore Francesco I d'Austria nel 1816 e il suo
erede Ferdinando I nel 1838. Con la metà dell'Ottocento riprendono saltuariamente le rappresentazioni
classiche, ma si dovrà attendere l'ultimo dopoguerra, scampato il pericolo dei bombardamenti aerei, per
tornare seriamente a fare spettacolo in un teatro che non ha uguali al mondo.
Le ville riconosciute come opera di Palladio sono 24: 16 nel Vicentino, 3 nel Trevigiano, 2 nel Padovano e 1
rispettivamente nel Rodigino, nel Veronese e nel Veneziano. Le ville palladiane di Vicenza, alcune delle quali
celebri in tutto il mondo, sono il simbolo della civiltà e raffinatezza della sua epoca, e testamento immortale
del genio della sua opera. Tra le ville venete di Vicenza, celeberrima ed inconfondibile per le sue particolarità
è senza dubbio la Villa Almerico Capra detta la Rotonda, opera della piena maturità di Palladio.
Villa Almerico Capra Valmarana «La Rotonda»
...lungi dalla Città meno di un quarto di miglio... si può dire che sia nella Città istessa... Onde perché gode da ogni parte
di bellissime viste... vi sono state fatte le logge in tutte e quattro le faccie.(da "Il Secondo libro dell'Architettura di A.
Palladio")
La più celebre fra le ville del Palladio si trova nei
sobborghi di Vicenza, lungo la statale 247 Riviera
Berica, che si allontana verso sud alla volta di
Noventa Vicentina. Palladio la progetta nel 1566
per il canonico Paolo Almerico che, rientrato
nella città d'origine dopo una brillante carriera
presso la corte papale, preferisce la quiete della
campagna al palazzo familiare. Ci vorranno
tuttavia
quarant'anni, sul finire dei quali
passeranno a miglior vita tanto l'architetto
quanto il suo cliente, perché la costruzione possa
avviarsi a compimento per mano dei fratelli
Odorico e Mario Capra, subentrati nella
proprietà, e dell'architetto Scamozzi, erede
spirituale del Palladio. La villa appare non
casualmente al culmine di un poggio, in un tratto di campagna che spazia dalle rive del Bacchiglione ai Colli
Berici. L'immagine è quella di una villa-tempio, dal volume pressoché cubico, sul quale s'innestano facciate a
pronao con maestosi colonnati ionici e timpani triangolari, sovrastato da una cupola in origine ispirata al
Pantheon romano, e come questa aperta da un oculo, ma poi realizzata in forma schiacciata e chiusa. Fulcro
del sistema geometrico è l'uomo che con lo sguardo spazia tutt'intorno. Evidente è la valenza simbolica della
costruzione, combinazione di volumi perfetti, cubo e sfera, con gli spigoli orientati verso i punti cardinali,
secondo una concezione platonica d'ordine universale. Gli edifici rustici non solo sono distaccati dalla villa,
ma anche nascosti alla vista, nella parte posteriore della collina. Da questo punto di vista è significativo il
fatto che nei Quattro Libri dell'Architettura la Rotonda sia inserita nel volume dedicato ai palazzi, a
testimonianza della sua natura di residenza suburbana più che di villa-fattoria. La costruzione presenta un
basamento destinato agli ambienti di servizio e un piano nobile impostato attorno a un maestoso salone
circolare a tutta altezza, donde il nome popolare di Rotonda, con corridoi d'accesso e ambienti d'angolo su
due livelli (quelli superiore nelle intenzioni dell'autore dovevano formare una sorta di passeggiata coperta).
L'ambiente centrale, che ha la maestosità di una chiesa, rappresenta un caso unico nell'architettura civile del
Palladio e probabilmente va messo in relazione con il rango ecclesiastico del primo committente. La
decorazione è straordinaria sotto ogni punto di vista: l'apparato pittorico interno, di varia mano, culmina
nell'opera sei - settecentesca del Dorigny; quello scultoreo spazia dall'esterno, con le notevoli statue degli
Albanese al culmine dei timpani, all'interno, con stucchi e camini probabilmente del Vittoria. È interessante
notare che in origine l'ingresso principale della villa era quello rivolto al fiume, ancora oggi preceduto da
una lunga rampa erbosa, mentre l'attuale era quello di servizio, allineato con la barchessa**. Notevole è
anche il parco, d'impostazione romantica, che si apre a vedute di campagna coltivata tutt'intorno. La villa,
oggi di proprietà Valmarana, è sede di concerti estivi e di manifestazioni, oltre che location cinematografica
resa celebre dalle immagini del Don Giovanni di Losey.
Quarto giorno: Arezzo
Arezzo è una città straordinariamente antica e ricca di arte e cultura. Fu una delle maggiori
lucumonie etrusche e successivamente città romana d'importanza strategica. Fu centro di fiorenti
attività economiche, e ricco di pregevoli monumenti fra i quali ricordiamo l'Anfiteatro con i suoi
cospicui resti. Rinomate furono le sue fonderie e le fabbriche artistiche di vasi a vernice rossa (detti
vasi corallini) la cui tecnica si diffuse in tutto il mondo romano.
Nel Medioevo Arezzo fu libero comune in cui spesso prevalsero gli interessi della parte ghibellina,
in antagonismo con la vicina Firenze. Dopo la rotta di Campaldino (1289), la sua fortuna venne
compromessa e, nonostante una certa ripresa sotto i Tarlati, finì per soccombere e divenne dominio
fiorentino (1384). Come tale entrò a far parte, con il resto della Toscana, del granducato mediceo.
Pochi altri territori in Italia possono offrire un patrimonio naturalistico ambientale e culturale così
vasto in un’area così piccola. Gli affreschi di Piero della Francesca nel Duomo valgono da soli una
visita nella città. Ma anche il cuore del borgo medievale racconta le grandi stagioni dell’arte e
dell’architettura aretina. Accanto alle torri medievali, si ergono l'imponente Loggiato Vasariano, il
Palazzo della Fraternita dei Laici, sintesi di architettura gotica e rinascimentale e l'abside della
Pieve di Santa Maria. Nella Basilica di San Domenico si conserva la croce dipinta di Cimabue,
opera giovanile dell'artista. Molte altre chiese e palazzi testimoniano, con la loro bellezza e la loro
originalità stilistica, la civiltà aretina e la sua importanza nelle varie epoche storiche.
La bellissima Piazza Grande, il penultimo sabato di giugno e la prima domenica di settembre,
diventa lo scenario della Giostra del Saracino, torneo cavalleresco di origini medievali. La stessa
piazza e gran parte del centro storico ospitano, ogni prima domenica del mese ed il sabato
precedente, la Fiera antiquaria. Mercanteggiare il prezzo è un’arte finissima per i "bancherellai"
aretini, bisogna adeguarsi.
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