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Guido Salvetti
VERDI E WAGNER
Feuilleton
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GUIDO SALVETTI
verdi e wagner
Feuilleton
Classic Voice
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Il virus delle celebrazioni centenarie è la causa
di questi dieci articoli, qui raccolti in un unico racconto che vorrebbe anche essere un racconto comune
per Verdi e per Wagner. Che siano nati nello stesso
anno non renderebbe di per sé legittimo che li si accomuni così strettamente: e invece questo è uno dei
casi in cui agì prepotentemente “lo spirito del tempo”.
Dello “stesso” tempo. Il che, in un intreccio incredibilmente complesso di affinità e di opposizioni, fa sì
che la conoscenza dell’uomo e dell’opera di Verdi può
ben contribuire a conoscere qualcosa di più e meglio
dell’uomo e dell’opera di Wagner; e viceversa. Perché
questo avvenga, occorre però neutralizzare ogni nostro indebito impulso a stabilire delle graduatorie di
valore, estetico o morale ch’esso sia; ed essere capaci
di godere dell’infinità varietà dei casi quando vengono a comporsi in un unico quadro storico.
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I – Primi passi
Essere entrambi nati nel 1813 accomunò Verdi e
Wagner, infanti, nell’imperversare delle battaglie
con cui l’impero di Napoleone si ridusse in cenere.
Nell’ottobre di quell’anno, tra i 130.000 morti della cosiddetta ‘battaglia delle nazioni’ presso Lipsia,
possiamo annoverare Carl Friedrich Wagner, padre
(vero o putativo) di Richard, nato il 22 maggio. Nei
mesi seguenti il fuoco acceso a Lipsia divampava
ovunque ci fossero ancora dei ‘napoleonidi’, come
Eugenio di Beauharnais in Lombardia, o Gioachino
Murat nelle sue scorribande dal suo Regno di Napoli
fino all’Emilia: così che è tradizione che il nostro Giuseppe in fasce sia stato portato sul campanile della
chiesa di Roncole di Busseto dalla madre terrorizzata
dall’arrivo degli austro-russi.
Essere nati nel 1813 significò anche che, usciti
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dall’infanzia, entrambi aprirono gli occhi su un mondo pacificato, dove rifioriva la vita sociale e quindi
la cultura. A Lipsia nel 1816 riaprivano i teatri, di
prosa e d’opera, e la stagione dei concerti dell’orchestra del Gewandhaus. Dal 1816, nel nuovo Ducato di
Parma, Piacenza e Guastalla assegnato al buongoverno di Maria Luigia d’Austria, si costruirono ponti e
strade, ma anche il Teatro Ducale di Parma; e, nella
nostra Busseto, fu fondata dal ricco commerciante e
musicofilo Antonio Barezzi, una nuova Accademia
Filarmonica.
Di entrambi i bravi biografi scrivono che appartennero a famiglie di umili origini; il che è certamente
vero se si tien conto del censo. Il padre di Verdi, Carlo, poteva aspirare a ottenere un sussidio dal Monte
di Pietà di Busseto che permettesse al figlio di soggiornare a Milano per compiere gli studi al Conservatorio, solo se considerato indigente. Nel caso dei
genitori di Verdi, locandiere lui, tessitrice lei, va forse aggiunto che erano anche di umile livello culturale, come si desume da tanti segni, tra cui che fosse
il figlio a scrivere le suppliche come quella appena
citata, e che il padre si limitasse a firmarle. Ma non
sapremo mai – vista la totale riservatezza del figlio
sui suoi genitori – se davvero rischiarono di ostacolare la carriera del figlio, pretendendo che aiutasse
in locanda o si guadagnasse da vivere precocemente
andando a bottega. Non lo sapremo mai, perché nei
momenti decisivi sul giovane, che dimostrava tanta
passione per la musica nella chiesetta di Roncole, e
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a cui venne regalata una spinetta prima dei suoi otto
anni, si stese la mano benefica di Antonio Barezzi,
che lo aiutò in tutti modi – anche ospitandolo a casa
sua a Busseto – a continuare gli studi musicali e,
contemporaneamente, a guadagnarsi il pane accompagnando, trascrivendo, dirigendo e facendo lezioni
di musica. Verdi scriverà a Clarina Maffei nel 1867
(mentre Barezzi moriva): “Voi sapete che a Lui devo
tutto, tutto, tutto. E a lui solo, non ad altri come l’han
voluto far credere”. Che con queste ultime parole si
riferisse al padre? Si direbbe proprio di sì.
Anche Richard Wagner ebbe un secondo padre, altrettanto benefico: se Carl Friedrich era stato appassionato di letteratura, di teatro e di musica, Ludwig
Geyer, che sposò Johanna, vedova dell’amico defunto, pochi mesi dopo la nascita di Richard (tanto che
fu creduto da alcuni biografi – e in alcuni momenti
anche da Richard – il suo vero padre biologico), fu
pittore estroso, scrittore colto e attore vivace. Fu lui
il primo a pronosticare che Richard, “era destinato
a grandi cose”; e accese in lui il primo interesse per
il teatro. Ma Geyer morì quando Richard aveva otto
anni e quindi il bambino, orfano per la seconda volta, si trovò sostanzialmente da solo a cercare la sua
strada.
Richard, quando tutta la famiglia si spostò a poco
più di 100 chilometri a est nella capitale della Sassonia, la ricca e colta Dresda, era l’ultimo dei nove
figli (sette soltanto sopravvissuti) che Johanna aveva avuto da Carl Friedrich; ed era ancora piccola
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Cecilia, che Johanna aveva avuto da Geyer. La numerosa famiglia poteva contare sulla magra pensione di guerra assegnata a Carl Friedrich; e quindi in
perenni gravi difficoltà economiche, superate solo
quando Geyer vendeva un suo quadro e, dopo la sua
morte, quando le sorelle Rosalie e Luise trovavano
una scrittura come attrici; il fratello Albert e la sorella Klara come cantanti. Eppure ci si fa l’idea che in
quella casa, quando Richard era piccolo, ci fosse, sì,
una grande precarietà e una grande confusione, ma
anche molta allegria. Ciò si doveva principalmente
alla madre Johanna, piccola, magra e leggera, quale
ci viene descritta in modo impareggiabile dal figlio
nell’autobiografia: giunta a Zurigo a trovare figlio e
nuora, si lasciava prendere in braccio da Minna che,
ridendo, la portava su per le scale fino alla sua stanza
al primo piano…
Peccato che Verdi non abbia mai voluto raccontarsi:
forse non è del tutto vero il quadro non poco plumbeo e severo che ci viene dalle testimonianze: il bambino che imparava a leggere, scrivere e far di conto
dal parroco di Roncole; e che, come massima gioia,
poteva suonare l’organo alle funzioni della domenica; il ragazzo che tornava a casa soltanto la domenica, e durante tutta la settimana stava a pensione a
Busseto presso un calzolaio e frequentava le lezioni
di grammatica e di latino presso il ginnasio; e le lezioni di musica con il maestro di cappella Ferdinando Provesi. Poi vennero gli intrattenimenti musicali
presso casa Barezzi; e il giovane, evitato il seminario
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dove lo avrebbe volentieri reclutato il prete che gli
aveva insegnato il latino, si fidanzò con la figlia di lui,
Margherita; convolò a nozze a 23 anni e diventò due
volte padre in due anni. Altrettanto irreprensibili –
per quello che ci è dato sapere – furono i soggiorni
milanesi: il primo (1832-35), per prendere lezioni
da Vincenzo Lavigna dopo la mancata ammissione
al Conservatorio: periodo segnato da una frequentazione assidua di qualsiasi opera venisse allestita alla
Scala. Il secondo, dopo il matrimonio e un triennio
alla direzione della Filarmonica di Busseto, a cercare
fortuna e scritture nei teatri. Ebbene: non si ha notizie di un solo eccesso, di un qualche disordine, della
frequentazione di una qualsiasi allegra brigata.
Da questo punto di vista è fin troppo facile constatare che la formazione di Wagner avvenne sotto un
opposto segno. Finiti gli studi elementari presso la
Kreuzkirche di Dresda, la frequenza del ginnasio avvenne prima a Dresda e poi alla scuole di San Nicola
e di San Tommaso di Lipsia, dove la famiglia tornò
nel 1827. La frequenza del ginnasio divenne sempre più saltuaria e svogliata. Si ha l’impressione che
quella madre così simpatica e quel bel gruppo di sorelle più grandi di lui fossero, con il piccolo di casa,
troppo permissive. Era ancora al ginnasio quando
Richard cominciò a imbarcarsi in un turbine di spese
eccessive (dovute anche alle bevute in compagnia e
al gioco d’azzardo) e quindi di debiti onorati con altri debiti, stile di vita che sarà la croce più tremenda
della sua esistenza. Tutt’altro che reticente riguardo
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a se stesso (il primo Schizzo autobiografico risale al
1843!), sappiamo anche quanto sia stata precoce la
trepidazione di fronte all’altro sesso. La débauche si
aggravò quando, anche se in mancanza di un vero e
proprio titolo di ginnasio, il giovane Wagner si iscrisse come studiosus musicae all’università: una specie
di “uditore”. Ma più che alle lezioni era interessato
soprattutto alla vita dei goliardi, con cui condivise
scelleratezze di ogni tipo, fino alla bella prodezza di
devastare una nota casa di appuntamenti.
Nei loro vent’anni Verdi e Wagner, insomma, non
potevano fare affidamento su una formazione completa e regolare. Nel caso di Verdi si trattava di una
cultura generale priva di aggiornate conoscenze letterarie, filosofiche e scientifiche; di una formazione
strumentale sulla tastiera che, finalizzata all’accompagnamento di arie d’opera, o di canti liturgici, o alle
prove della banda, venne giudicata insufficiente perché a diciannove anni – cioè tardi – venisse ammesso per pianoforte al Conservatorio di Milano. Grossi
limiti, ma anche spiccate attitudini, che Verdi presentava a quell’età nell’ambito della composizione.
Egli stesso ammise di non aver avuto nessun vero
insegnamento dell’armonia e della composizione
drammatica, ma alla carenza accademica supplirono
largamente la pratica quotidiana sulle partiture per
la chiesa e la banda di Busseto, e la frequentazione,
intorno ai suoi vent’anni, delle prove e delle rappresentazioni della Scala, auspice il suo maestro di allora, Vincenzo Lavigna, stimato ‘maestro al cembalo’
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di quel teatro.
Nel caso di Wagner la formazione letteraria fu disordinata, ma onnivora, dominata dall’ossequio per i
classici greci (di cui non imparò mai la lingua, anche
se millantò di aver tradotto dodici canti dai poemi
omerici) e dalla conoscenza di Shakespeare, Goethe
e Schiller. La crescente passione per la musica non fu
sorretta da corsi regolari: qualche lettura di trattati;
qualche lezione di armonia e di contrappunto da un
certo Müller; qualche lezione, ancor meno produttiva, di violino e di pianoforte (la sua abilità al pianoforte fu persino inferiore a quella di Verdi). La sua
vera formazione avvenne con la frequenza dei concerti, dove fu travolto dall’entusiasmo per la Settima
e la Nona, e del teatro d’opera, dove ebbe la rivelazione del Fidelio con la grande Wilhelmine SchröderDevrient. Ma ancor più decisiva fu la ricopiatura e la
riduzione pianistica delle grandi partiture che veniva
ammirando e amando: una mole incredibile di lavoro, svolto con tutto il metodo, la precisione e l’accuratezza che mancarono a tutti gli altri aspetti della
sua vita.
Entrambi non ebbero il dono della precoce scintilla
creatrice; quella di Mozart, o Rossini, o Mendelssohn, o Richard Strauss. Solo nei loro trent’anni il loro
mondo poteva dirsi costruito. Ubbidirono al potente
richiamo di quello che Socrate avrebbe chiamato un
‘demone’: quello della composizione musicale ‘drammatica’, che li guidò verso la meta – su basi fragili e
ristrette (Verdi), o disordinate e lacunose (Wagner)
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– e attraverso tentativi e insuccessi. Di questi, ora,
ci accingiamo a parlare per percorrere almeno una
parte di quel faticoso cammino.
“Das Rheingold”, manoscritto wagneriano del 1854
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II – Un decennio di preparazione
Un’altra data, dopo quella di nascita, appare fatidica per i nostri racconti intrecciati: è il 1842, da
ricordare non solo per la versione definitiva dei Promessi sposi, o per la costruzione del primo saxofono,
o per la prima uscita della Gazzetta musicale di Milano di Giovanni Ricordi, ma qui soprattutto per aver
segnato l’approdo al successo e alla fama dei nostri
due autori con il Nabucco alla Scala di Milano, e, rispettivamente, con il Rienzi al teatro reale di Dresda.
Nessuno dei due sapeva dell’altro, diciamo ancora,
eppure qualche filo sottile legava le due opere: il Nabucco, con il suo uso del coro in funzione patriottica,
aveva un principale antecedente nel Guillaume Tell
di Rossini, rappresentato a Parigi nel 1829, e conosciuto in Italia, in lingua italiana, dal 1831; il Rien-
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zi, con il suo ancor più esplicito contenuto storicorivoluzionario, si dichiarava “große tragische Oper”
(grande opera tragica), con preciso riferimento al
genere della “grande opera” (grand-opéra), a cui apparteneva proprio il Guillaume Tell di Rossini, ben
conosciuto a Dresda fin dal 1831, quando cominciò a
essere presentato con libretto in lingua italiana, accomunato al largo successo, in Germania, degli Huguenots di Meyerbeer, e soprattutto del Masaniello
di Auber (cioè La muette de Portici). Senza contatti
tra di loro, si può ben dire che Verdi e Wagner, in
quell’anno, guardavano entrambi a Parigi.
Nel 1842, quindi, per pura casualità, i nostri due
autori concludevano un lungo decennio di apprendistato, di tentativi faticosi e persino dolorosi. Entrambi avevano scelto in cuor loro la strada dell’opera in
musica, ma le loro energie, in quel decennio, furono
assorbite da altri generi e da altre attività.
Wagner lavorò in teatri minori, dalle magre risorse
e dalle spesso fatiscenti strutture: a Würzburg, come
direttore del coro e Korrepetitor (il maestro sostituto
che cura, al pianoforte, le prove separate dei cantanti e dei complessi corali); come direttore d’orchestra
nei teatri di Magdeburgo, Kōnigsberg e Riga. Il giovane Wagner si impose per un’abilità allora piuttosto rara: quella di saper ‘leggere’ la partitura, come
gli aveva insegnato l’assidua pratica delle copiature
in chiara e bella scrittura. Con lui si affermava così
la moderna tecnica della direzione d’orchestra che
avrebbe soppiantato l’uso di dirigere orchestra e voci
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standosene seduti davanti alla parte del primo violino, con esiti – ci raccontano tutti i testimoni – a
dir poco disastrosi. Ciò era avvenuto soprattutto da
quando cominciarono ad essere eseguite partiture
complesse come quelle delle Sinfonie di Beethoven,
letteralmente massacrate – come fu parere universalmente condiviso –al Gewandhaus di Lipsia alla
fine degli anni Venti. Anche al Conservatoire di Parigi, tra il 1828 e il 1848, i concerti erano ‘diretti’ dal
violinista François Habeneck dal suo leggio. Eppure, pur con compagnie di canto itineranti che allora
imperversavano nei piccoli teatri dei paesi di lingua
tedesca e che non potevano certo rivaleggiare con le
compagnie stabili dei teatri di corte, il giovane maestro riuscì a ottenere risultati apprezzabili, se la più
importante stella del teatro d’opera tedesco di quegli
anni, il soprano Wilhelmine Schrōder-Devrient, non
disdegnò di esibirsi sotto la direzione di Wagner a
Magdeburgo, allontanandosi per qualche tempo dal
teatro di Dresda dove era stabilmente assunta. Peccato che Wagner non poté assaporare questi risultati,
braccato dai creditori di città in città: sempre più a
nord, sempre più a est.
In questo stesso decennio il percorso di Verdi fu
molto meno avventuroso, geograficamente limitato
ai cento chilometri – allora con frontiera e dogana –
che separano Busseto da Milano. Eppure, se si fa tesoro delle pur scarse informazioni sulle attività svolte
da Verdi in quel periodo, ci si sorprende di non poche
affinità con il percorso professionale di Wagner. A
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Busseto aveva mosso i primi passi come preparatore
dei cori in chiesa, come accompagnatore dei cantanti nelle ‘accademie’ che si tenevano in casa Barezzi,
come trascrittore-adattatore delle musiche destinate
alla locale Filarmonica, allora ancora formata soltanto da strumenti a fiato. Nei tre anni (1832-35) passati
a Milano a lezione da Vincenzo Lavigna, maestro al
cembalo alla Scala, ebbe modo di conoscere il mondo del teatro d’opera di allora, non solo presenziando
alle rappresentazioni, ma anche osservando i meccanismi delle prove e degli allestimenti. Tornato a
Busseto nel 1836, nonostante l’opposizione del clero
locale vinse il concorso per sostituire il defunto Provesi nelle funzioni di maestro di cappella della Collegiata e di maestro nella locale scuola di musica: il
pur magro stipendio gli permise di sposare nel 1836
Margherita Barezzi (pur nella totale insignificanza di tali notizie, va detto che in quello stesso anno
Wagner sposò Minna). Negli anni 1836-39 dedicò le
più assidue cure alla Filarmonica retta da Antonio
Barezzi. Con l’immissione degli strumenti ad arco
essa era divenuta una vera e propria orchestra, che
Verdi guidò in esecuzioni di ‘sinfonie’ (cioè sinfonie
d’opera eseguite in sede di concerto) e talvolta nelle rappresentazioni operistiche allestite nel teatrino
sito nella Rocca Pallavicino. Fu in quegli intrattenimenti, in quei concerti o in quelle rappresentazioni
operistiche che Verdi acquisì un’abilità non comune
nella concertazione e nella direzione e, a detta di alcuni pur non affidabilissimi testimoni, una grande
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padronanza nell’uso del pianoforte di casa Barezzi,
un Fritz viennese a coda. Non occorrono forzature
per rintracciare, in queste attività del Verdi ventenne, strade piuttosto simili a quelle battute da Wagner
nell’impadronirsi, anche con l’assiduo esercizio della
copiatura delle partiture, delle tecniche direttoriali
con cui riuscire a ottenere buone esecuzioni. Non è
abbastanza conosciuto, del resto, che l’abilità di Giuseppe Verdi come direttore d’orchestra fu universalmente riconosciuta lungo tutta la sua carriera, fino
alle esecuzioni di Aida e della Messa di Requiem,
due partiture – come si sa – di difficoltà notevole.
Per tornare agli anni Trenta, occorre ricordare che
fu proprio questa sua abilità che lo introdusse nella
ristretta cerchia della Società Filarmonica di Milano,
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i cui nobili dilettanti gli chiesero di concertare e dirigere una loro esecuzione della Creazione di Haydn.
In quell’ambiente il giovane bussetano fu particolarmente apprezzato dal direttore Pietro Massini, che lo
presentò all’impresario Bartolomeo Merelli. Con lui
Verdi trovò di nuovo la strada verso la Scala dopo
la scomparsa di Vincenzo Lavigna nel 1836; da quel
contatto nacque così il suo buon esordio operistico
nel 1839 con Oberto, conte di San Bonifacio.
Nel nord della Germania o nell’area compresa tra
Busseto e Milano, furono dunque non molto dissimili le attività che permisero ai nostri due autori di
guadagnarsi da vivere con la musica e, nello stesso
tempo, di rafforzare con la pratica la propria competenza musicale. La differenza più marcata sta nella
propensione ‘letteraria’ del giovane Wagner, che si
cimentò, già nei primi anni Trenta, nella stesura di
articoli riguardanti, ad esempio, i problemi del teatro operistico tedesco: articoli che vennero pubblicati nella Neue Zeitschrift für Musik diretta dal giovane
Robert Schumann.
Nei piccoli teatri del Nord o nelle Società Filarmoniche ebbero entrambi l’occasione di eseguire le loro
prime composizioni: per Verdi brani corali o ‘sinfonie’ (tra cui una per il Barbiere di Siviglia di Rossini),
romanze da salotto, la marcia funebre poi inserita nel
Nabucco, e chissà quante altre composizioni sacre e
profane, vocali o strumentali che oggi sembrano irrimediabilmente perdute; per Wagner si ricordano
arie ‘di sostituzione’ (per Il vampiro di Marschner
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o per vari Singspiele) e soprattutto una serie importante di Ouvertures da concerto (tra cui l’Ouverture
Columbus), sul modello semi-programmatico offerto
da quelle di Beethoven; e una serie di composizioni strumentali, tra cui Sinfonie o Sonate, destinate
a rimanere nel cassetto, e recuperate all’ascolto solo
negli ultimi anni.
La vocazione teatrale, invece, si manifestò in Wagner in modi piuttosto differenti: autore costante dei
suoi libretti, lavorò dal 1834 a un’intera partitura –
quella delle Fate – senza che ci fosse alcuna concreta
prospettiva di rappresentazione. Una seconda opera,
Das Liebesverbot, fu terminata nel 1836 e venne rappresentata nel teatro di Magdeburgo in una serata il
cui incasso sarebbe andato a beneficio dell’autore ossessionato dai creditori, i quali erano seduti in platea, pronti a farsi ripagare dal botteghino. È Wagner
stesso a darci, anni dopo, un resoconto tragicomico
del disastro totale di quella rappresentazione, con
vuoti di memoria dei cantanti e totale scollamento
di un’orchestra pigra e distratta. Insomma la vocazione teatrale rimase frustrata e si rifugiò, dopo il
Liebesverbot, nell’enorme partitura del Rienzi, fida
compagna di tutti i viaggi e di tutte le fughe con cui
terminarono nel disastro economico e professionale
i suoi anni Trenta.
Verdi evitò questo tipo di frustrazione, poiché sarebbe stato allora impensabile in Italia che un musicista
si mettesse a comporre un’opera senza che un impresario gli avesse assegnato un librettista e si fosse im-
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pegnato alla rappresentazione. In realtà la vicenda di
Oberto, conte di San Bonifacio non fu affatto lineare,
poiché la commissione iniziale sarebbe dovuta essere
per il teatro Filarmonico e solo dopo alterne vicende
(che fecero viaggiare più volte la partitura tra Busseto e Milano) si arrivò alla rappresentazione alla Scala. Lineare, nonostante l’esito infausto, fu invece la
vicenda di Un giorno di regno, commissionata per
l’anno seguente da Merelli dopo il discreto successo
di Oberto. Ma ormai il rapporto con Merelli e la Scala
era consolidato e le mancate repliche di Un giorno di
regno vennero rimpiazzate dalla ripresa dell’Oberto;
e non fu pregiudicato il cammino che, con il Nabucco, avrebbe portato al grande successo.
Nell’ambito della pura coincidenza va collocato un
ultimo elemento di forte affinità nelle sorti dei nostri
due autori in questo decennio: il fatto che, poco prima del successo del Nabucco, Verdi fu colpito da una
serie terribile di eventi luttuosi (nel 1838 la morte
del figlio; nel 1839 la morte della figlia; nel 1840 la
morte della moglie); e che Wagner, prima del successo del Rienzi, conobbe uno dei periodi più tremendi
della sua esistenza, con la fuga avventurosa da Riga
verso Londra e Parigi, dove non trovò il modo di far
rappresentare le sue opere e condusse vita grama e
disperata per più di due anni.
Questa storia faticosa e incerta, giunta a livelli di
disperazione per entrambi, ebbe, per entrambi, una
conclusione radiosa, propiziata – ci piace pensarlo
– dall’intervento benefico di due donne: per Verdi,
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il famoso soprano Giuseppina Strepponi, al vertice
della sua carriera, intercedette per il Nabucco con
l’impresario Merelli; per Wagner il famoso soprano
Wilhelmine Schrōder-Devrient convinse il sovrintendente del teatro di Dresda, barone Lüttichau, ad
allestire il Rienzi: con la partenza da Parigi nell’aprile del 1842 si apriva per Wagner la porta luminosa
del successo.
Si chiudeva così, per entrambi, il ‘decennio di
preparazione’.
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III – Arte e rivoluzione
Nei loro vent’anni Verdi e Wagner si imbatterono
con i grandi eventi della Storia: e scelsero di collocarsi dalla parte della rivoluzione del luglio del 1830
a Parigi, e dei suoi clamorosi esiti a Bruxelles e in
Polonia.
Verdi fu sfiorato da vicino dai moti del 1830-31, che
erano giunti anche nel ducato di Parma, Piacenza e
Guastalla, con la rivolta popolare contro i ministri
imposti da Vienna e la momentanea fuga di Maria
Luigia. Egli seguiva gli avvenimenti da Busseto, dove
Antonio Barezzi e i suoi amici non per nulla venivano
chiamati “i giacobini”, per le simpatie mai sopite per
gli ideali liberali. Fu per questo che il giovane Verdi,
quando morì il maestro di cappella della Collegiata
Ferdinando Provesi nel 1835, trovò, per succedergli,
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Eugène Delacroix, “La libertà che guida il popolo”, 1830
l’opposizione delle gerarchie ecclesiastiche. Si collocò, insomma, quasi naturalmente, in una posizione
distante sia dai reazionari filo-austriaci, sia dai clericali; ma dimostrò anche, già in occasione dei moti
contadini di quegli anni, un’avversione per i disordini
sociali, per i quali invocava i massimi rigori, non certo nei confronti delle masse ignoranti, bensì contro
gli «agitatori di professione». Altrettanta diffidenza
egli alimentava nei confronti della congiure di palazzo, di cui ebbe un esempio persino surreale nel 1831,
quando Francesco IV di Modena organizzò una rivolta … contro se stesso, con il solo risultato di dover poi
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mandare a morte il rivoluzionario con cui si era accordato, Ciro Menotti. A questi congiurati dedicherà
la feroce caricatura che ne farà nel secondo atto di
Un ballo in maschera…
Per Wagner, invece, si trattò di scelte maturate solo
in piccola parte come riflesso degli avvenimenti di
quegli anni. Le sue prime convinzioni politiche derivarono piuttosto da appassionate letture – Ardinghello e le isole felici di Wilhelm Heinse del 1787 – ,
e da frequentazioni politico-letterarie, come quella
con Heinrich Laube, redattore in Lipsia dal 1833 al
1835 della rivista Die elegante Welt, dove Wagner
pubblicò i suoi primi saggi sull’opera tedesca. Laube fu uno dei principali esponenti della cosiddetta
Giovane Germania (Das junge Deutschland); aveva
scritto infiammati proclami di adesione alla ri-voluzione di luglio e alla rivolta polacca, e fu più volte
imprigionato dai governi di Sassonia e di Prussia.
In quell’ambiente Wagner conobbe anche Heinrich
Heine prima che emigrasse in Francia. Con lui condivise il disprezzo verso la grettezza culturale degli
staterelli tedeschi, nonché il mito non poco contraddittorio di una Francia, che era stata un impero oppressivo dell’identità tedesca, ma anche patria
della rivoluzione liberale del 1789 i cui ideali avevano fecondato l’Europa nella fase eroica dell’epopea
napoleonica. Che Wagner sentisse lui stesso questo
profondo legame ideologico e politico con la Francia
delle rivoluzioni liberali è documentato non foss’altro dall’aver scelto, per uno dei suoi Lieder francesi
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scritti durante il suo primo soggiorno parigino, nel
1840, Les deux Grenadières: una poesia di Heine
che contiene una struggente raffigurazione di fedeltà a Napoleone, con l’intonazione, al termine, della
Marsigliese. Ricordiamo qui, di sfuggita, a dimostrazione di quanto fosse condivisa questa scelta liberale
nell’intellettualità tedesca di quella generazione, che
in quello stesso anno Schumann a Lipsia componeva
Die beide Grenadiere sull’originale tedesco. Carica
di futuro sarà per Wagner soprattutto l’adesione agli
ideali espressi da Heinse, come si diceva, nel romanzo del 1787 Ardinghello e le isole felici, dove viene
esaltata l’utopia – alla Rousseau – di uno stato di
natura in cui il libero e felice espandersi dell’istinto
umano è reso possibile dall’assenza di costrizioni da
parte dello Stato e delle sue leggi. Su questa immaginazione ‘politica’ si basa Il divieto di amare (1836),
la prima sua opera rappresentata: ambientata in Sicilia, il ruolo del moralista-oppressore è attribuito a
un principe tedesco …
Negli anni Quaranta le opere di Verdi, dal Nabucco
alla Battaglia di Legnano, rispecchiarono ostentatamente (ancora una volta un riferimento ‘reale’ e non
una immaginazione astratta) i diffusi sentimenti patriottici che portarono alla prima guerra d’indipendenza. La teca in cui sono racchiuse queste icone, a
cominciare da “Viva V.E.R.D.I.”, è troppo nota perché la si apra ancora. Ma è interessante identificare l’effettiva posizione che Verdi assunse rispetto a
questi avvenimenti risorgimentali. Dall’epistolario
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emerge, per prima cosa, un’adesione piena all’idea
di indipendenza dall’Austria e dell’unità “dalle Alpi
all’Etna”, come dirà Cavour. Tale adesione può certo dirsi ‘mazziniana’, in anni dove ancora pesavano i
condizionamenti clericali (o neo-guelfi) riguardanti
la salvaguardia dello Stato della Chiesa. E Mazzini fu
onorato da Verdi, che lo volle incontrare nell’esilio
londinese e il cui vivente mito condivise con l’amica di sempre, Clarina Maffei. Ma, date per certe la
venerazione per l’uomo e l’adesione all’idea unitaria,
emerge con altrettanta chiarezza in Verdi uno scetticismo niente affatto mazziniano che le insurrezioni
di popolo possano portare a un qualche risultato senza l’intervento di eserciti regolari. E anche l’idea di
repubblica non ebbe particolare riscontro in Verdi,
rispettoso dei bravi regnanti ed entusiasta del programma monarchico-liberale di Cavour. Fu tra coloro che, realisticamente, fecero dipendere il successo
dei moti di Milano, Venezia e Roma del 1848 dall’intervento della Francia; e che condivisero lo sforzo di
Cavour per convincere Napoleone III a intervenire
contro l’Austria nel 1859. Angosciato di fronte alla
sconfitta della Francia a Sedan nel settembre del
1870, da lui sentita come uno scontro di civiltà in cui
prevaleva la “barbarie”, non prese neppure in considerazione la generosa spedizione di Garibaldi, accorso con i suoi volontari a ‘salvare Parigi’, e invocò
(in privato) l’intervento dell’esercito italiano, forte di
centinaia di migliaia di soldati.
Ancora una volta il rapporto di Verdi con la politica
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appare ispirato a un idealismo realistico, estraneo
a qualsiasi avventura, eversione, o progetto utopico.
Ispirata, al contrario, al più acceso degli estremismi,
è la posizione di Wagner negli anni Quaranta, quando
fu Kapellmeister del re di Sassonia. A Dresda Wagner
frequentava caffè politico-letterari dove si incontrava
con ‘radicali’, tra cui il repubblicano August Röckel
(direttore della rivista Fogli del popolo, dove Wagner
pubblicò il saggio La rivoluzione) e l’anarchico Bakunin. Tra i suoi contatti ci fu il socialista Ferdinand
Lassalle, attivo a Berlino. Tra le sue letture spiccavano un saggio di filosofia, L’essenza del Cristianesimo
(1841) di Ludwig Feuerbach, testo-chiave della ‘sinistra’ hegeliana; e L’unico (1844) di Max Stirner, riferimento obbligato delle posizioni anarchiche. Le sue
posizioni politiche non erano però incentrate sulla
questione dello Stato e della Religione, come era per
i suoi referenti, bensì sulla questione di un’arte che
si sarebbe rinnovata in un nuovo rapporto con il ‘popolo’. L’aspetto pratico e reale della rivoluzione, a cui
pure partecipò di persona salendo sulle barricate di
Dresda nel maggio del 1849, cedette il passo di fronte all’intenzione rivoluzio-naria nell’arte; meglio: nel
teatro musicale. Fu così che, nel clima infuocato di
quei suoi dibattiti e di quelle sue letture, concepì la
Morte di Sigfrido, nucleo iniziale di quello che sarebbe stato L’anello del Nibelungo. Il senso ‘vero’ di quel
progetto è documentato nelle lettere che, negli anni
seguenti al fallimento della rivoluzione del 1849, egli
indirizzò all’amico Röckel in prigione: una critica
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Classic Voice
Secondo mandato d’arresto per Wagner. schedato nel 1853 sulla Gazzetta ufficiale della polizia
tedesca.
al potere (Wotan), che si fonda sulla violenza e sul
furto; un’esaltazione dello stato di natura che, come
aveva predicato Bakunin, può essere riconquistato
solo rinnegando i vincoli etero-imposti dallo Stato:
la salvazione del mondo avverrà ad opera di un eroe
(Sigfrido) nato dall’infrangersi di tutti i tabù sociali
(a cominciare da quello dell’incesto, segno di divinità fin dai tempi del culto per Iris e Osiride).
Il moderato e realistico Verdi e l’estremista e utopi-
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Classic Voice
sta Wagner, partiti da posizioni antitetiche, avranno poi un’evoluzione che li avvicinò non poco.
Verdi accentuò la
sua posizione di
equidistanza tra
i clericali, da un
lato, e i radicalsocialisti dall’altro. Accettò la
monarchia; fu in
positivi rapporti – dopo Cavour
– con Quintino
Ritratto di Ludovico II di Baviera
Sella; fu diffidente verso la sinistra
di Depretis e dei suoi successori. Dopo l’unità d’Italia prevalsero in lui scetticismo e malcontento (condivisi per altro dall’intellettualità del suo tempo) rispetto alle meschinità dei piccoli uomini, spesso corrotti, che reggevano la politica della nazione; e aveva
raggiunto una tale fama internazionale e una tale ricchezza che poteva osservare dall’alto il succedersi dei
governi e delle loro azioni.
Richard Wagner, in una supplica che inoltrò nel
1860 al re di Sassonia per ottenere l’amnistia che gli
permettesse di tornare in Germania, dichiarò che
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Classic Voice
l’unico suo interesse era per l’Arte, e che l’unica ‘rivoluzione’ che gli potesse interessare era in quell’ambito. Da questo punto di vista va ammirato il suo capolavoro ‘politico’: quello di farsi sostenere al di là
dell’immaginabile da Ludwig II di Baviera, ottenendo
un ribaltamento del tradizionale rapporto tra potere
e arte. Le teste coronate che si assieparono all’apertura del Festspielhaus di Bayreuth nel 1876 sanciranno, anche visivamente, questo nuovo rapporto: comparse secondarie alla corte di ‘re’ Riccardo.
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Classic Voice
IV – Passatisti o futuristi?
Tra i tanti luoghi comuni che fanno ombra alla comprensione del rapporto tra Verdi e Wagner ci sono due
slogan di cui loro stessi sono responsabili: quel proclama da passatista che Verdi si lasciò sfuggire senza
rendersi conto che gli si sarebbe rivoltato contro in
eterno – “tornate all’antico e sarà un progresso” –;
e il termine ”avvenire” che Wagner utilizzò in alcuni
suoi titoli (Das Kunstwerk der Zukunft, L’opera d’arte dell’avvenire, 1849; La musique de l’avenir, 1860)
e che venne utilizzato dagli amici fino all’abuso e dileggiato costantemente dai detrattori.
Come tutti gli slogan, anche questi mostrano la
chiara superficie di una realtà ben altrimenti complessa: di qua il rivoluzionario; di là il conservatore.
In luoghi distanti, ma negli stessi anni , è vero che i
nostri due eroi ebbero a giocare una stessa partita,
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Classic Voice
ma è ancor più vero che si scambiarono spesso il terreno di gioco. Siccome le scelte più decisive avvennero attorno ai loro quarant’anni – negli anni Cinquanta del loro secolo – possiamo riprendere da qui
il nostro racconto.
Entrambi parteciparono alla grande delusione seguita al fallimento, quasi ovunque, dei moti rivoluzionari e popolari del 1848-49, con il crollo amaro delle
gloriose repubbliche; delle costituzioni strappate ai
principi reazionari; delle prime conquiste operaie.
Per Wagner la disillusione si può misurare rileggendo L’arte e la rivoluzione del 1849, mettendola a
diretto confronto con quanto nel 1860 dichiarava al
re di Sassonia per essere perdonato della sua partecipazione ai moti di Dresda. Nell’opuscolo del 1849 egli
proclamava la necessaria ed inevitabile palingenesi
della società e dello Stato, con la morte del privilegio
e della schiavitù dell’oro, come premessa necessaria
per il raggiungimento di un’Arte nuova, sottratta al
commercio e all’industria, e proprietà di tutto un popolo di liberi ed uguali. Nel 1860 dichiarava di non
essersi mai interessato di politica, bensì di Arte: il
riscatto civile e sociale della collettività non era più
la premessa indispensabile per la riforma dell’arte
drammatico-musicale. Il messaggio eroico di una
vita per l’arte e nell’arte avrebbe piuttosto portato
alla rigenerazione filosofica (secondo Schopenhauer)
di singoli eletti. Questo cambiamento di rotta non è
– come si potrebbe supporre – una ritrattazione di
comodo per godere dell’amnistia; a dimostrare la ve-
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rità di quelle dichiarazioni che rovesciavano il rapporto tra arte e rivoluzione ci stanno infatti tutti gli
atti compiuti in quel decennio, come drammaturgo,
come musicista e come pensatore.
Dopo la composizione del Lohengrin, terminato
nell’aprile del 1848, Wagner non scrisse più musica,
sostanzialmente, fino all’autunno del 1853: ci vollero
cinque anni e mezzo, devastati dagli eventi di Dresda,
dalle fughe rocambolesche, dall’approdo a Zurigo
come esule, perché prendesse corpo – faticosamente, e attraverso un percorso tutt’altro che lineare –
quella che qui potremmo chiamare la ‘rivoluzione in
musica’ costituita dal progetto dell’Anello del Nibelungo. Il ‘nuovo ordine’ politico si era dimostrato impossibile. Tutte le energie si concentravano ora, con
il favore della quiete della cittadina svizzera e sulla
‘verde collina’ di casa Wesendonk, sull’atto creativo:
opera dopo opera apparirono le partiture già stese
in bella copia dell’Oro del Reno, della Valchiria, dei
primi due atti del Sigfrido, del primo atto del Tristano. Poi ricominceranno a turbinare gli eventi biografici, ma nel freddo inverno di una Venezia livida,
dove l’autorità imperiale dell’Austria appariva nelle
vesti consunte di un’occupazione militare pronta alla
disfatta, Wagner si immerse nella composizione del
secondo atto del Tristano, dove la sua rivoluzione
musicale giunse al suo riconosciuto e ammirato culmine: dove la parola e la stessa azione teatrale sono
parvenze superficiali di un coacervo di tensioni simboliche appartenenti a un fiume sinfonico continuo,
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“meraviglioso”, come lo giudicherà (ma nel 1898) lo
stesso Verdi. Quando il Tristano venne conosciuto,
anni dopo, il mondo non fu più lo stesso; e non solo
quello musicale. Ma di questo avremo occasione di
parlare.
Abbiamo già avuto occasione di chiarire come anche
Giuseppe Verdi abbia partecipato agli ideali libertari
e, nel suo caso, patriottici, agitati dagli avvenimenti
del 1848. Non salì certamente sulle barricate, ma affidò agli scambi epistolari privati i suoi ideali politici.
Molto di più: non fece nulla per contraddire gli entusiasmi che le sue opere destavano tra i risorgimentali, tanto da anticipare di qualche giorno la rivolta che
portò alla proclamazione della Repubblica romana
(9 febbraio 1849) con la rappresentazione al teatro
Argentina di La battaglia di Legnano (27 gennaio).
Non proprio detonatore, come era stata La muta di
Portici per l’insurrezione di Bruxelles … ma quasi.
Anche per Verdi la fine del periodo rivoluzionario
ebbe come riflesso un concentrarsi di energie nel rivolgimento (Verdi usava, però, il termine ‘rinnovamento’) del suo operare artistico: l’11 marzo 1851 fu
chiaro ai veneziani accorsi alla Fenice per la ‘prima’
del Rigoletto che quell’opera, comunque allora potesse piacere o non piacere, rappresentava una svolta
imprevedibile nell’uso drammatico delle forme musicali, nel valore psicologico dell’orchestrazione, nella vocalità modellata come non mai – soprattutto nel
protagonista – sulla declamazione della parola. Abbondano testimonianze di come fu Verdi stesso, per
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tanti anni da allora, a indicare ai suoi corrispondenti
che Rigoletto era la sua “migliore opera” , “perché più
nuova”, o “perché più ardita”. Nel 1854, mentre era
impegnato nei ritocchi a La traviata, scriveva ai suoi
amici ribadendo la convinzione che, per giudicare
un’opera, occorresse badare al dramma scenico-musicale in senso unitario; ed era un lessico ‘wagneriano’ che nasceva dalla sua del tutto personale ricerca
e certo non dalla conoscenza di Oper und Drama di
Wagner).
Con questo atteggiamento mentale Verdi compiva
inoltre, negli anni Cinquanta, quella sorta di contaminazione della tradizione italiana con la tradizione
francese del grand-opéra di Meyerbeer, in quei decenni generalmente considerato il più grande operista vivente. Trasferitosi a Parigi per lunghi soggiorni
(“io mi rompo l’anima in questo amabilissimo Parigi”, scriveva agli amici italiani), ebbe modo di valutare, durante la messinscena delle Vêpres siciliennes,
su dramma del principe dei librettisti dell’Opéra, Eugène Scribe, gusti, mode, consuetudini e soprattutto
esigenze ‘estetiche’ del pubblico francese. Tutto ciò
penetrò nella sua produzione in termini, ancora una
volta, di una ricerca cosciente e costante di rinnovamento. La qual cosa lo espose, come è noto, ad accuse di epigonismo (rispetto a Meyerbeer) o, per lo
meno, a un’eccessiva disinvoltura nel mutamento dei
generi: Abramo Basevi, ad esempio, nel suo studio Le
opere di Giuseppe Verdi (1859), giunge a individuare
quattro stili dal Nabucco all’Aroldo. Ormai ci è chia-
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ro, invece, che il percorso di Verdi – dopo l’apparente ripetitività delle formule delle cosiddette ‘opere di
galera’ degli anni Quaranta – fu sempre proteso al
rinnovamento, come apparve ancora più chiaro, e a
tutti, dall’Aida in poi.
Negli anni Cinquanta questa ricerca di rinnovamento si manifestò soprattutto con la ricerca, come disse, di soggetti da musicare che fossero “vasti, potenti
e soprattutto vari”. Un ballo in maschera ne fu uno
dei frutti più maturi: la ricerca di vastità viene raggiunta con l’ormai costante sostituzione delle scene
tradizionali (la cosiddetta ‘solita forma’ culminante
in cavatina-cabaletta) con quadri ampi costituiti da
un insieme composito di forme musicali solistiche,
corali, persino sinfoniche; la ‘potenza’ è qualità mai
disconosciuta al realismo energico del nostro autore,
ma assume ora l’aspetto dei grandi quadri d’insieme
(nel Ballo la festa a corte; in La forza del destino e
nel Don Carlos saranno parate e processioni); la ricerca della ‘varietà’ portò Verdi a introdurre elementi
‘comici’ nei quadri storici e nelle vicende passionali:
il paggio Oscar nel Ballo, ad esempio; ma anche Preziosilla e frate Melitone in La forza del destino.
I contemporanei avvertirono come un pericolo di
germanizzazione la sempre maggiore cura dell’orchestrazione e il sempre maggiore ruolo che l’orchestra
sinfonica veniva a svolgere nel contesto drammaturgico. Proprio per questo il sopra citato Basevi sentiva
aria di Germania nell’Aroldo o nel Simon Boccanegra, entrambe del 1857, testimoniando con questo la
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difficoltà con cui i critici musicali capirono i processi
creativi dei loro contemporanei, quando, come nel
caso di Verdi, si trattava di un movimento costante
lungo una traiettoria coerente di cui non si indovinava il punto di arrivo.
Da quello che siamo venuti osservando, Wagner e
Verdi avevano intrapreso insieme, anche se su sentieri paralleli, la strada del rinnovamento artistico,
indotto nella cultura dei loro anni dal mito della rivoluzione politica mancata. La loro mentalità fu certo
meno diversa di quello che si possa credere, se si osservano a quali impensabili prospettive l’arte drammatico-musicale venne portata nell’arco degli anni
della loro attività.
Le modalità con cui questo avvenne furono però del
tutto dissimili: con un’enfasi inaudita di supporti teorici e filosofico-letterari nel primo; il secondo con
un pragmatico e costante confronto con la situazione del suo presente (in prospettiva internazionale).
Il riferimento ideologico di Wagner era a miti antichi e a un utopico ordine politico-sociale – l’Atene
di Pericle! – da cui l’umanità era progressivamente
precipitata e che solo un salvatore avrebbe potuto riconquistare. A Verdi mancò invece ogni intenzione
messianica: ma forse, rispetto a Wagner, guardò con
maggiore fiducia verso il futuro.
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V – Gli anni del dubbio
Wagner e Verdi ebbero, quasi negli stessi anni, il
loro massimo momento di crisi umana e artistica.
Avvenne intorno al 1860, per motivi diversi – ovviamente – ma con pari intensità.
Wagner terminava il decennio passato prevalentemente a Zurigo, nel chiuso cerchio di una vita sentimentale suddivisa tra l’uggiosa sposa legittima Minna e la più giovane Mathilde imbevuta, come migliaia
di Madame Bovary dell’epoca, di ogni snobismo intellettuale. Giungeva ai suoi cinquant’anni senza fissa dimora e senza più un qualsiasi serio legame sentimentale che non fossero le pur sempre numerose
infatuazioni per donne che gli sembravano bisognose
della sua luce intellettuale, o che si dimostravano disposte a soccorrere la sua ansia inappagata. E anche il
suo credo artistico – quello che aveva espresso in mi-
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Wagner con Cosima Liszt
gliaia di pagine ‘preparatorie’ all’impresa dell’Anello
– cominciava a vacillare.
Da Zurigo era fuggito per placare la furia di Minna, che aveva intercettato un mattinale messaggino
amoroso per Mathilde. A Zurigo, avvolto nel clima
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esaltato degli incontri con Mathilde, aveva concluso il primo atto del Tristano. Ora, nell’autunno-inverno 1858-59, poteva ritrovare la pace necessaria
per scrivere il secondo atto, in una Venezia fredda e
spopolata: lì doveva nascere – nell’esaltazione propiziata anche dal malessere fisico e dal poco cibo – il
capolavoro dei capolavori. Controllato da una polizia
ultra-diffidente, tipica di uno Stato in disfacimento
(mancavano pochi mesi alla seconda guerra di indipendenza e sei anni alla terza che tolse il Veneto
all’Austria), Wagner, sul cui capo pendeva ancora il
mandato d’arresto del re di Sassonia, fu caldamente ‘consigliato’, nel marzo del 1859, di andarsene. Il
secondo atto, per fortuna dell’umanità, era già terminato. Il terzo fu compiuto a Lucerna nei mesi seguenti; dopo di che – mentre Breitkopf lavorava alla
stampa della partitura e il giovane amico Bülow si disperava cercando di ridurre in spartito canto-piano
quel fiume di musica – fu la volta di Parigi, dove sperava di far rappresentare il Tristano. Nei due anni di
soggiorno parigino, funestato dal temporaneo ricongiungimento con Minna, iniziava la fase più convulsa
e dolorosa in cui Wagner cercò di farsi conoscere e
apprezzare dirigendo concerti con estratti dalle sue
opere e cercò di trovare un teatro disponibile ad allestire il Tristano: dopo Parigi, Vienna; poi Praga,
Pietroburgo, Mosca e Pest; poi ancora Vienna. Tutto inutile. Il mondo sembrava interessato soltanto
al Tannhäuser (ma con il fiasco orribile di Parigi del
1861) e al Lohengrin.
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Questo girovagare per l’Europa fu reso ancor più
angoscioso dal solito folle rapporto con il denaro.
Nella maggior parte dei casi, i tanti concerti di questo periodo si rivelarono delle nette perdite finanziarie. Ma anche quando in occasione dei concerti nobili ammiratori dimostrarono il proprio entusiasmo
devolvendogli ingenti somme, interveniva la mania
del lusso sfrenato – “da satrapo orientale”, dissero
– che inceneriva ogni guadagno con l’acquisto di mobili pregiati, tappeti e tendaggi; montagne di regali
agli ospiti; intere cantine con centinaia di bottiglie
di champagne; affitto di case lussuose; e così via. Si
bruciarono in questo modo anche tutti i proventi che
gli giunsero dagli editori, dai teatri, dagli ‘amici’ e dagli usurai a cui ricorreva quando si dichiarava sicuro
di future entrate, che spesso, poi, non si realizzavano. Ai viaggi per ragioni artistiche si aggiunsero, soprattutto tra il 1863 e l’inizio del 1864, i viaggi per
fuggire ai creditori o ai mandati di cattura che i creditori avevano ottenuto contro di lui. Parleremo della
miracolosa apparizione nella sua vita, di Ludwig II,
re di Baviera, con cui si risolsero, almeno per qualche anno, i suoi problemi finanziari e, con quelli, la
possibilità di rappresentare le sue più recenti e straordinarie creazioni: il Tristano, i Maestri cantori, La
Valchiria, L’oro del Reno. Ma lo squilibrio avventuroso e l’affanno esistenziale si spostarono allora nella sua vita sentimentale, quando la relazione segreta
con Cosima, moglie di Bülow, il direttore che aveva
portato alla luce il Tristano, gli valse un pubblico
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scandalo e la fuga da Monaco per Tribschen, sobborgo di Lucerna.
Apparentemente Verdi mostrava ben altra solidità
nel gestire la propria vita: già ricchissimo all’epoca
di Rigoletto, aveva costantemente accresciuto i suoi
guadagni e li aveva investiti, tra l’altro, per diventare
un vero e proprio proprietario terriero, con una bella
villa – quella di Sant’Agata – e un terreno di decine di
ettari coltivati. Oculato amministratore di se stesso,
delle sue opere e dei suoi beni, Verdi sembrerebbe
agli antipodi della disinvolta e autolesionistica condotta di Wagner.
Anche sul piano sentimentale Verdi sembrerebbe
agli antipodi rispetto a Wagner, se si pensa soprattutto alla solida durata e all’intensità del legame con
Giuseppina Strepponi, con cui nel 1859 regolarizzò
con matrimonio religioso il legame che durava da almeno quindici anni. Benché riservatissimo sulla sua
vita intima, Verdi almeno in un caso non riuscì del
tutto a nascondere un legame extra-coniugale: fu la
stessa Peppina a dichiarare al suo amico prete che il
loro era diventato un “ménage à trois” con il soprano Teresa Stolz. Per quanto sia dato di capire, questa
relazione potrebbe essere durata dal 1869, quando la
Stolz trionfò alla Scala nella Forza del destino, fino
almeno alle tournées europee con la Messa di Requiem (1873-74).
Per ragioni ben più sostanziali gli anni intorno al
1860 ci appaiono per entrambi anni di dubbi e di incertezze. Per Verdi vale quanto lui stesso dichiarò a
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Classic Voice
proposito della ricerca incessante che lo aveva portato a sempre nuovi modelli, a sempre nuove drammaturgie. Sarebbe stato comodo – dichiarò – ripetere
all’infinito la formula della Traviata; e invece con
il Simon Boccanegra, con Un ballo in maschera e
con lo Stiffelio aveva sfidato se stesso, arricchendo
il contributo drammatico dell’orchestra, ampliando
le forme, introducendo contaminazioni con il comico
e il descrittivo. Nel far questo si era esposto a critiche malevole di chi lo aveva accusato di eclettismo (i
quattro ‘stili’ indicati dal critico Basevi alla fine degli
anni Cinquanta) e soprattutto di imitazione dell’opera francese e, addirittura, tedesca. Questa irrequietezza si manifestò in modo ancor più clamoroso negli anni Sessanta. La forza del destino attraversa il
decennio con gli allestimenti di Pietroburgo (1862),
Roma (1863) e Milano (1869): ritocchi, aggiunte ed
espunzioni accompagnarono il percorso di un’opera
inaudita per eterogeneità di stili e di materiali. Don
Carlos (1867) vive dell’ambiguità tra apparati da
grand-opéra ed estremo scavo psicologico; anche in
questo caso le riprese italiane furono occasione per
ripensamenti che arrivarono all’abolizione dell’intero primo atto, quello di Fontainebleau. Altrettanto
significativo fu il rifacimento, radicale soprattutto
nell’orchestrazione, del vecchio Macbeth (1847) ripreso a Parigi nel 1865.
Mentre era impegnato a rinnovarsi e ad aggiornarsi,
Verdi vedeva crescere una nuova generazione, quella
dei cosiddetti Scapigliati (quella dei ventenni Boito e
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Faccio), che agitavano
l’esigenza di un rinnovamento del ‘vecchio’
melodramma italiano
«lordato come muro
di lupanare», come
ebbe a scrivere Boito
nel famoso Brindisi.
L’esigenza diffusa di
un innalzamento culturale della vita musicale italiana stava
portando anche a una
nuova moda: quella
del quartettismo, con
la nascita in tante città
d’Italia di Società del
Quartetto e, in gene- Spartito dell’edizione francese di Macbethooo
re, con nuove società
di concerti dedicate soprattutto alla diffusione della
musica strumentale, da camera e sinfonica. Verdi si
sentì assediato: reagì male al Brindisi, sentendosi accusato di aver ‘lordato’ l’altare dell’arte; proclamò in
ogni occasione che la natura degli italiani si esprimeva nell’opera e non nella musica strumentale … salvo
poi voler dimostrare che anche lui poteva scrivere –
in forma del tutto privata e quasi segreta – un «vero
quartetto», quello in mi minore, eseguito a Napoli
nel 1873 nel suo appartamento, davanti a pochi amici. Insomma, anche da questo punto di vista tutto ci
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fa pensare a una profonda irrequietezza, il cui segno
evidente è, forse, un eccesso di autocritica.
In quegli stessi anni, Wagner assisteva al crollo
delle certezze rivoluzionarie enunciate, nella luce
del pensiero di Feuerbach, nei tanti scritti ‘preparatori’ all’Anello. Era stato un lungo processo, iniziato
nell’autunno del 1853 con l’appassionata lettura di
Schopenhauer: il ruolo della musica era ora divenuto quello di rivelare il fondo misterioso e doloroso
dell’esistenza. Non una musica qualsiasi, naturalmente: ma quella, inaudita, nelle tensioni armoniche
e orchestrali del Tristan und Isolde, l’opera che abbandonava ogni connotato germanico per farsi voce
dell’universalità e del ‘puramente umano’. Poté così
anche avvenire che nei Maestri cantori, a cui lavorava
nei travagliati anni che abbiamo descritto, la famosa
Ouverture nasca prima dell’opera e, prima che appaiano le parole, definisca i temi su cui l’opera si reggerà.
Nella sua attività di direttore le sinfonie di Beethoven
(la Settima a Londra, la Terza e la Quinta a Pietroburgo) stavano ora a rappresentare la potenza stessa di
una musica che, nell’incarnare mondi di pensieri e di
sentimenti, non aveva più alcun bisogno della scena.
Noi siamo nella fortunata posizione di godere delle
opere compiute, ma abbiamo un debito nei confronti
dei loro autori: di capire quanto quelle opere siano
state il frutto, per entrambi, di un enorme e spesso
doloroso travaglio
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VI – Doppio approdo
Una per quanto rapida rilettura delle due biografie
ci ha indotto a prospettare per entrambi un lungo periodo di crisi: clamoroso e risaputo quello di Wagner
in fuga dalla polizia, dai creditori e da se stesso tra
le barricate del maggio 1849 fino all’incontro con il
messaggero di Ludwig il 4 maggio 1864; più da indovinare e da capire quello di Verdi dal ‘fiasco’ della
prima Traviata a Venezia fino al trionfo di Aida al
Cairo.
La riservatezza di Verdi non ci impedisce, però, di
capire che, dopo aver conquistato definitivamente
il cuore del grande pubblico dell’opera italiana con
la cosiddetta ‘trilogia popolare’, si era posto l’arduo
obiettivo di trionfare su un pubblico più vasto, più
acculturato – forse più snob, sicuramente più contegnoso – come era quello che si era creato nel mondo
con l’ascesa al potere delle nuove classi produttive e
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finanziarie, in alcuni casi (Inghilterra, Russia, Spagna, Portogallo) strettamente alleate con le antiche
istituzioni monarchiche. Smuovere gli animi e le
menti di un simile pubblico era fatica – per usare una
frase che a Verdi piaceva particolarmente – da sfiancare un toro; ma ci si mise con metodo e costanza,
ponendo per quasi vent’anni il suo centro culturale
di riferimento a Parigi, dove era stato di casa fin dagli anni di Jérusalem. Dichiarò ai suoi librettisti di
volere soggetti “vasti, potenti e soprattutto vari”, ben
diversi da quelli serrati, fulminanti, corruschi che
avevano fatto la sua fortuna. Aggiornò le strutture
musicali dando pur malvolentieri addio alle ‘cabalette’ e adottando i grandi tableaux di stampo francese;
adottò più costantemente un declamato sinfonico altamente drammatico; impiegò una scrittura orchestrale potente e varia; cercò contaminazioni tra tragico e comico, tra aulico e popolare.
Tutte le ‘novità’ di Verdi non discendevano da un
facile adeguamento a nuove mode: furono il frutto,
semmai, della ricerca faticosa all’interno delle proprie potenzialità. Va notato, semmai, che, in questo
travaglio, non sempre fu sostenuto e incoraggiato da
quel ‘nuovo’ pubblico a cui avrebbe voluto rivolgersi:
tiepide accoglienze alle Vêpres siciliennes a Parigi,
o a La forza del destino a Pietroburgo; incomprensioni totali nei confronti del Don Carlos (!). Da qui
i rapporti sempre più tesi con la critica e con quella che lui chiamava, dispregiativamente, la réclame,
potente mezzo della nuova organizzazione industria-
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le dello spettacolo.
Di fronte a questa difficile vicenda che caratterizzò
la piena maturità verdiana (1850-1870) verrebbe da
pensare che i rapporti con la vicenda creativa di Wagner siano molto labili, se non inesistenti. In Arte e
rivoluzione (1848) egli si rifiutava di avere come fruitori del proprio lavoro artistico una massa di parassiti sociali insensibili al bello e all’ideale. Per il Kapellmeister del teatro reale di Dresda, quale era Wagner
in quegli anni, il pubblico peggiore era il suo, filisteo
ed edonista, simile a quello che aveva ben conosciuto
durante il primo disgraziato soggiorno parigino del
1840-42. Schematizzando di molto, si potrebbe dire
che Wagner rifiutò il rapporto con quel tipo di pubblico che Verdi, invece, cercò di conquistare. Nel caso
di Wagner, sempre parlando di quei decenni, il rifiuto fu ricambiato: basti pensare che alla ‘prima’ del
Lohengrin a Weimar, la granduchessa dovette comprare lei stessa un numero esorbitante di biglietti per
riempire una platea altrimenti vuota dei ben pasciuti
borghesi vogliosi di Donizetti o di Auber. E la vicenda
si protrasse fino all’enorme scandalo del Tannhäuser
versione 1861 a Parigi: a nulla era valso che l’autore si piegasse a recuperare una sua opera vecchia di
quasi vent’anni, e rinunciasse con ciò a vedersi allestire il capolavoro appena terminato (il Tristano) che
si portava senza successo su e giù per l’Europa. Una
doppia umiliazione, cioè.
Verdi e Wagner si trovarono ad affrontare lo stesso problema: conquistare un rapporto diretto con un
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pubblico nuovo aggirando le barriere rappresentate
da critici musicali, editori, impresari; e, in termini
ancor più drammatici, interpreti (cantanti, orchestre,
direttori, ecc.) sempre meno affidabili e sempre più
bisognosi di essere guidati dall’autore o almeno da
chi fosse in grado di incarnarne fino in fondo la volontà. Sono le stesse tematiche per Verdi e per Wagner, propensi entrambi a salire sul podio ogni volta
che fosse loro possibile, a meno che si trovassero a
poter usufruire di musicisti perfettamente disposti a
esaudirne le indicazioni: come fu, per Verdi, con Angelo Mariani (prima che ci fosse – cherchez la femme
– la clamorosa rottura); come fu, per Wagner, con il
giovane Bülow (direttore del Tristano e de I Maestri
cantori a Monaco), prima che – cherchez la femme,
anche qui e ancor più clamorosamente – avvenisse la
rottura.
Da questo punto di vista la figura di Wagner appare
meno utopica di quanto normalmente siamo venuti annotando, perché era ben cosciente di incarnare
una serie di esigenze degli uomini di cultura del suo
tempo: gliene erano testimoni viventi gli ammiratori di rango intellettuale che vedeva crescere intorno:
da Baudelaire a Nietzsche, punte di diamante di una
schiera crescente di adepti adoranti, ruotanti intorno
all’impresa di Bayreuth. La figura di Verdi, di converso, appare, per una volta, più utopica di quanto si
pensi, nel senso che, dopo la ‘trilogia popolare’, procedette sempre più solitario per la sua strada dando
poca voce anche agli amici-consiglieri, per quanto
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Bozzetto di Edouard Despléchin per la prima di “Aida” al Cairo, 1871
di valore; di questo i contemporanei si mostrarono coscienti quando affermarono (unanimemente,
ma erroneamente) che non lasciava dopo di sé una
“scuola”.
Questi sono dunque i termini della ‘crisi’ che abbiamo visto accomunare i nostri due musicisti. E da cui
entrambi uscirono in modi a dir poco impensabili.
Il miglior romanziere non avrebbe potuto immaginare la soluzione che occorse a Wagner quando,
fuggiasco e rovinato, venne raggiunto a Stoccarda
dall’emissario di Ludwig, che lo invitava alla reggia di
Monaco. La storia dell’uomo entrò allora in una fase
dove tutto ebbe una soluzione. La vicenda creativa
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trovava allora un nuovo inizio, tutto da decifrare.
La rappresentazione di Tristan und Isolde al teatro reale di Monaco nel 1865 chiuse gloriosamente il
travagliato quinquennio in cui nessuno aveva voluto
saperne del capolavoro supremo. Vennero alla luce
altrettanto rapidamente e felicemente, con la rappresentazione del 1868, i Maestri cantori, finalmente
conclusi dopo un ventennio di gestazione. Il progetto
dell’Anello del Nibelungo, abbandonato da dieci anni
al secondo atto del Sigfrido, venne ripreso con nuova
lena, in vista di una ora possibile rappresentazione
nel teatro che sarebbe stato inaugurato a Bayreuth.
Rimane semmai da approfondire se si trattò di una
sopraggiunta capacità realizzativa, propiziata dalla
nuova situazione esistenziale, o se questa fioritura al
limite dell’incredibile sul piano quantitativo, abbia
rappresentato un approdo anche a nuove certezze,
come quelle su cui Wagner stesso condusse le sue riflessioni, rivelando un nuovo orizzonte ideale con il
saggio Beethoven del 1870: il vertice della riflessione
teorica wagneriana – praticamente escluso dalla vulgata scolastica e giornalistica – che getta sull’ultimo
Wagner una nuovissima luce. In quel saggio si rinnega la sequenza “Wort-Ton-Drama”, che cioè la musica nasca dalla poesia, e che il dramma nasca dalla
poesia intonata: ora gli era chiaro che all’origine di
tutto, nel mistero profondo dell’anima del mondo, sta
la Musica; parola e dramma sono superfici di quella
Richard Wagner a Villa Tribschen a Lucerna
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profondità. E quindi sostanza e valore della propria
musica risiedono ora per Wagner nella possibilità di
accordarsi con quella Musica metafisica.
Meno vistosa è certamente l’uscita di Giuseppe Verdi dal periodo di ‘crisi’ che abbiamo variamente indicato tra il 1850 e il 1870: forse il mondo e lui stesso
non compresero subito che Aida – apparsa al Cairo
nel 1870, ma continuamente e fortunatamente ripresa negli anni successivi in tutta Europa – e la Messa
di Requiem (1874), erano l’approdo di tante ricerche
e di tante incertezze. È vero piuttosto che, leggendo
l’epistolario 1870-72, si sente in Verdi come non mai
l’amarezza per i giudizi dei critici e soprattutto per la
moda sopravvenuta di confrontarlo con Wagner. Ma,
diradatesi le prime nubi, fu chiaro a tutti che il Verdi
di Aida e della Messa aveva compiuto il miracolo di
innestare la palpitante vocalità di cui aveva disseminato tutte le opere di tutti i periodi della sua creazione con impianti drammaturgici più vasti e strutture
orchestrali più complesse. Era l’approdo definitivo?
Sappiamo che non lo fu, ma per molti anni lo si credette. Lui stesso lo pensò, come se si dovesse ripetere per lui sessantenne la sorte del silenzio toccata a
Rossini non ancora quarantenne dopo il Guglielmo
Tell.
Verdi e Wagner, entrambi, ebbero in sorte di poter
andar oltre l’approdo ultimo. Oltre Aida e la Messa.
Oltre il Ring, rappresentato nel teatro compiuto, a
Bayreuth, nel 1876. Il dato cronologico obiettivo
–Wagner morì quasi vent’anni prima di Verdi – non
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scompigliò neppure in questa fase il possibile parallelismo tra i due musicisti, perché in tutta Europa fu
proprio in quel ventennio che la musica di Wagner
fu conosciuta e celebrata in tutto il mondo. Si trattò,
dunque per entrambi. di giganteschi postludi: quelli
che – come vedremo – erano destinati a gettare nuove luci su parabole creative che credevamo già concluse e definite.
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VII – Un grande postludio
Queste grandi figure di musicisti-drammaturghi,
nonostante la distanza delle loro radici culturali, delle loro visioni del mondo e, ovviamente, delle loro
personalità, seguirono dunque percorsi paralleli,
se non addirittura intrecciati, incarnando comuni esigenze estetiche e morali che la civiltà europea
della loro epoca affidò al teatro in genere, e a quello
musicale in ispecie. Quelle che siamo quindi venute
rintracciando non furono, quasi mai, coincidenze casuali e inessenziali.
Come abbiamo visto, questi contatti ideali ebbero
il punto culminante negli anni Settanta: entrambi
giunsero allora, a loro modo, alla pienezza della loro
espressione artistica: per Wagner, vistosissimamente, con il completamento dell’Anello e la nascita del
Festspielhaus a Bayreuth; per Verdi, con Aida e la
Messa da Requiem, non meno clamorosamente ac-
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colti presso i pubblici di tutta Europa. Esattamente
negli stessi momenti Wagner si prodigava ad ottenere dai cantanti, dall’orchestra, dal coro e dagli allestimenti scenici “l’opera d’arte totale”; e Verdi girava
l’Italia e l’Europa per garantirsi dal podio la più alta
qualità possibile nell’allestimento delle sue ultime
opere, convinto che solo una perfetta simbiosi tra
canto, orchestra, movimento scenico, luci, costumi e
scenari avrebbe reso giustizia della sua creatività.
Occorre considerare, ora, quanto avvenne per entrambi dopo questi due raggiungimenti. Per Wagner
furono ancora anni di amarezza: sembrò persino che
quel teatro – su cui si erano appuntati gli sforzi intellettuali e finanziari di tutta la Germania – fosse a
rischio di fallimento; che cioè sarebbe dovuto rimanere chiuso. Per cinque lunghi anni, infatti, risultò
impossibile rappresentarvi la Tetralogia, come era
stato nelle intenzioni dell’autore. Soltanto con lo
sforzo dei comitati “wagneriani” che cominciavano a
spandersi in tutta Europa e in America, l’accorrere di
mecenati devoti e le prestazioni gratuite dei musicisti
fecero il miracolo: nel luglio del 1882, il Festspielhaus di Bayreuth potè riaprire – ristrutturato – con
il Parsifal.
Furono cinque anni dedicati interamente a questo progetto che era nelle intenzioni di Wagner fin
dagli anni Quaranta, quando il tempio del Gral era
stato evocato nella narrazione di Lohengrin. Quasi
vent’anni dopo, Parsifal sarebbe dovuto riapparire al
capezzale di Tristano; e il Parsifal continuò ad appa-
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rire nella mente di Wagner come un progetto inevitabile, a cui dedicarsi però quando ne avesse avuta la
forza. Il momento giunse quando sulla verde collina
di Bayreuth ci fu un ‘tempio’ pronto ad accoglierlo e
– fino a che punto ne fosse cosciente non lo sapremo
mai – la parabola umana del suo autore era vicina a
concludersi.
Si rimane sempre stupiti di fronte a questa ‘perfezione’ della morte di Wagner, giunta alla vigilia della dantesca età dell’uomo (“la nostra vita” del primo
verso della Divina Commedia) e solo sei mesi dopo
la rappresentazione dell’ultima opera; l’opera dopo
la quale – non era mai successo – nessun nuovo progetto sarebbe stato possibile. Se fosse sopravvissuto,
mi piace pensare che, anziché permettere che la sua
casa si aprisse – complice Cosima – alla peggiore feccia pre-nazista e nazista, si sarebbe finalmente deciso
– come avrebbe voluto già nei primi anni Settanta –
ad emigrare negli Stati Uniti, dove trovare una nuova
ragione di vita.
Verdi gli sopravvisse di quasi vent’anni, in buona
salute e lucidissimo; eppure, dopo la Messa di Requiem, appariva immerso in un imprevedibile silenzio creativo. Franz Werfel, in Verdi. Roman der Oper
(1924), immaginerà un Verdi, paralizzato dalla fama
e dalla grandezza di Wagner, che ritorna a lavorare
a una nuova opera (Otello) solo dopo che – giunto
a pochi metri dal ‘rivale’ nella fredda Venezia dove
soggiornava con quella sorte di corte di miracoli con
cui era solito viaggiare (moglie, figli, copisti-pianisti,
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Verdi nel giardino di Villa Sant’Agata
cane, ecc.) – aveva avuto quasi per primo la notizia
della sua morte.
Sta ritornando di moda la storia cosiddetta ‘congetturale’, basata sui ‘se’, i ‘non poteva non’, i ‘con
tutta probabilità’. Con essa si riapre la strada a ogni
cialtroneria. Eppure, nel caso di Werfel (un austriaco
innamorato di Verdi) l’immaginazione veniva a supplire all’assoluta mancanza di fonti che rispondano
al quesito: perché quel silenzio di Verdi? e perché,
quindici anni dopo Aida, il ritorno della creatività?
La tesi di Werfel è seducente e affida quel silenzio a
un pathos sofferto. Certo, è molto improbabile che
sia quella l’unica spiegazione: avranno avuto il loro
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ruolo sia l’irritazione verso tutti coloro che predicavano ‘l’avvenire’ e consideravano Verdi un trapassato; sia la documentata allergia per la nuova dignità
che si erano conquistati i critici musicali o i direttori
d’orchestra; forse persino lo sconquasso che può aver
determinato in lui – per qualche anno – un nuovo
legame sentimentale. In ogni caso, fu questo silenzio
a determinare la prima grande dissociazione temporale tra le nostre due storie finora parallele.
Eppure, con un ‘ritardo’ reso possibile dall’essergli
sopravvissuto, anche Verdi, nella sua ultima stagione, compì una vera e propria resa dei conti conclusiva
con la propria storia creativa. Come sappiamo, i conti
in sospeso erano due: quello con Shakespeare, da cui
per tanti anni aveva inutilmente vagheggiato di trarre un Re Lear; quello con il genere comico, rimasto
angosciosamente fissato nella memoria di Un giorno
di regno, composto nel più tetro dei lutti famigliari.
Per quanto riguarda Shakespeare, poteva ora disporre di un letterato illustre (o, comunque, ritenuto tale)
che gli forgiasse – con Otello – una struttura drammaturgica concisa, efficace, libera dalle verbosità insidiose del teatro di prosa; una vicenda dove potessero giganteggiare il male e il dolore, proprio come in
Re Lear. E a questo egli poteva ora finalizzare la libertà dalle convenzioni formali che aveva acquisito con
Aida; la potente saldatura della vocalità con le parole
a cui aveva affidato le sue maggiori riuscite drammaturgiche, dal Rigoletto in poi; e l’efficacia espressiva
infinita di un’orchestra come quella che giganteggia-
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va nel recente Requiem. C’erano, nel 1887, le condizioni affinché l’ideale ‘tragico’ shakespeariano si
realizzasse sulla scena nel migliore dei modi (anche
senza doversi creare un nuovo teatro come quello di
Bayreuth): Ricordi, la Scala, la trepida ammirazione
dei direttori e dell’orchestra, la disponibilità dei più
grandi cantanti del momento, nonché i mezzi scenici
più aggiornati resi possibili dall’avvento dell’energia elettrica; tutto questo poteva ben dirsi il coronamento di una carriera; e la realizzazione di un ideale,
senza nessuna concessione, neppure all’orientalismo
che era stato ancora obbligato ad accettare, in Aida,
dal Khedivé d’Egitto.
Per quanto riguarda il genere comico, anch’esso
mediato attraverso Shakespeare e Boito, il Falstaff fu
molto di più che un’ulteriore opera destinata al pubblico: tutte le testimonianza di cui in abbondanza disponiamo ci dicono che il “pancione” segnò quei suoi
anni – prossimi, ormai, agli ottanta – con una costante allegria, con una fin insospettata propensione
al riso e allo scherzo. Fu, quell’opera, quasi un fatto
privato, non solo perché la sua genesi rimase segreta
per anni (ulteriore motivo per un gioco divertente),
ma anche perché il genere stesso diede occasione a
Verdi per una minore preoccupazione rispetto agli
apparati, i mezzi scenici, la difficoltà esecutiva di
cantanti e orchestra.
Se quindi si può affermare che la parabola creativa di Wagner e di Verdi si concluse per entrambi
con la piena e pacificata attuazione di progetti a lun-
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go accarezzati, non c’è chi non veda, accostando per
un attimo il Parsifal al Falstaff la distanza siderale
tra i due esiti artistici. Ma c’è un’altra considerazione sugli esiti ‘ultimi’ dei nostri due autori: si tratta
di un addio al teatro, che Wagner, contrariamente
a Verdi, non ebbe il tempo di realizzare. Sappiamo
come Wagner, durante le prove della Tetralogia, invocasse – lui che aveva inventato l’”orchestra invisibile” – il “teatro invisibile”, reagendo con ciò alle
ridicole posture dei cantanti e forse anche al ridicolo
armamentario di corazze, lance, spade ed elmi, magari con corna. In quel contesto le frasi riferite da
Cosima sembrano poco più che una battuta. Eppure
rimandano a una tensione che Wagner nutrì costantemente verso la musica ‘pura’ (gli ultimi quartetti di
Beethoven; i brani sinfonici delle sue opere eseguiti
in concerto; ecc.), e che si concretizzò nel progetto
di voler scrivere, dopo il Parsifal, dei piccoli “quadri
sinfonici”, senza voce, quindi. A noi balza innanzi,
con tutto il suo fascino, un possibile modello: l’Idillio
di Sigfrido. Aggiungerei quell’Incantesimo del Venerdì santo che è il nucleo generatore del Parsifal,
ed è, se eseguito senza le voci, una gemma totalmente avulsa dallo stesso concetto di ‘teatralità’. Qui sì
che la morte di Wagner mancò di ‘perfezione’, come
prima mi azzardavo a dire, se ci ha privato di altre
simili meraviglie!
Verdi, invece, ebbe il tempo di uscire dal ‘teatro’:
non gli era riuscito del tutto quando aveva composto
Giusppe Verdi nel celebre ritratto di Giovanni Boldini, 1886
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– privatamente e “per esperimento” – il suo Quartetto d’archi. Non era avvenuto certamente neppure con
la Messa di Requiem, dove palpita un teatro immaginato, certamente non meno efficace drammaturgicamente di un teatro rappresentato. Ma nel genere
sacro, a cui si dedicò nell’ultima fase della sua vita,
avvenne il miracolo: la decantazione dell’espressione
e la contenutezza del gesto sono raggiunte in un clima di sublimazione, apertamente anti-teatrale.
Verdi, insomma, realizzò – a modo suo, s’intende
– ciò che Wagner aveva soltanto immaginato? Forse
solo nella già citata moda della storia ‘congetturale’,
questa non è del tutto una sciocchezza…
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VIII – Un’eredità travagliata
Verdi, con Otello e Falstaff, sopravvisse gagliardamente per diciotto anni alla morte di Wagner; ma
proprio in quei diciotto anni la conoscenza, la fama
e addirittura il ‘culto’ di quest’ultimo divennero un
fenomeno europeo e mondiale, al punto che lo stesso
Verdi – se dobbiamo credere alle interviste giornalistiche pubblicate postume – si profuse allora in ammirati giudizi sulle opere dell’ ex-‘rivale’.
Nel caso di Verdi, il lungo silenzio tra Aida (1871) e
Otello (1887) aveva indotto una nuova generazione a
tentare vie nuove rispetto al suo realismo melodrammatico: si trattò, in ambito ‘scapigliato’, dell’irruzione del fantastico e del soprannaturale che tanta
parte ricopre nel Mefistofele di Boito o nell’Elda (poi
Loreley) di Catalani, in Bianca da Cervia di Antonio Smareglia fino alla prima stesura del Guglielmo
Ratcliff di Mascagni; o al giovane Puccini de Le Villi o
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di Edgar. Si può leggere questa vicenda come un tentativo, da parte dei giovani post-verdiani, di appropriarsi di alcune caratteristiche del teatro tedesco, da
Weber a Wagner. Non bisogna dimenticare neppure
che in quegli stessi anni Ottanta, aveva preso piede,
di fronte a nuovi pubblici urbani, più acculturati di
quelli che avevano decretato il successo delle opere
di Verdi fino ad Aida, un vero e proprio ‘sinfonismo’,
o ‘strumentalismo’ italiano, nato, con Martucci, Mancinelli, Bazzini e Sgambati, per emulazione di quanto
si veniva ora conoscendo di Beethoven, Mendelssohn, Schumann e Brahms.
Tutto ciò costituiva una crisi della tradizione operistica italiana, che Verdi aveva incarnato al massimo
livello. E quando questa crisi – che fu anche e soprattutto di successi e di pubblico – apparve pienamente
superata con il trionfo mondiale, nel 1890, di Cavalleria rusticana di Mascagni e, nel 1893, di Manon
Lescaut di Puccini (al Regio di Torino 8 giorni prima
del Falstaff alla Scala), gli scenari erano totalmente
cambiati: il ‘verista’ Mascagni e i suoi sodali Leoncavallo, Giordano, Cilea, Franchetti si accostarono
sempre più scopertamente a qualche aspetto del wagnerismo, per quanto ridotto a formule decontestualizzate; e il ‘francesismo’ di Puccini semotto a formule e decontestualizzato; e il ‘ di ‘ mondiale, nel 1890,
di nata, al massimo livello, nella produzionrappresentava con rara efficacia quel momento decadente e
crepuscolare della nostra cultura. Maturò così quella caduta di attenzione e di interesse per la produ-
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zione di Verdi che non riuscì a nascondersi neppure
dietro i toni celebrativi in occasione della morte, né
tanto meno in occasione del primo centenario dalla
nascita.
Apparentemente la sorte di Wagner, fino agli anni
della prima guerra mondiale, fu altrimenti trionfale
per numero degli allestimenti, per successo di pubblico e soprattutto per la centralità nel dibattito culturale di quegli anni. Alla causa wagneriana si convertì in toto l’intellettualità europea, al punto che si
può legittimamente sostenere che chi non conosce
Wagner non può capire nulla della letteratura, delle
arti figurative, del pensiero filosofico e, naturalmente, della musica di quel trentennio. Ciò non significa
che la presenza di Wagner sia stata accolta da tutti
in termini positivi: basti pensare al “wagnerismo rovesciato” del Pelléas et Mélisande, con cui il Debussy maturo – dopo i calchi giovanili dei Cinq Poèmes
de Baudelaire – riscriveva con suggestiva eleganza
liberty i turgori lancinanti del Tristano. Ciò non significa neppure che questa fortuna postuma sia stata
rispettosa delle idee, del gusto, dell’effettivo significato delle opere.
Le mistificazioni (di questo si tratta) furono, a mio
parere, di due tipi. La prima avvenne ad opera dei
frequentatori di Wahnfried (la casa di Bayreuth ora
retta da Cosima e popolata dai figli di lei, di primo e
di secondo letto), i quali crearono un vero e proprio
circolo culturale sempre più dominato dai miti della purezza del sangue, dall’antisemitismo, dalla fre-
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quentazione amichevole e devota di Adolf Hitler già
dagli anni in cui egli attuava il putsch di Monaco del
1923. Fu l’inizio, da parte degli eredi, di un tradimento radicale del suo pensiero: Wagner, come abbiamo
visto, aveva oscillato tra un socialismo utopistico e
la predicazione buddista della mitezza e dell’intima
connessione (Mitleid) con tutti gli esseri viventi. E
anche il suo antisemitismo non aveva neppure una
sfumatura che potesse considerarsi violenta.
La seconda mistificazione avvenne soprattutto a Parigi quando personaggi al limite del grottesco, come
i Rosacroce Sâr Péladan e Stanislas de Guaïta, accostarono l’occultismo e la magia all’”estetica del tempio del Gral”, come dissero. Il wagnerismo in salsa
francese mantenne nei decenni quest’aura simbolista
e decadente, che in Italia ebbe tra gli adepti Gabriele
d’Annunzio. Nel 1893 costui affidò a un articolo su
“La tribuna” di Roma una sintesi molto convincente
di questa deformazione del significato del teatro musicale di Wagner.
Soltanto alla musica è oggi dato esprimere i sogni che nascono nelle profondità della malinconia moderna, i pensieri
indefiniti, i desideri senza limiti, le ansie senza causa, le disperazioni inconsolabili, tutti i turbamenti più oscuri e più
angosciosi […]. Riccardo Wagner non solo ha raccolto nella
sua opera tutta questa spiritualità e queste idealità sparse
attorno a lui, ma, interpretando il nostro bisogno metafisico, ha rivelato a noi stessi la parte più occulta della nostra
intima vita. Ciascuno di noi, come Tristano nell’udire l’antica melodia modulata dal pastore, deve alla virtù misteriosa
della grande musica la rivelazione diretta d’un’angoscia nel-
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la quale ha creduto di sorprendere l’essenza vera della sua
propria anima e il segreto terribile del Destino.
Giunti a questo punto del nostro racconto verrebbe
da chiedersi se è miglior sorte quella di essere temporaneamente dimenticati o sottostimati (come avvenne a Verdi), oppure essere fraintesi nel proprio messaggio o addirittura traditi, come avvenne a Wagner.
L’eredità dei due grandi ebbe, com’è naturale, ulteriori vicissitudini. Il punto più basso della fortuna
verdiana fu negli anni intorno alla prima guerra mondiale, dominati dai chiassosi corifei del ‘superamento’ dell’Ottocento (futuristi, avanguardisti, modernisti …; in musica, tra tanti altri, Casella e Malipiero):
costoro, salvo ricredersi nel giro di qualche anno,
diffusero un’immagine borghese e “volgare” del teatro di Verdi. Si salvarono, nella considerazione dei
cosiddetti “uomini di cultura” (che si consideravano
ben diversi da coloro che affollavano i teatri d’opera), solo Otello e Falstaff. Poco dopo iniziò la cosiddetta “rinascita verdiana”, in parte dovuta al libro
dell’austriaco Franz Werfel (marito di Alma Mahler);
in parte al giovane Massimo Mila, con la sua tesi di
laurea del 1931 più volte integrata e riscritta. Avvenne così che la cosiddetta trilogia popolare e, poco per
volta, anche le cosiddette ‘opere degli anni di galera’
furono considerate con criteri valutativi più aderenti
alla loro specifica natura drammaturgica.
L’eredità del pensiero e delle opere di Wagner dovette superare il trauma dell’accostamento al nazismo
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ad opera dei suoi discendenti, proprietari e direttori
del festival di Bayreuth, tutti compromessi addirittura
con gerarchi come Alfred Rosenberg, impiccato a Norimberga. Il riscatto avvenne non solo per il capibile
trasformismo di costoro (tra cui soprattutto Wieland,
figlio di Siegfried, che si accreditò, contro ogni evidenza, addirittura come anti-nazista). L’evidenza dei valori umanistici dell’opera di Wagner trovò importanti
difensori come Thomas Mann (Dolore e grandezza di
Richard Wagner), anche in settori culturali dominati dall’ebraismo: Daniel Barenboim è l’ultimo corifeo
della convinzione che la musica di Wagner ha valori
universali che vanno accolti anche nei teatri e nelle
sale di concerto dello Stato d’Israele …
In verità Wagner ha rappresentato e rappresenta –
ben diversamente da Verdi – un “caso” per la multiformità e talvolta contraddittorietà della sua attività
di pensatore, scrittore, drammaturgo e compositore.
In particolare appare ancor oggi problematico il significato da attribuire alle sue creazioni: fu lui stesso,
ad esempio, ad avvertire che non era riuscito a chiarire con le parole affidate a Brünnhilde il significato
conclusivo dell’Anello del Nibelungo, e che solo la
musica avrebbe potuto esprimerlo. Questo concetto
è ampiamente estendibile a tante sue altre opere: che
senso dare alla ‘crudeltà’ di Lohengrin nell’abbandonare Elsa? C’è una vera identificazione dell’autore
con Hans Sachs? Che mai significherà “redenzione al
redentore” nella pagina finale del Parsifal? E mille
altre questioni con cui i cultori dell’arte wagneriana
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si baloccano da sempre.
Molto di più di altre musiche, insomma, l’ambiguità
dei significati della produzione wagneriana ha messo a dura prova l’”interpretazione”. La questione riguardò, fino a qualche anno fa, soprattuto le scelte di
esecuzione musicale: la pastosità un poco confusa di
Knapperbusch contrapposta al preciso strutturalismo
di Boulez; l’energia vitale di Toscanini contrapposta
alle profondità decadenti di Furtwängler. Poi, da un
paio di decenni a questa parte, si è aperto il vaso di
Pandora delle scelte registiche: un travaglio da cui,
nonostante la sua grandezza, Richard Wagner esce
spesso malconcio. Ugualmente per Verdi: ci giungono immagini di Un ballo in maschera con cantanti
denudati nonostante le carni flaccide. Su quest’ultima spiaggia, nel comune bicentenario dalla loro nascita, Verdi e Wagner ancora una volta si ritrovano.
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IX – Verdi, Wagner e la comicità
L’immagine prevalente di Verdi e di Wagner è quella di artisti poco inclini al genere comico, salva per
entrambi un’unica vera eccezione: quella del Falstaff
e, rispettivamente, dei Meistersinger. Questa opinione non impedisce che li continuiamo ad amare o almeno ad ammirare, perché i loro anni furono quelli
di Mazzini e Garibaldi, o quelli di Heine e Schopenhauer: non propriamente famosi, tutti quanti, per
essere stati degli allegroni in quello che erano e in
quello che creavano.
Eppure le cose non stanno davvero così: esiste in
loro e nelle loro opere una vena ironica, umoristica,
se non addirittura comica, che, ove scoperta, può
contribuire a renderceli più amabili e vicini a noi.
Per Wagner si dovrebbe partire, a mio parere, da
Mein Leben, dall’autobiografia che si ferma al 1864 e
che oggi può essere completata dalla recente edizio-
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ne, anche in inglese, del cosiddetto Libro marrone
(Das braune Buch)e dei vari diari di Cosima e degli
epistolari. Ma è soprattutto Mein Leben l’opera su
cui l’opprimente sacerdotalità di Cosima non riesce
a mortificare del tutto la verve del racconto. Una citazione per tutte: le pagine di irresistibile comicità
che vengono dedicate al vecchio Spontini, tronfio e
pressoché demente nell’esaltazione di sé e dei propri
“capolavori”. Ma non trascurerei neppure i segnali,
disseminati qua e là, di come, nonostante i suoi eterni guai finanziari e di salute, il giovane e meno giovane Richard non si sottraesse a gagliarde e chiassose
bevute con gli amici.
Di tutt’altro tenore l’allegria di Giuseppe Verdi, che
traspare a fatica – ma inequivocabilmente – da alcune pagine dell’epistolario. Colpisce in particolare
il tono leggero e persino scanzonato della corrispondenza con Clarina Maffei, l’amica forse più intima e
stimata. Non trascurerei neppure la sua vis ironica
nel rapporto con i ridicoli censori degli anni di Rigoletto e di Un ballo in maschera; ma di ironia, appunto, si tratta, non certo di un approccio leggero ai guai
e alle fatiche a cui lo costringeva la gretta stupidità
di quei tali. Un capitolo a parte meriterebbe, invece,
la corrispondenza con Boito negli anni del Falstaff,
quando sembrava aleggiare su Verdi il buonumore
che gli regalava il “pancione”.
Si tratta, come si vede, di stretti spiragli che ci rassicurano sulla presenza, accanto ai profondi pensieri e
ai seri intendimenti artistici, di una disponibilità ver-
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so una più luminosa rappresentazione del reale. Per
Verdi, si direbbe, tutta la produzione giovanile fino
almeno a Rigoletto è sotto la cappa oscura di una visione tragica (alla Byron o alla Schiller) dell’esistenza
umana e della Storia, anche se, secondo le più ovvie
convenzioni teatrali, l’autore non si nega a qualche
refrigerante annotazione di colore locale (come i
canti e i balli veneziani de I due Foscari) o a molto
caratterizzanti scene di genere (come il brindisi degli
spagnoli vittoriosi all’inizio del secondo atto di Alzira). Ma già Rigoletto rivela che l’autore vuole affilare anche altre armi: quella della rappresentazione
caricaturale della trivialità, in cui sono accomunati i
cortigiani e il duca di Mantova; quella, soprattutto,
dell’intrigo notturno durante il rapimento di Gilda.
Verdi trova, in quest’ultimo caso, una scrittura musicale da opera buffa, priva di ogni lirismo e di ogni
drammaticità.
L’apertura verso il comico avvenne, per Verdi, soprattutto negli anni Cinquanta, quando più forte si
fece l’attenzione verso il grand-opéra francese, con
la sua commistione dei generi. Nei Vespri siciliani
trovano il loro spazio, tra epiche vicende storico-politiche e contrasti amorosi, le risa dei nobili francesi
che si recano alla festa in casa di Monforte alla fine
del secondo atto; e il Bolero nel giardino di Elena
all’inizio del quinto atto. Ma è soprattutto con il paggio Oscar di Un ballo in maschera che Verdi volle
introdurre una dimensione ‘comica’, inseguendo un
ideale di ‘varietà di stili’: il paggio gorgheggia e invi-
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ta al ballo; anche l’indovina Ulrica si colora di tratti
caricaturali; ancor più i congiurati, che assistono al
convegno notturno tra Riccardo e Amelia, sono dipinti con goffe e soffocate risate, da buontemponi
del tutto incongrui rispetto alla grande e passionale
vocalità dei due innamorati. Ancor più evidente è la
comicità di alcuni personaggi della Forza del destino – la zingarella Preziosilla e fra Melitone – senza i
quali sarebbe dramma cupo e disperato e non spettacolo vario e ‘divertente’. Persino nel progetto, a lungo
accarezzato e mai realizzato, di un Re Lear, Verdi intendeva dare grande rilievo a un Matto, che avrebbe
rappresentato un punto di osservazione distaccato
e ironico pur di fronte alle trame demoniache delle
figlie di Lear. Prospettive diverse – come abbiamo
visto – si aprirono quando con il Falstaff la scelta
di Verdi ottantenne fu per un’opera ‘integralmente’
comica
Nei drammi musicali di Wagner la componente comica è altrettanto presente, anche se la sua stessa natura e la sua funzione mi sembrano lontani da quanto
abbiamo rilevato nelle opere di Verdi. Forse solo nel
Liebesverbot (Il divieto d’amore) l’accezione di ‘comicità’ si riferisce ai modelli francesi: colore locale,
ricostruzione di canti e di balli ‘popolari’. Fors’anche
nell’Olandese volante – nei suoi cori festanti, nella
figura realistica del marinaio Daland, nel coro delle filatrici – è operante il riferimento ad Auber o ad
Adam. Ma di tutt’altra natura è, nell’Oro del Reno,
l’illustrazione beffarda che l’orchestra propone con
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riferimento allo scivolare inesorabile che impedisce
ad Alberico di agguantare or questa or quella Ondina.
È una comicità ‘cattiva’ che si fa beffe di chi è brutto,
cattivo, ottuso, o addirittura ripugnante. Ne sono vittima sia Mime, costretto a guaire sotto la sferza del
fratello; sia Fasolt, letteralmente conficcato in terra
dalle martellate (mimate dai colpi di timpano) del
fratello Fafner. Nei primi due atti del Sigfrido è un
trionfo della comicità ‘cattiva’, rivolta in particolare
contro Mime, di cui si dileggia la paura: quando Sigfrido lo spaventa portandogli in casa un orso; quando
perde la proprio testa al gioco degli indovinelli in cui
viene intrappolato dal Viandante; quando si trova di
fronte a Fafner in forma di drago orribile. E anche
quest’ultimo è esponente abietto (a suo modo ridicolo) di quella che Dante avrebbe chiamato “matta
bestialità”: un mostro da teatro dei pupi di cui – giustamente, verrebbe da dire – Sigfrido si guarda bene
dall’aver paura. A ben vedere, anche la forza bruta
del giovane Sigfrido, che sta saldando la spada urlando una rozza canzone di lavoro, ha connotati di
iper-realismo da teatro popolare.
Sarebbe una forzatura estendere questa nostra indagine alle tre opere che, nell’arco di 25 anni, sono
collegate da tanti fili, sia letterari sia musicali: Lohengrin, Tristano e Isotta, Parsifal. È una trilogia,
per così dire, che segna un crescendo delle tensioni
mistico-filosofiche: non c’è spazio, qui, né per un autentico realismo, né per una qualche forma di ironia,
o, ancor più, di comicità. Questa componente della
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poetica e della drammaturgia di Wagner si concentrò
e si esaltò, allora, tutta e soltanto nei Maestri cantori di Norimberga. Sappiamo che questa esaltazione della buona e antica Germania, con i suoi bravi e
un poco ottusi borghesi, aveva catturato l’attenzione
di Wagner nel 1845, come contraltare realistico alle
visioni mistico-salvifiche del Tannhäuser; vent’anni
dopo, segnava l’uscita dall’incantesimo del Tristano,
con la sua estenuata filosofia di amore e morte. In
entrambi i casi si trattava di un sano realismo, con
precisi riferimenti a personaggi storicamente vissuti – Hans Sachs – e a grandi e piccole tradizioni
storicamente documentate: le ronde del guardiano,
le gare dei cantori, le riunioni delle corporazioni; il
tutto occasione per una musica schietta, cantabile e
piena di calore. Qui si trovano i vertici della comicità
wagneriana: quella ‘cattiva’ della caricatura impietosa dell’incapacità poetica e musicale di Beckmesser,
il critico impotente di fronte alla bellezza; ma anche
quella “buona” del sorriso divertito di fronte all’intrico che, letteralmente, fa impazzire giovani e meno
giovani in una tiepida notte d’estate.
È forse qui che il capolavoro comico di Verdi, il
Falstaff, mostra punti di contatto sorprendenti con
la comicità dei Meistersinger. Da un lato, la ‘burla’,
che viene esaltata nel fugato finale come la sostanza
stessa del mondo, è più volte ai danni di un beone
troppo grasso, credulone e ridicolmente galante; oppure ad anziani (Cajus e Ford) che devono imparare
a lasciar posto ai giovani, almeno nell’amore. D’altro
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lato, l’angelica melodia che esprime le ragioni dell’amore giovane (“bocca baciata
…”) rappresenta una
visione idilliaca, pacificata e sentimentale, che ha nel terzo
atto una compiuta
rappresentazione. Il
bosco incantato, popolato di fate e folletti, che dovrebbe
essere uno spazio fittizio per l’ennesima
burla nei confronti
del galante Falstaff.
Caricatura di Wagner comparsa su “Le Figaro”ooi
E invece la finzione
si rovescia nella più
affascinante delle realtà, quando si alza il canto della
Regina delle Fate e trionfa l’amore dei giovani Nannetta e Fenton.
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Richard Wagner in posa con parenti e amici a Palermo
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X – Verdi e Wagner registi di se stessi
Prima del commiato da questo racconto, introduco una riflessione su un argomento di forte attualità
di fronte alle innovazioni registiche dei nostri anni:
come concepivano l’allestimento scenico delle loro
opere i nostri due musicisti? È possibile, anche in
questo caso, un discorso che non sia basato su una
facile contrapposizione, ma dia conto di una comune prospettiva? Ebbene: l’affinità è, in questo caso,
persino sorprendente. Pur in anni diversi e in diverse occasioni, entrambi considerarono di importanza
capitale il migliore rapporto possibile tra musica e
visione.
In Wagner, come tutti sanno, fu questo l’oggetto di
un’articolata riflessione teorica sul Gesamtkunstwerk
– l’Opera d’arte totale. Mentre era esule a Zurigo,
impossibilitato a seguire personalmente gli allestimenti delle sue opere in Germania, utilizzò a questo
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scopo le Note per la rappresentazione dell’Olandese
volante, e le Note per il Tannhäuser. Il punto focale è la raccomandazione che l’azione coincida (zusammentreffen) esattamente con la musica, sia nella
corrispondenza temporale degli eventi, sia nel contenuto poetico (poetischer Inhalt). Per ottenere questo
scopo Wagner pretese un’accurata intesa tra il direttore di scena (a cui fanno capo gli addetti alle scene,
alle luci e alle macchine) e il direttore d’orchestra. A
Bayreuth, con l’allestimento dell’Anello del Nibelungo (1875-76) e del Parsifal (1882), assunse lui stesso
compiti di regia, affidando quasi sempre a un collaboratore la direzione d’orchestra. L’impresario Neumann, che assistette alle prove del Ring nel 1876, si
dice convinto che, quando Wagner balzava sul palcoscenico per mostrare come i vari cantanti avrebbero
dovuto ‘dire’ i testi a loro affidati, si rivelava “il più
grande regista che sia mai esistito”.
In Verdi, se si escluda la riflessione teorica, ritroviamo pari convinzione che per una buona esecuzione occorre un ben coordinato insieme tra i diversi
elementi dello spettacolo operistico. In anni vicini a
quelli di Opera e dramma (1851), Verdi, che non poteva conoscere neppure l’esistenza della teorizzazione wagneriana, e che considerava Rigoletto (1851) “la
[sua] migliore opera”, affidava agli scambi epistolari
un suo ideale di “dramma scenico-musicale”; cioè di
un “melodramma […] che unisca tutti gli elementi”.
I rapporti ch’egli ebbe con i librettisti, a cominciare
dal Piave ch’era anche direttore della scena, furono
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tali da garantirgli il controllo pressoché totale delle
scelte sceniche. Ciò avvenne fin dalle prime opere: si
ricorda, in particolare, il suo intervento perché fosse
“ben fatto il levare del sole che io voglio esprimere
colla musica” nella scena della fondazione di Venezia nell’Attila; ma un esame dei libretti ci convince di
una attenzione costante a soluzio-ni e a effetti scenici
a lui ascrivibili. C’è poi tutto il capitolo della sua attività di direttore d’orchestra esigente e accentratore:
soprattutto negli anni di Aida, nei primi anni Settanta, questo suo intervento diretto fu inteso come garanzia della qualità dello spettacolo nel suo complesso, in opposizione a una routine di pur grandi teatri
(Napoli, Venezia e persino la Scala) da lui considerata inaccettabile.
Wagner e Verdi ricorsero entrambi alla metafora
militaresca per indicare la disciplina e la perfetta
organizzazione da loro voluta nello spettacolo operistico. Ma, a parte naturalmente la ricerca della migliore precisione possibile, la componente scenica fu
trattata da entrambi, rispetto alla totale fedeltà alla
partitura musicale, con una maggiore apertura verso
le diverse soluzioni registiche e i miglioramenti progressivi resi possibili anche dalle nuove tecnologie.
Va precisato però che Wagner, che dal Lohengrin
in poi non modificò quasi per nulla le sue partiture
una volta pubblicate, si dimostrò sempre molto disponibile a soluzioni sceniche diverse da quelle da lui
inizialmente indicate. Mentre richiedeva ai cantanti
– e, ovviamente, all’orchestra e ai cori – una presta-
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zione che corrispondesse perfettamente, punto per
punto, alle esigenze drammatiche, i margini di variabilità per le soluzioni sceniche furono sempre molto
più ampi. Nelle prove a Bayreuth, nel 1875-1876 e
nel 1882, portò all’esasperazione gli esecutori per i
continui cambiamenti registici e persino scenografici e luministici. Si possono notare, inoltre piccole,
ma numerose e significative differenze tra didascalia
ed effettiva messinscena: ad esempio, il colore degli
abiti dei cavalieri del Gral sono indicati come bianchi nella didascalia e furono realizzati azzurri. Ancor
più: alla fine della prima rappresentazione del Ring,
di fronte alla cattiva riuscita di molti effetti affidati
alle macchine e alle luci, e con il totale fallimento delle fiamme attorno alla rocca di Brunilde, Wagner disse a un collaboratore (Richard Fricke): “l’anno prossimo faremo tutto diversamente”. La sorte volle che
la sua morte giungesse prima che a Bayreuth ci fosse
una seconda rappresentazione di quelle due opere.
La disponibilità di Verdi verso l’evoluzione delle
soluzioni sceniche può essere fatta risalire alla conoscenza che egli ebbe delle prodigiose possibilità scenotecniche dell’Opéra di Parigi, in cui lavorò fin dal
1847 per l’allestimento di Jerusalem, cui seguiranno
le Vêpres siciliennes e Le trouvère. Qui poté apprezzare l’incredibile cura degli allestimenti con un numero
di prove inimmaginabile in Italia. Fu un’esperienza
pari a quella che ebbe Wagner nel 1860-61, quando al
suo Tannhäuser l’Opéra dedicò ben 164 prove. Tra le
‘meraviglie’ dell’Opéra quella di cui Verdi maggior-
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mente si avvalse fu un’illuminotecnica alimentata a
gas e regolata con lenti e filtri, che permetteva effetti
di luce diurna e notturna, focalizzazioni su specifici particolari e soprattutto cambiamenti graduali. A
partire dagli anni Trenta a Parigi erano apparsi anche
i livrets de mise en scène in cui venivano annotate,
scena per scena, personaggio per personaggio, tutte
le scelte (provenienti dal librettista, o dal musicista,
o dal direttore di scena) che avevano caratterizzato
l’allestimento di un’opera. Questa fonte straordinaria di informazioni apparve anche in Italia negli
anni Cinquanta con le Disposizioni sceniche edite da
Ricordi: tra le prime Un ballo in maschera (Teatro
Apollo di Roma, 1859), in cui, oltre a particolareggiate indicazioni sulla psicologia e la gestualità dei personaggi, colpisce la cura dei particolari scenici. Tra
questi, grande importanza viene data, nel secondo
atto durante l’incontro di Amelia con Riccardo nell’
”orrido campo”, proprio al chiarore della luna, che
appare ora in tutta la sua intensità, ora più o meno
velata. Ebbene, è proprio a questa recente possibilità scenica (resa disponibile dall’alimentazione a gas)
che Verdi affida uno dei nodi dell’azione: il riconoscimento di Amelia da parte dei congiurati e del marito
Renato. L’ultima disposizione scenica, quella riguardante Otello, ci rivela largo uso della recentissima introduzione della luce elettrica (ad esempio nei lampi
della tempesta all’inizio del primo atto) e della possibilità di muovere il fondale.
Nel caso di Wagner la fonte principale delle sue in-
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tenzioni regi-stiche rimangono le indicazioni contenute nelle didascalie di cui sono cosparse le partiture
autografe, gli spartiti e i libretti. Una parte di queste
didascalie risponde all’esigenza di arricchire letterariamente il dramma, che, come sappiamo, Wagner
destinò abitualmente alla lettura declamata in privato e in pubblico. Declamando anche le didascalie,
Wagner contribuiva all’immaginazione dei luoghi e
dei modi dell’azione. In altri casi esse suggeriscono
i modi della recitazione e della gestualità, rivelatori
dei contenuti emotivi delle parole. In queste didascalie sono anche contenute le scelte scenografiche
e la regolazio-ne dei movimenti – dei singoli e delle masse. È qui che Wagner si avvalse fino in fondo
delle recenti tecnologie, come quando alza e abbassa
il fondale di Nibelheim per suggerire la discesa e la
risalita di Wotan e di Loge; come quando usa il vapore, variamente colorato, per far scomparire Alberico
e per cospargere di nebbia il paesaggio.
Verdi e Wagner appaiono quindi accomunati da
questa intenzione ‘illusionistica’ che utilizza ogni
elemento a disposizione per tramutare il mondo fittizio della rappresentazione in un mondo assumibile
come “reale”, idealmente reale, soprattutto attraverso quella trascinante metafora della realtà che è
rappresentata dalla loro musica. A tal fine diventano
determinanti i modi della recitazione e i movimenti
scenici, i fondali e i siparietti, i praticabili e le variazioni della luce (il frequentissimo “poco a poco – o
allmählich – più chiaro o più scuro” di cui sono dis-
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seminati i libretti di entrambi). Diventò importante
persino la struttura dell’edificio-teatro, con l’enorme
dispiegamento di energie e di soldi dedicato da Wagner alla costruzione del Festspielhaus di Bayreuth,
dove, tra tante innovazioni, l’orchestra divenne “invisibile” e calò il buio in platea. Verdi nel 1871 scrisse
a Giulio Ricordi che l’orchestra invisibile voluta da
Wagner era un’idea “bellissima”. Si sarebbero anche
dovuti togliere i palchetti dal palcoscenico portando
avanti il sipario: e tutto ciò per ottenere “la separazione del mondo fittizio dal mondo dei fischianti e
dei plaudenti”.
Questa disponibilità all’innovazione non intaccò
mai, però, la convinzione di entrambi che l’unità degli elementi dello spettacolo da loro perseguita dovesse essere regolata dalla musica; e che quindi la
soluzione scenica dovesse essere strettamente pertinente e funzionale alla musica; e al dramma che dalla
musica trae la sua vita. Verdi a proposito di una realizzazione scenica dell’Otello disse: “sarà anche bella,
ma continua a essere sbagliata”. E Wagner avrebbe
certamente condiviso questa impostazione secondo
la quale una soluzione registica può essere giusta o
sbagliata, e il metro di giudizio è la musica a cui si
riferisce.
La più vistosa differenza su questo aspetto dell’esperienza teatrale dei nostri due autori consiste nell’epilogo: Verdi visse e operò sufficientemente a lungo
per potersi avvantaggiare nei suoi allestimenti scenici dei potenti mezzi che negli anni Ottanta derivaro-
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no dall’elettricità. Wagner si affacciò appena a questa
nuova illuminotecnica, che sembrerebbe invocata da
tutta la sua concezione luministica dello spettacolo
musicale. Lo capì anni dopo Adolphe Appia, che però
non trovò in Cosima orecchie disponibili ad ascoltarlo. Soprattutto dal punto di vista registico, l’eredità
di Wagner rimase congelata per decenni a venire in
un culto immobile che non fece onore all’inesausta
tensione verso il nuovo a cui quel genio aveva dedicato tutta la sua vita.
Che piaccia o non piaccia è a questo ruolo – spesso
invadente – delle nuove regie che si affida la vitalità
di concezioni drammatico-musicali nate a così grande
distanza dal nostro tempo. È un’avventura rischiosa,
ma inevitabile: il suo esito sarà positivo se rimarranno vivo l’amore e l’ammirazione per i grandi doni di
immaginazione e di bellezza che i due campioni del
teatro musicale dell’Ottocento ci hanno elargito.
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INDICE
I – Primi passi
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II – Un decennio di preparazione
15
III – Arte e rivoluzione
24
IV – Passatisti o futuristi?
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V – Gli anni del dubbio
41
VI – Doppio approdo
49
VII – Un grande postludio
58
VIII - Una travagliata eredità
67
IX – Verdi, Wagner e la comicità
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X – Verdi e Wagner registi di se stessi
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