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Lo sviluppo del pensiero antropologico 1.
Il paradigma evoluzionista e la sua problematica attualità
Un’unica linea di sviluppo
La teoria evoluzionista colloca le diverse popolazioni conosciute su un’unica
linea di sviluppo (si parla, infatti, di evoluzionismo unilineare; nel Novecento altre
proposte teoriche di ispirazione evoluzionista proporranno percorsi differenti). Tale
linea è suddivisa in stadi (selvaggio, della barbarie, della civiltà) ai quali
corrispondono differenti livelli di ciò che oggi definiamo cultura materiale,
istituzioni politiche e parentali, credenze e pratiche magico-religiose, forme
artistiche, ecc. Al vertice dell’evoluzione troviamo la società industriale
dell’epoca, caratterizzata, ad esempio, da monogamia e monoteismo, considerati
da alcuni autori l’approdo inevitabile di un percorso che da un lato ha attraversato fasi
di promiscuità sessuale e poliandria (unione di una donna con più uomini) e dall’altro
fasi di credenze magiche e politeismo.
L’individuazione di una sequenza di stadi evolutivi sempre più complessi
comporta un interesse concreto per le popolazioni contemporanee che ne
rappresentano
i
vari
stadi di sviluppo: gli
aborigeni australiani, i
pigmei africani, i nativi
americani
diventano
‘esempi viventi’ delle
condizioni passate della
storia
dell’uomo
civilizzato.
L’idea
di
progresso sottesa a
questa prospettiva è in
forte contrasto con le
tesi degenerazioniste,
le quali ritengono le
popolazioni
‘selvagge’
esempi
d’irredimibile
degradazione umana.
I materiali che costituiscono le fonti per le riflessioni degli antropologi evoluzionisti
sono, con alcune eccezioni, i dati raccolti da missionari, amministratori coloniali,
esploratori, commercianti, militari, ecc. Gli antropologi evoluzionisti vengono, infatti,
definiti “antropologi da tavolino” (ingl. armchair anthropologist), poiché non si recano
in luoghi remoti – come faranno in seguito i loro colleghi –, ma si limitano a
compendiare le informazioni e ad elaborare comparazioni sulla base di
resoconti redatti da altri.
Le conseguenze sul concetto di cultura
L’antropologia evoluzionista si configura dunque come un sapere
comparativo, fondato sull’idea dell’unità psichica del genere umano, e al centro del
quale vi è una nuova concezione della cultura. La cultura non è più appannaggio
di coloro che hanno studiato, ed è invece un patrimonio di tutti. Nella sua
classica definizione del 1871, l’antropologo britannico Edward B. Tylor (1832-1917)
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chiarisce: “La cultura, o civiltà, intesa nel suo senso etnografico più ampio, è
quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il
diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto
membro della società”.
I grandi dell’evoluzionismo ottocentesco
Per Tylor la successione di stadi nella storia umana è attestata anche da pratiche,
credenze ecc. che non hanno più senso nella società in cui si trovano, ma che
costituiscono reperti di epoche precedenti: si tratta delle sopravvivenze, veri e propri
“fossili sociali” del passato. Sempre a Tylor si deve
l’introduzione del concetto di animismo - la credenza
secondo la quale tutti gli oggetti hanno un’anima – il
quale, secondo l’antropologo britannico, costituisce la
base della filosofia della religione di tutti i popoli.
L’americano Lewis Henry Morgan (1818-1881), grande
conoscitore e avvocato dei nativi,
realizza uno studio fondamentale
sulla
terminologia
della
parentela
(Sistemi
di
consanguineità e di affinità
nella famiglia umana, 1871) nel
quale elabora la distinzione tra
sistemi classificatori (nei quali
non esistono termini differenziati
per i consanguinei) e sistemi
descrittivi. La sua opera del 1877,
La
società
antica,
verrà
considerata da Marx ed Engels una conferma della
concezione materialistica della storia.
Il britannico James Frazer (1854-1941) è l’ultimo avamposto
dell’evoluzionismo
ottocentesco.
Grande erudito, deve la sua fama
soprattutto a Il ramo d’oro
(1925), opera monumentale che diverrà fonte di
ispirazione letteraria, nella quale traccia la lenta
maturazione delle facoltà mentali del genere
umano, dalla credenza nella magia, al ricorso alla
religione, fino all’approdo al pensiero scientifico.
L’eredità dell’evoluzionismo
Considerato
assolutamente
superato
in
ambito
antropologico, l’approccio evoluzionista di matrice
ottocentesca perdura a tutt’oggi nelle opere di
divulgazione e nella trattazione giornalistica,
allorquando si presentano le popolazioni ‘primitive’
contemporanee quali rappresentanti degli stadi iniziali
della storia occidentale: considerare l’osservazione di un
popolazione di cacciatori-raccoglitori odierna alla stregua
di una fotografia fedele delle modalità di vita dell’Europa preistorica costituisce un
disconoscimento dei fenomeni di complessità e dinamicità che attraversano tutte le
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culture. Come osserva giustamente l’antropologa Andrée Grau, “I san o gli aborigeni
[australiani] non sono popolazioni dell’età della pietra, sono popolazioni del ventesimo
secolo che si sono sviluppate in modi diversi dai nostri”.
Un’altra errata eredità del periodo evoluzionista è la perdurante confusione tra
matriarcato e matrilinearità. Quando nei loro viaggi tra popolazioni ‘primitive’ i
missionari, gli esploratori ecc. incontrano un modello di discendenza matrilineare – il
quale prevede il ricorso alla linea femminile per tracciare il legame di parentela
ascendente e discendente – concludono erroneamente di trovarsi di fronte a società
nelle quali le donne detengono il potere (matriarcato). Per gli antropologi evoluzionisti
tali società rappresentano dunque un livello precedente di sviluppo, nel quale le donne
comandavano sugli uomini. Sia che la si interpreti in termini negativi (come fecero gli
evoluzionisti), sia che se ne dia una lettura positiva (sarebbe esistita un’età dell’oro
nella quale le donne avevano il potere e le condizioni di vita erano più felici), l’idea di
un matriarcato primigenio non ha alcun fondamento scientifico.
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