Aprile - Anno 7 - n. 4 - 2004
Le manifestazioni ematologiche
della sindrome
da immunodeficienza acquisita
Dennis Quaglino, Massimo Stati
PRIMO PIANO
Orlistat: un futuro
nella chemioprevenzione
del carcinoma prostatico?
Spedizione in abbonamento postale - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Filiale di Milano
Daniele Barbaro, Pietro Cazzola
TESI
Osservazioni
clinico-sperimentali in pazienti
con ipercolesterolemia familiare
ed elevati livelli
di creatin-fosfo-kinasi:
ricerca di possibili clusters
Roberto Bernardi, Simona Linarello
Roberto Brillante, Arrigo F.G. Cicero
Antonio Gaddi
AMBULATORIO
Otite esterna:
… e se il paziente si rivolge
al Medico di Medicina Generale?
Pietro Cazzola
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
97
Le manifestazioni ematologiche
della sindrome da immunodeficienza acquisita
Scripta
MEDICA
Dennis Quaglino, Massimo Stati
pag.
99
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PRIMO PIANO
Orlistat: un futuro nella chemioprevenzione
del carcinoma prostatico?
Daniele Barbaro, Pietro Cazzola
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117
pag.
121
pag.
127
TESI
Osservazioni clinico-sperimentali in pazienti
con ipercolesterolemia familiare
ed elevati livelli di creatin-fosfo-kinasi:
ricerca di possibili clusters.
Roberto Bernardi, Simona Linarello, Roberto Brillante
Arrigo F.G. Cicero, Antonio Gaddi
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AMBULATORIO
Otite esterna:… e se il paziente si rivolge
al Medico di Medicina Generale?
Pietro Cazzola
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Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
99
Le manifestazioni ematologiche
della sindrome da immunodeficienza acquisita
Dennis Quaglino, Massimo Stati*
Epidemiologica
Nell’estate del1981 la Comunità medica venne
informata dai “Centers for Disease Control” dell’esistenza di una Sindrome da Immunodeficienza Acquisita (AIDS) sulla base della
segnalazione a New York e in California di casi
di giovani omosessuali precedentemente sani,
i quali presentavano gravi e spesso fatali infezioni opportunistiche, come polmonite da
“Pneumocystis Carinii” e forme clinicamente
aggressive extracutanee di Sarcoma di Kaposi
(SK), del tutto simili alle forme linfoadenopatiche di SK, riscontrabili in Africa (1, 2).
Il virus dell’Immunodeficienza umana (HIV)
tipo -1 è stato identificato come l’agente
eziologico dell’AIDS (3, 4).
Questa infezione retrovirale viene trasmessa
attraverso i rapporti sessuali, da inoculazione
o infusione di sangue infetto o dalla madre
infetta al feto, per via transplacentare, nelle
ultime settimane di gravidanza, a volte durante il parto o nel corso dell’allattamento.
Epidemiologicamente, i maggiori gruppi a
rischio di sviluppare l’AIDS variano in base
alla diversa distribuzione geografica.
In Africa il gruppo maggiormente colpito è
rappresentato da individui eterosessuali, sessualmente attivi, con le femmine più frequentemente esposte all’azione del HIV
rispetto agli uomini (5).
Negli Stati Uniti i gruppi maggiormente
esposti al rischio di infezione da HIV sono
gli omosessuali ed i tossicodipendenti attraverso lo scambio di siringhe (Intravenous
drug abusers: IVDA)
Professore Emerito Clinica Medica, Università de L’Aquila
* Dipartimento di Medicina Interna, Università de L’Aquila
In maniera del tutto sovrapponibile agli Stati
Uniti, nell’Europa Occidentale circa l’80%
dei casi di AIDS sono stati riscontrati negli
omosessuali e nei tossicodipendenti (6).
Una percentuale spropozionatamente elevata
di casi di AIDS è stata descritta fra i Negri e
gli immigrati di origine ispanica nel Nord Est
dell’America, dove il rischio di contrarre l’infezione dal virus HIV-1 è da due a dieci volte
maggiore che nel resto del Paese (7).
Struttura virale
Come tutti i retrovirus, l’HIV si replica formando un provirus DNA, mediante un enzima virale, la trascrittasi inversa (Figura 1).
I principali geni del HIV sono gag, pol, env:gag
(group specific antigen) codifica per una proteina strutturale: pol codifica per una trascrittasi
inversa che trasforma il RNA in DNA nella
cellula ospite: env codifica per delle glicoproteine dell’involucro superficiale.
Oltre ai tre geni principali, presenti in tutti
i retrovirus, il genoma del HIV contiene
diversi altri geni: gli LTR (long terminal
repeat) che sono probabilmente geni di
regolazione della sintesi proteica.
I geni vif e nef codificano per proteine a
funzione non ancora del tutto chiara, ma
probabilmente inibente la moltiplicazione
del virus.
I geni tat e rev hanno probabilmente anch’essi un ruolo di regolazione sulla replica del
virus.
Di particolare interesse il tat (trans-activator); la proteina codificata da questo gene
potrebbe essere responsabile della moltiplicazione “esplosiva” del virus che si verifica quando la cellula ospite viene attivata
Scripta
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Figura 1.
Rappresentazione schematica
della struttura del virus HIV-1.
Il genoma del virus, costituito
da due coppie uguali di RNA
a singola elica, è contenuto in un
nucleocapside con le proteine p7,
p9 e p24 e la trascrittasi inversa.
La matrice proteica p17 circonda
il nucleocapside. L'”Envelope” o
membrana esterna di natura
lipoproteica contiene
dei prolungamenti glicoproteici
a forma di bacchette di tamburo,
caratterizzata dalla presenza della
molecola gp120 che contiene il
sito per il legame con la molecola
CD4, e la molecola gp41, legata
in modo non covalente alla
gp120, che costituisce una sorta
di ancoraggio rigido della gp120
ai lipidi e serve per iniziare
la fusione della membrana virale
a quella della cellula che viene
infettata dal virus.
dal contatto con l’antigene verso cui ha
specificità. I virus privi di tat si moltiplicano circa 1000 volte più lentamente di quelli che ne sono provvisti (8, 9).
Patogenesi
L’HIV è patogeno perché colpisce selettivamente specifiche cellule del sistema immunitario e del sistema nervoso centrale, provocando immunodeficienza e deficit neuropsicologici (10).
Il principale recettore utilizzato dal HIV per
penetrare nella cellula umana è la molecola
CD4 (11), che nel sistema immunitario è
espresso principalmente dai linfociti di tipo
“helper/inducer”, e dagli elementi cellulari del
sistema fagocitico monocitico/macrofagico.
I monociti e macrofagi infatti sono verosimilmente importanti “reservoir” o serbatoi del
HIV ed un meccanismo importante di diffusione virale attraverso l’organismo, perché
non sembra che il virus eserciti un significativo effetto citopatico su queste cellule (12).
È tuttavia l’infezione e citolisi dei linfociti CD4,
che sono direttamente o indirettamente implicati nella maggior parte delle funzioni immunologiche dell’organismo, a determinare la
spiccata immunodeficienza tipica dell’AIDS.
Azione lesiva diretta del HIV sui linfociti
CD4.
Formazione di sincizi tra cellule sane ed
infettate.
Risposte immuni citotossiche cellulari
e umorali verso il GP 120 adsorbito sui
linfociti CD4 sani.
Induzione della morte cellulare programmata (apoptosi) dovuta all’interazione
del GP 120 con la molecola CD4.
Difettosa maturazione dei linfociti CD4
nel timo.
Infezione e morte delle cellule linfoidi
staminali o delle cellule accessorie
necessarie per la proliferazione e/o
differenziazione delle cellule staminali.
Anticorpi antilinfocitari.
Tabella 1.
Possibili
meccanismi
all’origine
della deplezione
dei linfociti CD4
in corso
di infezione
da HIV.
Scripta
MEDICA
Le manifestazioni ematologiche della sindrome da immunodeficienza acquisita
101
Tabella 2.
Classificazione
clinica
dell’infezione
da HIV
(Center for
Disease Control,
1986).
Gruppo 1: Infezione acuta.
Gruppo 2: Infezione asintomatica.
Aspetti clinici
Sono state descritte alcune
fasi dell’infezione da HIV, fra
Gruppo 4: Altri quadri. - Sottogruppo A: Malattia costituzionale
cui la Sindrome acuta virale,
uno stadio asintomatico,
- Sottogruppo B: Malattia neurologica
una varietà di condizioni
[AIDS Dementia Complex (ADC),
mielopatia vacuolare]
sintomatiche, nelle quali il
minimo comune denomina- Sottogruppo C: Malattie infettive
tore è la linfoadenopatia persecondarie (vedi tab. III)
sistente generalizzata, e la
- Sottogruppo D: Neoplasie secondarie
condizione di AIDS concla(Sarcoma di Kaposi,
mata (Tabella 2 e 3).
linfomi specie del sistema nervoso)
La Sindrome virale acuta
- Sottogruppo E: Altre condizioni.
compare circa 2-6 settimane
(Wasting Syndrome,
dopo l’esposizione al virus,
polmonite interstiziale, malattie infettive
non elencate nel gruppo IV C,
con febbre, malessere, mialcome Leucoplachia villosa,
gie, manifestazioni cutanee
candidosi orofaringea,
maculo-papulari, diarrea,
Herpes zoster, nocardiosi)
linfoadenomegalia e meningite asettica (15,16).
Gli esami di laboratorio evidenziano la presenza di linfocitosi con linfociL’infezione da HIV è responsabile di diverse
ti plasmocitoidi atipici ed una lieve piastrinoalterazioni funzionali dei linfociti CD4, una
penia. Nella Sindrome virale acuta i pazienti
delle quali è l’inabilità di riconoscere e reagire
possono essere siero-negativi, ma presentare
in maniera efficace agli antigeni solubili (13).
anticorpi anti-HIV uno o due mesi dopo l’eL’infezione e successiva citolisi dei linfociti
sordio della malattia. In questa fase acuta l’anCD4 causa una progressiva deplezione linfotigene virale p24 può essere presente in circocitaria con conseguenti profonde alterazioni
lo, in assenza di anticorpi anti-HIV (16, 17).
funzionali del sistema immunitario (10).
La maggior parte dei pazienti infettati dal virus
La progressiva linfopenia potrebbe anche
HIV sono tuttavia asintomatici (18), ma sono
essere dovuta ad altri meccanismi, come ad
in grado di trasmettere il virus (19).
esempio la formazione di sincizi. La costituSebbene questi pazienti siano asintomatici,
zione dei sincizi è un meccanismo comune
sono riscontrabili alcuni segni di disfunzioad altri virus che si diffondono per ”budding”
ne immunologica, come un abnorme produed appare legata all’espressione della gp 120
zione di immunoglobuline da parte dei
virale sulla superficie delle cellule infette.
linfociti B, prima e dopo stimolazione con
Tale molecola, venendo in contatto casual“Pokeweed Mitogen”, una ridotta produzione
mente con il CD4 dei linfociti normali, condi Interleukina 2 da parte dei linfociti T
sente il legame delle due cellule; la gp 41
dopo attivazione con fitoemagglutinina ed
provoca quindi la fusione delle membrane
un rapporto assai ridotto CD4/CD8. Si ritiedella cellula infetta con quella normale, porne che il periodo che intercorre fra la sierotandola a morte.
conversione e lo sviluppo dell’AIDS sia
La formazione di sincizi spiegherebbe la
approssimativamente di 7-8 anni.
scarsa presenza di linfociti infetti in circolo: i
La linfoadenopatia persistente generalizzata
sincizi infatti, date le loro dimensioni, rimar(LPG) fu descritta per la prima volta nel
rebbero localizzati negli organi linfoidi.
1982 (20), quando una inspiegabile persiUn altro meccanismo di morte cellulare, l’astente diffusa linfoadenopatia, non imputapoptosi, potrebbe giocare un ruolo rilevante
bile a precedenti cause conosciute, fu
nella distruzione dei CD4 ad opera del HIV
osservata in soggetti omosessuali negli Stati
(14) (Tabella 1).
Gruppo 3: Linfoadenopatia generalizzata persistente (P.G.L.).
Scripta
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Uniti, specie a New York e San
Candidosi esofagea, tracheale, bronchiale o polmonare
Francisco.
Criptococcosi extrapolmonare
Questa linfoadenopatia persistente generalizzata è caratterizzata
Criptosporidiosi con diarrea persistente da oltre un mese
da un ingrossamento linfoghianInfezione da Citomegalovirus di un organo interno
dolare persistente da almeno tre
(a parte fegato, milza, linfonodi)
mesi e riscontrabile in due o più
Infezione da Herpes simplex con ulcerazioni persistenti
linfonodi, non contigui, extraper più di un mese
inguinali, dalla mancanza di quaLeucoencefalite multifocale progressiva
lunque patologia o farmaco che
possa essere stato responsabile
Coccidiomicosi disseminata
della linfoadenopatia ed infine da
Polmonite da Pneumocystis Carinii
un quadro istologico di iperplasia
Tubercolosi extrapolmonare, interessante almeno
reattiva.
una localizzazione diversa da quella polmonare
Qualunque stazione linfoghianInfezioni disseminate da micobatteri diversi da quello
dolare può essere interessata, ma
della tubercolosi, con localizzazione diversa da quella
spesso la linfoadenopatia interespolmonare o dei linfonodi ilari o laterocervicali
sa sedi atipiche, come i linfonodi
epitrocleari e sottomandibolari.
Infezioni disseminate da Mycobacterium avii o Kansasii
Se si procede ad una biopsia
Isopsoriasi con diarrea persistente da oltre un mese
linfonodale, il quadro istologico è
Setticemie ricorrenti da salmonella non tifoidi
quello, come si è detto, o di una
Toxoplasmosi cerebrale
notevole iperplasia follicolare
oppure di una iperplasia follicolare associata ad un processo di
LPG è significativamente inferiore rispetto
involuzione (21).
ai soggetti HIV negativi, nei quali il rapporIl rapporto dei linfociti periferici CD4/CD8,
to oscilla da 1.4 a 2.5 (22).
che si aggira da 0,4 a 1.25 nei pazienti con
Per soddisfare i criteri di definizione di questo sottogruppo IV A,
un soggetto deve presentare due o più segni o sintomi,
e due o più modificazioni nei parametri di laboratorio.
SEGNI O SINTOMI CLINICI: (persistenti da tre mesi o più senza causa plausibile)
1)
2)
3)
4)
5)
6)
linfoadenopatia in più di due sedi non contigue
perdita di peso ≥ 7 kg o ≥ 10% del peso normale
febbre ≥ 38°C intermittente o continua
diarrea
astenia/malessere
sudorazioni notturne
PARAMETRI DI LABORATORIO:
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
diminuzione nel numero dei linfociti T-helper
diminuito rapporto linfociti T-helper/suppressor
anemia o leucopenia o trombocitopenia o linfopenia
aumentato livello globuline sieriche
diminuita reattività blastica ai mitogeni
anergia cutanea agli antigeni recall
livelli aumentati di immunocomplessi circolanti
Tabella 3.
Malattie infettive
diagnosticate
con certezza che
configurano una
classificazione di
sottogruppo IV C.
Tabella 4.
Criteri
per la definizione
di ARC (IV A).
Scripta
MEDICA
Le manifestazioni ematologiche della sindrome da immunodeficienza acquisita
103
Figura 2.
Sezione istologica a
medio ingrandimento
di un linfoma
a grandi cellule B
in un paziente
con AIDS.
Sono ben visibili le
grandi cellule
con aspetti
morfologici
che ricordano sia
i centroblasti che gli
immunoblasti.
Ematossilina Eosina.
Per i pazienti con PGL l’incidenza di AIDS
aumenta dopo circa tre anni dall’inizio della
linfoadenopatia, per cui circa un 30% di
pazienti entro cinque anni mostra una progressione verso l’AIDS (23).
Osservazioni cliniche ed epidemiologiche
hanno indicato come in alcuni pazienti l’insorgenza dell’AIDS è preceduta da un quadro
morboso, caratterizzato da PGL, febbre,
sudorazioni notturne, perdita di peso,
malessere e diarrea, come pure una riduzione nel numero dei linfociti T CD4 positivi,
anergia cutanea e aumentati livelli di immunoglobuline (Tabella 4).
Questo quadro è denominato “AIDS related
complex” (ARC) e rientra nel sottotipo IV A.
Pazienti con ARC presentano un numero maggiore di sintomi rispetto a quelli con solo PGL.
Circa il 50% dei pazienti, infettati dal virus
HIV, manifestano la sintomatologia dell’ARC
cinque anni dopo il contagio con il virus (24).
L’intervallo di tempo che intercorre fra la diagnosi di ARC e la presenza conclamata di
AIDS è inferiore rispetto a quello dei pazienti con solo PGL (21).
Il quadro istologico dei linfonodi biopsiati in
corso di ARC è simile a quello dei pazienti
con PGL ed evidenzia una marcata iperplasia
follicolare o una combinazione di iperplasia
follicolare ed involuzione (circa 1/3 dei casi).
Tuttavia circa il 40% dei casi mostra una
involuzione follicolare (25).
I “Centers for Disease Control” nel 1986 (26)
hanno definito i criteri per la definizione
della diagnosi di AIDS (Tabelle 2 e 3).
Al momento della formulazione della diagnosi
di AIDS, una percentuale variabile di pazienti,
circa il 40%, mostra, secondo alcuni studi, una
positività per il p24 sierico; circa il 70% sono
positivi per l’antigene HIV (27).
I pazienti con AIDS hanno un rapporto
CD4/CD8 che varia da 0.1 a 0.4 e molti
hanno un conteggio di linfociti T CD4 positivi inferiore a 200/mm3 (28).
Clinicamente la maggior parte dei pazienti
presenta febbre, dimagramento, candidosi
orale e anergia cutanea (29).
L’esame istologico dei linfonodi biopsiati in
pazienti con AIDS evidenzia una involuzione
follicolare o una deplezione linfocitaria (39).
Tra i processi di natura maligna, il Sarcoma di
Kaposi è la neoplasia di più frequente riscontro in corso di infezione da HIV ed è una delle
lesioni più significative dal punto di vista diagnostico (31), mentre i linfomi non-Hodgkin
sono le seconde neoplasie più frequenti in
corso di AIDS e appartengono alle varianti
istologiche di tipo diffuso e con caratteri di
maggiore aggressività (32) (Figura 2).
Dal momento della diagnosi di AIDS, la durata di vita di un paziente è approssimativamente di un anno. La sopravvivenza può essere
tuttavia maggiore per quei pazienti con AIDS,
a cui è stato diagnosticato un Sarcoma di
Kaposi, senza che si siano presentate, entro tre
mesi, altre manifestazioni della malattia. I
pazienti, che dopo tre mesi dalla diagnosi, presentano manifestazioni multiple dell’AIDS
hanno la prognosi peggiore (33).
Le alterazioni ematologiche
È verosimile che le alterazioni ematologiche
negli individui affetti da infezione da HIV
siano riconducibili a vari fattori:
1. L’azione nociva diretta del HIV sulle cellule midollari e altre cellule accessorie della
matrice midollare, necessarie per l’emopoiesi.
2. La disregolazione del sistema immune
dell’ospite che porta alla distruzione o inibizione delle cellule emopoietche.
3. Gli effetti secondari sia delle infezioni
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
104
Figura 3.
Intensa attività
emofagocitica
da parte
di un macrofago
nel midollo osseo
di un paziente
affetto da AIDS.
Colorazione May
Grunwald Giemsa
(MGG).
opportunistiche che delle neoplasie e/o la
terapia di queste complicanze.
Di conseguenza non sorprende che le principali alterazioni ematologiche nei pazienti
con infezione da HIV comprendano citopenie a carico dei globuli rossi, dei neutrofili,
dei linfociti e piastrine, come pure una serie
di gammopatie mono- e policlonali.
Emopoiesi
Nella malattia da HIV è di frequente riscontro la presenza di citopenia, spesso associata
ad alterazioni morfologiche nel sangue periferico e a livello midollare, indicative di una
condizione di mielodisplasia.
Studi sui progenitori emopoietici purificati
(CD34+), come pure su colonie emopoietiche
non hanno fornito risultati consistenti circa
la presenza del DNA del HIV in questi tipi e
linee cellulari, mentre vi sono indicazioni
più concrete che il virus potrebbe essere presente in certi tipi cellulari, come megacariociti, in linee cellulari derivati da fibroblasti,
nei promonociti, nei monociti/macrofagi e in
cellule stromali (34-39).
Nella patogenesi dell’AIDS, oltre alla deplezione dei linfociti CD4, i monociti/macrofagi
sembrano essere bersagli privilegiati dell’infezione da HIV e rappresentano una fonte
importante per la riproduzione virale in vivo
(40). Il meccanismo di crescita appare assai
diverso tra gli HIV che si moltiplicano nei
linfociti e quelli che si moltiplicano nei
macrofagi: in questi ultimi il virus provoca
meno danni e non dà luogo a “budding” sulla
membrana cellulare, ma rimane localizzato
in vacuoli costituiti da frammenti di Golgi.
In pratica il macrofago si comporta come un
“reservoir” o magazzino del virus. Macrofagi
infettati dal HIV si trovano in gran numero
nel cervello, nei linfonodi e nel midollo
osseo. In quest’ultima sede i macrofagi possono esplicare notevole attività fagocitica
(Figura 3).
Ricerche in vitro (41) hanno dimostrato che,
a seguito dell’infezione da parte del HIV dei
monociti/macrofagi, viene stimolata la produzione di TNF-alfa, IL-1 beta, IL-6, IL-8,
mentre l’espressione di M, G e GM CSF viene
inibita, evidenziando così una disregolazione
delle citochine proinfiammatorie ed emopoietiche da parte di questi tipi cellulari.
Fra le cellule stromali, le cellule endoteliali
microvascolari (MVEC) del midollo osseo
sono state riscontrate infettate dal HIV nei
soggetti sieropositivi, indipendentemente
dallo stadio della malattia. Mentre la produzione costitutiva dei fattori di crescita emopoietica di queste cellule è normale, la produzione indotta da IL-1 di G-CSF e IL-6 è
significativamente ridotta (42), indicando
che l’infezione delle cellule endoteliali
microvascolari riduce la capacità delle cellule stromali di rispondere adeguatamente ai
segnali regolatori che normalmente aumentano la produzione di elementi emopoietici
in caso di aumentato fabbisogno.
Sono stati ipotizzati vari altri meccanismi
indiretti per spiegare l’inibizione HIV mediata dell’emopoiesi.
Una attività inibitrice da parte dell’involucro
virale gp120 sulle colonie emopoietiche è
stata osservata in vitro in alcuni studi (43) ma
non in altri (44).
Sono state prospettate altre attività soppressive dell’emopoiesi, ad esempio da parte dei
linfociti T (45), degli anticorpi anti gp120
(46) e di una glicoproteina prodotta da cellule midollari in coltura (47).
Anche il prodotto genico virale tat sembra
essere in grado di inibire cellule midollari in
coltura, stimolando i macrofagi a produrre
Scripta
MEDICA
Le manifestazioni ematologiche della sindrome da immunodeficienza acquisita
105
“transforming growth factor” un potente inibitore dell’emopoiesi (48).
Un possibile meccanismo autoimmune,
responsabile della distruzione dei granulociti neutrofili nel sangue periferico è stato suggerito dalla presenza di immunoglobuline
anti-neutrofili in circa il 67% dei pazienti
con AIDS e ARC (49).
Comunque, qualunque sia il meccanismo
della citopenia associata all’AIDS, un incremento notevole e significativo dei granulociti
neutrofili può essere ottenuto nei pazienti
affetti da AIDS, in seguito all’impiego del fattore ricombinante GM-CSF o G-CSF (50), suggerendo in tal modo che le cellule mieloidi
Figura 4.
Macrocitosi
nei precursori
eritroidi nel
midollo osseo
di paziente affetto
da AIDS in corso
di trattamento
con zidovudine.
Colorazione May
Grunwald Giemsa.
Figura 5.
Aumento
dei precursori
eritroidi, spesso
riuniti a nidi,
come è chiaramente visibile
nel caso
illustrato,
nel midollo osseo
di un paziente
con AIDS.
Colorazione May
Grunwald Giemsa.
progenitrici competenti con capacità di differenziazione permangono anche nei pazienti
con gradi avanzati di immunodeficienza.
L’anemia e le alterazioni
dei globuli rossi
Anemia è presente nella stragrande maggioranza dei pazienti infettati da HIV in una
qualsiasi fase della loro malattia. Sia l’incidenza che il grado di anemia sembrano essere direttamente rapportabili alla gravità della
sindrome clinica (51).
Quando alla malattia da HIV si sovrappongono infezioni opportunistiche, l’anemia è
riscontrabile nel 70-95% dei pazienti con
livelli medi di emoglobina tra 9.7 e 11.7 g/dl,
rispetto ad un 36% nei pazienti senza complicanze infettive concomitanti (52).
Tuttavia anche nei pazienti asintomatici e in
quelli che presentano sintomi minimi una
lieve ma significativa riduzione nel livello
dell’emoglobina è riscontrabile nel 15-20%
dei pazienti (51). L’anemia e la granulocitopenia tendono ad avere un comportamento
parallelo: pazienti con un ematocrito inferiore a 40, hanno livelli di globuli bianchi inferiori a 1.4 x 103/µl (51).
L’anemia nei pazienti infettati da HIV, non
sottoposti a terapia antiretrovirale con zidovudine o altri farmaci è tipicamente nomocromica e normocitica, sebbene possa essere
osservato un grado modesto di anisocitosi e
poichilocitosi (53). Macrocitosi è invece
riscontrabile in molti dei pazienti trattati con
zidovudine (54) (Figura 4).
Il riscontro a livello midollare di un aumento dei precursori eritroidi, in associazione
con un grado variabile di diseritropoiesi,
suggerisce che alla base dell’anemia nell’AIDS sia presente una eritropoiesi inefficace
(51, 55) (Figura 5).
I livelli sierici di eritropoietina nei pazienti
con anemia da HIV possono essere aumentati (56) o diminuiti (57); in uno studio su 29
pazienti con AIDS, 22 avevano livelli ridotti
di eritropoietina (57).
Pazienti, trattati con zidovudine, con livelli
pretrattamento ridotti di eritropoietina
(<500 IU/L) sembrano essere quelli che
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
106
rispondono meglio alla terapia con eritropoietina, come dimostrano gli aumenti dell’ematocrito ed il ridotto fabbisogno di trasfusioni (57).
I depositi di ferro nei pazienti anemici con
infezione da HIV sono normali o aumentati e
gli indici del metabolismo del ferro sono
simili a quelli riscontrabili nell’anemia delle
malattie croniche, nelle quali la sideremia è
ridotta, ma i livelli di trasferrina e ferritina
sierica sono elevati (58).
Livelli sierici ridotti di vitamina B12 sono
stati osservati in circa il 7-20% dei pazienti
con AIDS, anche se ciò non comporta la
comparsa di granulociti neutrofili ipersegmentati, di macrocitosi dei globuli rossi e
alterazioni megaloblastiche a livello del
midollo osseo (59).
Una percentuale lievemente maggiore di
pazienti (>20%) con deficienza di vitamina
B12 è stata osservata in soggetti infettati da
HIV, ricoverati in ospedale per il riscontro di
neuropatia periferica (60).
Clinicamente, livelli ridotti di vitamina B12
potrebbero aumentare la tossicità ematologica,
conseguente alla terapia con zidovudune (61).
È improbabile che un’emolisi autoimmune
possa contribuire in maniera significativa
alla patogenesi dell’anemia nei pazienti con
AIDS, sebbene una positività del test diretto
dell’antiglobulina sia presente in circa il 2043% dei pazienti ricoverati in ospedale (62)
e nel 8% dei soggetti asintomatici (63).
Ciò può dipendere dalla presenza di IgG o
complemento sulla superficie dei globuli
rossi. Sebbene anticorpi specifici diretti
contro un antigene fosfolipidico presente
sui globuli rossi possa essere responsabile
della positività del test dell’antiglobulina, è
probabile che in molti pazienti la positività
del test dell’antiglobulina dipenda dalla
deposizione non specifica sulla superficie
dei globuli rossi di immunocomplessi circolanti (64).
La leucopenia e le alterazioni
dei globuli bianchi
Come già si è detto, la leucopenia è frequente nei soggetti infettati da HIV e la sua inci-
denza è rapportabile alla gravità della sindrome clinica.
Circa il 57-85% dei pazienti con AIDS (65) e
circa il 10-21% dei pazienti con ARC (52)
sono leucopenici, mentre solo il 5% dei soggetti asintomatici sieropositivi presentano
livelli ridotti di leucociti (52). La leucopenia
tipicamente interessa linfociti e granulociti
neutrofili, sebbene una riduzione nel numero dei monociti è stata osservata nel 8-75%
dei pazienti affetti da AIDS (53).
Nei pazienti in stadi avanzati di immunodeficienza, tutte le sottopopolazioni linfocitarie
sono ridotte, Tuttavia, come già ripetutamente accennato, una diminuzione nel numero
Figura 6.
Aspetti
spiccatamente
displastici
a carico
degli elementi
della serie
granulocitica
nel midollo osseo
in corso di AIDS.
Colorazione May
Grunwald Giemsa.
Figura 7.
Intensa reazione
perossidasica
nei granulociti
neutrofili
nel sangue
periferico
di un paziente
con AIDS.
Scripta
MEDICA
Le manifestazioni ematologiche della sindrome da immunodeficienza acquisita
107
Figura 8.
Fenomeni
di vacuolizzazione
e fagocitosi
nei monociti
nel sangue
periferico di un
paziente HIV-1
positivo.
Colorazione May
Grunwald Giemsa.
La trombocitopenia
assoluto dei linfocti T CD4+ costituisce una
delle più precoci anomalie immunologiche
dell’infezione da HIV ed il numero di queste
cellule tende a diminuire progressivamente
nel tempo (66).
Sono stare descritte alcune alterazioni morfologiche, a volte anche marcate, nei leucociti
del sangue periferico e del midollo osseo
(Figura 6).
I granulociti neutrofili possono mostrare iposegmentazione nucleare, con uno spostamento a sinistra della formula di Arneth, come
pure possono essere presenti granulociti neutrofili con l’anomalia di Pelger-Huet (67).
Inoltre i granulociti neutrofili possono essere
aumentati di volume, presentare una maggiore ricchezza di granulazioni citoplasmatiche e
un incremento dell’attività perossidasica (68)
(Figura 7).
Alterazioni morfologiche non specifiche dei
leucociti comprendono fenomeni di vacuolizzazione dei monociti (Figura 8), e atipie
nei linfociti, specialmente in pazienti linfopenici (53).
Sebbene le alterazioni mielodisplastiche
siano frequenti, non sembra che esse possano configurare una sindrome preleucemica
(69) e infatti sono stati descritti solo rari casi
di leucemia mieloide acuta, insorti da una
pregressa situazione mielodisplastica in
pazienti infettati da HIV (70).
La trombocitopenia è una frequente complicazione dell’infezione da HIV (71).
La trombocitopenia, definita come conteggio
piastrinico inferiore a 100.000/mm3 è stata
osservata in circa il 3-8% degli individui sieropositivi (72) e nel 30-45% dei pazienti con
AIDS (73).
Una trombocitopenia è stata descritta occasionalmente anche in soggetti asintomatici,
come manifestazione iniziale dell’infezione
da HIV. Durante l’infezione acuta da HIV è
stata riscontrata la presenza di trombocitopenia, come parte del quadro clinico della sindrome acuta (74).
Il grado di trombocitopenia nell’infezione da
HIV è in genere da lieve a moderato, con
livelli di piastrine che variano da 43.000 a
57.000/mm3, sebbene siano state segnalate
anche piastrinopenie dell’ordine di <
10.000/mm3 (75).
Complicanze emorragiche gravi, con elevato
rischio di esito letale, si possono verificare a
livello del sistema nervoso centrale in soggetti emofilici, affetti da infezione da HIV, in
presenza di livelli di piastrine attorno ai
50.000/mm3 (76).
In circa il 60% dei casi, a differenza di quanto
è dato di osservare nella porpora trombocitopenica idiopatica (PTI), nei pazienti affetti da
infezione da HIV, la trombocitopenia è spesso
associata ad altre alterazioni ematologiche,
come neutropenia con o senza anemia (51).
La presenza o l’assenza di trombocitopenia
nei soggetti sieropositivi non sembra rivestire un significato prognostico particolare per
quanto riguarda la progressione verso la
forma conclamata di AIDS; infatti in circa
l’11-50% dei pazienti la trombocitopenia
può regredire spontaneamente (77).
Il meccanismo della trombocitopenia nell’infezione da HIV sembra dipendere sia da una
aumentata distruzione, sia da una inefficace
produzione di piastrine.
Studi di cinetica piastrinica hanno evidenziato una durata di vita piastrinica ridotta
rispetto ai controlli normali sia nei pazienti
non trattati, sia in quelli sottoposti a terapia
con zidovudine (78).
Sebbene oggetto di controversie, l’elevata
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
108
risposta terapeutica alla splenectomia sembra suggerire che la milza sia una sede
importante di sequestro e/o distruzione di
piastrine (79).
Recenti ricerche (80) hanno confermato l’efficacia della splenectomia nei pazienti trombocitopenici infettati da HIV e hanno dimostrato che la terapia antiretrovirale HAART
(highly active antiretroviral therapy) può indurre un aumento dei livelli piastrinici.
La diminuzione della durata di vita piastrinica è verosimilmente immunologicamente
mediata.
Nella trombocitopenia secondaria all’infezione da HIV, vi è un notevole aumento dell’immunoglobulina e complemento associate alle
piastrine e degli immunocomplessi circolanti fino a livelli da 2 a 4 volte superiori a quelli rilevati nella PTI (81).
Un’analisi degli immunocomplessi circolanti
e di quelli legati alle piastrine ha evidenziato
la presenza di anticorpi anti-idiotipici diretti
nei confronti degli anticorpi anti-glicoproteina gp 120 del virus HIV (82).
I megacariociti sono caratteristicamente
displastici (83) (Figura 9) e le piastrine circolanti hanno un volume ridotto, in maniera
analoga a quanto avviene per le piastrine
nelle sindromi mielodisplastiche (84).
Numerose ricerche sembrano suggerire che
la displasia dei megacariociti sia la conseguenza di una diretta infezione di queste cellule da parte del HIV (85).
È stato dimostrato che i megacariociti esprimono CD4 sulla superficie cellulare e sono
pertanto in grado di legarsi con l’HIV (86).
Studi su megacariociti prelevati direttamente
da pazienti affetti da infezione da HIV hanno
mostrato la presenza di RNA virale mediante
la tecnica dell’ibridizzazione in situ e di proteine virali mediante immunofluorescenza,
indicando quindi che queste cellule sono
infettate in vivo (87, 88).
Pertanto, contrariamente agli altri progenitori emopoietici, appare sempre più verosimile
che il virus colpisca e infetti direttamente i
megacariociti, contribuisca a dare luogo ad
una trombopoiesi inefficace e, in associazione a risposte immuni antivirali, determini la
comparsa di trombocitopenia in una percentuale variabile di pazienti.
L’esame del midollo osseo
Spesso si riscontra una certa difficoltà nell’ottenere materiale midollare mediante mieloaspirazione e gli strisci e le apposizioni sui
vetrini appaiono poveri di cellule.
La difficoltà nell’ottenere materiale midollare
mediante aspirazione è dovuta ad un aumento della fibrosi reticolare a livello del midollo osseo (Figura 10).
Pertanto la vera densità cellulare del midollo
si apprezza in maniera molto più esatta e
precisa, ricorrendo alla biopsia osteo-midollare secondo la tecnica “core biopsy” con ago
di Jamshidi o similari. Mediante questa tecnica il midollo si dimostra ipercellulare nella
maggior parte dei pazienti infettati da HIV.
L’ipercellularità del midollo, in concomitanza con la citopenia periferica, è caratteristicamente espressione di una emopoiesi inefficace. Infatti vi è una diretta correlazione
fra la presenza di alterazioni displastiche a
livello midollare e la presenza nel sangue
periferico di anemia e leucopenia (52, 53)
(Tabella 5).
Una ipoplasia della serie eritrocitaria è stata
osservata in pazienti con infezione da HIV, in
cui era contemporaneamente presente un’infezione con B19 parvovirus o infezione disseminata con Mycobacterium avium (89).
Una grave ipoplasia eritroide è stata anche
riscontrata in pazienti sottoposti a terapia
con zidovudine.
Figura 9.
Aspetti displastici
nei megacariociti
presenti
nel midollo osseo
di un paziente
con AIDS.
Colorazione May
Grunwald Giemsa.
Scripta
MEDICA
Le manifestazioni ematologiche della sindrome da immunodeficienza acquisita
109
Figura 10.
Marcato aumento
delle fibre
reticolari
nel midollo osseo
di un paziente HIV
positivo. Reazione
di impregnazione
argentica
di Gomori.
Studi di microscopia elettronica sulle cellule
midollari di pazienti HIV positivi hanno evidenziato alterazioni strutturali e morfologiche negli eritrociti, nei granulociti, nelle plasmacellule e anche negli elementi cellulari
stromali, attribuibili agli effetti lesivi diretti
dell’infezione da HIV. Non sono state identificate particelle virali a livello ultrastrutturale, sebbene non si possa escludere la presenza di particelle virali incomplete.
Tabella 5.
Reperti midollari
nella malattia
da HIV.
Le alterazioni delle cellule stromali confermano, anche in base agli studi di microscopia elettronica, come esse potrebbero condizionare alterazioni nella regolazione a livello
microambientale dell’emopoiesi con conseguente citopenia. Lo studio morfologico del
midollo osseo nella malattia da HIV mostra
un aumento degli istiociti, con frequenti
fenomeni di emofagocitosi (Figura 3).
In molti pazienti l’aumento nel numero degli
istiociti non è rapportabile ad alcuna causa
infettiva aggiuntiva ed è pertanto probabile
che sia l’HIV stesso responsabile della proliferazione istiocitaria e della fagocitosi, conseguente ad una produzione di citochine che
stimolano specificamente i macrofagi. Anche
le plasmacellule sono significativamente
aumentate di numero nel midollo osseo di
pazienti HIV positivi (Figura 11).
Esse potrebbero rappresentare una risposta
fisiologica ad una stimolazione antigenica
indotta dall’infezione da parte del virus o
altri agenti batterici, oppure l’aumento delle
plasmacellule potrebbe essere secondario ad
una disregolazione nella proliferazione B-cellulare, dovuta al HIV. Spesso le plasmacellule sono morfologicamente atipiche e sono a
volte riunite in nidi. Paraproteinemia è pre-
DISPLASIA:
70% dei midolli mostrano alterazioni displastiche, displasia eritroide è presente nel 60% dei casi,
displasia granulocitica è riscontrabile nel 20-30%, displasia dei megacariociti si osserva nel 30%;
CELLULARITÀ:
aumentata nel 50% dei casi, ipocellulare nel 15% dei casi;
FIBROSI:
presente nel 20-50% delle biopsie osteomidollari per cui spesso l’agoaspirazione è difficoltosa;
BLOCCO RETICOLO ENDOTELIALE DEL FERRO:
alterazioni simili a quelle riscontrabili nell’anemia delle malattie croniche;
ISTIOCITI:
aumentati di numero: possono presentare fenomeni di emofagocitosi;
PLASMACELLULE:
aumentate numericamente e spesso morfologicamente atipiche;
INFEZIONI OPPORTUNISTICHE:
colture del midollo o l’esame degli strisci di midollo possono evidenziare la presenza di bacilli acido resistenti
di leishmania histoplasma, pneumocistis e criptococcus;
GRANULOMI:
presenti nelle infezioni con bacilli acido-resistenti;
AGGREGATI LINFOIDI:
noduli benigni;
LINFOMI NON HODGKIN (LNH):
20-30% dei pazienti con LNH mostrano interessamento midollare.
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
110
Figura 11.
Numerose
plasmacellule
reattive
nel midollo osseo
in corso di AIDS.
Colorazione May
Grunwald Giemsa.
sente in circa il 9% de soggetti sieropositivi.
Alcune delle paraproteine presentano una
attività diretta contro i prodotti genici gap e
pol del HIV e potrebbero quindi rappresentare una vigorosa risposta immune all’infezione da HIV (52, 53, 65, 90).
Anomalie della coagulazione
Le anomalie della coagulazione in pazienti
infettati da HIV costituiscono solo un reperto di laboratorio, perchè non si associano
quasi mai a manifestazioni emorragiche o a
complicanze trombotiche (91).
La presenza di un anticoagulante circolante
(ACC) di tipo antiprotrombinasi (APT) o
lipidico è stata riscontrata per la prima volta
nel 1986 (92) e successivamente confermata
in altri studi (93, 94). La presenza di questa
anomalia è estremamente variabile, dal 20 al
50% a seconda delle casistiche e delle metodiche di studio utilizzate.
Anticorpi anticardiolipina sono pure stati
riscontrati nella malattia da HIV con una frequenza molto elevata; tuttavia la loro presenza non è sempre correlata a quella degli anticoagulanti di tipo lipidico (95).
Figura 12.
Sezione istologica a
piccolo ingrandimento
di un linfonodo
in un caso di linfoma
di Burkitt AIDS
associato.
Caratteristico
l'aspetto a cielo
stellato macrofagico,
dovuto alla
presenza di cellule
macrofagiche che
hanno fagocitato
i corpi apoptotici.
Ematossilina Eosina.
Linfomi- AIDS associati
Pazienti affetti da AIDS hanno una aumentata suscettibilità a sviluppare un Linfoma
non-Hodgkin (LNH) a B-cellule, clinicamente molto aggressivo (96). Si ritiene comunemente che circa il 5-10% dei pazienti infettati da HIV è colpita da questa complicazione
o trasformazione maligna.
Salvo alcune eccezioni, la cellula B neoplastica non sembra sia direttamente infettata dal
HIV, ma si ritiene più verosimile che il virus
agisca attraverso meccanismi indiretti (97).
La trasformazione maligna è il risultato finale di una sequenza di alterazioni genetiche
che si verificano nel contesto di una popolazione proliferante
Soggetti immunocompromessi non affetti da
infezione da HIV, sono maggiormente soggetti a sviluppare un LNH (98), indicando
che l’immunodeficienza di per sé facilita la
trasformazione neoplastica. Tuttavia i LNH
che insorgono in pazienti trapiantati e sottoposti a terapia immunosopressiva sono in
genere rappresentati da forme di tipo immunoblastico a grandi cellule, ma non dalla
variante istologica tipo Burkitt (99).
Questo fatto sta ad indicare che la terapia
immunosopressiva da sola è insufficiente a
determinare lo sviluppo di un LNH-AIDS
associato tipo Burkitt (Figure 12 e 13).
I linfomi AIDS associati hanno alcuni caratteri distintivi, come un decorso particolarmente aggressivo, un coinvolgimento extra-
Scripta
MEDICA
Le manifestazioni ematologiche della sindrome da immunodeficienza acquisita
111
Figura 13.
Sezione
a più forte
ingrandimento
del caso
precedente.
Ematossilina
Eosina.
nodale frequente, una elevata incidenza di
negatività per il virus di Epstein-Barr (EBV) e
una combinazione eterogenea di alterazioni
genetiche che condizionano l’esistenza di
meccanismi oncogenici peculiari all’infezione da HIV.
Le sedi più comuni di coinvolgimento extranodale sono il tratto gastro-intestinale, il
fegato, il midollo osseo, le meningi per i
LNH sistemici, ed i manicotti perivascolari
nel parenchima del cervello per quello che
riguarda il LNH primitivo del cervello (100).
Istologicamente (42), la maggior parte dei
linfomi-AIDS associati sistemici consiste di
tre principali sottotipi:
a) I linfomi a piccole cellule non clivate
(small noncleaved cell lymphomas: SNCCL),
ad alto grado di malignità;
b) I linfomi immunoblastici a grandi cellule
(immunoblastic lymphomas: IBL);
c) I linfomi a grandi cellule non clivate
(large noncleaved cell lymphomas; LNCCL),
a grado intermedio di malignità.
A causa del loro decorso clinico aggressivo i LNCCL sono stati inclusi dal punto
di vista funzionale insieme con i linfomi
immunoblastici nella categoria dei linfomi diffusi a grandi cellule (diffuse large
cell lymphomas; DLCL).
Fra i linfomi di grado intermedio sono compresi anche i linfomi anaplastici CD30+, i
linfomi delle cavità o dei versamenti primitivi (body-cavity-based or primary effusion
lymphomas: BCBL/PEL) ed i linfomi plasmoblastici (PBL).
Mentre i linfomi che insorgono in soggetti
immunocompromessi, a seguito di trapianto,
sono invariabilmente associati alla presenza
di EBV, solo la metà circa dei LNH-AIDS
associati sono positivi per EBV (97, 101).
Approssimativamente il 30% dei linfomi a piccole cellule non clivate (SNCCL), tipo Burkitt o
Burkitt simili sono positivi per l’EBV mentre gli
antigeni trasformanti EBNA-2 e LMP-1 non
sono espressi (102).
L’incidenza dell’EBV fra i linfomi a grandi cellule è di circa il 60-70% e di 100% per i linfomi immunoblastici, nei quali EBNA-2 e LMP1 sono espressi.
L’incidenza di EBV nei linfomi a grandi cellule
non clivate (LNCCL), che hanno un periodo
di latenza simile a quello dei SNCCL è molto
più basso. I linfomi primitivi del sistema nervoso centrale, che istologicamente sono del
sottotipo immunoblastico ad alto grado di
malignità sono sempre EBV infetti con un
periodo di latenza caratterizzato dall’espressione di EBNA-2 e LMP-1 (103).
È verosimile che l’EBV possa giocare un
ruolo importante nella patogenesi dei LNHAIDS associati EBV+, così come avviene nei
LNH post-trapianto. Tuttavia l’elevata frequenza di LNH-AIDS associati EBV negativi
sta ad indicare che fattori addizionali debbono entrare in gioco nello sviluppo di un
LNH-AIDS associato. Le lesioni genetiche
dei LNH-AIDS associati sono notevolmente
eterogenee e tendono a diversificarsi a
seconda del sottotipo istologico.
Per esempio un riarrangiamento del gene cmyc è presente in tutti i linfomi a piccole cellule non clivate (SNCCL), tipo Burkitt o
Burkitt simili, ma è presente solo in un quarto dei linfomi diffusi a grandi cellule (DLCL)
ed è assente nei linfomi primitivi del sistema
nervoso centrale (104).
Inattivazione del “tumor suppressor gene“ p53
è presente nel 60% dei SNCCL ma è riscontrabile solo in una piccola percentuale di
DLCL (104), mentre riarrangiamento del
gene BCL-6 è presente esclusivamente nei
DLCL (105).
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
112
I “PEL” non presentano in genere nessuna
delle alterazioni genetiche descritte, ma sono
costantemente infettate da HHV-8 (Herpes
virus) (106).
L’elevato grado di eterogeneità clinica e molecolare osservato nei linfomi-AIDS associati
presuppone l’esistenza di molteplici fattori
che operano nel determinare l’insorgenza di
uno dei vari sottotipi di linfomi.
In particolare questi fattori si possono ricondurre a:
1) una cronica stimolazione immunologica
e attivazione policlonale B-cellulare;
2) ad una disregolata produzione di citochine;
3) ad una inadeguata sorveglianza
immunologica per le neoplasie e
4) a infezione con agenti potenzialmente
oncogeni, come EBV e HHV (107).
Nella patogenesi dei LNH-AIDS associati
l’infezione delle cellule stromali (accessory
cells) non maligne sembra abbia un ruolo
determinante nell’indurre alterazioni del
microambiente, che a loro volta favorirebbero lo sviluppo di un linfoma.
Il concetto che l’infezione virale di una cellula stromale possa promuovere la proliferazione maligna di un certo tipo cellulare è stato
proposto per spiegare la proliferazione delle
plasmacellule nel mieloma multiplo (108).
Questo studio ha stabilito l’esistenza di un
diretto rapporto fra plasmocitoma e infezione delle cellule dendritiche da parte del
HHV-8 Herpes virus.
Poichè le cellule dendritiche hanno un ruolo
importante nella proliferazione e differenziazione dei B-linfociti, è stato ipotizzato che
l’infezione da parte del HHV-8 Herpes virus
delle cellule dendritiche possa contribuire
allo sviluppo del plasmocitoma attraverso
l’espressione di geni virali che favoriscono la
trasformazione e proliferazione delle plasmacellule maligne. L’infezione da parte del HIV,
a livello delle localizzazioni extranodali,
delle cellule stromali, dotate della capacità di
influenzare lo sviluppo e proliferazione Bcellulare potrebbe, in maniera analoga a
quanto osservato nel plasmocitoma, contribuire alla trasformazione maligna B-cellulare
nei linfomi-AIDS associati.
Secondo alcuni studi (109) le cellule stroma-
li del midollo osseo favoriscono la proliferazione e crescita dei B-linfociti normali e leucemici attraverso meccanismi che richiedono
il legame delle popolazioni cellulari attraverso interazioni fra molecole di adesione e
ligandi, come VCAM-1/VLA-4 e ICAM-1/
LFA-1 (110).
Mediante il loro legame con le cellule stromali, le cellule B inducono la fosforilazione
della tirosina di numerose proteine nelle cellule stromali, e cosa ancora più importante,
il rilascio di IL-6 (111).
Le cellule endoteliali microvascolari (MVEC)
dello stroma, come pure i fibroblasti, svolgono una funzione di supporto per la proliferazione B-cellulare (112).
Alcune ricerche hanno dimostrato che la coltura di MVEC, derivate dal midollo osseo di
pazienti affetti da AIDS e portatori di LNH a
B-cellule favorisce la crescita e sopravvivenza
di B-cellule maligne autologhe stroma dipendenti (113).
Questi fenomeni, in base allo studio citato, si
verificano nei LNH sia a grandi che a piccole cellule B non clivate e sono presenti nei
linfomi sia EBV positivi che negativi.
L’importanza del ruolo delle MVEC infettate dal virus HIV è stato dimostrato chiaramente in recenti studi (42), che hanno evidenziato come le MVEC normali del sistema nervoso centrale, coltivate in vitro,
influenzino scarsamente l’adesione e proliferazione delle cellule B linfomatose, addizionate alla coltura.
Per contro, l’infezione HIV indotta delle
MVEC cerebrali aumenta drasticamente l’adesione e proliferazione delle cellule B linfomatose presenti nella coltura.
Tutti questi studi starebbero a dimostrare che
l’infezione da HIV altera le caratteristiche del
microambiente stromale, che diventa così
terreno favorevole per lo sviluppo e la proliferazione dei linfomi B-cellulari.
Interazioni tra la molecola di adesione
VCAM-1 e l’integrina B-cellulare VLA-4 sembrano esercitare una funzione importante
nell’adesione delle cellule B alle MVEC e ad
altre cellule stromali, con la conseguente
implicazione che VCAM-1 è un potenziale
mediatore dell’aumentata adesione delle cellule B linfomatose (114).
Scripta
MEDICA
Le manifestazioni ematologiche della sindrome da immunodeficienza acquisita
113
A questo proposito sembra che in vivo l’interazione delle MVEC, infettate dal HIV, con
altre cellule stromali può indurre l’espressione della molecola di adesione VCAM-1 e
creare quindi un microambiente che favorisce l’adesione e proliferazione delle cellule B
maligne.
In conclusione si ritiene che nel soggetto
infettato dal virus HIV, a seguito di vari eventi combinati, come la immunodeficienza
generalizzata, la stimolazione cronica B cellulare, la diminuita sorveglianza immunologica nei confronti delle neoplasie e la coinfezione con virus oncogeni, si instaura una
condizione favorevole alla trasformazione
maligna e proliferazione delle cellule B, che
non sono direttamente infettate dal virus
HIV, e che questo meccanismo multifattoriale sia responsabile dell’elevata incidenza dei
LNH-AIDS associati nell’ambito di una
popolazione HIV-1 infettata.
Inoltre si prospetta la possibilità che l’infezione da HIV delle cellule stromali non maligne, in particolare delle celule endoteliali
microvascolari (MEVC), abbia un ruolo
determinante nel favorire lo sviluppo e proliferazione di questi linfomi non-Hodgkin
nelle sedi extranodali attraverso alterazioni
del microambiente e una disregolazione di
citochine.
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Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
117
Orlistat: un futuro nella chemioprevenzione
del carcinoma prostatico?
Daniele Barbaro1, Pietro Cazzola2
Introduzione
La prevenzione di qualunque processo patologico
può essere distinta in tre livelli:
primario, che si applica al soggetto sano prima
che sia comparso l’evento morboso;
secondario, che si rivolge al soggetto già colpito
dalla malattia, per individuare precocemente la
patologia prima che questa diventi sintomatica;
terziario, che è indirizzato al paziente già sintomatico al fine di prevenire le ricadute, le complicanze e di migliorarne la qualità di vita.
(20% degli uomini) o di microfoci di carcinoma
(27% degli uomini) (1).
È stato ipotizzato che la progressione del carcinoma prostatico dalla forma latente a quella clinicamente evidente possa coinvolgere l’espressione differenziale di svariate centinaia di geni che interagiscono con fattori ambientali (quali una dieta ad alto contenuto di grassi, l’obesità, la prostatite, lo
stress ossidativo) (2).
Chemioprevenzione
del carcinoma prostatico
La chemioprevenzione del carcinoma prostatico
Nel caso del carcinoma prostatico, il più diffuso tuconsiste nella
more maschile
somministranel mondo occiTabella
1.
zione di agenti
dentale, la preCaratteristiche dei soggetti da sottoporre a
naturali o di farvenzione primachemioprevenzione del carcinoma prostatico (2).
maci in grado
ria assume una
Maschi >55 anni, PSA <3 ng/ml, esplorazione rettale negativa
di inibire l’innotevole imporStoria
familiare
di
carcinoma
prostatico
(uno
o
più
parenti
di
I
grado)
duzione del tutanza in quanto
PSA elevato borderline (aggiustato per età)
more, di frenarquesta neoplaPSA
persistentemente
elevato
e
biopsia
prostatica
negativa
ne lo sviluppo e
sia ha una storia
PIN di grado elevato (due biopsie successive negative in 6 mesi)
di impedirne la
naturale molto
Carcinoma
prostatico
in
fase
precoce
(volume
tumorale
ridotto,
diffusione melunga (20-30 anGleason di grado <7; PSA <15 ng/ml)
tastatica (2).
ni), potendo iniCancro limitato all’organo (T1c/T2), alto rischio (Gleason di grado >7,
Con la chemioziare già nella
PSA >15 ng/ml)
prevenzione l’inquarta decade
Esiti di prostatectomia radicale e PSA in aumento
tervento viene
di vita sottoforeffettuato quanPSA = Prostate-Specific Antigen; PIN = Prostatic Intraepithelial Neoplasia
ma di neoplasia
do i meccanismi
intraepiteliale
di controllo cellulare sono ancora intatti, mentre nel caso di un tuU.O. Endocrinologia, Diabetologia e Sezione Malattie Metaboliche,
more invasivo quest’ultimi sono stati distrutti e
Spedali Riuniti, ASL 6 Livorno
quelli restanti possono non essere in sintonia tra le
Specialista in Anatomia e Istologia Patologica
varie cellule all’interno del tessuto canceroso (3).
e Tecniche di Laboratorio, Milano
1
2
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
118
La lunga storia naturale del carcinoma prostatico e
la possibilità di monitorare periodicamente i livelli
sierici di PSA (Prostate-Specific Antigen) forniscono i
presupposti per individuare le caratteristiche che
devono avere i soggetti da sottoporre a chemioprevenzione (Tabella 1).
Quest’ultima si dovrebbe basare sull’impiego agenti che posseggono un meccanismo chemiopreventivo razionale, che negli studi sperimentali si sono
dimostrati efficaci e che sono sicuri quando somministrati cronicamente (3).
Nella Tabella 2 sono riportati gli agenti naturali e
sintetici in fase di sviluppo per la chemioprevenzione del carcinoma prostatico (2).
Tabella 2.
Agenti naturali e sintetici
per la chemioprevenzione del carcinoma prostatico (2).
Agenti
Classe/meccanismo
Finasteride e analoghi
Flutamide, bicalutamide,
nilutamide
LHRH agonisti
Tamoxifene/torernifene
Selenio1
Inibitori della S-alfa reduttasi
Antiandrogeni
Vitamina E
Licopene
Genisteina/daidzeina
Su-101/541 6
Estratti dei tè2
Ditioletioni3
Fatty Acid Synthase (FAS)
Difluorometilornitina
Vitamina D e analoghi
La FAS è un enzima responsabile della conversione
in grassi dei carboidrati assunti con la dieta; inoltre
è il solo enzima eucariotico capace di sintetizzare il
palmitato, il precursore della maggior parte degli
acidi grassi non-essenziali (4).
È noto che la FAS è up-regolata in molti tumori (57), tra cui il carcinoma prostatico (8, 9).
A proposito di quest’ultimo, è stato evidenziato che
gli androgeni sono in grado sia di aumentare l’espressione del gene per la FAS, sia la sua attivazione (10).
Poiché la funzione della FAS è strettamente legata
alla proliferazione delle cellule tumorali (11), ben si
comprende come essa possa rappresentare un interessante obiettivo terapeutico (12).
Orlistat inibisce la FAS
del carcinoma prostatico
Orlistat (tetraidrolipstatina) è un farmaco approvato ed ampiamente utilizzato per il controllo ponderale nei pazienti obesi (13).
L’efficacia di orlistat nel trattamento dell’obesità è
legato alla sua capacità di inibire la lipasi pancreatica presente nel tratta gastrointestinale, prevenendo così l’assunzione di grassi con la dieta
Acido 9-cis-retinoico
Targretina
Sulindac sulfone
Celecoxib, rofecoxib
R-flurbiprofene
SCH663364
Perillil alcol
Rezulin (glitazoni)
Analoghi di DHEA
4-HPR
Analoghi della vitamina D
Castrazione chimica
SERM
Antiossidante
(componente dei GPX)
Antiossidante
Antiossidante
Isoflavonoidi della soia/TKI
TKI (angiogenesi, PDGF, VEGF)
Polifenoli del tè verde
(anti-iniziazione/promozione)
Induttori enzimatici di fase Il
(modulatori di GSH e GST)
Antiproliferazione (inibitore
della ornitina decarbossilasi)
Induttore della differenziazione
[recettore della vitamina D
(RXRI)]
RXR dell'acido
retinoico/ligando dei RXR
Ligando selettivo dei RXR
Inibitore della fosfodiesterasi
Inibitori selettivi della COX-2
Isomero FANS (pro-apoptosi)
Inibitori Ras (farnesil transferasi)
Monoterpene (pro-apoptosi)
Analoghi dei tiazolidinedione
(PPAR)
PPAR
Fattore di crescita-1
insulino-simile
Fattori di crescita
insulino-simili che legano
la proteina-3
TKI = inibitori della tirosina chinasi;
SERM = modulatore selettivo del recettore per gli estrogeni;
GPX = glutatione perossidasi;
COX-2 = ciclossigenasi-2;
DHT = diidrotestosterone,
GSH = glutatione;
GST = glutatione-5-transferasi;
4-HPR = N-(4-idrossifenil) retinamide;
LHRH = fattore di rilascio dell'ormone luteinizzante;
PDGF =fattore di crescita di origine piastrinica;
RXR = recettore X dell'acido retinoico;
VEGF = fattore di crescita dell'endotelio vascolare;
DHEA = deidroepiandrosterone;
PPAR = recettore dei perossisomi attivato dal proliferatore.
1
Include 1-seleniometionina e lievito sclenizzato.
2
Include epigallocatechin-gallato.
3
Come sulforafane e N-acetil-cisteina.
4
Include FII-2 76 e L- 744832.
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
119
100
% proliferazione
90
Cellule PrEC
80
70
DU-145
60
50
LNCap
40
30
PC-3
20
0
5
10
15
20
25
Morte cellulare (% di controllo)
60
50
40
30
20
10
0
HF
PrEC
DU-145
LNCap
PC-3
Figura 2. Orlistat induce apoptosi in alcune linee
cellulari di carcinoma prostatico (PC-3, LNCap, DU145), mentre è risultato inattivo nei confronti delle cellule prostatiche normali (PrEC) e dei fibroblasti cutanei (HF) (14).
Una serie di recenti studi sperimentali condotti su
diverse linee cellulari di carcinoma prostatico hanno evidenziato nuove ed importanti proprietà di
orlistat che potrebbero essere utilizzate nel trattamento di questa e di altre neoplasie (14).
Orlistat, infatti, ha mostrato innanzitutto una marcata selettività per la FAS presente nelle cellule tumorali in cui già a livelli di farmaco di 30 µM si è
riscontrata entro 30 minuti un’inibizione di circa il
75% della sintesi di acidi grassi (14).
Oltre a ciò orlistat si è dimostrato in grado di svolgere un’azione antiproliferativa nei confronti di alcune linee cellulari di carcinoma prostatico, mentre
trascurabile è stato il suo effetto nei confronti delle
cellule epiteliali prostatiche normali (14) (Figura 1).
Questa attività è apparsa strettamente legata all’inibizione della FAS dal momento che veniva abolita
dall’aggiunta di palmitato, il prodotto finale dell’azione di questo enzima (14).
Quanto testato per verificare la sua capacità di indurre apoptosi, orlistat ha fornito risultati particolarmente evidenti solo per alcune linee cellulari
neoplastiche e meno per altre, mentre è apparso
pressoché inerte nei confronti delle cellule normali
(Figura 2) (14).
Analogamente a quanto riferito per l’azione antiproliferativa, anche in questo caso l’aggiunta di palmitato determinava una conversione dell’effetto
pro-apoptosi.
Quando somministrato per via intraperitoneale a
topi nudi trapiantati con cellule di carcinoma prostatico (PC-3) orlistat, rispetto ai controlli, ha inibito la crescita neoplastica (Figura 3) con percentuali variabili dal 63% al 16%, senza evidenziare segni
di tossicità (14).
Figura 3. Orlistat inibisce, in vivo, la crescita tumorale di cellule PC-3 (14).
520
470
Volume neoplasia (mm3)
Figura 1. Orlistat inibisce la proliferazione di alcune linee cellulari di carcinoma prostatico ( PC3, LNCap, DU-145), mentre ha effetto trascurabile sulle cellule prostatiche normali (PrEC) (14).
420
370
320
Controlli
270
220
170
Orlistat
120
70
0
5
10
15
Giorni
20
25
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
120
Conclusioni
Oltre all’azione farmacologica per cui viene utilizzata, una molecola può possedere non solo effetti
collaterali, ma anche altre proprietà terapeutiche
misconosciute.
I dati sopraesposti indicano che orlistat può essere
a ragione considerato un nuovo inibitore della FAS,
dotato di attività antitumorale.
I risultati conseguiti negli studi sperimentali utilizzando linee cellulari di carcinoma prostatico pongono orlistat tra i farmaci promettenti per la chemioprevenzione di questa neoplasia.
Occorre tuttavia ricordare che l’attuale formulazione farmaceutica di orlistat consente solo la somministrazione orale, via attraverso la quale la sua biosponibilità è estremamente bassa e la sua azione costretta esclusivamente nel tratto gastroenterico.
Ne consegue che l’utilizzo terapeutico di orlistat
come farmaco chemiopreventivo di tumori di altre
sedi corporee necessita dello sviluppo di nuove formulazioni farmaceutiche dotate di elevata biodisponibilità.
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Scripta
MEDICA
121
Osservazioni clinico-sperimentali in pazienti con
ipercolesterolemia familiare ed elevati livelli di creatin-fosfo-kinasi:
ricerca di possibili clusters.
Roberto Bernardi, Simona Linarello, Roberto Brillante, Arrigo F.G. Cicero, Antonio Gaddi
Introduzione
Il riscontro di valori ematici di
colesterolo superiori alla norma è
di frequente all’osservazione dei
dati laboratoristici della popolazione italiana adulto/anziana.
Numerosi studi hanno mostrato
come l’ipercolesterolemia rivesta
un ruolo fondamentale nella
genesi ed evoluzione di patologie
frequenti ed importanti quali l’aterosclerosi e le sue temibili complicanze (stroke, infarto del miocardio, arteriopatia polidistrettuale periferica ecc.) che costituiscono ad oggi le principali cause di
morte in Italia, Europa e Stati
Uniti nell’uomo al di sopra dei 45
anni e nella donna al di sopra dei
65 (1).
Una riduzione e mantenimento
della colesterolemia entro intervalli considerati normali costituisce
quindi un obiettivo fondamentale
nella prevenzione primaria degli
eventi cardiovascolari. Ciò è raggiungibile con adeguate correzioni
dello stile di vita ed eventuali
Centro per lo Studio delle Malattie
Dismetaboliche e dell’Aterosclerosi
“G Descovich”
Policlinico S. Orsola-Malpighi
Alma Mater Studiorum
Università di Bologna
interventi farmacologici, valutabili
a seconda dei singoli casi clinici.
Tuttavia, nelle forme di iperlipoproteinemia su base genetica
(iperlipoproteinemie primitive), il
successo della terapia non farmacologica viene vanificato, rendendosi necessario un’approccio terapeutico più aggressivo.
Nella correzione delle ipercolesterolemie i farmaci di prima scelta
sono rappresentati attualmente
dalle statine.
Accanto all’effetto terapeutico, la
terapia statinica può causare effetti indesiderati, generalmente poco
frequenti (circa tra l’1 ed il 5% dei
pazienti trattati), non gravi e che
tendono a regredire col prosieguo
della terapia o con la sospensione
del trattamento. Uno di questi è
rappresentato da miotossicità che,
nella maggioranza dei casi è costituito da un’elevazione sierica asintomatica dell’enzima creatinfosfo-kinasi (isoforma muscolare:
CPK MM). Tuttavia valori molto
elevati di questo isoenzima (almeno 10 volte maggiori il limite
superiore di norma) possono
associarsi ad un rischio di rabdomiolisi e mioglobinemia/mioglobinuria con conseguenze cliniche
anche molto gravi (fino a casi di
insufficienza renale acuta con
necessità di dialisi).
Scopo della tesi
Sono giunti alla nostra osservazione alcuni casi di pazienti
adulti/anziani, affetti da ipercolesterolemia familiare che presentano elevati livelli di creatin-fosfokinasi plasmatica, in totale assenza
di terapia farmacologica.
Ogni singolo caso clinico di questo
tipo ha configurato nella pratica
clinica un nuovo quesito terapeutico, data la particolare associazione dei dati clinici-laboratoristici.
Le osservazioni condotte si sono
prefisse lo scopo di ricercare eventuali associazioni tra questi dati
primitivi (ipercolesterolemia, iperCPK-emia) e le possibili interazioni con il trattamento con statine.
Iperlipoproteinemie
e ipercolesterolemia
familiare
L’ipercolesterolemia familiare appartiene alla categoria delle iperlipoproteinemie, ampio gruppo eterogeneo di malattie metaboliche molto
gravi di frequentissimo riscontro
nelle nostre popolazioni, ma spesso
sottovalutate tanto a livello diagnostico quanto a livello terapeutico.
Livelli di colesterolo largamente
superiori a quelli desiderabili sono
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
122
Iperlipoproteinemie
primitive
Corrispondenza
con le classi
di Fredrickson
Corrispondenza
con le classi
di rischio
cardiovascolare
Prevalenza
nella popolazione*
Prevalenza
tra i malati
con infarto
precoce
Ipercolesterolemia familiare
IIa
Eccezionalmente elevato
1/300-1/500
5-10%
Ipercolesterolemia multigenica
IIa
Variabile
1/25-1/50
20%
Normale, IIa, IIb, IV
Eccezionalmente
elevato
1/100-1/50
10-20%
III
Eccezionalmente elevato
1/105
<<1%
Possibile IIa
--
--
--
Ipertrigliceridemia familiare
IV-V
Elevato
1/100
2-5%
Ipertrigliceridemie (altre forme)
IV-V
Non valutabile
1/103
1-2%
Iperchilomicronemia massiva
I
Nessuno
1/106
0
IpoHDLemie
--
--
1/500
Molto frequente
IV (V)
Elevato
1/100
Molto frequente
Iperlipoproteinemia
familiare combinata
Iperlipidemia di tipo III
IperLp(a)emie
Sindrome plurimetabolica
*valori indicativi
Tabella 1. Prevalenza e caratteristiche di base delle principali iperlipoproteinemie primitive.
presenti in oltre il 20% della popolazione del Sud Europa e in quasi
nel 40% di quella del Nord (2).
La classificazione è stata introdotta
da Fredrickson (3) che ha suddiviso le iperlipoproteinemie primitive
da un punto di vista fenotipico
(Tabella 1).
IperCPK-emie
idiopatiche
Attualmente le iperCPK-emie idiopatiche costituiscono una quota
consistente delle biopsie muscolari
che vengono eseguite a scopo diagnostico (in alcuni centri fino al
10%) dimostrando l’importanza di
quest’entità nosografica, tuttavia
non esiste a tutt’oggi uniformità di
consensi riguardo ad alcuni punti:
• Non esiste un livello soglia di CPK
indicativo della necessità di eseguire indagini più approfondite.
• Non si hanno certezze riguardo
la prognosi a lungo termine dei
pazienti che, al termine di un
lungo percorso diagnostico, vengono classificati definitivamente
come iperCPK-emie idiopatiche
(4-6,).
• Le ricerche scientifiche sulle
iperCPK-emie hanno dimostrato
come queste possano idealmente
rappresentare forme inusualmente asintomatiche di patologie di norma clinicamente rilevanti (es.: iperCPK-emie e desminopatie) (7).
Statine e miopatie
Recentemente l’American College of
Cardiology/American Heart Asso-
ciation ha proposto una classificazione in 4 livelli (8):
a) Miopatia da statina, comprendente ogni disturbo muscolare
legato a questi farmaci.
b) Mialgia, comprendente dolori
muscolari senza elevazione di
CPK sierico e che, pur rappresentando un punto ancora controverso, sembra rappresentare
da sola dal 5 al 25% di tutti gli
effetti indesiderati.
c) Miositi, comprendente dolori
muscolari con elevazione di
CPK sierico.
d) Rabdomiolisi, comprendente
elevazione di CPK sierico
usualmente oltre 10 volte i
limiti massimi considerati normali (tra 0 e 195 U.I./L), elevati livelli di creatininemia e con
pigmenti (mioglobina) inducenti nefropatia.
Scripta
MEDICA
Osservazioni clinico-sperimentali in pazienti con ipercolesterolemia familiare ed elevati livelli di creatin-fosfo-kinasi
123
La rabdomiolisi è definita in numerosi studi come dolore muscolare
associato a elevazione di CPK oltre
10 volte il limite superiore della
norma.
La reale incidenza di casi fatali da
rabdomiolisi statina-dipendente si
attesta intorno ad un globale 0,15
per milione di prescrizioni e pertanto deve essere considerato una condizione eccezionale, mentre da
studi randomizzati sembra che la
CPK
1600
1400
1200
1000
800
600
Osservati
400
Lineare
200
100
200
300
400
500
LDL
Figura 1. Regressione lineare tra CPK e colesterolo LDL.
250
VarLDL%
VarCPK%
200
150
100
50
0
200
si
si
si
nd
si
si
nd
si
si
si
nd
si
Legenda: si = terapia con statine; no = sospensione terapia;
nd = dato non disponibile
Figura 2. Variazioni percentuali di CPK e colesterolo LDL.
nd
frequenza di seria tossicità muscolare sia di circa 1 caso su 10.000 persone che assumono statine/anno.
Materiali, metodi
e risultati
Le nostre osservazioni si basano su
5 pazienti (3 maschi e 2 femmine)
con età compresa tra 46 e 79 anni,
tutti presentanti le seguenti caratteristiche:
• elevati livelli ematici di colesterolo totale e LDL;
• elevati livelli ematici di CPK;
• asintomatici;
• non in terapia farmacologica
Una prima valutazione è stata eseguita ricercando correlazioni statisticamente significative tra alcuni
parametri di laboratorio calcolando la regressione lineare (con limiti di confidenza al 95%).
Le osservazioni eseguite hanno
mostrato non esistere correlazione
statisticamente significativa tra le
variabili considerate (Figura 1).
Una seconda valutazione è stata
eseguita confrontando le variabili
di partenza, CPK e colesterolemia
LDL, in funzione del tempo e della
terapia farmacologia (Figura 2).
Da quest’analisi si evince che:
1. le variazioni percentuali di CPK e
colesterolo LDL non sembrano
avere un andamento comune.
2. la somministrazione di terapia
farmacologica con statine (o la
sospensione) non appare influenzare l’andamento di queste percentuali.
Conclusioni
Attualmente la W.H.O afferma
chiaramente che l 'elevazione sierica di CPK in corso di terapia con
statine, deve portare a una sospensione del farmaco, solo per valori
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
124
superiori a 10 volte il limite superiore della norma, Questo non
implica che elevazioni sieriche,
anche contenute di creatin-fosfokinasi, debbano essere adeguatamente monitorate da parte del
medico per valutare la prosecuzione del trattamento farmacologico,
soprattutto a seguito di un recente
decreto ministeriale italiano che ha
fissato il limite massimo tollerabile
di elevazione di CPK in corso di
terapia con statine a 5 volte il limite superiore della norma.
Le 5 famiglie di pazienti seguiti
presso l'ambulatorio Dislipidemie
genetiche del Centro per lo Studio
delle Malattie Dismetaboliche e
dell’Aterosclerosi “G. Descovich”
dell’Università di Bologna, hanno
posto dei problemi di inquadramento eziologico e di gestione
terapeutica.
Le osservazioni eseguite sui parametri laboratoristici dei pazienti in
studio hanno evidenziato come
non esista correlazione tra gli
andamenti delle variabili considerate, e come queste appaiano essere influenzate in modo non sistematico dalla somministrazione di
farmaci e/o dall’esercizio fisico.
In relazione alla peculiarità dell’albero genealogico di alcuni soggetti
ed all’andamento del parametro
CPK, si può supporre l’esistenza di
una componente eredo-familiare
degna di approfondimento genetico-molecolare.
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Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
127
Otite esterna:
… e se il paziente si rivolge al Medico di Medicina Generale?
Introduzione
Con otite esterna si definisce un
processo infiammatorio che interessa il condotto uditivo esterno.
A causa della sua più elevata frequenza nei nuotatori e nei subacquei essa è anche conosciuta con il termine di
“orecchio del nuotatore”.
L’infezione batterica o fungina
che nella maggior parte dei
casi è responsabile dell’otite esterna è
facilmente
curabile, tuttavia in alcuni pazienti,
in particolare
i diabetici e
gli immunocompromessi,
il processo infettivo può propagarsi ai tessuti vicini (otite
esterna maligna)
con grave compromissione locale e
generale.
Eziopatogenesi
Il condotto uditivo esterno a
causa della sua struttura anatomica (Figura 1) è un cul de sac rivestito da cute che determina la formazione di un ambiente scuro,
caldo e umido favorente la crescita batterica e fungina.
In condizioni fisiologiche sono
tuttavia presenti alcune difese
naturali che impediscono l’attecchimento dei microorganismi;
quest’ultime sono rappresentate
dal cerume (idrofobico), da un
rivestimento superficiale acido
contenente lisozima e da
un sistema di trasporto dei detriti cellulari che agisce
dalla mem-
brana timpanica verso l’esterno.
Quando questi meccanismi
di difesa sono insufficienti, o
quando l’epitelio viene danneggiato, si realizzano le condizioni
ottimali perché alcuni fattori precipitanti favoriscano lo stabilirsi
dell’otite esterna (Tabella 1).
I patogeni più frequentemente in
causa sono rappresentati dallo
Pseudomonas spp (67% dei casi),
dallo Staphylococcus spp, dallo
Streptococcus spp e, più raramente, da specie fungine.
Quadro clinico
Dal punto di vista anamnestico
in genere si rileva una storia di
esposizione all’acqua (piscina,
bagni di mare, docce) nei giorni
precedenti l’insorgenza di prurito
del condotto uditivo e dell’otalgia. Quest’ultima, che viene riferita perdurante da 1 o 2 giorni e
ingravescente, è peggiorata dal
movimento masticatorio e dalla
trazione del orecchio esterno.
Possono essere presenti otorrea
(le cui caratteristiche variano in rapporto all’agente infettante)
e linfadenite periauricolare.
L’esame del
condotto
uditivo con
lo speculum
mette in evidenza un epitelio eritematoso
ed edematoso,
il cui gonfiore
può essere talmente marcato da occludere
completamente il
lume e celare alla vista la membrana timpanica.
Trattamento
Se è presente otorrea è necessario
rimuovere l’essudato e i detriti
cellulari: questa intervento deve
essere effettuato mediante aspirazione sotto controllo microscopico (alternativamente è possibile
utilizzare un cotton fioc sotto con-
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 4, 2004
128
trollo visivo diretto), tenendo
presente che il processo infiammatorio rende il condotto uditivo esterno ancora più vulnerabile nei confronti dei traumi.
Per mantenere il condotto uditivo esterno pulito sono utili
lavaggi ripetuti con una miscela
in parti uguali di acqua e acqua
ossigenata, avendo cura di asciugarlo attentamente ogni volta.
In caso di stenosi del condotto
uditivo, particolarmente utili
sono i tamponcini in materiale
espandibile da mantenere per
uno-due giorni.
Il trattamento farmacologico si
avvale dell’uso topico di anestetici ed antimicrobici, sovente
associati in un unico preparato.
Molti specialisti usano gocce
otologiche contenenti aminoglicosidi (es. neomicina) e/o polimixine. La neomicina è attiva
sulla maggior parte dei Grampositivi e sugli aerobi Gramnegativi, mentre la polimixina B
è particolarmente efficace nei
confronti dello Psedomonas spp.
La posologia è in genere di 2-4
gocce per 4 volte al giorno in
funzione dell’età; il periodo di
trattamento dipende dalla rapidità della risposta terapeutica.
La maggior parte dei pazienti con
otite esterna fa registrare un evidente miglioramento della sintomatologia già dopo 48-72 ore di
terapia e la completa guarigione
si realizza in una settimana.
La terapia antibiotica sistemica
dovrebbe essere riservata solo ai
seguenti casi:
persistenza della
sintomatologia locale;
contemporanea presenza
di otite media;
diffusione del processo
infettivo ai tessuti contigui.
Tabella 1.
Fattori precipitanti l’otite esterna.
Elevata umidità
– nuoto
– eccessiva sudorazione
Acque infette
Elevata temperatura ambientale
Rimozione meccanica del cerume
Traumi da corpi estranei:
– cotton fioc
– unghie
Dermatiti croniche
– eczema
– psoriasi
– dermatite seborroica
– acne
I pazienti con otite esterna
dovrebbero astenersi dagli sport
acquatici per almeno 7-10 giorni.
Prevenzione
La prevenzione delle recidive
consiste primariamente nell’evitare i fattori precipitanti indicati
nella Tabella 1.
In particolare dopo la doccia o il
nuoto il condotto uditivo esterno
dovrebbe essere asciugato accuratamente con aria calda (asciugacapelli). Per proteggere l’orecchio dall’acqua sono utili le cuffie da bagno aderenti ai padiglioni auricolari, mentre è da sconsigliare l’uso di tappi impermeabili che al contrario favoriscono la
comparsa dell’otite esterna.
Letture consigliate
In caso di infezione da funghi
(otomicosi) nel condotto uditivo
esterno deve essere instillata una
soluzione antimicotica anzichè
antibiotica.
Sander R. Otitis externa: a practical Guide
to treatment and prevention. Am Fam
Physician 2001; 63:927
Pietro Cazzola