Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Ferrara 6 ALESSANDRA PALMA PARADIGMI ASCRITTIVI DELLA RESPONSABILITÀ PENALE NELL’ATTIVITÀ MEDICA PLURISOGGETTIVA: TRA PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO E DOVERE DI CONTROLLO Jovene editore 2016 Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Ferrara 6 ALESSANDRA PALMA PARADIGMI ASCRITTIVI DELLA RESPONSABILITÀ PENALE NELL’ATTIVITÀ MEDICA PLURISOGGETTIVA: TRA PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO E DOVERE DI CONTROLLO Jovene editore 2016 DIRITTI D’AUTORE RISERVATI © Copyright 2016 ISBN 978-88-243-0000-0 JOVENE EDITORE Via Mezzocannone 109 - 80134 NAPOLI NA - ITALIA Tel. (+39) 081 552 10 19 - Fax (+39) 081 552 06 87 web site: www.jovene.it e-mail: [email protected] I diritti di riproduzione e di adattamento anche parziale della presente opera (compresi i microfilm, i CD e le fotocopie) sono riservati per tutti i Paesi. 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XIII CAPITOLO PRIMO MODELLI DI COOPERAZIONE E QUALIFICHE PROFESSIONALI 1. Le peculiarità dell’attività medico chirurgica plurisoggettiva e i diversi modelli di collaborazione ......................................................................... 2. I soggetti che partecipano all’attività medica plurisoggettiva: fonti normative .................................................................................................. 2.1. Il dirigente di struttura complessa ................................................... 2.2. Il dirigente di struttura semplice e il dirigente sanitario alla prima assunzione ......................................................................................... 2.3. Lo specializzando .............................................................................. 2.4. Il personale paramedico ................................................................... » 1 » » 2 5 » » » 6 7 9 » » 11 13 » » » 16 22 29 » 35 5. La tipicità colposa ..................................................................................... » 6. Origini e fondamento del principio di affidamento ............................... » 42 49 CAPITOLO SECONDO IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE SEZIONE PRIMA L’INDIVIDUAZIONE DEI SOGGETTI RESPONSABILI 1. Il recupero del principio della responsabilità personale ........................ 2. Imputazione oggettiva del fatto: il riparto delle competenze ................ 2.1. La posizione di garanzia del sanitario: posizione di protezione o di impedimento di altrui reati? ........................................................ 2.2. I limiti della concezione formale dell’obbligo di garanzia ............. 3. La successione nella posizione di garanzia .............................................. 4. Casi di successione nella posizione di garanzia. In particolare: la successione nelle attività inosservanti ........................................................... SEZIONE SECONDA IMPUTAZIONE SOGGETTIVA DEL FATTO X INDICE 7. I limiti del principio di affidamento ........................................................ 8. L’individuazione delle regole cautelari .................................................... 8.1. La progressiva procedimentalizzazione dell’attività medico-chirurgica ................................................................................................ 8.2. In particolare: il sistema delle linee guida ....................................... 8.3. Formalizzazione delle regole cautelari e colpa generica residua .... 8.4. Linee guida, protocolli e colpa grave: l’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (c.d. decreto Balduzzi) .............................. 8.5. Le lacune dell’art. 3 d.l. n. 158 del 2012: a) l’ambito soggettivo di applicazione della nuova normativa ................................................. 8.6. (Segue): b) le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica .......................................................................... 8.7. (Segue): c) quale nozione di colpa lieve? Possibili casi di esclusione delle responsabilità dei sanitari .............................................. 8.8. Brevi considerazioni conclusive sul decreto Balduzzi .................... 9. Il comportamento alternativo lecito e l’evitabilità dell’evento ............... 10. Misura soggettiva della colpa del medico: la riconoscibilità dell’errore altrui .......................................................................................................... 11. Cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti ......... p. » 54 62 » » » 66 69 72 » 74 » 80 » 82 » » » 86 90 91 » 97 » 102 CAPITOLO TERZO LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE: LA COOPERAZIONE TRA MEDICI SENZA VINCOLO GERARCHICO 1. Individuazione dei casi di divisione del lavoro in senso orizzontale ..... 2. La collaborazione tra medici appartenenti allo stesso reparto .............. 3. La collaborazione con medici di altro reparto, ma aventi la medesima specializzazione: a) in particolare, la «cooperazione per consulto» ...... 4. (Segue): b) la colpa «per assunzione» ...................................................... 5. La collaborazione fra sanitari aventi diversa specializzazione ................ » 117 » 117 » 120 » 128 » 132 CAPITOLO QUARTO LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE: LA COOPERAZIONE TRA MEDICI IN DIVERSA POSIZIONE GERARCHICA E TRA MEDICI E PARAMEDICI SEZIONE PRIMA LA COLLABORAZIONE TRA MEDICI IN RAPPORTO GERARCHICO 1. Modelli organizzativi di tipo gerarchico .................................................. » 137 2. La responsabilità del superiore per il fatto colposo del subordinato: a) la violazione dei doveri di impartire direttive e di coordinamento. La culpa in vigilando ................................................................................. » 138 INDICE 3. (Segue): b) Il dovere di ripartire i carichi di lavoro tra i medici del reparto. La culpa in eligendo .................................................................... 4. La responsabilità del medico subordinato per il fatto colposo del superiore: a) «autonomia vincolata», «autonomia limitata» e dovere di dissenso ..................................................................................................... 5. (Segue): b) la condotta colposa del medico in posizione subalterna esecutiva di direttive impartite dal superiore .......................................... 6. (Segue): c) esercizio del potere di avocazione da parte del dirigente di struttura complessa e responsabilità del medico in posizione subalterna 7. La responsabilità del medico in posizione subalterna per errori commessi dal superiore gerarchico ................................................................. 8. Profili di responsabilità per le attività compiute dal medico specializzando ..................................................................................................... XI p. 144 » 148 » 151 » 156 » 157 » 159 SEZIONE SECONDA I RAPPORTI TRA PERSONALE MEDICO E PARAMEDICO 9. I rapporti tra medico e paramedico prima dell’abrogazione del d.P.R. n. 225 del 1974 ......................................................................................... » 162 10. I rapporti tra medico e paramedico successivamente all’abrogazione del d.P.R. n. 225 del 1974 ........................................................................ » 164 CAPITOLO QUINTO ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE 1. La cooperazione tra sanitari in équipe chirurgica ................................... 2. I rapporti gerarchici all’interno dell’équipe chirurgica: in particolare, il ruolo del capo-équipe ............................................................................... 3. Profili di responsabilità del medico per anticipato allontanamento dall’équipe operatoria .................................................................................... 4. I rapporti tra medici specialisti in diversa disciplina: a) in particolare, la cooperazione tra chirurgo ed anestesista ............................................. 5. (Segue): b) l’intervento quoad vitam ........................................................ 6. (Segue): c) l’intervento quoad valetudinem .............................................. 7. (Segue): d) la ripartizione di responsabilità tra chirurgo ed anestesista nella fase intra-operatoria e post-operatoria ........................................... 8. Un caso particolare di responsabilità d’équipe: gli interventi di trapianto d’organi .......................................................................................... » 169 » 170 » 173 » 175 » 179 » 181 » 182 » 185 CAPITOLO SESTO RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 1. Eventi lesivi conseguenti a carenze strutturali ed organizzative: quali responsabilità? .......................................................................................... » 191 XII INDICE 2. Cenni sull’organizzazione delle strutture sanitarie e individuazione dei soggetti responsabili ................................................................................. 3. La responsabilità degli amministratori delle strutture sanitarie per i reati di omicidio e lesioni colpose ......................................................... 4. Gli orientamenti della giurisprudenza ..................................................... 5. L’incidenza delle carenze strutturali ed organizzative sulla responsabilità del sanitario: a) il dirigente di struttura complessa ....................... 5.1. (Segue): b) Altro personale medico .................................................. 6. Dalla responsabilità del singolo a quella dell’ente: quali prospettive di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità “amministrativa” delle persone giuridiche agli enti ospedalieri? ......................... 7. Prospettive de jure condendo sulla responsabilità dell’ente ospedaliero per carenze strutturali ed organizzative .................................................. p. 194 » 199 » 202 » 205 » 209 » 212 » 219 Bibliografia ....................................................................................................... » 223 INTRODUZIONE Sin dall’antichità si è avvertita l’importanza del ruolo del medico e del suo rapporto con il paziente e, conseguentemente, l’esigenza di punire i comportamenti del primo che avessero comportato un danno alla vita o all’integrità fisica del secondo. Se la progressiva civilizzazione ha, fortunatamente, comportato il superamento delle pene corporali (si pensi alla c.d. “legge del taglione” applicata nel Codice di Hammurabi), non è, però, venuta meno l’istanza punitiva da parte di coloro che hanno subito un danno a causa del comportamento del sanitario, che, anzi, è andata via via incrementandosi negli ultimi decenni. Il costante aumento di processi che vedono i medici al banco degli imputati ha posto in evidenza una serie di criticità legate, da un lato, all’efficacia del sistema e del processo penale rispetto alle istanze di tutela provenienti dai soggetti danneggiati dal reato e, dall’altro, alla tenuta delle tradizionali categorie dogmatiche di imputazione del fatto criminoso dinnanzi alle peculiarità dell’attività medica. Il massiccio ricorso all’armamentario repressivo penale si fonda in larga parte su motivazioni di ordine sociale e culturale. Il progresso tecnico scientifico ha reso sostanzialmente impossibile il risalente approccio monosoggettivo all’ars medica, rendendo necessaria una collaborazione tra professionisti con differenti specializzazioni finalizzata al comune intento di salvaguardare la salute del paziente. Ciò ha comportato una “spersonalizzazione” dell’atto medico a cui ha fatto seguito, inevitabilmente, un mutamento dei rapporti tra sanitario e paziente. Quella che era una scienza individuale, esercitata da un singolo professionista “al servizio” del paziente il quale, quasi acriticamente, accettava tutte le scelte terapeutiche del medico, e gli eventuali esiti negativi delle stesse, è ora divenuta un’attività plurisoggettiva, ove il paziente, che vede pienamente riconosciuto il diritto alla libertà di autodeterminazione, non ha più un atteggiamento passivo, e quasi “reverenziale” nei confronti del medico. D’altro canto, il diffondersi della c.d. “medicina sociale” ha provocato un significativo aumento del numero di pazienti ed ha reso necessaria una sempre più accurata e razionale organizzazione delle strutture sa- XIV INTRODUZIONE nitarie1. L’intervento medico diviene, in tal modo, il frutto di una pluralità di singole prestazioni, ognuna delle quali concorrenti all’atto diagnostico o terapeutico, in cui l’attività del singolo medico costituisce solo un momento di una più complessa prestazione alla cui realizzazione concorre integralmente un assetto organizzativo. Il diffondersi di strumenti di diagnosi e cura sempre più sofisticati e sempre più noti, grazie ai mass media che, però tendono ad enfatizzarne i successi piuttosto che i limiti, ha comportato l’affermarsi di una visione della medicina che “tutto può e tutto deve”. Questa maggior consapevolezza, affiancata alla caduta della visione paternalistica della medicina ha comportato l’affermarsi nei pazienti di una vera e propria aspettativa in ordine all’esito salvifico delle cure e ad una conseguente scarsa accettazione degli esiti negativi delle stesse2. Il progresso tecnico-scientifico si rivela, quindi, per l’attività medica un Giano bifronte: se, da un lato, produce innegabili effetti positivi (grazie alle maggiori possibilità di cura e di salvezza), dall’altro è fonte di nuovi e, spesso, ingovernabili pericoli. Ogni metodica è, infatti, gravata da un rischio di effetti collaterali (c.d. rischio terapeutico) che va a sommarsi a quello preesistente rappresentato dalla patologia in atto3. La stessa cooperazione tra sanitari (come detto, resa sempre più necessaria dall’elevato livello di specializzazione) si rivela, d’altronde, ad un tempo stesso fattore di sicurezza e di rischio: pur consentendo, infatti, al medico, ed al personale ausiliario, di “dedicarsi ai compiti specifici del trattamento curativo con la dovuta esclusività e concentrazione”4, può, non1 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici del lavoro medico-chirurgico in équipe, in Temi, 1968, p. 217; F. AMBROSETTI, R. PICCINELLI, M. PICCINELLI, La responsabilità nel lavoro medico d’équipe. Profili penali e civili, Torino, 2003, p. 1. 2 C. PARODI, V. NIZZA, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, in F. BRICOLA, V. ZAGREBELSKY, Giurisprudenza sistematica di diritto penale, Torino, 1996, p. 3; F. PALAZZO, Responsabilità medica, “disagio” professionale e riforme penali, in Dir. pen. proc., 2009, p. 1065. 3 In tal senso A. FIORI, D. MARCHETTI, Medicina legale della responsabilità medica. Nuovi profili, Milano, 2009, p. 21 “la moderna medicina ha infatti un carattere ampiamente invasivo e il numero delle prestazioni quotidianamente fornite, specie nelle aree più sviluppate del globo, è dell’ordine di molti milioni per cui è inevitabile che il tasso percentuale delle complicanze, naturali e iatrogene, sia proporzionato a tali numeri estremamente elevati … Un contributo importante all’aumento dei rischi, delle complicanze, e, quindi, del contenzioso, è apportato proprio dall’ampliarsi della varietà dei trattamenti, con nuove indicazioni terapeutiche, mediche e chirurgiche, che moltiplicano la possibilità di danno”. Si veda, inoltre, F. INTRONA, Un paradosso: con il progresso della medicina aumentano i processi contro i medici, in Riv. it. med. leg., 2001, p. 879. 4 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 217. I due Autori osservano che “già un’operazione chirurgica di poco conto, se deve essere eseguita con un massimo di sicurezza e di diligenza, richiede la collaborazione di medici e infermieri; d’altra parte il successo di un gran numero di delicati interventi chirurgici dipende soprattutto, anzi, in modo INTRODUZIONE XV dimeno, divenire fonte di pericoli per la salute del paziente, facendo sorgere rischi nuovi e diversi rispetto a quelli dell’attività medica “monosoggettiva” (ad es. quelli derivanti da difetto di coordinamento, da erronea trasmissione di informazioni, da errori sulla professionalità dei collaboratori, etc.)5. Il diritto penale, caricato di forte valore simbolico, diviene lo strumento attraverso il quale perseguire non solo, o non tanto, l’irrogazione di una sanzione penale (spesso, invero, ineffettiva per il massiccio ricorso alla sospensione condizionale e per l’esiguità dei termini prescrizionali) e/o il riconoscimento di un risarcimento del danno (con minori oneri economici rispetto all’instaurazione di un autonomo giudizio civile), ma, piuttosto, finalità eticizzanti e moralizzatrici6. Il rapporto tra responsabilità penale e processo subisce così una trasmutazione che si ripercuote inevitabilmente sulle decisioni giudiziali. Queste ultime – particolarmente sensibili alla tutela dei diritti delle vittime di errori sanitari – finiscono, infatti, per ampliare a dismisura le maglie della responsabilità attraverso interpretazioni, non sempre condivisibili, dei tradizionali criteri di ascrizione oggettiva e soggettiva del fatto di reato7. La regola cautelare decisivo, dalla divisione dei compiti tra i vari sanitari che partecipano all’atto operatorio (basti pensare ai rapporti tra chirurgo e anestesista). La verità è che anche le normali esigenze della prassi quotidiana di un ospedale possono essere soddisfatte adeguatamente solo da un team di medici e ausiliari che si appoggiano e si sollevano vicendevolmente dal lavoro”. V. anche P. VENEZIANI, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, in Trattato di diritto penale - Parte speciale, diretto da G. MARINUCCI, E. DOLCINI, vol. II, Padova, 2003, p. 205. 5 Si veda P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 204 ss. In questo senso cfr. anche Cass. pen., 11 ottobre 2007, n. 41317, Raso ed altri, in CED rv. 237891, in cui i Giudici osservano che “nell’attività medico-chirurgica in équipe, la divisione del lavoro costituisce un fattore di sicurezza (perché ciascuno dei sanitari è chiamato a svolgere il lavoro in relazione al quale possiede una specifica competenza e perché in rapporto ad esso, è posto nelle condizioni di profondere tutta la diligenza, prudenza e perizia richieste, senza essere tenuto a controllare continuamente l’operato dei colleghi), ma rappresenta anche un fattore di rischio. Fa sorgere, in particolare, rischi nuovi e diversi (rispetto a quelli propri dell’attività medica monosoggettiva), essenzialmente derivanti da difetti di coordinamento e informazione, da errori di comprensione o dovuti alla mancanza di una visione di insieme, ecc., e spesso tra loro collegati”. 6 R. BARTOLI, Paradigmi giurisprudenziali della responsabilità medica, in Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa, Firenze, 2010, p. 78 il quale ha osservato che “l’obiettivo che spesso si vuole raggiungere promuovendo azioni di responsabilità penale non è tanto quello di vedere il medico andare in prigione, ma di dargli una lezione, soprattutto in virtù del suo atteggiamento di superficialità e indifferenza tenuto durante un’attività così delicata quale quella che ha ad oggetto beni primari quali la vita e l’incolumità individuale. E il nostro sistema sanzionatorio, proprio perché ineffettivo, finisce per permettere il perseguimento di questo obiettivo più correzionale che autenticamente punitivo-preventivo”. Nel medesimo senso cfr. F. GIUNTA, La legalità della colpa, in Criminalia, 2009, p. 157. 7 Una della principali conseguenze delle incertezze connesse all’accertamento della responsabilità colposa nell’attività medica è stata la diffusione della c.d. “medicina difensiva”. XVI INTRODUZIONE diviene, così, il frutto di una determinazione giudiziale ex post (in evidente contrasto con il principio di legalità ed, in particolare, di determinatezza) sulla base di standards di diligenza che trascurano la valutazione degli ambiti specifici di competenza del medico e delle condizioni in cui questi si trova ad operare8; le categorie dogmatiche di colpa e nesso causale, nonché di causalità attiva ed omissiva vengono a sovrapporsi9; l’acCon questa espressione si suole indicare quelle condotte sanitarie finalizzate, non tanto a perseguire il migliore interesse del paziente, ma, piuttosto, a minimizzare il rischio di contenzioso giudiziario civile o penale, per i sanitari. La medicina difensiva può assumere due diverse connotazioni: di tipo “positivo” (nei casi in cui il medico prescriva un eccesso di esami e terapie) e di tipo “negativo” (ove il medico si astenga dall’esecuzione di prestazioni terapeutiche ritenute troppo rischiose o, addirittura si rifiuti di assumere la cura di certi pazienti). Per gli aspetti definitori ed anche problematici del fenomeno si rinvia più diffusamente a G. FORTI, M. CATINO, F. D’ALESSANDRO, C. MAZZUCCATO, G. VARRASO, Il problema della medicina difensiva. Una proposta di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito dell’attività sanitaria e gestione del contenzioso legato al rischio clinico, Pisa, 2010; A. ROIATI, Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale. Tra teoria e prassi giurisprudenziale, Milano, 2012. 8 Si è efficacemente sottolineato in dottrina che “a differenza dell’agente che affronta la situazione di pericolo sulla base delle conoscenze consolidate e disponibili al momento della condotta, il giudice, nella tranquillità metafisica del suo pensatoio […] è in grado di distillare la cautele più varie, comprese quelle inverosimili ex ante o non ragionevolmente pretendibili, perché sproporzionatamente onerose o perché sperimentali o semplicemente perché non sufficientemente note o accreditate al momento del fatto”. In tal senso F. GIUNTA, La legalità, cit., p. 152. 9 In giurisprudenza spesso si assiste ad una commistione tra i concetti di obbligo giuridico e di dovere di diligenza e ad una conseguente trasformazione dei delitti commissivi colposi in delitti omissivi. La stessa Corte di Cassazione, peraltro, ha affermato che l’accertamento del nesso eziologico tra omissione ed evento deve necessariamente precedere quello della colposità della condotta stessa. In tal senso Cass. pen., sez. V, 20 ottobre 1998, n. 10929, Casaccio, in Cass. pen., 2000, p. 1183 con nota di R. BLAIOTTA, Causalità e colpa nella professione medica tra probabilità e certezza, ivi, p. 1188 nella quale i giudici osservano che “il rapporto eziologico per giustificare l’imputazione deve sempre necessariamente sussistere anche tra la condotta omissiva e l’evento e va dal giudice individuato attraverso il processo razionale della motivazione non potendo rimanere assorbito ed identificato nella posizione di garanzia né potendo essere fatto automaticamente scaturire da essa o, addirittura dalla semplice verificazione dell’evento”. Invero, nonostante alcuni tentativi anche in dottrina di affermare un’indifferenza tra i due concetti, l’orientamento a tutt’oggi prevalente è nel senso di una loro autonomia. Se, difatti, è innegabile che la colpa presenti sicuramente una componente omissiva che si concretizza nella mancata osservanza del dovere di diligenza, ciononostante esso non può essere equiparato all’obbligo di garanzia. Mentre, infatti, la posizione di garanzia indica il dovere di agire e il bene nei cui confronti l’azione deve svolgere la propria funzione di tutela, il dovere di diligenza, indica, invece, le modalità del comportamento imposto dalla posizione di garanzia. Per una attenta analisi dei tratti distintivi tra i due obblighi v. C.E. PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 850, il quale osserva che proprio da tale sovrapposizione di piani deriva, in parte, quella concezione della causalità fondata su percentuali medio basse di “evitabilità” dell’evento mediante il comportamento alternativo lecito. Una probabilità espressa in questi INTRODUZIONE XVII certamento del nesso causale – problema, invero, arginato grazie al pregevole intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte10 – subisce aberranti semplificazioni sconfinanti verso il terreno del rischio11; la potermini, infatti, nella sostanza, altro non esprime se non quel rapporto di rischio tipico della colpa; cfr. inoltre F. GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, p. 90 ss.; I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999, p. 118 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2013, (nota 51, p. 177). Non mancano, infine, Autori che, pur riconoscendo la differenza concettuale fra i due obblighi, ne hanno però affermato l’interferenza in concreto. Tra questi G. FIANDACA, E. MUSCO, Manuale di diritto penale, Bologna, 2014, p. 653 ss. 10 Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002, n. 27, Franzese, in Dir. pen. proc., 2003, p. 50, con nota di A. MARTINO, Il nesso causale attivato da condotte omissive tra probabilità, certezza e accertamento, nella quale i giudici del Collegio rilevano che “pretese difficoltà di prova, ad avviso delle Sezioni Unite, non possono mai legittimare un’attenuazione del rigore nell’accertamento del nesso di condizionamento necessario e, con essa, una nozione debole della causalità che, collocandosi ancora sul terreno della teoria, ripudiata dal vigente sistema penale, dell’aumento del rischio, finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità per omesso impedimento dell’evento, in violazione dei principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fato proprio”. Le stesse Sezioni Unite, a conclusione dell’iter argomentativo di ricostruzione degli aspetti connessi all’accertamento causale, hanno sancito il principio di diritto, successivamente ribadito dalle sezioni semplici, secondo cui in ordine all’accertamento del rapporto di causalità, si deve far riferimento al modello di spiegazione causale secondo leggi di copertura scientifiche. Il modello nomologico può svolgere il proprio scopo esplicativo del nesso causale tanto meglio quanto più alto è il grado di probabilità su cui è fondata la legge scientifica; ma non è sostenibile che si debbano utilizzare soltanto leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico prossimo ad 1, cioè alla certezza (da riferire, nel caso di reati omissivi impropri, all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa, e omessa, rispetto al singolo evento). In termini di certezza deve invece essere ricostruito l’accertamento del nesso causale, non essendo consentito dedurre automaticamente e proporzionalmente dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità. 11 Il riferimento è, in particolare, alla tendenza giurisprudenziale, sviluppatasi proprio nel campo della responsabilità medica, di far fronte alle difficoltà nell’accertamento del nesso causale nei reati omissivi imputando il fatto al soggetto quando la sua condotta ha provocato semplicemente un aumento, ovvero non ha ridotto il rischio di lesione del bene protetto. Sulla tendenza allo spostamento dell’accertamento della causalità sul terreno del rischio con riferimento alle strutture complesse ed all’attività medica, in particolare cfr. R. BLAIOTTA, La causalità nella responsabilità professionale, Tra teoria e prassi, Milano, 2004, p. 93; L. CORNACCHIA, Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, Torino, 2004, p. 39. Per una critica alla semplificazione dell’accertamento con riferimento alle ipotesi di divisione del lavoro cfr. A. GARGANI, Ubi culpa, ibi omissio: la successione di garanti in attività inosservanti, in Indice pen., 2000, p. 596. Per un approfondimento del problema dell’accertamento del nesso causale con particolare riferimento ai reati omissivi impropri ed all’attività medico-chirugica, e per interessanti ricostruzioni del travaglio giurisprudenziale sino all’intervento delle Sezioni Unite v. tra gli altri, S. MANCINI Probabilità logica e probabilità statistica nell’accertamento del nesso causale in materia penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2004, p. 265; G. IADECOLA, La causalità dell’omissione nella responsabilità medica prima e dopo le Sezioni Unite «Franzese», in Riv. it. med. leg., XXVII, 2005, p. 699; F. STELLA, Causalità e probabilità: XVIII INTRODUZIONE sizione di garanzia si estende fino a ricomprendere qualsiasi operatore che al più vario titolo entri in contatto con il paziente. Il tutto, peraltro, reso, se possibile, ancor più grave dalla prassi distorta della formulazione generica dei capi di imputazione da parte degli organi inquirenti. Sovente, infatti, si assiste a contestazioni di illeciti colposi in cui la regola cautelare è del tutto evanescente, a causa, da un lato, del semplice rinvio alla negligenza, imprudenza o imperizia o, dall’altro, dell’enucleazione di regole cautelari scritte a cui si accompagna l’utilizzo di formule di chiusura omnicomprensive che rinviano, in modo del tutto generico, ancora una volta alla “negligenza, imprudenza, imperizia”. Tali prassi, come si evidenziava, sono avallate dalla stessa giurisprudenza di legittimità che non ritiene violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, di cui all’art. 521 c.p.p., nel caso di modifica della regola cautelare12. In questo contesto, già di per sé assai complesso, si innestano le difficoltà relative all’accertamento della responsabilità colposa nelle ipotesi, oramai ordinarie, di attività plurisoggettive. Si è già avuto modo di sottolineare come l’attività medica si estrinsechi ormai in un agire collettivo ove il singolo concorre alla realizzazione del fine comune della cura del paziente. Caduto, quindi, il tradizionale binomio tra errore ascrivibile a colpa ed autore dell’errore, tipico dell’attività monosoggettiva, le consuete categorie dogmatiche – forgiate sulla responsabilità del singolo – si rivelano sovente inadeguate per l’individuazione del soggetto responsabile, con conseguenti, pericolose, forme di responsabilità di gruppo o di posizione. Gli evidenziati contrasti con i principi costituzionali di legalità (sub species della determinatezza) e di personalità dell’illecito conseguenti all’applicazione dell’illecito colposo al campo della responsabilità medica13 – nonché l’esigenza di combattere le diffuse pratiche di “medicina difensiva” – hanno indotto la dottrina a plurime proposte di riforma tendenti il giudizio corpuscolariano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 60; F. STELLA, Causalità omissiva, probabilità, giudizi controfattuali l’attività medico chirurgica, in Cass. pen., 2005, p. 1062; G. CASAROLI, Paradigmi giurisprudenziali della causalità nell’attività medica, in Festschrift für Erich Samson, Heidelberg, 2010, p. 745 ss. 12 Cass. pen., sez. VI, 9 maggio 2013, n. 36394, in Pluris; Cass. pen., sez. IV, 19 aprile 2013, n. 31300, Farinotti ed altro, in Pluris; Cass. pen., sez. III, 8 aprile 2010, n. 19741, in CED rv. 247171; Cass. pen., sez. IV, 17 novembre, 2005, n. 2393, Tucci e altri, in Arch. nuova proc. pen., 2007, 1, p. 132; Cass. pen., sez. IV, 4 maggio 2005, n. 38818, De Bona, in Guida dir., 2005, 47, p. 67; Cass. pen., sez. IV, 10 luglio 2001, n. 35820, Barbieri, in Riv. pen., 2002, p. 45. 13 Sull’inadeguatezza del modello classico di prevenzione della medical malpractice fondato sull’illecito colposo L. EUSEBI, Medicina difensiva e diritto penale «criminogeno», in Riv. it. med. leg., 2011, p. 1087. INTRODUZIONE XIX o ad escludere la rilevanza penale dei casi di malpractice – attraverso il ricorso alla giustizia riparativa ovvero con l’introduzione di strumenti sanzionatori differenti, in particolare, di tipo amministrativo (misure interdittive, pene pecuniarie …) – o a configurare fattispecie di reato ad hoc costruite quali reati di pura condotta e di pericolo, o, infine a limitare la responsabilità dei sanitari attraverso il ricorso alla “colpa grave”14. Su questi aspetti ci si soffermerà nel presente studio, cercando, dapprima, di evidenziare le possibili ricadute della dimensione collettiva della responsabilità medica sulle categorie dogmatiche, al fine di individuare quali obblighi incombano sul medico che partecipi ad un’attività multidisciplinare e se – ed entro quali limiti – allo stesso sia ascrivibile l’evento morte o lesioni del paziente conseguente all’errore professionale di altro sanitario; e, successivamente, di verificare la tenuta dei principi così elaborati rispetto alle peculiarità delle singole forme di cooperazione. 14 Sembra orientato in questo senso, seppure con i limiti che saranno evidenziati nel prosieguo della trattazione, il recente art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158 “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189. La norma dispone che “l’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. La disposizione, in sostanza, prevede l’esclusione della responsabilità penale del sanitario che abbia osservato, nell’esercizio della propria attività, linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e, ciononostante, si sia verificato un evento lesivo ai danni del paziente. In dottrina, sulla possibilità di limitare la responsabilità degli esercenti la professione sanitaria attraverso il ricorso alla “colpa grave” v. A.R. DI LANDRO, La colpa medica negli Stati Uniti e in Italia. Il ruolo del diritto penale e il confronto col sistema civile, Torino, 2009, p. 18 ss.; G. FORTI, M. CATINO, F. D’ALESSANDRO, C. MAZZUCCATO, G. VARRASO, Il problema della medicina difensiva, cit., p. 199 ss. Gli Autori presentano un progetto di riforma del codice penale nel quale limitano la responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria alle sole ipotesi di colpa grave prevedendo, inoltre, parallelamente, l’estinzione del reato in caso di condotte riparatorie. L’articolato del progetto di riforma è stato pubblicato anche in Riv. it. med. leg., 2011, p. 1309 ss. Anche la giurisprudenza non si è dimostrata insensibile alla questione del possibile ricorso alla colpa grave. In tal senso, di recente Cass. pen., sez. IV, 26 aprile 2011, n. 16328, Lucisano, in CED rv. 251960. CAPITOLO PRIMO MODELLI DI COOPERAZIONE E QUALIFICHE PROFESSIONALI SOMMARIO: 1. Le peculiarità dell’attività medico-chirurgica plurisoggettiva e i diversi modelli di collaborazione. – 2. I soggetti che partecipano all’attività medica plurisoggettiva: fonti normative. – 2.1. Il dirigente di struttura complessa. – 2.2. Il dirigente di struttura semplice e il dirigente sanitario alla prima assunzione. – 2.3. Lo specializzando. – 2.4. Il personale paramedico. 1. Le peculiarità dell’attività medico chirurgica plurisoggettiva e i diversi modelli di collaborazione Nel linguaggio comune si suole unificare tutte le ipotesi di cooperazione in ambito sanitario sotto l’unica locuzione “attività medica in équipe”. In realtà, dietro questa formula di sintesi si cela un ampio panorama di modelli di collaborazione, di cui l’équipe costituisce solo un esempio peculiare. Con riguardo, innanzitutto, ai rapporti intercorrenti tra i medici che concorrono alla cura dei pazienti, si può distinguere tra divisione del lavoro in senso orizzontale e verticale. La prima si verifica quando sono chiamati a collaborare tra loro più medici in eguale posizione gerarchica: i sanitari, generalmente specialisti in differenti discipline, in tal caso, sono posti su un piano paritario ed adempiono le loro diverse funzioni in piena autonomia e in attuazione delle leges artis dei rispettivi settori. Nella seconda ipotesi, invece, i medici sono legati tra loro da un vincolo gerarchico che crea tra gli stessi un rapporto di sovraordinazione-subordinazione. Rispetto alle modalità, in particolare temporali, di esecuzione dell’attività medica in cooperazione, si suole, invece, distinguere tra collaborazione sincronica – in cui tutti i sanitari svolgono la propria attività in un unico contesto spazio-temporale – e collaborazione diacronica – in cui le attività dei medici non sono contestuali, ma si snodano in una sequenza in cui ciascun atto si concatena con quello che lo ha preceduto. L’attività svolta in équipe, tecnicamente, costituisce, quindi, solo una peculiare forma di cooperazione nella quale un gruppo di sanitari (di 2 CAPITOLO PRIMO pari o differente specializzazione e grado gerarchico) in un unico contesto spazio-temporale esegue un trattamento diagnostico o terapeutico (es. équipes chirurgiche). Se quelle appena citate rappresentano sicuramente le tradizionali forme di cooperazione tra sanitari, nondimeno, non può dimenticarsi che all’interno delle strutture sanitarie possono verificarsi altri fenomeni di divisione del lavoro (e, quindi, di cooperazione) che non coinvolgono esclusivamente il personale medico e paramedico. Il riferimento è, innanzitutto, a quei casi, invero ancora oggetto di scarsa attenzione da parte della giurisprudenza, in cui l’esito infausto dell’intervento diagnostico o terapeutico è conseguenza, non solo di un errore del medico, ma di precise scelte, sovente di natura eminentemente economica, adottate dagli organi direttivi (direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario) della struttura. Non possono, infine, dimenticarsi nuove forme di collaborazione, che sempre più si intensificano a causa del progresso tecnologico, tra il personale sanitario e i tecnici addetti, ad esempio, alla fornitura, al funzionamento o alla manutenzione dei macchinari impiegati in ambito medico (es. ingegneri biomedici che organizzano l’uso e la manutenzione della strumentazione biomedica o realizzano strumenti diagnostici e terapeutici, quali protesi e valvole cardiache). 2. I soggetti che partecipano all’attività medica plurisoggettiva: fonti normative La trattazione dei temi relativi alla responsabilità dei professionisti partecipanti ad un’attività plurisoggettiva richiede, preliminarmente, una breve disamina delle fonti normative che individuano i ruoli e le mansioni del personale sanitario e che, sovente, sono richiamate dalla giurisprudenza per giustificare la responsabilità dei singoli medici anche nel caso di divisione del lavoro. Seppure, infatti, tali norme non siano state introdotte dal legislatore con il precipuo scopo di dettare regole cautelari che integrino i precetti normativi di cui agli artt. 589 e 590 c.p., tuttavia le stesse incidono significativamente sull’individuazione delle figure dei sanitari potenzialmente responsabili anche sul versante penale1. La materia è stata oggetto di plurimi interventi legislativi che, nel corso degli anni, si sono succeduti ridisegnando i contenuti delle mansioni e dei doveri incombenti su ciascun sanitario. Il primo tentativo di sistemazione risale al lontano 1938, con l’approvazione del r.d. 30 settembre 1938, n. 1631, recante “Norme generali per l’ordinamento dei 1 P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 201. MODELLI DI COOPERAZIONE E QUALIFICHE PROFESSIONALI 3 servizi sanitari e del personale sanitario degli ospedali”, con cui il legislatore individua i profili professionali dei partecipanti all’attività medicochirurgica ed i rapporti tra loro intercorrenti, configurando un’organizzazione di tipo gerarchico al cui vertice è collocato il primario, seguito dall’aiuto, dall’assistente e dal personale infermieristico. Il r.d. 1631 del 1938 è stato, successivamente, abrogato dal d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, rubricato “Norme sull’ordinamento interno dei servizi ospedalieri” a cui, dieci anni dopo, ha fatto seguito l’approvazione del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, sullo “Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali”. Con quest’ultimo provvedimento normativo il legislatore è intervenuto nuovamente in argomento senza, tuttavia, abolire le disposizioni contenute nel precedente d.P.R. n. 128 del 1969 che è, quindi, rimasto formalmente in vigore fino al 1992, anno in cui ne è stata dichiarata l’abrogazione con il d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, recante il riordino della disciplina in materia sanitaria. La dottrina ha osservato, tuttavia, che il d.lgs. n. 502 del 1992, pur avendo abrogato il d.P.R. n. 128 del 1969, ha lasciato in vigore il d.P.R. n. 761 del 1979, che viene tutt’oggi utilizzato come normativa di riferimento anche dalla giurisprudenza. Nonostante, quindi, come meglio sarà evidenziato nel prosieguo, nella definizione dei ruoli dei sanitari sia, tuttora, necessario un richiamo al d.P.R. n. 761 del 1979 non si possono, nondimeno, trascurare le innovazioni introdotte sia dal d.lgs. n. 502 del 1992, sia dal d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, finalizzate, in particolare, a contemperare la gerarchia ospedaliera con l’autonomia dei singoli medici2. Nel primo intervento di riforma il legislatore non cita più le figure del primario, dell’aiuto e dell’assistente, ed articola la dirigenza del ruolo sanitario in due livelli. In luogo della distinzione, di cui all’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979, tra medici in posizione iniziale (assistenti), in posizione intermedia (aiuti) e in posizione apicale (primari) viene introdotto un nuovo assetto che prevede lo status di “dirigenti sanitari” di primo o secondo livello. L’art. 15 del citato decreto, infatti, sancisce che “al personale medico e delle altre professionalità sanitarie del primo livello sono attribuite le funzioni di supporto, di collaborazione e corresponsabilità, con riconoscimento di precisi ambiti di autonomia professionale, nella struttura di appartenenza, da attuarsi nel rispetto delle direttive del responsabile” ed inoltre che “al personale medico e delle altre professionalità sanitarie del secondo livello sono attribuite funzioni di direzione e di organizzazione della struttura da attuarsi anche mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa e l’adozione dei provvedimenti relativi, necessari per 2 G. IADECOLA, La responsabilità medica nell’attività in équipe alla luce della rinnovata disciplina della dirigenza sanitaria, in Cass. pen., 2007, p. 154. 4 CAPITOLO PRIMO il corretto espletamento del servizio; spettano in particolare al dirigente medico appartenente al secondo livello gli indirizzi e, in caso di necessità, le decisioni sulle scelte da adottare nei riguardi degli interventi preventivi, clinici, diagnostici e terapeutici; al dirigente delle altre professioni sanitarie spettano gli indirizzi e le decisioni da adottare nei riguardi dei suddetti interventi limitatamente a quelli di specifica competenza”. Con il successivo d.lgs. n. 229 del 1999, il legislatore ha poi ulteriormente modificato l’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992, individuando per la dirigenza sanitaria un unico ruolo (distinto per profili professionali) ed un unico livello, articolato in relazione alle diverse responsabilità professionali e gestionali, prevedendo due diversi tipi di struttura, quella semplice e quella complessa, e ridefinendo i poteri del dirigente con incarico di direzione di struttura, al quale pur sempre residua una funzione di indirizzo programmatico e sanitario (preventivo, diagnostico e terapeutico, riabilitativo)3. Il riordino della dirigenza sanitaria ha, indubbiamente, comportato un’attenuazione del vincolo gerarchico tra i sanitari, attraverso il riconoscimento di maggiori ambiti di autonomia ai medici in posizione subalterna. Per converso, la nuova normativa lascia pressoché invariati i poteri-doveri del dirigente di struttura complessa a cui, peraltro – vista la mancata abrogazione dell’art. 63 d.P.R. 761 del 1979 – continua ad essere riconosciuto il potere di avocazione dei casi più delicati. La Corte di Cassazione ha avuto occasione di occuparsi degli effetti delle predette novelle (anche se nel caso sottoposto alla sua attenzione trovava ancora applicazione la normativa previgente) ed ha sottolineato che a partire dal 1999 il legislatore ha voluto contemperare la gerarchia ospedaliera con l’autonomia professionale, ma ciò non ha comportato particolari variazioni con riguardo ai poteri-doveri riconosciuti al medico in posizione apicale. La nuova disciplina, quindi, secondo la ricostruzione della Suprema Corte – fatta propria anche dalla dottrina – non ha relegato il dirigente di struttura complessa allo svolgimento di mansioni prettamente gestionali ed organizzative e non può, quindi, accogliersi l’assunto secondo cui le condotte inadeguate e lesive poste in essere all’interno della struttura siano, allo stato, divenute riferibili alla esclusiva responsabilità di chi materialmente le abbia realizzate4. 3 Un’ultima modifica dell’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 è, infine, intervenuta ad opera dell’art. 8 d.lgs. 28 luglio 2000, n. 254. 4 Cass. pen., sez. IV, 29 settembre 2005, n. 47145, Sciortino ed altri, in Cass. pen., 2007, p. 143, con nota di G. IADECOLA, La responsabilità medica, cit., p. 154. Si veda alttresì F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità., cit., p. 7, ove si rileva come il d.lgs. n. 502 del 1992 (e succ. mod.) recante il riordino della disciplina in materia sanitaria, abbia MODELLI DI COOPERAZIONE E QUALIFICHE PROFESSIONALI 5 Nonostante la nuova nomenclatura legislativa, a tutt’oggi, giurisprudenza e dottrina continuano, comunque, a far riferimento ai precedenti ruoli di primario, aiuto ed assistente, piuttosto che a quelli di dirigente. In effetti, anche a fronte dei predetti interventi legislativi sembra, nondimeno, possibile, pur con qualche approssimazione, sovrapporre i nuovi livelli dirigenziali con le vecchie qualifiche individuate nelle pregresse disposizioni normative, riconducendo la figura del primario a quella di dirigente di struttura complessa, dell’aiuto a quella di dirigente di struttura semplice e dell’assistente a quella di dirigente alla prima assunzione. 2.1. Il dirigente di struttura complessa Al vertice del complesso organigramma che caratterizza le strutture sanitarie si colloca il dirigente di struttura complessa, i cui compiti sono enucleati, innanzitutto, dall’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979, tuttora in vigore, ma da leggersi in combinato disposto con le innovazioni apportate dal d.lgs. n. 502 del 1992 e dal d.lgs. n. 229 del 1999. Come già osservato in precedenza (v. supra § 2), con l’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 (come modificato dal d.lgs. n. 229 del 1999) il primario diviene “dirigente con incarico di direzione di struttura complessa”, ma rimangono tendenzialmente invariati i poteri che ad esso competono. Ai dirigenti con incarico di direzione di struttura complessa sono attribuite, oltre a quelle derivanti dalle specifiche competenze professionali, funzioni di direzione e organizzazione della struttura – queste ultime da attuarsi anche mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa – nonché il potere di adottare decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e la realizzazione dell’appropriatezza degli interventi con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata. Il dirigente è, inoltre, responsabile dell’efficace ed efficiente gestione delle risorse attribuite. Per costante dottrina e giurisprudenza le sopracitate norme introducono un obbligo di garanzia a carico del primario, caratterizzato dal dovere giuridico di impedire eventi lesivi degli altrui beni giuridici della vita e dell’integrità fisica5. In particolare, l’attribuzione al primario, anche alla abrogato il d.P.R. n. 128 del 1969, lasciando in vigore il d.P.R. n. 761 del 1979; in ogni caso, anche a seguito della formale abrogazione del d.P.R. n. 128 del 1969 (il quale pure definiva i compiti del personale ospedaliero), nulla è cambiato dal punto di vista sostanziale, essendo la normativa del 1969 e quella del 1979 perfettamente fungibili. 5 In tal senso Cass. pen., sez. IV, 1 febbraio 2000, Gulisano, in Giur. it., 2001, p. 572 “il primario ospedaliero è titolare di una specifica posizione di garanzia nei confronti dei suoi pazienti alla quale non può sottrarsi adducendo che ai reparti sono assegnati altri medici o che il suo intervento è dovuto solo ai casi di particolari difficoltà o di complicazioni; ciò ri- 6 CAPITOLO PRIMO luce degli ultimi provvedimenti normativi, del potere-dovere di adottare decisioni “necessarie per l’appropriatezza degli interventi con finalità tra l’altro diagnostiche e terapeutiche”, determina l’insorgere in capo allo stesso di un obbligo di attivarsi allorché percepisca che, nella struttura cui è preposto, i comportamenti dei propri collaboratori, inosservanti di direttive o comunque di regole di cautela, mettano a repentaglio la vita o l’integrità fisica del paziente6. 2.2. Il dirigente di struttura semplice e il dirigente sanitario alla prima assunzione Sottoposti al dirigente di struttura complessa (o primario) si trovano altri due sanitari: il dirigente di struttura semplice (aiuto) ed il dirigente alla prima assunzione (assistente). Si tratta di figure professionali che, a differenza di quanto osservato in precedenza per il primario, hanno visto ampliati, a seguito degli interventi legislativi del 1992 e del 1999, i propri ambiti decisionali e di autonomia, con attenuazione del vincolo gerarchico ed accentuazione di quello funzionale. Sotto la vigenza dell’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979, infatti, l’assistente è definito come colui che svolge “funzioni medico-chirurgiche di supporto e funzioni di studio, di didattica e di ricerca, nonché attività finalizzate alla sua formazione, all’interno dell’area dei servizi alla quale è assegnato, secondo le direttive dei medici appartenenti alle posizioni funzionali superiori” con la previsione di una “responsabilità per le attività professionali a lui direttamente affidate e per le istruzioni e direttive impartite nonché per i risultati conseguiti”. La sua attività viene assoggettata a controllo e la sua autonomia è “vincolata alle direttive ricevute”. L’aiuto, invece, è colui che svolge “funzioni autonome nell’area dei servizi a lui affidata, relativamente ad attività e prestazioni medico-chirurgiche, nonché ad attività di studio, di didattica, di ricerca e di partecipazione dipartimentale, anche sotto il profilo della diagnosi e cura, nel rispetto delle necessità del lavoro di gruppo e sulla base delle direttive ricevute dal medico appartenente alla posizione apicale”. A seguito dell’individuazione di un unico ruolo e di un unico livello per tutta la dirigenza sanitaria, diviene possibile collocare questi medici sulta chiaramente dall’art. 7, comma 3, d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 (ordinamento interno dei servizi ospedalieri) che gli attribuisce la ‘responsabilità’ dei malati e dell’art. 63, comma 5, d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (stato giuridico del personale delle Usl) secondo il quale il medico appartenente alla posizione apicale ha il potere di impartire istruzioni e direttive in ordine alla diagnosi e alla cura e di verificarne l’attuazione”; nonché Cass. pen., sez. IV, 9 novembre 2000, n. 3468, Ripoli, in Guida al dir., 2001, p. 90. 6 G. IADECOLA, La responsabilità medica, cit., p. 159. MODELLI DI COOPERAZIONE E QUALIFICHE PROFESSIONALI 7 nell’ambito dell’articolo 15, comma 4, d.lgs. n. 502 del 1992, che distingue tra dirigenti sanitari all’atto della prima assunzione e dirigenti sanitari con cinque anni di attività. Ai primi sono affidati compiti professionali con precisi ambiti di autonomia da esercitare nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura e sono attribuite funzioni di collaborazione e corresponsabilità nella gestione delle attività. Al dirigente con cinque anni di attività, che abbia superato con esito positivo le procedure di valutazione previste dall’art. 15, comma 5, sono attribuite funzioni di natura professionale anche di alta specializzazione, di consulenza, studio e ricerca, ispettive, di verifica e di controllo, nonché, possono essere attribuiti incarichi di direzione di strutture semplici. Si può, quindi, ora genericamente parlare di medici che collaborano (in posizione subordinata) con il dirigente della struttura complessa e i cui ambiti di autonomia assumono proporzioni diverse a seconda che gli stessi siano o meno a capo di una struttura semplice. In ogni caso potrebbe essere ancora possibile una distinzione tra i due ruoli, continuando ad individuare nell’assistente un professionista, relativamente giovane per età ed esperienza, munito di preparazione per lo più teorica e comunque di un limitato background pratico7, e nell’aiuto, viceversa, quel professionista che ha già maturato una certa esperienza, anche pratica (almeno quinquennale), e che potrebbe essere preposto ad una struttura semplice. 2.3. Lo specializzando Ciascun laureato in medicina e chirurgia può, superando apposito concorso, accedere alle Scuole di formazione specialistica che si pongono, come finalità precipua, l’acquisizione di una professionalità coerente con le esigenze del Servizio Sanitario Nazionale. La figura dello specializzando (o assistente in formazione) pone peculiari problemi in ordine all’individuazione dei limiti entro cui lo stesso può svolgere la propria attività e, conseguentemente, dei confini della sua eventuale responsabilità penale. Se, infatti, da un lato, ci si trova di fronte ad una legislazione che, in prima battuta, tratteggerebbe la figura del medico in formazione come un “allievo” che effettua un periodo di apprendimento e pratica clinica con un ruolo marginale nell’organigramma, dall’altro, però, nella realtà ospedaliera, lo specializzando non assume di certo un ruolo meramente secondario, finendo, invece, per eseguire tutte le mansioni proprie di ogni altra figura a lui gerarchicamente sovraordinata. 7 P. ZANGANI, Sul rapporto di subordinazione tra primario e assistente ospedalieri: concorso nella responsabilità professionale, in Giust. pen., 1962, p. 476 ss. 8 CAPITOLO PRIMO La normativa di riferimento era originariamente contenuta nel d.lgs. n. 257 del 1991, adottato in attuazione della direttiva comunitaria 82/76/CEE, il quale all’art. 4 individuava i diritti e doveri dello specializzando stabilendo che “la formazione specialistica del medico a tempo pieno implica la partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio di cui fanno parte le strutture nelle quali essa si effettua, ivi comprese le guardie e l’attività operatoria per le discipline chirurgiche, nonché la graduale assunzione di compiti assistenziali in modo che lo specializzando dedichi alla formazione pratica e teorica tutta la sua attività professionale per l’intero anno”. Il decreto è stato successivamente abrogato dal d.lgs. 17 agosto 1999, n. 368 che, adottato in attuazione delle direttive comunitarie 93/16/CEE, 97/50/CE, 98/21/CE e 99/46/CE, agli articoli da 37 a 42, riordina alcune delle questioni più critiche del rapporto “azienda sanitaria – specializzando”8, delineando, all’art. 38, in modo più dettagliato rispetto alla previgente disciplina, le mansioni di questa figura di medico. L’art. 38 d.lgs. n. 368 del 1999 ben sintetizza le mansioni che devono essere attribuite allo specializzando il quale, sotto la diretta guida del proprio tutore (medico di comprovate esperienze professionali e di elevata qualificazione scientifica), deve svolgere attività sia teoriche sia pratiche ma, soprattutto, deve gradualmente assumere compiti di natura assistenziale ed eseguire interventi diagnostici e terapeutici, con autonomia vincolata alle direttive ricevute dal tutore. Il medico specializzando, quindi, è sempre assoggettato al controllo del tutore, il quale ha anche l’obbligo di verificare costantemente e discutere criticamente con l’interessato ogni prestazione lasciata all’autonomia gestionale dello specializzando. Esulano, invece, dai compiti dello specializzando le attività di natura prettamente amministrativa quali, ad esempio, la richiesta di esami di laboratorio, il rilascio di certificazioni sanitarie, la redazione della documentazione attestante il ricovero e le dimissioni dei pazienti. La disciplina normativa dell’attività dei medici specializzandi è poi completata dal disposto dell’art. 16 d.lgs. 502 del 1992, il quale ribadisce che la formazione implica la partecipazione alla totalità delle attività mediche, nonché la graduale assunzione di compiti assistenziali con autonomia vincolata alle direttive impartite dal responsabile della formazione. Dall’esame della disciplina normativa emerge, quindi, che il medico specializzando non è presente nella struttura per la sola formazione pro8 L’applicazione delle disposizioni degli articoli dal 37 al 42 del d.lgs. n. 368 del 1999 è stata prorogata diverse volte fino all’approvazione della l. 23 dicembre 2005, n. 266 la quale, all’art. 1, comma 300, ne ha previsto l’applicazione a decorrere dall’anno accademico 20062007. MODELLI DI COOPERAZIONE E QUALIFICHE PROFESSIONALI 9 fessionale: egli non è un mero esecutore di ordini del tutore, ma è dotato di autonomia, tanto che assume personalmente la responsabilità delle attività compiute9. Pur tuttavia, la nuova disciplina introdotta dal d.lgs. 368 del 1999 ha accentuato i poteri-doveri di controllo del tutore specificando, da un lato, che la partecipazione dello specializzando alle attività deve essere “guidata” e, dall’altro, che l’autonomia del medico in formazione è “vincolata” alle direttive impartite dal primo. Muovendo da tale constatazione autorevole dottrina ha individuato dei limiti a cui deve sottostare lo specializzando nello svolgimento dell’attività: a) della gradualità progressiva, nel senso che alla progressiva acquisizione di sempre più ampie conoscenze tecniche fa riscontro la parallela e graduale estensione degli ambiti di intervento, ad esecuzione personale, dello specializzando; b) della direzione e controllo da parte del responsabile dell’attività dello specializzando10. Eppure, nonostante queste previsioni normative, il medico in formazione svolge spesso mansioni che esulano, non solo dai suoi compiti, ma, soprattutto, dalle sue competenze. L’assunto trova indiscutibile conferma dall’esame dei numerosi casi giurisprudenziali che hanno affrontato questioni attinenti alla penale responsabilità di specializzandi per aver adottato erronee decisioni o eseguito interventi diagnostici e terapeutici, senza consultare il medico più esperto (magari irreperibile o indisponibile) o, addirittura, per non essersi discostati dalle direttive (erronee) impartite dal tutor. 2.4. Il personale paramedico Anche la normativa sui paramedici ha subito nel corso di questi ultimi anni significativi mutamenti che hanno fortemente inciso sui compiti che il personale infermieristico assume nell’ambito dell’organizzazione ospedaliera. Fino al 1999, la normativa di riferimento era costituita dal d.P.R. 14 marzo 1974, n. 225, il quale individuava in modo analitico e dettagliato le mansioni spettanti agli infermieri generici e professionali, creando una figura professionale con un compito di ausilio per il medico e di esecuzione di compiti da quest’ultimo affidatigli. Il quadro normativo muta con l’approvazione della l. 26 febbraio 1999, n. 42 che, all’art. 1, dichiara espressamente abrogato il precedente 9 In tal senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 16 febbraio 2010, n. 6215, Pappadà, ed altri, in CED rv. 246419; nonché Cass. pen., sez. IV, 20 gennaio 2004, n. 32901, Marandola ed altro, in Riv. pen., 2005, p. 750. 10 F. MANTOVANI, La responsabilità nella partecipazione degli specializzandi negli interventi medico chirurgici, in F. MANTOVANI (a cura di), Umanità e razionalità del diritto penale, Padova, 2008, p. 1512. 10 CAPITOLO PRIMO d.P.R. n. 225 del 1974. In particolare il nuovo provvedimento normativo stabilisce che il campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie infermieristiche sia determinato dai contenuti dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di diploma universitario e di formazione postbase nonché degli specifici codici deontologici. In effetti, già a decorrere dal 1994 si erano succeduti una serie di decreti ministeriali ciascuno dei quali provvedeva ad individuare uno specifico profilo professionale nell’ambito del personale infermieristico specializzato11. La nuova normativa, tuttavia, non elenca più le mansioni dell’infermiere in modo così analitico come il precedente d.P.R. n. 225 del 1974, ma si limita a definirne i compiti attraverso “principi generali”. In particolare, con specifico riferimento all’infermiere professionale, l’art. 1, d.m. n. 739 del 1994 individua quali sue principali funzioni la prevenzione delle malattie, l’assistenza ai malati e ai disabili, l’educazione sanitaria. L’assenza di un’elencazione dettagliata delle mansioni dell’infermiere, però, non costituisce l’unico profilo di novità della riforma, ma a questo deve aggiungersi il rilievo che tale figura professionale viene dotata di una maggiore autonomia decisionale. Questo operatore sanitario, infatti, deve identificare i bisogni della salute e pianificare l’intervento assistenziale assumendo così autonomamente la responsabilità del processo assistenziale. Pertanto con l’abolizione del d.P.R. n. 225 del 1974, come osservato anche in dottrina, si è assistito al passaggio da una condizione di “eteronomia”, cioè di dipendenza, della professione infermieristica, ad una condizione di “autonomia professionale”12. In altri termini, l’infermiere, da semplice operatore di supporto per altre professionalità ed esecutore di compiti affidatigli da altri, è divenuto soggetto dotato di autonomia decisionale in ordine al processo assistenziale. Non può, infine, sottacersi che il passaggio da una tecnica normativa di tipo casistico, utilizzata nel d.P.R. n. 225 del 1974, ad una di tipo sintetico, come quella del d.m. n. 739 del 1994, può determinare una maggiore difficoltà per l’interprete nell’individuare l’esatto contenuto degli obblighi incombenti sul paramedico e, di conseguenza, anche le ipotesi in cui eventuali errori di quest’ultimo possano ripercuotersi su altri professionisti che si siano avvalsi della sua collaborazione. 11 I decreti ministeriali che hanno individuato i diversi profili professionali sono: d.m. n. 666 del 1994 (podologo); d.m. n. 669 del 1994 (igienista dentale); d.m. n. 731 del 1994 (infermiere professionale); d.m. n. 740 del 1994 (ostetrica); d.m. n. 744 del 194 (dietista); d.m. n. 69 del 1997 (assistente sanitario); d.m. n. 70 del 1997 (infermiere pediatrico). 12 A. FEDRIGOTTI COLOMBO, C. CORTESE FAUSTI, Riferimenti per la nuova assistenza, in Aggiornamenti professionali, 1999, p. 29; nonché E. CARLI, Le regole della professione, in Aggiornamenti professionali, 1999, p. 28. CAPITOLO SECONDO IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE SOMMARIO: Sezione prima. L’INDIVIDUAZIONE DEI SOGGETTI RESPONSABILI: 1. Il recupero del principio della responsabilità personale. – 2. Imputazione oggettiva del fatto: il riparto delle competenze. – 2.1. La posizione di garanzia del sanitario: posizione di protezione o di impedimento di altrui reati? – 2.2. I limiti della concezione formale dell’obbligo di garanzia. – 3. La successione nella posizione di garanzia. – 4. Casi di successione nella posizione di garanzia. In particolare: la successione nelle attività inosservanti. – Sezione seconda. IMPUTAZIONE SOGGETTIVA DEL FATTO: 5. La tipicità colposa. – 6. Origini e fondamento del principio di affidamento. – 7. I limiti del principio di affidamento. – 8. L’individuazione delle regole cautelari. – 8.1. La progressiva procedimentalizzazione dell’attività medico-chirurgica. – 8.2. In particolare: il sistema delle linee guida. – 8.3. Formalizzazione delle regole cautelari e colpa generica residua. – 8.4. Linee guida, protocolli e colpa grave: l’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (c.d. decreto Balduzzi). – 8.5. Le lacune dell’art. 3 d.l. n. 158 del 2012; a) l’ambito soggettivo di applicazione della nuova normativa. – 8.6. (Segue): b) le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. – 8.8. (Segue): c) quale nozione di colpa lieve? Possibili casi di esclusione della responsabilità dei sanitari. – 8.9. Brevi considerazioni conclusive sul decreto Balduzzi. – 9. Il comportamento alternativo lecito e l’evitabilità dell’evento. – 10. Misura soggettiva della colpa del medico: la riconoscibilità dell’errore altrui. – 11. Cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti. SEZIONE PRIMA L’INDIVIDUAZIONE DEI SOGGETTI RESPONSABILI 1. Il recupero del principio della responsabilità personale L’esame della giurisprudenza di questi ultimi anni mette chiaramente in evidenza i limiti del ricorso ai tradizionali criteri di ascrizione oggettiva e soggettiva del fatto quando il reato si sia verificato nell’ambito di una struttura complessa (quale ad es. un’équipe chirurgica). Se, infatti, tali criteri di imputazione ben si attagliavano a società semplici, in cui la realizzazione del fatto era per lo più monosoggettiva, essi, al contrario, mal si conciliano con la realizzazione plurisoggettiva del fatto di 12 CAPITOLO SECONDO reato in cui, non di rado, l’evento delittuoso è il frutto di un coacervo di condotte, rispetto alle quali, talvolta, non è neppure agevole individuare un nesso eziologico singolo1. D’altro canto l’esigenza di bilanciare gli interessi che entrano in gioco nell’esercizio dell’attività medica – da un lato, il diritto del paziente ad essere curato e rispettato nella integrità della propria persona e, dall’altro, quello del medico di effettuare scelte terapeutiche libere ed autonome2 – ha spesso indotto i giudici, in ragione della particolare rilevanza di tale bene, a propendere per la salute del paziente. Si assiste, così, al proliferare di processi per responsabilità medica in cui il fatto di reato viene imputato, indistintamente, ai componenti della struttura complessa ritenuti tutti egualmente portatori di una posizione di garanzia nei confronti del paziente e di un dovere di controllo sull’operato dei colleghi. Al verificarsi di un evento dannoso per la salute del paziente si apre per il medico lo scenario di una più che probabile responsabilità per omicidio o lesioni colposi. Responsabilità che, tuttavia, non è riconosciuta solo nei confronti del sanitario che materialmente ha realizzato la condotta, attiva od omissiva, eziologicamente produttiva dell’evento, ma anche di quelli che con lo stesso hanno avuto occasione di cooperare (sincronicamente o diacronicamente) nella cura di quel paziente ovvero dei dirigenti della struttura sanitaria pubblica o privata in cui ha avuto luogo l’intervento. A carico di questi ultimi, in particolare, nella maggior parte dei casi, viene configurata, attraverso il ricorso alla clausola di equivalenza dell’art. 40, comma 2, c.p., un responsabilità di tipo omissivo per non essere intervenuti ad emendare o per non aver riconosciuto l’errore del collega concorrendo, quindi, a cagionare l’evento. Un’attribuzione di responsabilità che, come si vedrà, non di rado, fuoriesce, però, dal canone costituzionale del “fatto proprio e colpevole”, finendo il medico per rispondere di fatti che difficilmente avrebbe potuto impedire (ad es. perché privo dei necessari poteri impeditivi), o di un controllo omesso che, nondimeno, non avrebbe avuto le competenze per esercitare (ad es. perché giovane medico in formazione). Pur consapevoli che il definitivo superamento delle, neppure tanto mascherate, forme di responsabilità per fatto altrui e di gruppo, potrebbe essere raggiunto, come già in precedenza evidenziato, con una regolamentazione ad hoc della materia, si ritiene, nondimeno, che, già sul piano 1 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 39. 2 Anche il codice deontologico dei medici, entrato in vigore il 16 dicembre 2006, all’art. 3, impone al medico il generale dovere di tutela della vita e del sollievo dalla sofferenza del paziente e, all’art. 4, riconosce che l’esercizio dell’attività medica è fondato sulla libertà e l’indipendenza della professione. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 13 ermeneutico, la corretta reinterpretazione dei canoni ascrittivi – alla luce delle peculiarità dell’operare in strutture complesse (nelle quali il singolo non ha una compiuta libertà di autodeterminazione essendo influenzato dalle scelte del gruppo, e nelle quali i partecipanti, generalmente, governano solo talune e non tutte le aree di rischio) – potrebbe condurre ad una maggiore individualizzazione della responsabilità in ossequio al canone dell’art. 27 Cost. 2. Imputazione oggettiva del fatto: il riparto delle competenze La delimitazione della responsabilità deve avvenire, innanzitutto, sul piano oggettivo, in quanto il fatto di reato, ancor prima che colpevole, deve essere “proprio”. Se, tuttavia, l’attribuzione del fatto al soggetto non presenta particolari insidie nel caso di responsabilità monosoggettiva essa, al contrario, può rivelarsi particolarmente complessa ove concerna strutture plurisoggettive nell’ambito delle quali non è sufficiente la verifica della partecipazione all’attività ed il nesso causale tra la condotta e l’evento3. Nel caso di strutture complesse è imprescindibile l’individuazione delle sfere di competenza proprie di ciascun soggetto partecipante all’attività. La tematica, invero, non trova particolare approfondimento nella giurisprudenza di legittimità la quale si è sempre trincerata dietro la, as3 Il problema dell’individuazione dei soggetti penalmente responsabili è stato fino ad ora affrontato dalla dottrina con particolare attenzione per l’attività d’impresa, ma incomincia oggi a destare vivo interesse anche nell’ambito dell’attività medica plurisoggettiva. Con riferimento agli studi in materia di diritto penale dell’impresa, cfr. A. ALESSANDRI, voce Impresa (responsabilità penale), in Dig. disc. pen., Torino, 1992, VI, p. 193; P. ALDROVANDI, Orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di delega di compiti penalmente rilevanti, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 699; C. PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale d’impresa, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 125. Interessanti spunti di riflessione sono proposti sul generale problema dell’individuazione dei soggetti responsabili nel caso di realizzazione plurisoggettiva della fattispecie di reato (con particolare riferimento alla cooperazione colposa) da L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 9 e 41 ss., secondo il quale, in ossequio al principio della responsabilità penale personale, preliminare, rispetto alla tipicità della condotta di partecipazione, è proprio l’individuazione dei soggetti responsabili, da intendersi quali soggetti che siano stati preventivamente individuati dall’ordinamento quali soggetti “competenti”, ossia dotati di doveri giuridici attinenti allo status che viene loro riconosciuto. La sfera di competenza, quindi, costituisce il limite al di là del quale non è ammesso un addebito di responsabilità penale, verificandosi, in caso contrario, la violazione del principio costituzionale sancito dall’art. 27. Nello stesso senso, cfr. L. CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti: spunti problematici (Parte I): in Indice pen., 2001, p. 684; nonché R. BLAIOTTA, La causalità, cit., p. 93 ss. Sulla posizione di garanzia del medico v. E. SBORRA, La posizione di garanzia del medico, in Medicina e diritto penale, Pisa, 2009, p. 115 ss. 14 CAPITOLO SECONDO sai semplicistica, soluzione dell’individuazione di una posizione di garanzia nei confronti del paziente in capo a tutti i sanitari che abbiano partecipato all’attività diagnostica o terapeutica. Così in una delle pronunce più note della Corte di Cassazione, nella quale si afferma che “gli operatori, medici e paramedici, di una struttura sanitaria sono tutti ex lege portatori di una posizione di garanzia – espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex artt. 2 e 32 Cost. – nei confronti dei pazienti affidati, a diversi livelli, alle loro cure o attenzioni, e, in particolare, sono portatori della posizione di garanzia che va sotto il nome di posizione di protezione, la quale, come è noto, è contrassegnata dal dovere giuridico incombente al soggetto di provvedere alla tutela di un certo bene giuridico contro qualsivoglia pericolo atto a minacciarne l’integrità”4. La nozione di posizione di garanzia elaborata dalla Corte nella citata sentenza non appare convincente sotto diversi profili. A tal riguardo, anzitutto, appare necessaria una premessa terminologica e metodologica. Occorre prendere atto, infatti, che ormai, nell’ambito degli illeciti colposi d’evento, con il termine “garante” dottrina e giurisprudenza sono solite individuare in generale la sfera di responsabilità di un soggetto e, quindi, ad utilizzare detto termine in senso diverso e più ampio rispetto a quello fatto proprio dall’art. 40, comma 2, c.p.5. Frutto, probabilmente, della ricorrente confusione concettuale tra il c.d. momento omissivo della colpa e la causalità omissiva, l’uso “improprio” del termine garante ha finito 4 Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano, in Cass. pen., 2002, p. 574, con riferimento ad una fattispecie di omicidio colposo ai danni di un paziente giunto in pronto soccorso a seguito di infortunio e condotto nella sala chirurgica ove il medico Troiano era impegnato a prestare assistenza ad un’altra paziente ed aveva, pertanto, richiesto agli infermieri presenti in reparto di contattare il medico internista. V. inoltre Cass. pen., sez. IV, 11 gennaio 1999, n. 7151, Traballi, in Cass. pen., 2001, p. 125; nonché Cass. pen., sez. IV, 25 febbraio 2000, n. 2325, Altieri ed altri, in Dir. pen. proc., 2001, p. 469. Contra Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 7967, F. e altro, in Riv. it. med. leg., 2013, p. 958; Cass. pen., sez. IV, 7 aprile 2004, Ardovino e altri, n. 25310 in CED rv. 225984, secondo cui “nell’attività medico-chirurgica, la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, ad entrambe le categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione: la c.d. posizione di protezione (che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l’integrità) e la c.d. posizione di controllo (che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto)”. In dottrina si veda C. PARODI, V. NIZZA, La responsabilità, cit., p. 211 ss.; R. FRESA, La responsabilità penale in ambito sanitario, in I reati contro la persona, diretto da A. CADOPPI, S. CANESTRARI, M. PAPA, Torino, 2006, p. 766. 5 In tal senso, anche se con riferimento alla materia degli infortuni sul lavoro v. R. BLAIOTTA, L’imputazione oggettiva nei reati di evento alla luce del testo unico sulla sicurezza del lavoro, in Cass. pen., 2009, p. 2264. In giurisprudenza Cass. pen., sez. IV, 23 novembre 2012, n. 49821, in CED rv. 254094. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 15 per entrare nel lessico comune identificando, quindi, anche ipotesi in cui vengono in gioco condotte commissive, riconducibili alla causalità attiva. L’esigenza di superare la confusione terminologica, ma anche di trovare un criterio generale per la delimitazione delle sfere di responsabilità, ha portato, di recente, ad una rilettura della definizione di garante fondata sul concetto di “rischio”. Si evidenzia, infatti, che in ciascuna attività esistono plurime aree di rischio la cui gestione fa capo a distinti soggetti, preventivamente individuati, i quali saranno responsabili per eventuali fatti verificatisi a causa del mancato governo dello stesso6. Soltanto l’individuazione del soggetto che deve rispondere dell’illecito (e che è, quindi, “garante” o con terminologia più generica “competente”), è possibile dirsi pienamente rispettato il principio costituzionale di personalità7. Attraverso un rimando alle teorie dell’imputazione oggettiva8 si cerca, quindi, di individuare un rapporto di rischio tra condotta e risultato: è rilevante unicamente quel risultato che, non solo è la conseguenza della condotta del soggetto, ma che concretizza anche quel rischio che il soggetto aveva la competenza (e, quindi, il dovere giuridico) di impedire9. Rimane, in tal modo, esclusa qualsivoglia responsabilità per rischi che fuoriescano dal limite segnato dalla propria sfera di competenza, anche se, sotto il profilo strettamente causale, l’evento risulti, a posteriori, cagionato dal soggetto. L’idea di delimitare, nelle strutture complesse, l’ambito della responsabilità attraverso il richiamo alle competenze del singolo (e, quindi, ai suoi doveri) appare assolutamente condivisibile. Ciò che, tuttavia, lascia perplessi è la proposta di ancorare tale delimitazione al tipo di “rischio” che, invero, ove non preventivamente individuato, potrebbe rivelarsi concetto del tutto indeterminato e rimesso, quindi, alla discrezionale valutazione giudiziale. La compiuta valorizzazione delle sfere di competenza o, per tornare alla tradizionale terminologia del formato giurisprudenziale, della posizione di garanzia, presuppone, necessariamente una previsione normativa dei doveri del singolo partecipante all’attività plurisoggettiva. 6 Cass. pen., IV, 28 maggio 2013, n. 37738; Cass. pen., IV, 23 novembre 2012, n. 49821, CED rv. 254094. Nella dottrina, V. PEZZELLA, Carichi esigibili e produttività, ma anche qualità del decidere e rispetto del codice, in Cass. pen., 2009, p. 2263 ss. 7 M. DONINI, Imputazione oggettiva dell’evento (diritto penale), in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, p. 638; L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 310 ss.; ID., Competenze ripartite: il contributo dei criteri normativi all’individuazione dei soggetti penalmente responsabili, in Ind. pen., 2013, p. 249 ss. 8 M. DONINI, Imputazione oggettiva, cit., p. 638. 9 L. CORNACCHIA, Competenze ripartite, cit., p. 253 ss. 16 CAPITOLO SECONDO 2.1. La posizione di garanzia del sanitario: posizione di protezione o di impedimento di altrui reati? Orbene – seppure come evidenziato – possano darsi casi di responsabilità professionale da collaborazione tra più sanitari conseguenti a condotte attive (es. errata esecuzione di un esame diagnostico da parte del tecnico radiologo e conseguente errata diagnosi del medico che ha fondato la propria decisione sul falso risultato), nondimeno, in numerosi casi i membri di strutture complesse vengono chiamati a rispondere per aver omesso di emendare l’errore del collega. Si tratta dell’ipotesi di responsabilità forse più peculiare tra quelle che possono coinvolgere i membri di una struttura complessa, in quanto al medico (anche alle prime armi) si rimprovera, non tanto di aver errato (ad es, recidendo un’arteria nel corso di un intervento o avendo omesso una diagnosi), quanto, piuttosto, di non essersi attivato per porre rimedio all’errore di un proprio collega (magari, anche superiore gerarchico). Un obbligo di impedimento che, nelle ricostruzioni giurisprudenziali, raggiunge, come accennato in precedenza, ampiezza tale da imporre, in definitiva, al sanitario l’alternativa tra esercitare un controllo generale e costante sull’operato dei colleghi o rispondere di eventuali eventi avversi pur non diretta conseguenza di proprie condotte erronee. Un’ampiezza che, peraltro, al di là delle formule lessicali utilizzate, sembra far sfociare la posizione di protezione in una più stringente (e preoccupante) posizione di impedimento di altrui reati. Una categoria di obbligo giuridico, quest’ultima, fatta discendere dalla lettura in combinato disposto degli artt. 40, comma 2 e 110 c.p. (o 113 c.p. per la responsabilità colposa), sulla cui autonoma configurabilità, invero, vi sono, a tutt’oggi, opinioni discordanti in dottrina. Per quegli autori che ne ammettono l’autonomia concettuale, si tratterebbe di un obbligo di garanzia che presuppone l’individuazione di un soggetto garante dotato del potere-dovere di vigilare sull’operato di terzi e, al contempo, del potere-dovere, di impedire il compimento di azioni penalmente illecite da parte di tali soggetti10. Obbligo che non sarebbe ricon- 10 Per la ripartizione dell’obbligo di garanzia in obbligo di protezione, di controllo e di impedimento di altrui reati v. F. MANTOVANI, L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità personale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 352, il quale definisce l’obbligo di garanzia come “quell’obbligo giuridico che grava su specifiche categorie predeterminate di soggetti previamente forniti di adeguati poteri giuridici di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla loro tutela per l’incapacità dei titolari di proteggerli adeguatamente”, differenziandolo dall’obbligo di sorveglianza, a sua volta definito come “obbligo giuridico gravante su specifiche categorie di soggetti, privi di IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 17 ducibile alle tradizionali categorie degli obblighi di protezione e di controllo potendo assumere caratteristiche funzionali riconducibili ad entrambi11. Nei primi, infatti, la fonte sostanziale del dovere di agire sta nel particolare legame esistente tra il garante ed il titolare del bene tutelato, tanto che l’ordinamento affianca le capacità di difesa del garante a quelle, ritenute insufficienti, del titolare, senza però conferire al primo poteri di impedimento diversi da quelli che ben potrebbe avere il quisque de populo del tutto estraneo alla posizione di garanzia. Nelle posizioni di controllo, viceversa, la tutela rafforzata del bene scaturisce proprio dalla posizione di signoria che un determinato soggetto ha nei confronti di una fonte di pericolo, in quanto fornito di peculiari poteri di intervento rispetto ad essa. Nel caso di obblighi di impedimento dell’altrui reato, invece, la ratio di tutela varia, potendo discendere dall’esigenza sia di contenere la particolare pericolosità di determinati soggetti sia di far fronte alla vulnerabilità di determinati beni. D’altro canto, ciò che caratterizza tale peculiare posizione di garanzia, differenziandola dalle altre, è la capacità del soggetto garante di interferire con la condotta del terzo, essendo dotato di poteri giuridici di impedimento e comando nei confronti del reo12. Sennonché, anche a voler accedere alle teorie che riconoscono l’autonomia di questo obbligo giuridico, non si ritiene, tuttavia, che ad esso sia riconducibile la posizione dei sanitari coinvolti in attività plurisoggettive. Se così fosse, infatti, si imporrebbe al medico di effettuare un controllo onnisciente sull’operato dei colleghi, quasi che questi ultimi fossero una vera e propria fonte di rischio quali soggetti pericolosi da contenere. poteri giuridici impeditivi, di vigilare su altrui attività per conoscere dell’eventuale commissione di fatti offensivi e di informare il titolare o il garante del bene”, ed infine dall’obbligo di attivarsi “che comprende, per esclusione, ogni obbligo giuridico di agire per la tutela di certi beni imposto a soggetti, privi di poteri giuridici impeditivi e di sorveglianza, dalla norma incriminatrice al verificarsi del presupposto di fatto, dalla stessa indicato”. Ne consegue, quindi, che solo l’obbligo di garanzia, in quanto connotato dal dovere-potere impeditivo dell’evento, legittima l’equiparazione, attraverso la clausola di equivalenza sancita dall’art. 40, comma 2, c.p., del non impedire al cagionare. I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., 1999, p. 122. Per una interessante ricostruzione delle problematiche connesse all’obbligo di impedimento dell’altrui reato v. L. BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e giurisprudenza italiane, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1349. Sono, invece, critici rispetto all’autonoma configurabilità dell’obbligo di impedire altrui reati G. FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, p. 181 ss.; L. RISICATO, La partecipazione mediante omissione a reato commissivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 1267 ss. 11 L. BISORI, L’omesso impedimento, cit., p. 1365. 12 L. BISORI, L’omesso impedimento, cit., p. 1365 ss. 18 CAPITOLO SECONDO Nonostante in dottrina non siano mancate voci isolate13, che hanno ritenuto di ricondurre a questa peculiare tipologia di obbligo giuridico la posizione del medico dirigente di struttura complessa, si ritiene che tale ricostruzione non sia assolutamente suffragata dal dettato normativo. Si concorda, in tal senso, con gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, sostanzialmente uniformi, che individuano in capo al primario una posizione di protezione volta alla tutela del bene della vita e della salute dei pazienti14. La fonte di tale obbligo di garanzia è da ricercarsi nell’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1969, che individua tra i doveri del primario quelli di direzione ed organizzazione del reparto, di indirizzo e verifica delle prestazioni di diagnosi e cura, di disposizione di direttive ed istruzioni15. La predetta posizione non si ritiene abbia subito particolari mutamenti in seguito alla riforma operata con il d.lgs. n. 502 del 1992, il quale, attraverso il riordino della dirigenza sanitaria (v. supra Cap. I § 2), ha determinato certamente un’attenuazione dei rapporti gerarchici, attribuendo maggiori sfere di autonomia ai medici in posizione subalterna, ma ha, nondimeno, lasciato sostanzialmente invariati i poteri-doveri del sanitario in posizione apicale16. 13 In tal senso A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero ed omissione colposa di trattamento terapeutico, in Dir. pen. proc., 2000, p. 1637; M.L. FERRANTE, Gli obblighi di impedire l’evento nelle strutture sanitarie complesse, Napoli, 2005, p. 144 e 179 ss. 14 Alla posizione del primario viene equiparata quella del capo-équipe. 15 Sulla posizione di garanzia assunta dal primario, v. F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 9 ss.; P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 197; R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 767. In giurisprudenza Cass. pen., sez. IV, 1 febbraio 2000, n. 1126, Gulisano e altri, in Riv. pen., 2001, p. 670 in cui si afferma “il primario ospedaliero è titolare di una specifica posizione di garanzia nei confronti dei suoi pazienti alla quale non può sottrarsi adducendo che ai reparti sono assegnati altri medici o che il suo intervento è dovuto solo in casi di particolare difficoltà o di complicazioni; ciò risulta chiaramente dall’art. 7, comma 3, del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 che gli attribuisce la «responsabilità dei malati» e dall’art. 63, comma 5, del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 secondo il quale il medico appartenente alla posizione apicale ha il potere di impartire istruzioni e direttive in ordine alla diagnosi e alla cura e di verificarne l’attuazione”; nonché Cass. pen., sez. IV, 9 novembre 2000, n. 3468, Ripoli e altri, in Guida al dir., 21 aprile 2001, p. 90. 16 In tal senso Cass. pen., sez IV, 29 settembre 2005, n. 47145, Sciortino ed altri, cit., con nota di G. IADECOLA, La responsabilità medica, cit., il quale osserva che “non parrebbe, insomma, che le nuove norme possano in particolare autorizzare l’assunto secondo cui condotte inadeguate e lesive, poste in essere all’interno della struttura siano, allo stato, diventate riferibili all’esclusiva responsabilità di chi materialmente le abbia realizzate …”; in dottrina v. altresì F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsbailità., cit., p. 7, ove si rileva come il d.lgs. n. 502 del 1992 (e succ. mod.) recante il riordino della disciplina in materia sanitaria, abbia abrogato il d.P.R. n. 128 del 1969, lasciando in vigore il d.P.R. n. 761 del 1979; in ogni caso, anche a seguito della formale abrogazione del d.P.R. n. 128 del 1969 (il quale pure definiva i compiti del personale ospedaliero), nulla è cambiato dal punta di vista sostanziale, essendo la normativa del 1969 e quella del 1979 perfettamente fungibili. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 19 Ne consegue, quindi, che il dirigente, sulla scorta dei doveri di organizzazione, programmazione e direzione che gli sono riconosciuti, potrà essere ritenuto penalmente responsabile per esiti infausti di eventuali interventi terapeutici o diagnostici eseguiti da medici appartenenti alla struttura, laddove non abbia predisposto i piani di lavoro o non ne abbia verificato la concreta attuazione, nonché ove abbia omesso di impartire istruzioni o direttive. In tali casi, ove l’omissione delle azioni doverose da parte dell’apicale dovesse risultare causale rispetto al verificarsi dell’evento morte o lesioni, potrà configurarsi a suo carico (salvo ovviamente l’ulteriore accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo) una corresponsabilità ed una conseguente imputazione, ex art. 40, comma 2, c.p. per omicidio o lesioni colpose17. Sennonché, nonostante il medico in posizione apicale sia dotato di poteri atti ad incidere sulle condotte di terzi (ad esempio il potere di avocazione previsto dall’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979), si ritiene che detti poteri di controllo siano connessi ad un obbligo di impedire l’evento lesivo della salute del paziente e non, più in generale, la commissione di reati da parte dei propri colleghi. La dottrina che ha approfondito il generale problema dell’obbligo di impedimento di altrui reati, anche ai fini di meglio differenziarlo dagli altri obblighi di garanzia, ha, infatti, precisato che, quando si guarda alla concreta funzione di impedire gli altrui fatti delittuosi, la finalità di garanzia conferisce un diverso contenuto all’obbligo di impedimento. In tal caso, è la condotta del terzo che diventa l’oggetto di un interesse di tutela che l’ordinamento esprime con il conferimento al garante di specifici poteri di interferenza-impedimento. Come osservato, infatti, “il mancato impedimento del reato assorbe ogni elemento di disvalore della condotta del reo, abbraccia ogni caratteristica oggettiva del reato non impedito, a patto che anche la condotta dell’agente formi oggetto diretto ed immediato dell’obbligo di garanzia. Ove l’obbligo sia rivolto, invece, alla sola salvaguardia diretta del bene, la conversione della condotta tipica riguarderà la sola forza causale della condotta del terzo aggressore, e pertanto l’omissione assorbirà il disvalore della sola causazione dell’evento, e non anche quello dei connotati della condotta, dello stampo esteriore del reato come compiutamente disegnato dal legislatore”18. Ulteriore conseguenza di tali differenze è che, mentre il titolare di posizione di protezione ben può attivarsi successiva17 Osserva P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 198 che “l’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 non individua solo una posizione di garanzia ma anche una regola cautelare che suona nei termini seguenti «il primario deve sempre impartire al personale delegato le direttive ed istruzioni corrette, e comunque deve verificare l’esatta attuazione delle medesime»”. 18 L. BISORI, L’omesso impedimento, cit., p. 1369. 20 CAPITOLO SECONDO mente alla condotta altrui, intervenendo in qualsiasi momento anteriore al prodursi dell’evento, al contrario, nel caso di obbligato all’impedimento di reati altrui, l’istanza di protezione arretra al momento in cui sorga il pericolo che la condotta venga attivata. Tornando, quindi, alla posizione del medico apicale, dal dato normativo sembra potersi desumere che egli assuma una posizione di vera e propria tutela della salute del paziente per il fatto di aver preso in carico lo stesso, tanto che il sanitario può, indubbiamente, intervenire in qualsiasi momento in cui si avveda dell’errore del sottoposto, attivandosi per impedire l’evento lesivo a carico del paziente. D’altro canto il ritenere che la posizione di garanzia del dirigente di struttura complessa abbia come specifico oggetto il controllo dell’attività altrui comporterebbe il rischio di una vanificazione della stessa divisione del lavoro e, soprattutto, finirebbe per risolversi in una mera responsabilità di posizione, non essendo per detto medico concretamente possibile la realizzazione di un controllo tanto stringente, vista la contemporanea titolarità di compiti operativi. Alla medesima soluzione non può che pervenirsi con riguardo alla posizione dei medici in posizione subalterna. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nell’individuare anche in capo a questi sanitari un obbligo giuridico di impedire eventi dannosi per la salute del paziente. La previsione del potere-dovere del medico in posizione apicale di delegare l’organizzazione di una struttura semplice al medico in posizione intermedia (c.d. aiuto), ovvero la cura del paziente anche al medico in posizione iniziale (c.d. assistente), previsto dall’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979, e ribadito dal d.lgs. n. 502 del 1992 (v. supra Cap. I § 2), determina la costituzione di un obbligo di garanzia in capo a quest’ultimo che è direttamente investito della tutela del paziente. La subordinazione non comporta un obbligo di obbedienza cieca, ed anzi il medico in posizione subalterna ha il preciso obbligo giuridico di manifestare il proprio dissenso in ordine a scelte terapeutiche errate effettuate dal superiore19. La disciplina normativa, infatti prevede che il ruolo dell’assistente, ed ancor più dell’aiuto, non sia quello di un medico “mero esecutore” delle direttive del prima19 La responsabilità omissiva è configurabile a carico del medico in posizione subalterna, in caso di mancata manifestazione del dissenso, solo nell’ipotesi in cui il primario abbia esercitato il potere di avocazione, obbligando conseguentemente l’assistente o l’aiuto ad eseguire le proprie direttive. Al contrario, nel caso in cui il primario non abbia esercitato tale potere e il medico in posizione subalterna abbia eseguito l’intervento diagnostico o terapeutico erroneo, senza manifestare il proprio dissenso, sarà configurabile una responsabilità di tipo commissivo. Per un approfondimento delle problematiche connesse al potere di avocazione e al dissenso del medico in posizione subalterna v. infra cap. IV § 6. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 21 rio, in quanto gli stessi sono dotati altresì di poteri di controllo e sorveglianza in relazione alle situazioni concrete in cui si trovino a cooperare con il primario stesso. L’esito di una tal ricostruzione è di palmare evidenza: attraverso la clausola di equivalenza dell’art. 40, comma 2, c.p., anche il medico che non abbia manifestato il proprio dissenso è responsabile dell’eventuale esito negativo del trattamento terapeutico20. Non sembrano esservi dubbi, nondimeno, circa l’impossibilità di ricondurre tale posizione di garanzia al genus delle posizioni di impedimento dell’altrui reato. Se, infatti, presupposto fondamentale per la riconoscibilità di detto obbligo è che il garante sia dotato di poteri di inter20 In giurisprudenza Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2000, n. 556, Zanda, in CED rv. 215443, nella quale i giudici del Collegio, nel pronunciarsi circa la delimitazione della responsabilità dell’assistente, affermano che “il problema si presenta di meno agevole soluzione nel caso in cui l’assistente o (l’aiuto) non condivida le scelte terapeutiche del primario che non eserciti il suo potere di avocazione. In questo caso il medico in posizione inferiore che ritenga che il trattamento terapeutico disposto dal superiore comporti un rischio per il paziente è tenuto a segnalare quanto rientra nelle sue conoscenze, esprimendo il proprio dissenso con le scelte dei medici in posizione superiore; diversamente egli potrà essere ritenuto responsabile dell’esito negativo del trattamento terapeutico non avendo compiuto quanto in suo potere per impedire l’evento”. In questa sentenza, tuttavia la Corte, che correttamente riconosce in linea generale una posizione di garanzia in capo all’assistente, erra nel ritenere configurabile nel caso specifico una responsabilità omissiva. Come, infatti, rilevato nella nota precedente, e come più diffusamente si osserverà nel prosieguo della presente trattazione, in caso di mancata avocazione da parte del primario, l’assistente che esegua gli ordini impartitigli, seppure erronei, realizza una condotta attiva e la mancata manifestazione del dissenso potrà eventualmente avere rilievo sotto il profilo della colpa. Muovono tale critica alla sentenza in commento V. FINESCHI, P. FRATI, C. POMARA, I principi dell’autonomia vincolata, dell’autonomia limitata e dell’affidamento nella definizione della responsabilità medica. Il ruolo del capo equipe e dell’assistente (anche in formazione) alla luce della recente giurisprudenza, in Riv. it. med. leg., 2001, 2, p. 261. Inoltre in generale sulla posizione di garanzia del medico in posizione subalterna v. G. AMATO, Solo l’esplicita manifestazione del dissenso esclude la colpa dell’aiuto medico, in Guida al dir., 12 febbraio 2000, p. 100; C. MACRÌ, Responsabilità medica dell’assistente nell’ambito dell’autonomia vincolata alle direttive ricevute dal primario, in Resp. civ. e prev., 2000, p. 621; S. BRAVI, Responsabilità penale e attività medica in équipe, in Riv. pen., 2005, p. 796. Per una posizione critica sulla effettiva possibilità di dissenso da parte del medico in posizione subalterna, v. A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1630, il quale, con particolare riferimento all’assistente, rileva che “tale ruolo sia attribuito, almeno in via di principio, a professionisti relativamente più giovani per età ed esperienza, muniti di preparazione per lo più teorica e comunque di un background pratico limitato: il medico in posizione iniziale è un medico affidato al primario e agli aiuti perché essi provvedano a fargli conseguire l’esperienza pratica necessaria ad assumere in futuro, ruoli di maggiore autonomia e responsabilità. In tale contesto il preteso rapporto dialettico tra primario e assistente assume evidentemente i contorni di un’astrazione, di una fictio iuris (in malam partem, quando se ne vogliano ricavare conseguenze sul piano delle responsabilità penali) dimentica, nella sua assolutezza, del fatto che l’esercizio delle professioni sanitarie abbisogna di una preparazione culturale in egual misura teorica e pratica”. 22 CAPITOLO SECONDO ferenza nella condotta del terzo, tali da consentirgli di impedire la commissione del reato, simili poteri non paiono rinvenibili in capo a soggetti in posizione subalterna. Nei loro confronti, quindi, l’obbligo di garanzia può essere qualificato quale obbligo di protezione, assumendo gli stessi una tutela diretta del bene salute e costituendo, quindi, il dissenso che devono manifestare nei confronti delle erronee scelte del superiore l’esercizio di un potere finalizzato alla tutela della vita del paziente21. 2.2. I limiti della concezione formale dell’obbligo di garanzia Dato, quindi, per assodato che l’obbligo di garanzia dei sanitari sia da ricondurre alle tipiche posizioni di protezione, non si ritiene, però, di poter accettare la ricostruzione giurisprudenziale che, nella maggior parte dei casi, come visto, fonda siffatto obbligo su meri presupposti formali, finendo, così, per caducare la fondamentale funzione di delimitazione dello stesso. I positivi effetti, in termini di determinatezza e di prevedibilità della responsabilità, derivanti dalla formalizzazione dell’obbligo finiscono, infatti, per dissolversi di fronte al rischio di responsabilità di posizione, palesemente in contrasto con i principi dell’art. 27 Cost. D’altro canto, l’ancoraggio della posizione di garanzia del medico alle disposizioni costituzionali degli artt. 2 e 32 finisce per rivelarsi solo apparentemente rispettoso del principio di legalità, a causa dell’assoluta genericità di tali fonti normative e, soprattutto, non è in grado di fungere da parametro di selezione delle condotte tipiche, non contenendo alcuna indicazione relativa ai ruoli e alle mansioni dei partecipanti all’attività plurisoggettiva. In sostanza, quindi, il richiamo delle due norme costituzionali determina il rischio (invero sovente concretizzatosi) di forme di responsabilità diffusa riconosciuta in capo a tutti coloro che, a qualsiasi titolo e con qualsiasi competenza, abbiano preso parte all’atto medico. La funzione di delimitazione della responsabilità, attraverso la valorizzazione delle competenze, può, invece, essere svolta (a legislazione invariata) dalle fonti normative che regolamentano l’attività medica (d.P.R. n. 761 del 1979, d.lgs. 502 del 1992 e d.lgs. 229 del 1999) le quali individuano, appunto, i ruoli del personale sanitario e gli ambiti di competenza di ciascun garante. 21 Esclude la configurabilità di un obbligo di impedimento di reati altrui in capo al medico in posizione subalterna M. RIVERDITI, Responsabilità dell’assistente medico per gli errori terapeutici del primario: la mancata manifestazione del dissenso dà (sempre) luogo a un’ipotesi di responsabilità per «mancato impedimento dell’evento», in Cass. pen., 2001, p. 163. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 23 Ulteriori indicazioni utili alla comprensione dell’articolazione della distribuzione delle sfere di responsabilità nelle istituzioni complesse si ritiene possano provenire da protocolli e check lists, atti privati di cui la classe medica è via via venuta a dotarsi (insieme alle linee guida) e che hanno lo scopo principale di procedimentalizzare l’attività attraverso la positivizzazione di regole cautelari (v. amplius infra § 8.1). Se quest’ultimo è, indubbiamente, il contenuto tipico di detti atti – tanto da aver da sempre indotto dottrina e giurisprudenza ad affrontarne le problematiche nell’ambito della responsabilità colposa – nondimeno essi contribuiscono anche ad enucleare le sfere di responsabilità, individuando, non solo la sequenza comportamentale che il sanitario deve applicare, ma anche il soggetto che di volta in volta è responsabile della sequenza. Emerge, in tal modo, lo stretto legame intercorrente tra posizione di garanzia e rischio: l’esigenza di contrastare un determinato rischio porta all’individuazione dei doveri che incombono su un soggetto e le modalità con cui gli stessi devono essere adempiuti (ovverosia le regole cautelari). Le potenzialità deflattive connesse alla valorizzazione delle sfere di competenza e all’utilizzo delle norme di regolamentazione dell’attività medica per il perseguimento di detto obiettivo, stentano, invero, a trovare compiuto e costante riconoscimento nella giurisprudenza, soprattutto di merito. A tutt’oggi, si continua così ad assistere all’instaurazione di procedimenti che, almeno nelle fasi iniziali, vedono imputati tutti i partecipanti all’atto diagnostico o terapeutico che abbia avuto un esito infausto. Procedimenti nei quali l’eventuale successiva esclusione della responsabilità per taluni dei sanitari avviene non tanto sul piano oggettivo, quanto piuttosto su quello soggettivo dell’assenza di violazione di regole cautelari. Tutto ciò, evidentemente, con importanti ripercussioni di natura processuale relative, in special modo, agli obblighi risarcitori. È noto, infatti, che, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., mentre l’esclusione della tipicità comporta la pronuncia di sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste”, la mancanza di elemento psicologico, diversamente, determina l’assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Soltanto alla prima formula assolutoria, tuttavia, è riconosciuta, secondo il dettato dell’art. 652 c.p.p., efficacia di giudicato nell’eventuale giudizio civile instaurato per il risarcimento del danno. Nonostante la netta preferenza della giurisprudenza per la concezione formale dell’obbligo di garanzia, non mancano pronunce che fanno proprio un approccio di tipo sostanziale, affermando che la posizione di garanzia sorge con l’instaurazione della relazione terapeutica con il paziente e, pertanto, prescinde dalla sussistenza di rapporti giuridici con la 24 CAPITOLO SECONDO struttura, potendo discendere anche dall’assunzione volontaria dell’obbligo da parte del sanitario22. Si ritiene, tuttavia, che la funzione di delimitazione delle sfere di competenza possa essere efficacemente svolta se ed in quanto i parametri di tipo formale siano integrati da requisiti di tipo sostanziale-funzionale. La dottrina più recente, infatti, grazie alla progressiva integrazione tra teoria formale e sostanzialistico-funzionale, ridefinisce la posizione di garanzia come la situazione fattuale, derivante da fonti formali, in cui un soggetto predeterminato (c.d. garante) è gravato dall’obbligo di impedire un evento offensivo di beni altrui ed è dotato dei necessari poteri giuridici atti ad adempiere a tale obbligo23. In ossequio ai principi di riserva di legge, tassatività, solidarietà e responsabilità personale, quindi, si afferma che: 1) l’obbligo di garanzia deve essere previsto da una fonte giuridica e deve trovare in essa sufficiente determinazione; 2) devono essere specificamente individuati i soggetti beneficiari dell’altrui obbligo di garanzia, in quanto la tutela rafforzata solidaristica deve essere circoscritta ai soli soggetti incapaci di adeguata autotutela; 3) devono altresì essere chiaramente individuati i soggetti destinatari dell’obbligo di garanzia, in quanto quest’ultimo non può gravare sulla generalità dei consociati, ma solo su specifiche categorie predeterminate di soggetti; 4) infine, in base al principio della responsabilità penale personale, ne sono ulteriori requisiti l’imprescindibile esistenza di poteri giuridici impeditivi, nonché la possibilità materiale del garante di compiere l’azione impeditiva idonea24. Necessaria, quindi, alla corretta instaurazione dell’obbligo di garanzia è l’esistenza in capo al soggetto di poteri impeditivi dell’evento, che necessariamente presuppongono l’avvenuta presa in carico del 22 Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 7967, F. e altro, cit.; Cass. pen., sez. IV, 12 ottobre 2000, n. 12781, Avallone, in Riv. pen., 2001, p. 599 in cui la Corte di Cassazione, pronunciandosi sul caso di un medico che aveva effettuato un intervento chirurgico su una paziente pur non avendo alcun rapporto con la clinica ove la donna era stata operata, ha affermato che “l’individuazione della titolarità di una posizione di garanzia da parte di un medico nei confronti di un paziente non è subordinata alla presenza di rapporti giuridici con la struttura sanitaria ma all’effettivo esercizio dell’attività svolta, anche per atto di volontaria determinazione, e che comporti conseguentemente l’assunzione degli obblighi connessi a quella posizione direttamente scaturenti dalle funzioni di fatto esercitate”. Si veda inoltre Cass. pen., sez. IV, 28 ottobre 2004, n. 46586, Ardizzone e altro, in Cass. pen., 2006, p. 41471, ove si afferma che l’accertamento dell’obbligo di garanzia in ambito sanitario non presenta particolari problemi, in quanto “è sufficiente che si sia instaurato un rapporto sul piano terapeutico tra paziente e medico per attribuire a quest’ultimo la posizione di garanzia ai fini della causalità omissiva, e comunque quella funzione di garante della vita e della salute del paziente che lo rende responsabile delle condotte colpose che abbiano cagionato una lesione di questi beni”. 23 I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 70 ss. 24 I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 78; F. MANTOVANI, L’obbligo di garanzia, cit., 2001, p. 340 ss. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 25 bene25. I poteri impeditivi, infatti, arricchiscono la funzione di garanzia e di delimitazione della responsabilità già insita nella previsione dell’obbligo, in quanto contribuiscono a plasmare quest’ultimo calandolo nella realtà ed evitando, conseguentemente, che il garante sia chiamato a rispondere di fatti che non poteva impedire26. Il potere di impedimento, identifica il comportamento pretendibile dal garante in relazione alla disponibilità di strumenti idonei ad impedire la realizzazione dell’evento. Si tratta, all’evidenza, di un requisito fondamentale ai fini dell’individuazione di un’autentica posizione di garanzia, che la giurisprudenza effettua, peraltro, in maniera tendenzialmente fattuale e non normativa. Il potere impeditivo viene, infatti, individuato attraverso la sua funzione antagonistica rispetto al rischio da contrastare, attraverso un giudizio da effettuarsi ex ante, in quanto a posteriori risulterebbe sempre inadeguato, vista l’avvenuta verificazione dell’evento che doveva essere impedito, e per il tramite di massime d’esperienza27. In tal modo, quindi, in assenza di una preventiva tipizzazione, la valutazione della portata dell’atto impeditivo è rimessa al giudice, con l’evidente pericolo di dilazione ad libitum del suo contenuto: il soggetto, in sostanza finisce per essere sempre responsabile in quanto sul piano fattuale avrebbe sempre potuto fare qualcosa di più di quello che in concreto ha fatto28. La determinazione fattuale del contenuto dei poteri impeditivi si appalesa, nondimeno, in contrasto con il principio di personalità, giacché si finiscono per attribuire al garante fatti non autenticamente propri rispetto, ai quali, peraltro, lo stesso non ha potuto orientare consapevolmente la propria condotta. Il recupero della personalità della responsabilità deve, quindi, imprescindibilmente passare attraverso una tipizzazione normativa dei poteri impeditivi29, che consenta di delimitare la 25 Il principio è stato correttamente applicato da Cass. pen., sez. IV, 12 aprile 2006, n. 12894, Vescio, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità (2004-2010), Napoli, 2011, p. 44, in cui si afferma che “in tema di posizione di garanzia, accanto alla esistenza in capo al garante dell’obbligo giuridico di impedire l’evento e dei correlativi poteri giuridici impeditivi, è necessaria l’effettiva presa in carico del bene da tutelare”. 26 F. GIUNTA, La responsabilità per omissione, in G.A. DE FRANCESCO (a cura di), Un nuovo progetto di codice penale: dagli auspici alla realizzazione?, Torino, 2001, p. 70; nonché E. SBORRA, La posizione, cit., p. 118; C. PAONESSA, Obbligo di impedire l’evento e fisiognomica del potere impeditivo, in Criminalia, 2012, p.641 ss. Sulla necessità che il garante sia dotato di poteri impeditivi v. Cass. pen., sez. IV, 1 ottobre 2012, n. 38024, P., in Diritto e giustizia del 2 ottobre 2012; Cass. pen., sez. IV, 11 aprile 2008, n. 15241, Dadda, in CED rv. 240211. 27 C. PAONESSA, Obbligo di impedire, cit., p. 650 ss. 28 C. PAONESSA, Obbligo di impedire, cit., p. 662; A. MASSARO, La colpa nei reati omissivi impropri, Roma, 2011, p. 106 ss. 29 In tal senso, qualche spiraglio ha iniziato ad aprirsi anche nella giurisprudenza di legittimità. V. Cass. pen., sez. V, 2 novembre 2011, n. 42519, Bonvino, in CED rv. 253765 nella 26 CAPITOLO SECONDO pretesa nei confronti del garante ai soli atti che egli aveva la competenza per compiere. Un’esigenza, quella di predeterminazione dei poteri impeditivi, che non può dirsi attualmente appieno soddisfatta dalla normativa extrapenale la quale, come sovente accade, assolve a funzione del tutto diversa – di organizzazione del servizio sanitario – rispetto a quella di prevenzione delle offese penalmente rilevanti. Siamo, quindi, ad oggi in presenza di una normativa (che nonostante le novazioni intervenute nel corso degli anni) non è in grado di segnare una demarcazione netta tra i poteri delle differenti figure di sanitario. D’altro canto, la peculiare struttura di tipo gerarchico disegnata in queste norme, incide sull’individuazione delle diverse figure sanitarie e sui loro compiti, diventando, quindi, difficilmente applicabile, se non compromettendo il principio di tassatività, al più ampio novero di forme di collaborazione che vedono spesso la contemporanea o successiva partecipazione di sanitari che si trovano in pari rapporto gerarchico. L’assenza di effettiva portata delimitatrice delle disposizioni extrapenali richiamate emerge chiaramente nella prassi applicativa, ove la carenza di accertamento circa la sussistenza di poteri impeditivi porta ad una dilatazione bilaterale della posizione di garanzia, con concentrazione della responsabilità verso l’alto o verso il basso30. Si assiste, così, di frequente al richiamo delle stesse disposizioni (art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 e art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992), da un lato, per affermare la sussistenza in capo al primario di un obbligo di controllo – conseguente alla sua sovraordinazione gerarchica – tendenzialmente assoluto ed illimitato su tutte le attività che si svolgono all’interno del reparto31, e, dall’altro, per accentuare l’autonomia diagnostica e terapeutica dei medici in posizione subalterna i quali, quindi, non possono sottrarsi da responsabilità per il fatto di aver agito in attuazione di direttive o, addirittura, in diretta collaborazione, con il medico sovraordinato32. quale la Corte, con riguardo ad un caso di bancarotta fraudolenta patrimoniale, ha precisato che l’equiparazione tra il non impedire ed il cagionare può avvenire soltanto se i poteri impeditivi del garante “siano ben determinati, ed il loro esercizio sia normativamente disciplinato in guisa tale da poterne ricavare la certezza che, laddove esercitati davvero, l’evento sarebbe stato scongiurato”. In dottrina, nel medesimo senso v. P. PIRAS, G.P. LUBINU, L’attività medica plurisoggettiva fra affidamento e controllo reciproco, in S. CANESTRARI, F. GIUNTA, R. GUERRINI, T. PADOVANI (a cura di), Medicina e diritto penale, cit., p. 303. 30 F. GIUNTA, voce Medico (responsabilità penale del), in I Dizionari sistematici, Diritto penale, a cura di F. GIUNTA, Milano, 2008, p. 889. 31 Cass. pen., sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430, Guida, in Guida al dir., 2004, n. 12, p. 52 ss. 32 Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2000, n. 2906, Zanda ed altro, in Dir. pen. poc., 2000, p. 1626. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 27 Per quanto ancora rare, non mancano, però, pronunce di legittimità che, pregevolmente, fanno propria la prospettiva della delimitazione delle sfere di competenza. In tal senso, ad esempio, la Suprema Corte ha di recente richiamato l’attenzione sul fatto che “la morte di un paziente a seguito di intervento chirurgico non possa essere attribuita all’équipe nel suo complesso dovendo essere valutate le concrete mansioni di ciascun componente”33 o sul fatto che “è priva di rilievo la mera instaurazione del c.d. rapporto terapeutico, occorrendo accertare la concreta organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza ed ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda”34. Particolarmente interessante è, poi, una pronuncia, risalente al 1992, che, facendo corretta applicazione della normativa di regolamentazione dell’attività medica, giunge ad escludere la responsabilità di alcuni componenti della struttura nelle cui competenze non rientrava l’impedimento dell’evento oggetto d’imputazione. In quell’occasione, i giudici di legittimità erano chiamati a pronunciarsi sulla penale responsabilità di un’infermiera, una caposala ed un primario di un reparto ospedaliero per i reati di omicidio colposo commessi ai danni di due pazienti ai quali l’infermiera aveva erroneamente somministrato una sostanza venefica (sodioazide) nella convinzione che si trattasse di solfato di magnesio. Dopo una sentenza di primo grado, che condannava tutti e tre gli imputati (l’infermiera per aver erroneamente somministrato la sostanza venefica), nonché il primario e la caposala per avere con negligenza posizionato il sodioazide nel carrello dei medicinali e non, invece, in un armadio separato per i veleni), la Corte di Appello, invece, pronunciava, a favore del primario, sentenza di assoluzione confermata anche dalla Corte di Cassazione, la quale evidenziava che “l’art. 63, quinto comma, d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, sullo stato giuridico del personale delle U.S.L., specifica che al primario competono esclusivamente ‘funzioni di indirizzo e di verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura’ ed è, dunque, esclusivamente in relazione a tali funzioni che egli deve impartire ‘istruzioni direttive’ ed esercitare ‘la verifica inerente all’attuazione di esse’. Esulano, dunque, dai compiti assegnati al primario, quelli manageriali e di organizzazione aziendale che spettano ai vertici amministrativi delle U.S.L. (nella specie, dotazione di contenitore di sostanze venefiche immediatamente distinguibili esteriormente da quelli destinati alla conservazione di medicamenti), così come, in particolare, esula quello della custodia dei veleni, che spetta ad altri soggetti (caposala, infermiere professionale)”. 33 Cass. pen., sez. IV, 9 aprile 2009, n. 19755, Filizzolo, in CED rv. 243511. Nello stesso senso v. Cass. pen., sez. III, 5 febbraio 2014, n. 5684, in D&G online, 6 febbraio 2014. 34 Cass. pen., sez. IV, 19 gennaio 2009, n. 1866, Toccafondi, in Cass. pen., 2009, p. 4276. 28 CAPITOLO SECONDO Al contrario, invece, la Corte di legittimità confermava la sentenza di condanna a carico della caposala, ritenendo che sulla stessa incombesse effettivamente la posizione di garanzia, in quanto “secondo l’art. 41, primo comma, d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 – che regola l’ordinamento interno dei servizi ospedalieri – il caposala… controlla il prelevamento e la distribuzione dei medicinali, del materiale di medicazione, e di tutti gli altri materiali in dotazione… tra i quali devono ricomprendersi le sostanze venefiche. Vero è che l’art. 1 d.P.R. 14 marzo 1974, n. 225 alla lettera f) affida all’infermiere professionale il compito di custodia dei veleni, ma, non avendo tale disposizione abrogato, la già citata precedente disposizione di legge, è da intendere che il compito di custodia dell’infermiere professionale concorra con l’identico compito del caposala senza, ovviamente, escluderlo”35. Sulla scorta dei medesimi principi, in altra pronuncia, la Corte di Cassazione ha escluso la responsabilità penale del direttore sanitario di un nosocomio nel quale un’infermiera professionale in servizio presso il reparto di malattie infettive – mentre incannulava la vena di un malato di AIDS – veniva punta dall’ago infetto a causa della manovra incauta di un altro infermiere e contraeva di conseguenza la malattia. In questo caso, la Corte ha riconosciuto la responsabilità penale del primario affermando che egli aveva “il potere-dovere di controllo su tutte le attività terapeutiche svolte all’interno del suo reparto. Egli quindi doveva impedire, dando precise istruzioni, che personale paramedico non adeguatamente preparato sul rischio AIDS si occupasse si pazienti affetti da tale malattia”, escludendo, viceversa la responsabilità del direttore sanitario, le cui competenze, secondo i giudici di legittimità, “non potevano certo riguardare il trattamento del singolo degente e l’impiego, nell’assistenza e nella cura dello stesso, di personale paramedico con preparazione idonea ad affrontare lo specifico rischio rappresentato dalla particolarità della malattia di cui il ricoverato era portatore”36. Se è innegabile che la corretta enucleazione dei doveri e dei soggetti tenuti all’adempimento degli stessi permetta di delimitare la responsabilità già sul piano della tipicità oggettiva, nondimeno, possono verificarsi situazioni particolarmente complesse in cui non è dato individuare aree di competenza autonome, bensì obblighi che fanno capo a più soggetti37. 35 Cass. pen., sez. 36 Cass. pen., sez. 37 In tal senso cfr. IV, 26 marzo 1992, n. 5359, Vallara, in Giur. it. 1994, II, p. 377. IV, 15 maggio 1998, n. 5689, in ISL, 8, 1998, p. 439. l’importantissima sentenza sul disastro di Stava, Cass. pen., sez. IV, 6 dicembre 1990, Sonetti, in Foro it., 1992, II, c. 36, nella quale i giudici osservano che “se più sono i titolari dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, ciascuno è, per intero, destinatario di quell’obbligo, con la conseguenza che se è possibile che determinati interventi siano ese- IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 29 Utile in tal senso appare la distinzione dottrinale tra doveri comuni e doveri divisi. In particolare, i doveri comuni si caratterizzano per il fatto di gravare su più soggetti ciascuno dei quali è titolare di una posizione di garanzia capace di per sé di assicurare una totale e completa protezione del bene giuridico, mentre i doveri divisi sono quelli che, singolarmente considerati, non consentono una globale protezione del bene, tanto che ciascuno dei partecipanti all’intervento è titolare di una posizione di garanzia che solo per la parte relativa alle mansioni allo stesso affidate contribuisce alla tutela del bene38. Nel caso, ad esempio, di attività svolta in cooperazione tra sanitari in eguale posizione gerarchica (es. chirugo ed anestesista), si possono considerare divisi i doveri gravanti su ciascun partecipante allo svolgimento del processo lavorativo medico-chirugico, in quanto ognuno è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente in relazione alle specifiche mansioni e capacità tecniche. Il fenomeno della divisione degli obblighi si attenua, invece, nel caso di ripartizione del lavoro in senso gerarchico, ove il soggetto in posizione apicale ha un obbligo di coordinamento e di controllo sull’operato dei sottoposti39. 3. La successione nella posizione di garanzia La già complessa procedura di individuazione dei soggetti penalmente responsabili può essere resa ancora più gravosa dal possibile sucguiti da uno dei garanti, è però doveroso per l’altro o gli altri garanti, dai quali ci si aspetta la stessa condotta, accertarsi che il primo sia effettivamente ed adeguatamente intervenuto”. Nello stesso senso in dottrina v. V. MILITELLO, La colpevolezza nell’omissione: il dolo e la colpa del fatto omissivo, in Cass. pen., 1998, p. 990. 38 La distinzione è stata elaborata da C. ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, Hamburg, 1963, p. 558 ss. e successivamente ripresa in Italia da E. BELFIORE, Profili penali dell’attività medico-chirugica in équipe, in Arch. pen., 1986, p. 294 ss.; nonché successivamente da L. TRAMONTANO, Causalità attiva e omissiva, obblighi divisi e congiunti di garanzia: tre sentenze a confronto, in Foro it., 1997, II, p. 417; P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 209 ss. Come si osserverà in seguito, la distinzione tra doveri comuni e divisi assume rilevanza anche con riferimento all’individuazione delle regole cautelari ed all’operatività del principio di affidamento. 39 In tal senso, cfr. E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 294 ss. L’Autore avverte, tuttavia, del rischio cui si può andare incontro se si considera l’obbligo di controllo del superiore sul subordinato come vero e proprio obbligo comune. Se così fosse, infatti, il medico in posizione apicale avrebbe un compito di vigilanza continua sul corretto operato dei propri collaboratori che determinerebbe, in caso di esito infausto conseguente ad errore da parte di uno dei medici sottoposti, una sua automatica responsabilità. Al contrario, solo laddove il medico accerti che sussistono circostanze che legittimino il sospetto di una possibile negligenza altrui, avrà il preciso obbligo di compiere un’attività di vigilanza sull’operato del collega. In tal caso, si è in presenza di un dovere comune, in quanto l’imposizione di tale obbligo è finalizzata a creare una doppia tutela per la salute del paziente. 30 CAPITOLO SECONDO cedersi nel tempo di sanitari che si alternano nella cura del paziente, dando luogo ad una successione nella posizione di garanzia. Come si è evidenziato in precedenza, infatti, l’attività sanitaria può svilupparsi in forma diacronica, in quanto una pluralità di sanitari si alternano, in contesti temporali e spaziali differenti, nella cura del paziente. Si pensi, ad esempio, alle ipotesi di fine turno, di richiesta a sanitario di altra specializzazione di esecuzione di un esame diagnostico o di trasferimento del paziente tra reparti, nelle quali un sanitario subentra ad un altro nella cura del paziente40. Ciascun sanitario che interviene nell’atto diagnostico o terapeutico si inserisce in una sequenza complessa, nell’ambito della quale assume una posizione di garanzia nei confronti del paziente. Si pone, quindi, l’esigenza di stabilire, di fronte ad una parcellizzazione dell’atto medico, come debba essere distribuita la responsabilità tra i garanti che si sono succeduti nella cura del paziente. La Corte di Cassazione è stata chiamata spesso a pronunciarsi in ordine alla delimitazione delle sfere di responsabilità di soggetti succedutisi nella posizione di protezione nel campo medico, optando per una soluzione “caso per caso” delle problematiche poste dalla specifica situazione di volta in vola posta alla sua attenzione, piuttosto che soffermarsi sulla spiegazione di alcun “nodi” dogmatici sottesi alla materia41. Invero, la mancanza di una ricostruzione organica del fenomeno successorio non è limitata al campo medico, ma si estende più in generale alle posizioni lato sensu di protezione. Se, infatti, la Corte di Cassazione si è più volte soffermata sul subentro nelle posizioni di controllo, elaborando una teoria di valenza generale (c.d. teoria della continuità delle posizioni di garanzia), la varietà e poliedricità delle situazioni riconducibili al genus delle posizioni di protezione ha, invece, impedito una ricostruzione unitaria dei passaggi critici sottesi al fenomeno successorio42. Per potere, di conseguenza, saggiare la tenuta, rispetto alle tradizionali categorie dogmatiche, delle conclusioni a cui giunge la giurisprudenza nelle decisioni che coinvolgono ipotesi di successione di garanti in campo medico, appare opportuno premettere qualche cenno ricostruttivo della materia generale del trasferimento delle posizioni di garanzia. In proposito, la dottrina distingue fra trasferimento di obblighi di garan40 Ha proposto un’integrale applicazione dei principi elaborati dalla dottrina in materia di delega di funzioni nell’ambito delle imprese A. MANNA, voce Trattamento medico-chirugico, in Enc. dir., Varese, 1992, XLIV, p. 1294. 41 A. GARGANI, La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione: due casi “esemplari” di responsabilità ex art. 40, comma 2, c.p., in Dir. pen. proc., 2004, p. 1407. 42 A. GARGANI, La congenita indeterminatezza, cit., p. 1407. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 31 zia e successione nella posizione di garanzia. Nel primo caso, il trasferimento di funzioni impeditive crea una nuova posizione di obbligato ad agire, dando luogo al cumulo di due o più situazioni di garanzia che ruotano attorno alla protezione dello stesso bene. In questa prima categoria viene, in particolare, collocata la delega di funzioni, ovvero il trasferimento di obblighi e poteri impeditivi di cui è titolare il delegante, con la creazione di una nuova funzione di garanzia in capo al delegato. Alla delega di funzioni, non consegue, tuttavia, uno scioglimento del vincolo della posizione di garanzia in capo al delegante. Al contrario, nel caso di autentica successione si assiste ad una traslazione integrale della posizione di garanzia, con conseguente liberazione del soggetto cedente della funzione impeditiva in capo al quale non residua neppure un obbligo di vigilare43. Con la successione nella posizione di garanzia il garante originario si spoglia, quindi, sia dell’obbligo di impedimento dell’evento sia dei poteri impeditivi che passano in capo al garante secondario il quale diviene così l’unico soggetto obbligato. Deve darsi, inoltre, conto di una diffusa opinione secondo cui le due situazioni si differenzierebbero anche con riferimento alla natura della posizione trasferita: mentre oggetto della delega di funzioni possono essere obblighi impeditivi inerenti sia a diritti disponibili sia a diritti indisponibili estranei alla sfera di signoria del garante, oggetto di successione, al contrario, possono essere solo funzioni inerenti beni giuridici disponibili, rientranti nella sfera di dominio del cedente44. Si osserva, peraltro, che l’incedibilità in via definitiva delle posizioni di protezione discenderebbe non solo dalla indisponibilità del bene garantito, ma anche dall’oggettiva idoneità di detto bene ad essere controllato dal garante “originario” anche quando è trasferito ad altri45. Nel caso dell’attività medico-chirurgica, in cui la posizione di garanzia è generalmente qualificata come posizione di protezione, si ritiene, tuttavia, che non esista una preclusione assoluta alla cessione definitiva dell’obbligo di attivarsi. In tale situazione, infatti, è la legge che procede ad un bilanciamento di interessi tra le esigenze di tutela della salute del paziente e quelle scaturenti dalla divisione del lavoro e dalle necessità organizzative delle strutture. La complessità delle strutture sanitarie, che prevedono plurime unità operative alle quali sono assegnati i sanitari (in relazione alle loro specializzazioni), e la imprescindibile continuatività nell’attività di cura dei pazienti impongono, giocoforza, di ripartire il la43 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 591 ss. 44 I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 45 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 599. 238 ss. 32 CAPITOLO SECONDO voro e di consentire una successione nella posizione di garanzia. Sembra, quindi, possibile affermare che in talune circostanze anche la posizione di protezione, tipica dell’attività medico-chirurgica, possa dare luogo ad un autentico fenomeno successorio con liberazione del garante originario. La casistica risulta, invero, alquanto variegata, ma sembra comunque possibile affermare che, nonostante il costante utilizzo della locuzione “successione di garanti”, sovente i giudici abbiano piuttosto inteso far riferimento ad una delega di funzioni e non ad un definitivo trasferimento della posizione di garanzia, tanto che non di rado individuano comunque la persistenza di obblighi in capo al garante primario. In questo senso, ad esempio, appare configurabile un trasferimento di funzioni e non, invece, una successione definitiva nella posizione di garanzia, nel caso del medico in posizione apicale che deleghi ad un sanitario, appartenente alla propria struttura operativa, la cura del paziente. La legge, infatti, prevede espressamente che il primario possa e, anzi debba, ai fini di una migliore gestione dell’elevato numero dei pazienti, delegare talune funzioni ad altri sanitari appartenenti alla struttura assegnando, in particolare, al medico in posizione intermedia la cura dei pazienti e, financo, la gestione diretta di una struttura semplice, e al medico in posizione iniziale la cura di singoli pazienti46. Dalle medesime fonti normative si desume, però, che nel caso del primario la delega non esplica un’efficacia liberatoria completa, in quanto sullo stesso permane un dovere di direttiva, di vigilanza e di verifica dell’attività delegata, che può spingersi fino all’esercizio del potere di avocazione47. 46 L’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 prevede, infatti, che “il medico in posizione apicale assegna a sé e agli altri medici i pazienti ricoverati”. Previsione che trova ulteriore esplicitazione nell’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 che statuisce “al dirigente, con cinque anni di attività con valutazione positiva sono attribuite funzioni di natura professionale anche di alta specializzazione, di consulenza, di studio, di ricerca, ispettive, di verifica e di controllo, nonché possono essere attribuiti incarichi di direzione di strutture semplici” e che “all’atto della prima assunzione, al dirigente sanitario sono affidati compiti professionali con precisi ambiti di autonomia da esercitare nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura e sono attribuite funzioni di collaborazione e corresponsabilità nella gestione delle attività”. 47 In tal senso, cfr. A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1631; D. GUIDI, L’attività medica in équipe alla luce della recente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, in S. CANESTRARI, F. GIUNTA, R. GUERRINI, T. PADOVANI, Medicina e diritto penale, cit., 219. In giurisprudenza Cass. pen., sez. IV, 2 maggio 1989, n. 7162, Argelli, in Foro it., 1989, II, c. 603. Più di recente, v. Cass. pen., sez. IV, 28 giugno 2007, n. 39609, Marafioti, in CED rv. 237832, in cui i giudici della Suprema Corte sono tornati ad occuparsi del fenomeno successorio, affermando che, in linea generale, gli obblighi di garanzia connessi all’esercizio della professione medica possono essere delegati, con conseguente esclusione della responsabilità del titolare originario della posizione di garanzia. Perché ciò avvenga, è peraltro necessario IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 33 In tale ipotesi, quindi, si verifica un cumulo di posizioni di garanzia ruotanti attorno alla protezione del medesimo bene, ma la posizione di cui è originariamente titolare il primario muta il proprio contenuto, trasformandosi in una posizione di vigilanza sull’operato dei propri sottoposti. La successione nella posizione di garanzia è consentita anche tra sanitari in eguale posizione gerarchica che si turnano nella cura del paziente. In tali situazioni, invero, appare possibile affermare la sussistenza di un trasferimento definitivo della posizione di garanzia a causa, soprattutto, dell’impossibilità per il garante originario di proseguire nell’opera di controllo, venendo meno, sin dal momento in cui il bene esce dal suo controllo, i poteri impeditivi dell’evento (si pensi al caso del trasferimento del paziente in altro reparto). Tuttavia, presupposti per la liberazione del garante primario e dell’efficacia del subentro nella posizione di garanzia, secondo la ormai affermata ricostruzione teorica, sono che il trasferimento trovi il proprio fondamento in fonti formali (fonti legislative e sublegislative di organizzazione interna), che il garante secondario sia dotato dei necessari poteri impeditivi dell’evento lesivo, che l’attività che il delegato sia persona capace e competente nel settore e che il delegante tenga sempre conto delle peculiarità del caso in esame, dell’eventuale carattere di urgenza che lo stesso presenta e della gravità dello stato di salute del paziente. Nel caso specifico l’imputato era accusato, nella sua qualità di direttore della Divisione di Ostetricia e Ginecologia, di non aver comunicato ad una paziente. che aveva sottoposto ad isterectomia, l’esito dell’esame istologico che aveva accertato la presenza di un leiomiosarcoma di alto grado – G3 – nella parete del fondo uterino, cosi impedendo le terapie necessarie ed opportune le quali, se tempestivamente praticate, avrebbero impedito il decesso intervenuto. I giudici, con riferimento alla posizione del direttore, osservano che per “la posizione dallo stessa rivestita, anche nell’ipotesi di conferimento ad altro sanitario con un ordine di servizio dell’incarico di svolgere le funzioni connesse al settore con competenza ad informare dell’esito degli esami istologici, aveva il dovere di vigilare che il detto incarico fosse regolarmente adempiuto”. Sull’assunzione di un proprio obbligo di garanzia in capo al medico delegato, senza, tuttavia, esclusione della responsabilità del primario, cfr. Cass. pen., sez. feriale, 24 novembre 1994, n. 11695, Pizza, in A. FIORI, E. BOTTONE, E. D’ALESSANDRO, Quarant’anni di giurisprudenza della Cassazione nella responsabilità medica, Milano, 2000, p. 776, nella quale la Corte afferma che “la normativa di riferimento costituita dal d.P.R. n. 761 del 1979 e dal d.P.R. n. 128 del 1969, prevede per i medici ospedalieri, che il medico appartenente alla posizione apicale assegni agli altri medici i pazienti ricoverati. Ed è evidente che questo affidamento determina la responsabilità del medico affidatario per gli eventi a lui imputabili che colpiscono l’ammalato affidatogli”. Ritengono che il potere-dovere del primario di divisione del lavoro tra i propri collaboratori non costituisca una delega di funzioni, ma semplicemente una modalità di realizzazione dell’obbligo di garanzia ad esso imposto F. AMBROSETTI, R. PICCINELLI, M. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 27. Per gli Autori, in definitiva l’unica ipotesi in cui può essere configurata una delega di funzioni è quella di assenza o impedimento del primario, e quindi, di sostituzione temporanea dello stesso da parte di un medico subordinato. 34 CAPITOLO SECONDO ceduta non sia ab origine viziata dalla violazione di regole cautelari (c.d. successione in attività inosservanti), che, infine, vi sia l’assolvimento di un obbligo di informazione all’atto del c.d. passaggio di consegne tra garante primario e secondario. L’insussistenza anche di uno solo di detti presupposti può aprire la strada a forme differenti di responsabilità (del solo garante originario o di entrambi i garanti) per l’evento lesivo eventualmente verificatosi a danno del paziente (v. amplius infra § 4). Fulcro del fenomeno successorio è, quindi, l’assolvimento dell’obbligo informativo all’atto del passaggio di consegne fra sanitari48. Un obbligo informativo che, come osservato dalla Suprema Corte, è biunivoco, in quanto sussiste, da un lato, il dovere del subentrante di controllare lo stato della situazione in cui è subentrato, e, dall’altro, quello del cedente di esporre al nuovo garante le caratteristiche del bene protetto e tutti i fattori di rischio legati allo stato di salute del paziente49. Il passaggio delle consegne “informato” segna, quindi, il momento in cui si verifica l’avvicendamento nella posizione di garanzia: il garante originario perde i suoi poteri di intervento e si libera, conseguentemente, dall’obbligo di impedimento, che passa al garante secondario, ora dotato del patrimonio conoscitivo del suo predecessore e di tutti i poteri. Non si ritiene, invece, assuma generale rilevanza, a fini del perfezionamento del subentro, il requisito dell’idoneità del subentrante ad assumere la posizione di garanzia. In altri termini, il garante originario (salvo che su di lui non incomba un obbligo ex lege) non ha nessun dovere di verificare le effettive capacità del medico subentrante e non potrà ri48 Così ad esempio, nel caso di trasferimento di un paziente da un reparto ad un altro, all’interno dello stesso nosocomio, nel quale veniva redatta cartella clinica sulla base di semplici supposizioni (poi rivelatesi erronee) del medico redattore e non di informazioni correttamente assunte dal reparto di provenienza, i giudici in Cass. pen., sez. IV, 25 febbraio 1994, n. 5029, Spoleti, in CED rv. 198626, hanno affermato che “per la funzione della struttura ospedaliera è da escludere che ciascun reparto da cui questa è composta costituisca un’entità a sé stante, implicante una divisione tale da impedire quella reciproca comunicazione di notizie attinenti ai malati i quali vengono trasferiti da un reparto all’altro, indispensabile soprattutto nei casi di urgenza, ai fini di una visione completa del quadro patologico da prendere in considerazione”. Il medesimo dovere di informazione deve essere altresì rispettato nel caso di passaggio di consegne all’interno del medesimo reparto, sia tra medici, sia tra medici e paramedici che si susseguono nella cura del paziente. In questo senso v. Cass. pen., sez. IV, 9 maggio 1997, n. 4211, Di Paola, in A. FIORI, E. BOTTONE, E. D’ALESSANDRO, Quarant’anni di giurisprudenza, cit., p. 903 in cui la Corte afferma che “il medico ospedaliero che termina il suo turno di lavoro ha lo specifico dovere di fare le consegne a chi gli subentra, in modo da evidenziare a costui la necessità di un’attenta osservazione e di un controllo costante sull’evoluzione della malattia del paziente che sia soggetto a rischio di complicanze”. 49 Sul dovere del subentrante di assumere le necessarie informazioni v. Cass. pen., sez. IV, 27 febbraio 2008, n. 8615, Mariotti, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 48. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 35 spondere, nel caso di esito infausto dell’atto diagnostico o terapeutico (per incapacità tecnica del sanitario), a titolo di culpa in eligendo per l’evento lesivo verificatosi. 4. Casi di successione nella posizione di garanzia. In particolare: la successione nelle attività inosservanti All’atto del passaggio di consegne tra medici in eguale posizione gerarchica possono verificarsi diversi fenomeni successori dai quali originano differenti responsabilità per i soggetti coinvolti. Può, anzitutto, darsi il caso del trasferimento, previo adempimento dell’obbligo informativo, di un’attività senza rischi originari in cui, quindi, l’evento lesivo si verifichi per il subentrare di un nuovo ed autonomo rischio innescato dalla condotta del garante subentrante (es. al termine del proprio turno di lavoro il medico affida la cura di un paziente al sanitario subentrante il quale erra nella somministrazione di un farmaco determinando la morte del paziente). In tale evenienza si può affermare che il passaggio di consegne abbia determinato un subentro nella posizione di garanzia in quanto il garante secondario, a seguito anche dell’avvenuta corretta e completa informazione, ha la integrale gestione del bene giuridico affidatogli, mentre il garante originario non avrebbe più i poteri giuridici di impedimento (perché, ad esempio, il paziente non è più nel suo reparto). Giova, tuttavia, sottolineare che per il concretizzarsi dell’efficacia liberatoria dall’obbligo di impedimento non è sufficiente il verificarsi del presupposto formale quale il termine del turno di lavoro o il trasferimento del paziente, ma è altresì necessaria, sotto il profilo sostanziale, la presa in carico del bene da parte del medico subentrante50. Ad ogni buon conto, ha precisato la Corte di Cassazione, la posizione di garanzia non può essere delegata laddove il garante originario sia in grado di far fronte ai doveri che gli sono affidati nel corso del turno; se, infatti, osservano i giudici, “la posizione di garanzia è espres50 In questo senso anche la giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 30 giugno 2009, n. 26645, Marangolo, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 31; nonché Cass. pen., sez. IV, 18 maggio 2006, n. 16991, Mastropasqua, ivi, p. 48. Cass. pen., sez. IV, 10 novembre 1994, n. 2774, Maresi, in Giust. pen., 2000, II, p. 118 in cui si afferma che “è agevole rilevare che l’invocato principio di affidamento ha efficacia scriminante nel perdurare delle stesse condizioni e non del mutare di esse a causa dell’insorgenza di nuovi elementi sintomatici, non esistenti in precedenza e, perciò, naturalmente, non rilevati dai colleghi precedentemente intervenuti. Esso, cioè, non ha modo di operare quando si contesta all’agente di non aver rilevato – non gli elementi già esistenti, e tuttavia non rilevati dai suoi predecessori – ma gli elementi insorti successivamente, nell’arco di tempo garantito con la propria assistenza, che solo lui poteva rilevare”. 36 CAPITOLO SECONDO sione di solidarietà costituzionalmente riconosciuta, è innegabile che gli operatori sanitari debbano questa solidarietà – la loro posizione di protezione – per l’intero tempo del loro turno di lavoro, con la conseguenza che non possono trasferire ai colleghi i compiti ad essi affidati, qualora li possano svolgere agevolmente nel loro turno, contribuendo, così, con quella esecuzione, alla tempestività degli interventi e ad evitare di caricare di compiti coloro che, nel momento in cui succedono nel turno, assumeranno la loro posizione di garanzia con pari e, magari, più gravosi compiti da svolgere”51. L’ipotesi successoria che, invece, crea i maggiori dubbi interpretativi è quella della cessione di un’attività inosservante. Una simile evenienza si verifica nel caso in cui il garante originario ceda al subentrante una situazione in cui egli stesso ha instaurato una situazione di rischio per il paziente (ad es. ha somministrato un farmaco errato) ovvero non ha posto rimedio ad una situazione in precedenza creata da altri (es. erronea somministrazione del farmaco da parte di un sanitario che lo ha preceduto turno). Si tratta di ipotesi in cui, quindi, la cessione dell’attività avviene in presenza di una violazione di regole cautelari che ha innescato un fattore di rischio da cui però non è ancora conseguita la verificazione dell’evento lesivo all’atto del passaggio delle consegne. L’interrogativo che sorge al riguardo è se, nel caso del successivo verificarsi dell’evento, la responsabilità debba cadere sul cedente, che aveva violato le regole cautelari; ovvero sul cessionario, dal quale ci si poteva aspettare l’eliminazione delle violazioni cautelari commesse dal predecessore; ovvero, infine, su entrambi i soggetti52. Quest’ultima è la linea interpretativa prevalentemente accolta dalla giurisprudenza che in queste ipotesi ritiene configurabile una responsabilità colposa tanto a carico del cedente (che, anche se ha perso i poteri impeditivi dell’evento, deve assicurarsi che all’eliminazione degli effetti negativi della sua condotta provveda il successore) quanto del cessionario (che, una volta subentrato, deve in ogni caso acquisire conoscenza dei fattori di rischio) (c.d. principio della continuità della posizione di garanzia)53. Secondo detta ricostruzione, quindi, l’eventuale condotta colposa del medico subentrante (che ometta di dare soluzione al rischio attivato 51 Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano, cit. 52 A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee ricostruttive in tema di responsabilità penale nel lavoro medico d’èquipe, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, p. 261. 53 Il principio, in origine elaborato con riferimento al noto disastro di Stava, da Cass. pen., sez. IV, 11 dicembre 1990, n. 4793, Bonetti ed altri, in CED rv. 191793, è stato poi, pressoché costantemente, ripreso, con specifico riferimento all’attività medica. A titolo esemplificativo v. Cass. pen., sez. IV, 26 maggio 1999, n. 8006, Cattaneo, in CED rv. 214248. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 37 dalla precedente attività) non configurerebbe una causa di per sé sufficiente a produrre l’evento, idonea ad escludere, ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p., la responsabilità del cedente. Detta evenienza potrebbe verificarsi solo nel caso in cui, nel corso dell’attività del subentrante, si sia verificata una causa successiva che, pur inserendosi nel contesto di pericolo già attivato, si riveli, però, del tutto eccezionale ed imprevedibile (ad es., se il medico abbia somministrato una dose erronea di farmaco). In questa ipotesi, infatti, la nuova attività si sovrapporrebbe integralmente a quella precedente, innovando completamene la situazione di pericolo originaria54. In capo al soggetto cedente rimarrebbe, quindi, una posizione di garanzia che, seppur non espressamente affermato dalla Corte, troverebbe la propria fonte nella “propria precedente attività pericolosa”55. Una fonte di obbligo di impedimento, invero, il cui riconoscimento è da attribuirsi alla dottrina tedesca, oggetto di aspre critiche nella dottrina italiana, in quanto ritenuta non conforme ai principi di legalità e di determinatezza (avendo origine di tipo consuetudinario) e in quanto dotata di enormi potenzialità espansive della responsabilità56. L’accoglimento di questa teoria da parte della giurisprudenza porta, infatti, al riconoscimento di una posizione di garanzia sostanzialmente illimitata che vincolerebbe, senza soluzione di continuità, il garante originario (autore di una violazione delle leges artis) al bene oggetto di tutela. In definitiva, alla luce di questa ricostruzione teorica, per escludere la responsabilità del garante originario, che ha violato delle regole cautelari, non sarebbe sufficiente un passaggio di consegne informato, ma sarebbe necessario, altresì che lo stesso elimini le fonti di rischio prima di cedere la cura del paziente ovvero che le stesse siano eliminate dal garante secondario57. 54 In tal senso Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano, cit.; Cass. pen., sez. IV, 7 aprile 2004, n. 25310, Ardovino e altri, cit. 55 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 625 il quale si sofferma anche sull’origine di questa fonte dell’obbligo di impedimento. 56 F. GIUNTA, La posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria, in Dir. pen. proc., 1999, p. 621 s.; I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 107. Nella dottrina tedesca si è sottolineato che “l’artificio dell’ingerenza è stato da tempo svelato: l’obbligo di impedire l’evento derivante da una precedente condotta pericolosa non si fonda su un effettivo principio di imputazione personale, ma, piuttosto sulla responsabilità oggettiva: l’aver contribuito alla causazione dell’evento”. In questo senso v. V. SCHÜNEMANN, Grundfragen der Unternebmenskriminalität, WISTRA, 1982, p. 316. 57 Cass. pen., sez. IV, 1 ottobre 1998, n. 11444, Bagnoli, in Riv. pen., 1999, p. 507 in cui la Corte, chiamata a pronunciarsi su un caso di omicidio colposo ai danni di una partoriente di cui erano imputati tre medici che in successione temporale avevano avuto in carico la paziente, ha affermato che “il significato dell’affidamento, secondo il quale ogni consociato può 38 CAPITOLO SECONDO La ricostruzione giurisprudenziale della successione nelle attività inosservanti sembra, inoltre, presentare un ulteriore limite. Tutte le pronunce, infatti, affermano la permanenza dell’obbligo di garanzia in capo al garante originario, che abbia instaurato (o non abbia rimosso) il fattore di rischio, evidenziando che in tale situazione non può trovare applicazione il “principio di affidamento”. È noto, nondimeno che il principio di affidamento opera sul piano della colpa quale limite al dovere di diligenza nel caso di attività monosoggettive, mentre nel caso della successione di garanti, ancor prima del profilo colposo viene in rilievo, come osservato, il problema della permanenza di una posizione di garanzia. Affermare, quindi, come avviene nelle pronunce giurisprudenziali, che, in caso di cessione di attività inosservanti, permane in capo al cedente la posizione di garanzia, non potendo egli fare affidamento sul corretto operato del successore, costituisce un errore metodologico in quanto determina una sovrapposizione tra omissione (obbligo giuridico) e momento omissivo della colpa (obbligo di diligenza). Il recupero dei giusti ambiti di operatività dell’obbligo giuridico, da un lato, e dell’obbligo di diligenza, dall’altro, non costituisce mero tuziorismo dogmatico, ma risulta necessario se non si vogliono ampliare indiscriminatamente (ed in violazione dei principi costituzionali) gli ambiti della punibilità. L’inversione dei piani – a cui, invero, non è raro assistere confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell’attività in esame (nella vicenda di cui ci si occupa della attività medica) e deve evitare unicamente i pericoli scaturenti dalla propria condotta, è quello per cui di regola non si ha l’obbligo di impedire che realizzino comportamenti pericolosi terze persone altrettanto capaci di scelte responsabili. Ne consegue che non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione; sì che, ove anche per l’omissione del successore, si produca l’evento che una certa azione avrebbe dovuto e potuto impedire, l’evento stesso avrà due antecedenti causali; la seconda omissione non è fatto eccezionale sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l’evento. Né può assumersi che la successione, facendo venire meno in colui che viene sostituito dal successore, la possibilità di dominare la fonte di pericolo, faccia venir meno anche la garanzia. È infatti di palmare evidenza che gli effetti negativi di un’azione o di una omissione possono prodursi anche a distanza di tempo, in un momento in cui non siano più sotto il dominio di chi ha posto in essere l’azione o l’omissione, senza che ciò impedisca di farli risalire e attribuire all’autore dell’azione o della omissione. Questo deve essere tanto oculato da eliminare le fonti di pericolo o, se si vuole, gli effetti negativi della propria condotta, finché può dominarli o, altrimenti, al fine di escludere eventuali future responsabilità, assicurarsi che il successore provveda alla eliminazione”. La sentenza appare significativa anche perché testimonia la frequente “confusione dogmatica” in cui incorre la giurisprudenza: il principio di affidamento, infatti, viene richiamato per affermare la sussistenza del nesso di causalità, anziché nella sua funzione tipica di limitazione della colpa. V. anche Cass. pen., sez. IV, 26 maggio 1999, n. 8006, Cattaneo, cit. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 39 in giurisprudenza – determina, infatti, un ingiustificato riconoscimento di responsabilità: l’affermazione del permanere di un obbligo di impedimento sul garante originario giustificherebbe il riconoscimento di una responsabilità fondata sulla sola sussistenza della colpa (derivante dalla violazione della regola cautelare che ha determinato l’instaurazione della situazione di rischio) in assenza, però, di una tipicità oggettiva e, quindi, di un fatto proprio, non residuando più un’autentica posizione di garanzia in capo al cedente che ha perduto i poteri di impedimento. Per questi motivi, se la giurisprudenza ha costantemente affermato la responsabilità sia del cedente (anche se non più in grado di “dominare” gli effetti negativi della propria condotta) sia del cessionario, nella dottrina, al contrario, si levano voci che evidenziano l’eccessivo rigore di tale tesi, anche se differenti sono gli approdi ermeneutici. Secondo un primo orientamento, sarebbe da escludersi la possibilità di configurare la permanenza della posizione di garanzia in capo al cedente, essendo la stessa svuotata del contenuto tipico della titolarità di poteri di impedimento. In difetto di idonei poteri impeditivi il garante originario viene a trovarsi in una posizione non essenziale sul piano della tutela del bene giuridico58. Il garante originario, quindi, pur quando ha ceduto un’attività inosservante, non può essere chiamato a rispondere dell’evento verificatosi sotto la gestione del subentrante, né per non essersi attivato per impedire l’evento, né a titolo di concorso, non sussistendo in capo allo stesso un generale obbligo di impedimento dell’altrui condotta illecita59. Sennonché, se è pur vero che il garante originario all’atto della cessione si spoglia della posizione di garanzia che ha quale contenuto l’obbligo di impedimento dell’evento, egli rimane comunque destinatario di un obbligo che muta il proprio contenuto: di rimozione di fattori di rischio innestati dalla propria attività. Rimozione che, tuttavia, in assenza, come detto, di poteri impeditivi diretti, deve avvenire in via mediata attraverso la compiuta rappresentazione al successore della situazione di pericolo (con particolare riguardo alle circostanze non palesi e non facilmente riconoscibili), nonché delle caratteristiche e dei risultati della propria gestione. Informando il medico subentrante, quindi, l’originario garante si libera della sua posizione di garanzia e, conseguentemente da responsabilità penale per i fatti lesivi60. 58 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 643; A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove, cit., p. 261; P. PIRAS, G.P. LUBINU, L’attività medica, cit., p. 315. 59 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 640. 60 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 645 ss.; P. PIRAS, G.P. LUBINU, L’attività medica, cit., p. 315 s. 40 CAPITOLO SECONDO Secondo un diverso orientamento, invece, il medico che ceda un’attività inosservante non può liberarsi sic et simpliciter della posizione di garanzia (e, quindi) della responsabilità, attraverso una corretta informazione al collega. Si osserva, infatti, che nelle fattispecie colpose a struttura causale, la condotta tipica deve essere identificata nella prima negligenza che, oltre a risultare causalmente efficiente, incarna l’evitabilità dell’evento caratteristico dell’imputazione a titolo di colpa. Sarà, dunque, tipica la prima negligenza che abbia aumentato il rischio di verificazione dello specifico evento che rientrava nel suo spettro preventivo, mentre sarà irrilevante quella da cui discenda la concretizzazione di un rischio ancora correggibile dal garante subentrante. Nella prima ipotesi, quindi, il garante originario sarà punibile, mentre nella seconda deve escludersi una sua responsabilità in caso di successiva condotta colposa del garante secondario61. Quest’ultimo sembra l’orientamento preferibile: se è pur vero, infatti, che, una volta che vi sia stato il trasferimento delle funzioni, il garante originario perde i poteri impeditivi e, quindi, la possibilità di evitare l’evento, è altrettanto vero, però, che, nel caso in cui la sua negligenza abbia aumentato il rischio di verificazione dell’evento (ad es. abbia effettuato una erronea trasfusione di sangue), non vi è più alcun potere impeditivo da poter esercitare essendo le condizioni del paziente ormai irrimediabilmente compromesse. In una simile evenienza, quindi, seppur l’evento lesivo si verifichi nel momento in cui altro sanitario ha assunto la cura del paziente, nondimeno deve ritenersi responsabile colui che lo ha preceduto e che ha determinato l’instaurazione dello specifico fattore di rischio. Ciò, si ritiene, non determinerebbe una violazione dei principi di legalità e di personalità della responsabilità, in quanto il soggetto, nel momento in cui ha realizzato la condotta colposa, era investito della posizione di garanzia ed era dotato di adeguati poteri impeditivi. La soluzione, viceversa, deve essere nel senso di esclusione della responsabilità nel caso in cui vi sia la cessione di una attività inosservante in cui, tuttavia, è ancora possibile arginare il rischio insorto a seguito della violazione delle regole di cautela. In questa situazione, infatti, è ancora possibile l’impedimento dell’evento e l’unico soggetto che ha gli adeguati poteri per operare in tal senso è il garante secondario, ove preventivamente informato. Resta, da ultimo, da stabilire quale sia la responsabilità del sanitario cedente l’attività in caso di inadempimento dell’obbligo di informazione. Si ritiene che essa possa assumere due diversi contenuti: in primo luogo, 61 F. GIUNTA, Medico, cit., p. 896. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 41 può configurarsi una responsabilità monosoggettiva colposa per l’evento verificatosi laddove il medico subentrante (nonostante l’ignoranza circa i fattori di rischio precedentemente insorti) abbia correttamente adempiuto ai propri obblighi, pur non riuscendo ad impedire l’evento; ovvero, può realizzarsi un concorso di cause colpose indipendenti nel caso in cui alla condotta colposa del garante originario si aggiunga quella, parimenti colposa, del subentrante. A tal riguardo, si concorda con gli orientamenti che escludono in questa seconda ipotesi la configurabilità di una cooperazione colposa. Come noto, infatti, ai fini della configurabilità dell’ipotesi concorsuale tipizzata dall’art. 113 c.p., occorre non solo la realizzazione di condotte oggettivamente e soggettivamente colpose, ma, altresì, la consapevolezza di concorrere con altri nella realizzazione di tali condotte inosservanti. Orbene, giacché la condotta colposa del garante (ad esempio la erronea effettuazione di una trasfusione di sangue) interviene in un momento antecedente a quello del passaggio di consegne ed a quello della condotta colposa del successore, non vi può essere consapevolezza alcuna di interagire con l’altrui condotta colposa62. 62 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 649. SEZIONE SECONDA IMPUTAZIONE SOGGETTIVA DEL FATTO 5. La tipicità colposa Il ruolo preponderante assunto, nell’indagine sulla responsabilità penale, dalla posizione di garanzia (pur con i limiti di accertamento visti in precedenza) determina, di sovente, un offuscamento dei criteri di imputazione di matrice soggettiva e, in particolare della colpa che, indubbiamente, costituisce la forma di responsabilità tipica nel campo dell’attività medico-chirurgica. Deve riscontrarsi, infatti, una generale tendenza da parte della giurisprudenza alla sottovalutazione dei profili attinenti sia alla misura oggettiva sia alla misura soggettiva della colpa che, invece, ove correttamente valutati, permetterebbero non solo di restringere la punibilità, ma, soprattutto, di riporre al centro il principio della responsabilità personale. È noto che esito del progressivo processo di normativizzazione della colpa è stato innanzitutto, la valorizzazione del “tipo” colposo, essendo ormai uniformemente accolta l’idea che la colpa assolva la propria funzione non solo nell’ambito della colpevolezza, ma, ancor prima, sul piano oggettivo, in quanto le regole di cautela selezionano l’ambito della tipicità. La colpa diviene così, sotto il profilo oggettivo, violazione di regola cautelare63. Alla sostanzialmente unanime adesione dottrinale e giurisprudenziale alla concezione normativa della colpa non ha fatto, tuttavia, da pendant un compiuto approfondimento dei criteri di individuazione delle regole cautelari (v. amplius infra § 8), rimanendo, così, ancora in gran parte oscuri i meccanismi di concretizzazione della colpa64. Le generali difficoltà che si riscontrano, nella responsabilità monosoggettiva, nell’individuazione delle regole precauzionali si sommano, nel caso di attività plurisoggettive, a quelle connesse ai profili relazionali della colpa65. Nell’am63 D. CASTRONUOVO, La colpa penale, Milano, 2009, p. 28 s.; F. GIUNTA, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 86 ss. 64 D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., p. 280. 65 Sui profili relazionali della colpa vedi D. CASTRONUOVO, L’evoluzione teorica della IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 43 bito delle organizzazioni complesse, infatti, la colpa assume caratteristiche peculiari, dal momento che la condotta del singolo si interseca con quella di altri soggetti agenti e, spesso, con questa finisce per fondersi in un unicum indistinto. Il tema dell’individuazione delle regole precauzionali assume, quindi, un ruolo primario anche nel campo dell’attività medica plurisoggettiva, rispetto alla quale è necessario stabilire se sul sanitario incomba il solo obbligo del rispetto delle regole di diligenza, prudenza e perizia attinenti alla propria specializzazione, ovvero se, dall’interazione con l’attività di altri colleghi, discendano ulteriori regole di cautela e, in particolare, un dovere di controllo sull’operato altrui. La tematica si è posta all’attenzione della dottrina già sul finire degli anni ’50 dello scorso secolo quando la dottrina ha rilevato come la risposta al predetto interrogativo non potesse essere fornita applicando al campo medico le acquisizioni generali in materia di responsabilità colposa, evidenziando, da un lato, le singolarità dell’atteggiarsi della colpa professionale e, dall’altro, le storture derivanti dall’applicazione al campo medico (e più specificamente alle ipotesi di divisione del lavoro) delle teorie di stampo psicologico allora imperanti. Proprio l’impasse in cui si sono venute a trovare le concezioni psicologiche, nella loro applicazione concreta al campo della responsabilità medica, ha, d’altro canto, fortemente inciso sul processo (all’epoca già in atto) di normativizzazione della colpa66. In effetti, per lungo tempo, il principio della divisione del lavoro e la sua rilevanza giuridica non sono stati oggetto di autonoma ed approfondita analisi nell’ambito della responsabilità colposa, con la conseguenza che dottrina e giurisprudenza trovavano terreno fertile nel ritenere che i problemi di imputazione soggettiva, posti da tale fenomeno, andassero risolti in termini meramente psicologici di prevedibilità delle negligenze altrui67. In altri termini, in un periodo in cui imperavano le concezioni psicologiche della colpa, già nell’ambito della responsabilità del singolo, il problema della responsabilità del medico per eventuali errori di altro sanitario che con lui avesse collaborato, veniva risolto sulla base della prevedibilità ed evitabilità dell’evento: al pari del singolo, anche il medico colpa penale tra dottrina e giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, p. 1632 ss.; ID., La colpa penale, cit., p. 321 ss. 66 In questo senso cfr. E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 268; ss.; F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 65. 67 Nella dottrina tedesca v. EBERMAYER, Die zivil - und strafrechtliche Haftung des Arztes für Kunstfehler, in Diagnostische und therapeutische Irrtümer und deren Verhütung. Innere Medizin, 1918, p. 38 ss.; ID., Arzt und Patient in der Rechtsprechung, 1925, p. 105 ss. 44 CAPITOLO SECONDO che cooperi con altri professionisti è chiamato a rispondere di eventuali esiti infausti, laddove non abbia previsto, e quindi evitato, il comportamento imprudente, negligente o imperito dell’altro partecipe al trattamento. Sennonché, la trasposizione di tali ricostruzioni della colpa nell’ambito dell’attività plurisoggettiva, determina una “biasimevole esasperazione dei doveri di diligenza del medico”68, dal momento che l’errore del professionista, anche del più qualificato, è, invero, sempre prevedibile69. Si finisce, in tal modo, per svuotare completamente di significato il principio della divisione del lavoro, chiedendo al medico di avere una costante sfiducia nel comportamento dei propri collaboratori e di monitorarne, conseguentemente, l’attività70, con il rischio di pericolose forme di responsabilità per fatto altrui o di gruppo. Sotto la spinta del progresso tecnico della medicina e della necessaria ripartizione delle mansioni, la dottrina, avvedutasi delle storture conseguenti a simili interpretazioni della responsabilità per colpa, rivolge la propria attenzione alle specifiche problematiche relative all’attività medico-chirugica in équipe, cercando di dotare la colpa di contenuti che meglio si adattino a questa peculiare forma di attività71. Pur muovendo 68 G. STRATENWERTH, Arbeitsteilung und ärztliche Sorgfaltpflicht, Festschrift für Eb. Schmidt, 1961, p. 383 ss. citato in G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 218. 69 E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 270. 70 Osservava ad esempio A. CRESPI, La responsabilità penale nel trattamento medico-chirurgico con esito infausto, Palermo, 1955, p. 156 che “quanto più urgente ed improrogabile è la necessità di una determinata misura diagnostica o terapeutica e quanto più rischiosa è la sua esecuzione sul piano clinico o quello chirurgico, tanto più ampio è il dovere di controllo del medico responsabile della cura e l’obbligo di provvedere personalmente all’esecuzione di detta misura”. In particolare, prosegue l’Autore, nel caso di evento dannoso il medico (che si è avvalso di collaboratori) dovrà risponderne a titolo di colpa, “ben difficilmente in simili ipotesi … potendo trovare valide giustificazioni per fare ragionevole affidamento sui propri aiuti ed assistenti”. Salvo poi apportare un correttivo all’affermazione di un generale principio di sfiducia, laddove, Crespi afferma “in concreto quel medico in quel determinato caso avesse avuto ragionevoli motivi per fare affidamento su quell’assistente o personale sanitario”. 71 Sono sicuramente dirette in tal senso le indagini svolte da E. SCHMIDT, il quale nel suo lavoro Der Arzt in Strafrecht, Leipzing, 1939, seppure rimanendo ancora legato ad una concezione psicologica della colpa, si discosta dagli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali all’epoca dominanti, e, attraverso lo studio di casi di cooperazione fra organismi medici pubblici e privati, elabora una nuova visione del lavoro in équipe. Il caso preso in esame da Schmidt è quello di un paziente che, necessitando di cure specialistiche, venga affidato dal proprio medico ad uno specialista. Ad avviso dell’Autore, tuttavia, in caso di errore dello specialista l’accertamento di un’eventuale responsabilità del primo sanitario dovrà essere effettuato tenendo conto del tipo di specialista a cui è stato affidato il paziente: se lo specialista è incardinato in una struttura pubblica, del suo eventuale errore non risponderà anche il medico che ha affidato il paziente, in quanto per tale tipo di specialista vale una presunzione di un’attività immune da errori, legittimata dalla elevatezza delle cariche che esso ricopre; al contrario, se lo specialista appartiene ad una struttura privata, potrà essere chiamato a ri- IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 45 da assunti dogmatici differenti, gli autori giungono, nondimeno, ad un risultato comune: la delimitazione della responsabilità deve essere ottenuta attraverso un attento esame del contenuto del dovere, che sarebbe, più di ogni altro, l’elemento caratterizzante il «tipo» dei delitti colposi e che, nell’ambito degli stessi, si modificherebbe a seconda che il soggetto agisca da solo oppure congiuntamente ad altri72. Ne discende che, nel caso di trattamento sanitario eseguito dal medico in cooperazione con altri sanitari, il contenuto del dovere di diligenza si arricchisce di nuovi profili, tesi a garantire il coordinamento delle attività dei diversi sanitari coinvolti. Il dibattito, nel frattempo apertosi anche in Italia, si sposta, quindi, sull’individuazione del contenuto del dovere di diligenza nel caso di cooperazione nell’attività medico-chirugica, per la delimitazione del quale viene fatto ricorso al principio dell’affidamento. Abbandonata la tradizionale concezione della “assoluta sfiducia nell’operato altrui”73, perché incentrata su criteri meramente psicologici di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, e rifiutata, altresì, una concezione, di stampo prettamente civilistico, di una responsabilità di gruppo per tutti gli interventi eseguiti in cooperazione, in quanto contrastante con l’art. 27 Cost., si afferma, invece, la nuova visione incentrata sull’affidamento nell’operato del collega74. La trasposizione sul piano della responspondere anche il primo medico, a seconda che, nel caso concreto, operi oppure no il principio di affidamento. Per Schmidt il principio di affidamento opera solo se il medico che ha iniziato la cura non ha commesso alcun errore, ovvero ha commesso un errore riparabile dallo specialista. Al contrario, se l’errore commesso dal primo medico è di tale gravità da non poter essere eliminato dal medico intervenuto successivamente, non potrà trovare applicazione l’affidamento. 72 E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 276. 73 In Italia sostenuta da A. CRESPI, La responsabilità penale, cit., p. 155 per il quale “qualsiasi operazione tecnica alla cui esecuzione vada congiunto un pericolo alla salute del paziente, importa per il medico un obbligo di controllo diretto: se, pertanto, per errore del personale assistente, sia stata omessa la installazione dell’indispensabile filtro e sia da ciò derivato un danno al paziente, è ovvio che al medico possa essere rimproverata la realizzazione del fatto tipico, perché precisamente a lui incombeva l’obbligo di adoperarsi perché nel corso dell’esecuzione di quella terapia rischiosa venisse allontanata ogni eventualità di danno”. 74 Per la concezione di matrice civilistica, cfr., invece, G. CATTANEO, La responsabilità medica nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1982, p. 9 ss., il quale, per affermare la responsabilità del gruppo in caso di esito infausto dell’intervento terapeutico, osserva che “è ragionevolmente presumibile che abbia errato uno dei componenti dell’équipe chirurgica, ma tuttavia impossibile stabilire se si tratti del chirurgo, dell’anestesista oppure dell’una o dell’altra infermiera”. Si veda, inoltre L. MACCHIARELLI, T. FEOLA, Medicina legale, Torino, 1995, p. 1288. Per la prima compiuta affermazione in Italia del principio dell’affidamento sull’operato dei colleghi cfr. G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, p. 217 ss. In giurisprudenza il principio ha trovato applicazione in tempi relativamente recenti: per la giurisprudenza di merito cfr. ad esempio Trib. Bologna, 31 maggio, 1996, Martinelli e altri, in Riv. it. dir. pen. 46 CAPITOLO SECONDO sabilità medica del principio di affidamento, elaborato dalla dottrina tedesca con riferimento alla circolazione stradale, consente di meglio delineare le sfere di responsabilità di ciascun partecipe all’attività medicochirugica, in quanto ogni sanitario risponde solo del corretto adempimento dei doveri di diligenza e perizia a lui affidati, senza essere gravato da un dovere di sorveglianza del comportamento altrui. Sennonché la nuova visione, unanimemente accolta dalla dottrina, ha stentato e, a dire il vero, stenta a tutt’oggi, a trovare compiuta attuazione giurisprudenziale. Al di là dell’affermazione formale del principio (rinvenibile in molte delle decisioni che si occupano di medical malpractice)75, infatti, sono rare le pronunce in cui, grazie alla corretta applicazione dello stesso, si giunge a pronunce di assoluzione. Quasi sempre più attente alle istanze di punizione del medico, piuttosto che ai vincoli derivanti dal principio di responsabilità personale, nella maggior parte delle decisioni si finisce per affermare la sostanziale sfiducia nell’operato altrui, sia quando vi sono in gioco rapporti di tipo orizzontale (ad es. tra medici aventi la medesima specializzazione), sia quando si discuta di rapporti di tipo verticale (es. tra medico in posizione apicale e aiuto). La conseguenza è quella dell’implicito riconoscimento nei confronti dei sanitari che cooperano di un “obbligo di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto” in quanto la cooperazione comproc., 1997, p. 1043, in cui i giudici sono chiamati a pronunciarsi su un caso di omicidio colposo ai danni di due pazienti, che avevano contratto il virus dell’AIDS a seguito di trapianto di reni ricevuti da donatore poi risultato sieropositivo. In particolare, tra i medici imputati per omicidio colposo, veniva rinviato a giudizio il primario del reparto di rianimazione della struttura dove venne effettuato il trapianto (diversa da quella in cui fu effettuato l’espianto), con l’accusa di “non aver organizzato tra i suoi collaboratori e preteso da questi un adeguato e generalizzato sistema di anamnesi che individuasse i potenziali rischi nei donatori prima che si procedesse al trapianto di organi”. I giudici del Tribunale di Bologna, quindi, nell’esaminare la posizione del primario osservano che “è noto che le prestazioni mediche di un certo rilievo vengono oggi eseguite normalmente da una pluralità di soggetti, inseriti all’interno di una struttura ed organizzati secondo principi di divisione del lavoro, sono spesso interdisciplinari e richiedono a volte la stretta collaborazione di istituti diversi. Tutti questi soggetti, che interagiscono fornendo ciascuno il proprio apporto, quando e in che termini possono essere chiamati a rispondere di comportamenti colposi altrui? Ex facto oritur ius: tale nuova situazione ha condotto la dottrina e la giurisprudenza ad elaborare il principio di affidamento. Come sempre accade varie teorie si sono intrecciate sulla valutabilità di tale principio ai fini dell’esonero dalla colpa. Da quelle più rigoristiche, postulatrici di un dovere generale di controllo reciproco, che ammetterebbe deroghe soltanto in caso di assoluta imprevedibilità dell’errore altrui; a quelle, compromissorie e temperanti, che senza prendere posizioni definitorie rigide, segnalano la necessità di adeguare la valutazione alle circostanze concrete”. 75 In giurisprudenza, per l’individuazione dei contenuti del principio di affidamento, cfr. Cass. pen., sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430, Guida, in D&G, 2004, n. 16, p. 31; Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2000, n. 9368, Troiano, cit. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 47 porta un doveroso accrescimento delle cautele76 con una, inaccettabile, sostanziale elusione del principio di affidamento in tutti i casi (come quello dell’attività medica esercitata in forma plurisoggettiva) in cui uno stesso rischio sia, consapevolmente, gestito da più soggetti. In altri termini, secondo la ricostruzione giurisprudenziale, mentre in una prospettiva monosoggettiva, il principio di affidamento ha la funzione di rendere penalmente irrilevante la astratta prevedibilità del comportamento colposo altrui, in un contesto plurisoggettivo, viceversa, ciascuno dei compartecipi, oltre ad essere gravato dall’obbligo del rispetto 76 Questa ricostruzione è nitidamente tratteggiata da Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 2009, n. 1786, Tomaccio ed altri, in Dir. pen. proc., 2009, p. 571, con nota di L. RISICATO, Cooperazione in eccesso colposo: concorso “improprio” o compartecipazione in colpa “impropria”. Nella sentenza, la Corte si sofferma (con riferimento ad un caso che non concerne la responsabilità medica) sui confini di operatività dell’art. 113 c.p. e sugli elementi di differenziazione rispetto al concorso di cause colpose indipendenti di cui all’art. 41, comma 3, c.p. Dopo aver ricostruito gli orientamenti concernenti la funzione dell’art. 113 c.p., la Corte ritiene di aderire a quello secondo cui la predetta norma svolge una funzione estensiva dell’incriminazione, consentendo la punizione anche di condotte di per sé atipiche o incomplete. Ai fini della configurabilità della cooperazione sarebbe necessaria e sufficiente la mera consapevolezza della condotta altrui (e non anche della sua colposità). Ciò, indubbiamente, rileva la stessa Corte, comporterebbe, però, un possibile indiscriminato ampliamento della responsabilità. Problema che, tuttavia, secondo il Supremo Collegio, può essere risolto ritenendo che la punibilità delle condotte atipiche debba essere limitata ai soli casi in cui “il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o almeno sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza”. In senso adesivo a questa ricostruzione v. L. RISICATO, Il concorso colposo tra vecchie e nuove incertezze, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, p. 168 ss. L’Autrice sottolinea che “il contesto consapevole di azione, che lega tra loro le condotte dei compartecipi, amplia l’ambito del dovere di diligenza fino a ricomprendere la (normalmente irrilevante) prevedibilità delle possibili conseguenze del fatto (non più del terzo ma) comune. Proprio tale prevedibilità è atipica a livello monosoggettivo, perché incontra il limite del Vertrauensgrundsatz: il fatto colposo del terzo, pur se prevedibile, non fonda, in via di principio, una corrispondente norma cautelare […]. Solo la consapevole interazione tra le condotte dei concorrenti consente all’interprete di superare di slancio e senza residue perplessità il principio di affidamento, solido argine della tipicità colposa monosoggettiva: la consapevolezza di cooperare con altri, ponendosi come indispensabile elemento di coesione nella produzione dell’evento, fa sì che l’intero fatto sia proprio, al tempo stesso dell’autore e del partecipe e che dunque l’uno non assuma più rispetto all’altro la veste di «terzo» (più o meno affidabile)”. Il principio è, altresì, fatto proprio, con specifico riferimento al campo dell’attività medica, da Cass. pen., sez. IV, 25 maggio 2010, n. 19637, F.F. e altro, in Ragiusan, 2010, p. 168 in cui si afferma, appunto, che nella cooperazione multidisciplinare nell’attività medico-chirurgica ogni sanitario è tenuto ad osservare, non solo regole di diligenza e prudenza connesse alle specifiche mansioni, ma anche a coordinare la propria attività con gli altri partecipanti verso il fine comune unico. Il singolo medico, quindi, non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente e contestuale di altro collega e dal controllarne la correttezza. Nello stesso senso v. Cass. pen., sez. IV, 22 marzo 2013, n. 13542, A.C., in Riv. it. med. leg., 2013, p. 1480. 48 CAPITOLO SECONDO delle regole cautelari relative alle proprie mansioni, è gravato anche da un obbligo di prudente interazione e, quindi, di controllo sull’operato dei colleghi (che non sarebbe, pertanto, meramente eventuale o secondario). L’obbligo di prudente interazione costituisce, secondo questa ricostruzione, il fulcro per l’operatività dell’art. 113 c.p. il quale renderebbe punibili anche condotte di per sé atipiche e che non abbiano determinato un contributo essenziale al verificarsi dell’evento, pur avendolo agevolato. In tal modo, la stessa Corte giustifica il riconoscimento della responsabilità anche in capo a soggetti che nell’ambito di una équipe svolgono un ruolo subalterno e meno qualificato in quanto sugli stessi, nonostante la posizione subordinata incombe comunque il dovere di manifestare il dissenso rispetto alle scelte terapeutiche77 (v. amplius infra Cap. 4, § 4). Una ricostruzione che, tuttavia, non si ritiene affatto condivisibile. Pur non potendosi negare che dalla cooperazione sorgano nuove ed ulteriori regole cautelari volte alla gestione del rischio comune (quali, in particolare gli obblighi di corretta informazione e trasmissione delle notizie tra colleghi), non pare, nondimeno, corretto affermare che nelle attività plurisoggettive vi sia una regola cautelare primaria che imponga a ciascun componente di vigilare costantemente sull’operato del collega. Le attività plurisoggettive, anzi, costituiscono, come meglio sarà evidenziato nel prosieguo, l’autentico terreno elettivo per l’operatività del principio di affidamento che funge (esso sì) da regola cautelare primaria che soccombe solo al verificarsi di situazioni concrete nelle quali (per la particolare posizione ricoperta o per l’insorgere di particolari circostanze, quali l’errore riconoscibile del collega) sorge un obbligo di controllo78. Un obbligo, quindi, che non discende in via primaria dalla sola interazione tra più soggetti (come, invece, ritenuto dalla richiamata giurisprudenza), ma che sorge in via secondaria per effetto della cessazione del principio di affidamento a seguito dell’insorgere di situazioni concrete (c.d. obblighi cautelari relazionali)79. 77 Vedi in tal senso la giurisprudenza formatasi con riguardo ai rapporti tra primario ed assistente tra cui Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2000, n. 556, Zanda, cit. 78 In tal senso v. anche L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 519; ID., La cooperazione colposa come fattispecie di colpa per inosservanza di cautele relazionali, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, p. 839, in cui si evidenzia che “la cooperazione colposa […] non rappresenta una «deviazione» rispetto [al principio di affidamento]. Ma, piuttosto, una conseguenza logica del suo esautoramento quando il pericolo derivante dall’altrui imprudenza sia riconoscibile, una conseguenza che comporta, appunto, l’accrescimento delle cautele in direzione del comportamento altrui”. 79 M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 74 ss. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 6. 49 Origini e fondamento del principio di affidamento Le origini del principio di affidamento (Vertrauensgrundsatz) sono da ricercarsi in Germania, dove, nel 1938, il giurista Hermann Gülde pubblica un articolo dal titolo particolarmente significativo: “Der Vertrauensgrundsatz als Leitgedanke des Straßenverkehrsrechts” (ovvero “il principio di affidamento come criterio-guida del diritto della circolazione stradale”)80. Gülde conia l’espressione nel tentativo di dare soluzione ad una questione che in quell’epoca, con l’incremento della circolazione stradale, comincia ad affacciarsi con sempre maggiore insistenza: se ed entro quali limiti il singolo partecipante al traffico stradale debba adeguare il proprio comportamento di guida alle eventuali violazioni delle regole della circolazione da parte di altri utenti della strada81. Ad esito del proprio studio, l’Autore, in contrasto con la giurisprudenza allora imperante, secondo la quale il singolo dovrebbe essere sempre pronto a far fronte alle altrui infrazioni, afferma, invece, il diverso criterio dell’affidamento. Seppure fortemente legata ad una visione nazionalsocialista, alla cui base sta la convinzione che ciascun consociato si conformi ai doveri che sullo stesso incombono e gli altri possano su ciò fare affidamento82, l’elaborazione di Gülde è, nondimeno, significativa, non solo per la prima elaborazione del principio, ma anche per il primo tentativo di sistemazione dogmatica dello stesso, dall’Autore collocato nell’ambito della colpevolezza, quale limite al dovere di diligenza nei reati colposi. All’incirca vent’anni dopo, il medesimo principio viene esteso all’ambito dell’attività medico chirurgica in équipe. Nel 1961, infatti, un altro giurista tedesco, Günther Stratenwerth pubblica un articolo nel quale significativamente osserva: “un medico, il quale si occupi di tutto quanto” (id est non solo delle proprie mansioni, ma anche dell’adempimento da 80 L’articolo è stato pubblicato sulla rivista Juristische Wochenschrift, 1938, p. 2785 ss. 81 Per un’approfondita analisi delle origini storiche del principio si rinvia a M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 11 ss. 82 Gülde critica l’orientamento giurisprudenziale, allora imperante, che negava l’affidamento nell’altrui condotta diligente, partendo proprio dai principi che stanno alla base del nazionalsocialismo. Egli, infatti, osserva che l’orientamento affermatosi è in palese contrasto con la visione nazionalsocialista la quale presuppone che ognuno dei consociati si conformi ai doveri che su di lui incombono. Imporre al singolo di tenersi pronto alle infrazioni che terzi commetteranno, equivarrebbe a postulare negli altri componenti della collettività non già l’osservanza delle norme, ma la loro violazione. In tal modo si giungerebbe però al paradosso di indurre all’inosservanza delle regole di circolazione, perché in ogni caso gli altri partecipanti al traffico saranno tenuti a salvaguardare la posizione del contravventore: il principio di affidamento in altri termini verrebbe ad avere una funzione pedagogica, tendente a promuovere l’osservanza delle norme stradali. Per queste osservazioni sull’opera di Gülde cfr. M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 12 ss. 50 CAPITOLO SECONDO parte dei colleghi delle loro) “certo non si esporrà al rimprovero penale di aver mancato di diligenza, difficilmente, tuttavia, sarà un buon medico”83. L’Autore, per la prima volta, applica, quindi, il principio di affidamento anche alle ipotesi di divisione tecnica del lavoro, ritenendolo necessario per consentire al medico, sgravato dall’onere di verificare la correttezza degli altrui adempimenti, di svolgere al meglio il proprio lavoro, salvaguardando la salute del paziente84. A fronte di un così vivido interesse per il principio di affidamento in ambito tedesco, deve invece riscontrarsi una difficile affermazione dello stesso nella dottrina e giurisprudenza italiane, a causa, almeno inizialmente, della diffusione delle concezioni psicologiche della colpa. La visione della colpa, al pari del dolo, come mera riferibilità psichica del fatto all’agente, impediva di cogliere, come già in precedenza rilevato, il suo essenziale radicarsi su un rapporto di contrarietà del comportamento dell’agente ad una regola di condotta a contenuto precauzionale. Soltanto la specifica dimensione normativa dell’addebito colposo avrebbe permesso l’emersione del principio di affidamento: è proprio la pretesa di diligenza, rivolta ad ogni consociato, che fonda un’aspettativa dall’ordinamento stesso in ordine al suo effettivo adempimento, aspettativa che non può non rifrangersi su ogni consociato che entri in contatto con quello chiamato all’assolvimento dell’obbligo di diligenza85. L’iniziale scarsa penetrazione in Italia del principio di affidamento fa si che lo stesso venga utilizzato dalla giurisprudenza in modo del tutto asistematico ed occasionale, per giustificare l’esclusione di responsabilità del medico, il quale deve poter fare affidamento sul rispetto delle regole caute83 G. STRATENWERTH, 84 L’Autore, tuttavia, Arbeitsteilung, cit., p. 383 ss. osserva che il principio di affidamento da lui elaborato con riferimento all’attività medico-chirugica non corrisponde affatto al Vertrauensgrundsatz elaborato da dottrina e giurisprudenza con riferimento alla circolazione stradale. Secondo Stratenwerth, infatti, quest’ultimo troverebbe il proprio fondamento nella categoria dogmatica del “rischio consentito”: dal momento che l’ordinamento autorizza la circolazione stradale, pur trattandosi di attività in sé pericolosa, e visto che tra i pericoli dalla stessa derivanti deve collocarsi anche quello del mancato rispetto delle norme di diligenza da parte degli utenti della circolazione, ne discenderebbe che il poter fare affidamento sull’altrui comportamento diligente sarebbe un riflesso della generale autorizzazione. Il principio elaborato con riferimento all’attività medica, al contrario, non potrebbe trovare fondamento nell’istituto del “rischio consentito”, in quanto se è vero che anche l’attività medica è attività autorizzata dall’ordinamento pur se pericolosa, tuttavia, l’esecuzione del trattamento con divisione del lavoro richiederebbe un proprio autonomo fondamento rispetto a quello generale sottostante all’attività medica. La divisione del lavoro, infatti, è essa stessa produttrice di nuovi pericoli, diversi ed ulteriori, rispetto a quelli già insiti nell’atto medico e quindi non in sé coperti dall’autorizzazione statale. 85 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 58. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 51 lari da parte dei colleghi, senza che vi faccia seguito, però, una compiuta elaborazione teorica ed una sistemazione dogmatica. La dottrina italiana, invece, richiamandosi alle già compiute elaborazioni dogmatiche della dottrina tedesca, pone, via via, particolare attenzione al profilo della collocazione sistematica del principio di affidamento nell’ambito della teoria del reato, senza, tuttavia, raggiungere un’uniformità di vedute. Nell’ambito delle diverse ricostruzioni del fondamento del principio in esame sembra possibile enucleare due diversi correnti interpretative: la prima ne ricerca il fondamento nell’ambito di categorie più generali, quali il “rischio consentito” ed il “principio di autoresponsabilità”; la seconda, invece, ne configura un autonomo fondamento, riportandolo sul piano della teoria della colpa86. Nell’ambito del primo orientamento si inseriscono, anzitutto, quegli Autori che configurano il principio di affidamento come ipotesi di esclusione della responsabilità collocata nell’ambito della più ampia categoria del rischio consentito, la quale designa quella serie di comportamenti che, pur essendo in sé e per sé portatori di un rilevante pericolo per uno o più beni giuridici penalmente protetti, sono tuttavia autorizzati, in via generale, dall’ordinamento giuridico in nome della loro utilità87. Il rischio consentito, quindi, influirebbe già come limite dell’operatività del precetto penale: tutte le condotte che rientrano nell’ambito dell’autorizzazione, e che siano state rispettose dei limiti e delle regole che presiedono al loro svolgimento, anche se produttive di eventi lesivi, sono da ritenersi atipiche. L’ulteriore passaggio che effettuano i sostenitori di questa concezione, elaborata con riferimento alla circolazione stradale, è che, nell’ambito delle attività rischiose, gli eventi lesivi, che possano essersi verificati nonostante l’osservanza delle regole cautelari, devono ricondursi al fatto che altre persone (id est utenti della strada) non abbiano osservato le norme precauzionali che a loro si rivolgono. In nessun caso, comunque, colui che ha tenuto la condotta autorizzata, rispettando le regole precauzionali88, potrà essere chiamato a rispondere delle altrui negligenze. Da qui, pertanto, l’ulteriore ed ovvia conseguenza che egli potrà, altresì, fare affidamento sul fatto che gli altri si attengano alle nome pru86 M. 87 M. 88 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 66. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 68. ROMANO, Art.43, in Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, p. 461, ha osservato che il rischio consentito “può divenire un singolare cappello protettivo per attività pericolose per le quali potrebbero invece in concreto adottarsi più efficaci misure precauzionali. Importante è dunque avere ben presente che rilevante è sempre se l’attività sia in concreto conforme o meno alla regola di diligenza: insomma, un comportamento non è antigiuridico o non conforme al tipo perché consentito, ma è al contrario consentito perché (o purché) concretamente diligente”. 52 CAPITOLO SECONDO denziali che li concernono, che altro non sarebbe se non il nucleo centrale del principio di affidamento89. Nella dottrina, invero, non sono mancate le critiche alla collocazione del principio di affidamento nell’ambito della più generale categoria del rischio consentito, ed anzi si è osservato che è lo stesso Vertrauensgrundsatz a contribuire alla delimitazione dei confini del rischio consentito, e pertanto, se la determinazione dell’estensione del rischio consentito dipende proprio dall’applicazione del principio di affidamento, il primo non potrà certamente porsi come fondamento del secondo90. I tentativi di affrancare il principio di affidamento dall’area del rischio consentito ha indotto altra parte della dottrina a ricercarne il fondamento nel principio di autoresponsabilità. La tesi si fonda sulla constatazione che il terzo che abbia realizzato un comportamento illecito, inseritosi sul decorso causale già avviato dalla condotta di altri, sia un soggetto in grado di autodeterminarsi e di orientare le proprie scelte comportamentali in modo conforme ovvero difforme rispetto ai precetti penali che gli sono indirizzati. Il principio di affidamento opererebbe, quindi, come delimitazione di responsabilità del primo soggetto che ha attivato il decorso causale, il quale, giustamente, ripone la propria aspettativa sul corretto adempimento delle regole di diligenza da parte di soggetti responsabili91. Nel caso in cui, tuttavia, emergano nella situazione concreta indizi tali da far venire meno l’aspettativa del rispetto delle regole cautelari da parte del terzo, il principio di affidamento cede il passo ad un dovere secondario di diligenza. Sennonché la possibilità di ricondurre il principio di affidamento al canone dell’autoresponsabilità sconta degli evidenti limiti insiti nella stessa ricostruzione fornita dai suoi sostenitori. Se, difatti, si ammette che il principio di affidamento non operi in tutti i casi in cui dagli elementi 89 Per le critiche alla riconduzione del principio di affidamento nella categoria del rischio consentito, v. M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 70 ss. 90 M. MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni sul principio di affidamento, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1054. 91 Nella dottrina italiana v. F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984, p. 151; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 357. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 7 aprile 2004, n. 25310, Ardovino ed altri, cit., in cui la Corte ha osservato che “il principio di affidamento implica infatti, nel caso di ripartizione degli obblighi tra più soggetti, che colui che si affida non possa essere automaticamente ritenuto responsabile delle autonome condotte del soggetto cui si è affidato; e ciò in base al principio di autoresponsabilità. Non esiste infatti un obbligo di carattere generale di impedire che terzi, responsabili delle loro scelte, realizzino condotte pericolose. Ma nel caso in cui l’affidante ponga in essere una condotta causalmente rilevante, la condotta colposa dell’affidato, anch’essa con efficacia causale nella determinazione dell’evento, non vale ad escludere la responsabilità del primo in base al principio dell’equivalenza delle cause e dell’efficacia non esclusiva della causa sopravvenuta”. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 53 fatturali emerga che il terzo non si atterrà alle regole prudenziali impostegli dall’ordinamento, si dovrebbe altresì concludere che quest’ultimo non è soggetto in grado di autodeterminarsi. Nella realtà, però, non tutte le situazioni che rendono prevedibile l’inosservanza delle regole cautelari da parte del terzo sono anche conseguenza di una sua incapacità di autodeterminarsi. Significativo in questo senso l’esempio di soggetto che venga a trovarsi in una situazione di debolezza od impedimento fisico, verosimilmente tale da non consentirgli l’adeguamento agli standards di diligenza impostigli, ma non certamente non in grado di autodeterminarsi o di essere responsabile92. Secondo i più recenti orientamenti, oggi prevalenti, sarebbe, invece, possibile riconoscere un’autonomia concettuale al principio di affidamento collocandolo all’interno della dogmatica sulla colpa. In particolare, in un ampio studio monografico sul principio93 è stato evidenziato che il ragionamento circa il fondamento di detto principio deve prendere le mosse dall’analisi della c.d. componente omissiva della colpa. È, infatti, indubbio, che la colpa presenti una componente omissiva che si concretizza nella violazione del dovere di diligenza sistematicamente collocata, per la dottrina classica, nell’ambito della colpevolezza, mentre, per quella più recente, già nell’ambito della tipicità94. Nondimeno, il mancato rispetto della regola prudenziale può assumere rilevanza giuridica solo in quanto contravvenga ad un’aspettativa dell’ordinamento giuridico che ha posto tale regola95. La conclusione di questo iter argomen92 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 98 ss. Si pensi al caso di un medico specializzando alla sua prima esperienza in sala operatoria, che, pur essendo perfettamente in grado di autodeterminarsi, potrebbe comunque, vista la sua inesperienza, porre in essere delle condotte negligenti. 93 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 98. 94 Secondo la concezione classica la colpa costituisce esclusivamente una forma della colpevolezza e, quindi, anche la violazione del dovere di diligenza produrrebbe effetti solo in questo ambito. Gli studi più moderni hanno, invece, distinto una misura oggettiva ed una misura soggettiva della colpa, la prima delle quali produrrebbe i propri effetti già a livello di tipicità dell’illecito colposo: il fatto di reato, quindi, sotto il profilo oggettivo si sostanzia nel mancato rispetto, da parte di chi vi è obbligato, della diligenza necessaria ad impedirne l’integrazione. In dottrina per la tesi tradizionale v. G. DELITALIA, Il «fatto» nella teoria generale del reato, in Diritto penale, Raccolta degli scritti, vol. I, Milano, 1976, p. 235 ss.; F. ALIMENA, La colpa nella teoria generale del reato, Palermo, 1947, p. 153 ss.; G. MAGGIORE, Principi di diritto penale, parte generale, 5ª ed., Bologna, 1949, p. 451. Per le più recenti acquisizioni teoriche nella manualistica v. S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2007, p. 413; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 564 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale., cit., p. 336 ss. Si vedano, inoltre, G. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 149 ss.; F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 141 ss. 54 CAPITOLO SECONDO tativo è, pertanto, che “all’esistenza di un obbligo di diligenza in capo ad un determinato soggetto, corrisponde un’aspettativa, mettente capo all’ordinamento e, di riflesso necessario, a tutti coloro – compresi anche quanti sono riguardati da obblighi di diligenza concorrenti – che con il primo interagiscono, avente ad oggetto l’effettivo impiego della diligenza a lui prescritta”96. La ratio della tutela di tale aspettativa deve essere ricercata nel fatto che l’ordinamento non potrebbe imporre il rispetto di determinati doveri e presupporre poi che gli stessi non saranno rispettati, perché, se così fosse, verrebbe messa in discussione l’attitudine dell’ordinamento stesso a porre norme di comportamento vincolanti e, quindi, capaci di orientare il comportamento della generalità dei consociati, in quanto dotate di effettività97. Questa ricostruzione conduce a configurare il principio di affidamento quale limite al dovere di diligenza che, quindi, ove operante, determina l’atipicità del fatto colposo per carenza della componente oggettiva della colpa. In altri termini, la funzione del principio di affidamento, è proprio quella di “modellare” la tipicità del fatto colposo nelle situazioni plurisoggettive, escludendo, come regola, la configurabilità di obblighi diretti al comportamento di terzi98. 7. I limiti del principio di affidamento Nelle attività svolte con divisione di lavoro, quindi, la regola è che ciascuno risponda dell’inosservanza delle leges artis del proprio specifico settore, poiché, per un buon risultato dell’attività, è necessario che ogni partecipante possa avere fiducia nel comportamento altrui, concentrandosi sulle proprie mansioni99. Anzi, si è rilevato che il principio di affida95 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 152. 96 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 153 ss. 97 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 154 ss. 98 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 518. Questa ricostruzione è stata nitidamente tratteggiata da Cass. pen., sez. IV, 26 maggio 2006, n. 31462, Capobianchi e altri, in Cass. pen., 2008, p. 446 ss. nella quale si afferma che “il principio di affidamento può valere a delimitare il dovere di diligenza degli altri consociati qualora nella stuazione concreta non fossero riscontrabili circostanze particolari tali da fa prevedere e, cioè, da rendere più probabile, il verificarsi di violazioni della diligenza da parte del terzo”. In senso parzialmente differente v. L. RISICATO, L’attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L’obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, p. 40 secondo la quale l’essenza del principio di affidamento è strettamente collegata non tanto al perimetro generale della tipicità colposa quanto, piuttosto il cardine su cui ruota la funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p.: esso rappresenterebbe, infatti, il confine oltre il quale sussiste la compartecipazione criminosa. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 55 mento non delimita semplicemente il contenuto della regola cautelare, ma lo struttura, dovendo ritenersi vigente un vero e proprio “dovere di affidarsi”: l’affidamento è necessario, allo scopo di ottimizzare i risultati organizzativi, per cui, colui che partecipa ad un’attività svolta con divisione del lavoro, ha il dovere di affidarsi ai propri colleghi per poter esercitare al meglio le proprie mansioni100. Se non vi è dubbio, quindi, che la finalità ultima del principio sia quella di consentire ai partecipanti ad attività plurisoggettive di dedicarsi integralmente alle proprie attribuzioni, la stessa deve, nondimeno, essere bilanciata con la preminente esigenza della tutela della salute del paziente, che impone un coordinamento tra i vari professionisti che prendono parte all’atto medico. Proprio quest’ultima esigenza ha indotto la dottrina e la giurisprudenza ad individuare dei limiti all’operatività del principio di affidamento, tali per cui, in presenza di determinati presupposti, insorge (o permane) a carico del medico un dovere di controllo sull’operato dei colleghi (c.d. principio di affidamento temperato o relativo)101. Un primo limite al legittimo affidamento nell’operato dei colleghi deve essere ravvisato avendo riguardo al contenuto della regola cautelare. Con riferimento alla finalità preventiva delle regole cautelari, debbono, infatti, individuarsi regole (definite a contenuto bifasico o cumulativo)102 dirette, non tanto a scongiurare il verificarsi dell’evento lesivo, quanto piuttosto, a contenere la pericolosità della condotta di un altro sog99 P. AVECONE, La responsabilità penale del medico, Padova, 1981, p. 154 il quale osserva che “la sempre più necessaria specializzazione e l’opportunità di una precisa divisione dei compiti, associata ad un obbligo di concentrazione del medico nell’attività a lui affidata, fa si che, in linea generale, ognuno debba rispondere per il proprio fatto, senza ritenerlo obbligato contestualmente a studiare l’operato del collega per poter correggere eventuali errori, cosa questa che, a parte i ritardi e le disfunzioni che comporterebbe, certamente distrarrebbe il sanitario dai suoi compiti specifici”. Sul contenuto del principio di affidamento cfr. anche Cass. pen., sez. IV, 26 maggio 1999, n. 8006, Cattaneo ed altri, in Ragiusan, 2000, p. 227, in cui la Corte ha affermato che l’affidamento è il “principio secondo il quale ogni consociato può confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell’attività che di volta in volta è in esame, ed ognuno deve evitare unicamente i pericoli scaturenti dalla propria condotta”. 100 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1634 ss.; ID., Cooperazione e concause in ipotesi di trattamento sanitario “diacronicamente plurisoggettivo”, in Dir. pen. proc., 2001, p. 480. 101 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 217; F. MANTOVANI, La responsabilità del medico, in Riv. it. med. leg., 1980, p. 21; C. PARODI, V. NIZZA, La responsabilità, cit., p. 139; M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 155 ss.; ID., Sui limiti del principio di affidamento, in Indice pen., 1999, p. 1195 ss.; P. PIRAS, G.P. LUBINU, L’attività medica, cit., p. 306 ss. 102 Per la definizione, cfr. L. CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti (Parte II), in Indice pen., 2001, p. 1098. 56 CAPITOLO SECONDO getto103. Nell’ambito dell’attività medica, questa tipologia di regole cautelari si riscontra tendenzialmente in capo ai soggetti gerarchicamente sovraordinati, e quindi, in particolare, al primario e al capo-équipe, sui quali incombe, ex lege, un obbligo di verifica e controllo sulle attività svolte dal personale sanitario a loro sottoposto. Pertanto, questi sanitari non potranno, per andare esenti da responsabilità, invocare a loro favore l’operatività del principio di affidamento, ma dovranno fornire la prova di aver adempiuto al dovere di controllo su di loro incombente104. In tali ipotesi (ma solo in queste), quindi, il principio di affidamento cede il passo ad un obbligo di controllo che opera quale regola cautelare primaria, affiancandosi alle leges artis proprie dello specifico settore di attività. Non che, tuttavia, si possa parlare di una generale esclusione dell’operatività del principio di affidamento nei confronti del medici in posizione apicale. L’obbligo di controllo incombente sul medico gerarchicamente sovraordinato non deve, infatti, essere inteso come obbligo di vigilanza continuo e generale su tutte le attività compiute dai medici a lui sottoposti, perché, se così fosse, il medico non sarebbe più in grado di at103 Per la ricostruzione di questa categoria di regole cautelari cfr. F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 454; ID., La normatività della colpa, cit., p. 107, secondo il quale si tratta di norme la cui violazione dà luogo a responsabilità per culpa in vigilando e che concretizzano l’ipotesi di cooperazione colposa ex art. 113 c.p.; nonché L. CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti (Parte II), cit., p. 1098. 104 D. TASSINARI, Rischio penale e responsabilità professionale in medicina, in S. CANESTRARI, M.P. FANTINI (a cura di), La gestione del rischio in medicina. Profili di responsabilità nell’attività medico-chirugica, Trento, 2006, p. 42 il quale osserva che il dovere di controllo del medico in posizione apicale trova la propria fonte nell’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 e di conseguenza la sua violazione concretizza un’ipotesi di colpa specifica. Più in generale l’autore osserva che “nell’ambito della colpa c.d. specifica, i problemi connessi al principio di affidamento sono per lo più risolvibili facendo riferimento al contenuto stesso delle regole cautelari scritte che si assumono violate; esse, infatti, non di rado prevedono espressamente l’esistenza di obblighi preventivi rispetto all’operato di altre persone”. Inoltre A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove, cit., p. 257. Con riferimento al ruolo assunto dal capo-équipe in giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 2 aprile 2007, n. 21594, Scipioni e altro, in CED rv. 236726, nella quale la Corte, con riferimento alla responsabilità di un capo-équipe per gli errori commessi da due assistenti, ha affermato che “… al caso in esame vanno applicati con particolare rigore i principi afferenti alla sfera di responsabilità del chirurgo capo équipe, considerando che gli assistenti erano due sanitari ancora in formazione e quindi abbisognevoli di un accentuato controllo. I principi di cui si parla sono stati affermati ripetutamente da questa Corte e riguardano, tra l’altro, il dovere di sorveglianza e controllo nei confronti dell’assistente e l’obbligo di attivarsi per prevenire o correggere eventuali condotte errate. Proprio tale obbligo di sorveglianza e controllo limita fortemente, in tale ambito, la portata del principio di affidamento”. V. anche Cass. pen., sez. IV, 3 marzo 1988, n. 3904, Grassi, in Cass. pen., 1989, p. 607. Nello stesso senso, v. anche le sentenze che affrontano il problema del riparto di responsabilità tra medici e personale infermieristico. Così Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2005, n. 18568, Cloro ed altri, in CED rv. 231538; Cass. pen., sez. IV, 1 febbraio 1982, n. 6018, Berio, in Riv. pen., 1983, p. 345. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 57 tendere alle proprie mansioni e si finirebbe per esautorare il medico subalterno a cui, invece, la legge riconosce ampi spazi di autonomia105. La dottrina ha, quindi, ritenuto opportuno distinguere tra casi, c.d. “di difficile soluzione”, rispetto ai quali il dovere di controllo dovrebbe essere più stringente, tanto da imporre ai collaboratori di informare il primario prima di effettuare scelte terapeutiche, e casi, c.d. “di semplice soluzione” (o di routine), rispetto ai quali, invece, il medico in posizione apicale dovrebbe fare affidamento sull’operato dei propri collaboratori, non esimendosi, tuttavia, dall’informarsi sull’evoluzione della salute del paziente106. Nella medesima ottica dovrà essere valutato anche il profilo professionale del sanitario delegato ed il livello di “affiatamento” del gruppo, e di conseguenza maggiore dovrà essere la vigilanza del primario rispetto al medico in posizione iniziale, anche a prescindere da specifici segnali che consiglino di attivarsi107, e rispetto a collaboratori con i quali non abbia mai lavorato e di cui non conosca la effettiva preparazione e capacità tecniche108. Al di fuori delle ipotesi ora esaminate di obbligo di controllo connesso alla posizione assunta dal medico nell’ambito del gruppo, il princi105 Con riferimento al dovere di controllo del primario cfr. Cass. civ., sez. III, 25 febbraio 2005, n. 4058, in Mass. giust. civ., 2, ove si precisa che “il primario non può essere chiamato a rispondere di ogni evento dannoso che si verifichi, in sua assenza, all’interno del reparto affidato alla sua responsabilità, non essendo dal medesimo esigibile un controllo continuo e analitico di tutte le attività terapeutiche ivi attuate. Tuttavia, il suo dovere di vigilanza sull’attività del personale sanitario implica, quantomeno, che egli si procuri informazioni precise sulle iniziative intraprese dagli altri medici, cui il paziente sia stato affidato, ed indipendentemente dalla responsabilità degli stessi, con riguardo a possibili, e non del tutto imprevedibili, eventi che possono intervenire durante la degenza del paziente in relazione alle sue condizioni, allo scopo di adottare i provvedimenti richiesti da eventuali esigenze terapeutiche”. Si tratta, tuttavia, di sentenze isolate. Nella maggior parte dei casi, infatti, ai medici in posizione apicale viene chiesto un controllo constante e capillare sull’operato dei subalterni. 106 A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove, cit., p. 255 ss.; nonché V. ZANETTA, La colpevolezza coinvolge anche il primario che non «conosce» lo stato di salute dei pazienti, in Guida al dir., 2000, 3 giugno 2000, p. 28. Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Palermo, 16 luglio 2002, Florena, in Giur. mer., 2003, p. 327, secondo cui “il dovere di vigilanza e coordinamento del primario non si estende alle operazioni routinarie affidate agli altri medici”. 107 P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 199. 108 M. MARINUCCI, M. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 228, i quali richiamano i casi “in cui ad una determinata divisione o servizio ospedalieri vengano assegnati aiuti o assistenti, non noti precedentemente al primario (perché ad esempio, provenienti da altre sedi), bensì in quanto classificatisi come vincitori di pubblici concorsi. Vale a dire con un crisma almeno ufficiale di competenza tecnica, di idoneità comportamentale e così via, che possono effettivamente corrispondere a quanto dichiarato nei documenti concorsuali, oppure no”. Con specifico riguardo all’obbligo di controllo del capo-équipe v. E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 299, secondo il quale “una volta che il capo-équipe (prima dell’inizio dell’intervento chirurgico o del trattamento terapeutico) abbia ictu oculi constatato l’assenza di comportamenti colposi 58 CAPITOLO SECONDO pio di affidamento può subire dei temperamenti – in tal caso anche laddove si tratti di attività svolte da medici in posizione paritetica – all’insorgere di situazioni concrete che rendano prevedibile l’inosservanza delle norme precauzionali da parte dei colleghi. Se, quindi, normalmente il medico è tenuto ad osservare solo le proprie leges artis (c.d. dovere primario), può, tuttavia, insorgere un dovere secondario di controllo sull’operato altrui nel caso in cui vi siano circostanze concrete (quali ad esempio l’individuazione di un errore da parte del collega ovvero le sue cattive condizioni di salute ovvero la sua inesperienza) che facciano ritenere prevedibile un errore109. In questi casi, l’assenza di un legittimo affidamento determina la riespansione del dovere di diligenza, tale per cui il medico non è più tenuto semplicemente al rispetto delle regole cautelari che presiedono all’esercizio delle sue specifiche mansioni, ma altresì all’adozione di misure cautelari volte ad evitare ovvero ad emendare gli errori altrui (c.d. obblighi relazionali)110. La responsabilità del partecipante al trattamento diagnostico o terapeutico plurisoggettivo sarà, conseguentemente, esclusa, laddove il comportamento colposo del collega sia del già in atto e le buone condizioni psico-fisiche di tutti i componenti l’équipe, egli può invero concentrarsi indisturbato sul corretto svolgimento delle proprie mansioni senza preoccuparsi di dovere controllare l’operato altrui”. V. anche G. IADECOLA, La responsabilità medica nei più recenti orientamenti della Corte di Cassazione, in Riv. dir. prof. san., 2003, p. 18, il quale evidenzia che il controllo da parte del capo-équipe va ripetuto nel corso dell’intervento solo se si è in presenza di passaggi delicati. 109 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, p. 220, secondo i quali, peraltro, il dovere di controllo è sempre eventuale, non prendendo essi in considerazione l’ipotesi in cui detto dovere rientri già tra quelli incombenti sul medico in forza della posizione gerarchica da esso assunta nell’ambito dell’équipe. In giurisprudenza ha ricostruito il duplice fondamento del dovere di controllo Cass. pen., sez. IV, 8 aprile 1993, n. 3456, Gallo ed altro, in CED rv. 198445, nella quale i giudici hanno rilevato che “i rapporti tra partecipanti [all’équipe] debbono essere giudicati nell’ambito del criterio dell’affidamento, con il metro della delimitazione della responsabilità degli stessi in ragione e nei limiti dei loro compiti specifici. Ogni partecipante deve, in altri termini rispondere solo del corretto adempimento dei doveri di diligenza e di perizia inerenti ai compiti che gli sono affidati, perché solo in questo modo ciascun membro del gruppo è lasciato libero nell’interesse del paziente di adempiere in modo qualificato e responsabile alle proprie mansioni. Stabilire allora, se sussiste anche un obbligo di controllo e di sorveglianza dell’operato altrui dipende, da un lato – prima condizione/eccezione – dalla posizione gerarchica che ciascun partecipante occupa in seno all’équipe e, dall’altro – seconda condizione/eccezione – dall’esistenza di ragioni oggettive o soggettive che fanno dubitare del fatto che il terzo tenga un comportamento conforme a diligenza”. 110 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 74; C. CANTAGALLI, Brevi cenni sul dovere secondario di controllo e sul rilievo dello scioglimento anticipato dell’équipe in tema di responsabilità medica, in Cass. pen., 2006, p. 2841. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2005, n. 18548, Miranda, Riv. pen., 2006, p. 761, che ha affermato la responsabilità per omicidio colposo (morte del feto per insufficienza respiratoria) di un medico non specialista in ginecologia, componente dell’équipe che assisteva la partoriente, per non aver avvisato il medico IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 59 tutto imprevedibile non essendo emerso nel caso concreto alcuno di quegli indici fattuali, tali da rendere prevedibile l’errore altrui e conseguentemente far sorgere il dovere di controllo111. Sorge, quindi, innanzitutto, il problema di determinare come debba essere valutato, da un lato, il requisito della prevedibilità che, in questo caso attiene principalmente alla condotta negligente altrui e, solo in via mediata, all’evento lesivo, e, dall’altro il requisito della riconoscibilità dell’errore (v. infra § 10). Come noto, infatti, caratteristica intrinseca di ogni regola cautelare (e, quindi, anche di quella che si concretizza in un obbligo di controllo sull’operato altrui) è la prevedibilità ed evitabilità dell’evento: la regola cautelare (di matrice sociale o positivizzata) è quella che consente di prevedere l’evento lesivo e, conseguentemente, di evitarlo. Con riguardo al giudizio di prevedibilità occorre, quindi, interrogarsi se sia sufficiente la previsione di un generico errore da parte del collega ovvero se occorra la prevedibilità dello specifico comportamento colposo dello stesso da cui è scaturito l’evento lesivo (ad esempio erronea somministrazione di un farmaco, erronea lettura di un referto, recisione di un vaso durante l’intervento …). La questione non appare di poco momento, ove si consideri che una prevedibilità generica finirebbe per comportare una responsabilità pressoché certa del sanitario anche nei casi in cui dalle circostanze concrete non emergesse, ex ante, la prevedibilità dell’errore specificamente realizzato dal collega112. In questa sede non è possibile dare conto in modo ampio ed esauriente dei dibattiti concernenti la valutazione della prevedibilità. In termini sintetici appare necessario, tuttavia, rammentare che giurisprudenza e dottrina hanno orientamenti fortemente divergenti sul punto. Secondo il predominante orientamento giurisprudenziale, sviluppato soprattutto con riguardo alle malattie professionali (e, in particolare, alle morti da amianto), deve escludersi che il giudizio di prevedibilità debba essere rapportato all’evento così come storicamente si è verificato, essendo sufficiente l’accertamento che un evento del genere di quello prodottosi specialista – che procedeva secondo la tecnica del parto naturale – di una situazione che in modo evidente attestava lo stato di asfissia del feto ed imponeva l’immediato utilizzo della cardiotocografia, di un metodo strumentale che avrebbe permesso di rilevare con tempestività l’insorgere della sofferenza fetale, e di ricorrere al parto per via laparotomica. 111 Pret. Vibo Valentia - Tropea, 15 marzo 1999, Garuzzo, in Cass. pen., 1999, p. 3264. 112 G. MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 176, precisa che la regola precauzionale sganciata dal requisito della prevedibilità in concreto, finirebbe con l’avere a contenuto l’obbligo di fare tutto ciò che era assolutamente necessario ad evitare l’evento, assegnandosi, così a tale regolare avente lo stesso contenuto di una norma che addirittura “vietasse la pura e semplice causazione dell’evento lesivo”. 60 CAPITOLO SECONDO fosse prevedibile113. La dottrina, viceversa, anche nel tentativo di contenere la portata espansiva del giudizio di prevedibilità, è orientata nel senso che il giudizio di prevedibilità ed evitabilità debba attenere all’evento concretamente verificatosi114. La sostanziale indeterminatezza dei predetti limiti, che (in particolare quello concernente la prevedibilità dell’errore altrui) richiedono un accertamento caso per caso, ha, pian piano condotto, come chiaramente evidenzia la prassi giurisprudenziale (già più volte richiamata e meglio analizzata nel prosieguo), a sovvertire il meccanismo di regola/eccezione. Il continuo ampliamento dei casi in cui era prevedibile la condotta colposa altrui, nonché l’attribuzione al medico in posizione sovraordinata di un obbligo di controllo costante e capillare hanno, difatti, finito per svuotare di contenuto il principio in esame che è a poco a poco passato da regola ad eccezione115. I rischi connessi alla genericità dei predetti limiti erano, in effetti, stati paventati da autorevole dottrina che aveva tentato di individuare un criterio generale che permettesse di rifuggire il ricorso all’esame delle situazioni fattuali. Tale criterio è stato individuato nella distinzione tra doveri comuni e doveri divisi (su cui v. supra § 2.2) e sulla constatazione che solo con riferimento ai secondi potrebbe operare il principio di affidamento. Nel caso di doveri comuni, infatti, su ogni medico incombe un 113 Tra le sentenze più note che si sono occupate del problema della prevedibilità dell’evento, v. Pretura Torino, 9 febbraio 1995 e Corte d’Appello di Torino, sez. III, 15 ottobre 1996, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1447 ss., con nota di C. PIERGALLINI, Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di «diritto penale del rischio», p. 1473. Le due sentenze sono significative in quanto, in qualche modo prodromiche all’indirizzo che si affermerà nella giurisprudenza anche di legittimità. Il principio che in esse viene enucleato è sostanzialmente quello della “prevedibilità in astratto” in quanto si afferma che non è necessario che la prevedibilità e l’vitabilità abbiano ad oggetto la potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno, che non necessariamente deve essere quella che storicamente si è avverata. Nella giurisprudenza di legittimità v. Cass. pen., sez. IV, 6 dicembre 1990, n. 4793, Bonetti, cit.; Cass. pen., sez. IV, 30 marzo 2000, Camposanto, in Foro it., 2004, II, c. 69; Cass. pen., sez. IV, 6 febbraio 2007, n. 4675, Bartalini, in Cass. pen., 2009, p. 2837 ss., con nota di E. DI SALVO, Esposizione a sostanze nocive, leggi scientifiche e rapporto causale nella pronuncia della Cassazione sul caso “Porto Marghera”, p. 287 ss.; Cass. pen., sez. IV, 11 marzo 2010, n. 16761, Catalano, in Cass. pen., 2011, p. 95, con nota di A. VERRICO, Le insidie al rispetto di legalità e colpevolezza nella causalità e nella colpa: incertezze dogmatiche, deviazioni applicative, possibili confusioni e sovrapposizioni. 114 G. FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 378, secondo il quale “l’evento potrebbe essere imputato solo allorché l’agente […] abbia determinato un pericolo giuridicamente riprovato e questo pericolo si sia realizzato nell’evento tipico”; N. MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale. L’illecito commissivo doloso e colposo, Milano, 1983, p. 273. 115 Sulla “crisi” giurisprudenziale del principio di affidamento v. P. PIRAS, G.P. LUBINU, L’attività medica, cit., p. 309 ss.; G.A. DE FRANCESCO, L’imputazione della responsabilità penale in campo medico-chirurgico: un breve sguardo d’insieme, in Riv. it. med. leg., 2012, p. 953 ss. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 61 autonomo obbligo di garanzia per la tutela della salute del paziente, con la conseguenza che, perché si verifichi effettivamente la lesione del bene, è necessario che tutti i soggetti gravati da tale dovere lo violino. Ne consegue che il medico non potrà esentarsi da responsabilità penale assumendo di aver fatto affidamento sull’esatto adempimento delle leges artis da parte del collega, in quanto, in presenza di doveri comuni, non basterebbe la negligenza del collega per la realizzazione dell’evento, ma concorrerebbe quella di tutti i soggetti gravati dal dovere. In situazioni siffatte, quindi, la problematica circa l’esistenza o meno del dovere di previsione delle negligenze altrui verrebbe scavalcata, non bastando appunto la negligenza altrui a provocare la lesione del bene protetto116. La dottrina più recente è restia a ritenere detto criterio di per sé sufficiente a risolvere i problemi circa l’operatività del principio di affidamento. In tal senso, infatti, si osserva, in primo luogo, che non è sempre possibile distinguere con assoluta certezza un dovere comune da uno diviso, ed, in secondo luogo, che tale criterio sembra fallire proprio nel tentativo di eliminare gli elementi fattuali dall’indagine circa il principio di affidamento. Per poter individuare se il dovere è comune piuttosto che diviso è, infatti, comunque necessario indagare su quali siano i rapporti tra i sanitari che partecipano all’atto medico e quali le circostanze concrete in cui l’atto stesso si svolge, con la conseguenza che tale criterio non sembra aggiungere nulla di nuovo, rispetto a quello casistico117. Rimane da chiarire un ultimo aspetto circa l’operatività del principio di affidamento rispetto a condotte inosservanti già realizzatesi. Sotteso al 116 E. BELFIORE, 117 Significativo Profili penali, cit., p. 298. a tal proposito sembra l’esempio riportato in F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 172: prendendo le mosse dall’esame della dottrina tradizionale e soprattutto dal caso analizzato da E. BELFIORE, secondo il quale sul capoéquipe sorgerebbe un dovere comune di controllo nel caso in cui si accorgesse dell’esistenza di circostanze tali da far presumere negligenze da parte di un compartecipe, osservano che “analizzare le varie situazioni collaborative al fine di capire se esse comportino doveri comuni oppure divisi per i soggetti coinvolti non ci sembra, infatti, molto dissimile dall’analizzarle al fine di stabilire se sia applicabile o meno il principio di affidamento […]. Come, infatti, le condizioni psicofisiche precarie di un collaboratore comportano l’impossibilità per il chirurgo di fare su di esso affidamento, allo stesso modo comportano la trasformazione dei doveri coinvolti da divisi in comuni; di conseguenza comportano l’inapplicabilità dell’affidamento. Questo esempio sembra dimostrare come non solo debbano comunque essere considerati, per applicare il criterio proposto gli stessi elementi fattuali che condizionano l’applicabilità del principio di affidamento, ma – soprattutto – come i due percorsi conducano a identico risultato”. Sempre in termini critici circa il tentativo di portare il dibattito su un piano più astratto, slegato da criteri di natura fattuale, cfr. A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove, cit., p. 271, secondo il quale non pare così chiara la distinzione tra doveri comuni e divisi ed, inoltre, non sembra veritiera l’affermazione che i doveri comuni siano rari nell’attività medica plurisoggettiva. 62 CAPITOLO SECONDO principio di affidamento vi è, infatti, come visto, un concetto di aspettativa, il quale a sua volta evoca un accadimento necessariamente futuro. Di qui la difficoltà ad ammettere un impiego di tale principio anche con riferimento a condotte passate118. Invero, secondo dottrina e giurisprudenza, non sorgono particolari problemi nell’ammettere, anche in tali casi, la configurabilità di un legittimo affidamento, non potendosi ritenere che la discrasia tra il concetto di aspettativa e comportamento passato siano sufficienti per escludere l’operatività dello stesso, ove si precisi l’oggetto dell’aspettativa sottesa all’affidamento. In tal senso non appaiono esservi dubbi circa il fatto che oggetto dell’aspettativa, nel caso di divisione del lavoro, sia il rispetto delle regole cautelari da parte dei soggetti con i quali si interagisce. Regole cautelari che sono poste da una norma che ha la finalità preventiva (quindi rivolta al futuro) di evitare il pericolo che si realizzino eventi lesivi, comunque futuri rispetto alla posizione della norma stessa. Di talché, come nitidamente evidenziato in dottrina, “se ciò su cui si conta è l’osservanza di una norma, e questa norma fa riferimento ad un comportamento da tenersi nel futuro e per prevenire i pericoli che esso può trarre seco, se ne evince che il contare sul suo rispetto si traduce nell’attesa di un quid che, nell’ottica della norma, si può indubbiamente classificare come futuro: ciò anche se il comportamento preteso dalla norma medesima si deve assumere di fatto come già tenuto”119. 8. L’individuazione delle regole cautelari Come noto, il problema dell’individuazione della regola cautelare è stato affrontato dalla dottrina – sotto il peculiare profilo della conformità al principio di legalità – con riguardo, in particolare alla colpa generica. Le esigenze garantiste sottese al principio di legalità, ed in particolare al corollario della determinatezza, incidono sull’idealtipo dell’illecito colposo che postula l’esistenza di regole cautelari precostituite e conoscibili ex ante dal soggetto agente. Sennonché all’idealtipo si contrappone un assetto giurisprudenziale sostanzialmente invariato da decenni che tende a capovolgere la struttura dell’illecito, finendo per incentrare l’accertamento della violazione della regola cautelare sul disvalore di evento: il giudice (in genere attraverso l’ausilio dei periti) muove proprio dall’evento per ricostruire ex post il contenuto della regola cautelare, in taluni casi ricorrendo anche a conoscenze ulteriori e superiori successivamente disponibili, divenendo in tal 118 M. 119 M. MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni, cit., p. 1057. MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni, cit., p. 1058. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 63 modo creatore della regola120. Tale distorsione comporta un evidente scardinamento della tipicità dell’illecito colposo, derivante dall’imputazione di eventi assolutamente non prevedibili (e neppure pretendibili) alla luce del sapere disponibile al momento della condotta121. Occorre, peraltro, rimarcare che l’esigenza di predeterminazione della regola cautelare trova il proprio fondamento costituzionale non solo nel principio di legalità (anche se ciò sarebbe di per sé solo già sufficiente)122, ma anche in quelli di colpevolezza e nel diritto di difesa. Questi ultimi due profili non appaiono certamente di minor pregio rispetto alle esigenze di garanzia sottese al canone della legalità, poiché in tanto si può muovere un autentico rimprovero a taluno per non aver rispettato una regola cautelare, in quanto egli sia stato posto nella condizione di conoscere preventivamente quale sia il comportamento doveroso, e, d’altro canto, soltanto una compiuta enucleazione, sin dalle prime fasi del procedimento, della regola violata, consente al reo di approntare una compiuta linea difensiva anche in ordine alle prove da assumere123. La delicatezza della questione ben si evidenzia attraverso una lettura delle sentenze della giurisprudenza di legittimità, dalle quali emerge un 120 F. GIUNTA, La legalità della colpa, cit., p. 151 s. Sulla centralità nel sistema penale dell’evento e sulla necessità di superamento del modello del reato colposo d’evento v. L. EUSEBI, La prevenzione dell’evento non voluto. Elementi per una rivisitazione dogmatica dell’illecito colposo e del dolo eventuale, in Studi in onore di Mario Romano, 2011, II, pp. 963 ss. 121 Circa l’integrazione di regole cautelari ad opera di conoscenze scientifiche successive alla condotta, v. il noto caso del Petrolchimico di Porto Marghera conclusosi con la pronuncia di legittimità Cass. pen., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, Bartalini e altri, in Foro it., 2007, II, c. 550. Per una critica alla sentenza, soprattutto con riguardo al ricorso a conoscenze scientifiche successive per la determinazione delle spettro preventivo della regola cautelare, cfr. D. PULITANÒ, Colpa ed evoluzione del sapere scientifico, in Dir. pen. proc., 2008, p. 650 ss. Si veda inoltre, il commento alle due sentenze di merito di C. PIERGALLINI, Il paradigma della colpa nell’età del rischio: prove di resistenza del tipo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 1697 ss. 122 La collocazione della colpa non solo nell’ambito della colpevolezza, ma anche della tipicità del fatto fa si che, come osservato dalla Corte di Cassazione, al giudice spetti un compito non di integrazione giurisprudenziale delle fattispecie normative, ma, ai fini della colpa generica, di individuazione delle regole sociali pertinenti al caso concreto. In tal senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, cit. Anche la dottrina afferma questo imprescindibile principio in tema di responsabilità colposa. In particolare, F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 90 osserva che “attratta nell’orbita del fatto colposo, la regola cautelare condivide la duplice funzione di garanzia che la tipicità svolge, in modo equilibrato e simmetrico nei confronti del bene giuridico e del favor libertatis”. Ne consegue, quindi, che “la sua determinazione non può essere rimessa alla discrezionalità giudiziale, ma deve risultare pre-definita e riconoscibile ex ante dall’agente quale regola comportamentale astratta”. 123 Si è osservato che il principio di colpevolezza sarebbe violato anche nell’ipotesi in cui il meccanismo del rinvio fosse troppo intricato in quanto “il destinatario [del dovere di diligenza] rischierebbe di essere punito malgrado non gli si possa rimproverare la suddetta mancata conoscenza della norma: inconoscibile, lo si vuol ripeter, proprio perché inceppata nell’intricato meccanismo del rinvio”. In tal senso cfr. M. PETRONE, La costruzione della fatti- 64 CAPITOLO SECONDO orientamento, sostanzialmente monolitico, tendente ad escludere la rilevanza di qualsiasi questione attinente alla genericità dell’individuazione della regola cautelare. Sovente, infatti, si assiste a contestazioni di illeciti colposi in cui la regola cautelare è del tutto evanescente, a causa, da un lato, del semplice rinvio alla negligenza, imprudenza o imperizia, o, dall’altro, dell’enucleazione di regole cautelari scritte a cui si accompagna l’utilizzo di formule di chiusura omnicomprensive che rinviano, in modo del tutto generico, ancora una volta alla “negligenza, imprudenza, imperizia”. Tali prassi, come si evidenziava, sono avallate dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che non ritiene violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, di cui all’art. 521 c.p.p., nel caso di modifica della regola cautelare124. Alle difficoltà di conciliare la colpa generica con i principi costituzionali si accompagna anche il travaglio dottrinale e giurisprudenziale in merito al criterio da adottare per l’individuazione della regola cautelare125. Da un lato, coloro i quali, più sensibili proprio alle esigenze di tassatività e di predeterminazione della regola cautelare, ricorrono a criteri di matrice sociologica (quali gli usi e le prassi consolidate e diffuse). Gli usi, secondo questo orientamento (invero minoritario), in quanto generalmente riconosciuti, consentirebbero di evitare il ricorso al criterio (maggioritario) di tipo deontologico dell’agente modello che, determinando ex post la regola cautelare126, ha, per sua stessa natura, una vena accusatoria: l’agente modello (proprio perché “modello”) sarà sempre più diligente, perito e prudente dell’agente reale!127. Il ricorso agli usi per la ricostruzione del contenuto della regola cautelare è stato avallato anche dalla Corte costituzionale nella discussa senspecie penale mediante rinvio, in Studi in onore di Marcello Gallo, Scritti degli allievi, Torino, 2004, p. 151 ss. 124 Cass. pen., sez. III, 8 aprile 2010, n. 19741, in CED rv. 247171; Cass. pen., sez. IV, 17 novembre, 2005, n. 2393, Tucci e altri, in Arch. nuova proc. pen., 2007, 1, p. 132; Cass. pen., sez. IV, 4 maggio 2005, n. 38818, De Bona, in Guida dir., 2005, 47, p. 67; Cass. pen., sez. IV, 10 luglio 2001, n. 35820, Barbieri, in Riv. pen., 2002, p. 45. 125 Per una ricostruzione del dibattito cfr. D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., p. 291 ss. 126 Come osservato da F. GIUNTA, I tormentati rapporti tra colpa e regola cautelare, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 1296. In dottrina si evidenzia, altresì che vi è necessariamente un divario tra le conoscenze del perito del tribunale (che a posteriori ricostruisce la figura dell’agente modello) e il medico clinico. In tal senso cfr. D. MARCHETTI, D. BOSCO, A. ZAPPALÀ, Il medico legale e la deposizione orale nel processo penale. Strumenti per ragionare e per comunicare, Milano, 2005, p. 133 “a tale riguardo bisognerebbe sempre ricordarsi che il responso, spesso immediato, di fronte all’insorgere di una complicanza quasi mai avviene con al possibilità di consultare testi scientifici o di revisionare la letteratura specialistica”. 127 Di virtualità colpevoliste dell’agente modello parla F. GIUNTA, I tormentati rapporti, cit., p. 1295. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 65 tenza 25 luglio 1996, n. 312128. In quell’occasione la Corte era chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 41, comma 1, d.lgs. 277 del 1991, in materia di protezione dei lavoratori dal rumore, per violazione del principio di legalità a causa della ritenuta genericità dell’obbligo imposto al datore di lavoro, sintetizzato nella locuzione “mediante misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente attuabili”. Nel rigettare la questione di legittimità costituzionale la Corte ha precisato che la predetta locuzione deve essere interpretata nel senso che le misure “concretamente attuabili” corrispondono ad “applicazioni tecnologiche generalmente praticate” nello specifico settore industriale. Di segno contrario sono, tuttavia, le posizioni espresse da dottrina e giurisprudenza prevalenti, secondo le quali il ricorso agli usi, pur garantendo la predeterminazione della regola cautelare, nondimeno conduce al rischio dell’introduzione di livelli di diligenza sempre più bassi129. Si propone, quindi, il ricorso a criteri di matrice deontologica (quali l’agente modello o la miglior scienza) in forza dei quali la diligenza esigibile non si misura su ciò che viene usualmente fatto, ma su ciò che deve essere fatto in relazione alle misure tecnicamente esistenti, in un dato momento storico, capaci di ridurre al minimo i rischi connessi all’attività pericolosa. La prassi generalmente seguita, infatti, può non coincidere con lo standard di diligenza richiesto ad un uomo ragionevolmente prudente, mentre i predetti criteri di matrice deontologica imporrebbero al soggetto un continuo adeguamento alle nuove acquisizioni, con un conseguente innalzamento degli standards di diligenza130. Non si può, tuttavia, ritenere che tale innalzamento degli standards di diligenza possa spingersi sino a chiedere al soggetto di adeguare le proprie conoscenze a quelle degli specialisti: le conoscenze rilevanti, come sottolineato in dottrina, sono solo quelle che costituiscono, a partire da un certo momento storico, patrimonio diffuso131. 128 Corte cost., 25 luglio 1996, n. 312, 129 In questo senso cfr., in particolare, in Giur. cost., 1996, p. 2575 ss. G. MARINUCCI, La colpa per inosservanza, cit., p. 179; ID., Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di adeguamento delle regole di diligenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 35 ss., in cui è riportato un ampio excursus degli orientamenti dottrinali nei più importanti ordinamenti di civil e common law. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. IV, 1 aprile 2010, n. 20047, in Foro it., 2010, 9, 2, c. 429, con nota di R. GUARINIELLO; Cass. pen., sez. IV, 18 aprile 2008, n. 22187, in Ragiusan, 2008, 295296; Cass. pen., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, Bartalini e altri, cit.; Cass. pen., sez. III, 11 aprile 1992, n. 4488, Quaini, in Dir. prat. lav., 1992, p. 1769 ss. 130 G. MARINUCCI, Innovazioni tecnologiche, cit., p. 40 ss. L’Autore precisa che “la diligenza esigibile si ricava non da quel che si usa fare nello svolgimento di questa o quella attività, bensì da quel che si poteva pretendere anche in termine di sopportazione dei costi economici, fini alla rinuncia dell’attività, dall’homo ejusdem condicionis et professionis”. 66 CAPITOLO SECONDO 8.1. La progressiva procedimentalizzazione dell’attività medico-chirurgica La natura “aperta” della colpa generica consente, quindi, alla giurisprudenza di individuare quasi sempre, appunto a posteriori, una regola la cui osservanza avrebbe impedito il verificarsi dell’evento e, nel caso di attività plurisoggettiva, una situazione che avrebbe richiesto un intervento correttivo sull’operato del collega. Non stupisce, quindi, l’atteggiamento di favore con cui gli interpreti hanno accolto il fenomeno di progressiva positivizzazione, nel campo dell’attività medica (ma anche della sicurezza sul lavoro), delle regole cautelari, tanto da affermare che si assiste ad uno sconfinamento, in tali ambiti, della colpa generica verso la colpa specifica132. L’importanza del fenomeno di positivizzazione delle regole cautelari è innegabile, anche se, come si evidenzierà nel prosieguo con riguardo specifico all’attività medica, non si ritiene possa realmente parlarsi di un effettivo scardinamento della colpa generica, con conseguente soluzione di tutte le questioni attinenti alla predeterminazione della regola cautelare sopra richiamate. Nel campo medico si sono via via venuti diffondendo strumenti, quali le linee-guida, i protocolli e le check-lists, volti a codificare, seppure con modalità e finalità differenti, il sapere medico ed a procedimentalizzare l’attività133. In particolare, le linee guida – secondo la definizione ormai più accreditata, frutto dell’elaborazione dell’Insitute of Medicine statunitense – sono raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate, mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni di esperti, allo scopo di aiutare le decisioni del medico e del paziente riguardo alle cure sanitarie più adatte nelle specifiche circostanze cliniche134. Esse, in sostanza, sono un percorso diagnostico ideale che 131 G. MARINUCCI, Innovazioni tecnologiche, cit., p. 49 ss. Questa tesi è accolta anche dalla Corte di Cassazione in Cass. pen., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, cit., pur con la precisazione che “l’agente ha un obbligo di informazione in relazione alle più recenti acquisizioni scientifiche anche se non ancora patrimonio comune e anche se non applicate nel circolo di riferimento a meno che si tratti di studi isolati ancora privi di conferma”. 132 Afferma che è anacronistico continuare a parlare di colpa generica V. ATTILI, L’agente-modello nell’era della complessità: tramonto, eclissi o trasfigurazione?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 1240. 133 Sulla procedimentalizzazione di molte attività e, in particolare, di quella medica v. F. GIUNTA, Protocolli medici e colpa penale secondo il «decreto Balduzzi», in Riv. it. med. leg., 2013, p. 820. 134 Di recente le linee guida sono state così definite dalla Suprema Corte “costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato, metabolizzato, reso disponibile in forma condensata, in modo che possa costituire un’utile guida per orientare agevolmente, in IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 67 viene suggerito per agevolare i medici nel decidere quali siano le modalità di assistenza più adeguate135 ed hanno, quindi, l’obiettivo fondamentale di ridurre al minimo quella parte di variabilità nelle decisioni cliniche legata alla carenza di conoscenze ed alla soggettività nella scelta delle strategie assistenziali. Emerge, quindi, una delle prime caratteristiche delle linee guida: si tratta sostanzialmente di strumenti di indirizzo, privi, pertanto, di vincolatività nei confronti del medico. Nella dottrina medico legale si è sottolineato che “non si tratta di ordini calati dall’alto, categorici e definitivi, ma di suggerimenti, di indirizzi motivati ed intesi a tener conto di tutte le istanze talora confliggenti, quali emergono dal mondo dei sanitari, dei pazienti, degli amministratori, dei giuristi”136. D’altro canto, la vincolatività delle linee guida sarebbe incompatibile, da un lato, con la natura dell’attività medico-chirurgica, rispetto alla quale non è possibile standardizzare i rischi, con la conseguenza che la regola contenuta nella linea guida, e, dall’altro, con le esigenze di celerità del progresso scientifico. Le linee guida, quindi, dovrebbero di volta in volta adeguarsi alle peculiarità del caso concreto137 e dovrebbero, in tempi particolarmente ridotti, adeguarsi alle nuove scoperte. Così definite, le linee guida si differenziano da altri strumenti quali, ad esempio, i protocolli, ovvero schemi di comportamento diagnostico o terapeutico predefiniti e vincolanti – generalmente coincidenti con gli usi cautelari diffusi in un determinato contesto spazio-temporale – cui il medico deve pedissequamente attenersi nell’esercizio di una determinata attività138. Alla categoria dei protocolli sono riconducibili anche le c.d. chek-limodo efficiente ed appropriato, le decisioni terapeutiche”. In tal senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di F. VIGANÒ, Linee guida, sapere scientifico e responsabilità in una importante sentenza della Cassazione. 135 M.J. FIELD, K.N. LOHR, Guidelines for clinical practice: from development to use, Washington, Institute of Medicine, 1992, p. 35. La definizione è ripresa da P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 175. 136 M. PORTIGLIATTI BARBOS, Le linee-guida nell’esercizio della pratica clinica, in Dir. pen. proc., 1996, p. 891. 137 La dottrina medico legale sottolinea che le linee guida non possono essere considerate alla stregua di rigidi precetti, ma come indicazioni operative di massima che la situazione clinica del singolo caso può, di volta in volta, imporre di accantonare. In tal senso cfr. F. BUZZI, Formulazione e comunicazione della diagnosi: aspetti medico legali e risvolti deontologici, in Riv. it. med. leg., 2005, p. 32. Sui limiti delle linee guida v. O. Di GIOVINE, La responsabilità penale del medico: dalle regole ai casi, in Riv. it. med. leg., 2013, pp. 61 ss. 138 Sulla differenza tra linee guida e protocolli cfr. F. GIUNTA, voce Medico, cit., p. 881; nonché P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 180. 68 CAPITOLO SECONDO sts, vere e proprie liste di controlli e di procedure da eseguire che permettono, attraverso la “spunta” dei passaggi precedentemente effettuati, di verificare i diversi momenti di un’attività complessa. Interessante l’elaborazione teorica, e la spinta verso l’utilizzo di questi strumenti, da parte del medico indiano dell’Organizzazione mondiale della Sanità Atul Gawande, secondo il quale le check-lists sono un sistema di gestione della sicurezza dei pazienti contro la fallacia della memoria e l’omissione di alcuni passaggi nello svolgimento di attività139. Le linee guida, ed ancor più i protocolli e le check lists, si presentano, quindi, quali strumenti di particolare rilevanza nelle attività plurisoggettive, in quanto regolamentano i profili di interazione fra professionisti, individuandone anche compiti e mansioni. Ma, più in generale, la codificazione della regola cautelare presenta innegabili vantaggi anche in punto di determinatezza e di accertamento della colpa. Essa, infatti, proprio in quanto predeterminata, è conoscibile ex ante dal soggetto agente e fa si che il giudice diventi effettivamente fruitore, e non facitore, della stessa140, eliminando, in punto di accertamento della responsabilità colposa, il ricorso all’agente modello ovvero agli usi che, come visto, tanti interrogativi hanno suscitato in dottrina. D’altro canto, la previsione scritta della regola di cautela consente anche una contestazione certa dell’addebito colposo, con conseguente possibilità di meglio delimitare il thema probandum ed i conseguenti mezzi di prova. 139 M.A. GAWANDE, Checklist. Come fare andare meglio le cose, Torino, 2011, p. 37, il quale osserva che “le checklis […] ci ricordano il minimo di operazioni necessarie e le rendono esplicite. Oltre a facilitare le verifiche instillano una sorta di disciplina per prestazioni più elevate”. Segnala l’importanza delle check lists L. EUSEBI, Il diritto penale di fronte alla malattia, in L. FIORAVANTI (a cura di), La tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano, 2011, p. 142. L’Autore, in particolare, evidenzia che l’introduzione di queste forme di “regolamento di reparto” potrebbe indurre “le istituzioni sanitarie a costruire, in una logica non lontana, da quella dei compliance programs nel diritto penale dell’economia, strutture di controllo interno intese a far emergere gli errori medesimi (ma anche i casi di successo e di esito infausto rispetto al tipo di patologie affrontate, i criteri di selezione dell’accesso alle terapie ed ogni altro dato significativo riguardante il lavoro delle unità operative mediche), contribuendo a quella correttezza di rapporto e di informazione verso i pazienti attuali e potenziali che costituisce il senso più autentico secondo cui dovrebbe sostanziarsi il superamento del c.d. paternalismo medico”. 140 In questo senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 6 giugno 2000, Fratta, in Cass pen., 2001, p. 1217, secondo cui “in tema di colpa, posto che il giudice non è facitore di norme ma solo fruitore, il giudizio di rimproverabilità di una data condotta non può essere formulato su congetture personali, su criteri soggettivi e, quindi, arbitrari, ma deve fondarsi su regole preesistenti e certe, conosciute – conoscibili – dall’agente siccome conformi a condotte generalmente adottate di prudenza, diligenza, perizia”. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 69 8.2. In particolare: il sistema delle linee guida Se è pur vero che le linee guida hanno assunto un peso sempre maggiore nell’attività medica e nell’ambito dei procedimenti penali per medical malpractice – tanto da aver costituito nel 2012 oggetto di un provvedimento normativo (v. infra § 8.4) – nondimeno le stesse, allo stato attuale, presentano ancora numerosi limiti che, in taluni casi, finiscono per inficiarne, addirittura, l’effettiva valenza di regole cautelari. A tal riguardo, occorre, innanzitutto, sottolineare che la portata cautelare delle linee guida e la loro utilizzabilità nel processo penale dipende dall’autorevolezza della fonte di produzione. Come noto, il movimento delle linee guida nasce negli Stati Uniti intorno agli anni ’70 sotto l’egida di società scientifiche ed assicurazioni, con finalità non solo terapeutiche, ma anche, o soprattutto, economiche. Solo in un secondo momento si procede all’adozione di linee guida istituzionali, con la costituzione di organismi il cui compito è quello di coordinarne lo sviluppo anche attraverso la gestione di sistemi di banche dati141. Anche in Italia si assiste alla progressiva introduzione di un sistema istituzionalizzato e pubblico di sviluppo delle linee guida attraverso il Programma Nazionale per le linee guida, previsto dal Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 e dal d.l. 229 del 1999, che ha, appunto, lo scopo di preparare, divulgare, aggiornare ed implementare questo strumento. In tale contesto normativo, il Ministero della Salute ha istituito, con d.m. 30 giugno 2004, presso l’Istituto Superiore di Sanità, il Sistema Nazionale Linee Guida, a cui è attribuito il compito di elaborare raccomandazioni di comportamento clinico evidence based. La banca dati del Sistema Nazionale, liberamente accessibile in internet, ha, in sostanza, lo scopo di individuare linee guida che per ogni patologia descrivono le alternative disponibili e le relative possibilità di successo, in modo che il medico possa orientarsi nella gran quantità di informazione scientifica in circolazione, il paziente abbia modo di esprimere consapevolmente le proprie preferenze e l’amministratore possa compiere scelte razionali in rapporto agli obiettivi e alle priorità locali. Nella medesima banca dati vengono, inoltre, raggruppate – sempre con il medesimo metodo di accreditamento – anche le linee guida adottate dai Servizi Sanitari Regionali. Continuano, nondimeno, a coesistere accanto al predetto sistema istituzionalizzato, anche linee guida prodotte da società scientifiche na141 Per una ricostruzione delle origini delle linee guida e delle fonti delle stesse A.R. DI LANDRO, Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa penale nel settore sanitario. Misura oggettiva e soggettiva della malpractice, Torino, 2012, p. 26 ss. 70 CAPITOLO SECONDO zionali o internazionali e linee guida adottate dalle singole Aziende Sanitarie o da singoli Dipartimenti. La pluralità e la diversa autorevolezza delle fonti di produzione delle linee guida – persistente tutt’oggi nonostante la progressiva introduzione di un sistema istituzionalizzato – rappresenta, indubbiamente, uno dei principali limiti alla loro utilizzabilità in ambito processuale per fondare un giudizio di colpa: può accadere, infatti, che rispetto al medesimo trattamento diagnostico o terapeutico esistano plurime linee guida, magari parimenti autorevoli ed accreditate nella comunità scientifica. D’altro canto, la valutazione dell’adeguatezza della linea guida presuppone che gli estensori indichino compiutamente il metodo utilizzato (evidenze cliniche, composizione del gruppo, randomizzazione) e gli orientamenti clinici raccomandati (tipologie di pazienti destinatari, benefici e rischi attesi, terapie alternative, costi, oneri organizzativi, ecc.)142. Strettamente connesso al tema dell’autorevolezza delle linee guida è quello del loro grado di imperatività e sedimentazione. Alcuni studi di settore hanno evidenziato che le linee guida non sempre hanno elevati livelli di adesione, con conseguente riduzione del grado di imperatività. La scarsa adesione alle linee guida può dipendere da svariati fattori, tra i quali, in particolare, la ridotta conoscenza delle stesse da parte dei sanitari, la ritenuta inapplicabilità al caso concreto ovvero la non condivisione della linea guida (ciò evidentemente, dipenderà anche dal grado di autorevolezza della fonte). Quest’ultimo profilo, peraltro, è influenzato anche dai lunghi tempi di sedimentazione delle linee guida: dapprima, infatti, esse debbono diffondersi ed essere accolte e, successivamente, è necessario che i medici modifichino il proprio comportamento nel senso indicato dalla linea guida143. Ultimo profilo di non poco momento attiene al contenuto ed al grado di diligenza adottato dalle linee guida. Talvolta, infatti, esse individuano il miglior trattamento terapeutico, altre volte, invece, si limitano ad individuare lo standard minimo, facendo riferimento non tanto alle cure ottimali, ma a quelle generalmente praticate. Entrambe le scelte presentano, invero, dei limiti. Il riconoscimento di efficacia cautelare alle sole linee guida che adottino il parametro della miglior scienza avrebbe, infatti, il pregio di garantire al meglio la funzione di tutela dei beni giuridici e pedagogica delle regole cautelari, ma avrebbe, per converso, il limite – chiedendo standards elevati di diligenza – di non considerare la realtà fattuale in cui i sanitari si trovano ad operare e potrebbe, quindi, 142 M. PROTIGLIATTI BARBOS, Le linee-guida, cit., p. 891 143 A.R. DI LANDRO, Dalle linee guida, cit., p. 66 ss. s. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 71 alimentare – in ottica difensiva – la fuga dalle stesse (pensiamo non solo alla peculiarità del caso concreto, ma anche alle effettive competenze professionali del medico – specializzando, piuttosto che dirigente di struttura complessa – nonché alle strutture nelle quali opera)144. Dall’altro lato, nondimeno, la scelta di standards medio-bassi presenta l’innegabile rischio di un progressivo appiattimento verso il basso delle prestazioni dei sanitari. Un minor grado di affidabilità – sempre con riferimento al contenuto – deve, inoltre, riconoscersi alle linee guida fondate sul consenso di un gruppo di esperti rispetto a quelle fondate su evidenze scientifiche emerse da sperimentazioni cliniche controllate (Evidence Based Medicine - EBM). Nonostante il maggior grado di oggettività – in quanto non influenzate da interessi particolari di cui possono essere portatori gli esperti che concordano le posizioni su una determinata materia – le linee guida EBM sono poco diffuse a causa dell’assenza di validi trials clinici e, quindi, di evidenze scientifiche esaustive, per numerose patologie e attività diagnostiche e terapeutiche145. Sovente, peraltro, le linee guida sono prive di un contenuto autenticamente cautelare. Esse, infatti, mirano a ridurre il divario tra conoscenza scientifica e pratica clinica, a conseguire miglioramenti della pratica clinica o, semplicemente a ricondurre le variazioni di trattamento, riscontrate nella prassi, entro un binario unico. Per questo motivo le linee guida sono costruite in funzione di un effetto tipicamente clinico o terapeutico e non già, di prevedibilità ed evitabilità dell’evento infausto per il paziente, come, invece dovrebbe essere se si trattasse di regola cautelare. Non mancano, infine, linee guida che si prefiggono scopi diversi da quelli della diffusione di metodi uniformi di comportamento per la diagnosi e la terapia, essendo governate da scopi – talvolta esclusivi – di riduzione della spesa sanitaria e prive, quindi, di contenuto autenticamente cautelare146. 144 A.R. DI LANDRO, 145 A.R. DI LANDRO, 146 Sulle linee guida Dalle linee guida, cit., p. 63. Dalle linee guida, cit., p. 151. fondate su logiche prettamente mercantili v. Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2011, n. 8254, Grassini, in Dir. pen. proc., 2011, p. 1227; Cass. pen., sez. IV, 1 febbraio 2012, n. 4391, Di Lella, in Cass. pen., 2012, p. 2069, in cui si evidenzia che “… spesso le linee guida sono frutto di scelte totalmente economicistiche, sono ciniche o pigre; e, dunque, non è detto che una linea guida sia un punto di approdo definitivo. Alcune volte le linee guida sono obsolete o inefficaci e, dunque, anche sulle linee guida occorre posare uno sguardo speciale, occorre attenzione e cautela; le linee guida non sono – da sole – la soluzione dei problemi …”. 72 CAPITOLO SECONDO 8.3. Formalizzazione delle regole cautelari e colpa generica residua Da tempo si discute circa la possibilità che il progressivo diffondersi delle linee guida e dei protocolli abbia comportato l’affermazione di regole cautelari scritte ed il conseguente travalicamento, nel campo della responsabilità medica, della colpa generica nella colpa specifica. Ciò, come già evidenziato (v. supra § 8.1.), comporterebbe indubbiamente maggiori garanzie in termini di tassatività della colpa e minori incertezze nel momento dell’accertamento giudiziale, essendo, sotto il profilo oggettivo, possibile affermare la penale responsabilità per i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p. in conseguenza della mera violazione di linee guida. D’altro canto, il rischio insito in tale sistema sarebbe quello di un’oggettivizzazione della responsabilità colposa nella quale, “accontentandosi” dell’accertata violazione della linea guida-regola cautelare si prescinda dalla verifica circa l’attribuibilità di tale violazione al soggetto. L’attribuzione personale dell’illecito colposo, ex art. 27 Cost., impone comunque al giudice di accertare che l’evento sia eziologicamente connesso alla violazione della linea guida (c.d. causalità della colpa); che le linee guida fossero effettivamente volte a prevenire quello specifico evento poi concretamente verificatosi (c.d. nesso di rischio); che l’evento non si sarebbe verificato con il rispetto della regola cautelare e, quindi, che con il ispetto della regola fosse prevedibile ed evitabile l’evento lesivo (c.d. comportamento alternativo lecito). Tutti i benefici di una predeterminazione della regola cautelare sarebbero, infatti, vanificati se poi, in sede di accertamento, il giudice si limitasse a constatare (come, purtroppo sovente ancora avviene nella giurisprudenza italiana) la sola violazione della regola cautelare, ritenendo la stessa assorbente e preminente rispetto alla verifica dell’attribuibilità di quella violazione al soggetto agente. Parte della dottrina è favorevole a ritenere che linee guida e protocolli siano idonei a fondare ipotesi di colpa specifica in quanto riconducibili alla nozione di “discipline” di cui all’art. 43 c.p. Le “discipline”, infatti, sarebbero norme generali, emanate non solo da Autorità pubbliche, ma anche private, allo scopo di fissare determinate regole di comportamento nell’esercizio di un certo tipo di attività147. Così formulato, quindi, l’art. 43 c.p. consente di dare rilievo a fonti subnormative (a cui possono essere ricondotte non solo le linee guida o i protocolli, ma anche le pre147 In tal senso v. P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 182 s. V. inoltre G. IADECOLA, Il valore “dell’opinione” dell’ordine professionale e delle società scientifiche nel contenzioso penale, in Riv. it. med. leg., 2001, p. 11; P. PIRAS, A. CARBONI, Linee guida e colpa specifica del medico, in Medicina e diritto penale, cit., p. 289. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 73 scrizioni del codice deontologico) o a regole di condotta professionale affermate e ritenute valide nell’ambito della comunità scientifica148. Sennonché, le criticità sopra richiamate inducono ad escludere che la diffusione delle linee guida abbia condotto ad un progressivo sconfinamento in ambito sanitario della colpa generica nella colpa specifica. Il tentativo di ricondurre le linee guida all’ambito della colpa specifica – attraverso una loro inclusione nelle “discipline” dell’art. 43 c.p. – si arresta di fronte al profilo dell’assenza di vincolatività delle linee guida. Si è, infatti, sopra evidenziato che le linee guida costituiscono solo dei parametri di comportamento non vincolanti per il medico, il quale mantiene l’assoluta libertà di scelta in ordine al trattamento diagnostico e terapeutico più adeguato al caso concreto. D’altronde, proprio la peculiarità dell’attività medica impedisce una precostituita e vincolante individuazione della regola che escluda qualsiasi valutazione dell’operatore e qualsiasi adeguamento alle peculiari caratteristiche del caso individuale149. Anche nell’ipotesi in cui, pertanto, si volesse riconoscere alla singola linea guida la valenza di regola cautelare scritta (perché rispettosa di tutti i principi sopra richiamati in tema di autorevolezza della fonte, di sedimentazione, di contenuto e grado di diligenza), essa si caratterizzerebbe, comunque, vista l’assenza di vincolatività, per la sua elasticità e, quindi, per la permanenza di margini di colpa generica che imporrebbero, in sede di accertamento, il ricorso all’agente modello. In tal senso si è sempre espressa la giurisprudenza, la quale ha affermato il principio secondo cui tanto l’osservanza delle linee guida quanto la loro deroga può essere fonte di responsabilità colposa in capo al medico laddove si ravvisi che le contingenze del caso concreto avrebbero richiesto un diverso comportamento150. 148 G. IADECOLA, Il 149 In tal senso cfr. 150 Cass. pen., sez. valore, cit., p. 11. anche Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit. IV, 11 luglio 2012, n. 35922, Ingrassia, in Dir. pen. proc., 2012, p. 191, ha ricostruito i principi in materia affermando che le linee guida “non possono fornire indicazioni di valore assoluto ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale responsabilità del sanitario, sia per la libertà di cura, che caratterizza l’attività del medico […], sia perché […] in taluni casi, le linee guida possono essere indubbiamente influenzate da preoccupazioni legate al contenimento dei costi sanitari oppure si palesano obiettivamente controverse, non unanimemente condivise oppure non rispondenti ai progressi nelle more verificatisi nella cura della patologia”. La decisione ha, inoltre, sancito che: a) pur nel rispetto delle linee guida rimane la possibilità per il Giudice di valutare la condotta del medico alla luce del parametro dell’agente modello e di criticarne l’appiattimento alle linee guida; b) le linee guida che possono avere rilevanza nell’accertamento della responsabilità colposa sono solo quelle che fanno riferimento a standards elevati di diligenza, conformi alla miglior scienza ed esperienza. Nello stesso senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2011, n. 8254, in Dir. pen. proc., 2011, p. 547, in cui la Corte ha affermato il principio secondo cui “non esime da colpa il medico il rispetto di 74 CAPITOLO SECONDO Ciò, naturalmente, è ancor più vero con riguardo a linee guida non esaustive (che mantengono cioè margini di incertezza in quanto indicano un comportamento che, però, è da determinarsi in base a circostanze concrete), di linee guida che perseguono, prevalentemente, obiettivi di riduzione della spesa o di linee guida obsolete. Anche in tal caso la giurisprudenza ha escluso che il rispetto di standards comportamentali che abbiano quale scopo unico, o comunque prevalente, quello della riduzione dei costi sia idoneo ad escludere la responsabilità penale del sanitario per esiti infausti. In una recente decisione, pur non facendo diretta applicazione delle linee guida, la Suprema Corte ha, infatti, osservato che “le linee guida ed i protocolli sono, in talune situazioni, in grado di offrire delle indicazioni e dei punti di riferimento. Tuttavia, anche in questa materia, vi sono dei rilevanti problemi, perché occorre comprendere qual è la logica nella quale si è formata una prassi di comportamento, perché spesso le linee guida sono frutto di scelte totalmente economicistiche, sono ciniche o pigre, e dunque non è detto che una linea guida sia un punto di approdo definitivo. A volte le linee guida sono obsolete o inefficaci e, dunque, anche sulle linee guida occorre posare uno sguardo speciale, occorre attenzione e cautela; le linee guida non sono la soluzione dei problemi”151. Il discorso potrebbe, invece, essere differente per quanto concerne i protocolli. Questi ultimi strumenti, infatti, a differenza delle linee guida, si caratterizzano per il loro grado di precisione e di vincolatività e, soprattutto per i contenuti autenticamente preventivi che consentono, quindi, una più ampia riconducibilità alla nozione di “disciplina” e, soprattutto, di regola cautelare di cui all’art. 43 c.p. 8.4. Linee guida, protocolli e colpa grave: l’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (c.d. decreto Balduzzi) L’art. 3, comma 1, d.l 13 settembre 2012, n. 158 “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello linee guida che antepongono ragioni economiche a ragioni di tutela della salute che siano in contrasto con esigenze di cura del paziente. La Corte precisa, altresì, che non può andare esente da colpa il medico che si lasci condizionare dalle linee guida, rinunciando al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico”. Non sono mancate pronunce in cui la Corte di Cassazione ha posto, invece, il mancato adeguamento alle linee guida come fonte di responsabilità colposa del sanitario. In tal senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 12 luglio 2011, n. 34729, Ravasio, in CED rv. 251348. Per un excursus sul ruolo delle linee guida nella giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del decreto Balduzzi v. G. ROTOLO, Guidelines e leges artis in ambito medico, in Riv. it. med. leg., 2013, p. 281; M. CAPUTO, Filo d’Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica, in Riv. it.dir. proc. pen., 2012, p. 875 ss. 151 Cass. pen., sez. IV, 1 febbraio 2012, n. 4391, P.C., in CED rv. 251941. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 75 di tutela della salute”, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189, dispone che “l’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. La disposizione, in sostanza, prevede l’esclusione della responsabilità penale del sanitario che abbia osservato, nel corso dell’esercizio della propria attività, linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e, ciononostante, si sia verificato un evento lesivo ai danni del paziente. Due sembrano essere, secondo le prime ricostruzioni giurisprudenziali, i casi astrattamente riconducibili alla norma in esame: da un lato, quello del sanitario che si adegui alle linee guida e che, invece, avrebbe dovuto discostarsene in relazione alla valutazione della situazione concreta; dall’altro, quello del sanitario che commetta un errore proprio nella fase di adattamento delle direttive di massima alle peculiarità che si prospettano nello specifico caso clinico152. In entrambe le ipotesi la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria è esclusa se si è in presenza di una colpa lieve e, quindi, di un errore non macroscopico o di un caso di particolare complessità. A discapito di una formulazione apparentemente contraddittoria (il sanitario verserebbe in colpa nonostante il rispetto delle linee guida)153, la norma, in realtà altro non fa se non accogliere, implicitamente, il principio, fin qui monoliticamente affermatosi in dottrina e giurisprudenza, secondo cui il rispetto delle linee guida non esclude automaticamente la responsabilità penale, essendo necessario comunque verificare se il medico, per le concrete circostanze in cui si è trovato ad operare, avesse l’obbligo di non applicarle. Ciò, d’altro canto, è connaturale alla natura delle linee guida che, come sopra evidenziato, fungono da mere direttrici di comportamento, imponendo, comunque, al medico di rapportarle alla concreta situazione clinica. L’art. 3 d.l. n. 158 del 2012 costituisce innegabilmente un novum nel panorama giuridico interno, in quanto, per la prima volta, riconosce espressamente la rilevanza, in ambito penale, della distinzione tra colpa lieve e grave, e valorizza il sistema delle linee guida, facendolo assurgere a parametro per stabilire il quantum di diligenza esigibile dal medico154. 152 In tal senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit. 153 P. PIRAS, In culpa sine culpa, in www.penalecontemporaneo.it. 154 In questo senso v. anche G. ROTOLO, Guidelines e leges artis, cit., p. 278 il quale evidenzia, altresì, che il dato normativo sembra avanzare in sede legislativa una soluzione per le 76 CAPITOLO SECONDO Sotto il primo profilo, in particolare, la nuova disposizione sembra rispondere alle sollecitazioni (provenienti soprattutto dalla dottrina) alla limitazione della responsabilità penale professionale attraverso il ricorso alla colpa grave quale valido strumento, tra gli altri, per la riduzione del fenomeno della medicina difensiva155. L’aumento del contenzioso legale (in particolare penale) induce, infatti, i medici, da un lato, a prescrivere un numero esorbitante di visite ed esami (spesso non necessari) ovvero, dall’altro, ad evitare la cura dei pazienti a più alto rischio, con conseguente aumento dei costi e riduzione della qualità tecnica dell’assistenza sanitaria156. A dispetto, però, delle proposte avanzate dalla dottrina ed anche da alcuni progetti di riforma del codice penale presentati negli ultimi anni – che escludevano la punibilità della colpa lieve in tutti i casi in cui si richiedesse la soluzione di “problemi tecnici di speciale difficoltà” (sulla scorta della previsione dell’art. 2236 c.c.) – il legislatore limita la portata della novella alle sole situazioni in cui vi sia stata l’applicazione di linee guida157. D’altro canto, pur se non espressamente contemplata, sino ad oggi, da alcuna norma penale, la distinzione tra colpa grave e lieve è stata, nondimeno, sovente invocata in quanto strumento necessario per perseguire l’obiettivo di personalizzazione dell’illecito colposo: il giudizio di rimmolte ambiguità fronteggiate dalla giurisprudenza in ordine al rilievo da attribuire all’osservanza delle linee guida. V., inoltre, F. GIUNTA, Protocolli medici, cit., p. 820. L’Autore, in particolare, evidenzia come la nuova disposizione abbia il merito di precisare una volta per tutte tanto il valore dell’osservanza delle guideliness quanto della loro violazione sul versante della responsabilità medica. Precisa, però, che la disciplina manca l’obiettivo chiarificatore per via di una formulazione poco lineare che mette in diretta correlazione due parametri funzionalmente eterogenei: le linee guida, che attengono all’individuazione della regola cautelare e, quindi, all’an della responsabilità, e la colpa lieve, che concerne il quantum di rimproverabilità. 155 L. CORNACCHIA, Colpa incosciente e colpa lieve: le ragioni di una possibile delimitazione della responsabilità penale, in G. DE FRANCESCO, E. VENAFRO (a cura di), Meritevolezza di pena e logiche deflattive, Torino, 2002, p. 193 ss.; D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., pp. 529 ss.; A.R. DI LANDRO, La colpa medica negli Stati Uniti e in Italia. cit., p. 18 ss.; G. FORTI, M. CATINO, F. D’ALESSANDRO, C. MAZZUCATO, G. VARRASO, Il problema della medicina difensiva, cit., p. 41. 156 La volontà di disincentivare il ricorso alla medicina difensiva è chiaramente perseguita anche dal d.l. 158 del 2012. Nella relazione che accompagna il disegno di legge si evidenzia, infatti, che l’obiettivo, strettamente connesso a quello del contenimento della spesa sanitaria, è quello di disincentivare “il fenomeno della medicina difensiva, che determina la prescrizione di esami diagnostici inappropriati, con gravi conseguenze sia sulla salute dei cittadini, sia sull’aumento delle liste d’attesa e dei costi a carico delle aziende”. 157 Per un richiamo ai progetti di riforma v. A.R. DI LANDRO, Le novità normative in tema di colpa penale (l. 189/2012 c.d. Balduzzi). Le indicazioni del diritto comparato, in Riv. it. med. leg., 2013, p. 835 s. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 77 proverabilità non può prescindere dalla valutazione del grado di diligenza pretendibile dal soggetto agente158. Sulla possibilità di limitare l’ambito della responsabilità colposa ai soli casi di colpa grave, tuttavia, non si è mai riscontrata uniformità di vedute. Accanto a orientamenti che – maggiormente sensibili all’esigenza di tutelare la professionalità dei medici – hanno tentato di restringere la portata della responsabilità colposa ai soli casi della colpa grave attraverso l’estensione all’ambito penale del dettato dell’art. 2236 c.c., se ne sono fatti strada altri che – spinti dall’esigenza di tutelare in misura più ampia i diritti delle vittime di errori sanitari – hanno escluso la rilevanza della distinzione tra colpa lieve e grave sotto il profilo penale159. Intorno agli anni Settanta, in giurisprudenza incomincia ad affermarsi un primo orientamento che – sulla scorta del rilievo per cui la professione medica deve essere valutata con “larghezza di vedute e comprensione”160, non essendovi metodi obbligatori di indagine e cura ed essendo sempre possibile l’errore di apprezzamento – ritiene rilevante, per l’affermazione di una penale responsabilità, solo la colpa c.d. “grossolana”, rinvenibile nella “trascuranza di quelle norme elementari che il più modesto professionista non deve ignorare” o “nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione”, e, quindi, in ogni comportamento incompatibile con il bagaglio minimo di conoscenze proprie di ciascun medico161. Lo strumento giuridico per operare tale limitazione di responsabilità viene individuato nell’art. 2236 158 Sul tema del grado della colpa e della sua attinenza all’ambito del giudizio di colpevolezza cfr. D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., p. 345 ss.; T. PADOVANI, Il grado della colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, p. 836. Non sono mancati Autori che hanno sostenuto la rilevanza della tematica del grado della colpa già a livello di tipicità e non solo di colpevolezza. In tal senso cfr. F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 107. 159 Per la ricostruzione dell’evoluzione della giurisprudenza e della dottrina in materia di colpa grave v. A. CRESPI La «colpa grave» nell’esercizio dell’attività medico- chirurgica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 255 ss.; G. GRASSO, La responsabilità penale nell’attività medico-chirurgica: orientamenti giurisprudenziali sul “grado” della colpa, in Riv. it. med. leg., 1979, p. 80 ss.; A. CRESPI, I recenti orientamenti giurisprudenziali nell’accertamento della colpa professionale del medico chirurgo: evoluzione o involuzione, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 785 ss.; R. RIZ, Colpa penale per imperizia del medico: nuovi orientamenti, in Riv. it. med. leg., 1985, p. 267 ss.; M. BARTOLI, La colpa medica nella giurisprudenza di fine secolo, in Resp. civ. prev., 2001, p. 254 ss.; A.R. DI LANDRO, I criteri di valutazione della colpa penale del medico, dal limite della “gravità” ex art. 2236 c.c. alle prospettive della gross negligence anglosassone, in Indice pen., 2004, p. 733 ss.; S. FERRARI, Sulla valutazione della responsabilità medica per colpa, in Giur. it., 2004, p. 1492 ss. 160 Cass. pen. sez. IV, 4 febbraio 1972, n. 2508, Del Vecchio, in Cass. pen., 1973, p. 538. 161 Cass. pen., sez. IV, 21 ottobre 1970, n. 1820, Lisco, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 55; Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 1968, n. 124, Chiantese, in Cass. pen., 1969, p. 1077; Cass. pen., sez. IV, 6 marzo 1967, n. 456, Izzo, in Cass. pen., 1968, p. 420. 78 CAPITOLO SECONDO c.c., il quale dispone, seppure con riferimento all’illecito civile, che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”. Ragioni di coerenza interna dell’ordinamento giuridico impongono, secondo questo orientamento, di estendere il dettato dell’art. 2236 c.c., onde evitare che comportamenti che non concretizzano un illecito civile possano, invece, assumere una rilevanza penale. Sennonché, secondo questa interpretazione, tutte le figure di colpa (non solo per imperizia, ma anche per negligenza ed imprudenza) sarebbero penalmente rilevanti solo se “gravi”. Per questo motivo essa è stata sottoposta a critica da parte di quegli orientamenti dottrinali che, nei medesimi anni, pur affermando l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. anche alle fattispecie colpose penali, ritenevano, tuttavia, di doverne circoscrivere la portata ai soli casi di imperizia. Si è, infatti, sottolineato che sarebbe solo la colpa per imperizia (quella, quindi, che propriamente deriva dalla violazione di regole cautelari che prescrivono il possesso di particolari conoscenze per lo svolgimento di determinate attività) a poter essere valutata nell’ambito della colpa grave, al fine di allargare il campo della discrezionalità del professionista, chiamato a risolvere casi particolarmente difficili, la cui soluzione implica inevitabili rischi di insuccesso162. Quest’ultima tesi è stata fatta propria dalla Corte costituzionale, chiamata nel 1973 a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale (sollevata dal Tribunale di Varese) degli artt. 42 e 589 c.p., nella parte in cui consentono che nella valutazione della colpa professionale il giudice attribuisca rilevanza penale soltanto ai gradi della colpa di tipo particolare. La Corte, nel dichiarare l’infondatezza della censura, ha ammesso la legittimità della prassi applicativa dell’art. 2236 c.c. anche alla colpa penale, limitandola, però, alle sole ipotesi di imperizia163. 162 In tal senso A. CRESPI, Il grado della colpa nella responsabilità professionale del medico chirurgo, in Scuola Positiva, 1960, p. 484; A. CRESPI, La colpa grave, cit., p. 255. 163 Corte cost., 28 novembre 1973, n. 166, in Foto it., 1974, c. 19, in cui la Corte ha rilevato che “la particolare disciplina in tema di responsabilità penale desumibile dagli artt. 589 e 42 (e meglio 43) c.p., in relazione all’art. 2236 c.c., per l’esercente una professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, è il riflesso di una normativa dettata (come si legge nella relazione del guardasigilli al codice civile, n. 917) di fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso. Ne consegue che solo la colpa grave e cioè quella derivante da errore inescusabile, dalla ignoranza dei principio elementari attinenti all’esercizio di una determinata attività professionale o propri di una data specializzazione possa nella indicata ipotesi rilevare ai fini della responsabilità penale. Siffatta esenzione o limitazione di responsabilità d’altra parte, non conduce a do- IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 79 La giurisprudenza ha, negli anni immediatamente successivi all’intervento della Corte, tenuto indubbiamente conto dell’imprimatur dato dalla sentenza, dichiarando che il carattere colposo della condotta del sanitario, quando l’addebito viene mosso sotto il profilo dell’imperizia, deve essere valutato nel ristretto ambito della “colpa grave”, e, segnatamente, che l’errore del medico, da cui è conseguita la morte o la lesione dell’integrità fisica del paziente, può essere valutato sulla base del parametro di cui all’art. 2236 c.c. solo se il caso implica la soluzione di particolari problemi diagnostici e terapeutici in presenza di un quadro clinico complesso164. Nel corso degli ultimi anni, però, si assiste ad un fenomeno di sovrapposizione tra le varie tesi affermatesi. Infatti, accanto a sentenze che, abbandonata qualsiasi benevolenza e comprensione nei confronti dei sanitari, affermano che la colpa professionale del medico debba essere valutata nei limiti fissati dall’art. 43 c.p., sancendo conseguentemente l’inapplicabilità dell’art. 2236 c.c. (norma peraltro non estendibile analogicamente, visto il suo carattere eccezionale) e riconoscendo al “grado” della colpa uno spazio solo a livello di graduazione della pena ex art. 133 c.p.165, se ne collocano altre che, invece, temperano la rigidità di quest’ultima costruzione, richiamando una non ben definita “larghezza di vedute” e “comprensione” nella valutazione della colpa medica166. Da ultimo, non sono mancate sentenze che, per aggirare le critiche sollevate con riguardo all’applicabilità dell’art. 2236 c.c., affermano l’esclusione della responsabilità penale del medico quando il caso specifico sottopover ammettere che, accanto al minimo di perizia richiesta, basti pure un minimo di prudenza o di diligenza. Anzi, c’è da riconoscere che, mentre nella prima l’indulgenza del giudizio del magistrato è direttamente proporzionata alle difficoltà del compito, per le altre due forme di colpa ogni giudizio non può che essere improntato a criteri di formale severità”. 164 Cass. pen., sez. IV, 23 marzo 1995, Salvati, in Cass. pen., 1996, p. 1835; Cass. pen., sez. IV, 27 gennaio 1984, n. 6650, Ricolizzi, in Riv. pen., 1985, p. 373; Cass. pen., sez. IV, 24 giugno 1983, n. 8917, Veronesi, in Cass. pen., 1984, p. 307; Cass. pen., sez. IV, 19 febbraio 1981, n. 5860, Desiato, in Riv. pen., 1981, p. 707. 165 Cass. pen., sez. IV, 22 novembre 2002, n. 39637, Amato, in Riv. pen., 2003, p. 110 “ai fini penalistici, la colpa medica va valutata alla stregua degli ordinari criteri dettati dall’art. 43 c.p., e non di quelli dettatati dall’art. 2236 c.c., per cui può venire in rilievo anche la colpa lieve, da rapportarsi, peraltro, in termini di esigibilità, al parametro oggettivo dell’homo ejusdem condicionis et professionis, tenendo conto, tra l’altro, con riguardo alla scusabilità o meno dell’errore, del grado di difficoltà tecnico-scientifica e dei conseguenti eventuali margini di opinabilità che il caso presenta, ferma restando poi la possibilità che la colpa, oltre che nell’imperizia, possa consistere anche in negligenza o imprudenza le quali abbiano anche esse concorso a determinare l’errore”. 166 Cass. pen., sez. IV, 22 febbraio 1991, n. 4028, Lazzeri, in Giust. pen., 1992, II, p. 49; Cass. pen., sez. IV, 17 luglio 1987, n. 8360, Mondonico, in Giust. pen., 1988, II, p. 105. 80 CAPITOLO SECONDO sto al suo esame impone la soluzione di problemi di speciale difficoltà, non, però, per effetto della diretta applicazione della norma civilistica, ma come regola di esperienza a cui il giudice deve attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, sia quando si versa in una situazione emergenziale, sia quando il caso implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà167. 8.5. Le lacune dell’art. 3 d.l. n. 158 del 2012: a) l’ambito soggettivo di applicazione della nuova normativa Accolta con particolare interesse, soprattutto dalla classe medica che in essa ha visto una possibile deflazione del ricorso al processo penale per i casi di medical malpractice, la riforma, come si evidenzierà nel prosieguo, sembra, invero, tradire le aspettative, essendo, allo stato, destinata ad avere scarso impatto applicativo e lasciando, peraltro, insolute una serie di questioni interpretative. La nuova disciplina, anzitutto, rimane collocata nel decreto legge Balduzzi e non viene, invece, inserita nell’art. 43 c.p. Cionondimeno essa, indubbiamente, concorre con quest’ultima disposizione alla definizione di colpa, seppure limitatamente al campo dell’attività medica. L’art. 3 d.l. 158 del 2012, infatti, contribuisce alla descrizione della fattispecie astratta restringendo l’ambito di rilevanza penale della colpa alle sole ipotesi di colpa grave168. Dal punto di 167 Cass. pen., sez. IV, 26 aprile 2011, n. 16328, Lucisano, in CED rv. 251960; Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 2007, n. 39552, Buggè, in CED rv. 237875. La sentenza, peraltro, specifica i contesti che per la loro difficoltà possono giustificare l’esclusione di responsabilità del medico: situazioni in cui si sia in presenza di difficoltà o novità tecnico-scientifiche ovvero situazioni in cui il medico si trovi ad operare in emergenza quando anche le scelte più semplici, proprio per la necessaria rapidità delle stesse, diventano difficili. Nello stesso senso, più di recente cfr. Cass. pen., sez. IV, 5 aprile 2011, n. 16328, Montalto, in CED rv. 251941, nonché Cass. pen., sez. IV, 22 novembre 2011, n. 4391, Di Lella, in CED rv. 251941. 168 In tal senso cfr. L. RISICATO, Linee guida, cit., p. 203, che evidenzia come la nuova norma qualifichi l’osservanza delle linee guida quale limite della tipicità colposa dell’attività medico-chirurgica; G.L. GATTA, Colpa medica e art. 3, co. 1, d.l. n. 158/2012: affermata dalla Cassazione l’abolitio criminis (parziale) per i reati commessi con colpa lieve, in www.penalecontemporaneo.it. Prima dell’introduzione della norma autorevole dottrina aveva evidenziato che la misura della diligenza richiesta al medico poteva già rilevare a livello di tipicità con limitazione della rilevanza penale della colpa. In tal senso F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 107. Si evidenzia che, anche nell’ambito della dottrina che riconduce la misura della diligenza alla colpevolezza, si precisa che, nondimeno, essa potrebbe riverberare i propri effetti già sul piano della tipicità nel caso in cui il legislatore introducesse ipotesi specifiche di irrilevanza penale di fatti offensivi, ma dotati di colpa esigua. In tal senso D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., p. 543.Nel senso che quella introdotta dall’art. 3 d.l. 158/2012 sia una causa di non punibilità cfr. D. PULITANÒ, Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum legislativo, in www.penalecontemporaneo.it. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 81 vista processuale, l’esclusione di tipicità della colpa lieve comporta, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., la pronuncia di una sentenza di assoluzione “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, formula assolutoria che, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., non fa stato nel giudizio civile promosso per il risarcimento del danno. La collocazione sistematica della nuova disposizione – nonché l’espresso riferimento testuale ai soli “esercenti la professione sanitaria” – fa sì che essa abbia un ristretto ambito di applicazione, non estensibile, più in generale, a tutti i casi di responsabilità professionale. L’art. 3 d.l. 158/2012, infatti, risulta applicabile solo in presenza di tre presupposti: il soggetto responsabile sia un esercente la professione sanitaria; vi siano linee guida o buone pratiche, pertinenti al caso, scientificamente accreditate; il sanitario si sia attenuto a dette linee guida o buone pratiche. Ne consegue la non applicabilità, non solo ai professionisti diversi dai sanitari, ma anche ai casi in cui non vi siano linee guida o non vi sia stata applicazione delle stesse nel caso oggetto del giudizio169. Quest’ultima sembra costituire una della principali criticità della nuova disposizione – con riguardo, in particolare, alla possibile violazione del principio di uguaglianza – soprattutto nei casi di cooperazione tra sanitari e soggetti aventi diversa professionalità. Si pensi ad esempio all’ipotesi in cui l’evento lesivo sia la conseguenza di una cooperazione tra sanitari e ingegneri biomedici (che organizzano l’uso e la manuten169 Alcune delle limitazioni previste dalla norma sono state tacciate di possibile incostituzionalità da Tribunale Milano, sez. IX, ordinanza 21 marzo 2013, in www.penalecontemporaneo.it che ha rimesso la questione alla Corte costituzionale. La questione di legittimità costituzionale è, però, stata dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte, con ordinanza 6 dicembre 2013 (in www.penalecontemporaneo.it), in quanto “il giudice a quo ha omesso di descrivere compiutamente la fattispecie concreta sottoposta al suo giudizio e, conseguentemente, di fornire un’adeguata motivazione alla rilevanza della questione”. Fra i numerosi profili di illegittimità rilevati dai Giudici ambrosiani vi era quello della violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento, in caso di cooperazione colposa tra un sanitario ed un soggetto con diversa qualifica (ad esempio un amministratore che non ha predisposto la struttura, il materiale, i prodotti), essendo la disposizione applicabile solo al primo a fronte di medesimo grado di colpa lieve. Un secondo profilo di disparità di trattamento, e, quindi, di possibile violazione dell’art. 3 Cost. (oltreché dell’art. 28 Cost.), era stato ravvisato con riguardo agli operatori sanitari che prestano la propria attività nel settore pubblico: ad essi verrebbe, infatti riconosciuto un trattamento più mite rispetto agli altri dipendenti pubblici. Al di là di questi specifici profili di illegittimità sollevati dal Tribunale di Milano (e non affrontati nel merito dalla Corte costituzionale, vista l’ordinanza di manifesta inammissibilità) sembra più in generale possibile affermare che la disposizione potrebbe essere illegittima per violazione dell’art. 3 Cost. in quanto, sul fondamento della peculiarità e della rischiosità della professione sanitaria, distingue la stessa da qualsiasi altra professione (es. piloti di aerei, ingegneri …) che presentano, invero, caratteristiche del tutto assimilabili, richiedendo spesso la soluzione di questioni tecniche particolarmente complesse. 82 CAPITOLO SECONDO zione della strumentazione biomedica o realizzano strumenti diagnostici o terapeutici, quali protesi o valvole) ovvero tra sanitari e dirigenti (è il caso, ad esempio, di eventi lesivi da ricondursi a carenze causate da una cattiva organizzazione della struttura da parte degli organi direttivi e dalla condotta colposa del sanitario che non abbia segnalato tali carenze o disposto il trasferimento del paziente)170. È evidente la disparità di trattamento che si potrebbe verificare in queste situazioni: la responsabilità di soggetti la cui professione non sia riconducibile a quelle sanitarie non potrebbe essere limitata, ed essi, pur eventualmente versando, al pari del sanitario, in colpa lieve, dovrebbero rispondere, a differenza del primo, per i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p. Orbene, l’unico modo per superare l’impasse interpretativo potrebbe essere quello di interpretare la locuzione “esercenti la professione sanitaria” non in senso soggettivo, ma piuttosto in senso oggettivo come riferita latamente a tutti quei soggetti che, pur non rientrando nei ruoli tipici della professione sanitaria (medico, infermiere, ostetrico, veterinario, biologo…), esercitano, comunque, un’attività sanitaria in quanto collegata alla cura ed alla diagnosi. 8.7. (Segue): b) le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica Il secondo profilo di problematicità connesso all’interpretazione della nuova disposizione concerne i due strumenti posti dal legislatore a fondamento dell’esclusione della rilevanza penale del fatto: le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Un primo elemento di criticità è determinato dall’equiparazione di due strumenti, invero, tra loro fortemente differenti e, soprattutto, nel caso delle buone pratiche, non tassativamente definiti dalla legge. Come già sopra evidenziato, infatti, le linee guida (che trovano una definizione, non normativa, ma comunemente accolta da dottrina e giurisprudenza) rappresentano delle direttive, non vincolanti, volte ad indicare al medico un trattamento terapeutico che non sempre coincide con i migliori usi. Le buone pratiche, invece, non sono state oggetto di una compiuta definizione, tanto che una parte della dottrina ha ritenuto che esse non siano da ricondurre ad una disciplina regolamentata (come le linee guida o i protocolli), ma consistano piuttosto nella concreta attuazione delle linee guida ovvero in 170 Sul concorso tra dirigenti e sanitari nel caso di carenze strutturali ed organizzative v. amplius infra cap. VI; nonché Cass. pen., sez. IV, 9 febbraio 2000, n. 272, De Donno ed altro, in Cass. pen., 2002, p. 226; Cass. pen., sez. IV, 5 dicembre 2007, n. 1533, in Foro it., 2008, 10, c. 517. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 83 procedure non previste dalle linee guida, ma comunemente applicate, di cui sia riconosciuta l’efficacia terapeutica o comunque la non dannosità per il paziente171. Per altro orientamento interpretativo, invece, le buone pratiche devono essere ricondotte proprio alla categoria dei protocolli, evidenziando che questi ultimi, generalmente altro non sono se non la trasposizione – in schemi predefiniti di comportamento, rigidi e vincolanti – di dette buone pratiche172. Orbene, dalla dizione normativa non appare possibile effettuare quest’ultima equiparazione, dal momento che, se è pur vero che sovente le buone pratiche sono trasfuse in protocolli (i quali si caratterizzano per specificità, contenuto spiccatamente cautelare e vincolatività), nondimeno questi ultimi non esauriscono tutto il panorama delle buone pratiche, che possono continuare ad essere applicate anche se non trasfuse in detto strumento. Se così è, tuttavia, non appare giustificata l’esclusione dei protocolli dagli strumenti in cui possono essere formalizzate regole cautelari idonee ad escludere, ove correttamente osservate, la responsabilità per colpa lieve. Mentre, infatti, le linee guida, sono strumenti, non vincolanti, che descrivono modelli di condotta che non necessariamente coincidono con le migliori prassi (sovente individuano solo un livello minimo di diligenza), al contrario, i protocolli, nella loro rigidità e vincolatività, indicano modelli comportamentali condivisi e generalmente coincidenti con gli usi cautelari diffusi in un determinato contesto spazio-temporale173. Se, quindi, per i protocolli è più immediata l’individuazione di un contenuto cautelare (e non sembrano, di conseguenza, porsi particolari problemi circa la loro utilizzabilità ai fini del giudizio sulla colpa), non così 171 Sulla definizione in generale di buone pratiche cfr. F. GIUNTA, La legalità della colpa, cit., p. 165 ss. Sull’interpretazione della locuzione “linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica” cfr. C. BRUSCO, Linee guida, protocolli e regole deontologiche. Le modifiche introdotte dal c.d. decreto Balduzzi, in www.penalecontemporaneo.it, p. 18. L’Autore riporta anche il seguente esempio: “se la somministrazione di un farmaco, pur non specificamente indicato e non previsto dalle linee guida per il contrasto di una determinata patologia (farmaci off label), ha dato, in un numero significativo di casi, effetti positivi e mai negativi il medico che lo somministra si attiene ad una buona pratica”; P.F. POLI, Legge Balduzzi tra problemi aperti e possibili soluzioni interpretative: alcune considerazioni, in www penalecontemporaneo.it, p. 4 s. Ritiene che quella utilizzata dal legislatore sia semplicemente un’endiadi A.R. DI LANDRO, Le novità normative, cit., p. 884. 172 F. GIUNTA, Protocolli medici, cit., p. 821 s.; A. ROIATI, Il ruolo del sapere scientifico e l’individuazione della colpa lieve nel cono d’ombra deella prescrizione, in Dir. pen. cont., 2013, cit., p. 9. In termini dubitativi cfr. C. CUPELLI, I limiti di una codificazione terapeutica (a proposito della colpa grave del medico e linee guida), in www.penalecontemporaneo.it, p. 7. 173 In tal senso cfr. F. GIUNTA, voce Medico (responsabilità penale del), cit., p. 881. 84 CAPITOLO SECONDO può, invece, dirsi per le linee guida, per le quali è necessaria una preliminare valutazione contenutistica da parte del giudicante. Peraltro, i protocolli, ove riconosciuti quali atti che formalizzano regole cautelari che, come tali, devono essere osservate dal medico nell’esercizio della sua attività, potrebbero rivelarsi anche validi strumenti per individuare i soggetti penalmente responsabili nel caso di divisione del lavoro, limitando in tal modo le pericolose forme di responsabilità del gruppo o di responsabilità apicali. I protocolli, infatti, non solo individuano la corretta sequenza comportamentale che il sanitario deve applicare, ma anche il soggetto che di volta in volta è responsabile della sequenza. Non sarebbe sufficiente, così come, invece, ancora oggi si afferma nella giurisprudenza maggioritaria, l’accertamento dell’obbligo di garanzia in capo al sanitario (per il solo fatto di avere assunto la cura del paziente) e il nesso causale tra la condotta e l’evento, ma occorrerebbe, altresì, individuare la regola cautelare che è stata trasgredita e, di conseguenza, il soggetto che doveva adeguarsi a tale regola di condotta. Interessante a tal proposito è il caso, ricostruito dalla dottrina174, della derelizione di oggetti nel ventre del paziente nel corso di interventi chirurgici. I protocolli medici175 prevedono, infatti, che il conteggio e la verifica dell’integrità degli strumenti chirurgici (ferri, garze, etc.) sia effettuata dal personale infermieristico o da operatori di supporto, mentre sul chirurgo incomberebbe il solo obbligo di verificare che detto conteggio sia stato effettuato, ma non certamente di ripeterlo. Solo al c.d. “ferrista”, quindi, potrebbe essere mosso un rimprovero colposo, in caso di dimenticanza nelle viscere del paziente di uno strumento chirurgico, in quanto solo lui non ha dominato quell’area di rischio che la regola cautelare intendeva governare176. Tornando al dettato dell’art. 3 d.l. n. 158 del 2012, siano consentite due ultime notazioni. La prima è che non ogni linea guida può costituire parametro del giudizio sulla colpa, ma solo quelle che, avendo contenuto 174 D. MICHELETTI, La normatività della colpa medica nella giurisprudenza, in S. CANEF. GIUNTA, R. GUERRINI, T. PADOVANI, Medicina e diritto penale, cit., p. 250 ss. 175 Cfr. in particolare la raccomandazione pubblicata dall’Osservatorio buone pratiche che descrive una dettagliata procedura per il conteggio degli strumenti chirurgici, citata da A. ROIATI, Il ruolo, cit., p. 12. 176 In senso contrario, tuttavia, la giurisprudenza afferma la responsabilità dell’intera équipe. V. Cass. pen., sez. IV, 26 maggio 2004, n. 39062, Picciurro ed altri, in Riv. pen., 2005, p. 302; Cass. pen., sez. IV, 13 maggio 2008, n. 19506, Malagnino, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 53; nonché più di recente Cass. pen., sez. IV, 29 aprile 2014, n. 36229, P. F., in Ragiusan, 2014, p. 367. In senso contrario si veda l’isolata pronuncia Cass. pen., sez. IV, 6 aprile 2005, n. 22579, Malinconico, in Cass. pen., 2006, p. 2834. STRARI, IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 85 tipicamente modale ed essendo incentrate sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento, possono assurgere al rango di regola di condotta. Non così può dirsi, come già osservato nei paragrafi precedenti, per quelle linee guida che perseguono finalità differenti dalla cura e salvaguardia della salute del paziente, prefiggendosi principalmente (e talvolta esclusivamente) il mero contenimento di costi. La seconda concerne, invece, il necessario “accreditamento da parte della comunità scientifica” di linee guida e buone prassi. Anche tale requisito, che evidentemente, nell’intenzione del legislatore, doveva delimitare l’ambito delle linee guida e buone pratiche utilizzabili, si rivela, invero, ancora una volta alquanto indeterminato. Si è, infatti, in precedenza evidenziato che attualmente in Italia esiste un sistema istituzionale di produzione ed accreditamento delle linee guida (SNLG), il quale, tuttavia, continua ad essere affiancato da linee guida prodotte da singole Aziende ospedaliere, da associazioni scientifiche e da compagnie assicuratrici. Orbene, di fronte ad un coacervo di discipline, tutte, eventualmente, egualmente accreditate dalla comunità scientifica, per quale dovrebbe optare il giudice (ed il medico dapprima)? Nessun parametro di riferimento è individuabile nella nuova disposizione che, non solo non precisa quale debba essere la fonte di produzione delle linee guida, ma non indica neppure quale debba essere la comunità scientifica di riferimento (internazionale, nazionale, del presidio ospedaliero …). Orbene, alla luce di quanto sino ad ora osservato, si ritiene che dovrebbe prevalere un’interpretazione restrittiva del dettato normativo, per cui le sole linee guida istituzionalizzate, o che abbiano riconoscimento in ambito internazionale, possano assurgere al rango di regole cautelari, dovendosi, invece, tralasciare quelle formatesi nei singoli presidi ospedalieri o, addirittura, nei singoli reparti salvo che a loro volta non rappresentino il precipitato di linee guida del primo tipo. Sennonché, quest’ultimo si rivela essere uno dei maggiori limiti della nuova disposizione. Se, nelle intenzioni del legislatore, essa doveva limitare la discrezionalità giudiziale ed il ricorso ai periti nell’accertamento della colpa, tale obiettivo non sembra, invero, pienamente raggiunto: l’individuazione delle linee guida o delle buone pratiche “accreditate” sarà, comunque, rimessa al giudice, che dovrà individuare, tra le plurime fonti, eventualmente anche di pari valenza scientifica, quella che ritiene maggiormente adeguata al caso concreto. Per far ciò, peraltro, il giudicante dovrà ancora una volta rivolgersi ad un perito, senza, peraltro, alcun obbligo di preventiva verifica delle sue qualità professionali e della sua indipendenza. 86 CAPITOLO SECONDO 8.8. (Segue): c) quale nozione di colpa lieve? Possibili casi di esclusione delle responsabilità dei sanitari Un ulteriore profilo di incertezza introdotto dalla nuova disposizione concerne proprio la distinzione tra colpa lieve e colpa grave posta dal legislatore a fondamento dell’esclusione di responsabilità. Nel nostro ordinamento, infatti, non esiste una definizione penale di colpa lieve e di colpa grave, nonostante già altre disposizioni normative limitino la responsabilità penale alla sola colpa grave177. Anche sotto questo aspetto l’art. 3 in oggetto, quindi, si rivela incapace di delimitare l’ambito di discrezionalità del giudicante, al quale sarà rimessa l’individuazione, per via interpretativa, delle due nozioni e, conseguentemente, la delimitazione dell’area del penalmente rilevante. Nella sua prima formulazione la norma conteneva, invero, un richiamo all’art. 2236 c.c. Tale rinvio, seppure non risolutivo, imponeva di delimitare la rilevanza della colpa lieve ai soli casi che richiedessero la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e fondati sulla violazione di regole cautelari di perizia178. L’espunzione del riferimento all’art. 2236 c.c. dal testo definitivo dell’art. 3 richiede, quindi, un duplice sforzo interpretativo: da un lato, la delimitazione dei concetti di colpa lieve e colpa grave e, dall’altro, l’individuazione dell’ambito di estensione della colpa lieve (se ai soli casi di colpa per imperizia, ovvero anche a quelli per negligenza o imprudenza). Questo tentativo di delimitazione è ben presente nelle prime pronunce giurisprudenziali nelle quali vi è stata applicazione della nuova norma. In una di dette pronunce, in particolare, si evidenzia che “la novella si riferisce ad un terapeuta che si sia mantenuto entro l’area astrattamente, genericamente segnata dalle accreditate istituzioni scientifiche ed applicative, e, tuttavia, nel corso del trattamento, abbia in qualche guisa errato nell’adeguare le prescrizioni alle specificità del caso trattato”. Orbene, osserva la Suprema Corte, in questo caso si potrà affermare la rilevanza penale del fatto e, quindi, la gravità della colpa, solo quando “l’erronea conformazione dell’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente”. Nello stesso modo si dovrà procedere laddove il sanitario si sia attenuto allo standard 177 In tal senso cfr. P.F. POLI, Legge Balduzzi, cit., p. 6 ss. che elenca le disposizioni normative che contengono un riferimento alla colpa grave: art. 64 c.p.c., art. 217, comma 1, nn. 2, 3 e 4 l. fall. 178 Per gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che hanno limitato la portata dell’art. 2236 c.c. ai soli casi di colpa per imperizia v. supra § 8.4. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 87 generalmente appropriato per un’affezione, trascurando, però, gli specifici fattori di rischio che avrebbero giustificato uno scostamento da tale standard. In tale situazione, la Corte ritiene che si possa parlare di colpa grave “solo quando i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono delle prassi accreditate assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non lascino residuare un dubbio plausibile sulla necessità di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente”179. Alla luce di tale ricostruzione, la rilevanza della colpa lieve non è, quindi, limitata (come, invece, avveniva attraverso il richiamo all’art. 2236 c.c.) ai soli casi di speciale difficoltà, ma si estende più in generale a tutti i casi in cui vi sia stata un’ingiustificata applicazione delle linee guida ovvero un’erronea applicazione delle stesse, indipendentemente dalla natura del caso trattato. Il giudizio che si è chiamati a compiere è di tipo meramente quantitativo, concernendo, appunto, il grado di scostamento dalle linee guida o, altrimenti, il grado di riconoscibilità dei fattori concreti che imponevano di discostarsi dalle linee guida. Non può non riscontrarsi in un giudizio di tal fatta l’elevato grado di discrezionalità rimessa al giudice e, soprattutto, il ritorno a criteri di valutazione di tipo deontico. È la stessa Corte di Cassazione, in effetti, che precisa come, per valutare quale sia il grado di scostamento dalle linee guida, occorra riferirsi (nuovamente!) alla figura dell’agente modello, l’archetipo cioè di un professionista che opera al livello di qualificazione dell’agente concreto e che esprime il modo di operare appropriato, tipico180. D’altro canto, la personalità dell’illecito impone al giudice di valutare anche le peculiarità del caso concreto quali, in particolare, la complessità del caso trattato, l’urgenza, la carenza di idonee strutture. Quanto più il caso si dimostri complesso, ovvero maggiore sia il grado di urgenza o la carenza di idonee strutture, tanto più dovrà ritenersi lieve lo scostamento dalla regola di condotta181. La valorizzazione delle peculiarità del caso concreto, promossa oggi nella pronuncia della Suprema Corte appena richiamata, era, invero, sollecitata unanimemente dalla dottrina, già prima dell’entrata in vigore della nuova disposizione quale necessario requisito per un rimprovero autenticamente soggettivo. La valutazione della situazione concreta in cui il sanitario si trovi ad operare deve diventare momento rilevante del giudizio soggettivo in ogni ipotesi di colpa e non semplicemente in quelle in cui si ha riguardo alla corretta o errata applicazione di linee guida. 179 Cass. 180 Cass. 181 Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit. 88 CAPITOLO SECONDO La mente corre, ad esempio, a tutto quel filone giurisprudenziale che riconosce la responsabilità del medico in posizione subalterna per non essersi discostato dalle direttive impartite dal primario o per non essere intervenuto per correggere l’errore di quest’ultimo182, senza che vi sia considerazione alcuna in ordine all’effettiva capacità (in ragione della sua preparazione) di riconoscere l’errore del superiore e di essere in grado di correggerlo. Seppur pregevole, per il richiamo alla valutazione della concreta situazione in cui il sanitario si trovi ad operare, la sopra richiamata sentenza, nondimeno, lascia residuare qualche dubbio proprio con riguardo alle individuate ipotesi di colpa lieve. Non convince appieno, ad esempio, il riconoscimento di una situazione di esonero da responsabilità in capo al medico che si sia attenuto alle linee guida dovendosene, invece, discostare in relazione alle circostanze concrete183. In tal caso, infatti, il rispetto delle linee guida è meramente apparente avendo il medico, nella sostanza, fatto applicazione di regole cautelari estranee all’area di rischio concreta: per quale motivo egli, quindi, dovrebbe avvantaggiarsi di un trattamento più mite (che addirittura esclude, la responsabilità penale in caso di colpa lieve) rispetto al sanitario che, non facendo applicazione di linee guida, abbia erroneamente individuato la lex artis da applicare nel caso concreto? Resta, invece, escluso dalle prime classificazioni giurisprudenziali il caso – che, invero, sembra rispecchiare appieno il senso della nuova disposizione – dell’evento avverso conseguente alla pur corretta applicazione, da parte del sanitario, di una linea guida (adeguata rispetto all’area di rischio in concreto sussistente), la quale, tuttavia, si appalesi in contrasto con altre linee guida, dotate di pari autorevolezza, che, laddove applicate, avrebbero impedito il verificarsi dell’evento. Orbene, proprio, in tale situazione, più che in qualsiasi altra, sembra opportuno escludere la responsabilità del sanitario per colpa lieve, da individuarsi in tutti i casi in cui non fosse da lui pretendibile la scelta della diversa (o delle diverse) linee guida. Assumeranno, quindi, rilevanza ai fini dell’accertamento della responsabilità colposa la diversa professionalità del sanitario, il grado di complessità tecnica delle plurime linee guida e la, conseguente, conoscibilità di queste ultime: cosicché, di fronte a linee guida di difficile acquisizione (per l’elevata complessità tecnica), diverso sarà il grado di pretesa nei confronti del dirigente di struttura complessa (il c.d. prima182 Cass. pen., sez. 183 In tal senso cfr. IV, 20 gennaio 2004, n. 32901, in CED rv. 229069. anche A. VALLINI, L’art. 3 del “decreto Balduzzi” tra retaggi dottrinali, esigenze concrete, approsimazioni testuali, dubbi di costituzionalità, in Riv. it. med. leg., 2013, p. 744 ss. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 89 rio) che, vista la sua professionalità ha le competenze tecniche per poterle raffrontare tra loro e mettere in discussione, e nei confronti del medico specializzando che ancora non ha quel bagaglio di conoscenze tale da potergli consentire di porsi in contrasto con linee guida non solo autorevoli (perché provenienti da fonti accreditate), ma il cui rispetto è, magari, stato imposto dai suoi diretti superiori. Sotto questo profilo la nuova normativa potrebbe, quindi, rivelarsi particolarmente utile (accanto al già consolidato principio di affidamento, pur sovente disatteso dalla giurisprudenza) per la delimitazione della responsabilità dei soggetti che prendono parte ad attività diagnostiche o terapeutiche plurisoggettive, attraverso la compiuta valorizzazione del diverso grado di competenza e, quindi, di riconoscibilità della situazione di rischio e della conseguente regola di cautela da adottare. Con riguardo, invece, al problema dell’applicazione della norma ai soli casi di colpa per imperizia (come avveniva ai tempi dell’applicazione dell’art. 2236 c.c.) o, viceversa, anche a quelli per negligenza o imprudenza, deve evidenziarsi che, almeno inizialmente, la giurisprudenza si è graniticamente orientata nel primo senso. Pur in assenza di una espressa previsione, i giudici di legittimità hanno, infatti, ritenuto che l’esclusione di responsabilità per colpa lieve debba essere limitata ai soli casi di imperizia. La conclusione si fonda sull’assunto secondo cui le linee guida contengono esclusivamente regole di perizia e, di conseguenza, il medico che non vi sia adegui non sarebbe professionalmente capace e, quindi, imperito184. La tesi suscita, invero, forti perplessità, non solo perché una simile limitazione non traspare dal contenuto della norma (e neppure dai lavori preparatori del decreto), ma anche perché non corrisponde a verità che le linee guida contemplino solo regole di perizia. Si pensi, ad esempio, alle linee guida in tema di dimissioni del paziente a seguito di infarto del miocardio (oggetto, peraltro, di una decisione della Suprema Corte antecedente al decreto Balduzzi)185 che prevedono, evidentemente, norme di prudenza (dopo quanti giorni dall’evento infartuale e dopo quali accertamente il paziente può essere dimesso) e non certamente di perizia. D’altro canto, come in precedenza rilevato, l’art. 3 del decreto Balduzzi non pone al centro della disciplina dell’esclusione della rilevanza penale della colpa lieve le solo linee guida, ma, più in generale, le buone 184 Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit., in cui espressamente si afferma che l’art. 3 del decreto Balduzzi trova il suo “terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia”; Cass. pen., 24 gennaio 2013, n. 11493, Pagano, in www.penalecontemporaneo.it. 185 Cass. pen., sez. IV, 23 novembre 2010, n. 8254, Grassini, in Foro it., 2011, 7-8, c. 416. 90 CAPITOLO SECONDO prassi che, nulla esclude, possano avere quale contenuto anche regole di diligenza o prudenza. Alcune aperture in tal senso incominciano a rinvenirsi anche nella giurisprudenza di legittimità, ammettendosi che, effettivamente, “non può escludersi che le linee guida pongano regole rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza; come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera dell’accuratezza di compiti magari non particolarmente qualificanti, che quella dell’adeguatezza professionale”186. 8.8. Brevi considerazioni conclusive sul decreto Balduzzi Quanto sin qui evidenziato porta alla conclusione che a tutt’oggi appare di difficile realizzazione la definitiva normativizzazione della regola cautelare nel settore dell’attività medico-chirurgica. Se è pur vero, infatti, che un processo di regolamentazione ed istituzionalizzazione delle linee guida potrebbe costituire un primo passo avanti verso la normativizzazione/oggettivizzazione della regola cautelare, è altrettanto vero, però, che esso continuerebbe ad arrestarsi di fronte all’ineludibile margine di discrezionalità tecnica che caratterizza l’attività medica, nella quale non può darsi una regola cautelare sempre valida ed indistintamente applicabile a tutti i casi concreti. Detto processo, tuttavia, non deve certamente arrestarsi, in quanto è innegabile che, pur non potendosi operare (sotto il profilo oggettivo) l’equiparazione – rispetto della linea guida-assenza di colpa ovvero violazione della linea guida-colpa (così come avviene nelle ipotesi di colpa specifica) – nondimeno l’utilizzo delle linee guida e, ancor più dei protocolli, per il giudizio di responsabilità colposa può certamente fornire maggiori margini di garanzia. In tutti i casi in cui, infatti, siano presenti linee guida, il giudice non sarà chiamato (attraverso i periti) a ricostruire ex post la regola di cautela appellandosi a criteri di tipo deontico, ma, piuttosto, dovrà individuare (compito che, invero, spetterà all’organo dell’accusa già all’atto della formulazione del capo di imputazione) la specifica linea guida (preesistente) che deve essere applicata al caso, chiedendo, eventualmente, al perito di 186 Cass. pen., sez. IV, 9 ottobre 2014, n. 47289, Stefanetti, in CED rv. 260739. Nello stesso senso v. Cass. pen., sez. IV, 8 luglio 2014, n. 2168, Anelli, in CED rv., 261764. Contra, più di recente, Cass. pen., sez. IV; 27 aprile 2015, n. 26996, Caldarazzo, in CED rv. 263826, in cui si torna ad affermare che l’art. 3 “non si estende agli errori diagnostici connotati da negligenza o imprudenza, perché le linee guida contengono solo regole di perizia”. Nonché Cass. pen., sez. IV, 20 marzo 2015, n. 16944, Rota, in CED rv. 263389. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 91 individuare circostanze concrete che avrebbero imposto un percorso differente187. In tale ottica, assume particolare importanza la novella del decreto Balduzzi che, seppure con le numerose difficoltà interpretative connesse, soprattutto, alla sua imprecisa formulazione, ha avuto indubbiamente il merito di riconoscere il sistema delle linee guida e di valorizzare, conseguentemente, la normatività della colpa. Siffatto sistema, però, ad oggi presenta ancora profonde lacune che dovrebbero essere superate, innanzitutto, attraverso un modello istituzionalizzato di formazione e selezione. Solo in tal modo sarà effettivamente possibile riconoscere alle stesse una effettiva portata cautelare e, soprattutto, sarà possibile eliminare quei margini di incertezza ad oggi nascenti dalla pluralità di fonti di produzione e dalla diversa autorevolezza delle stesse. Da ultimo, anche se forse è il profilo che, come già evidenziato, assume la maggior rilevanza, la nuova disposizione richiama l’attenzione sul necessario accertamento della rimproverabilità soggettiva, troppo spesso, in realtà, disatteso dalla giurisprudenza. Da questo punto di vista, però, non del tutto giustificabile è l’ancoraggio proposto dal legislatore della gradazione della colpa al rispetto delle linee guida: l’attribuzione al sanitario del fatto colposo deve tenere conto delle concrete situazioni e delle concrete possibilità di riconoscibilità del rischio anche nei casi in cui non si discuta dell’applicazione di linee guida, ma di regole di comune diligenza, prudenza e perizia. 9. Il comportamento alternativo lecito e l’evitabilità dell’evento Uno dei rischi connessi all’ipernormativizzazione della colpa è quello di una progressiva oggettivazione della responsabilità, come si assiste nella prassi giurisprudenziale: l’accertamento dell’avvenuta violazione della regola cautelare (sia essa generica o specifica) diviene, di fatto, assorbente, rispetto a qualsiasi ulteriore verifica. Nei casi in cui non risulta operante il principio di affidamento, in quanto il medico è astretto da un obbligo di controllo sull’operato del collega, l’accertamento circa la violazione della regola cautelare e circa l’efficacia causale della condotta rispetto all’evento non è, tuttavia, ancora sufficiente per poter muovere un rimprovero autenticamente colposo nei confronti del medico. L’esigenza di rimuovere dall’imputazione colposa del fatto ogni residua forma di responsabilità oggettiva occulta impone, infatti, l’ulteriore 187 In tal senso cfr. anche C. VALBONESI, Linee guida e protocolli per una nuova tipicità dell’illecito colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 250. 92 CAPITOLO SECONDO verifica circa l’effettiva evitabilità dell’evento in caso di comportamento alternativo lecito e circa la rimproverabilità del soggetto. L’imputazione colposa dell’evento richiede, quindi, un quid pluris, oltre al nesso causale tra condotta ed evento, caratterizzato dal nesso tra condotta colposa ed evento (c.d. causalità della colpa): è nell’ambito di questo accertamento che assume rilievo la tematica del comportamento alternativo lecito. Utilizzato per la delimitazione della responsabilità colposa, quale criterio ulteriore rispetto a quello della concretizzazione del rischio che la regola cautelare mirava ad impedire, il comportamento alternativo lecito è stato collocato dalla dottrina maggioritaria nella teoria della colpa e, segnatamente, nel profilo attinente l’evitabilità dell’evento. Nell’illecito colposo dovrebbero, infatti, individuarsi due momenti distinti di accertamento, concernenti, uno, il nesso causale tra condotta ed evento, l’altro, il nesso causale tra colpa – o meglio violazione della regola cautelare – ed evento. Non è, quindi, sufficiente che l’evento sia conseguenza della condotta attiva od omissiva del soggetto agente, ma è altresì necessario che detto evento trovi il suo specifico presupposto nella violazione della regola cautelare188. La verifica circa il nesso normativo tra violazione della regola di diligenza ed evento presuppone, ovviamente, la sussistenza della causalità naturalistica, in quanto non avrebbe senso indagare su un’imputazione colposa dell’evento se questo già materialmente non fosse attribuibile al soggetto, ma non può restare assorbita da questa. Per poter valutare l’evitabilità dell’evento in caso di comportamento conforme alla regola cautelare, l’attenzione deve, quindi, spostarsi sulla funzione preventiva della regola e, dunque, sull’attitudine della condotta prescritta ad evitare la verificazione dell’evento, in modo da escludere il nesso tra la violazione del dovere oggettivo di diligenza ed il risultato dannoso o pericoloso ogniqualvolta quest’ultimo si sarebbe comunque verificato, anche qualora il soggetto avesse tenuto il comportamento corretto. Il giudizio sull’efficacia preventiva della norma cautelare passa attraverso una duplice valutazione: la prima effettuata con criterio ex ante, finalizzata all’individuazione del contenuto in astratto della condotta doverosa che rende evitabile l’evento; la seconda, invece, effettuata con un giudizio ex post che, tenuto conto delle circostanze di fatto, permetta di stabilire se, nel caso concreto, la regola cautelare potesse o meno espletare la sua funzione precauzionale. Come osservato in dottrina, la puni188 È lo stesso articolo 43 c.p. a prevedere che l’inosservanza della regola cautelare costituisca causa dell’evento, prevedendo un accertamento causale successivo e distinto rispetto a quello ex art. 40 c.p. Cfr. in tal senso M. DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione “per l’aumento del rischio”, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 43. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 93 bilità per un evento, davvero cagionato per colpa, deve conseguire alla constatazione della tendenziale evitabilità della lesione del bene in caso di osservanza della regola di diligenza prescritta. Si tratta, quindi, di un requisito destinato a venir meno laddove, invece, l’aderenza della condotta ai doveri cautelari si rivelasse nella prospettiva ex post “neutrale” in rapporto all’evento. In tal senso, può configurarsi la verifica in esame come diretta a portare alla luce l’eventuale fallimento della norma di diligenza rispetto al conseguimento delle sue finalità di protezione del bene189, fallimento che può, invero, essere ricondotto a due ipotesi di fondo, a seconda che la stessa si riveli destinata all’insuccesso nel singolo caso concreto, oppure che risulti in astratto inidonea ad assicurare quel livello di efficacia preventiva da cui (erroneamente) la si riteneva contraddistinta190. La dottrina rimane, tuttavia, divisa circa il grado di probabilità di evitabilità dell’evento, a seguito dell’ipotetico comportamento alternativo lecito, necessario per poter escludere la responsabilità per colpa dell’agente191. Secondo il prevalente orientamento, per l’ascrivibilità dell’evento al soggetto è sufficiente che la condotta contraria alla regola di diligenza abbia aumentato il rischio di verificazione dell’evento192. La ratio 189 G. FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 670. 190 P. VENEZIANI, Regole cautelari “proprie” ed “improprie” nella prospettiva delle fattispecie colpose causalmente orientate, Padova, 2003, p. 61. 191 Per una ricostruzione delle tesi dottrinali sviluppate in materia v. di recente M. GROTTO, Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, Torino, 2012, p. 207 ss. 192 G. FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 692; F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 409; M. ROMANO, Art. 41, in Commentario sistematico, cit., p. 408 ss.; M. DONINI, Imputazione oggettiva dell’evento. “Nesso di rischio” e responsabilità per fatto proprio, Torino, 2006, p. 116. Anche la Corte di Cassazione afferma che in materia di accertamento della “causalità della colpa” il giudizio possa essere basato su un giudizio di probabilità. In tal senso cfr. Cass. pen., 12 luglio 1991, n. 371, Silvestri, in Foro it., 1992, c. 363, in cui i giudici osservano che “nella ricerca del nesso di causalità in materia di responsabilità per colpa professionale al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire quello della probabilità di tali effetti (e dell’idoneità della condotta a produrli); per cui il rapporto causale sussiste anche quando l’opera del sanitario, se correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì soltanto serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata probabilmente salvata”. V. inoltre, Cass. pen., sez. IV, 27 settembre 1993, n. 10437, Rossello, in Cass. pen., 1996, p. 3325, secondo la quale “in tema di responsabilità per colpa professionale del medico può essere consentito il ricorso ad un giudizio di probabilità in ordine alla prognosi sugli effetti che avrebbe potuto avere, se tenuta, la condotta dovuta. Qualora debba invece accertarsi il rapporto di causalità fra due avvenimenti concretamente verificatisi è necessario che l’esistenza del nesso causale venga riscontrata con sufficiente grado di certezza, se non assoluta, almeno con un grado tale da fondare su basi solide un’affermazione di responsabilità, non essendo sufficiente a tal fine un giudizio di mera verosimiglianza”. 94 CAPITOLO SECONDO della scelta del parametro dell’aumento del rischio viene ravvisata in un’esigenza di tipo politico-repressivo: richiedere la certezza dell’idoneità impeditiva del comportamento lecito, in presenza di una condotta sicuramente causale sul piano naturalistico e contraria alla regola cautelare, significherebbe restringere eccessivamente l’ambito della responsabilità penale, determinando un’inaccettabile caduta di tutela193. In particolare, si è osservato, che, in presenza di sicura incidenza causale tra condotta inosservante ed evento, l’accertamento “controfattuale” ammette valutazioni molto più probabilistiche: se infatti già sussiste la prova della causalità c.d. materiale della condotta, da un lato, della colpa come inosservanza della regola cautelare, dall’altro, e, altresì, la prova che comunque l’evento materialmente realizzato era del tipo di quelli che lo scopo preventivo della regola cautelare mirava a prevenire, non si può dubitare che si imputi un evento cagionato come “fatto proprio”194. Non si è mancato, tuttavia, di rilevare come una simile ricostruzione contrasti con il principio in dubio pro reo, in quanto riconoscere una responsabilità colposa anche nei casi in cui non vi è la certezza che la condotta diligente avrebbe impedito il verificarsi dell’evento, significa valutare a carico del soggetto alcuni elementi affetti da ambiguità. Se l’evitabilità dell’evento è elemento dell’imputazione colposa, allora essa deve essere dimostrata in termini di positiva certezza per poter muovere un rimprovero penale. Per di più, se si ritenesse sufficiente, ai fini dell’ascrizione dell’evento a colpa del soggetto agente, la mera possibilità che la condotta conforme al violato dovere di diligenza avrebbe evitato la verificazione del risultato lesivo, si finirebbe per porre in discussione la stessa rilevanza del comportamento alternativo lecito nella struttura dell’illecito colposo. Pertanto, nonostante le riconosciute esigenze di carattere preventivo, secondo i sostenitori di questo indirizzo, deve ritenersi che per l’imputazione dell’evento sia necessaria la certezza o alta credibilità dell’effettiva efficacia preventiva della regola cautelare195. Di conse193 F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 419. 194 M. DONINI, Causalità omissiva, cit., p. 43. 195 G. MARINUCCI, Causalità reale e causalità ipotetica nell’omissione impropria, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 528 ss. per il quale, ai fini della condanna del soggetto occorre dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, che il rispetto della regola cautelare avrebbe impedito l’evento con un grado di probabilità «ai limiti della certezza». V. altresì L. EUSEBI, Appunti sul confine tra dolo e colpa nella teoria del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 1061, il quale richiede che l’accertamento sull’evitabilità dell’evento conduca ad affermare che il comportamento alternativo lecito avrebbe con certezza impedito l’evento, osservando, peraltro, che “le nozioni di causalità cui fanno riferimento gli articoli 40 e 43 c.p. – l’uno con riguardo al rapporto dell’evento con la condotta, l’altro con riguardo al rapporto del medesimo con la violazione di una norma cautelare – non si riferiscono a due realtà distinte, da considerarsi in successione, bensì alla medesima realtà, e, dunque, coincidono”. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 95 guenza, ogni volta che, a conclusione del giudizio ipotetico volto ad accertare l’efficacia del comportamento alternativo lecito, permangano dubbi circa l’attitudine ad impedire l’evento, la responsabilità colposa deve essere esclusa. Secondo una tesi intermedia, la valutazione circa l’idoneità ad impedire l’evento del comportamento alternativo lecito deve avvenire secondo parametri probabilistici diversi a seconda che si tratti di fattispecie commissive ovvero omissive. Se, infatti, per le prime è sufficiente l’aumento del rischio (secondo i rilievi già svolti sopra), per le seconde, invece “non è possibile attribuire al soggetto, come fatto proprio, il decorso causale effettivo, se non ricostruendolo come omissione e quindi attraverso il suo ipotetico comportamento alternativo lecito: perché c’è una sola condotta illecita, che si definisce come tale in virtù di un giudizio controfattuale, mentre il giudizio fattuale si riduce alla valutazione del verificasi dell’evento, senza causazione alcuna da parte del soggetto che ha rifiutato l’intervento. Pertanto, qualora consti che la condotta doverosa avrebbe avuto significative probabilità di salvare il bene giuridico, si ha un “aumento del rischio” a fronte del dubbio sulla causazione: non è infatti possibile affermare che la diminuzione di chance risultante a contrario dall’omissione equivalga alla diminuzione della condotta colposa commissiva, giacché, in quest’ultima, il soggetto ha comunque cagionato l’evento oltre ad aumentarne il rischio, mentre nell’omissione no”196. Un approfondito studio dottrinale circa le questioni sottese al comportamento alternativo lecito ha, infine, evidenziato la necessità di una distinzione tra regole cautelari “proprie” ed “improprie”, fondata sull’efficacia della regola cautelare: sono regole cautelari proprie quelle fondate su un giudizio di prevedibilità e di sicura evitabilità dell’evento, ovverosia quelle precauzioni che, con probabilità prossima alla certezza, sono idonee ad impedirne la verificazione; sono, invece, regole cautelari improprie, quelle che, a fronte della prevedibilità dell’evento, impongono di adottare precauzioni che, tuttavia, non garantiscono un azzeramento (o quasi del rischio), ma soltanto una riduzione del medesimo (sicché il comportamento lecito con un certo livello di probabilità, variabile a seconda dell’efficacia della regola – è in grado di prevenire l’evento, ma senza che sia ragionevole nutrire alcuna ragionevole certezza in merito)197. Queste ultime sono relative alle attività pericolose (quale l’attività 196 M. DONINI, Causalità omissiva, cit., p. 43 ss. Contra L. EUSEBI, Appunti, cit., p. 1067 ss.; F. ANGIONI, Note sull’imputazione dell’evento colposo con particolare riferimento all’attività medica, in E. DOLCINI, C.E. PALIERO (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, vol. II, p. 1279 ss. 197 P. VENEZIANI, Regole cautelari, cit., p. 15. 96 CAPITOLO SECONDO medica), consentite dall’ordinamento in ragione della loro utilità sociale, ma non provviste di regole cautelari idonee ad azzerare i rischi connessi al loro esercizio. Sulla base di questa classificazione, sarebbe possibile risolvere anche il problema del grado di evitabilità dell’evento nel caso di comportamento alternativo lecito, distinguendo tra situazioni in cui il soggetto con la propria condotta abbia creato un rischio non consentito e situazioni in cui invece il rischio non sia stato creato dal soggetto. Orbene, nel primo caso, laddove il rischio sia effettivamente sfociato nella verificazione dell’evento lesivo tipico e sia certo che la condotta attiva creatrice del rischio abbia cagionato l’evento e quest’ultimo rappresenti la concretizzazione del rischio specifico che la regola cautelare violata mirava ad evitare, il fatto colposo può dirsi realizzato anche in presenza di mere chances di salvezza del comportamento alternativo lecito. In tali casi, infatti, la fattispecie colposa causalmente orientata si presta ad essere integrata anche da regole cautelari improprie, l’osservanza delle quali non avrebbe comunque impedito con certezza il verificarsi dell’evento. Nel diverso caso in cui, invece, il soggetto non abbia creato alcun rischio, ma si trovi a dover fronteggiare una situazione creatasi aliunde (es. il medico che deve curare una patologia già in atto), l’obbligo che incombe sul soggetto è quello di fare quanto necessario, in base alle regole cautelari enucleabili rispetto al caso, per impedire la realizzazione dell’evento lesivo. Si tratta, quindi, di attivare, mediante il comportamento alternativo lecito, “decorsi causali alternativi, accreditati – in base alla stessa regola cautelare di riferimento – di un certo livello di probabilità di successo o addirittura di un grado di probabilità di salvezza del 100%”. Ciò, implica, evidentemente, l’inidoneità delle regole cautelari improprie ad integrare il contenuto precettivo della fattispecie colposa causalmente orientata198. Nonostante i fervidi dibattiti dottrinali sulla rilevanza del comportamento alternativo lecito e sulla sua collocazione dogmatica, la giurisprudenza non ha, dal canto suo, mostrato particolare interesse per il tema dell’accertamento dell’evitabilità dell’evento nei reati colposi. Un accertamento che è stato, quindi, per lo più pretermesso nelle decisioni giurisprudenziali o che, anche laddove effettuato, ha finito per essere erroneamente collocato sul piano sistematico del nesso di causalità materiale, anziché della causalità colposa. Tale disorientamento è il frutto della già più volte segnalata difficoltà della giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità, di distinguere i piani di indagine della colpa e della causalità, che la spinge, nonostante l’utilizzo di formule “nesso causale tra colpa ed 198 P. VENEZIANI, Regole cautelari, cit., p. 46 ss. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 97 evento”, “efficienza causale della condotta colposa nella produzione dell’evento” ovvero “evitabilità dell’evento da parte del comportamento conforme alla regola di diligenza prescritta nel caso concreto”, a collocare il comportamento alternativo lecito nell’impropria sede del rapporto di causalità. La frequente trasformazione degli illeciti commissivi colposi in illeciti omissivi, infatti, fa si che il requisito della causalità della colpa venga ricostruito secondo lo schema della causalità omissiva199, con il corollario che la prova che il comportamento alternativo lecito non avrebbe impedito l’evento esclude la sussistenza del rapporto causale tra la condotta omissiva, consistente nella mancata adozione delle cautele doverose, e l’evento lesivo. Delineate, quindi, le caratteristiche del comportamento alternativo lecito, deve ritenersi che esso assuma contorni peculiari nel campo dell’attività plurisoggettiva. In tal caso, infatti, corre l’obbligo di verificare l’effettiva efficacia salvifica dell’intervento di emenda dell’errore altrui. Dovrà, quindi, concludersi per la carenza di colpa nei casi in cui si accerti che, anche laddove il medico avesse correttamente adempiuto all’obbligo di vigilanza, l’evento si sarebbe comunque verificato, in quanto il suo tempestivo intervento non avrebbe potuto porre rimedio all’errore del collega. In realtà, le sentenze che si sono occupate del problema si sono limitate a verificare la sussistenza della violazione di un dovere cautelare da cui scaturiva l’obbligo di controllo (ad esempio in forza della posizione gerarchica sovraordinata del medico imputato), ma non si sono mai spinte a verificare l’effettiva efficacia impeditiva dell’evento nel caso di comportamento conforme alla regola doverosa che imponeva di effettuare l’attività di vigilanza200. 10. Misura soggettiva della colpa del medico: la riconoscibilità dell’errore altrui La massima valorizzazione del principio della responsabilità personale avviene nella fase di accertamento della c.d. “misura soggettiva” della colpa. Come autorevolmente osservato in dottrina, infatti, mentre l’accertamento del momento oggettivo dell’illecito (a cui afferiscono sia il giudizio di causalità che quello di negligenza) esprime un’istanza di raccordo di carattere generale ed astratto tra condotta ed evento – a pre199 L. GIZZI, Il comportamento alternativo lecito nell’elaborazione giurisprudenziale, in Cass. pen., 2005, p. 4118. 200 Cass. pen., sez. IV, 2 aprile 2007, n. 21594, Scipioni e altro, cit.; Cass. pen., sez. IV, 29 settembre 2005, n. 47145, Sciortino, cit. 98 CAPITOLO SECONDO scindere, quindi, dalle caratteristiche dell’agente concreto – il giudizio di colpevolezza, invece, impedisce l’imputazione dell’illecito ogni qualvolta i processi motivazionali che hanno determinato l’agente hic et nunc alla realizzazione dell’illecito presentino un certo grado di alterazione. Per questo il giudizio di colpevolezza non può trascurare la riconoscibilità o meno dei presupposti di fatto che rendono obbligatorio il dovere di diligenza201 e deve tenere conto delle reali attitudini del soggetto concreto che ha agito onde valutare se egli fosse in grado di uniformare il proprio comportamento alla regola di cautela. Nella dottrina italiana (e, ancor più nella giurisprudenza) persistono, tuttavia, ancora notevoli riluttanze ad una piena individualizzazione della colpa. Si evidenzia, infatti, che il parametro dell’“agente concreto” finirebbe per relativizzare troppo il giudizio di colpa, rendendolo sostanzialmente inattuabile, mentre il ricorso ad un parametro quale quello dell’“agente modello”consentirebbe di non oggettivizzare, fino a svuotarlo, il momomento dell’imputazione soggettiva, ma contemporaneamente di salvaguardare le esigenze di certezza del diritto202. Pur rimanendo un sistema predefinito (in quanto individua standards ottimali di comportamento in ragione dell’attività svolta) esso sarebbe, nondimeno, in grado di relativizzare il giudizio attraverso la costruzione nell’ambito dello stesso genus di operatori di sotto-categorie di agenti modello con diversi livelli di conoscenza e capacità per ragioni obiettive (es. nell’ambito del genus “medico”, sarà possibile distinguere l’agente modello specialista dall’agente modello specializzando). Pur dovendosi dare atto dello sforzo individualizzante compiuto attraverso la predisposizione di sotto-categorie di agenti modello, si deve, però constatare che quello proposto resta pur sempre un modello astratto, che implica un raffronto del soggetto con qualcosa di esterno determinando un potenziale scarto203. Il giudizio di imputazione colposa non può prescindere da una valorizzazione delle circostanze peculiari del caso concreto e dall’accertamento delle reali attitudini dell’agente. Lo impone, non solo il già richiamato, principio di personalità (art. 27 Cost.), ma anche quello di uguaglianza (art. 3 Cost.). È noto, infatti, che le regole cautelari sono regole “generaliste”, in quanto volte a regolare categorie di situazioni in modo 201 F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 347. 202 F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 349 ss. 203 G. FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 234, il quale evidenzia, altresì, che l’agente modello è l’espressione “dell’aspettativa dell’ordinamento di un adeguamento dei consociati ai propri giudizi prognostici” e, come tale, “incarna il punto di vista del diritto, è la personificazione dell’ordinamento giuridico nella situazione concreta”. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 99 omogeneo ed uguale per tutti i consociati, e come tali, quindi, non consentono di valutare se nel contesto motivazionale si siano innestate condizioni soggettive talmente anomale da mettere in dubbio la possibilità di ricomprendere l’agente nella categoria generale delineata in sede normativa. L’applicazione delle medesime conseguenze giuridiche a situazioni, che per il loro grado di anomalia, divergono dal dettato normativo determinerebbe una violazione del principio di uguaglianza204. Ammessa, quindi, l’esigenza di un giudizio in concreto, resta, però, da stabilire quali e quante caratteristiche personali e quali situazioni concrete debbano avere rilevanza nel giudizio, perché il rischio diviene quello di fondare il giudizio su tutte le caratteristiche del soggetto agente giungendo sostanzialmente sempre ad escludere la colpa205. Secondo il prevalente orientamento, oggetto del giudizio di colpevolezza non possono essere tutte le caratteristiche del soggetto agente, in quanto in tal modo si finirebbe per far coincidere il punto di vista dell’ordinamento giuridico con quello del soggetto. Si ritiene, in particolare, di dover escludere dalla valutazione tutte le qualità di tipo morale o caratteriale (quali ad es, l’insensibilità, la superficialità, etc.), mentre, al contrario dovrebbero essere incluse tutte le caratteristiche fisiche ed intellettuali (quali ad. es. livello di scolarizzazione, menomazioni o cattive condizioni di salute, esperienze, etc.) e circostanze anomale concomitanti all’agire (quali ad esempio stanchezza, stress emotivo, paura, etc.)206. Proprio le persistenti incertezze interpretative sull’individuazione dei parametri per l’accertamento della misura soggettiva, tuttavia, hanno probabilmente frenato la compiuta affermazione, anche in ambito giurisprudenziale, di tale giudizio207. Un esame dei casi giurisprudenziali nei quali, in generale, si è affrontato il tema della responsabilità colposa evidenzia, difatti, la quasi assoluta carenza di valutazioni in ordine al profilo dell’attribuibilità soggettiva del fatto e, quindi, dell’individualizzazione del giudizio di colpa. D’altro canto, anche nelle rare ipotesi in cui si assista ad una valutazione di componenti soggettive esse, peraltro, non vengono compiutamente valorizzate e dalla loro sussistenza non se ne traggono le necessarie conseguenze in sede di decisione208. 204 E. BORSATTI, La soggettivizzazione della colpa: profili dogmatici e pratico-applicativi, in Ind. pen., 2005, p. 78. 205 M. ROMANO, Art. 43, cit., p. 468 s. 206 G. FIANDACA, E, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 604 ss.; M. ROMANO, Art. 43, cit., p. 468; S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 445 s. 207 In dottrina si è osservato che una nozione di colpa molto “normativizzata” e, in definitiva, “oggettiva” risulta di più facile gestione processuale. In tal senso cfr. D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., p. 573. 208 Autorevole dottrina ha sottolineato che “troppi processi sono tutti giocati sul piano della causalità e della lex artis, mentre il vero nodo problematico è quello della rimprovera- 100 CAPITOLO SECONDO Esemplificativo in questo senso è l’andamento delle decisioni in materia di cooperazione multidisciplinare in campo medico, la cui analisi mostra l’utilizzo da parte della giurisprudenza dei due parametri della evidenza e della non settorialità dell’errore altrui che, a prima vista, orientano il giudizio di individualizzazione209. Due parametri il cui contenuto, tuttavia, lungi dall’essere predeterminabile e, quindi, autenticamente limitativo della responsabilità, essendo sostanzialmente rimesso alla discrezionalità interpretativa del giudicante che generalmente ne amplia il contenuto a tal punto da snaturare il principio di affidamento. Il requisito dell’evidenza, infatti, viene inteso in un senso meramente quantitativo di grossolanità dello scostamento del collega dalle regole dell’arte che disciplinano la corretta esecuzione della prestazione dovuta. In sostanza, come sottolineato in dottrina, è la sola macroscopicità della colpa a determinare l’ampliamento delle sfere di competenza, e l’evidenza dell’altrui condotta colposa non si ricava dalla peculiare dinamica del caso concreto, ma si modella su un astratto piano deontico210. Per un giudizio autenticamente individualizzante l’“evidenza” dovrebbe, piuttosto, essere intesa in senso qualitativo, come concreta percezione o percepibilità dell’errore da parte di un professionista, che è pur sempre astretto, in via primaria, dall’obbligo della diligente esecuzione delle mansioni di sua competenza. In questo ambito dovrebbero, peraltro, trovare valorizzazione anche le competenze del soggetto agente, in quanto un medico in posizione iniziale ha minori strumenti per poter riconoscere l’errore del collega rispetto, ad esempio, ad un medico in posizione apicale. Se concepita in questi termini, l’evidenza non può dirsi sottesa o implicita ad ogni attività svolta in cooperazione, ma deve essere accertata di volta in volta. Ne consegue che la percepibilità dell’errore è a sua volta collegata alla non-settorialità dello stesso: in tanto può esigersi da un sanitario di avvedersi dell’altrui errore e di emendarlo, in quanto lo stesso sia rilevabile sulla base delle conoscenze comuni di ogni sanitario e non sulla base di conoscenze tecniche legate alla specializzazione211. bilità colposa”, evidenziando, altresì, che, per restringere la portata della responsabilità medica e per ricondurla nell’alveo dei principi, occorre recuperare la colpevolezza della colpa, nonché incrementare l’attenzione per la colpa che alligna nel contesto organizzativo, in cui sempre più spesso e necessariamente si svolge l’attività medica. In tal senso v. F. PALZZO, Responsabilità medica, cit., p. 1064. 209 Cass. pen., sez. IV, 15 novembre 2012, n. 44830, in Riv. it. med. leg., 2013, p. 900 ss. 210 A. ROIATI, Medicina difensiva, cit., p. 269 s. 211 C. CANTAGALLI, Brevi cenni, cit., p. 2843. In dottrina si è osservato che quest’ultima costituisce un’ipotesi di affidamento definito come necessario “caratterizzato dalla circostanza che colui che fa affidamento sulla correttezza del comportamento di un altro soggetto IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 101 La valutazione dei predetti requisiti dell’errore deve, peraltro, essere necessariamente riferita alle peculiarità della fattispecie concreta e, di conseguenza, essi andranno apprezzati con riferimento anche alle caratsi troverebbe nella necessità di dovere, e di conseguenza potere, attendere solo quel dato comportamento, a ragione di un proprio deficit di conoscenza, che gli preclude di sindacare e controllare in modo effettivo l’operato altrui”. In tal senso cfr. M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 156 ss., il quale, invece definisce affidamento “fondato” quello che si instaura “fra e/o su persone che si possono reciprocamente controllare”. Secondo parte della dottrina, nel caso in cui il sanitario non possa esercitare il proprio dovere di controllo in quanto non in possesso delle dovute conoscenze tecniche, verrebbe meno la stessa componente oggettiva della colpa e non semplicemente la rimproverabilità. In tal senso cfr. L. CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti (Parte II), cit., p. 1103 (nota 124), secondo il quale “sembra più corretto invece ritenere non concretata già la misura oggettiva della colpa, dato che non si fa questione, in subiecta materia, di relazionare il giudizio di colpa alle particolari capacità o conoscenze individuali del soggetto: il parametro di riferimento è ancora quello dell’homo eiusdem condicionis et professionis (oltretutto, già sul piano oggettivo, l’ordinamento non può imporre obblighi che si escludono e pretenderne l’osservanza senza cadere in contraddizione: in questi casi è già implicito che la sussistenza di un dovere di diligenza è prevalente, quindi esclude la sussistenza degli eventuali altri)”. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 25 maggio 2010, n. 19637, F.F., cit. L’errore riconoscibile, peraltro, deve essere emendato dal sanitario anche se commesso in una fase antecedente rispetto al suo intervento: Cass. pen., sez. IV, 11 ottobre 2007, n. 41317, Raso ed altri, cit., in cui si afferma “in tema di colpa medica nell’attività di équipe, ciascuno dei soggetti che si dividono il lavoro risponde dell’evento illecito, non solo per non aver osservato le regole di diligenza, prudenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte, ma altresì per non essersi fatto carico dei rischi connessi agli errori riconoscibili commessi nelle fasi antecedenti o contestuali al suo specifico intervento”. V. anche Cass. pen., sez. IV, 12 luglio 2006, n. 33619, Iaquinta, in Riv. it. med. leg., 2007, p. 188, in cui i giudici della Suprema Corte sono chiamati a pronunciarsi in ordine alla penale responsabilità di due anestesisti (I.U. e B.R.) imputati di aver provocato la morte di una partoriente, durante il taglio cesareo, a seguito dell’erronea esecuzione della manovra di intubazione. Nel corso di tale manovra, infatti, gli anestesisti avevano per ben due volte introdotto la cannula nell’esofago, anziché in trachea, determinando uno stato di anossia prolungata, a cui era conseguita la morte della paziente. Dopo la prima manovra di intubazione, al manifestarsi dei primi sintomi di sofferenza da ipossigenazione, i due sanitari erano stati indotti ad una nuova introduzione del tubo nella trachea; ma, nonostante il secondo tentativo, la situazione era degenerata in arresto cardiaco, che aveva portato al decesso della paziente. In particolare, i giudici si sono occupati dei profili di responsabilità del secondo anestesista, il quale “non si è avveduto della prima manovra di intubazione eseguita dal B., ed ha provveduto ad effettuare la seconda erronea […]; sicché ha partecipato attivamente alle due fasi dell’anestesia, entrambe errate […]. Ciò costituisce elemento tranciante rispetto all’affermazione dello I. secondo cui questi sarebbe intervenuto solo allorquando si era già verificato il decesso della M. (affermazione peraltro priva di qualsiasi fondamento alla luce di quanto accertato in sede di merito dalla Corte territoriale: quest’ultima ha precisato, infatti, che la situazione degenerò in arresto cardiaco dopo la seconda introduzione del tubo nella trachea della M.)”. In sostanza, quindi, ad avviso della Corte, il secondo anestesista avrebbe dovuto avvedersi dell’errore del sanitario che lo ha preceduto avendo la medesima specializzazione. Sempre nello stesso senso v. altresì Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2005, n. 18548, Miranda ed altri, cit.; Cass. pen., sez. IV, 26 maggio 2004, n. 39062, Picciurro ed altri, cit. 102 CAPITOLO SECONDO teristiche tecniche delle mansioni affidate al singolo medico ed al ruolo dallo stesso assunto nel contesto del trattamento. Appare di tutta evidenza, infatti, che la difficoltà delle mansioni attribuite a ciascun medico non potrà non influire, in modo inversamente proporzionale, sull’esercizio del dovere di controllo, e quindi sulla rilevabilità dell’errore: più impegnative saranno le attività demandate al singolo sanitario, minore sarà il controllo che lo stesso potrà esercitare sull’altrui operato. D’altro canto, anche l’effettivo grado di inserimento del sanitario nel contesto del trattamento terapeutico influisce innegabilmente sulla possibilità dello stesso di rilevare l’errore: il professionista che abbia assunto un ruolo assolutamente marginale, non potrà certamente avere una compiuta conoscenza della storia clinica del paziente o delle scelte terapeutiche effettuate, e tale difetto cognitivo potrebbe riflettersi sulle possibilità e sulle modalità di intervento in caso di errore altrui212. Si tratta, invero, di circostanze che generalmente non vengono prese in considerazione dalla giurisprudenza che ritiene evidenti e non-settoriali (e, quindi, emendabili) gli errori altrui indipendentemente dalla valutazione della situazione concreta in cui il medico si è trovato ad operare e, soprattutto, delle sue competenze. Tale difetto di accertamento è, ad esempio, nitidamente rinvenibile nelle decisioni in cui si afferma la responsabilità del medico nonostante abbia operato in una situazione di carenza strutturale ovvero del medico specializzando per non essersi astenuto dall’eseguire le direttive impartite dal superiore, cagionando in tal modo un evento infausto per la vita o l’integrità fisica del paziente. Nel primo caso, infatti, generalmente non viene riconosciuta alcuna efficacia scusante alle carenze strutturali ed organizzative facendosi, invece, ricadere sul medico un obbligo di trasferimento del paziente; mentre nel secondo caso nessuna valutazione viene compiuta in ordine alla capacità dello specializzando, da un lato, di rilevare i rischi per la salute del paziente (tenuto conto delle sue ancora limitate conoscenze tecniche) e, dall’altro, di opporsi efficacemente agli ordini imposti dal superiore gerarchico. 11. Cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti Da quanto sin qui osservato è emerso che, in un’epoca (quale quella attuale) di crescente tecnicizzazione dell’ars medica, l’intervento diagnostico o terapeutico richiede la necessaria partecipazione di più sanitari, con la conseguenza che l’evento lesivo che si verifichi ai danni del pa212 C. CANTAGALLI, Brevi cenni, cit., p. 2843 ss. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 103 ziente è quasi sempre frutto di una pluralità di condotte colpose: o perché i medici che hanno cooperato (contestualmente o in successione) hanno tutti violato le leges artis eseguendo in modo erroneo l’atto di loro competenza, ovvero perché un medico ha compiuto materialmente l’errore ed i suoi colleghi non hanno impedito l’evento lesivo, omettendo il dovuto controllo. In entrambi i casi le condotte hanno concorso a cagionare l’evento lesivo ai danni del paziente. Rispetto ad esse, si pone l’ulteriore problema di verificare se il medico debba essere chiamato a rispondere dell’evento a titolo concorsuale (ex art. 113 c.p.), ovvero ai sensi della fattispecie monosoggettiva di parte speciale (artt. 589 o 590 c.p.). La soluzione presuppone il preliminare esame di un annoso, ed ancora fervido, dibattito dottrinale circa l’effettiva portata incriminatrice dell’art. 113 c.p. e circa la possibilità di distinguere tra la cooperazione nel delitto colposo ed il concorso di cause colpose indipendenti. La questione, oggetto di nutriti – seppur frammentari – studi di carattere generale213, sconta, al contrario, una scarna o quasi assente, elaborazione nello specifico ambito della responsabilità medica. Come noto, l’art. 113 c.p. disciplina l’istituto della cooperazione colposa, inserito per la prima volta nel nostro ordinamento dal codice Rocco, sancendo l’eguale responsabilità di tutti coloro che abbiano colposamente cooperato alla realizzazione di un delitto colposo. Pur avendo risolto in radice la questione dell’ammissibilità di un concorso nel delitto colposo, la norma ha tuttavia lasciato aperte diverse questioni interpretative. Già all’indomani della sua entrata in vigore, infatti, gli interpreti si sono divisi tra i fautori di una sua funzione incriminatrice214 e quelli che invece ne sostenevano una funzione di mera disciplina215. Secondo i sostenitori di quest’ultimo orientamento, l’art. 113 c.p. non avrebbe alcuna attitudine incriminatrice, limitandosi ad estendere l’applicabilità di al213 In realtà, negli studi che se ne sono occupati, la cooperazione colposa è spesso relegata ai margini della teoria del concorso di persone nel reato, quale forma “impropria” di concorso. La dottrina, infatti, prevalentemente orientata nell’accomunare i due fenomeni, del concorso doloso e della cooperazione colposa, entro schemi unitari, piuttosto che a metterne in evidenza il profondo divario strutturale, ha finito, da un lato, con il lasciare in ombra le note tipiche della cooperazione colposa, e, dall’altro, con l’adattarvi principi che, enucleati dalla disciplina della partecipazione dolosa, non sono invece compatibili con la struttura della colpa. In questo senso, v. G. COGNETTA, La cooperazione nel delitto colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, p. 65. 214 M. SPASARI, Profili di teoria generale del reato in relazione al concorso di persone nel reato colposo, Milano, 1957, p. 79; A.R. LATAGLIATA, Cooperazione nel delitto colposo, in Enc. dir., vol. X, Milano, 1962, p. 615; G. COGNETTA, La cooperazione, cit., p. 71 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 543. 215 M. GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano, 1957, p. 112. 104 CAPITOLO SECONDO cune norme di disciplina del concorso a comportamenti già tipici alla stregua delle fattispecie colpose di parte speciale. La principale giustificazione che viene addotta a sostegno di questa ricostruzione va ravvisata nella particolare struttura degli illeciti colposi che, secondo questo indirizzo, sarebbero tutti “causalmente orientati” e gravitanti, quindi, intorno al mero disvalore dell’evento lesivo216. Se così è, non vi sarebbe bisogno di una norma che, al pari dell’art. 110 c.p., assolva ad una funzione di estensione della tipicità, in quanto, nell’ambito della fattispecie colposa monosoggettiva, assumerebbe rilievo qualsiasi condotta, purché causale rispetto al verificarsi dell’evento. Si è, però, osservato che le premesse da cui muove la concezione che riduce la portata applicativa dell’art. 113 c.p. non trovano compiuto riscontro sul terreno del diritto positivo ove, in realtà, si rinvengono (seppure in numero minore rispetto a quelle “causalmente orientate”) anche fattispecie colpose di mera condotta e a forma vincolata, rispetto alle quali, quindi, sicuramente la disposizione in esame potrebbe e dovrebbe assolvere ad un’autonoma funzione incriminatrice. In ogni caso, rimarrebbe comunque da verificare se, anche con riferimento alle fattispecie causalmente orientate, l’art. 113 c.p. possa assumere una funzione di estensione della tipicità217. In tal senso, alcuni autori hanno sottolineato l’esistenza di una sia pur limitata funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. anche per gli illeciti colposi causalmente orientati fra i quali, senza alcuna pretesa di completezza, si possono ricordare i casi dei reati omissivi impropri e delle condotte realizzate in violazione di norme secondarie ovvero di condotte c.d. neutre. Con riferimento alla prima ipotesi, si è sostenuto che l’art. 113 c.p. potrebbe consentire l’incriminazione di un contributo positivo, di per sé atipico – realizzato da un soggetto estraneo alla posizione di garanzia – prestato per la realizzazione di un reato commesso mediante omissione colposa218. Per 216 M. GALLO, Lineamenti di una teorica, cit., p. 117 e 125. 217 Nel senso dell’efficacia estensiva dell’art. 113 c.p. rispetto a condotte atipiche, agevolatrici, incomplete o di semplice partecipazione è orientata anche la giurisprudenza di legittimità. In questo senso v. Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 2009, n. 1786, Tomaccio ed altri, cit.; Cass. pen., sez. IV, 2 novembre 2011, n. 1428, Gallina, in Dir. e giust., 20 dicembre 2012; Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 2012, n. 36280, Forlani, in Cass. pen., 2013, p. 3015, con nota di M. ZINCANI, La cooperazione nel delitto colposo. La portata incriminatrice dell’art. 113 c.p. nei reati a forma libera, ivi, 2014, p. 163 ss.; F. PIQUÈ, La funzione estensiva della punibilità dell’art. 113 c.p., ivi, 2014, p. 882 ss. 218 In tal senso cfr. G. GRASSO, Commento all’art. 113 c.p., in Commentario sistematico al codice penale (artt. 85-149), II, M. ROMANO, G. GRASSO, Milano, 2012, p. 233, secondo il quale “nei reati omissivi impropri è solo grazie all’art. 113 c.p. che risulta possibile sanzionare il contributo positivo alla condotta omissiva del garante, mentre una compartecipazione IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 105 quanto, invece, concerne il secondo gruppo di ipotesi, le norme sulla cooperazione colposa avrebbero la funzione di sottolineare una tipicità che potrebbe essere definita di “secondo livello”, consentendo di incriminare condotte che, pur avendo contribuito colposamente a cagionare un evento lesivo, non potrebbero assumere autonomo rilievo ai sensi della fattispecie di parte speciale219. Seguendo questa impostazione, non rientrerebbero nell’ambito di applicazione della fattispecie monosoggettiva, e conseguentemente assumerebbero rilevanza solo grazie all’applicazione dell’art. 113 c.p., le condotte realizzate in violazione di regole cautelari c.d. secondarie, che non si propongono in via diretta l’impedimento dell’evento, ma che sono piuttosto dirette al controllo di condotte colpose di terzi220. Secondo altri autori, infine, l’art. 113 c.p. manterrebbe una funzione incriminatrice riguardo a condotte ancora neutre, rispetto alla fattispecie di parte speciale, caratterizzate cioè da una pericolosità ancora astratta ed indeterminata, priva di un’immediata connessione di rischio rispetto al tipo di evento che hanno contribuito a cagionare221. La giurisprudenza è in modo sostanzialmente unanime orientata nel senso di riconoscere portata estensiva all’art. 113 c.p. giungendo fino a riconoscergli un’efficacia incriminatrice anche rispetto a condotte “atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione” che non sono causali rispetto al verificarsi dell’evento e che, quindi, per assumere significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte realizzate dai concorrenti222. omissiva da parte di un soggetto obbligato all’impedimento dell’evento risulterebbe invece già sanzionata sulla base della clausola di equivalenza contenuta nell’art. 41 cpv., c.p.”. Nello stesso senso F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, cit., p. 183, il quale propone anche il seguente esempio: “A, infermiere, che si è impegnato a praticare a B, gravemente ammalato, alcune fleboclisi. La moglie di A, per mera trascuratezza, riesce a convincere il marito ad accompagnarla a far compere, ritardando così l’appuntamento con B. Quest’ultimo, in conseguenza della ritardata terapia, è colto da una crisi cardiaca e muore”. L’Autore, invocando, appunto, la funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. ritiene che in questa ipotesi debba ritenersi responsabile di omicidio colposo anche la moglie di A (pur non essendo ella garante). 219 F. ALBEGGIANI, La cooperazione colposa, in Studium Iuris, 2000, p. 517. 220 G. COGNETTA, La cooperazione, cit., p. 88 ss. 221 A.R. LATAGLIATA, Cooperazione, cit., p. 615; L. RISICATO, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato, Milano, 2001, p. 139. Si riporta a tal proposito l’esempio del noleggiatore che fornisca un’autovettura ad una persona nella consapevolezza che questa userà l’automobile per una gara di velocità in pieno centro abitato. La prima condotta, quindi, non avrebbe ancora realizzato il rischio rispetto al tipo di evento che ha, nondimeno, contribuito a cagionare e, di conseguenza, non potrebbe essere ritenuta tipica ai sensi della fattispecie di parte speciale. Nello stesso senso v. C. BRUSCO, L’effetto estensivo della responsabilità penale nella cooperazione colposa, in Cass. pen., 2014, p. 2882. 222 In questo senso, in particolare, v. Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 2012, n. 36280, Forlani, cit. 106 CAPITOLO SECONDO A questi sforzi di riconoscere, anche rispetto a fattispecie colpose causalmente orientate, una funzione incriminatrice all’art. 113 c.p. sono state mosse alcune obiezioni. Con riferimento, innanzitutto, alle ipotesi di contributo positivo, prestato da un soggetto privo della posizione di garanzia, alla commissione di un reato omissivo improprio, è stato rilevato come una sua incriminazione, grazie alle norme sulla cooperazione colposa, comporterebbe una intollerabile dilazione della punibilità ed una sostanziale violazione del principio di legalità223. Secondariamente, è stata criticata la tesi volta a ritenere atipiche per la fattispecie di parte speciale, e quindi punibili solo in forza dell’art. 113 c.p., le condotte costituenti violazione di norme c.d. secondarie, sulla scorta del rilievo che “il disvalore connesso alla violazione di obblighi cautelari c.d. secondari – e cioè, obblighi di controllo o sorveglianza nei confronti di un contegno altrui – è quello che tipicamente connota la condotta omissiva: in altri termini il rimprovero penale si riferisce ad una omissione di controllo o di vigilanza che ha per effetto il mancato impedimento del reato del terzo che si doveva impedire. Ricorre, dunque, lo schema del reato omissivo improprio colposo: cioè di un modello di fatto delittuoso, direttamente riconducibile alla fattispecie monosoggettiva di parte speciale senza che al riguardo muti qualcosa a seconda che l’obbligo di condotta disatteso abbia a contenuto il diretto impedimento dell’evento lesivo, ovvero, l’impedimento di una condotta altrui causativa a sua volta dell’evento da evitare”224. Si è, inoltre, sottolineato che quest’ultima tesi restringerebbe in modo eccessivo il novero delle regole cautelari rilevanti in sede di cooperazione colposa, in quanto le regole “secondarie” non sono le uniche che possono fondare una responsabilità a titolo di concorso nel delitto colposo, che può avere origine anche dalla comune violazione di una regola la cui osservanza gravi su più soggetti225. Le problematiche attinenti all’individuazione della funzione dell’art. 113 c.p. non esauriscono le questioni interpretative della norma. Altro spinoso nodo concerne, infatti, gli elementi strutturali della cooperazione colposa e la sua distinzione, da un lato, dal concorso doloso e, dall’altro, dal concorso di cause colpose indipendenti. Nonostante qualche opinione contraria, la prevalente dottrina è giunta alla conclusione che la 223 G. INSOLERA, voce Concorso di persone nel reato, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, p. 47, il quale osserva che se in queste ipotesi si applicasse l’art. 113 c.p. si finirebbe per punire un soggetto per un fatto che egli non ha materialmente commesso e che non aveva neppure l’obbligo giuridico di impedire. 224 G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 609 ss.; G. GRASSO, Commento all’art. 113 c.p., cit., p. 202. 225 G. GRASSO, Commento all’art. 113 c.p., cit., p. 198. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 107 cooperazione colposa si caratterizzi per un nesso psichico, dato dalla coscienza e volontà di accedere con la propria condotta a quella altrui (necessariamente colposa), che si differenzierebbe da quello intercorrente nel concorso doloso per il solo fatto di non investire in alcun modo l’evento realizzato. In carenza di detto nesso psicologico non sarebbe più configurabile una cooperazione colposa, ma, piuttosto, un concorso di cause colpose indipendenti, rientrante nel disposto dell’art. 41, comma 3, c.p.226. Se, come visto, il prevalente orientamento dottrinale, ma soprattutto giurisprudenziale, è nel senso di ritenere che, per aversi cooperazione colposa, sia necessario un nesso psichico, altrettanto non può dirsi con riguardo al contenuto di tale nesso. Con riferimento a quest’ultimo profilo la dottrina maggioritaria ritiene sufficiente la consapevolezza dell’altrui condotta227, mentre secondo una diversa impostazione la consapevolezza deve investire anche il carattere colposo della condotta del concorrente228. Non sono mancati, tuttavia, autori che, nel tentativo di valorizzare la natura normativa della colpa, hanno escluso la necessità di un nesso psicologico nella cooperazione. Si è a tal proposito osservato che, se è vero, in chiave generale, che la colpa non si risolve in un dato psichico, ma in un giudizio di qualificazione normativa del comportamento alla stregua di determinate regole di diligenza o prudenza, il carattere colposo di un atto atipico di cooperazione non può che discendere anch’esso dalla violazione di un dovere di natura cautelare229. Ne consegue, pertanto, che un’efficace limitazione della cooperazione colposa potrebbe essere collegata già al tipo di regola prudenziale violata ed all’oggetto del suo scopo preventivo230. Il ragionamento da cui muovono questi Autori, seppure 226 Nella manualistica v. F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 543 ss. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 30 marzo 2004, n. 45069, Casciotti ed altri, in CED rv. 230280, secondo la quale “la cooperazione nel delitto colposo si caratterizza per un legame psicologico tra le condotte dei concorrenti, nel senso che ciascuno dei compartecipi deve essere consapevole della convergenza della propria condotta con quella altrui, senza però che tale consapevolezza investa l’evento richiesto per l’esistenza del reato: ed è questo legame che consente di distinguere la cooperazione dal concorso di cause colpose indipendenti”. Nello stesso senso v. Cass. pen., sez. IV, 12 novembre 2009, n. 48318, Gigli ed altri, in CED rv. 245736; Cass. pen., sez. IV, 28 gennaio 2010, n. 3584, Capodiferro, in CED rv. 246304. 227 F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, cit., p. 187; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 544. 228 R. LATAGLIATA, cooperazione, cit., p. 615. 229 G. COGNETTA, La cooperazione, cit., p. 88; F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 453. 230 F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 453, per il quale, peraltro, la distinzione fra cause colpose indipendenti e cooperazione colposa non ha alcuna rilevanza. L’Autore, infatti, ritiene che rispetto all’art. 113 c.p. possono rilevare due tipologie di norme cautelari. Una prima categoria 108 CAPITOLO SECONDO con importanti distinguo, è che la cooperazione colposa è configurabile quando il principio di affidamento non dispieghi i propri effetti e la regola cautelare assuma direttamente a contenuto il comportamento altrui. È, infatti, inconfutabile che il principio di affidamento operi sul presupposto che i terzi rispetteranno le cautele che competono loro, nondimeno, al verificarsi del presupposto che essi non potranno o vorranno rispettarle, sorgono in capo al soggetto obblighi verso terzi (c.d. obblighi relazionali) finalizzati a controllarne ed eliminarne gli effetti dannosi231. Oggetto della cooperazione colposa sarebbero le regole cautelari c.d. “secondarie”, che si pongono in diretta connessione non tanto con l’evento, ma, piuttosto, con l’altrui comportamento che sono, appunto, dirette ad impedire. L’art. 113. c.p. consentirebbe, quindi, di riconoscere rilevanza penale alla violazione di dette regole cautelari e si distinguerebbe, così, dalla colpa monosoggettiva nella quale le regole cautelari si pongono in diretta connessione di rischio con l’evento232. Sempre nello stesso solco interpretativo, ma con argomentazioni maggiormente condivisibili, si è evidenziato che gli obblighi relazionali scaturiscono dalla eccezionale assenza di operatività del principio di affidamento233. Il principio di affidamento, che come già in precedenza evidenziato, trova ordinaria vigenza nei rapporti intersoggettivi, può, tuttavia, subire delle eccezioni al verificarsi di situazioni concrete (e, quindi, che comprende le cautele che si ricollegano direttamente alla pericolosità della stessa condotta dell’agente e nel cui spettro rientra l’evento tipico. Si tratta di regole deputate a neutralizzare una data situazione rischiosa, che possono essere poste a carico di tanti soggetti quanti sono quelli a cui fa capo la situazione. A caratterizzare la cooperazione sarebbe quindi una pluralità di negligenze causali, anche eterogenee ed anche reciprocamente autonome (che nella ricostruzione tradizionale costituirebbe, invece, un concorso di cause indipendenti). L’Autore, individua, poi una seconda categoria di regole cautelari di secondo grado, dirette cioè a prevenire la produzione dell’evento tipico ad opera di condotte altrui. 231 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 520. 232 G. COGNETTA, Concorso di colpe, cit., p. 88 ss. Per l’Autore le regole cautelari secondarie sorgerebbero quando viene meno l’applicabilità del principio di affidamento. In modo, non condivisibile, l’Autore colloca questo momento allorquando la condotta altrui sia rappresentabile al soggetto agente. Criterio, quello della “rappresentabilità” che appare eccessivamente ampio, dal momento che la condotta negligente altrui è astrattamente sempre prevedibile e si finirebbe, così, per inficiare l’operatività del principio di affidamento. In senso parzialmente difforme v. F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 451 ss., per il quale, l’art. 113 c.p. non richiede alcuna componente psicologica e una sufficiente delimitazione di tale fattispecie si potrebbe ottenere estendendo alla fattispecie concorsuale i criteri di correlazione tra la condotta negligente (previamente individuata) e l’evento, negli stessi termini in cui essi operano in relazione alle fattispecie monosoggettive. Quanto al suo contenuto precettivo la condotta di cooperazione dovrà essere contraria almeno ad una cautela doverosa che secondo l’Autore può assumere due diversi contenuti, come già evidenziato supra alla nota 256. 233 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 520. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 109 non della mera prevedibilità dell’errore altrui) che facciano sorgere un obbligo di controllo sull’operato altrui234. Più specificatamente, nell’ambito degli obblighi relazionali questa dottrina distingue tre diverse tipologie235. Alla prima tipologia possono essere ricondotti i c.d. obblighi sinergici o complementari, caratterizzati da cautele da adottare in coordinamento con il comportamento diligente di altri, in quanto la propria condotta singolarmente considerata non sarebbe sufficiente a generare un rischio capace di tradursi in un evento lesivo: si tratterebbe di quegli obblighi che danno luogo alla c.d. causalità cumulativa, in cui la condizione colposa posta in essere da taluno è da sola carente dal punto di vista dell’idoneità lesiva, ma può essere compensata dall’interazione con altri fattori236. La seconda tipologia di obblighi relazionali può essere definita di obblighi accessori, ovverosia di quelle cautele dirette a contenere i rischi connessi all’esercizio della propria attività che altri possono sfruttare per commettere illeciti237. Infine, l’ultima tipologia è quella degli obblighi eterotropi, cioè di quegli obblighi di controllo del comportamento altrui o di informazione che sorgono in particolari situazioni, connesse, ad esempio, alla posizione di sovraordinazione rivestita dal soggetto obbligato, ovvero alla successione nella posizione di garanzia238. Appare alquanto interessante la trasposizione della summenzionata tripartizione al campo dell’attività medico-chirurgica svolta con divisione del lavoro, rispetto alla quale, nei casi in cui non operi il principio di affidamento, sono sicuramente configurabili obblighi relazionali. In tal senso, al fine di individuare la diversa tipologia di obblighi configurabili, 234 Non può, quindi, accogliersi il diverso orientamento (già richiamato supra § 5), affermatosi in giurisprudenza e accolto da una parte della dottrina, secondo cui nei rapporti intersoggettivi non vige il principio di affidamento, essendo i partecipanti astretti da un obbligo di controllo primario derivante dal dovere di “prudente interazione”. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 2009, n. 1786, Tomaccio ed altri, cit. In dottrina v. L. RISICATO, Il concorso colposo, cit., p. 519 235 L. CORNACCHIA, Concorso di cause, cit., p. 521 ss.; ID., La cooperazione colposa come fattispecie di colpa per inosservanza, cit., p. 829 ss. 236 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 521; S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 346 e 731, i quali riportano quale esempio di causalità cumulativa quello dell’infermiera A che, violando per disattenzione le prescrizioni, inietta al paziente una dose di farmaco superiore al dovuto, ma non tale da ledere la salute. L’infermiera B, credendo che il farmaco non sia ancora stato assunto (e quindi violando la regola che impone di controllare le cartelle cliniche, gli orari, la divisione delle incombenze ecc.), inietta al paziente una dose conforme alle prescrizioni. Tuttavia, il cumulo delle due quantità di farmaco provoca danni gravi al soggetto passivo. 237 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 522; S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 732. 238 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 525 ss., il quale richiama l’esempio del capo-équipe al quale, in ragione del dovere giuridico attinente al suo status riconosciuto dal- 110 CAPITOLO SECONDO è necessaria in via preliminare una distinzione tra i diversi modelli di divisione del lavoro che possono configurarsi nell’attività medica. Infatti, come già evidenziato, (v. supra Cap. I § 1), nell’ambito dell’attività plurisoggettiva sono configurabili tre diversi modelli di collaborazione, fondati rispettivamente su un rapporto gerarchico tra i partecipanti al trattamento sanitario, su un rapporto paritetico o, infine, su un’organizzazione multidisciplinare diacronica, che si caratterizza per lo svolgimento, da parte dei sanitari, di attività in successione temporale, ma unificate dal comune fine del buon esito del trattamento239. Orbene, con riferimento alle attività organizzate con divisione dei compiti in senso orizzontale (di cui sicuramente l’esempio più significativo è quello dell’èquipe chirurgica), è dato rinvenire obblighi sia complementari sia eterotropi, in quanto i soggetti hanno l’obbligo di coordinare la propria attività con quella altrui ed inoltre, in presenza di peculiari situazioni che fanno ritenere che il collega non rispetterà le regole precauzionali, sono gravati di obblighi di controllo sull’operato altrui. Nel caso, invece, di attività organizzate gerarchicamente, nelle quali si assiste ad una divisione del lavoro in senso verticale, è individuato un soggetto sovraordinato che è gravato da obblighi eterotropi di controllo. Infine, appare indubbio che anche nel caso di attività multidisciplinari diacroniche i partecipanti siano gravati, oltre che da obblighi autonomi, anche da obblighi relazionali, che impongono agli stessi di controllare l’attività del collega e di correggere eventuali errori che siano evidenti e non-settotiali. Tirando le fila del discorso, si potrebbe concludere che la cooperazione colposa può concretizzarsi secondo il modello della causalità cumulativa, ovvero come incauta produzione di una situazione stereotipata in cui altri inseriscono la propria condotta delittuosa, nonché, infine, come mancato adempimento di incombenze proprie nelle relazioni di sovraordinazione/subordinazione gerarchica, ovvero residuate dal trasferimento di competenze240. Al di fuori di queste situazioni rimarrebbe, invece, spazio per la configurabilità del concorso di cause colpose indipendenti, in cui rientrerebbero i casi nei quali più persone, autonomamente l’una dall’altra, violando diverse norme cautelari, producano un unico evento lesivo241. In definitiva, le due fattispecie di concorso di cause coll’ordinamento, compete il controllo nel corso dell’intervento chirurgico sull’operato dei colleghi; nonché S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 730. 239 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 527 ss. 240 S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 733. 241 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 541; S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 734. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 111 pose indipendenti e di cooperazione colposa si differenzierebbero in quanto la prima evidenzia l’inscindibile nesso tra ciascun obbligo ed il soggetto portatore dello stesso, in quanto la regola cautelare è finalizzata ad impedire il verificarsi di un determinato evento, mentre la seconda riflette l’aspetto interrelazionale, essendo le regole cautelari rivolte alla condotta altrui (a causa dell’eccezionale inoperatività del principio di affidamento) e, solo in via mediata, ad impedire l’evento lesivo242. Orbene, nonostante l’affacciarsi di queste nuove ricostruzioni della cooperazione colposa, certamente più attente, da un lato, alla nuove teoriche sulla colpa e, dall’altro, alle peculiarità connesse alle strutture complesse, la giurisprudenza continua ad individuare, quale elemento discretivo tra cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti, il legame psicologico tra concorrenti243. Tale assunto trova conferma nelle sentenze della Corte di Cassazione la quale, nelle pur rare occasioni in cui ha affrontato il problema della configurabilità della cooperazione colposa in campo medico, ha individuato, la “consapevolezza dell’altrui condotta” quale elemento differenziatore fra la fattispecie monosoggettiva e quella concorsuale244. Dall’esame delle sentenze pronunciate in materia sembra potersi trarre un indirizzo di massima che riconosce la cooperazione colposa nelle ipotesi di attività eseguite in un unico contesto spazio-temporale (e, quindi, in particolare in équipe) ovvero, anche in tempi diversi, ma con attività tra loro coordinate, mentre ritiene configurabile un concorso di cause colpose indipendenti quando più medici, in tempi diversi, intervengono nella cura del paziente, senza un coordinamento fra le loro atti242 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 541; ID., La cooperazione colposa come fattispecie di colpa, cit., p. 837. 243 Per l’affermazione da parte della Corte di Cassazione della configurabilità della cooperazione colposa nel campo medico v. Cass. pen., sez. IV, 7 giugno 2004, n. 25311, Sidoti ed altro, in Riv. pen., 2004, p. 109, nella quale i giudici hanno osservato che “… la cooperazione è ipotizzabile anche nelle ipotesi riguardanti le organizzazioni complesse quali la sanità, le imprese e i settori della PA nei cui atti confluiscono condotte poste in essere, anche in tempi diversi, da soggetti tra i quali non v’è rapporto diretto; in tali ipotesi esiste comunque il legame psicologico previsto per la cooperazione colposa perché ciascuno e conscio che altro soggetto (medico, pubblico funzionario, dirigente, ecc.) ha partecipato o parteciperà alla trattazione del caso”. Sulla necessità del legame psicologico per la configurabilità della cooperazione cfr. Cass. pen., sez. IV, 10 marzo 2005, n. 44623, Budano, in Riv. pen., 2006, p. 315; Cass. pen., sez. IV, 09 luglio 2004, n.40205, Bettin, in Riv. pen., 2005, p. 1229. 244 Sul piano processuale, peraltro, la rilevanza della questione sfuma ulteriormente, dal momento che, con orientamento costante, la Corte di Cassazione afferma che non si verifica violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, sancito dall’art. 521 c.p.p., in ipotesi in cui, pur rimanendo identico il fatto, fosse stata contestata la cooperazione colposa e la condanna venga invece pronunciata per concorso di cause indipendenti e viceversa. 112 CAPITOLO SECONDO vità, con azioni che sono l’una autonoma rispetto all’altra245. Proprio l’agire contestuale darebbe luogo al c.d. “intreccio cooperativo” dal quale discenderebbe in capo ai medici l’obbligo di reciproco controllo e, la cui violazione dà appunto luogo ad una responsabilità ex artt. 40 e 113 c.p.246. A conclusione di questa breve indagine sugli orientamenti in materia di cooperazione colposa e concorso di cause indipendenti nell’attività medica, non si può prescindere dall’osservare che non sempre la pluralità di condotte erronee realizzate dai medici dà luogo ad un concorso. Fenomeno del tutto antitetico rispetto a quest’ultimo è, infatti, quello della c.d. causalità interrotta o sorpassante in cui, in realtà, solo una delle condotte è causale rispetto al verificarsi dell’evento, ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p.247. È inconfutabile, infatti, che tanto la cooperazione colposa quanto il concorso di cause colpose indipendenti presuppongano che tutte le condotte risultino causa del verificarsi dell’evento. Quando, al contrario, la condotta di una sanitario sia stata da sola sufficiente alla realizzazione dell’evento lesivo ai danni del paziente, dovrà trovare applicazione la diversa disciplina dell’art. 41, comma, 2 c.p., il quale riconosce a tale condotta efficacia interruttiva del nesso eziologico248. Questa norma, tacciata sin dalla sua entrata in vigore, di formulazione contraddittoria e assolutamente generica, ha dato luogo a differenti interpretazioni da parte della dottrina, fra le quali ne sono, in particolare, enucleabili due. Secondo la prima impostazione, rimasta minoritaria, le cause “da sole sufficienti” contemplate dalla disposizione sarebbero le sole cause autonome che attivano un nuovo processo eziologico, escludendo l’efficacia causale della prima condotta249. Il prevalente orienta245 In questo senso v. Cass. pen., sez. IV, 22 gennaio 2007, n. 14130, Pastorelli, in CED rv. 236191; Cass. pen., sez. IV, 14 dicembre 2006, n. 4177, G., in Guida al dir., 2007, fasc. 10, p. 66. 246 Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 2009, n. 1786, Tomaccio ed altri, cit. 247 Cfr. in questo senso L. CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti (Parte I), cit., p. 653, il quale rileva che “il fenomeno (della causalità interrotta) estraneo al concorso di cause colpose indipendenti, ne descrive l’estremo confine: il concorso esiste fintanto che permane il nesso che avvince le condotte reciprocamente e in direzione dell’evento, oltre questo limite uno solo dei fattori è da ritenersi causale”. 248 Sulle diverse teorie succedutesi in relazione all’interpretazione dell’art. 41, comma 2, c.p. si veda nella manualistica S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 327 ss.; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 262 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 153 ss. Cfr. inoltre L.CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti (Parte I), cit., p. 657 ss.; R. BLAIOTTA, La causalità nella responsabilità professionale, cit., p. 16 ss. 249 Per un riassunto della critiche mosse a questa concezione vedi la bibliografia citata alla nota precedente. IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 113 mento, invece, afferma che le cause di cui all’art. 41, comma 2, non determinerebbero un processo eziologico autonomo rispetto a quello attivato dalla condotta iniziale (che quindi rimarrebbe condicio sine qua non del verificarsi dell’evento), ma interverrebbero su quest’ultimo deviandone il corso in modo anomalo ed imprevedibile. L’art. 41, cpv., c.p., quindi, dovrebbe essere letto come disposizione limitativa della portata del principio dell’equivalenza delle condizioni sancito dal primo comma, in quanto introdurrebbe una disciplina di quelle cause, definite come straordinarie o eccezionali, che si innestano sul decorso eziologico attivato dalla condotta precedente deviandolo e determinando la verificazione di un evento del tutto imprevedibile, secondo la miglior scienza ed esperienza250. Quest’ultimo indirizzo sembra essere stato accolto anche dalla giurisprudenza la quale, nonostante il frequente utilizzo di formule contraddittorie251, ritiene che la disposizione codicistica debba essere letta in funzione limitativa rispetto al principio di equivalenza delle condizioni espresso dal primo comma. Venendo all’attività medico-chirugica, e soprattutto alle ipotesi di divisione del lavoro, deve darsi atto del fatto che la giurisprudenza è in 250 L’art. 41, comma 2, è stato utilizzato anche dai sostenitori della teoria dell’imputazione obiettiva come legittimazione normativa della stessa. Secondo quest’ultimo orientamento, la disposizione ricomprenderebbe, oltre all’accertamento del nesso causale, la predisposizione di criteri per una selezione dei rischi, per cui l’ascrizione del fatto andrebbe esclusa in caso di difetto di un rischio riprovato dall’ordinamento ovvero di difetto di rapporto di rischio tra il pericolo realizzato dall’agente e l’evento verificatosi o, infine, di riduzione del rischio: situazioni nelle quali l’intervento di cause sopravvenute determina la realizzazione di un rischio nuovo o diverso da quello instaurato dalla condotta precedente. In tal senso cfr. V. MILITELLO, Rischio e responsabilità, Milano, 1988, p. 246 ss. 251 Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002, n. 27, Franzese, cit., in cui la Corte, seppure a margine delle più generali considerazioni in materia di causalità, con riferimento all’art. 41, comma 2, c.p. rileva che “la teoria condizionalistica è temperata, ma in realtà ribadita mediante il riferimento, speculare ed in negativo, alla causalità umana, quanto alle serie sopravvenute, autonome e indipendenti da sole sufficienti a determinare l’evento”. Anche le Sezioni Unite sembrano essere incorse in quella confusione terminologica che si segnalava: da un lato si configura l’art. 41, comma 2, c.p. come limite alla teoria della condicio sine qua non accolta dal primo comma, dall’altro, poi, si tratteggiano le cause da sole sufficienti come “cause autonome ed indipendenti”. V. anche Cass. pen., sez. IV, 25 febbraio 2000, 2325, Altieri ed altri, cit., nella quale la Corte afferma “il nesso causale tra la condotta omissiva dell’agente e l’evento può essere escluso e la condotta degradata a mera occasione quando nella serie causale risalente a questa condotta si inserisce ad interromperla un fattore estrinseco del tutto anomalo, eccezionale, imprevedibile ed estraneo, avulso dalla condotta dell’agente e che viene a porsi come causa esclusiva recidendo il legame con tale condotta che, così, viene privata di ogni rilevanza”; nonché Cass. pen., sez. IV, 23 marzo 2007, n. 21588, Margani ed altri, in CED rv. 236722, “la norma intende esercitare una funzione limitativa rispetto al principio di equivalenza causale espresso nel comma precedente, alludendo a concause qualificate, capaci di assumere su di sé, da un punto di vista normativo, la spiegazione dell’imputazione”. 114 CAPITOLO SECONDO realtà tendenzialmente restia a riconoscere l’efficacia interruttiva del nesso causale di condotte susseguenti che vengano ad inserirsi in un processo causale già attivato da una precedente condotta colposa di altri252. Questo orientamento restrittivo è ben chiarito da una recente sentenza della Corte di Cassazione in cui i giudici osservano che “l’effetto interruttivo può essere seriamente ipotizzato solo quando l’errore terapeutico crea un pericolo prima inesistente o conduce improvvisamente il rischio originario a conseguenze esorbitanti”. Pertanto, solo quando l’errore medico sia in grado di determinare una situazione rischiosa nuova, idealmente separabile da quella antecedente, è possibile configurare l’interruzione del nesso causale253. Secondo questi principi, la Corte esclude l’in252 A questo proposito si segnala l’interessante osservazione di R. BLAIOTTA, Con una storica sentenza le Sezioni Unite abbandonano l’irrealistico modello nomologico deduttivo di spiegazione causale di eventi singoli. Un nuovo inizio per la giurisprudenza, in Cass. pen., 2003, p. 1177, in particolare nota 3, il quale riferendosi all’art. 41, comma 2, c.p. afferma che “si tratta di un tema di indubbia valenza teorica e tuttavia privo di significative implicazioni pratiche: dando uno sguardo alla giurisprudenza di legittimità a proposito dell’art. 41, comma 2, e quindi delle concause sopravvenute dotate, secondo il lessico codicistico, di esclusiva valenza causale, ci si avvede che, quasi mai è stata esclusa la rilevanza causale di una condotta umana per via della sua atipicità o eccezionalità”. Anzi l’Autore aggiunge un dato statistico: in quarant’anni di giurisprudenza di legittimità si rinvengono solo sei sentenze che hanno escluso il nesso causale per il sopravvenire di un fattore giudicato eccezionale! 253 Cass. pen., sez. IV, 23 marzo 2007, n. 21588, Margani ed altri, cit. La Corte era chiamata a pronunciarsi su un caso di omicidio colposo ai danni di una bambina di nove anni, per il quale erano imputati tre medici che, a distanza di alcuni giorni l’uno dall’altro, avevano avuto in cura la paziente. La bambina, infatti, a seguito della comparsa di anomalie comportamentali e di movimenti incontrollati, era stata ricoverata presso il reparto di pediatria ove veniva presa in carico dal dott. M., il quale diagnosticava una corea reumatica, sottoponendo la bambina a terapia cortisonica. All’atto delle dimissioni, tuttavia, la terapia farmacologica veniva variata ed il medico prescriveva, in sostituzione del cortisone, la somministrazione di un farmaco a base di acido acetilsalicilico. Dal momento che nei giorni successivi le condizioni della bambina continuavano a peggiorare, i genitori decidevano di riportarla nuovamente all’ospedale e, lì, il dott. P. programmava alcuni accertamenti da eseguirsi il giorno seguente. All’esito degli esami il medico P., consultatosi con il dott. M., disponeva una nuova modifica nella terapia. Senonché le condizioni della giovane paziente continuavano a peggiorare, tanto da manifestare atteggiamenti aggressivi e incontrollati. Ricoverata ancora, la paziente veniva presa in cura dal dott. E., il quale decideva di somministrarle dei sedativi, ma le condizioni continuavano a peggiorare La bambina veniva, quindi, trasferita presso altro nosocomio, con la nuova diagnosi di Sindrome di Reye (SDR); qui però ella giungeva in coma irreversibile a cui, dopo quindici giorni, faceva seguito l’exitus. Nel corso del giudizio di merito i periti avevano accertato che il decesso era dovuto all’insorgere della Sindrome di Reye, una malattia determinata dalla somministrazione di acido acetilsalicilico a pazienti di età inferiore a dodici anni, che colpisce il cervello ed il fegato. Senonché i giudici hanno dovuto valutare se la condotta del medico M., che aveva disposto la somministrazione del farmaco, fosse stata causale rispetto al verificarsi dell’evento o se il nesso eziologico attivato da tale condotta fosse stato interrotto dagli errori diagnostici del medico E., che non avendo tempestivamente diagnosticato la Sindrome di Reye, non ha neppure sottoposto la paziente alle do- IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE 115 terruzione del nesso causale in caso di condotta successiva che intervenga su un processo morboso già attivato dalla precedente condotta colposa del collega (nel caso di trattamenti sia diacronici sia contestuali)254 e nel caso di successione nelle posizioni di garanzia255. vute terapie che, se repentinamente effettuate, secondo i periti, avrebbero incrementato la probabilità di salvare la paziente. Il giudizio di primo grado si era concluso con una pronuncia di condanna per tutti e tre i medici, ma la Corte d’Appello aveva riformato la sentenza e assolto i medici M. e P., osservando che solo all’atto del secondo ricovero, quando era in servizio E. sarebbe stata diagnosticabile la SDR ed era, quindi, tale fase della vicenda (in cui M. e P. non erano in servizio) che assumeva “decisivo rilievo nel determinismo causale”. La Corte di Cassazione, invece, annulla la sentenza di appello, rilevando che “il processo causale innescato da M. con l’incontrollata somministrazione del salicilato nelle circostanze che si sono esposte è giunto al suo drammatico epilogo senza che siano intervenuti fattori eziologici nuovi ed eccezionali, idealmente separabili da quello originario. In particolare l’errore dell’E. in occasione del secondo ricovero non costituisce un quid novi, ma rappresenta solo lo sviluppo ulteriore dell’originario nesso eziologico”. 254 Cfr. Cass. pen., sez. IV, 25 febbraio 2000, n. 2325, Altieri ed altri, cit. 255 Cass. pen., 18 maggio 2005, n. 18568, C ed altri, cit.; Cass. pen., sez. IV, 26 maggio 1999, n. 8006, Cattaneo, cit. CAPITOLO TERZO LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE: LA COOPERAZIONE TRA MEDICI SENZA VINCOLO GERARCHICO SOMMARIO: 1. Individuazione dei casi di divisione del lavoro in senso orizzontale. – 2. La collaborazione tra medici appartenenti allo stesso reparto. – 3. La collaborazione con medici di altro reparto, ma aventi la medesima specializzazione: a) in particolare, la «cooperazione per consulto». – 4. (Segue): b) la colpa «per assunzione». – 5. La collaborazione fra sanitari aventi diversa specializzazione. 1. Individuazione dei casi di divisione del lavoro in senso orizzontale Dopo l’individuazione delle direttrici di fondo che devono presiedere alla ricostruzione della responsabilità colposa in caso di divisione del lavoro, occorre ora verificarne la tenuta con riferimento ai ruoli assunti dai partecipanti al gruppo di lavoro ed ai rapporti tra loro intercorrenti, in quanto, indubbiamente, incidenti sull’individuazione dell’esatto contenuto delle regole cautelari. Nell’ambito delle diverse tipologie di divisione di lavoro, come già ricordato, si può innanzitutto individuare una divisione di tipo orizzontale, nella quale, cioè i medici, non sono avvinti da alcun rapporto di tipo gerarchico. Al riguardo, tuttavia, possono concretamente prospettarsi diverse situazioni fattuali che, per successiva comodità espositiva, potremmo schematicamente così riassumere: – casi di collaborazione tra medici dello stesso reparto; – casi di collaborazione tra medici che appartengono a reparti o addirittura a strutture sanitarie diverse, ma aventi la medesima specializzazione; – casi di collaborazione tra medici aventi diversa specializzazione. 2. La collaborazione tra medici appartenenti allo stesso reparto I medici incardinati nello stesso reparto hanno l’obbligo di coordinare le proprie attività per il miglior perseguimento del fine di tutela 118 CAPITOLO TERZO della salute dei pazienti ricoverati. Accade, quindi, quotidianamente, che i sanitari dello stesso reparto, ed in eguale posizione gerarchica, si trovino a collaborare gli uni con gli altri nella cura dei pazienti: o in quanto, contestualmente, si dedichino all’atto terapeutico o diagnostico (stante, ad esempio, la sua particolare complessità), o perché si succedano nella cura del paziente (ad esempio, per il cambio turno). Questo tipo di attività è, dunque, caratterizzata dal fatto che i medici con la stessa specializzazione e con le medesime mansioni si prendano cura contestualmente, ovvero in successione temporale, dei pazienti loro affidati. Nel primo caso i sanitari risultano titolari di doveri comuni, ovvero di doveri che gravano contemporaneamente su più soggetti, ciascuno titolare di una autonoma posizione di garanzia, in grado di assicurare una totale protezione per la vita e la salute dei pazienti1. Pur portatori di distinte posizioni di garanzia (e, naturalmente, di autonomi poteri di impedimento dell’evento) e pur dovendo coordinare la propria attività di cura del paziente, si ritiene, nondimeno, che i sanitari che cooperano non siano tenuti ad un costante controllo sul corretto operato del collega. Il medico deve, infatti, poter legittimamente fare affidamento sul fatto che il collega che con lui sta effettuando il medesimo atto diagnostico o terapeutico si atterrà alle leges artis, salvo che non emergano circostanze concrete tali da far dubitare del corretto adempimento. Di parere diverso è, tuttavia, la giurisprudenza il cui esame evidenzia la tendenza ad un’attenuazione del canone dell’affidamento nel caso di cooperazione tra sanitari dello stesso reparto. Con riferimento ad un caso di omicidio colposo che vedeva imputati alcuni medici appartenenti ad un medesimo reparto, la Suprema Corte ha, infatti, affermato che “sono responsabili di omicidio colposo i sanitari che, pur dovendosi coordinare nell’adozione delle scelte terapeutiche – in quanto portatori di un’autonomia decisionale da cui dipende un obbligo di adottare in corso di necessità tutti i presidi utili per fronteggiare l’emergenza – omettono di adottare idonee cure per negligenza ed imprudenza poiché è sempre attuale l’obbligo di intervenire per chi si avveda della inadeguatezza della scelta terapeutica in atto decisa da altri sanitari; tale posizione di controllo non può mai venire meno dal momento che i medici di un reparto ospedaliero sono un gruppo di professionisti sostanzialmente equivalenti e paritetici”2. I medici appartenenti allo stesso reparto, quindi, nella ricostruzione giurisprudenziale, devono coordinare la propria attività in modo tale da 1 Per la nozione di dovere comune e per la distinzione dai doveri divisi, v. supra cap. II, § 2.2. 2 Pret. Ravenna, 15 dicembre 1995, in Resp. civ. e prev., 1997, p. 787. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE 119 garantire la miglior cura per il paziente, e non potranno andare esenti da responsabilità penale per il solo fatto di aver confidato nel corretto adempimento delle loro mansioni da parte dei colleghi: la natura comune dei doveri incombenti sui medici dello stesso reparto fa sì che, per la verificazione dell’evento lesivo, non sia sufficiente una sola violazione, ma sia necessario l’incontro di due o più violazioni. Da ciò deriva anche l’ulteriore corollario che il medico non può interessarsi solo di ciò che accade durante il proprio turno di lavoro, ma deve avere una visione generale della situazione clinica del paziente e, quindi, anche delle attività diagnostiche o terapeutiche che siano state compiute da suoi colleghi. Seppure si concordi circa il fatto che i sanitari che cooperano nella cura del paziente debbano coordinare la propria attività e, quindi, avere contezza anche delle attività compiute dal collega, non si ritiene, nondimeno, che tale dovere debba spingersi fino ad integrare un controllo costante sull’altrui operato. Semmai, si potrà affermare che la comune attività di cura del paziente e la medesima specializzazione renderanno più facilmente riconoscibili per il sanitario gli eventuali comportamenti imperiti del collega e da qui potrà sorgere il dovere di attivarsi per emendarli. La complessità delle strutture sanitarie impone un’organizzazione di reparto fondata non solo sulla presenza di più sanitari, ma, altresì, su turni di lavoro, essendo, evidentemente, impossibile che ogni sanitario sia costantemente presente e segua senza soluzione di continuità la cura del paziente. Di sovente, quindi, la cooperazione tra medici dello stesso reparto è di tipo diacronico, in quanto essi si succedono nella cura dei pazienti al cambio di turno. In questi casi si verifica un fenomeno di successione nella posizione di garanzia (v. supra cap. II, § 3) in cui il medico uscente deve essere liberato dagli obblighi di protezione nei confronti del paziente e quello subentrante deve poter fare affidamento sul corretto operato del predecessore, non potendosi pretendere dal primo il controllo e la ripetizione di tutti gli accertamenti già eseguiti. L’affermazione di un diverso principio finirebbe per pregiudicare la stessa ratio della cooperazione, in quanto impedirebbe al sanitario di dedicarsi ai propri compiti (essendo egli impegnato a sottoporre a verifica e revisione critica l’operato del collega) e potrebbe, addirittura, rivelarsi pregiudizievole per la salute del paziente (il controllo sull’attività del predecessore provocherebbe indubbiamente ritardi sull’avanzamento delle cure). In tutti i casi di successione nella posizione di garanzia, per cessazione del proprio turno di lavoro, incombe, comunque, sul medico uscente il dovere di “dare le consegne” al collega subentrante, in modo 120 CAPITOLO TERZO che quest’ultimo possa avere una visione completa e veritiera della situazione dei pazienti a lui affidati. A tal proposito, la Corte di Cassazione ha evidenziato che è corretta l’affermazione di responsabilità a titolo di colpa per la morte di un paziente, dovuta a peritonite non curata, di un medico che, pur avendo più volte visitato nella stessa giornata detto paziente, le cui condizioni di salute si erano aggravate ed erano tali da non consentire dubbi sull’erroneità della iniziale diagnosi di pancreatite, invece di dare l’allarme, abbia riferito al collega, che aveva preso il suo posto, che tutto procedeva secondo le prospettive terapeutiche deducibili dalla (errata) diagnosi iniziale ed abbia creato, quindi, una delle condizioni della condotta imprudente e negligente di quest’ultimo3. Appare, quindi, evidente, come in queste fasi sia di fondamentale importanza la corretta e accurata tenuta della cartella clinica, quale strumento che consente di ricostruire i passaggi relativi sia alle condizioni di salute del paziente (quali eventuali miglioramenti e peggioramenti) sia delle terapie praticate: un dovere di corretta compilazione che si ritiene incombente su tutti i medici ed in alcun modo delegabile4. 3. La collaborazione con medici di altro reparto, ma aventi la medesima specializzazione: a) in particolare, la «cooperazione per consulto» Nel corso dello svolgimento della propria attività terapeutica o diagnostica può accadere che il medico si renda conto di non essere in grado (per carenza delle necessarie cognizioni tecniche o per la particolare complessità del caso da trattare) di effettuare una corretta diagnosi o di praticare un intervento terapeutico. In tali casi sorge in capo al sanitario un dovere di astensione dall’attività, nonché un dovere, risvolto di regole cautelari di prudenza, di chiedere la consulenza di un collega (che può appartenere ad altro reparto o essere anche “esterno” rispetto alla 3 Cass. pen., sez. IV, 27 aprile 1993, n. 7650, Messina, in Cass. pen., 4 Dalla mancata annotazione di alcune attività nella cartella clinica 1994, p. 2439. la Corte di Cassazione ha addirittura ricavato presunzioni circa l’omissione delle attività non trascritte; v. Cass. pen., sez. III, 8 settembre 1998, n. 8875, in Giust. civ. mass., 1998, p. 1867, ove si osserva che l’omessa tenuta della cartella clinica ha impedito ai consulenti tecnici di ricostruire le concrete modalità del parto e dell’assistenza prestata dal personale sanitario: “in una tale situazione è possibile presumere che le attività che altrimenti vi sarebbero state documentate siano state omesse e comunque la mancata segnalazione, nella cartella clinica, di manifestazioni cliniche rilevanti, di trattamenti medicamentosi e di atti operativi, è indice di un comportamento assistenziale costantemente negligente ed imperito. Le irregolarità e deficienze della cartella clinica denotavano per sé un corrispondente comportamento di assistenza al parto manchevole e negligente, segno di un impegno mediocre e disattento, fonte certa di responsabilità, perché avevano influito in modo determinante sull’insuccesso del parto”. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE 121 struttura sanitaria), avente la medesima specializzazione, ma più esperto, per autorevolezza ed esperienza5. Può, nondimeno, accadere che il parere fornito dal medico chiamato a consulto risulti erroneo e che, dando esecuzione allo stesso, il sanitario richiedente cagioni il decesso o una lesione all’integrità fisica del paziente. In una simile evenienza differenti appaiono i profili di responsabilità dei due sanitari che hanno cooperato nella cura del paziente. La questione della ripartizione delle responsabilità in caso di cooperazione per consulto è stata oggetto di varie pronunce giurisprudenziali, dall’esame delle quali è possibile desumere alcune direttrici di fondo. A tal riguardo deve, anzitutto, constatarsi la generale tendenza ad escludere l’operatività, nel caso di specie, del principio di affidamento nei confronti del sanitario che ha chiesto il consulto. I giudici, sia di legittimità sia di merito, hanno, infatti, evidenziato che “la richiesta di altro medico a consulto, di non diversa specializzazione, anche se di maggiore esperienza, non comporta la completa assunzione di ogni responsabilità di valutazione e decisione da parte del sanitario chiamato a consulto; la responsabilità è congiunta, collegiale, e non esclusiva, salvo che si dimostri un’effettiva e conclamata difformità di valutazione diagnostica e di opportunità terapeutica tra i sanitari convenuti”6. Di conseguenza, il me5 F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 67. Sul dovere incombente sul medico meno esperto di chiedere la consulenza di un medico di maggiore esperienza nella stessa o in altre specialità, v. in giurisprudenza Cass. pen., sez. IV, 13 giugno 1983, n. 7670, Duè, in Cass. pen., 1984, p. 1965. 6 Cass. pen., sez. IV, 17 febbraio 1981, n. 5555, Faraggiana, in Giust. pen., 1982, III, p. 634. In realtà la Suprema Corte, già nel 1959, ebbe ad occuparsi dei problemi inerenti la collaborazione per consulto con sentenza Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 1959, Niesi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, p. 1173, nella quale i giudici, occupandosi di un caso di consulto tra medici, l’uno primario e l’altro assistente, aventi identica specializzazione ma appartenenti a reparti diversi (e quindi non legati da vincolo gerarchico), osservarono che il medico che ha prestato l’attività di consulenza “non può trarre argomento dall’accertata inesistenza di un rapporto di subordinazione per sostenere che, lungi dall’impartire disposizioni vincolanti, diede semplici pareri o consigli, onde non gli si dovrebbe far carico di aver cooperato alla condotta colposa di chi li ricevette. Il peso dell’autorità, dell’anzianità e maggiore esperienza di chi li esprime, attribuirebbe inevitabilmente a quei pareri ed a quei consigli natura ed effetto di partecipazione per la determinazione nell’azione od omissione del sanitario che, indottovi dall’inevitabile senso di soggezione verso il collega più anziano si uniformasse ad essi. Si avrebbe, cioè, pur sempre una tipica ipotesi di cooperazione di più volontà dirette a regolare la condotta causante l’evento non voluto, ipotesi, anzi, in cui un’attività di determinazione del superiore potrebbe, in alcuni casi, riconoscersi efficienza causale tale da rendere di minore importanza, pur senza escluderne la rilevanza penale, l’attività materiale dell’inferiore”. La Corte di Cassazione, inoltre, soffermandosi sulla posizione del medico che ha richiesto la consulenza, conclude che il consulto fra un medico avente la qualifica di primario appartenente ad una divisione diversa ed un medico avente qualifica di assistente non vale ad escludere la penale responsabilità del secondo per avere ottemperato, in ragione dell’autorità 122 CAPITOLO TERZO dico che chieda l’intervento di un collega specialista nella medesima disciplina, ma maggiormente esperto, non si libera per ciò solo da responsabilità in caso di errata diagnosi o terapia, in quanto è innegabile che egli, una volta ricevuti i necessari consigli tecnici, mantenga comunque una sfera di autonomia in ordine al trattamento da eseguire sul paziente7. Alla base di questo costante orientamento giurisprudenziale sta la valutazione circa la continuità nella posizione di garanzia in capo al medico che richiede la consulenza.Quest’ultimo, infatti, non si libera dall’obbligo di impedire eventi lesivi per la salute del paziente per il solo fatto di essersi rivolto, per una collaborazione, ad altro sanitario. Il collega chiamato a consulto si affianca, ma non sostituisce il medico primo affidatario del paziente: il rapporto che si instaura darà vita ad obblighi comuni, essendo ciascuno dei sanitari titolare di una posizione di garanzia che è di per sé in grado di assicurare totale protezione alla salute del paziente. Da ciò consegue che il medico primo affidatario del paziente non è esonerato dal valutare le opinioni espresse dal medico chiamato a consulto, soprattutto, in un campo nel quale anche egli possiede, comunque, le dovute competenze, avendo la medesima specializzazione. Nel caso, quindi, di errore diagnostico o terapeutico conseguente al consulto, tutti i medici coinvolti risponderanno del fatto di reato in cooperazione tra loro ai sensi dell’art. 113 c.p., essendo consapevoli ciascuno della colposa condotta altrui ed avendo cooperato nella realizzazione dell’atto diagnostico o terapeutico. L’unica possibilità che sembrerebbe residuare, per il medico che ha richiesto la consulenza, per sottrarsi ad un addebito di colpa, sarebbe quella, secondo la Corte di Cassazione, di fornire la prova di un disaccordo con il medico chiamato a consulto sulle modalità del trattamento o dell’intervento8. Il Supremo Collegio, tuttavia, omette di fornire indie della maggiore esperienza di chi gli ha fornito il consulto, in adesione all’indicazione medica del sanitario di grado superiore. In senso difforme, v. invece nella giurisprudenza di merito Corte d’Appello di Venezia, 21 aprile 1981, De Vido ed altri, in Riv. it. med. leg., 1982, p. 249, in cui i giudici hanno affermato che “quando un sanitario chiede consulto con chi più di lui reputa competente ed esperto per una particolare sindrome, e di concerto con questi pratica la terapia consigliata, il suo comportamento si dimostra sicuramente improntato a diligenza e prudenza”. 7 V. in questo senso Pret. Caltanissetta, 17 ottobre, 1995, Zanda e altro, in Foro it., 1997, II, c. 418, in cui si legge: “non sono applicabili all’istituto della consulenza i principio giurisprudenziali elaborati in materia di attività medica prestata in équipe […] perché la responsabilità di valutazione e decisione rimane unicamente in capo al richiedente il consulto che ha in cura il paziente per lo meno fino a quando gli accertamenti diagnostici da lui disposti, ed in cui si inserisce il coinvolgimento del personale medico di altra specialità, non determinino una modifica all’assegnazione del malato per la necessità di ricorrere a diverse specializzazioni”. 8 Cass. pen., sez. IV, 17 febbraio 1981, n. 5555, Faraggiana, cit. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE 123 cazioni circa il criterio da seguire per dirimere, da un lato, il problema della prova dell’avvenuto dissenso e, dall’altro, quello della delimitazione delle sfere di responsabilità. Con riferimento al primo profilo, sembra possibile affermare che, stante la vigenza del principio processuale del “libero convincimento del giudice”, la prova del dissenso possa essere fornita con qualsiasi strumento, anche se appare evidente che il metodo sicuramente più sicuro sarebbe quello di annotare sulla cartella clinica il dissenso manifestato. Per quanto, invece, concerne il secondo profilo, la soluzione è certamente più complessa e richiede, in particolare, di stabilire se sia sufficiente la manifestazione del dissenso perché il medico vada esente da responsabilità colposa o se, al contrario, una volta manifestato il proprio dissenso il medico debba anche astenersi dal praticare l’atto diagnostico o terapeutico così come consigliato dal collega o debba eseguirlo in difformità dall’indirizzo ricevuto. Quest’ultima sembrerebbe la soluzione preferibile, in quanto, trattandosi di medici non legati da alcun vincolo gerarchico, non sembra configurabile alcun dovere, per il sanitario che ha richiesto il consulto, di adeguarsi alle indicazioni fornite dal proprio collega9. La predetta ricostruzione giurisprudenziale evidenzia, però, ancora una volta, la sostanziale indifferenza degli organi giudicanti per la valutazione del “momento soggettivo” della colpa. Seppure debba concordarsi circa il fatto che il medico che intervenga per un consulto non assuma su di sé la completa responsabilità per ogni decisione e che, conseguentemente, il collega che ha chiesto il consulto mantenga nei confronti del paziente la propria posizione di garanzia e sia titolare, congiuntamente al primo, di doveri comuni (vista anche la comunanza di specializzazione), pur tuttavia ciò non può ritenersi sufficiente per escludersi il legittimo affidamento. Nel giudizio circa la responsabilità del sanitario richiedente il consulto non si può, infatti, omettere di valutare le effettive capacità e competenze di quest’ultimo di rilevare e, conseguentemente, di emendare l’errore del collega. Il fatto che si tratti di sanitari che hanno la medesima specializzazione non è elemento di per sé sufficiente per inferire la capacità del medico che ha richiesto il consulto di riconoscere l’eventuale fallacia del parere o del percorso terapeutico praticato dal consulente. D’altro canto, la circostanza che il medico abbia chiesto l’intervento di un altro sanitario è essa stessa sintomo della sua scarsa attitudine alla solu9 In questo senso cfr. anche F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 72. In senso contrario v. A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 263, secondo il quale il semplice disaccordo, purché dimostrabile, farebbe persistere la penale responsabilità in capo al solo consulente. 124 CAPITOLO TERZO zione del caso: o perché privo della necessaria esperienza (come ad esempio nel caso di medico alla prima assunzione) o perché trovatosi dinnanzi ad una situazione di particolare complessità tecnica. Egli, quindi, ben potrebbe non essere in grado (non essendolo, peraltro, già stato all’atto della presa in carico del caso, tanto da aver ritenuto necessario chiedere l’intervento di un collega più esperto) di rilevare l’erroneità della valutazione espressa dal consulente. Non sembra, quindi, possibile affermare de plano il permanere di una responsabilità, in capo al medico che ha richiesto il consulto, essendo, piuttosto, necessario procedere, nel caso concreto, a verificare quale sia il tipo di errore che ha determinato l’esito infausto. Se, infatti, l’erroneo parere del consulente concerne aspetti della terapia o della diagnosi che non hanno particolari profili di complessità e la cui corretta attuazione dovrebbe rientrare nel patrimonio di ciascun medico (a maggior ragione della medesima specializzazione), allora potrà affermarsi la riconoscibilità dell’errore e, di conseguenza la responsabilità anche del sanitario che ha chiesto il consulto. Viceversa, se l’errore cade proprio sul nucleo centrale della consulenza (in genere richiesta proprio per affrontare problemi di particolare complessità che il medico richiedente, come detto non sarebbe in grado da solo di risolvere), dovrebbe escludersi la responsabilità del medico richiedente per assenza di rimproverabilità. Restano, infine, da chiarire quali possano essere i profili di responsabilità ravvisabili a carico del medico chiamato a consulto. Se, come già emerso, è innegabile che egli assuma la diretta responsabilità per l’intervento diagnostico o terapeutico praticato insieme al collega, maggiori dubbi sorgono nel caso in cui il consulente non risponda alla chiamata del collega ovvero apporti un contributo che non sia tale da configurare un’effettiva partecipazione. A tal proposito, bisogna innanzitutto sottolineare che, ai sensi dell’art. 10 d.P.R. n. 128 del 1969, “i sanitari sono tenuti alla reciproca consulenza”, essendo ravvisabile in capo agli stessi un dovere non solo morale, ma giuridico, di prestare la propria consulenza, mettendo, così, la propria esperienza a tutela della salute dei pazienti. Sennonché, appare indispensabile comprendere se la semplice richiesta di consulenza faccia sorgere in capo al sanitario un obbligo di garanzia nei confronti del paziente, cosicché la sua inerzia, ove fosse ritenuta causale rispetto al verificarsi dell’evento, potrebbe portare ad una responsabilità per omicidio o lesioni colpose ai danni del paziente da lui non assistito, o se, al contrario, il rifiuto di consulenza, lungi dal costituire condotta valutabile ai fini della realizzazione delle fattispecie di omicidio o lesioni, possa assumere rilievo ai sensi di altre disposizioni. La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su un caso di omicidio col- LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE 125 poso ai danni di un paziente giunto presso l’ospedale con grave traumatismo cranio-encefalico, per il quale erano imputati, tra gli altri, il medico di guardia e lo specialista consulente neurologo esterno, ha affermato che “anche il collaboratore esterno, una volta chiamato, deve non solo esaminare, con una sommaria anche se non superficiale visita, l’ammalato, ma deve seguirlo quando è necessario, disponendo tutto quanto occorre, con ulteriori visite, disponendo gli esami necessari e disporre eventualmente il trasferimento d’urgenza in altro ospedale”10. Nel caso sottoposto alla loro attenzione i giudici hanno ritenuto che l’essersi disinteressato del paziente, dopo essere stato chiamato a visitarlo, e l’aver omesso gli esami necessari, costituisce colpa professionale penalmente rilevante. Sembra, pertanto, possibile affermare, in linea di principio, che sul medico specialista, chiamato a prestare la propria consulenza, incomba un vero e proprio obbligo giuridico di attivarsi che, se inadempiuto, dà luogo a responsabilità omissiva colposa per i delitti di omicidio o lesioni11. In simili ipotesi, tuttavia, sembra aprirsi anche la strada per una responsabilità per il reato di rifiuto od omissione di atti d’ufficio, di cui all’art. 328 c.p., in quanto ai medici ospedalieri, riconosciuti concordemente da dottrina e giurisprudenza quali pubblici ufficiali, fa capo un dovere di prestare la propria opera “alla Società e allo Stato, senza divisioni di competenze, secondo le loro capacità professionali, quando si versi in condizioni di necessità”12. Sicché di fronte ad una situazione di urgenza, resa evidente dai fatti sottoposti all’attenzione del consulente da parte del medico che lo chiama a consulto, “l’inerzia omissiva” del primo assume “intrinsecamente valenza di rifiuto” e integra la fattispecie delittuosa di cui sopra, la quale potrà, eventualmente concorrere con i delitti di omicidio o lesioni colpose, laddove l’omissione sia causa dell’evento dannoso per la vita o l’integrità fisica del paziente13. Del tutto peculiare è poi il caso del medico “reperibile”, il quale ha il dovere di rientrare in servizio, laddove venga chiamato durante il turno di reperibilità per un consulto. Costituisce, al riguardo, un caso di colpa per negligenza il non aver ottemperato tempestivamente al proprio obbligo in caso di chiamata in servizio, con la conseguenza che il medico reperibile potrà essere chiamato a rispondere del decesso o delle lesioni subite dal paziente, ove si accerti che questi sono stati conseguenza della sua condotta omissiva14. 10 Cass. pen., sez. IV, 13 giugno 1983, n. 7670, Duè, cit. 11 Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2010, n. 3365, Leone, in Cass. pen., 2011, p. 2590. 12 Cass. pen., sez. VI, 11 marzo 1987, n. 2914, Amico, in CED rv. 175295. 13 Cass. pen., sez. VI, 11 maggio 2000, n. 10538, Giannelli, in Cass. pen., 1001, p. 1488. 14 C. PARODI, V. NIZZA, La responsabilità, cit., p. 65. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. 126 CAPITOLO TERZO A tal proposito, la Corte ha rilevato che “sarebbe semplicistico ridurre i doveri incombenti ai medici in reperibilità al presentarsi in ospedale a chiamata in mezz’ora al massimo, riprendendo servizio ed espletando le cure e l’assistenza […]. Allorquando l’intervento d’emergenza del medico reperibile viene richiesto per un processo patologico a progressione lenta nel tempo, ne consegue che l’intervento d’emergenza non può esaurirsi nella visita, ancorché attenta e scrupolosa, una tantum, sia pure seguita dalle prescrizioni del caso al personale paramedico, ma deve tradursi in una sorta di monitoraggio sotto forma di sorveglianza e controlli in modo assiduo delle condizioni respiratorie del paziente”15. Anche il medico reperibile, che venga chiamato per un consulto, quindi, non si libera da responsabilità per il solo fatto di aver risposto alla chiamata ed essere rientrato in servizio, ma, avendo assunto una vera e propria posizione di garanzia nei confronti del paziente, egli è tenuto a proseguire nell’attività di vigilanza sulla salute del paziente16. Con riferimento, invece, alla seconda questione, attinente al contributo minimo che debba aver prestato il medico chiamato a consulto per poter rispondere dell’eventuale fatto colposo del collega a titolo di cooperazione ex art. 113 c.p., deve rilevarsi come spesso nell’ambito della frenetica vita ospedaliera il medico presti consigli estemporanei. In tal senso, si possono richiamare i casi del medico specialista che, di passaggio in reparto (ma non espressamente chiamato a consulto), fornisca un parere ai colleghi che già stanno effettuando l’intervento diagnostico o terapeutico con le modalità dallo stesso confermate, ovvero dello specialista che presti una consulenza via telefono, senza avere, peraltro, la necessaria conoscenza di tutti gli elementi di giudizio necessari per una compiuta valutazione del caso. Orbene, la giurisprudenza (che, come detto, esprime un orientamento di forte rigore in ordine alla ripartizione delle responsabilità nel caso di consulto) ritiene sufficiente l’effettuazione della consulenza, per poter configurare una responsabilità a carico del medico che l’ha effettuata. Questa conclusione si fonda, ad avviso dei giudici, sulla sudditanza psicologica del medico che richiede il consulto nei confronti del medico che lo ha prestato: l’autorità, l’anzianità e la maggiore esperienza del me- IV, 10 luglio 1987, n. 8290, Ziliotto, in Riv. it. med. leg., 1989, p. 668; Cass. pen., sez. VI, 12 giugno 1986, n. 5465, Badessa, in CED rv. 173105. 15 Cass. pen., sez. IV, 7 dicembre 2000, n. 12796, inedita. 16 Sulla responsabilità per il reato di rifiuto di atti d’ufficio in caso di omesso intervento a seguito di chiamata del medico reperibile v. Cass. pen., sez. IV, 2 aprile 2013, n. 14979, M., in CED rv. 254863. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE 127 dico consulente, conferirebbero, ex se, efficacia vincolante alle sue opinioni, comunque espresse17. In realtà, tale posizione non sembra conciliarsi con le ricostruzioni, affermatesi in materia di accertamento del c.d. “contributo minimo” del concorrente, che richiedono un’efficacia causale o quantomeno agevolatrice della condotta rispetto alla realizzazione del fatto di reato: la semplice autorevolezza del consulente, non può, infatti, dirsi elemento sufficiente per concretizzare una sua partecipazione, anche solo a titolo di agevolazione, nel fatto colposo realizzato dal collega, laddove non si accerti l’efficacia del parere rispetto all’esito dell’intervento diagnostico o terapeutico. L’ultima questione che rimane da affrontare, con riferimento ai rapporti di collaborazione per consulto, concerne l’ipotesi in cui il medico presti la propria consulenza, ma, dopo aver riscontrato l’esistenza e la natura della patologia, non si adoperi per disporre gli opportuni trattamenti diagnostici e terapeutici. Con specifico riferimento a questa ipotesi la Corte di Cassazione ha affermato che “il medico che sia pure a titolo di consulto, accerti l’esistenza di una patologia ad elevato ed immediato rischio di aggravamento, in virtù della sua posizione di garanzia ha l’obbligo di disporre personalmente i trattamenti terapeutici idonei ad evitare eventi dannosi ovvero, in caso di impossibilità di intervento, è tenuto ad adoperarsi facendo ricoverare il paziente in un reparto specialistico, portando a conoscenza dei medici specialisti la gravità ed urgenza del caso ovvero, nel caso di indisponibilità di posti letto nel reparto specialistico, richiedendo che l’assistenza specializzata venga prestata nel reparto dove il paziente si trova ricoverato, specie là dove questo reparto non sia idoneo ad affrontare la patologia riscontrata con la necessaria perizia professionale”18. Il medico intervenuto per il consulto, quindi, non può 17 F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 55. Interessante anche l’osservazione di P. ZANGANI, Sul rapporto, cit., p. 480, il quale rileva che “il timore di essere ritenuto partecipe della responsabilità penale del medico addetto – ad esempio – al pronto soccorso, potrebbe indurre il primario ovvero ogni altro sanitario all’astenersi da consigli non richiesti e, soprattutto, non dovuti a norma di regolamento”. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 1959, Niesi, cit., per cui non sarebbe lecito “al superiore trarre argomento, dalla accertata inesistenza di un rapporto di subordinazione per sostenere che, lungi dall’impartire disposizioni vincolanti, diede semplici pareri o consigli, onde non gli si dovrebbe far carico di aver cooperato nella condotta colposa di chi li ricevette. Il peso dell’autorità, anzianità e maggiore esperienza di chi li esprime, attribuirebbe inevitabilmente a quei pareri ed a quei consigli natura ed effetto di partecipazione per determinazione nell’azione o nell’omissione del sanitario che, indottovi dall’inevitabile senso di soggezione verso il collega più anziano ed autorevole, si uniformasse ad essi”. 18 Cass. pen., sez. IV, 3 febbraio 2003, n. 4827, Perilli, in CED rv. 224178 (la fattispecie era relativa ad un chirurgo vascolare che, richiesto di un consulto dal sanitario del pronto 128 CAPITOLO TERZO fare affidamento sul fatto che il collega, primo affidatario del paziente, esegua tutti gli interventi diagnostici e terapeutici necessari, ma deve egli stesso attivarsi, in tutela della salute del paziente, perché vengano eseguite tutte le attività ritenute necessarie per la cura dello stesso; in caso contrario egli risponderà per gli eventuali esiti infausti occorsi a causa della sua omissione. 4. (Segue): b) la colpa «per assunzione» Come evidenziato in precedenza, regole di diligenza e prudenza impongono al medico, che si avveda della propria incapacità di affrontare un intervento diagnostico o terapeutico, di chiedere un consulto e, quindi, il contributo di un collega di maggiore esperienza. Può accadere, tuttavia, che il sanitario, violando tali regole precauzionali, decida, viceversa, di eseguire personalmente detto intervento. Come noto, l’attività medica si colloca nell’ambito delle attività rischiose, ma giuridicamente autorizzate per la loro intrinseca utilità sociale19, rispetto alle quali la colpa si qualifica come speciale. Lo svolgimento di dette attività, difatti, è ammesso, ma nel rispetto delle leges artis, ovverosia di cautele dettate al fine di mantenere la pericolosità dell’attività entro i limiti del rischio consentito e socialmente tollerabile20. Sennonché, laddove il medico si trovi ad affrontare un intervento che non sia in grado di svolgere nel rispetto del dovere di diligenza, non essendo in possesso delle dovute capacità e conoscenze tecniche, sullo stesso incomberà una nuova regola cautelare che impone un obbligo di astensione. Sarà, quindi, configurabile una responsabilità colposa (c.d. colpa per assunzione), in caso di esiti infausti, a carico del medico che decida egualmente di effettuare l’intervento, nonostante la propria incapacità tecnica. In realtà, proprio la colpa per assunzione ha costituito banco di prova per quegli orientamenti più recenti secondo cui le regole cautelari non possono avere quale contenuto un dovere di astensione. Se, infatti, la dottrina tradizionale pone tra i possibili contenuti delle regole cautelari anche il dovere di astensione21, le opinioni più recenti (anche se, insoccorso, dopo aver diagnosticato un sospetto aneurisma dell’aorta addominale retropancreatica, aveva omesso l’immediato ricovero nel reparto, gli immediati approfondimenti diagnostici, il ricovero nel reparto di chirurgia vascolare, gli immediati approfondimenti diagnostici, l’immediato intervento chirurgico o, comunque, la segnalazione dell’immediata necessità dello stesso). 19 F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 180. 20 F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 357 e 343. 21 Nella manualistica v. S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 434; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 578. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE 129 vero, minoritarie) procedono, invece, ad una revisione di tale ricostruzione, in quanto ritenuta incompatibile con la stessa nozione di regola cautelare22. Risulta, infatti, ormai recepito l’assunto secondo il quale le regole cautelari sono norme modali, in quanto indicano il modo in cui un’attività pericolosa debba essere svolta: ebbene, se si conviene sul carattere modale della regola cautelare, è chiaro che essa non potrebbe consistere in un dovere di astensione23. Secondo il predetto orientamento, anche le ipotesi di colpa per assunzione possono essere correttamente affrontate senza ricorrere all’artificio della regola dell’astensione. Il ragionamento, da cui muove la dottrina in esame, è che esistono attività (tra le quali per l’appunto quella medica) che non sono semplicemente autorizzate, ma anche doverose, in quanto il compimento di esse è imposto all’agente dall’assunzione di una posizione di garanzia24. In tali casi, l’obbligo di astensione non avrebbe alcuno spazio di autonomia rispetto alla qualificazione del comportamento dannoso come imperito. È, infatti, innegabile che là dove la doverosità dell’attività pericolosa gravi su un soggetto per la sua qualifica professionale, si delinei con sufficiente chiarezza l’ambito in cui l’eventuale violazione del dovere di diligenza integri l’imperizia25. Nel caso di medico, il quale non abbia le necessarie capacità tecniche e che, nondimeno, in ragione della sua posizione di garanzia, debba fornire le cure, non può certo parlarsi di obbligo di astensione. Egli, al contrario, avendo l’obbligo di attivarsi per salvare la vita del paziente, potrà andare esente da responsabilità solo agendo diligentemente, in modo da impedire l’evento, e non, invece, eccependo la sua incapacità26. Nelle ipotesi di consapevolezza della propria imperizia, al medico, quindi, altro non rimane se non chiedere l’intervento di un collega con maggiore esperienza, in quanto, in caso contrario, egli dovrà rispondere, a titolo di colpa, dei danni eventualmente procurati al paziente27. Può dirsi, pertanto, confermato l’assunto iniziale per cui il dovere di astensione non è altro che un risvolto dell’imperizia. Infatti, se il medico, 22 F. 23 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 88; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 344. GIUNTA, La normatività, cit., p. 89; D. MICHELETTI, La colpa del medico. Prima lettura di una recente ricerca “sul campo”, in Criminalia, 2009, p. 179 ss. 24 F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 215. 25 Il contenuto delle regole di perizia viene, infatti, comunemente individuato nell’insieme di regole tecniche (c.d. leges artis) proprie di un determinato tipo di attività. Specularmene, quindi, l’imperizia dovrebbe qualificarsi come la violazione delle leges artis e ciò a prescindere dal fatto che essa sia dovuta ad ignoranza delle leggi medesime o a inettitudine del soggetto agente. In tal senso cfr. F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 167; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 341 s. 26 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 113. 27 F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 218. 130 CAPITOLO TERZO nonostante le riscontrate difficoltà, decide comunque di proseguire la propria attività, senza chiamare a consulto un collega di maggiore esperienza, ma non si verifichi alcun evento dannoso ai danni del paziente, egli andrà esente da qualsivoglia responsabilità. In caso contrario egli sarà chiamato a rispondere, ma non per aver assunto un incarico in assenza delle capacità tecniche (di per sé condotta non tipica, stante l’assenza nel nostro ordinamento di una norma che incrimini il tentativo colposo), bensì per aver cagionato l’evento a causa della violazione delle leges artis28. In conclusione, quindi, se l’obbligo di astensione non smentisce la natura modale della regola cautelare, è perché esso risulta “una mera superfetazione del dovere di diligenza, che solo impropriamente può essere considerata un’autonoma tipologia di regola prudenziale. La conclusione a cui perviene la dottrina maggioritaria è solo il frutto di un’erronea trasposizione sul piano della pretesa comportamentale generale ed astratta di un dato che – al pari di altri – attiene all’evitabilità del fatto colposo”29. La dottrina tradizionale30 e la giurisprudenza31, tuttavia, sono ancora orientate nel senso di ritenere che la regola cautelare della colpa per as28 F. 29 F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 217. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 235. Ritiene che il profilo del dovere di astensione attenga al contenuto della colpevolezza colposa e non della tipicità M. GROTTO, Principio di colpevolezza, cit., p. 125. L’Autore sottolinea che per il soggetto che agisce, sapendo (o potendo rendersi conto) che non sarà in grado di rispettare le pretese comportamentali poste dall’ordinamento, scatta l’obbligo di astenersi dallo svolgere l’attività in generale libera, ma che per lui diventa interdetta. L’agente dotato di conoscenze non sufficienti è rimproverabile perché ha causato l’evento trasgredendo la regola cautelare che egli non era ab initio in grado di rispettare. Decidendo di agire, pur nell’impossibilità di “agire bene”, egli ha cagionato l’evento con condotta tipica (se avesse rispettato la regola cautelare l’evento non si sarebbe verificato) e colposa (se fosse stato avveduto, si sarebbe astenuto dall’agire). 30 D. CASTRONUOVO, L’evoluzione teorica, cit., p. 1621, il quale ritiene esemplificativo in tal senso il caso del medico che ponga in essere un atteggiamento attendistico (c.d. terapia dell’attesa) in relazione agli sviluppi di una terapia così come suggerito dai protocolli. Contra D. MICHELETTI, La colpa, cit., p. 179, secondo il quale, anzi, è proprio la lettura della giurisprudenza in tema di “terapia dell’attesa” ad evidenziare la rinuncia da parte di quest’ultima ad assumere l’astensione quale contenuto dell’obbligo cautelare. Rinuncia che, osserva l’Autore, non dipenderebbe tanto da una ponderata predilezione per l’interpretazione più rigorosa del carattere necessariamente modale della regola cautelare, ma, piuttosto, da una “spontanea comprensione delle illogiche conseguenze cui si esporrebbe la soluzione alternativa”. Quest’ultima, infatti, sfruttando il dovere di astensione, finirebbe per imputare al medico la verificazione del rischio che è intrinseco nello svolgimento della propria attività. Così, la giurisprudenza, là dove l’intervento medico si rivelerebbe dannoso anziché benefico, tende a contestare non già l’obbligo di astensione, bensì l’obbligo di osservare la terapia dell’attesa, sintomo, appunto, della tendenza a privilegiare la concezione modale della regola cautelare. 31 Cass. pen., sez. IV, 17 novembre 2005, n. 7661, G., in Dir. pen. proc., 2006, p. 1272 secondo cui “nell’esercizio di attività pericolose consentite, proprio perché la soglia della pre- LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE 131 sunzione abbia quale contenuto un “dovere di astensione”. Per questo orientamento, infatti, l’astensione può costituire una modallità operativa secondo i protocolli cautelari di un’attività rischiosa lecita e, quindi, nella colpa per assunzione si rimprovererebbe al soggetto proprio di aver assunto – anziché astenersi – un rischio che non era in grado di dominare. In ogni caso, al di là del contenuto che si ritenga di attribuire alla regola cautelare, appare imprescindibile che anche nella colpa per assunzione vi sia una compiuta valorizzazione del giudizio di individualizzazione dell’addebito. Affinché l’agente possa essere rimproverato per l’evento dannoso cagionato a causa della sua inettitudine, infatti, occorre, anzitutto, verificare la sua capacità di rendersi conto della pericolosità dell’attività intrapresa e la consapevolezza della incapacità di gestire il rischio assunto32. Non possono poi non considerarsi particolari circostanze esterne che rendano necessitato l’intervento e, quindi, impossibile per il medico conformarsi alla regola cautelare. È il caso, ad esempio, della situazione di urgenza terapeutica nella quale il medico si trova di fronte all’alternativa di agire (per l’indisponibilità di uno specialista) ovvero, di attendere, compromettendo, però, l’esito salvifico dell’intervento. L’emergenza caratterizza necessariamente la scelta del medico inducendolo ad assumersi una porzione di rischio non consentito pur di salvare la vita del paziente e ciò, evidentemente, rende scusabile – in caso di esito infausto – il suo comportamento. Non sembra, invece, possibile escludere la responsabilità già sul piano oggettivo, attraverso il ricorso al soccorso di necessità ex art. 54 c.p. Detta causa di giustificazione appare, infatti, concepita per escludere la rilevanza penale di offese che vengono arrecate a beni di un terzo innocente per salvaguardare un bene altamente personale dell’agente o di vedibilità di eventi dannosi è più alta rispetto alle attività comuni, maggiore è la diligenza e la perizia richiesta all’agente con la conseguenza che il soggetto che intraprenda l’attività senza le competenze e le capacità necessarie versa in colpa per assunzione per essersi assunto un compito che non era in grado di svolgere”. V. inoltre Cass. pen., sez. IV, 22 febbraio 2012, n. 6981, in Riv. it. med. leg., 2012, p. 1247, con riguardo alla colpa del medico specializzando per aver assunto compiti che non era in grado di compiere; nonché Cass. pen., sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti ed altro, cit., in cui la Corte ha affermato che “il dovere obiettivo di diligenza, che contrassegna il delitto colposo, può avere a contenuto anche un obbligo di preventiva informazione nonché quello di ricorrere alle altrui speciali competenze, sicché versa nella cosiddetta ‘colpa per assunzione’ colui che, non essendo del tutto all’altezza del compito ‘assunto’, esegua un’opera senza farsi carico di munirsi di tutti i dati tecnici necessari per dominarla, secondo lo ‘standard’ di diligenza, capacità e conoscenze richieste per il corretto svolgimento del ruolo stesso. E sempre nel caso, ovviamente, che quell’opera diventi fonte di danno anche a causa della mancata acquisizione dei dati o conoscenze specialistiche”. 32 M. ROMANO, Art. 43, cit., p. 469. 132 CAPITOLO TERZO altri33. Requisito di “terzietà” del bene che difetterebbe, invece, ogniqualvolta il medico agisca in situazione di emergenza, pur non avendo le necessarie capacità: egli si farebbe arbitro nella scelta tra i beni da tutelare, tutti appartenenti al medesimo soggettto (il paziente). 5. La collaborazione fra sanitari aventi diversa specializzazione L’ultima forma di collaborazione che può essere configurata nell’ipotesi di divisione del lavoro in senso orizzontale, è quella tra medici aventi differente specializzazione, che si verifica in tutti i casi in cui il sanitario, che ha in cura il paziente, diagnostichi una patologia che non è inerente in tutto o in parte al proprio ramo specialistico e che, pertanto, richiede la necessaria partecipazione di altri medici aventi la necessaria specializzazione. Il tema, invero, è difficilmente circoscrivibile, perché vi confluiscono le più varie ipotesi di relazione fra medici, reparti e ospedali diversi, e anche la giurisprudenza dimostra (come spesso accade in questa materia) di procedere con un approccio casistico, prescindendo dall’elaborazione di direttrici generali. A tal riguardo, i fenomeni di collaborazione più spesso oggetto di giudizio – e dai quali si muoverà per ricostruire l’orientamento interpretativo giurisprudenziale – concernono, il rapporto tra medico di guardia e specialista, il trasferimento del paziente da un reparto all’altro, ovvero in diversa struttura ospedaliera, nonché, il rapporto intercorrente, nell’ambito dell’équipe chirurgica, tra anestesista e chirurgo (ipotesi di cui per ora tralasciamo l’esame rinviando più analiticamente al prosieguo della trattazione v. infra, cap. V). La collaborazione fra sanitari, in eguale posizione gerarchica ma con diversa specializzazione, dovrebbe costituire il terreno d’elezione per l’operatività del principio di affidamento. Si tratta di situazioni in cui sui medici incombono doveri che possono qualificarsi come divisi, per cui ciascuno di essi dovrebbe essere tenuto solo al rispetto delle leges artis relative alla propria qualifica, come, peraltro, suggerirebbe la logica stessa della divisione del lavoro. D’altro canto, il medico, avendo diversa specializzazione, non sarebbe dotato delle conoscenze tecnico-scientifiche necessarie per poter valutare la correttezza della condotta del collega e, quindi, non sarebbe in grado, sulla base delle regole prudenziali proprie della sua specializzazione, di prevedere ed evitare l’eventuale fallacia delle indicazioni fornite o dell’intervento effettuato dal collega (salvo che 33 C. ROXIN, Antigiuridicità e cause di giustificazione. Problemi di teoria dell’illecito penale, a cura di S. MOCCIA, Napoli, 1996, p. 151 ss.; F. VIGANÒ, Stato di necessità e conflitti di doveri, Milano, 2000, p. 450 ss. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE 133 non si tratti di errore emendabile con le conoscenze comuni a ciascun sanitario). Infine, deve anche rilevarsi che, soprattutto nei casi di cooperazione diacronica, l’operatore si trova spesso nell’impossibilità materiale di intervenire sulla condotta del collega, posto che le varie condotte si svolgono in contesti temporali (e, talvolta, anche spaziali) diversi34. Il formante giurisprudenziale, tuttavia, manifesta una realtà in parte differente. Pur dandosi atto che, proprio con riguardo a questa particolare forma di coperazione, è possibile rinvenire sentenze che teorizzano il principio di affidamento (a differenza di quanto accade nel caso di collaborazione tra colleghi aventi eguale specializzazione, in cui si è visto, come la giurisprudenza tenda ad affermare de plano la pari responsabilità dei sanitari intervenuti nella cura del paziente)35, nondimeno, a queste se ne affiancano altre che, invece, configurano obblighi reciproci di vigilanza e controllo sull’operato altrui. Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, infatti, nel caso di cooperazione multidisciplinare (sia sincronica che diacronica) ogni sanitario è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle proprie specifiche mansioni, anche a conoscere e valutare l’attività svolta da altro collega, pur se specialista in altra disciplina36. L’estensione del predetto dovere viene, almeno apparentemente affievolita, dall’introduzione del limite degli “errori evidenti e non settoriali” e, quindi, evitabili grazie al patrimonio di conoscenze proprie di ciascun medico. Si è, però, già avuto modo di rilevare che l’attuale ricostruzione giurisprudenziale dei predetti concetti di “evidenza” e “non settorialità” (intesi, in particolare il primo, in termini meramente quantitativi e, soprattutto, scollegati dalla realtà concreta in cui il sanitario opera) non consente di attribuire ad essi una effettiva portata delimitatrice della responsabilità (v. supra cap. II § 9). Una delle principali forme di cooperazione tra medici aventi diversa specializzazione è quella che si verifica quando un paziente venga trasferito da un reparto all’altro dello stesso ovvero di diverso nosocomio. 34 In tal senso v. D. GUIDI, L’attività medica, cit., p. 245. 35 Cass. pen., sez. IV, 6 marzo 2009, n.10311, Di Fiore, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MIP. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 52, in cui la Corte afferma che “la cooperazione fra medici di differenti specializzazioni in cui si sostanzia l’équipe medica si fonda sul principio della divisione del lavoro, in base al quale ciascun operatore rispende delle decisioni che afferiscono alla propria branca di specializzazione”. 36 Cass. pen., sez. IV, 12 luglio 2006, n. 33619, Iaquinta, cit.; Cass. pen., sez. IV, 18 maggio 2005, n. 18548, Cavuoto, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 55; Cass. pen., sez. IV, 16 luglio 2008, n. 29443, Cortese, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 53 CHELETTI, 134 CAPITOLO TERZO L’ipotesi si verifica in tutti i casi in cui la patologia dalla quale il paziente è affetto possa essere adeguatamente curata soltanto in un reparto dotato della dovuta specializzazione ovvero, nel caso di carenze infrastrutturali, in un nosocomio avente le adeguate strutture e strumentazioni. Si tratta di una tipica ipotesi di successione nella posizione di garanzia: il bene passa dalla sfera di tutela del garante originario, privo ormai di poteri impeditivi, a quella del successore. Non sempre, tuttavia, al trasferimento del paziente ad altro reparto e, quindi, della posizione di garanzia ad altro medico, consegue anche la completa liberazione del garante originario, che avviene solo laddove, innanzitutto, l’attività ceduta non sia ab origine viziata dalla violazione di regole cautelari (c.d. successione in attività inosservanti), e, secondariamente, sia stato correttamente adempiuto l’obbligo di informazione all’atto del c.d. passaggio di consegne tra garante primario e secondario. Tralasciando l’esame delle problematiche attinenti alla successione in attività inosservanti ed all’omissione di informazioni, già affrontate in precedenza, sembra qui utile soffermarsi su un ulteriore profilo attinente alla responsabilità del medico che abbia ricevuto, all’atto del passaggio delle consegne, informazioni erronee. In tali situazioni deve ritenersi perfettamente operante il principio di affidamento, in quanto si tratta di ipotesi nelle quali il medico subentrante deve poter confidare nella correttezza delle informazioni sulle condizioni di salute del paziente e sulle terapie effettuate, tramandategli dal collega. Naturalmente, il legittimo affidamento verrà meno, subentrando un obbligo di verifica e controllo delle informazioni ricevute, nel caso in cui dalle circostanze concrete emergano condizioni tali da poter indurre il medico a dubitare della correttezza delle informazioni ricevute ovvero intervengano situazioni del tutto nuove che impongano al medico di discostarsi dai ragguagli ottenuti dal collega. Questa linea ricostruttiva è stata accolta anche dalla giurisprudenza, che non ha mancato di escludere, in forza del principio di affidamento, la responsabilità del medico che avesse ricevuto informazioni erronee dal proprio collega che lo aveva preceduto nella cura del paziente. È stata così, ad esempio, esclusa la responsabilità colposa dei medici che avevano effettuato un trapianto di organi da cadavere senza previamente raccogliere i dati anamnestici sul donatore preveniente da altra struttura ospedaliera, facendo affidamento, in assenza di indizi contrari, sull’esattezza e la completezza dei dati da quest’ultima raccolti37. La responsabilità di un medico, che aveva fatto affidamento sulle informazioni ricevute 37 Pret. Bologna, 31 maggio, 1995, Martinelli, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1053. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE 135 all’atto del trasferimento del paziente al suo reparto, è stata altresì esclusa nel caso di un chirurgo che aveva operato una paziente al ginocchio sinistro, anziché al destro, a causa di un refuso nella relazione di ingresso in ospedale della paziente, che indicava il ginocchio sinistro come quello da operare38. Tra i numerosi casi di cooperazione fra sanitari aventi diversa specializzazione si può, infine, ricordare quello intercorrente tra i medici che hanno in cura i pazienti e quelli dei laboratori che eseguono analisi ovvero esami radiografici. Anche in questo caso, la giurisprudenza esclude la responsabilità del medico che abbia fatto legittimo affidamento sui risultati di esami diagnostici eseguiti da altri sanitari. In questo senso si è affermato che, “esistendo in ambito medico un’organizzazione del lavoro basata sulla specializzazione, non può ritenersi responsabile della morte del paziente il chirurgo che, sulla base delle sue competenze e dei dati a sua disposizione, di fronte alle caratteristiche morfologiche del tumore asportato abbia chiesto l’esame istologico indicando il sospetto di tumore maligno, abbia altresì disposto una serie di indagini sulla malata per la ricerca dei tumori, e ricevuto, infine, il referto dell’anatomopatologo non indicante alcuna nota di malignità”39. 38 Trib. 39 Trib. Firenze - Empoli, 19 ottobre 1999, Firenzani, in Tosc. giur., 1999, p. 834. Roma, 13 giugno 1996, Capelli, in Foro it., 1997, II, c. 417. CAPITOLO QUARTO LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE: LA COOPERAZIONE TRA MEDICI IN DIVERSA POSIZIONE GERARCHICA E TRA MEDICI E PARAMEDICI SOMMARIO: Sezione prima. LA COLLABORAZIONE TRA MEDICI IN RAPPORTO GERARCHICO: 1. Modelli organizzativi di tipo gerarchico. – 2. La responsabilità del superiore per il fatto colposo del subordinato: a) la violazione dei doveri di impartire direttive e di coordinamento. La culpa in vigilando. – 3. (Segue): b) il dovere di ripartire i carichi di lavoro tra i medici del reparto. La culpa in eligendo. – 4. La responsabilità del medico subordinato per il fatto colposo del superiore: a) «autonomia vincolata», «autonomia limitata» e dovere di dissenso. – 5. (Segue): b) la condotta colposa del medico in posizione subalterna esecutiva di direttive impartite dal superiore. – 6. (Segue): c) esercizio del potere di avocazione da parte del dirigente di struttura complessa e responsabilità del medico in posizione subalterna. – 7. La responsabilità del medico in posizione subalterna per errori commessi dal superiore gerarchico. – 8. Profili di responsabilità per le attività compiute dal medico specializzando. – Sezione seconda. I RAPPORTI TRA PERSONALE MEDICO E PARAMEDICO: 9. I rapporti tra medico e paramedico prima dell’abrogazione del d.P.R. n. 225 del 1974. – 10. I rapporti tra medico e paramedico successivamente all’abrogazione del d.P.R. n. 225 del 1974. SEZIONE PRIMA LA COLLABORAZIONE TRA MEDICI IN RAPPORTO GERARCHICO 1. Modelli organizzativi di tipo gerarchico A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 229 del 1999, si è assistito ad una attenuazione del vincolo gerarchico all’interno delle strutture sanitarie e, conseguentemente, anche ad una ridefinizione delle sfere di responsabilità dei singoli professionisti. Come evidenziato in precedenza (v. supra Cap. I), nonostante la formale abolizione dei ruoli del primario, dell’aiuto e dell’assistente, riuniti, ora, in un unico ruolo dirigenziale (distinto per profili professionali) ed in un unico livello, nella prassi 138 CAPITOLO QUARTO si assiste ancora ad un utilizzo di tali qualifiche per individuare le diverse figure di medici con riferimento alla posizione che essi assumono nella piramide gerarchica. Naturalmente, al vertice di tale piramide si colloca il dirigente di struttura complessa, c.d. primario (a cui nell’ambito dell’équipe chirurgica viene equiparato il capo-équipe), seguito dal dirigente con cinque anni di anzianità ed eventualmente dirigente di struttura semplice, c.d. aiuto, dal dirigente alla prima assunzione, c.d. assistente ed, infine, dallo specializzando. Nell’ambito di questi rapporti, la delimitazione delle sfere di responsabilità presenta profili del tutto peculiari anche in relazione alla qualifica rivestita e, per tale motivo, ai fini di un più agevole esame delle questioni interpretative, sembra opportuno individuare due diversi filoni di indagine: da un lato, i profili attinenti alle responsabilità del medico in posizione sovraordinata per il fatto colposo del subordinato e, dall’altro, i profili relativi alle eventuali responsabilità di quest’ultimo rispetto alle violazioni cautelari commesse dal suo superiore gerarchico ovvero in caso di esecuzione di direttive erronee. Aspetti del tutto peculiari concernono, poi, i profili di responsabilità del medico specializzando e del tutor. 2. La responsabilità del superiore per il fatto colposo del subordinato: a) la violazione del dovere di impartire direttive e di coordinamento. La culpa in vigilando La questione dell’individuazione dei soggetti responsabili, nel caso di attività medica eseguita con suddivisione del lavoro in senso verticale, è, forse, quella che, più di ogni altra, evidenzia rischi di affermazione di responsabilità di “posizione”. Nella giurisprudenza di merito e di legittimità, infatti, solitamente si assiste all’affermazione della penale responsabilità del medico in posizione apicale per i fatti colposi commessi dai sanitari a lui sottoposti, in virtù di una generale posizione di garanzia assunta nei confronti di tutti i pazienti ricoverati nel suo reparto, indipendentemente dalla loro assegnazione ad altri medici1. Dalla pre1 Cass. pen., sez. IV, 30 novembre 1989, n. 16741, Cipollaro, in Cass. pen., 1991, p. 433. Interessante anche Cass. pen., sez. IV, 25 maggio 2005, n. 25233, Lucarelli, in Riv. pen., 2005, p. 1350, in cui, giungendo all’esclusione della responsabilità del primario, per carenza probatoria in ordine alla sussistenza del nesso causale, si ricostruiscono gli obblighi di organizzazione e vigilanza incombenti su detto sanitario. Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici, e particolarmente noto alle cronache per l’autorevolezza del medico coinvolto, concerneva la ripetuta insorgenza nel reparto diretto dal Prof. Lucarelli, in un breve lasso temporale, di affezioni patologiche di natura infettiva, astrattamente riconducibili alla mancata osservanza da parte del personale sanitario, di norme igieniche di varia natura. Per tali fatti veniva rinviato LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 139 detta posizione di garanzia viene, poi, quasi automaticamente fatto discendere un costante obbligo di controllo sull’operato dei collaboratori, fino ad identificare in capo al medico in posizione apicale un vero e proprio obbligo di impedimento del reato altrui2. Una simile ricostruzione ermeneutica comporta, come è evidente, un drastico affievolimento del principio di affidamento ed una conseguente responsabilità del medico in posizione apicale per qualsivoglia fatto colposo commesso dai medici del suo reparto, con introduzione di inaccettabili e pericolose forme di responsabilità oggettiva o, addirittura, per fatto altrui. Ciò sarebbe, non solo costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 27 Cost., ma, altresì, troppo semplicistico: la sussistenza di una posizione di garanzia non può certamente ritenersi sufficiente ai fini dell’affermazione della penale responsabilità del medico in posizione apicale, essendo, invece, necessario anche l’accertamento della violazione di una regola cautelare e dell’attribuibilità soggettiva di detta violazione. Il corretto comportamento del medico in posizione apicale non può farsi coincidere, peraltro, con un generico obbligo di vigilanza continuo e generale, ma occorre indagare nel dettaglio quale sia la regola cautelare violata nella situazione specifica, vista la pluralità di funzioni attribuite a questo sanitario. Come noto, infatti, la legge attribuisce al primario non solo funzioni attinenti alla sua specializzazione sanitaria, e, quindi, direttamente attinenti alla cura e all’assistenza dei pazienti, ma anche, più in generale, funzioni di tipo gestionale-organizzativo. L’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 dispone, infatti, che al dirigente di struttura complessa spetti la funzione di direzione ed organizzazione del reparto, da attuarsi attraverso l’adozione di direttive a tutto il personale operante nello stesso, nonché di dea giudizio il Prof. Lucarelli, primario del reparto di ematologia, con l’accusa di non aver correttamente vigilato sull’osservanza delle più elementari norme igieniche da parte del personale ad esso sottoposto. La Suprema Corte ha però rilevato che “non può invero richiedersi al primario – pur attribuendo a costui l’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1971 il potere-dovere di impartire istruzioni e direttive ed esercitare la verifica inerente all’attuazione di esse – di essere costantemente al fianco di ogni singolo operatore sanitario del suo reparto, ed in occasione di ogni singolo contatto tra l’operatore ed il paziente. Non essendo consentita nel nostro ordinamento un’imputazione a titolo di responsabilità penale oggettiva, solo l’accertamento della condotta in concreto posta in essere da un operatore di un reparto può consentire di stabilire se detta condotta possa essere o meno imputabile al primario del reparto sotto il profilo della violazione dell’obbligo di vigilanza o dell’erroneità delle direttive impartite”. 2 Cass. pen., sez. IV, 23 settembre 2010, n. 34521, Huscher ed altri, cit., p. 237, in cui si afferma che “sul medico primario grava un obbligo di controllo e di sorveglianza dell’operato altrui e, pertanto, egli risponde della condotta colposa dei componenti l’équipe medica”. Nello stesso senso v. Cass. pen., sez, IV, 16 luglio 2004, n. 31313, Cantini, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 44. 140 CAPITOLO QUARTO cisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio3. Alle predette funzioni si aggiunge, inoltre, quella di efficace ed efficiente gestione delle risorse attribuite alla struttura complessa. Il medico in posizione sovraordinata deve, quindi, innanzitutto, organizzare il proprio reparto procedendo ad una ripartizione dei compiti e delle funzioni (riservando, a sé, se del caso, gli interventi più complessi od urgenti), nonché predisponendo procedure standardizzate che individuino le modalità di esecuzione degli interventi (ad esempio indicando l’utilizzo di protocolli o guidelines), le modalità di controllo sugli interventi particolarmente rischiosi e di annotazione delle informazioni riguardanti i pazienti, le forme di comunicazione e di scambio di informazioni tra i medici che si susseguono nella cura dei pazienti4. Con la corretta organizzazione, che consente già in via preventiva di impedire il verificarsi di eventi lesivi ai danni dei pazienti, deve, quindi, ritenersi che il primario eserciti la propria funzione di controllo sull’andamento del reparto: non è, infatti, plausibile ritenere che egli possa in modo diretto, continuo ed illimitato esercitare una vigilanza sull’operato dei propri collaboratori5. A tal riguardo, è stato evidenziato che l’organizzazione svolge un ruolo essenziale nei meccanismi di funzionamento di strutture complesse, e la ragione di ciò sarebbe di palmare evidenza: la divisione coordinata di compiti consente a ciascuno di concentrarsi al meglio su quelli a lui spettanti; la tendenziale omogeneizzazione delle tecniche operative, d’altro canto, permette una migliore e più agevolmente preordinabile allocazione di uomini e mezzi, amplia le possibilità di collaborazione tra sanitari, agevola l’automatizzazione dei profili tecnicamente meno pregnanti delle procedure. Se ciò è vero, allora, deve concludersi che “l’organizzazione integra un’attività finalizzata al rag3 Il comma 6 dell’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 dispone che “ai dirigenti con incarico di direzione di struttura complessa sono attribuite, oltre a quelle derivanti dalle specifiche competenze professionali, funzioni di direzione e organizzazione della struttura, da attuarsi, nell’ambito degli indirizzi operativi e gestionali del dipartimento di appartenenza, anche mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa, e l’adozione delle relative decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l’appropriatezza degli interventi con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata. Il dirigente è responsabile dell’efficace ed efficiente gestione delle risorse attribuite. I risultati della gestione sono sottoposti a verifica annuale tramite il nucleo di valutazione”. Ai sensi del comma 4, inoltre, al dirigente di struttura complessa spetta il compito di attribuire i compiti e le funzioni ai sanitari della struttura: “… il dirigente responsabile della struttura predispone e assegna al dirigente un programma di attività finalizzato al raggiungimento degli obiettivi prefissati e al perfezionamento delle competenze tecnico professionali e gestionali riferite alla struttura di appartenenza”. 4 F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 19. 5 A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 255. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 141 giungimento di un miglior risultato operativo di un gruppo professionale; in altre parole le prescrizioni che definiscono ed attualizzano i meccanismi organizzativi di un complesso coordinato di persone teso all’attuazione di una mansione tecnica sono esse stesse regole cautelari”6. L’adempimento degli obblighi di corretta organizzazione e direzione della struttura consente al medico in posizione apicale di poter fare affidamento sull’operato dei propri collaboratori – salvo che nel caso concreto non siano riconoscibili loro condotte colpose – e, conseguentemente, di andare esente da responsabilità per eventuali errori imputabili a questi ultimi. Sarà, viceversa, ravvisabile una responsabilità di natura omissiva7 in tutti i casi in cui emerga che l’evento lesivo ai danni del paziente è la conseguenza di una non corretta o, addirittura, di una mancata, organizzazione del reparto, ovvero, infine, di una condotta colposa del medico sotto-ordinato il quale, ad es. non abbia ottemperato alle direttive impartite. Le predette funzioni di organizzazione e di direzione, d’altro canto, devono essere contemperate con gli ampi margini di autonomia che, soprattutto in seguito alle modifiche introdotte con il d.lgs. n. 229 del 1999, sono stati riconosciuti agli altri sanitari8. Questo provvedimento normativo, tendente a contemperare l’organizzazione rigidamente gerarchica con una maggiore responsabilizzazione dei soggetti che a vario titolo partecipano all’attività sanitaria, ha, almeno in parte, limitato l’obbligo di controllo del medico in posizione sovraordinata. Se, infatti, non pare possibile sostenere che le nuove norme possano autorizzare l’assunto secondo cui condotte inadeguate e lesive, poste in essere all’interno della struttura, siano, allo stato, diventate riferibili alla esclusiva responsabilità di chi materialmente le abbia realizzate, nondimeno, deve osservarsi che la vigente descrizione delle competenze attribuite alla figura apicale non sembra espressamente (continuare a) contemplare anche poteri-doveri di generalizzata e continuativa sorveglianza sulle scelte diagnostico-terapeutiche operate dagli altri sanitari9. 6 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1635. 7 C.F. GROSSO, Organizzazione dei servizi medici e problemi di responsabilità penale, in La medicina e la legge, Atti dell’83° Congresso SPLLOT, Torino, 1989, p. 29 ss.; C. PARODI, V. NIZZA, La responsabilità, cit., p. 134; F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 19 ss. 8 L’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1971 prevedeva che il primario dovesse esercitare funzioni di indirizzo e di verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura, impartendo all’uopo direttive ed esercitando la verifica inerente all’attuazione di esse. Nel d.lgs. n. 502 del 1992, così come modificato dal d.lgs. n. 229 del 1999, scompare invece qualsiasi riferimento ad obblighi di verifica: l’art. 15, infatti, riconosce al primario funzioni di direzione ed organizzazione, ma non prevede più poteri-doveri di vigilanza continuativa sulle scelte degli altri sanitari. 9 G. IADECOLA, La responsabilità medica nell’attività in équipe, cit., p. 155. 142 CAPITOLO QUARTO Da questa diversa formulazione della norma, i primi commentatori hanno ritenuto di poter desumere che, attualmente, l’obbligo di attivarsi, da parte del soggetto apicale, insorgerebbe nel momento in cui il medesimo venga comunque a conoscenza (se non in forza di un controllo diuturnamente dovuto e svolto) per segnalazione di terzi o, ad esempio, anche per occasionale, diretta, percezione, di atteggiamenti terapeutici dei sanitari collaboratori che, discostandosi dalle regole della corretta prassi medica, pongano a rischio il comune obiettivo finale della attuazione della migliore prestazione sanitaria a beneficio del paziente10. Si ritiene, quindi, che una culpa in vigilando sia configurabile in capo al medico in posizione apicale solo nel caso in cui l’esito infausto del trattamento sia la conseguenza della violazione del suo dovere di impartire istruzioni o direttive ovvero nel caso in cui tale dovere sia stato adempiuto, ma il medico in posizione subalterna non vi si sia adeguato. In quest’ultimo caso, tuttavia, non può ritenersi che discenda automaticamente la responsabilità del primario dovendosi individuare, in primo luogo, contenuti ed ampiezza del suo dovere di controllo circa la corretta attuazione delle proprie direttive e, in secondo luogo, i limiti di riconoscibilità della condotta colposa altrui. In tal senso, si può ritenere che sulla delimitazione dell’estensione del dovere di controllo incidano, innanzitutto, le differenti qualifiche funzionali e le attribuzioni del personale medico. Dal dettato dell’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 (così come modificato dal d.lgs. n. 229 del 1999) emerge, infatti, che il dirigente alla prima assunzione, pur essendo affidatario di compiti professionali di alto livello con precisi ambiti di autonomia, è, però, chiamato a svolgere la sua attività nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura complessa. I margini di autonomia aumentano con l’anzianità professionale: il dirigente sanitario con cinque anni di assunzione (al quale può essere attribuita anche la direzione di una struttura semplice), infatti, non è più destinatario di istruzioni operative da parte del primario, ma solo di direttive di carattere generale concernenti l’organizzazione della struttura di reparto. È innega10 G. IADECOLA, La responsabilità medica nell’attività in équipe, cit., p. 155. La Corte di Cassazione, nell’unica sentenza che si è diffusamente occupata delle novità introdotte dal d.lgs. n. 229 del 1999 ha escluso che la maggiore responsabilizzazione degli altri ruoli abbia determinato un ridimensionamento dei doveri di controllo e vigilanza del medico in posizione apicale. Tanto che i giudici osservano che tale dovere si attua con due diversi comportamenti: il primo, di carattere generale, dovendo il dirigente di struttura informarsi della situazione generale del reparto; il secondo, di carattere specifico, dovendo lo stesso assumere la direzione dell’intervento, laddove venga a conoscenza di eventuali comportamenti imperiti, negligenti o imprudenti dei propri collaboratori. In tal senso Cass. pen., sez. IV, 29 settembre 2005, n. 47145, Sciortino, cit. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 143 bile che i diversi ambiti di autonomia e competenze riconosciuti dalla legge ai medici in posizione subalterna incidano sul contenuto del dovere di vigilanza del medico apicale: maggiore e più stringente dovrà essere il controllo sul medico in posizione inziale, la cui attività è espressamente definita come soggetta a vigilanza, meno incisivo potrà, invece, essere il controllo sull’aiuto, a cui per legge sono riconosciuti ambiti più ampi di autonomia decisionale11. In secondo luogo, assumerà rilievo la natura del caso da trattare; a tal proposito, è utile distinguere fra “casi di difficile soluzione”, ai quali il primario deve prestare particolare attenzione, richiedendo di essere interpellato dai suoi collaboratori o addirittura assumerne la diretta esecuzione, e “casi di semplice soluzione”, per i quali, invece, laddove siano stati adempiuti i doveri “preventivi” di organizzazione del reparto, il primario può fare affidamento sul corretto adempimento delle regole cautelari da parte del collaboratore12. Dunque, se, in linea di massima, è vero che il primario ha il dovere di conoscere lo stato di salute di ogni paziente ricoverato nel suo reparto, non sempre, però, il dovere di controllo si configura nello stesso modo, intensificandosi nel caso di prestazioni eseguite da medici inesperti ovvero di particolare complessità o pericolosità per la salute del paziente13. Il dovere di controllo, tuttavia, torna ad avere la sua massima portata (indipendentemente dalla qualifica dell’affidatario e dalla natura dell’attività) nel caso in cui il sanitario in posizione apicale percepisca, in via diretta o mediata (in quanto, ad esempio, riferitegli) circostanze concrete che possano far prevedere il mancato rispetto di regole precauzionali da parte dei collaboratori. In questa evenienza, il primario dovrà vigilare sull’operato del sanitario a lui sottoposto e, se del caso, esercitare il potere di avocazione, esautorando il collaboratore ed eseguendo personalmente l’intervento diagnostico o terapeutico14. 11 P. VENEZIANI, I delitti, cit., 12 Per l’esclusione del dovere p. 197. di controllo rispetto ad attività c.d. routinarie, v. nella giurisprudenza di merito Trib. Palermo, 16 luglio 2002, Florena, cit. Si veda, inoltre, Cass. pen., sez. IV, 26 marzo 1992, n. 5539, Ciccarelli e altro, cit., in cui i giudici affermano che “proprio nel rispetto delle specifiche competenze e nella dovuta ripartizione dei compiti di un’organizzazione complessa, che si sviluppa non soltanto in senso verticale ma anche in quello orizzontale attraverso la diramazione dei reparti e degli altri servizi collaterali, l’obbligo di direzione del primario appare riservato e funzionalizzato alla più professionale e più proficua effettuazione delle prestazioni ospedaliere, soprattutto sul piano della verifica più propriamente medica, ma non può abbracciare l’organizzazione di ogni e qualsiasi servizio e soprattutto non si può rivolgere al controllo della regolarità anche delle mansioni più propriamente esecutive”. 13 A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 255 ss. 14 L’art. 63, comma 6, d.P.R. n. 761 del 1979 riconosce espressamente in capo al primario la possibilità di “avocare casi alla sua diretta responsabilità fermo restando l’obbligo di 144 CAPITOLO QUARTO In tale ipotesi rimane da accertare se la violazione cautelare commessa dal sottoposto fosse effettivamente percepibile e riconoscibile dal medico in posizione apicale. Seppur vero, infatti, che il medico in posizione apicale è dotato di particolari competenze tecniche e di anzianità di servizio tali da consentirgli di rilevare anche errori tecnicamente complessi15, tuttavia occorre tenere presente che particolari circostanze concrete (come l’assenza dal reparto o la contemporanea esecuzione di altro intervento che richiede la sua presenza) possono di fatto escludere l’evidenza di tale errore e, quindi, la sua attribuibilità a detto sanitario. 3. (Segue): b) il dovere di ripartire i carichi di lavoro tra i medici del reparto. La culpa in eligendo Ritornando all’ambito dei compiti di organizzazione del primario, deve evidenziarsi che tra essi rientra, naturalmente, anche quello di ripartizione del carico di lavoro tra i medici appartenenti al proprio reparto. Con riferimento a questo specifico profilo, il dettato dell’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 risulta completato, anche se non in modo sufficientemente esaustivo, dall’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 che precisa le modalità con le quali il primario deve effettuare la distribuzione dei compiti. La norma, infatti, dispone che il medico in posizione sovraordinata “assegna a sé o agli altri medici i pazienti ricoverati e può avocare casi alla sua diretta responsabilità … Le modalità di assegnazione in cura dei pazienti debbono rispettare criteri oggettivi di competenza, di equa distribuzione del lavoro, di rotazione nei cari settori di pertinenza”. Sembra, quindi, possibile affermare che sul dirigente di struttura complessa incomba, addirittura, un vero e proprio obbligo di ripartizione dei compiti tra i medici appartenenti al reparto dallo stesso diretto, il cui adempimento risulta, peraltro, indispensabile per il corretto esplecollaborazione da parte del personale appartenente alle altre posizioni funzionali”. La legislazione successiva, che come già più volte ricordato, non ha però formalmente abrogato il d.P.R. n. 761 del 1979, seppure non espressamente, sembra continuare a riconoscere tale potere in capo al medico in posizione apicale. L’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992, così come modificato dal d.lgs. n. 229 del 1999, prevede, infatti, che il medico in pozione apicale debba adottare tutte le “decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio”, tra le quali sembra possibile ricomprendere anche l’avocazione del caso. 15 A. MASSARO, Principio di affidamento e “obbligo di vigilanza” sull’operato altrui: riflessioni in materia di attività medico-chirurgica in équipe, in Cass. pen., 2011, p. 3857 ss. L’Autrice osserva che proprio le maggiori competenze del medico in posizione apicale impedirebbero di fare riferimento, per valutare la rilevabilità dell’errore, ad un agente modello corrispondente alla figura del “medico generale”. Quando viene in considerazione la responsabilità del vertice, l’homo eiusdem condicionis et professionis da assumere quale parametro è quello della cerchia professionale a cui appartiene il medico in posizione apicale. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 145 tamento delle mansioni di natura più prettamente specialistica. Sennonché l’adempimento dell’obbligo di ripartizione dei carichi di lavoro può far sorgere nuovi profili di penale responsabilità per il medico in posizione apicale. Non sempre, infatti, questo sanitario si libera da responsabilità per il sol fatto di aver affidato ad altri la cura del paziente e, anzi, nel caso di evento infausto conseguente a fatto colposo del subordinato può essere chiamato a risponderne. In questa ipotesi l’attribuzione di responsabilità al dirigente deve passare per il vaglio di due profili attinenti, il primo, alle modalità di scelta del medico affidatario e, il secondo, alla portata liberatoria dell’attribuzione dell’incarico. Con riferimento al primo aspetto, è indubbio che il medico in posizione apicale, prima di poter procedere all’affidamento delle mansioni all’interno del proprio reparto, debba, innanzitutto, individuare le categorie di compiti delegabili e, secondariamente, attribuirli ad un soggetto dotato delle necessarie capacità tecniche per adempierli16. Peraltro, tale ultima verifica deve fondarsi, non tanto sulla qualifica giuridico-funzionale del sanitario, ma sulle sue capacità effettive, personalmente saggiate dal primario. In tal senso, parte della dottrina ha osservato che il dirigente di struttura non può presumere le capacità tecniche del medico a cui deve affidare un incarico per il solo fatto che esso sia risultato vincitore di un concorso pubblico e di conseguenza sia stato incardinato nel reparto, ma ha il preciso dovere di “far precedere un’opera di personale controllo e critica delle capacità tecniche di tutto il personale da lui dipendente, prima di affidare a chiunque mansioni implicanti una qualsiasi autonomia”17. Particolarmente delicata, quindi, si presenta la questione circa la responsabilità del primario a causa dell’assegnazione di compiti a personale tecnicamente non idoneo. La dottrina ha, a tal riguardo, osservato che l’aspettativa del personale medico e paramedico, di essere assegnato a compiti confacenti alla propria qualifica formale, deve essere contemperata con il superiore principio della salvaguardia della salute del paziente. Ne consegue che, laddove un medico non sia tecnicamente in grado o non sia sufficientemente preparato, per eseguire determinati interventi, terapie o diagnosi, il dirigente sarà tenuto a non affidargli tali compiti ed a scegliere colleghi preparati o a compiere lui stesso l’intervento18. Un diverso indirizzo ermeneutico, invece, restringe la portata del dovere del primario di saggiare le concrete capacità del collaboratore, 16 In dottrina cfr. F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 15; P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 199; R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 770. 17 G. MARIUNUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 228; A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 259. 18 C.F. GROSSO, Organizzazione dei servizi medici, cit., p. 31. 146 CAPITOLO QUARTO sulla scorta del rilievo che, nelle strutture sanitarie pubbliche, la scelta del personale medico afferente al reparto non è demandata al dirigente della struttura, ma obbedisce a chiamate da parte del direttore dell’azienda ospedaliera ed a regole concorsuali, la cui efficacia selettiva, di per sé, può spesso essere insoddisfacente19. Secondo questo orientamento, nei casi in cui alla qualifica funzionale non corrispondano capacità effettive, al dirigente non resterebbe altro da fare se non attivare le procedure di tipo amministrativo per la segnalazione della questione al direttore sanitario. Sembra, tuttavia, preferibile ritenere che il medico in posizione apicale non possa semplicemente fare affidamento sulla qualifica funzionale del proprio collaboratore per potergli affidare degli incarichi, laddove nel corso della collaborazione abbia verificato l’eventuale incapacità tecnica o la scarsa preparazione dello stesso. Sicché, il primario potrà essere ritenuto responsabile dei fatti verificatosi ai danni del paziente nel caso in cui emerga che egli ha affidato l’incarico ad un collaboratore privo delle capacità tecniche per adempierlo. Si tratta dei c.d. casi di culpa in eligendo, consistente, per l’appunto, nella “cattiva scelta del preposto”, e nella quale la regola cautelare assume un contenuto peculiare, dato proprio dalla interferenza tra l’attività di più soggetti. Le regole cautelari, infatti, come già evidenziato, possono avere quale finalità preventiva, non tanto l’impedimento dell’evento, quanto piuttosto il contenimento della altrui condotta pericolosa. In questo ambito si collocano anche quelle regole prudenziali che operano in un momento precedente all’inizio dell’attività pericolosa, nel senso che orientano la scelta dei soggetti ai quali è possibile affidare lo svolgimento di tale attività. Proprio la violazione di dette regole dà luogo alla culpa in eligendo la quale, tuttavia, assume rilevanza solo ove l’incapacità del soggetto delegato sia stata la causa di un evento dannoso per il paziente: in questo caso, la responsabilità del soggetto delegante concorrerà, ex art. 113 c.p., con quella del soggetto delegato20. A tal proposito, la dottrina è solita distinguere tra errori di esecuzione – tendenzialmente riconducibili a condotte negligenti che si verificano, in particolare, nelle attività di routine a causa di disattenzione, nonostante la competenza tecnica del medico e la correttezza delle direttive ed istruzioni impartite dal primario – ed errori di valutazione – derivanti da defi19 In questo senso, cfr. F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 107, per il quale “se il soggetto cui viene affidato lo svolgimento dell’attività pericolosa è a ciò abilitato dalla legge, non può pretendersi in capo al delegante un accertamento delle capacità del delegato, che si spinga oltre la verifica dei requisiti formali che ne attestano l’abilitazione. Qui opera il principio di affidamento, come espressione dell’aspettativa dell’altrui diligenza”. Si vedano, inoltre, A. FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, Milano, 1999, p. 526; A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 259. 20 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 107. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 147 cit di preparazione e competenza del singolo medico e sostanziantisi in condotte imperite21. Orbene, mentre nel primo caso non può escludersi l’operatività del principio di affidamento, non potendosi pretendere dal medico in posizione apicale una costante presenza nella struttura e un controllo continuo sull’operato (anche routinario) dei propri collaboratori (salva la sua partecipazione diretta all’intervento e la possibilità di rilevare l’errore), nel secondo caso, viceversa, potranno verificarsi situazioni in cui è riconoscibile una colpa del medico in posizione apicale. Egli, infatti, potrà essere ritenuto responsabile dell’esito infausto derivante da errore di valutazione del proprio collaboratore ove emerga che tale errore è la conseguenza dell’attribuzione a detto sanitario di un incarico avente per oggetto una situazione del tutto nuova o una patologia particolarmente complessa, che questi con le proprie competenze non è in grado di gestire22. La responsabilità del primario andrà, invece, esclusa ove egli abbia rispettato i criteri di distribuzione degli incarichi ed abbia correttamente esercitato il proprio potere di organizzazione del reparto. Nel delegare un determinato compito al proprio collaboratore, il primario ha l’obbligo di impartire istruzioni tese a definire criteri terapeutici e diagnostici. Tali direttive assumono, evidentemente, un carattere prettamente tecnico, in quanto definiscono linee di condotta tese a garantire il miglior esito possibile del trattamento23. Questa natura e funzione delle direttive impartite dal dirigente al proprio collaboratore consente di classificarle, secondo autorevole dottrina, come vere e proprie “regole cautelari” attinenti allo svolgimento di un’attività caratterizzata da un elevato coefficiente di rischio. Secondo questo orientamento, le direttive così impartite potrebbero, in caso di loro violazione, dare luogo ad ipotesi di colpa specifica, trattandosi di regole cautelari positivizzate, rientranti appieno nella nozione di “discipline” di cui all’art. 43 c.p.24. 21 In tal senso v. A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 243 ss.; F. PALAZZO, Responsabilità medica, cit., p. 1065; D. GUIDI, L’attività medica in équipe, cit., p. 227. 22 Si deve, d’altro canto, sottolineare che nel caso in cui il sanitario in posizione subalterna abbia assunto l’esecuzione di un intervento per il quale non aveva le dovute competenze, sarà configurabile nei suoi confronti un’ipotesi di colpa per assunzione (su cui v. supra cap. III, § 4.). 23 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1632. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 11 marzo 2005, n. 9739, Dilonardo ed altri, cit.; Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2004, n. 24036, Sarteanesi, in CED rv. 228577. 24 Cfr. F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 89, il quale osserva che, con riferimento al fondamento preventivo delle regole cautelari, è possibile individuare regole la cui funzione cautelare rifletta una funzione puramente organizzativa ed ordinatoria. Sulla riconducibilità delle regole cautelari aventi carattere organizzatorio, seppur con riferimento alla materia degli infortuni sul lavoro, alla categoria delle “discipline” di cui all’art. 43 c.p., v. M. MANTOVANI, Il principio di affidamento, cit., p. 352 ss. 148 4. CAPITOLO QUARTO La responsabilità del medico subordinato per il fatto colposo del superiore: a) «autonomia vincolata», «autonomia limitata» e dovere di dissenso Dall’esame fin qui condotto, è emerso che spettano al dirigente della struttura complessa le scelte circa gli indirizzi diagnostici e terapeutici concernenti i pazienti ricoverati nel reparto dallo stesso diretto. Si pone, quindi, l’esigenza di verificare se ed entro quali limiti le scelte del primario siano vincolanti per i medici in posizione subalterna, chiamati a darvi esecuzione. Naturalmente, il problema non si pone tanto con riferimento alle direttive lecite, rispetto alle quali deve riconoscersi un’ampia vincolatività, pena altrimenti la perdita di valore del rapporto gerarchico25, quanto, piuttosto, rispetto a quelle che giungono a concretare una condotta colposa. Con riferimento a tale ultima questione, si riscontra un orientamento uniforme ed alquanto rigoroso della giurisprudenza che, valorizzando l’autonomia professionale del medico in posizione subalterna, ha sempre sostenuto che la gerarchia instaurata ex lege in ambito ospedaliero non è da ritenere in realtà caratterizzata da una cieca ed assoluta soggezione agli ordini del primario, riconoscendo, di conseguenza, l’obbligo per il subordinato di dissentire dagli ordini impartiti da quest’ultimo, ove manifestamente erronei. Un rapporto di subordinazione, quindi, che secondo la giurisprudenza non può considerarsi “assoluto”: il subordinato conserva margini di dissenso, che aumentano anche in relazione alla qualifica da lui posseduta, rispetto all’operato del proprio superiore o alle direttive ricevute, nei casi in cui questi concretizzino fatti colposi26. 25 La vincolatività delle direttive lecite deriverebbe, peraltro, dalla loro natura di regole cautelari. Si è, infatti, osservato sopra che le direttive impartite dal primario hanno una finalità organizzativa la quale, secondo la più recente dottrina, ben può costituire il contenuto precauzionale di regole cautelari. 26 In tal senso v. Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 1959, Niesi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, p. 1173, secondo cui “il rapporto di subordinazione tra due sanitari non può mai considerarsi tanto assoluto che il sottoposto nell’uniformarsi alle disposizioni del superiore non vi cooperi volontariamente così da esonerarlo conseguentemente da responsabilità per l’evento non voluto derivante dalla condotta medesima”. Nel medesimo senso v. Cass. pen., sez. IV, 2 maggio 1989, n. 7162, Argelli, cit.: “l’autonomia professionale che il primario deve rispettare non può non essere, inoltre, l’autonomia corrispondente alle diverse qualifiche; sicché se il medico appartenente alla posizione iniziale gode di autonomia «vincolata alle direttive ricevute», come dice la legge, il medico appartenente alla posizione intermedia, l’aiuto, «svolge funzioni autonome nell’area dei servizi a lui affidata nel rispetto della necessità del lavoro di gruppo e sulla base delle direttive ricevute dal medico appartenente alla posizione apicale»: l’autonomia di quest’ultimo, come si vede, non è vincolata alle direttive impartite, così come avviene per il medico appartenente alla posizione iniziale, ma deve svolgersi, semplicemente, sulla base di quelle direttive, il che significa che queste ultime serviranno di orientamento senza poter assurgere al livello di altrettanti insuperabili confini”. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 149 Tale rigoroso orientamento trova, ad avviso dei giudici, riscontro nelle disposizioni normative in tema di organizzazione gerarchica e ripartizione di competenze tra sanitari aventi diversa qualifica giuridica. E, in effetti, è inconfutabile che le normative che si sono succedute nella regolamentazione dell’organizzazione ospedaliera, abbiano sempre salvaguardato l’autonomia e l’indipendenza del singolo professionista incardinato nella struttura gerarchica. Dal reticolo normativo emerge una rigida struttura gerarchica, nella quale i sanitari sono collocati in un crescendo di responsabilità e di autonomia. In tale prospettiva, l’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 attribuisce al medico in posizione iniziale – assistente – un’autonomia tecnica e professionale (essendogli consentito l’esercizio di funzioni medico-chirurgiche di supporto con assunzione di responsabilità diretta) seppur vincolata alle direttive del primario (c.d. autonomia vincolata); al medico in posizione intermedia – aiuto – funzioni autonome nell’area dei servizi a lui affidata, relativamente ad attività e prestazioni medico chirurgiche, nonché ad attività di studio, di didattica, di ricerca, anche sotto il profilo di diagnosi e cura, sulla base delle direttive ricevute dal primario (c.d. autonomia limitata)27. Secondo la linea interpretativa giurisprudenziale, quindi, l’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 non attribuisce al medico, neppure in posizione iniziale, un ruolo di mero esecutore di direttive ed istruzioni, ma ne va27 Con specifico riferimento alla figura dell’assistente ospedaliero, v. Cass. pen., sez. IV, 28 giugno 1996, n. 7363, Cortellaro, in CED rv. 205829, in cui i giudici hanno osservato che egli “è tenuto a seguire le direttive organizzative dei superiori, collaborare con il primario e gli aiutanti nei loro compiti, ha la responsabilità degli ammalati a lui affidati, provvede direttamente nei casi d’urgenza. Comunque, egli, in qualità di collaboratore del primario e degli aiuti, non è tenuto, nella cura degli ammalati, ad un pedissequo e acritico atteggiamento di sudditanza verso gli altri sanitari perché, qualora costui ravvisi elementi di sospetto percepiti o percepibili con la necessaria diligenza, attenzione e perizia, ha il dovere di segnalarli e di esprimere il proprio dissenso, e solo a fronte di tale condotta potrà rimanere esente da responsabilità nel caso il superiore gerarchico non ritenga di condividere il suo suggerimento”. In altra pronuncia più recente la Corte ha specificato che cosa debba intendersi per “autonomia vincolata”, sottolineando che “la normativa in esame non configura affatto la posizione dell’assistente come quella di un mero esecutore di ordini. Questa conclusione la si trae chiaramente dalla prima norma richiamata (art. 63, comma 3, d.P.R. n. 761 del 1979) – nella parte in cui fa riferimento alla responsabilità per le attività professionali a lui direttamente affidate – e, in negativo, dalla seconda e terza (5° e 6° comma) laddove per un verso prevede che il primario debba rispettare l’autonomia professionale operativa del personale dell’unità assegnatagli; per altro verso consente al primario di avocare il caso alla sua diretta responsabilità. Quando la norma in esame parla di «autonomia vincolata alle direttive ricevute» non intende quindi riferirsi ad una subordinazione gerarchica che non consente scelte diverse (…) ma ad un’autonomia limitata dalla possibilità, prevista per il medico in posizione superiore, di imporre le proprie scelte terapeutiche quando esse contrastino con quelle del medico cui è assegnato il caso”. In tal senso v. Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2000, n. 556, Zanda, cit. 150 CAPITOLO QUARTO lorizza l’autonomia decisionale ed operativa. Anche la locuzione “autonomia vincolata”, che sembrerebbe alludere ad un rapporto di rigida sovraordinazione-subordinazione, in cui il medico in posizione iniziale non possa dissentire dagli ordini impartitigli, vuole, invece, esplicitare l’esistenza di un rapporto dialettico in cui la “vincolatività” è da ricondurre al fatto che al medico in posizione apicale è sempre data la possibilità di superare il dissenso del proprio collaboratore attraverso l’esercizio del potere di avocazione. Detta ricostruzione, si desume dalle sentenze, trova ulteriori conferme nella nuova normativa introdotta, dapprima con il d.lgs. n. 502 del 1992 e, successivamente, con il d.lgs.n. 229 del 1999, che hanno ulteriormente ampliato gli ambiti di autonomia dei medici in posizione subalterna attenuando i vincoli gerarchici. Quest’ultimo assunto, tuttavia, non appare condivisibile. Seppur vero, infatti, che la nuova normativa, ha cercato di contemperare i vincoli gerarchici riconoscendo maggiori spazi di autonomia ai medici in posizione subalterna (in particolare al dirigente con almeno cinque anni di anzianità), essa, nondimeno, lascia irrisolta la questione del grado di vincolatività delle direttive ed istruzioni che il primario – anche nel nuovo assetto – deve continuare ad impartire ai medici del proprio reparto. Direttive ed istruzioni alle quali deve, necessariamente, essere riconosciuto un certo grado di vincolatività (a cui fa da contrappeso una limitazione del potere/dovere di dissenso del medico in posizione subalterna) pena, altrimenti, la loro inefficacia e l’impossibilità per il primario di organizzare e gestire il reparto28. Nei paragrafi che seguono si cercherà di individuare le direttrici per la ricostruzione della penale responsabilità del medico in posizione subordinata per il fatto del medico in posizione apicale. Responsabilità che può assumere due diverse forme: la prima, concernente i casi in cui il medico in posizione subordinata realizzi materialmente la condotta colposa, in esecuzione di direttive impartite dal primario; la seconda, relativa a quella costellazione di casi in cui i medici subordinati assistono all’attività del primario che, personalmente, compia una condotta colposa. 28 In tal senso in dottrina v. P. AVECONE, La responsabilità, cit., p. 157; A.R. DI LANVecchie e nuove linee, cit., p. 233; A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1635, il quale osserva che la previsione di un generale dovere di verifica delle istruzioni impartitegli dal superiore gerarchico sarebbe addirittura disfunzionale rispetto alla ratio delle disposizioni di legge ed invita a riflettere sui pregiudizi che potrebbe subire un paziente inserito in una struttura operativa in cui ogni decisione fosse sottoposta alla verifica di ogni medico. DRO, LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 5. 151 (Segue): b) la condotta colposa del medico in posizione subalterna esecutiva di direttive impartite dal superiore La prima questione che si impone all’attenzione concerne la natura dell’ordine impartito dal primario e se esso possa essere disatteso dal medico in posizione subalterna. La dottrina penalistica, scontrandosi con l’interpretazione rigoristica, appena citata, della giurisprudenza, ha spostato la propria attenzione sulla misura di sindacabilità dell’ordine, vagliando anche l’eventuale applicabilità della scriminante dell’adempimento del dovere di cui all’art. 51 c.p.29. Come è noto, presupposti indefettibili per la configurabilità di questa scriminante sono la sussistenza di un rapporto di supremazia-subordinazione di diritto pubblico e la legittimità, formale e sostanziale, dell’ordine impartito30. Con specifico riferimento all’attività medica, sussiste sicuramente un rapporto di diritto pubblico con riferimento ai medici appartenenti a strutture ospedaliere pubbliche. Tale conclusione trova riscontro nella natura pubblica delle strutture in cui tali medici operano; nella lettera del d.P.R. n. 761 del 1979, che in più parti statuisce l’applicabilità al personale sanitario delle norme riguardanti i dipendenti civili dello Stato; nelle caratteristiche del rapporto, da individuarsi nel potere di dare unità di indirizzo ad una serie di uffici mediante istruzioni ed ordini, e nel potere di sorveglianza che spetta al superiore sulle attività del subordinato, tipiche dei rapporti pubblicistici31. Una prima, ovvia, considerazione è che detta causa di giustificazione non potrà sicuramente trovare applicazione rispetto a rapporti gerarchici di tipo privatistico e, segnatamente, con riferimento al tema qui trattato, rispetto a tutte quelle situazioni che si verifichino in case di cura. 29 C. DODERO, Colpa e cooperazione colposa nell’esercizio della professione sanitaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, p. 1173; P. AVECONE, La responsabilità, cit., p. 157; F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 36. La questione dell’applicabilità dell’art. 51 c.p. al medico in posizione subordinata che abbia adempiuto un ordine del proprio superiore gerarchico presuppone a monte la soluzione positiva dell’applicazione di tale scriminante ai reati colposi: in tal senso cfr. S. FIORE, Cause di giustificazione e fatti colposi, Padova, 1996, p. 102 ss. Contra D. PULITANÒ, voce Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, in Dig. disc. pen., IV, Torino, 1990, p. 327. 30 Nella manualistica v. S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 54; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 288 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 244 ss. Per approfondimenti sulla causa di giustificazione dell’art. 51 c.p. cfr. G. DELITALIA, voce Adempimento di un dovere, in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958, p. 567; A. REGINA, voce Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, in Enc. giur., vol. XIII, Roma, 1989. 31 C. DODERO, Colpa e cooperazione colposa, cit., p. 1174; F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 37. 152 CAPITOLO QUARTO Qualche problema sembra, invece, porsi con riferimento alla legittimità sostanziale dell’ordine in un caso, come quello dell’attività medica, in cui la legge non determina i presupposti ed il contenuto dell’ordine, ma attribuisce al medico in posizione apicale un potere discrezionale, sia in relazione all’opportunità di emanare l’ordine che al suo contenuto. È evidente, tuttavia, che l’ordine potrà ritenersi sicuramente illegittimo nel caso in cui consista nell’esecuzione di condotte criminose e, quindi, laddove il primario impartisca al medico subordinato direttive che comporterebbero la realizzazione di condotte colpose ai danni del paziente. È proprio con riferimento a questi ultimi che la dottrina si è interrogata circa l’applicabilità dell’art. 51, ult. co., c.p. che esclude la punibilità del subordinato che abbia adempiuto ad un ordine illegittimo insindacabile. Sennonché, per costante orientamento, l’art. 51, ult. co., c.p., inserito nel codice per l’esigenza di evitare la paralisi di funzioni che devono essere adempiute con la massima sollecitudine, è applicabile solo a rapporti di subordinazione di tipo militare. Tale ultimo rilievo sarebbe già di per sé sufficiente per escludere l’applicabilità della scriminante ai rapporti tra medici con vincolo di gerarchia; tuttavia, anche laddove si volesse ammettere l’applicabilità dell’art. 51, ult. co., c.p. al di fuori dei rapporti di tipo militare, non si potrebbe fare a meno di rilevare che l’orientamento ormai predominante ne esclude comunque l’operatività rispetto ad ordini che siano manifestamente criminosi. Alla luce di quanto sinora osservato, sembra, quindi, possibile giungere ad una prima conclusione: l’ordine impartito dal superiore non è per ciò solo insindacabile ed il medico subordinato ha l’obbligo di non adempiervi laddove sia illegittimo. Ne consegue che, per la soluzione del problema della responsabilità del medico in posizione subalterna, l’attenzione deve spostarsi dal piano del fatto o dell’antigiuridicità (a seconda della concezione bipartita o tripartita a cui si acceda) a quello della colpevolezza ed, in particolare, ai profili attinenti ai limiti dell’esigibilità del rifiuto di eseguire l’atto colposo da parte del subordinato32. Detti limiti andranno, quindi, necessariamente, tracciati in considerazione della possibilità per il medico, in posizione subordinata, di percepire la natura criminosa della direttiva impartitagli, e saranno, ovviamente, diversamente modulati a seconda che l’ordine sia stato impartito ad un aiuto, ad un assistente ovvero ad uno specializzando. 32 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedialero, cit., p. 1632; M. RIVERDITI, Responsabilità dell’assistente medico per gli errori terapeutici del primario: la mancata manifestazione del dissenso dà (sempre) luogo a un’ipotesi di responsabilità per «mancato impedimento dell’evento»?, in Cass. pen., 2001, p. 161; A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 240. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 153 Come significativamente osservato in dottrina, riconoscere in capo al medico subordinato la sussistenza di un dovere di verifica delle direttive impartitegli dal primario alla stregua delle leges artis, significa presupporre l’agevole conoscibilità e, dunque, l’assoluta linearità di queste ultime, da parte di ogni medico, anche quello alle “prime armi”: tale pretesa, dimostra un approccio superficiale da parte della Cassazione al problema della colpa medica e, soprattutto, non conforme alle elaborazioni teoriche in materia33. Il problema è, quindi, quello di valutare il profilo, del tutto assente nelle pronunce della Corte, della esigibilità del dissenso da parte del medico in posizione subalterna e, in sostanza, della riconoscibilità della criminosità della direttiva impartitagli dal proprio superiore. Esistono, infatti, attività – tra le quali si colloca quella medico-chirurgica – ove le direttrici di comportamento, inerendo a situazioni di rischio sfuggente, sono caratterizzate da un’intrinseca ed incessante mutevole adeguatezza, nel tempo e nei diversi luoghi34. Così, accanto a trattamenti diagnostici e terapeutici la cui efficacia è consolidata, e di cui quindi sono ben note le regole di esecuzione (si pensi ad esempio alla somministrazione di antibiotici per combattere le infezioni), ve ne è tutta una serie la cui efficacia o la cui esecuzione è ancora controversa. Si allude, in particolare, a quella serie di regole cautelari di natura sperimentale, la cui esistenza non origina da una prassi consolidata, ma promana direttamente dalle superiori conoscenze causali dell’agente e dalle valutazioni di rischio da questi effettuate35. Orbene, indipendentemente dall’indirizzo dottrinale che si intenda seguire in merito alla ricostruzione del momento oggettivo della colpa36, rispetto a questo tipo di regole tecniche, caratterizzate da un’incessante opera di adattamento e confronto dialettico di tipo scientifico, appare, invero, ardua l’individuazione di un riferimento cautelare unico e certo nella miglior scienza ed esperienza del 33 A. 34 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1632. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1633. Nella dottrina medico-legale v. A. FIORI, Medicina legale, cit., p. 432. 35 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 102: si fa riferimento a tutti quei trattamenti medici autorizzati e scientificamente legittimati, ma, tuttavia, non ancora unanimemente accolti dalla scienza medica nel suo complesso. In questo senso, cfr. anche F. MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana, Padova, 1974, p. 19 ss. 36 Il riferimento è ai due filoni interpretativi dominanti in materia di individuazione della regola cautelare: per il primo il parametro deve essere quello della miglior scienza ed esperienza, mentre, per il secondo, il parametro di riferimento deve essere quello dell’homo eiusdem condicionis ed professionis a cui l’agente è riconducibile. Per il primo orientamento v. F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 96; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 342; per il secondo orientamento cfr. G. FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 237 ss.; S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 423 ss.; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 579 ss. 154 CAPITOLO QUARTO momento storico, così come di un unico e ben riconoscibile comportamento standard proprio dell’homo eiusdem condicionis et professionis 37. È pur vero che, anche rispetto a tali attività, sono sicuramente enucleabili leges artis che devono essere rispettate nell’esecuzione dell’attività sperimentale (si pensi a quelle relative agli usi procedimentali propri della sperimentazione, generalmente contenute nei c.d. protocolli scientifici propri della sperimentazione scientifica)38; ciononostante non può negarsi che la mancanza di una conferma prasseologica di tali regole cautelari ne condizioni, inevitabilmente, la scelta scientificamente responsabile e ne renda assai meno agevole la conoscibilità39. Tali considerazioni inducono a ritenere che l’affermazione della responsabilità colposa passi necessariamente attraverso una diversificazione dei parametri del rimprovero a seconda del tipo di lex artis e dei diversi gradi di sapere scientifico del medico. Venendo più specificatamente alla realtà ospedaliera, emerge che i medici aventi la qualifica di primario, per l’esperienza conseguita, “possono assumere nel dibattito medico-scientifico un ruolo centrale, si da assumere un atteggiamento autonomo e critico rispetto alle novità e comunque alle divergenze della scienza medica”40. Di conseguenza, proprio tali medici potranno utilizzare ed imporre l’utilizzo (tramite direttive) all’interno del reparto di nuovi metodi, magari aventi ancora carattere sperimentale. Orbene, se normalmente il medico in posizione subalterna sarà chiamato a svolgere trattamenti rispetto ai quali si siano già consolidate sufficienti conoscenze e leges artis uniformemente riconosciute, non può, nondimeno, escludersi che lo stesso sia chiamato (in forza del potere di impartire direttive riconosciuto al primario) ad eseguire trattamenti di tipo sperimentale. Ne consegue che il riconosciuto dovere di verifica da parte del medico subordinato della validità delle istruzioni ricevute dal primario potrà affermarsi solo con riferimento a quei trattamenti diagnostici o terapeutici per l’esecuzione dei quali siano necessarie e sufficienti le conoscenze che devono appartenere a qualsiasi medico. In questo caso, il riconoscimento dell’ordine criminoso è assolutamente esigibile dal sanitario e con esso anche la prestazione di dissenso rispetto all’esecuzione dell’ordine ricevuto. Laddove, al contrario, la direttiva del dirigente di struttura imponga l’esecuzione dell’intervento attraverso protocolli scientifici di natura ancora sperimentale, non potrebbe esigersi la ri37 Per questa ricostruzione del problema v. A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1633. 38 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 102. 39 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1634. 40 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1634. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 155 conoscibilità della natura colposa della condotta imposta: se così fosse si richiederebbe, infatti, ad un medico in posizione iniziale (assistente o addirittura specializzando), ancora privo della necessaria esperienza, di saggiare la validità di prescrizioni che richiedono una conoscenza tecnicoscientifica molto avanzata41. Naturalmente, la riconoscibilità dell’ordine criminoso aumenterà man mano che si passa dalla qualifica di medico in posizione iniziale a quella di aiuto: quest’ultimo, infatti, sarà sicuramente dotato di conoscenze professionali superiori rispetto all’assistente o allo specializzando e potrà, quindi, essere in grado di valutare anche trattamenti sperimentali. L’errore terapeutico realizzato dal medico in posizione subordinata, nel caso di trattamenti innovativi imposti dal primario, sarebbe scusabile, ex art. 5 c.p., in quanto riconducibile ad un errore sul precetto inevitabile, essendo l’erronea informazione stata fornita da un soggetto istituzionalmente abilitato a fornirla42. Se, infatti, si accoglie il più recente orientamento dottrinale che riconosce, con riferimento alle fattispecie colpose, la natura “tipizzante” della regola cautelare, allora il problema della conoscibilità della regola cautelare diventa attinente alla conoscibilità del precetto43. Conclusivamente, si può affermare che nessun problema sorge nel caso in cui l’assistente o l’aiuto condividano le scelte terapeutiche proposte dal primario: in tal caso si configurerà una cooperazione colposa tra i due sanitari, che assumeranno pari responsabilità rispetto all’eventuale evento lesivo verificatosi. Al contrario, nel caso in cui l’assistente o l’aiuto non condividano le scelte terapeutiche indicate dal primario, sorgerà in capo agli stessi un preciso dovere, derivante dalla loro posizione di ga41 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1634; P. AVECONE, La responsabilità, cit., p. 159, il quale osserva che “quando però si entra nell’opinabile e nel discutibile il collaboratore non può opporre il suo rifiuto con la semplice motivazione di non essere d’accordo sulle modalità del trattamento. Non bisogna, infatti, dimenticare che, a parte i rapporti di gerarchia il malato si è affidato a “quel” chirurgo, perché nelle sue determinazioni ripone ogni fiducia. È giusto quindi che, quando la scienza medica prospetta più strade egualmente percorribili, la decisione venga presa da chi deve rendere conto (al malato ed al giudice) del suo operato”. 42 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., nota 43, p. 1636. 43 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 110, il quale osserva che “nel delitto colposo l’ancoraggio della colpevolezza al requisito della scientia iuris non può avere come raggio di azione la sola norma incriminatrice di parte speciale, che delinea l’ossatura della fattispecie colposa nel suo complesso. Vale a dire che, sul piano del diritto positivo vigente, l’errore e l’ignoranza che interessano la regola cautelare si risolvono, ai sensi, dell’art. 5 c.p., in un error iuris, che investe la fattispecie colposa nel suo complesso”. In tal senso, cfr. inoltre P. VENEZIANI, I delitti, cit., pp. 73 e 218. 156 CAPITOLO QUARTO ranzia nei confronti del paziente, di attivarsi per impedire l’evento lesivo, manifestando, quindi, il proprio dissenso nei confronti delle scelte del primario. In tal caso, tuttavia, non è sufficiente, che il medico subordinato manifesti il proprio dissenso (magari facendolo annotare sulla cartella clinica), ma è altresì necessario che egli si astenga dal porre in essere la condotta colposa sollecitata dal primario: ove eseguano egualmente l’intervento, l’assistente e l’aiuto risponderanno degli eventuali esiti dannosi conseguenti alla condotta colposa44. Infine, a carico del medico subordinato, sarà configurabile una responsabilità colposa in tutti i casi in cui egli non percepisca la criminosità dell’ordine impartitogli, riconoscibile sulla base delle comuni conoscenze mediche. Alle medesime conclusioni giunge la Corte di Cassazione in una pronuncia nella quale è ben enucleato il pensiero di sintesi dei giudici sul rapporto tra medici in posizione gerarchica: “avuto riguardo ai ruoli e alle funzioni rispettivamente attribuiti dalla normativa vigente, agli assistenti ospedalieri, agli aiuti ed ai primari, e considerate altresì le condizioni proprie della professione medica, a tutti i livelli, deve ritenersi che se primario, aiuto ed assistente condividono le scelte terapeutiche, tutti insieme ne assumono la responsabilità. Quando invece l’assistente o l’aiuto non condividano le scelte terapeutiche del primario, possono andare esenti da responsabilità solo se abbiano provveduto a segnalare allo stesso primario la ritenuta inidoneità o rischiosità delle scelte”45. 6. (Segue): c) esercizio del potere di avocazione da parte del dirigente di struttura complessa e responsabilità del medico in posizione subalterna Rimane da analizzare un ultimo profilo con riferimento al caso in cui il medico in posizione subalterna si rifiuti di eseguire le direttive impartitegli dal primario, in quanto ritenute criminose. Si tratta dell’ipotesi in cui il medico in posizione apicale, ricevuto il dissenso da parte del proprio collaboratore, decida di esercitare il potere, riconosciutogli dalla legge, di avocare il caso alla sua diretta responsabilità. Il dettato normativo prevede espressamente che, ogniqualvolta il medico in posizione apicale eserciti il potere di avocazione, sorga in capo 44 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 229. Contra F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 41, per i quali una tale ricostruzione vanificherebbe i poteri direttivi-impositivi del primario, il quale, peraltro, potrebbe far ricorso al potere di avocazione. 45 Cass. pen., sez. IV, 5 ottobre 2000, n. 13212, Brignoli ed altri, in Riv. pen., 2001, p. 452. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 157 al medico subordinato un dovere di prestare la propria collaborazione46. L’esercizio del potere di avocazione da parte del primario diviene così uno strumento per costringere il subordinato dissenziente a prestare comunque la propria opera, conformandosi alle sue direttive47. In questi casi non può affermarsi la penale responsabilità del medico subordinato dissenziente, per gli eventuali fatti colposi realizzati, avendo egli un preciso obbligo ex lege di collaborare con il primario. La stessa Corte di Cassazione ha escluso la responsabilità dell’aiuto o dell’assistente, sottolineando che essi, in caso di esercizio del potere di avocazione da parte del primario, divengono meri esecutori materiali, privi di qualsivoglia spazio di autonomia decisionale48. 7. La responsabilità del medico in posizione subalterna per errori commessi dal superiore gerarchico Al di fuori dei casi sopra esaminati, può accadere che il medico in posizione subordinata non esegua personalmente l’intervento diagnostico o terapeutico, ma assista il proprio superiore nell’esecuzione dello stesso. In tale evenienza occorre indagare circa l’eventuale responsabilità del subalterno per la condotta colposa, materialmente realizzata dal medico apicale, da cui sia conseguita la morte o lesioni all’integrità fisica del paziente. La giurisprudenza, ancora una volta, si mostra alquanto rigorosa nel riconoscere anche la responsabilità del medico, aiuto, assistente o specializzando, che abbia collaborato con il medico in posizione apicale nella realizzazione dell’intervento. Se, tuttavia, si può concordare con le conclusioni a cui giunge la giurisprudenza con riferimento alla sussistenza di un obbligo per il collaboratore di segnalare al superiore eventuali condotte erronee, al contrario non si può giungere alle medesime conclusioni dei giudici, di merito e di legittimità, in ordine alla sussistenza di un vero e proprio dovere di controllo in capo al subordinato. Con riferimento a quest’ultimo profilo, ed anticipando un tema che sarà poi riproposto più specificatamente con riferimento alle attività chirurgiche in équipe, la Corte di Cassazione ha ritenuto che “nel caso di evento colposo determinato da negligenza nel corso di un’operazione 46 Art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 che stabilisce “il primario può avocare casi alla sua diretta responsabilità, fermo restando l’obbligo di collaborazione da parte del personale appartenente alle altre posizioni funzionali”. 47 G. AMATO, Solo l’esplicita manifestazione del dissenso, cit., p. 100. 48 Cass. pen., sez. IV, 2 maggio 1989, n. 7162, Argelli, cit. 158 CAPITOLO QUARTO chirurgica, va ritenuto responsabile sia il chirurgo, principale esecutore dell’intervento, che il suo assistente, poiché quest’ultimo, nella sua qualità di collaboratore e potenziale continuatore dell’operazione, ha il compito di vigilare sull’intera esecuzione … L’assistente chirurgo è, dunque, per titolo e qualifica professionale, un collaboratore del chirurgo che opera ed è, inoltre, in qualsiasi momento, dell’operazione un potenziale diretto esecutore dell’operazione medesima qualora si presenti la necessità di portarla a termine in sostituzione dell’operatore: egli pertanto non è tenuto soltanto a svolgere gli atti richiesti con cautela, diligenza e perizia, ma anche a sorvegliare nel complesso in ogni suo atto e dettaglio, l’intera fase esecutiva dell’operazione”49. Sarebbe ravvisabile, quindi, a parere dei giudici, quello che dalla dottrina è stato qualificato come un “dovere di controllo incrociato”50, ovverosia il dovere in capo al subordinato di controllare l’operato del superiore, tanto che di eventuali errori colposi di quest’ultimo risponderebbe anche il primo, per il fatto di non averli rilevati e corretti. Tale assunto, in realtà, non appare compatibile con i principi sin qui enucleati ed in particolare con il principio di affidamento quale canone di delimitazione delle sfere di responsabilità dei sanitari che cooperano nella realizzazione di un intervento. Il legittimo affidamento, infatti, cede il passo ad un generale dovere di controllo solo nelle ipotesi in cui detto dovere discenda ex lege dalla qualifica assunta dal medico ovvero al presentarsi di situazioni che rendano evidente o comunque prevedibile la realizzazione di un fatto colposo da parte dei sanitari con cui avviene la cooperazione. Orbene, nel caso del medico in posizione subordinata non vi è alcun dato normativo che riconosca l’esistenza in capo a questo soggetto di un generale obbligo di controllo e vigilanza sull’altrui operato, essendo simili obblighi ravvisabili solamente a carico di medici in posizione gerarchica sovraordinata (controllo e vigilanza da esercitare, peraltro, non in modo continuo, ma, impartendo, in via preventiva, direttive ed istruzioni ed organizzando adeguatamente il reparto). Tutt’al più, un obbligo di controllo potrebbe sorgere in capo al sanitario nel caso in cui si trovi ad operare in situazioni (quali ad esempio le cattive condizioni di salute) che facciano ritenere prevedibile una condotta colposa del medico gerarchicamente sovraordinato, ovvero nel caso in cui egli abbia diretta percezione dell’errore. Ebbene, con riferimento a questa seconda situazione, devono integralmente richiamarsi le conside49 Cass. pen., sez. IV, 5 gennaio 1982, n. 7006, Fenza, 50 L. VERGINE, F. BUZZI, A proposito di una singolare Cass. pen., 1983, p. 1546. in Cass. pen., 1983, p. 1543. ipotesi di colpa professionale, in LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 159 razioni svolte in precedenza circa la riconoscibilità delle circostanze che fanno insorgere un obbligo di controllo e di attivazione per emendare gli errori del proprio superiore (v. supra § 5). Non si può, infatti, ancora una volta sottovalutare il fatto che si richiede ad un medico dotato di minori conoscenze, capacità ed esperienza di vigilare sull’operato di un medico ben più qualificato di lui, che nel corso dell’intervento metterà, quindi, in atto anche metodiche che richiedano una conoscenza ed un’abilità tecnica ben superiori a quelle possedute dal medico in posizione iniziale51. Diversa rilevanza assume, invece, la condotta del sanitario in posizione subalterna che, avvedutosi dell’errore del proprio superiore (riconoscibile sulla base delle conoscenze comuni a ciascun medico), rimanga inerte. In tali casi, in forza della posizione di garanzia che detto medico assume nei confronti dei pazienti alla cui cura collabori, sorge un obbligo per lo stesso di attivarsi quando, magari anche a seguito dell’apprendimento di elementi sconosciuti al primario, percepisca l’errore diagnostico o terapeutico. In tal senso è orientata anche la Corte di Cassazione, la quale ha rilevato che “in ipotesi di omicidio colposo, il medico, aiuto dello specialista primario e suo diretto collaboratore, che abbia visitato più volte il paziente, e che sia stato posto in grado di esprimere dubbi sull’esattezza della diagnosi, a seguito di nuovi accertamenti e per l’acquisizione di altri convergenti elementi di giudizio, ha il dovere di attivarsi presso il primario per una più sicura diagnosi ai fini di adeguata terapia; sicché ove abbia lasciato correre le cose, astenendosi dal disporre altre indagini e, anzi, associandosi all’errato convincimento e al comportamento indolente del primario, versa in colpa per morte del paziente, in termini ancora più gravi dello stesso primario”52. Il medico in posizione subordinata che non si attivi presso il superiore per segnalare eventuali violazioni delle leges artis da questi commesse, pertanto, concorrerà con condotta omissiva, rilevante ex art. 40, comma 2, c.p., nel fatto di reato materialmente realizzato da quest’ultimo. 8. Profili di responsabilità per le attività compiute dal medico specializzando Tra i medici in posizione subalterna un ruolo del tutto peculiare è rivestito dal medico specializzando, ovvero colui che, laureatosi in medicina e chirurgia, prosegue il suo percorso di studi accedendo alla Scuola 51 VERGINE, NELLI, BUZZI, A proposito, cit., p. 1547; F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCILa responsabilità, cit., p. 49. 52 Cass. pen., sez. IV, 2 maggio 1989, n. 7162, Argelli, cit. 160 CAPITOLO QUARTO di formazione specialistica. Si tratta, quindi, di un medico che sta perfezionando la sua formazione e che, per tale ragione, effettua la pratica clinica attraverso un inserimento, pur marginale, nell’organigramma di reparto. La normativa di riferimento è attualmente contenuta nel d.lgs. n. 368 del 1999, che delinea le mansioni del medico specializzando cercando di contemperare, da un lato, la sua veste di medico in formazione (come tale, quindi, assoggettato al controllo del tutore) e, dall’altro, la sua autonomia (trattandosi pur sempre di laureato in medicina e chirurgia, abilitato all’esercizio della professione) nello svolgere compiti di natura assistenziale ed eseguire interventi diagnostici e terapeutici. La, già più volte riscontrata, tendenza giurisprudenziale a privilegiare l’assunzione della posizione di garanzia del medico nei confronti del paziente, a scapito dei profili di esigibilità della condotta diligente, si riscontra anche in questo ambito. La lettura delle sentenze evidenzia, infatti, la propensione ad una responsabilizzazione dello specializzando, per eventi avversi verificatisi nell’esercizio delle sue mansioni, attraverso la valorizzazione dei profili di autonomia riconosciuti a questo medico. Secondo l’orientamento della Suprema Corte, quindi, lo specializzando non è un mero spettatore esterno alla comunità ospedaliera, in quanto egli non è presente nella struttura per la sola formazione professionale. Egli, invece, nel momento in cui espleta personalmente l’attività medica, assume una posizione di garanzia nei confronti del paziente53. Sotto la spinta di questo rigorismo interpretativo, la giurisprudenza giunge ad affermare la penale responsabilità delle specializzando anche qualora l’esito infausto non sia il frutto di una sua autonoma scelta terapeutica, ma sia la conseguenza dell’adempimento di direttive erronee impartite dal tutore. Ad avviso dei giudici, infatti, “non lo esime da responsabilità la passiva acquiescenza alla direttiva data ove non si appalesi appropriata, avendo egli, al contrario l’obbligo di astenersi dal direttamente operare”54. Ora, se è indubbio che il medico specializzando assuma, nei confronti del paziente, una posizione di garanzia, non altrettanto sicura può dirsi, però, l’esigibilità di alcuni comportamenti da parte sua, tenuto conto della sue ridotte competenze professionali. In tal senso, sembra di potersi concordare con l’orientamento giurisprudenziale che riconosce la responsabilità penale dello specializzando, per le conseguenze lesive 53 Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2010, n. 6215, Pappadà, cit.; Cass. pen., sez. IV, 10 luglio 2008, n. 32424, Sforzini, in Foro it., 2008, II, c. 477. 54 Cass. pen., sez. IV, 24 novembre 1999, n. 13389, Tretti, cit.; v. anche Cass. pen., sez. IV, 20 gennaio 2004, n. 32901, Marandola ed altro, cit. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 161 della sua condotta contraria alle leges artis, con riferimento alle attività assistenziali che egli svolga personalmente. La progressiva autonomia nello svolgimento di attività assistenziali, riconosciuta allo specializzando dall’art. 38 d.lgs. n. 368 del 1999, deve, infatti, necessariamente comportare anche una assunzione di responsabilità dello stesso per quanto compiuto, facendo carico allo stesso l’obbligo di non svolgere quelle attività per cui non si ritiene sufficientemente competente (essendo, altrimenti, ravvisabile una colpa per assunzione). Non si ritiene, viceversa, sempre corretta l’affermazione della responsabilità dello specializzando nei casi in cui egli svolga attività di supporto al proprio tutore o, comunque, interventi in esecuzione di direttive da quest’ultimo impartite. In tali evenienze, infatti, deve necessariamente valutarsi la capacità per il medico in formazione, sulla base delle conoscenze teorico-pratiche sino al momento acquisite, di rilevare l’errore di un sanitario ben più competente di lui e di emendarlo. In caso di esiti infausti conseguenti a condotte colpose del medico specializzando, sono, naturalmente, ravvisabili profili di responsabilità anche a carico del c.d. tutore, il quale, ex lege, ha un dovere di controllo sulle attività eseguite dal proprio allievo. Anche in questo caso la giurisprudenza si dimostra particolarmente severa nell’escludere l’operatività del principio di affidamento, e nell’affermare la conseguente concorrente responsabilità del tutore con quella dello specializzando, proprio in ragione del generale dovere di controllo su questi incombente. La soluzione proposta dalla giurisprudenza, tuttavia, appare, ancora una volta, troppo semplicistica. Si è già evidenziato, infatti, che al medico specializzando sono riconosciuti veri e propri ambiti di autonomia nell’esercizio progressivo di attività assistenziale, nel rispetto, però, delle direttive impartite dal tutore. Si ritiene, quindi, che, una volta che il tutore abbia impartito adeguate direttive ed abbia correttamente assegnato (in relazione alle sue competenze) i compiti allo specializzando egli possa fare legittimo affidamento sull’osservanza da parte di questi delle lege artis. Potrà, invece, al contrario, configurarsi una responsabilità colposa (per culpa in eligendo) del tutore (in concorso con quella dello specializzando) nel caso in cui egli abbia assegnato al proprio allievo mansioni particolarmente complesse esorbitanti, quindi, dalla sua sfera di competenza55. 55 Nello stesso senso v. A.R. DI LANDRO, Dalle linee guida, cit., p. 306. L’Autore evidenzia, tuttavia, che in questi casi non sempre vi sarà responsabilità concorrente dello specializzando essendo necessario verificare se egli fosse in grado “di rendersi conto della (di riconoscere la) propria inadeguatezza: in ciò consistendo, appunto, il momento soggettivo della colpa”. SEZIONE SECONDA I RAPPORTI TRA PERSONALE MEDICO E PARAMEDICO 9. I rapporti tra medico e paramedico prima dell’abrogazione del d.P.R. n. 225 del 1974 Nel capitolo introduttivo si è già delineato il percorso legislativo di valorizzazione e responsabilizzazione della professione infermieristica, avviato nel 1990, con l’introduzione della formazione universitaria, e proseguito con l’emanazione del c.d. “profilo professionale” (d.m. 14 settembre 1994, n. 739) e l’abrogazione del c.d. “mansionario” (con l. 26 febbraio 1999, n. 42). Il mansionario, in particolare, indicava con elencazione analitica i compiti assegnati al personale infermieristico, precisando che gli stessi dovevano essere eseguiti secondo le direttive ricevute dal primario e, in taluni casi, anche sotto il diretto controllo di quest’ultimo (es. vaccinazioni, esecuzione di ECG, cateterismo …). Se, sotto la vigenza del d.P.R. n. 225 del 1974, quindi, il paramedico era qualificato come un mero esecutore di ordini imparti dal medico, con l’introduzione delle nuove disposizioni egli diviene soggetto dotato di autonomia decisionale in ordine al processo assistenziale. Tale cambiamento di prospettiva incide evidentemente anche sulla delimitazione delle sfere di responsabilità di medici e paramedici che cooperino nella cura di un paziente, rispetto ai fenomeni definiti di nursing malpractice. Ai fini di una migliore comprensione dell’attuale assetto, sembra, tuttavia, opportuno un richiamo, seppur sintetico, agli orientamenti formatisi in vigenza del d.P.R. n. 225 del 1974. A tal riguardo, gli interpreti erano concordi nell’affermare che il mansionario definiva espressamente i compiti dell’infermiere ed i correlativi doveri di direzione e vigilanza del medico: il medico aveva l’obbligo di delegare all’infermiere solo i compiti espressamente previsti dal mansionario e doveva controllare solo l’esecuzione di quegli interventi per i quali ciò fosse richiesto dalla legge stessa. Doveva, pertanto, sempre escludersi la concorrente responsabilità del medico per eventuali fatti colposi commessi dal personale infermieristico nell’esecuzione di compiti autonomamente eseguibili, in quanto non assoggettati a controllo. In altri termini, il medico, nell’ambito degli interventi rientranti tra le man- LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 163 sioni degli infermieri e da questi ultimi eseguibili senza controllo, poteva fare legittimo affidamento sul loro corretto operato. Tale assunto aveva, peraltro, trovato accoglimento anche in giurisprudenza, tanto che la Corte di Cassazione assolveva, dall’accusa di omicidio colposo, un medico di pronto soccorso che, impegnato nelle cure non rinviabili di un paziente, richiedeva a tre infermieri presenti in reparto di contattare il medico internista per visitare un nuovo paziente, nel frattempo giunto in pronto soccorso per una ferita alla testa a seguito di caduta. Senonché, gli infermieri omettevano di dare esecuzione all’ordine impartito loro dal medico, lasciando il paziente per tre ore su una sedia a rotelle, e limitandosi a delegare all’infermiere subentrato al termine del turno la chiamata del medico internista. Nel pronunciarsi sulla penale responsabilità del medico di guardia, la Corte ha affermato che egli aveva fatto legittimamente affidamento sull’esecuzione dell’ordine impartito, sia perché si trattava di “ordine facilmente e rapidamente eseguibile (anche attraverso il citofono”, sia perché non sussistevano circostanze tali da far dubitare dell’immediata esecuzione dell’ordine. Al contrario, gli infermieri devono ritenersi responsabili per la morte del paziente ex artt. 40, comma 2, e 589 c.p., in quanto portatori di una posizione di garanzia nei confronti della vita e dell’integrità del paziente affidato alle loro cure, che imponeva loro di attivarsi per impedire eventi lesivi56. Al di fuori di queste ipotesi, al contrario, a carico del medico sussisteva tanto un dovere di impartire direttive all’infermiere, quanto un dovere di controllare la corretta esecuzione degli interventi delegati che, ove non adempiuti, davano luogo, in caso di fatti colposi commessi dagli infermieri, a concorrente responsabilità colposa del medico per culpa in eligendo ovvero per culpa in vigilando. La prima ipotesi di responsabilità del medico era ravvisabile in tutti i casi in cui questi avesse delegato al personale infermieristico compiti non espressamente previsti dal mansionario, rispetto ai quali, quindi, l’infermiere era ex lege incompetente. Nell’ipotesi in cui, a seguito di delega da parte del medico di compiti non specificatamente ricompresi nelle mansioni infermieristiche, si fosse verificato un evento lesivo per la vita o l’integrità fisica del paziente, sarebbe, quindi, stata configurabile a carico del medico un responsabilità per culpa in eligendo. Concorde con questo assunto, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la penale responsabilità di un anestesista per la morte di una paziente, verificatasi nella fase del risveglio da un intervento chirurgico, per 56 Cass. pen., 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano, cit. 164 CAPITOLO QUARTO arresto cardiaco causato da anossia acuta conseguente all’effetto deprimente dei farmaci utilizzati per la narcosi. I giudici, infatti, contestarono all’anestesista di aver omesso di sorvegliare la paziente nella fase del risveglio, delegando tale incombenza ad un’infermiera, neppure specializzata in anestesiologia, la quale, quindi, non era stata in grado di riconoscere i sintomi della turba anossica. La Corte ha così sostenuto che “rettamente è affermata la responsabilità di un anestesista per la morte di una paziente dovuta ad arresto cardiaco per anossia acuta da oblio respiratorio conseguente all’effetto deprimente dei farmaci utilizzati per la narcosi, nel caso in cui costui, dopo l’intervento operatorio, abbia omesso di sorvegliare adeguatamente la paziente in fase di risveglio, affidando intempestivamente il relativo compito ad un’infermiera professionale non specializzata in anestesia, e conseguentemente, di intervenire con efficacia ai primi sintomi della turba anossica, poi divenuta irreversibile”57. Nei confronti del medico erano, infine, ravvisabili ipotesi di responsabilità, per omesso controllo (c.d. culpa in vigilando): il d.P.R. n. 225 del 1974 indicava, infatti, pedissequamente, tutti gli interventi delegabili al personale paramedico, ma da eseguirsi sotto il diretto controllo del medico. Come già evidenziato, infatti, nel caso di soggetti investiti ex lege di poteri-doveri di vigilanza non può trovare applicazione il principio di affidamento, con la conseguenza che il medico non potrà invocare a proprio favore l’aspettativa sul corretto adempimento dei compiti da parte del paramedico. 10. I rapporti tra medico e paramedico successivamente all’abrogazione del d.P.R. n. 225 del 1974 Come già osservato, a seguito dell’abrogazione del d.P.R. n. 225 del 1974 il ruolo dell’infermiere è radicalmente mutato e con esso anche le sfere di responsabilità di medici e paramedici che cooperino. Scomparsa, innanzitutto, la figura dell’infermiere generico, oggi l’attenzione si concentra sulle nuove mansioni attribuite all’infermiere professionale, al quale la legge riconosce ampi spazi di autonomia ed indipendenza dal medico. Il d.m. n. 739 del 1994, infatti, non prevede più che sia il medico ad indicare all’infermiere le attività da compiere, essendo quest’ultimo a dover individuare i bisogni infermieristici della persona e pianificare l’intervento assistenziale, e non subordina l’attività infermieristica a forme di controllo. 57 Cass. pen., sez. IV, 30 novembre 1992, n. 1213, Aniballi, in Cass. pen., 1994, p. 1497. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 165 Dal nuovo quadro normativo emerge, quindi, che il medico non ha più alcun potere di imporre al paramedico le modalità di svolgimento di un intervento rientrante fra le sue competenze e, soprattutto, non può indicargli quali attività compiere per soddisfare i bisogni infermieristici del paziente. Ma, addirittura, il d.m. n. 739 del 1994 valorizza l’indipendenza dell’infermiere anche con riferimento a quelle attività che si risolvono in un’esecuzione di compiti affidati dal medico (es. somministrazione di medicinali), assegnandogli la “garanzia della corretta esecuzione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche”. Rispetto a quest’ultima previsione sono, tuttavia, necessarie alcune precisazioni in ordine alla portata dell’espressione “corretta applicazione” delle prescrizioni, nonché all’ambito della “garanzia” data dall’infermiere58. A tal proposito, deve, anzitutto, sgombrarsi il campo da un possibile errore interpretativo: le prescrizioni diagnostiche e terapeutiche continuano ad essere di esclusiva competenza del medico, il quale deve stabilire il trattamento più opportuno ed efficace. Con riferimento, ad esempio, ad una tipica forma di cooperazione tra medici ed infermieri, quale la somministrazione di medicinali, rimane, quindi, a tutt’oggi di competenza del medico l’indicazione del tipo di farmaco da somministrare, del dosaggio, dei tempi di somministrazione, della via di somministrazione e della forma farmaceutica. Il ruolo dell’infermiere non è, tuttavia, quello di semplice esecutore delle istruzioni ricevute dal medico, ma il compito attribuitogli dalla legge è quello di garante della corretta applicazione delle prescrizioni. Seppur privo di un potere di sindacare la cura prescelta e l’efficacia dei trattamenti prescritti dal medico, il personale paramedico ha comunque non solo il potere, ma il dovere derivante dalla sua posizione di garanzia, di sollecitare l’intervento del medico in caso di dubbi sulle terapie, come ad esempio sul dosaggio, sui tempi di somministrazione di un farmaco e su quant’altro concerne la correttezza degli elementi contenuti nelle indicazioni fornite dal medico. L’infermiere, che abbia dubbi o incertezze sulle istruzioni impartitegli, ha il dovere di richiedere chiarimenti al medico e, pertanto, laddove violi tale regola cautelare assumerà direttamente la responsabilità, in concorso con il medico, per l’eventuale esito infausto verificatosi a seguito dell’erroneo trattamento terapeutico o diagnostico. Un contributo all’interpretazione della formula legislativa arriva anche dalla giurisprudenza. La Corte di Cassazione, infatti, ha rilevato che “l’attività di somministrazione di farmaci deve essere eseguita dall’infer58 R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 808. 166 CAPITOLO QUARTO miere non in modo meccanicistico, ma in modo collaborativo con il medico. In caso di dubbio sul dosaggio prescritto l’infermiere si deve attivare non per sindacare l’efficacia terapeutica del farmaco prescritto, bensì per richiamare l’attenzione e richiedere la rinnovazione in forma scritta della prescrizione”59. L’infermiere non ha, invece, alcuna abilitazione alla prescrizione di esami diagnostici ovvero di terapie, né ha il potere di sindacare la cura prescelta dal medico e l’efficacia terapeutica della stessa60. Si può in sostanza affermare che il personale infermieristico non ha competenza ad eseguire quelli che sono tradizionalmente individuati come “atti medici”, definiti dalla giurisprudenza come quell’insieme di atti finalizzati alla profilassi e alla diagnosi delle patologie, nonché alla prescrizione dei rimedi per curarle61. Resta, infine, da analizzare l’aspetto concernente la responsabilità del medico per eventuali errori del personale infermieristico. A tal proposito, deve constatarsi come la diversa formulazione legislativa abbia in realtà ridotto gli ambiti di interferenza fra l’attività infermieristica e la supervisione del personale medico, tanto che in dottrina si è osservato come oggi vi sia una netta separazione funzionale tra l’attività medica e quella infermieristica62. Se così è, deve ritenersi che i rapporti tra medico ed infermiere siano regolati dal principio di affidamento: le diverse sfere di competenza e l’assenza di un generale dovere di controllo in capo al medico permettono di affermare che quest’ultimo, salvo l’insorgenza di situazioni concrete che facciano ritenere il contrario, deve poter fare affidamento sul corretto operato del personale paramedico nello svolgimento delle mansioni ad esso demandate. Il predetto principio, però, non sembra trovare accoglimento in giurisprudenza ove, invece, continua ad affermarsi che il medico ha l’obbligo di controllare e vigilare sul regolare svolgimento dei compiti attribuiti al personale paramedico, non potendo, quindi, fare affidamento sul corretto operato di quest’ultimo63. 59 Cass. pen., sez. IV, 25 ottobre 2000, n. 1878, Rumi ed altri, in Riv. dir. prof. san., 2001, p. 41. Sempre in ordine all’obbligo da parte dell’infermiere di segnalare errori o anomalie nella terapia farmacologia v. Cass. pen., sez. IV, 19 settembre 2003, n. 39108, Palmaccio, in Cass. pen., 2004, p. 4084. 60 R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 808, il quale, peraltro, evidenzia che l’eventuale indebita prescrizione di farmaci da parte degli infermieri configura la fattispecie, prevista dall’art. 348 c.p., di esercizio abusivo della professione. 61 Sulla nozione di “atto medico” cfr. Cass. pen., sez. II, 9 febbraio 1995, n. 5838, Avanzini ed altri, in Cass. pen., 1997, p. 394. 62 F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 92. 63 Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2005, n. 18568, Cloro ed altri, cit. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE 167 In realtà, l’unico sanitario sul quale sembra incombere un obbligo di controllo è il medico in posizione apicale. Si è già avuto modo di evidenziare, tuttavia, che tale obbligo si sostanzia nel dovere di organizzazione e gestione della struttura, da attuarsi anche mediante l’esercizio del potere-dovere di impartire direttive a tutto il personale operante nella stessa. Orbene, è indubbio che anche il personale infermieristico rientri nell’ambito dell’organizzazione del reparto diretto dal medico in posizione apicale, con la conseguenza che quest’ultimo dovrà esercitare tutti quei poteri riconosciutigli dalla legge per poter garantire il regolare funzionamento del reparto e la miglior cura per i pazienti ivi ricoverati64. Laddove, quindi, l’evento lesivo materialmente realizzato dal paramedico sia la conseguenza di una omessa organizzazione del reparto o di mancato esercizio del potere di impartire direttive potrà configurarsi la concorrente responsabilità (omissiva) del medico in posizione apicale. 64 F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 93. CAPITOLO QUINTO ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE SOMMARIO: 1. La cooperazione tra sanitari in èquipe chirurgica. – 2. I rapporti gerarchici all’interno dell’équipe chirurgica: in particolare, il ruolo del capo-équipe. – 3. Profili di responsabilità del medico per anticipato allontanamento dall’équipe operatoria. – 4. I rapporti tra medici specialisti in diversa disciplina: a) in particolare, la cooperazione tra chirurgo ed anestesista. – 5. (Segue): b) l’intervento quoad vitam. – 6. (Segue): c) l’intervento quoad valetudinem. – 7. (Segue): d) la ripartizione di responsabilità tra chirurgo ed anestesista nella fase intra-operatoria e post-operatoria. – 8. Un caso particolare di responsabilità d’équipe: gli interventi di trapianto d’organi. 1. La cooperazione tra sanitari in équipe chirurgica L’attività chirurgica costituisce sicuramente la forma per eccellenza di collaborazione in ambito medico: qualsiasi intervento, anche se di modeste dimensioni, prevede la necessaria partecipazione di due o più sanitari (c.d. équipe chirurgica). Lo stesso termine équipe è, infatti, propriamente utilizzato per indicare quelle attività che sono svolte in un unico contesto spazio-temporale da parte di un gruppo di sanitari (medici e paramedici) che svolgono assieme, ma con compiti differenziati, un determinato intervento diagnostico o terapeutico. In effetti, i sanitari componenti un’équipe chirurgica, sia essa strutturata con la semplice presenza del chirurgo, dell’aiuto e dell’anestesista o sia essa articolata in maniera assai più complessa, talora con la contemporanea presenza di una pluralità di sanitari aventi diversa specializzazione, rappresenta il momento che, per eccellenza, fotografa la contemporanea attività di sanitari appartenenti a diverse specialità, il più delle volte organizzati gerarchicamente e diretti da un capo-équipe1. Orbene, rispetto alle forme di collaborazione fra sanitari esaminate finora, l’équipe si caratterizza per la contemporanea presenza di rapporti di tipo verticale e di tipo orizzontale che, naturalmente, danno vita a differenti questioni con riferimento alla ripartizione delle responsabilità in caso di fatti colposi commessi da uno dei partecipanti al gruppo. 1 C. PARODI, V. NIZZA, La responsabilità, cit., p. 155. 170 CAPITOLO QUINTO Il profilo della divisione del lavoro nell’ambito della équipe chirurgica è quello che, sicuramente più di ogni altro, ha suscitato interesse ed è stato in varie occasioni affrontato dalla giurisprudenza, la quale, tuttavia, come spesso è accaduto con riferimento alle questioni relative alla responsabilità medica in generale, non è riuscita a sviluppare una linea interpretativa univoca e costante. Nel prosieguo della presente trattazione si cercherà di tratteggiare le questioni sottese alle diverse forme di collaborazione nell’ambito dell’équipe, richiamando ed analizzando i diversi orientamenti giurisprudenziali formatisi in materia. 2. I rapporti gerarchici all’interno dell’équipe chirurgica: in particolare, il ruolo del capo-équipe All’interno di un équipe viene generalmente individuato un medico al quale, per qualifica professionale, esperienza, anzianità, è demandata la materiale organizzazione, il coordinamento e la direzione del gruppo di lavoro (c.d. capo-équipe). Si tratta, invero, di una qualifica meramente fattuale, che non trova alcuno specifico riscontro in ambito normativo e che non coincide necessariamente con il medico dirigente di reparto. Due sono le situazioni che possono concretizzarsi: da un lato un’équipe chirurgica diretta dal dirigente di reparto e, quindi, organizzata, anche da un punto di vista formale, in modo gerarchico; dall’altro un’équipe diretta da un sanitario che non abbia la qualifica apicale e che, nondimeno assuma, in concreto, la funzione di coordinare il gruppo di lavoro. Mentre con riguardo alla prima ipotesi non sembrano porsi particolari questioni interpretative, facendo capo al medico tutti i doveri (contemplati dagli artt. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 e dall’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992) che discendono dalla posizione apicale formalmente assunta, nella seconda, viceversa, sorge il problema di stabilire quali doveri incombano sul sanitario che abbia assunto il ruolo di capo-équipe e, in particolare, se sullo stesso incombano, al pari del medico in posizione apicale, i doveri di istruzione e vigilanza sull’operato dei componenti il gruppo di lavoro La giurisprudenza è solita ricondurre la figura del capo-équipe (indipendentemente dal ruolo assunto nella gerarchia ospedaliera) a quella del medico in posizione apicale disciplinata dall’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979, ritenendo, quindi, detta norma fonte di una specifica posizione di garanzia per tale sanitario, da cui discendono doveri di controllo e sorveglianza sull’operato altrui. Eloquente in tal senso è una sentenza della giurisprudenza di merito in cui si afferma che l’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 “laddove descrive i doveri del medico in posizione apicale si riferi- ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE 171 sce non solo al primario, ma anche al capo dell’équipe in quanto tale”2. Il capo-équipe, pertanto, oltre a dover eseguire, con diligenza e perizia, le mansioni che a lui spettano, in forza della divisione delle competenze fra i vari partecipanti al gruppo di lavoro, ha il dovere di coordinare l’attività dei collaboratori e di vigilare sul loro operato. La posizione di supremazia attribuita al capo-équipe, ed il conseguente obbligo di controllo sull’operato dei colleghi, escluderebbe, pertanto, secondo il sostanzialmente unanime orientamento giurisprudenziale, l’operatività del principio di affidamento nei confronti di detto sanitario3. 2 Trib. Firenze, 25 maggio 1981, in Arch. civ., 1981, p. 685. 3 La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare il dovere di controllo incombente in capo al medico che viene ad assumere il ruolo di responsabile dell’équipe chirurgica, ritenendo responsabile un primario di chirurgia che, assunta la veste di capo dell’équipe, autorizzò l’anestesista a procedere ad anestesia, indi si allontanò dalla sala operatoria per un emergenza in reparto, senza farvi più ritorno. L’intervento fu, di conseguenza, condotto da due specializzandi che, nel corso dell’esecuzione dell’atto operatorio, recisero l’arteria epigastrica senza suturarla. Nella pronuncia, i giudici ricostruiscono in generale il ruolo del capo-èquipe attribuendogli, in particolare, un dovere di controllo e sorveglianza sull’operato dei propri collaboratori che, peraltro, nel caso specifico, doveva essere ancora più stringente, stante la qualifica di specializzandi dei due operatori. In tal senso v. Cass. pen., 2 aprile 2007, n. 21594, Scipioni e altro, cit. Sempre con riferimento alle responsabilità del capoéquipe si veda Cass. pen., sez. IV, 25 marzo 1988, n. 3904, Grassi, in CED rv. 177967, in cui i giudici hanno ritenuto responsabile di omicidio colposo il primario che, una volta assunto il controllo dell’andamento di un parto, abbia abbandonato la sala operatoria affidando la paziente ad un suo assistente, determinando, così, con la sua negligenza la morte del neonato. Sempre con riferimento al dovere di controllo incombente ex lege sul capo-équipe, possono trarsi interessanti spunti di riflessione da una decisione della giurisprudenza di merito che si è occupata di una particolare ipotesi di collaborazione tra sanitari, pronunciandosi su un caso di omicidio colposo per il quale erano imputati tre primari, rispettivamente, in ostetricia, urologia e chirurgia (quest’ultimo anche con il ruolo di capo-équipe), accusati di aver procurato la morte del paziente a seguito della dimenticanza nel suo addome di una garza, nel corso di un intervento chirurgico. Nei confronti di tutti e tre i sanitari si era proceduto per concorso in omicidio colposo, avendo la garza causato perforazioni intestinali dalle quali era derivata la morte della paziente; ma il giudizio di primo grado si era concluso con una singolare sentenza di assoluzione per tutti gli imputati. In secondo grado, invece, la Corte d’Appello aveva riformato parzialmente la decisione, condannando l’ostetrico e l’urologo, che avevano entrambi provveduto a richiudere l’addome della paziente senza prima estrarre la garza, ed assolvendo, invece, il chirurgo, il quale non aveva materialmente partecipato alla fase di sutura. È evidente che, pur trattandosi di medici specialisti in differente disciplina ed aventi tutti la qualifica di primario, uno di essi, per la precisione il primario specialista in chirurgia, aveva assunto la qualifica di capo-équipe dando, quindi, luogo ad un’équipe gerarchicamente organizzata. La Corte d’Appello, facendo piena applicazione del principio di affidamento, ha ritenuto di escludere la responsabilità del chirurgo, sulla scorta del rilievo che il suo intervento si era limitato alla “emostasi della parete vescicolare posteriore e si era quindi allontanato dal campo operatorio dopo aver revisionato l’addome, non ritenendo più necessaria la sua presenza”: il chirurgo, quindi, non essendo presente all’atto della sutura, aveva legittimamente confidato nel corretto adempimento delle loro mansioni da parte degli altri medici partecipanti all’intervento. In tal senso v. Corte App. Bari, 26 gennaio 1981, Lilli ed altro, in 172 CAPITOLO QUINTO In realtà, l’applicabilità dell’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 al capoéquipe che non abbia anche la qualifica apicale, non appare così pacifica. L’articolo in esame, infatti, disciplina i doveri incombenti sul “medico in posizione apicale”, facendo, tuttavia, riferimento non alla generica assunzione di una posizione di superiorità (attraverso, appunto, la direzione di un intervento), ma, piuttosto, all’assunzione di una qualifica giuridicoformale (legata anche al superamento di appositi concorsi). D’altro canto, occorre, altresì, rammentare che l’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 (così come modificato dal d.lgs. n. 227 del 1999), pur non avendo abrogato l’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979, ha nondimeno riorganizzato la dirigenza sanitaria individuando un unico ruolo dirigenziale distinto in tre profili professionali (dirigente di struttura complessa, dirigente di struttura semplice e dirigente senza alcuna responsabilità di struttura) (sul punto v. amplius Cap. 1, § 2). Alla luce di questa nuova disciplina (con cui deve necessariamente coordinarsi l’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979), si ritiene che l’assunzione di una posizione apicale sia strettamente connessa alla qualifica giuridico-funzionale di direzione di una struttura e non possa da essa prescindere4. Dall’attuale sistema normativo non sembra, pertanto, possibile far discendere un generale dovere di controllo sul medico che, in assenza di posizione apicale, assuma la direzione di un intervento, potendo egli fare affidamento (salvo l’emergere di situazioni concrete) sul corretto operato dei componenti del gruppo di lavoro. A tal riguardo, in dottrina si è evidenziato che soltanto sul medico che assume contemporaneamente la posizione apicale ed il ruolo di capo-équipe sussiste un obbligo di indirizzo e vigilanza nei confronti degli altri sanitari componenti l’équipe, mentre sul sanitario che assuma solo la direzione dell’intervento non incomberebbe un obbligo di vigilanza sistematica sui colleghi5. Quest’ultimo, nondimeno, vista la funzione in concreto assunta, sarà destinatario di specifici doveri cautelari di coordinamento e di raccordo operativo tra le Foro it., 1983, II, c. 167. La decisione è stata criticata da una parte della dottrina, per l’eccessiva semplificazione del ragionamento sottostante all’affermazione di innocenza del chirurgo: costui avrebbe potuto andare esente da responsabilità solo se il suo precoce allontanamento dalla sala operatoria fosse stato giustificato e non vi fossero state circostanze oggettive e soggettive tali da poter fare dubitare del diligente operato dei propri collaboratori (es. giovane età, particolare complessità dell’intervento anche in relazione al numero di garze utilizzate, particolare collocazione delle stesse individuabili solo da chi le ha inserite, etc.). Per tali osservazioni v. E. BELFIORE, Sulla responsabilità colposa nell’ambito dell’attività medico-chirurgica in équipe, in Foro it., 1983, II, c. 168. 4 Nel senso della necessità di un coordinamento interpretativo tra gli artt. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 e 15 d.lgs. n. 502 del 1992 v. anche D. GUIDI, L’attività medica, cit., p. 237 s. 5 In tal senso v. F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, E. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 103 ss. ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE 173 condotte dei vari componenti l’équipe, in modo da assicurare una corretta convergenza tra le attività dei medici appartenti a differenti specializzazioni. Anche in dottrina non sono mancati, però, autori che hanno riconosciuto per il capo-équipe, indipendentemente dalla qualifica funzionale, un dovere di controllo sull’operato altrui cercando, tutttavia, di limitarne la portata. In tal senso si è, ad esempio, evidenziato che il controllo del capo-équipe non deve essere inteso come obbligo di svolgere una vigilanza continua, ma, piuttosto, come più circoscritto obbligo di verifica dell’inesistenza di circostanze di fatto che facciano supporre come altamente probabile il prodursi di una negligenza altrui, che deve esercitarsi all’inizio dell’intervento chirurgico e deve ripetersi, eventualmente, anche nel corso dell’intervento, in presenza di passaggi delicati o al verificarsi di circostanze tali da evidenziare il probabile fatto colposo del collaboratore6. 3. Profili di responsabilità del medico per anticipato allontanamento dall’équipe operatoria Un’interessante questione che si è posta negli ultimi tempi all’attenzione dei giudici concerne i profili di responsabilità, per errori commessi da altri membri dell’équipe, del medico che si sia allontanato dalla sala operatoria prima della conclusione dell’intervento. La questione è stata oggetto di un’interessante sentenza della Corte di Cassazione la quale, nell’affermare la legittimità dell’anticipato abbandono della sala operatoria da parte del medico la cui opera non sia più necessaria, ha individuato i presupposti in presenza dei quali l’allontanamento può comportare l’esclusione della responsabilità del medico per errori commessi in sua assenza. Ad avviso dei giudici, l’allontanamento, per ritenersi giustificato, deve avvenire, innanzitutto, in un contesto temporale in cui, rispetto all’intervento in corso, l’opera del sanitario non sia più necessaria (es. chirurgo che lasci la sala operatoria al termine di un intervento di modesta difficoltà, demandando ai propri collaboratori la sutura della ferita) ed, 6 Con riferimento all’estensione del dovere di controllo, in dottrina sono state prospettate due diverse soluzioni. Secondo E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 298, il dovere di controllo del capo-équipe si sostanzia nell’accertamento, nel momento iniziale, delle buone condizioni fisiche e psichiche dei componenti del gruppo e dell’inesistenza di comportamenti colposi in atto. In senso parzialmente difforme v., invece, G. IADECOLA, Il medico e la legge penale, Padova, 1993, p. 79, secondo il quale il controllo da parte del capo-èquipe sull’operato dei collaboratori deve avvenire non solo nella fase iniziale dell’intervento, ma in vari intervalli di tempo e, in special modo, in presenza di passaggi delicati. 174 CAPITOLO QUINTO in secondo luogo, in un momento in cui la condizione generale del paziente non presenti particolari caratteri di gravità7. Con riferimento al caso specifico, peraltro, i giudici rilevano, quale ulteriore elemento che può giustificare un anticipato allontanamento, la necessaria prestazione da parte del medico di cure indilazionabili ad altri pazienti. L’orientamento espresso dalla Corte appare del tutto coerente con il principio di affidamento e con la divisione delle competenze derivante da detto principio: il medico, quindi, può legittimamente allontanarsi una volta adempiute tutte le proprie mansioni nel rispetto delle leges artis, confidando nella corretta prosecuzione dell’intervento da parte dei colleghi. D’altro canto, il legittimo affidamento subisce una limitazione nel caso in cui circostanze concrete, quali la difficoltà dell’intervento o l’inesperienza dei colleghi, facciano ritenere prevedibile il verificarsi di un errore8. Alcune perplessità sorgono, nondimeno, con riferimento alla possibilità, riconosciuta dai giudici della Corte, di legittimare l’anticipato allontanamento dalla sala operatoria del medico in forza della necessità di prestare la propria attività nella cura ad altri pazienti. Dal tenore letterale dell’affermazione sembrerebbe potersi desumere, in questo caso, la facoltà per il medico di allontanarsi dalla sala operatoria, andando esente da qualsivoglia responsabilità, anche nelle ipotesi in cui l’intervento sia ancora in corso e restino ancora da compiere attività a lui direttamente assegnate. La dottrina ha osservato che, nell’ipotesi oggetto di valutazione, il medico che si allontani tiene una condotta inosservante del contenuto del dovere di diligenza, fonte di responsabilità penale, ove si accerti che egli, qualora presente, avrebbe potuto e, quindi, dovuto emendare l’errore commesso da un suo collega, in quanto evidente e non settoriale. In tal caso, la condotta omissiva del medico assente concorrerà – seppure in modo indipendente, non essendo ravvisabile alcun nesso psicologico tra le due condotte colpose – con quella del medico che abbia praticato l’intervento negligente, imprudente o imperito, rispondendo entrambi dell’evento lesivo ai danni del paziente ai sensi dell’art. 41, comma 3, c.p.9. 7 Cass. pen., sez. IV, 6 aprile 2005, n. 22579, Malinconico, cit. 8 In dottrina cfr. E. BELFIORE, Sulla responsabilità colposa, cit., c. 168, secondo il quale, i sanitari componenti l’équipe chirurgica possono legittimamente allontanarsi prima del termine dell’intervento, trovando piena applicazione il principio di affidamento. Diversa, però, appare, la posizione del capo-équipe, il quale può allontanarsi nella fase di “chiusura” dell’intervento solo in quanto non vi siano ragioni per dubitare dell’operato diligente dei propri collaboratori. 9 C. CANTAGALLI, Brevi cenni, cit., p. 2845. In una pronuncia più recente, però, la Corte sembra ritornare sui propri passi, affermando che il capo-équipe non può abbandonare la sala ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE 175 Le acquisizioni interpretative in materia di scioglimento anticipato dell’équipe chirurgica devono, nondimeno, essere coordinate con il principio, sopra richiamato, della permanenza sul capo-équipe di un obbligo di sorveglianza del decorso post-operatorio. Pertanto, l’anticipato allontanamento dalla sala operatoria non elide l’obbligo di protezione facente capo al sanitario, il quale dovrà essere pur sempre reperibile nel caso di eventuali complicanze post-operatorie, rimanendo, pur tuttavia, salva la possibilità di affidare il malato ad altro medico con le dovute capacità tecniche10. 4. I rapporti tra medici specialisti in diversa disciplina: a) in particolare, la cooperazione tra chirurgo ed anestesista All’interno dell’équipe è possibile ravvisare anche rapporti non subordinati tra medici specialisti in diversa disciplina, rispetto ai quali, ancora una volta, si pone un problema di individuazione dei soggetti penalmente responsabili in caso di fatto colposo. In particolare, l’interrogativo, a cui si deve cercare di fornire una risposta, è se il medico specialista risponda solo della propria condotta o se, al contrario, debba rispondere, quale concorrente, anche per condotte colpose tenute da altri membri dell’équipe. In linea teorica, nei rapporti tra medici non legati da vincolo gerarchico, trova compiuta applicazione il principio di affidamento, in quanto ogni medico che compone l’équipe deve poter svolgere le proprie mansioni confidando nel fatto che i colleghi, aventi diversa specializzazione, a loro volta, rispettino le leges artis proprie della loro attività. D’altro canto, non sarebbe neppure possibile, per carenza delle necessarie competenze tecniche, pretendere da un medico di valutare il corretto operato di un collega, a lui non gerarchicamente subordinato, avente diversa specializzazione. In tali casi, quindi, il dovere di controllo sull’operato degli altri componenti dell’équipe sarà meramente “secondario”, dovendo essere effettuato solo ove si verifichino concrete circostanze che rendano prevedibile la realizzazione dell’errore, riconoscibile, sulla base del baoperatoria prima del termine dell’intervento per assistere altri pazienti. In tal senso v. Cass. pen., sez. IV, 2 aprile 2007, n. 21594, Scipioni, cit., ove si afferma che “non si dubita che l’imputato avesse valide ragioni per assistere altri pazienti […]. Il problema è che in una tale eventualità egli non poteva abdicare ai doveri determinati dal ruolo di capo-équipe formalmente affidatogli, ma doveva differire l’atto operatorio, oppure sollecitare la sua sostituzione o infine adottare altre misure appropriate; ma di certo non poteva consentire che la vittima restasse interamente affidata a due apprendisti chirurghi”. 10 M. GRIMALDI, L’attività medico-chirurgica in équipe, in Diritto e formazione, 2006, p. 241. 176 CAPITOLO QUINTO gaglio di conoscenze comune a qualsiasi medico, da parte del proprio collega. È fuori di dubbio, però, che, se i professionisti, aventi differente specializzazione, hanno materialmente cooperato, realizzando tutti condotte negligenti o imperite, potrà sussistere nei loro confronti una responsabilità colposa concorsuale ex art. 113 c.p. Sotto tale profilo si può richiamare un’interessante sentenza della Corte di Cassazione, nella quale i giudici hanno affermato la penale responsabilità di tutti i sanitari che avevano partecipato all’intervento (il primario chirurgo, i due chirurghi aiuti e gli infermieri) per lesioni colpose ai danni di un paziente a seguito della dimenticanza di una pinza kelly nell’addome11. La “conta dei ferri”, infatti, ad avviso dei giudici, incombe su tutti i medici che hanno preso parte all’intervento, i quali autonomamente avevano la possibilità di eliminare la fonte di pericolo, ed anche laddove gli stessi deleghino tale compito a personale paramedico, mantengono inalterato un dovere di vigilanza sull’operato di quest’ultimo12. Nell’ambito della pluralità di rapporti tra specialisti, in concreto ipotizzabile con riferimento ad un intervento chirurgico, dottrina e giurisprudenza hanno assunto quale “situazione simbolo” quella relativa ai rapporti intercorrenti tra chirurgo ed anestesista, cercando di individuare i profili di responsabilità propri di ciascuno dei due professionisti e le ipotesi di responsabilità concorrente La giurisprudenza, a tal riguardo, ha manifestato orientamenti ondivaghi e, soprattutto, non sempre conformi ai principi sinora espressi in materia di individuazione dei soggetti responsabili nell’ambito delle strutture complesse. I giudici, infatti, hanno alternato a pronunce in cui affermano la sussistenza di un generale dovere di controllo reciproco tra chirurgo ed anestesista, altre, sicuramente prevalenti, ove, al contrario, riconoscono la compiuta operatività del principio di affidamento, salva l’insorgenza di circostanze fattuali tali da determinare la reviviscenza di un dovere di controllo secondario. Per una corretta impostazione del problema è, preliminarmente, necessario richiamare il dato normativo utile per l’individuazione delle sfere di competenza dell’anestesista e del chirurgo. In tal senso assume fondamentale rilievo l’art. 1, comma 2, l. 9 agosto 1954, n. 653, istitutiva dei servizi ospedalieri di anestesia, che provvede a delineare le funzioni dell’anestesista statuendo che “il medico anestesista pratica direttamente sui malati sotto la propria diretta responsabilità gli interventi per anestesia, 11 Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2005, n. 18568, Cloro ed altri, cit. 12 Per un esame più approfondito della problematica relativa alla sponsabilità in caso di derelizione di oggetti v. supra cap. II, sez. II, § 8.7. ripartizione di re- ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE 177 sorvegliando l’andamento del trattamento; esprime il proprio motivato parere sulle condizioni del malato in relazione al trattamento anestetico in tutto quanto possa essere richiesto nei riguardi del servizio di anestesia”. Fino all’intervento del legislatore, nel 1954, la figura dell’anestesista non trovava alcuna qualificazione e regolamentazione, con la conseguenza che nel contesto operatorio questo sanitario veniva collocato, al pari degli altri, sotto la direzione del chirurgo, il quale assumeva tutte le decisioni. Il che, se, da un lato, alleggeriva notevolmente la responsabilità di detto sanitario in caso di evento dannoso, dall’altro lato, lo relegava ad una situazione di subordinazione tecnica al chirurgo, il quale non era, però, provvisto delle qualifiche essenziali per valutare l’attività specialistica del primo13. Con l’introduzione della citata norma si inverte la tendenza, sino a quell’epoca invalsa all’interno delle strutture ospedaliere, di riconoscere il chirurgo quale dominus della sala operatoria ed unico responsabile della valutazione sia del c.d. “rischio chirurgico” sia del c.d. “rischio anestetico”. La l. n. 653 del 1954 sancisce, infatti, una separazione fra le due figure di specialisti, attribuendo all’anestesista una responsabilità diretta per i trattamenti da lui stessi praticati, distinta ed autonoma rispetto a quella del chirurgo14. L’art. 1, comma 2, l. n. 653 del 1954, in particolare, individua due mansioni tipiche dell’anestesista: la somministrazione del trattamento anestetico e la vigilanza sull’andamento dello stesso; la manifestazione del proprio parere sulle condizioni del paziente in relazione al trattamento anestetico. È con riferimento a tali specifiche mansioni attribuite all’anestesista che si deve, quindi, indagare sulla ripartizione delle responsabilità, nel caso di esito infausto, tra quest’ultimo sanitario ed il chirurgo, procedendo, peraltro, ad un esame differenziato in relazione alle diverse fasi dell’intervento (pre-operatoria, intra-operatoria, post-operatoria). La fase pre-operatoria è tecnicamente di competenza dell’anestesista: è, infatti, su tale sanitario che incombe il dovere della preparazione del paziente per l’intervento, della verifica del corretto allestimento della sala operatoria e dei gas medicinali. In questa fase, non ancora propriamente operatoria, è, invero, difficile configurare una responsabilità concorrente del chirurgo che, generalmente, neppure assiste alla preparazione della sala e del paziente15. In tal senso si è espressa anche la giuri13 G. 14 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 231. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 231; F. AMBROSETTI, R. PICCINELLI, M. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 106 ss. 15 R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 795 il quale, peraltro, osserva che il chirurgo non ha la visuale sul campo operatorio dell’anestesista, essendo i due professionisti separati mediante il c.d. “telo operatorio”. 178 CAPITOLO QUINTO sprudenza, la quale ha riconosciuto che “il medico anestesista ha l’obbligo di sorvegliare e controllare che tutte le apparecchiature siano in regola e non sussistano difetti di funzionamento. Tale azione deve essere effettuata prima dell’intervento e del trattamento”16. In dette ipotesi, quindi, il chirurgo non risponde in concorso con l’anestesista di eventuali eventi lesivi ai danni del paziente, in quanto solo a quest’ultimo sanitario è demandata ex lege la competenza circa la preparazione della sala operatoria, la sterilizzazione degli strumenti, il dosaggio delle soluzioni anestetiche e di quanto occorra per l’intervento. Il dovere di sorveglianza dell’anestesista sulla corretta preparazione del paziente per l’intervento è stata ravvisata anche con riferimento al corretto posizionamento sul tavolo operatorio. La Corte di Cassazione, infatti, ha affermato la responsabilità colposa dell’anestesista per l’erroneo posizionamento del paziente sul tavolo operatorio, che ne aveva determinato una compressione del braccio durante l’intervento chirurgico. Nella motivazione, la Corte sottolinea la sussistenza di differenti sfere di competenza, e conseguentemente di responsabilità, tra i due professionisti nell’ambito dello svolgimento di un intervento chirurgico: incombe sull’anestesista, che interviene nella fase pre-operatoria e presenzia alle operazioni preparatorie che ivi vengono compiute, l’obbligo di posizionare il paziente sul tavolo operatorio, mentre il chirurgo è del tutto estraneo all’attività di immobilizzazione del paziente, in quanto costui interviene in sala operatoria solo quando ormai le operazioni preparatorie sono terminate17. Nella prima fase dell’intervento chirurgico si verifica, tuttavia, un altro significativo passaggio, il quale, a differenza di quello più propriamente preparatorio del paziente e della sala operatoria, è di competenza sia dell’anestesista che del chirurgo. Si tratta di quello concernente la valutazione della necessità dell’intervento chirurgico ed i rischi, anche di natura anestetica, ad esso connessi. Come poc’anzi evidenziato, infatti, l’anestesista ha il dovere di esprimere il proprio parere sulle condizioni del malato in ordine all’effettuazione del trattamento anestetico, da ritenersi finalizzato ad evidenziare al chirurgo i rischi che l’anestesia potrebbe comportare per la vita del paziente. È, però, indubbio che l’anestesista, nell’esprimere il proprio parere, debba procedere ad un bilanciamento tra i rischi dell’anestesia e la necessità dell’intervento chirurgico: il c.d. “rischio anestetico” non costituisce, quindi, oggetto di un giudizio assoluto, ma relativizzato rispetto alla natura dell’intervento da eseguire18. 16 Cass. pen., sez. IV, 4 novembre 1983, n. 10868, Costanzi, in Cass. pen., 1986, 17 Cass. pen., sez. IV, 14 aprile 1983, n. 7082, Prelong, in CED rv. 160049. 18 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 232. p. 283. ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE 179 Il medico chirurgo, pertanto, nel decidere se praticare o meno l’intervento deve tenere conto, oltre che delle proprie valutazioni in ordine alla necessità o meno dello stesso, anche del parere dell’anestesista in ordine a rischi connessi alla somministrazione dell’anestesia. Il problema diviene, però, quello di stabilire se il parere espresso dall’anestesista sia, o meno, vincolante per il chirurgo o, se, invece, quest’ultimo possa comunque effettuare l’intervento discostandosi dal parere espresso dal primo. In tale ottica in dottrina si distingue tra interventi quoad vitam – necessari per salvare la vita del paziente – ed interventi quoad valetudinem – non finalizzati a salvare la vita del paziente, ma comunque a migliorarne lo stato di salute. 5. (Segue): b) l’intervento quoad vitam Il riferimento è, innanzitutto, a quegli interventi che risultino necessari per salvare la vita del paziente e nei quali, quindi, pur in presenza di un “rischio anestetico” elevato e di un eventuale parere negativo dell’anestesista, il chirurgo si trovi a dover intervenire comunque. Si pensi al caso del paziente molto anziano sul quale debba essere eseguito un delicato intervento di cardiochirurgia per la sostituzione di una valvola aortica e per l’impianto di alcuni by-pass: il rischio anestesiologico per l’età del paziente e per ulteriori patologie in atto potrebbe essere molto elevato, ma al contempo, la mancata esecuzione dell’intervento porterebbe a morte certa, e in termini tutto sommato brevi, il paziente. Quali responsabilità saranno ravvisabili nel caso di esito infausto dell’intervento, per il verificarsi proprio del rischio connesso all’anestesia e previsto dall’anestesista? La dottrina che si è occupata della questione ha evidenziato come in tale evenienza il parere dell’anestesista sui possibili effetti negativi del trattamento anestetico debba ritenersi assolutamente non vincolante per il chirurgo le cui eventuali preoccupazioni dovrebbero necessariamente cedere il passo davanti al pericolo di un più grave danno alla persona non altrimenti evitabile19. In questi casi, secondo alcuni interpreti, il chirurgo si troverebbe ad operare in una situazione fattuale nient’affatto diversa da quella che configura la causa di giustificazione dello stato di necessità prevista dall’art. 54 c.p., con la conseguenza che egli dovrà ritenersi scriminato nel caso in cui si verifichi l’esito infausto conseguente alla somministrazione dell’anestetico, sempreché non fosse fallace la va19 A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 269. 180 CAPITOLO QUINTO lutazione della necessità salvifica dell’intervento20. Pur condividendo l’idea che al chirurgo non possa ascriversi la responsabilità per l’eventuale esito infausto dell’intervento, si ritiene, nondimeno, che ciò debba avvenire non tanto sul piano oggettivo, quanto su quello soggettivo dell’esclusione della rimproverabilità21. Il chirurgo si trova, infatti, davanti all’alternativa di lasciar progredire la patologia del paziente ovvero intervenire, assumendosi, però, il rischio di un esito infausto. La peculiare situazione in cui si trova ad agire (assimilabile a quella dell’urgenza terapeutica) lo induce all’assunzione di un rischio (quello anestesiologico) che, ordinariamente, sarebbe “non consentito”. L’assunzione della porzione di rischio non consentito è, però, evidentemente, il frutto di una scelta non autenticamente libera ma “viziata” dall’esigenza di salvare la vita del paziente e, come tale, rende il comportamento del chirurgo scusabile ove si verifichi l’evento avverso. Qualche difficoltà in più sembra sorgere con riferimento alle eventuali responsabilità dell’anestesista che, a seguito del parere del chirurgo sulla improcrastinabilità dell’intervento, lo abbia coadiuvato somministrando al paziente il trattamento anestetico e vigilando sugli equilibri vitali del paziente. A tal proposito, con riferimento all’individuazione dei doveri che devono essere rispettati dall’anestesista per andare esente da responsabilità, si sono formati tre distinti orientamenti. Secondo un primo orientamento, sull’anestesista incomberebbe un dovere di controllo sulla valutazione di necessità dell’intervento effettuata dal chirurgo: solo in caso di esito positivo potrebbe prestare la propria collaborazione, mentre, in caso contrario, l’unico modo per non essere chiamato a rispondere di eventuali esiti infausti, sarebbe quello di astenersi dal collaborare22. Per un diverso orientamento, maggiormente compatibile con il principio della responsabilità penale personale, invece, non può essere richiesta tale forma di verifica al medico anestesista, il quale non ha la competenza tecnica per poter valutare la condotta del collega avente diversa specializzazione. Soltanto laddove l’errore di valutazione potesse essere facilmente riconoscibile, in forza delle conoscenze tecniche proprie di ciascun medico, potrebbe allora riconoscersi un’autentica responsabilità colposa in capo all’anestesista che non si sia astenuto dal prestare la propria attività; in caso contrario, si imputerebbe in20 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 231 ss.; F. AMBROSETTI, R. PICM. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 114. 21 Per un approfondimento delle ragioni che escludono la configurazione dello stato di necessità v. supra cap. III § 4. 22 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 232. CINELLI, ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE 181 vece un fatto senza l’accertamento di un’autentica rimproverabilità del soggetto23. Tali orientamenti sono, peraltro, confutati da altra parte della dottrina, la quale rileva che dal dettato normativo non emerge né la vincolatività del parere dell’anestesista, né la possibilità per quest’ultimo di valutare la scelta del chirurgo e di astenersi in caso di dissenso. All’anestesista, quindi, non sarebbe possibile non ottemperare alla richiesta di collaborazione avanzatagli dal chirurgo, con la conseguenza che a lui sarebbe riconosciuta solo la possibilità di formulare per iscritto il proprio parere sull’elevato rischio anestesiologico, e ciò dovrebbe ritenersi sufficiente per escludere la sua responsabilità, in caso di verificazione dell’evento lesivo24. 6. (Segue): c) l’intervento quoad valetudinem Più complesse appaiono, invece, le valutazioni nel caso in cui l’intervento non si rappresenti, neppure al chirurgo, come necessario per la vita del paziente e si riscontri, peraltro, un elevato rischio connesso alla somministrazione del trattamento anestetico: sono i casi, ad esempio, di ulcera duodenale, di calcolosi biliare o di interventi di chirurgia estetica che non comportano gravi insufficienze in soggetti che però presentano rischi anestesiologici assai elevati. In simili situazioni sarebbe proprio il trattamento anestetico ad esporre a pericolo la vita del paziente, a fronte di una condizione patologica che presenta rischi di portata inferiore25. Non sembrano sussistere dubbi, quindi, circa la prevalenza della controindicazione all’intervento data dall’anestesista rispetto all’indicazione puramente chirurgica con la conseguenza che potrà configurarsi una responsabilità colposa a carico del chirurgo, e non dell’anestesista, nel caso in cui il primo decida di procedere egualmente all’intervento ed il paziente perisca o riporti gravi lesioni a causa dell’anestesia. Può, d’altro canto, verificarsi anche l’ipotesi in cui il chirurgo si adegui all’indicazione di “elevato rischio anestesiologico” impartito dall’ane23 P. AVECONE, La responsabilità, cit., p. 164, il quale rileva che “se nonostante il parere contrario del chirurgo fosse di piena evidenza che il caso non è assolutamente grave o che comunque si potrebbero utilmente esperire altre strade curative, allora l’anestesista, che pur è medico, deve esprimere il suo motivato parere circa l’’inutilità dell’assunzione del rischio o addirittura, a scanso di ogni sua responsabilità, rifiutarsi di eseguire quanto gli venga ordinato”. 24 A. LAUDATI, A. LAUDATI, La responsabilità penale dell’anestesista-rianimatore per fatti legati a colpa professionale, in Giust. pen., 1986, p. 215. Nello stesso senso cfr. L. MACCHIARELLI, T. FEOLA, Medicina legale, cit., p. 1424. 25 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 232. 182 CAPITOLO QUINTO stesista e decida, di conseguenza, di non effettuare l’intervento. Non è, nondimeno, da escludersi l’eventualità che dalla mancata effettuazione dell’intervento derivino comunque eventi dannosi per la salute del paziente, rispetto ai quali, quindi, si porrà un problema di individuazione del soggetto responsabile. La soluzione in tali casi muta, a seconda che la valutazione sul rischio connesso alla somministrazione dell’anestetico fosse corretta ovvero errata. Nel primo caso, non sembra ricorrere alcun profilo di responsabilità colposa né in capo all’anestesista – che ha correttamente valutato i rischi legati all’intervento – né in capo al chirurgo – che ha correttamente bilanciato i rischi ed i vantaggi derivanti dall’intervento stesso. Al contrario, nel caso in cui l’anestesista abbia errato nel giudizio relativo alla pericolosità dell’anestesia, è certo che sarà configurabile a suo carico una responsabilità colposa per imperizia, mentre seri dubbi si pongono rispetto alla configurabilità di una responsabilità a carico del chirurgo che abbia accettato il parere dell’anestesista. Il problema, seppure a parti invertite, deve essere risolto nei medesimi termini indicati rispetto agli interventi quoad vitam. Deve, cioè, ritenersi perfettamente operante il principio di affidamento, non potendosi pretendere un controllo da parte del chirurgo sull’operato del collega. Andrà, quindi, esente da responsabilità il chirurgo che abbia fatto affidamento sul parere dell’anestesista in ordine alle controindicazioni all’intervento, laddove poi si sia verificato un evento lesivo ai danni del paziente in conseguenza della mancata effettuazione dell’intervento26. 7. (Segue): d) la ripartizione di responsabilità tra chirurgo ed anestesista nella fase intra-operatoria e post-operatoria La fase intra-operatoria dell’intervento chirurgico costituisce sicuramente quella che, più di ogni altra, comporta una cooperazione fra sanitari e che determina anche le maggiori difficoltà nella delimitazione delle sfere di responsabilità. È per tali ragioni che, probabilmente, la giurisprudenza, pur avendo accolto i principi della ripartizione delle competenze tra anestesista e chirurgo, si esprime talvolta ancora nel senso di configurare un dovere di controllo tra i due professionisti. 26 Contra G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 233, secondo i quali in simili casi “la responsabilità decisionale ricade sul chirurgo nel senso di garantirsi fin dove possibile in ordine all’esattezza del giudizio negativo espresso dall’anestesista, ricorrendo ad indagini diagnostiche supplementari, volte a dimostrare o a smentire la effettiva fondatezza dell’eccessiva gravità del rischio, ed altresì richiedendo nuovi pareri e consulti con altri anestesisti di maggiore esperienza ed autorevolezza del primo”. ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE 183 In realtà, in tale fase dovrebbe valere, come regola generale, il principio che nessun obbligo di sorveglianza reciproca sussiste tra chirurgo ed anestesista, stante le differenti e distinte competenze: il primo ha i controllo dei parametri vitali del paziente, il secondo si occupa, invece, dell’atto operatorio in senso stretto27. Questa linea ricostruttiva è stata fatta propria anche dalla Corte di Cassazione la quale, affermando l’operatività del principio di affidamento, ha escluso la responsabilità dell’anestesista, in un caso di lesioni gravi a danno di un paziente nel cui addome, durante un intervento chirurgico, era stata dimenticata una garza laparotomica. I giudici hanno, infatti, osservato che “in una équipe medica, che svolge un’operazione chirurgica, l’anestesista è deputato a controllare lo stato di insensibilità del paziente all’azione chirurgica, la sua reazione e magari la sua sicurezza dal punto di vista circolatorio, mentre non ha nessuna competenza e, quindi, nessun incarico di porre o estrarre tamponi dalla cavità soggetta all’operazione. Ne consegue che l’anestesista non risponde del fatto che venga dimenticata nell’addome del paziente una garza laparotomica”28. Specularmene, si trovano decisioni che, sempre nell’ottica di una corretta differenziazione dei ruoli, escludono la responsabilità del chirurgo, affermando quella dell’anestesista29. Interessante a tal proposito una pronuncia della Corte di Cassazione in cui i giudici hanno ben delineato le responsabilità dell’anestesista in ordine alla trasfusione di sangue effettuata nel corso di un intervento chirurgico. I giudici del Collegio, infatti, hanno escluso la responsabilità del chirurgo, per l’evento lesivo cagionato al paziente dal comportamento colposo ascrivibile, in via esclu27 R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 795. 28 Cass. pen., sez. IV, 30 ottobre 1984, n. 9525, Passarelli, in Cass. pen., 1985, p. 2233. Analogamente nel senso dell’esclusione della responsabilità dell’anestesista v. Pret. Verbania, 11 marzo 1998, Govoni e altri, cit., in cui si evidenzia che “in un intervento di tracheotomia gli anestesisti possono, una volta segnalato al chirurgo l’errore nel quale è incorso, attendere che questi vi ponga rimedio, non avendo motivo per ritener che fosse incapace di effettuare un’operazione manuale, che sapevano che aveva compiuto molte altre volte. Imprudenti sarebbero invece stati se si fossero subito sostituiti al chirurgo, esautorandolo dall’operazione, per tentare una manovra alternativa più lunga e difficile di quella che il collega doveva a quel punto eseguire. Proprio in considerazione di questo, si deve escludere che tale manovra fosse connotata da doverosità per cessazione del principio di affidamento nell’équipe chirurgica sulla corretta esecuzione dei propri compiti da parte di uno dei suoi membri: non solo gli anestesisti non avevano, per posizione gerarchica, un obbligo di prevenire e correggere l’errore del chirurgo, né, in relazione alle concrete circostanze del caso, il comportamento inefficiente di quest’ultimo era in qualche modo da loro prevenibile ed evitabile; ma soprattutto non si manifestava in modo così clamoroso da autorizzarli a sostituirsi completamente a lui”. 29 Cass. pen., sez. IV, 4 novembre 1983, n. 10868, Costanzi, in Cass. pen., 1986, p. 283; Cass. pen., sez. IV, 25 ottobre 1955, in Resp. civ. e prev., 1956, p. 359. 184 CAPITOLO QUINTO siva, all’anestesista e consistente nell’erronea trasfusione di una sacca di sangue, in quanto spetta all’anestesista, e non anche al chirurgo, l’obbligo di assicurarsi che il tipo di sangue sia esattamente quello destinato al paziente30. Il legittimo affidamento del chirurgo nell’operato dell’anestesista viene meno, però, nel caso in cui il primo, sulla base delle conoscenze comuni ad ogni medico, rilevi condotte colpose da parte del collega. In tal caso il sanitario, in forza della posizione di garanzia assunta nei confronti del paziente, ha l’obbligo di attivarsi per porre rimedio agli eventuali errori colposi del collega, purché tali errori non siano settoriali ovvero, pur appartenendo al settore specialistico dell’anestesista, siano talmente grossolani da essere rilevabili da qualsiasi professionista31. Interessante, in tal senso, una pronuncia della giurisprudenza di merito, in cui è stata riconosciuta la cooperazione colposa tra chirurgo ed anestesista, in relazione alla morte per arresto cardiaco di un bambino di nove anni, nel corso di un’operazione di appendicectomia e in cui sono stati condannati: 1) l’anestesista, per aver omesso, nella fase preparatoria dell’intervento, di intubare il paziente e di applicargli il monitor dell’elettrocardiogramma; 2) il primario anestesista, per aver fatto interrompere anzitempo il massaggio cardiaco, con una decisione inconsulta e frettolosa; 3) i tre chirurghi, per aver omesso, constata la inconsulta desistenza dal massaggio cardiaco, di sostituirsi ai due anestesisti, non potendo ignorare, alla stregua del necessario corredo professionale di ogni medico, anche generico, che la pratica rianimatoria del massaggio cardiaco avrebbe dovuto essere protratta per un tempo non inferiore a mezz’ora ed essere accompagnata da idonea terapia farmacologica cardio-stimolante32. Con riferimento alla fase detta più propriamente post-operatoria – ovvero la fase di c.d. “risveglio” del paziente dalla narcosi – si ritorna, invece, ad una responsabilità esclusiva dell’anestesista, salvo che l’evoluzione successiva all’operazione non si manifesti anomala33. 30 Cass. pen., sez. IV, 16 novembre 1990, n. 7601, Rappazzo ed altri, in Riv. pen., 1991, p. 652. 31 M. GRIMALDI, L’attività medico-chirurgica, cit., p. 235. 32 Pret. Genova, 13 novembre 1991, Galliccia, in Foro it., II, c. 586. Nella giurisprudenza di legittimità, per l’affermazione della responsabilità concorsuale del chirurgo e dell’anestesista, cfr. Cass. pen., sez. IV, 11 ottobre 2007, n. 41317, Raso ed altri, cit., in cui i giudici hanno dichiarato la penale responsabilità del chirurgo per l’erronea esecuzione della procedura di intubazione della paziente da parte dell’anestesista, essendo la negligenza di quest’ultimo evidente. 33 In tal senso si è espressa Cass. pen., sez. IV, 7 novembre 1988, n. 790, in CED rv. 180245, affermando che “il chirurgo capo-équipe, una volta concluso l’atto operatorio in senso stretto, qualora si manifestino circostanze denuncianti possibili complicanze, tali da ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE 185 In tutt’altro verso si colloca, invece, una decisione che riconosce, nella fase post-operatoria la sussistenza di un dovere di controllo tra i due professionisti. I giudici – pronunciandosi su un caso di intervento di adenotonsillectomia con decesso della paziente per l’insorgenza di una grave ipossia post-operatoria – hanno, infatti, affermato la penale responsabilità sia dell’anestesista, per aver omesso la vigilanza nella fase post-operatoria, sia del chirurgo, per essersi affidato alla vigilanza (in realtà non effettuata) dell’anestesista senza controllarne il corretto operato34. In particolare, la Corte giustifica l’affermazione della responsabilità del chirurgo sottolineando che, nel caso concreto, questi non aveva delegato la vigilanza sulla fase di risveglio all’anestesista, mantenendo, quindi, egli stesso il dovere di seguire tale fase. Una simile conclusione appare, però, in contrasto con i principi di corretta ripartizione dei compiti e delle conseguenti responsabilità. Come poc’anzi evidenziato, infatti, la l. n. 653 del 1954 ha attribuito all’anestesista la diretta competenza sulle operazioni di anestesia, con la conseguenza che non può condividersi l’orientamento della Corte secondo la quale sarebbe necessaria una delega di volta in volta attribuita all’anestesista dal chirurgo, perché il primo esegua le verifiche relative all’anestesia. 8. Un caso particolare di responsabilità d’équipe: gli interventi di trapianto d’organi Le problematiche sin qui analizzate si arricchiscono di nuovi contenuti e di nuove sfaccettature con riferimento ad un’ipotesi molto particolare di intervento chirurgico: il trapianto di organi. La tematica è stata oggetto di una pronuncia della Corte di Cassazione – sottoposta a particolare riflessione anche da parte della dottrina per la singolarità delle questioni in essa affrontate – costituendo banco di prova per la verifica della tenuta dei principi, sin qui analizzati, rispetto ad un caso di intervento chirurgico che vede la partecipazione di una pluralità di specialisti che intervengono, sia contestualmente (si pensi all’équipe deputata ad efescludere la assoluta normalità del decorso operatorio, non può disinteressarsene, abbandonando il paziente alle sole cure dei suoi collaboratori, ma ha l’obbligo di non allontanarsi dal luogo di cura onde prevenire tali complicanze e tempestivamente avvertirle, attuare quelle cure e quegli interventi che una attenta diagnosi consigliano e, altresì, vigilare sull’operato dei collaboratori”. Per la responsabilità dell’anestesista nella fase del risveglio del paziente cfr. Cass. pen., sez. IV, 30 novembre 1992, n. 1213, Aniballi, cit.; Cass. pen., sez. IV, 21 maggio 2003, n. 22341, Marinari, in Dir. pen. proc., 2004, p. 53. 34 Cass. pen., sez. IV, 14 giungo 2000, n. 1410 inedita. 186 CAPITOLO QUINTO fettuare il trapianto), sia in tempi e luoghi differenti (l’espianto degli organi dal donatore precede la successiva procedura di trapianto e spesso avviene anche in luogo diverso)35. A chiusura dell’indagine concernente la divisione del lavoro in ambito sanitario sembra interessante, quindi, l’esame di questa sentenza che, a volte in modo più approfondito ed altre solo implicitamente, ha comunque affrontato tutte le tematiche oggetto della presente trattazione: posizioni di garanzia, successione di garanti, principio di affidamento, cooperazione colposa ed interruzione del nesso causale. La fattispecie sottoposta al vaglio dei giudici della Corte di Cassazione riguardava un’ipotesi di c.d. “morte da trapianto”, ovverosia del decesso di due pazienti a seguito di trapianto di reni provenienti da un donatore affetto da metastasi cancerose. La Corte, innanzitutto, individua alcune linee ricostruttive sulla base delle quali poi effettuare la valutazione delle singole posizioni dei sanitari intervenuti. I giudici ritengono opportuno, innanzitutto, ricostruire le posizioni di garanzia nel contesto della complessa procedura dei trapianti e l’ambito generale di operatività del principio di affidamento. In tal senso, evidenziano come la procedura dei trapianti d’organi si instauri attraverso “la sequenza di una serie di attività tecnico-scientifiche poste in essere da tutti i sanitari o gruppi di sanitari chiamati a svolgere i loro compiti in successione e sul presupposto di una o più precedenti attività svolte da altri e tutte finalizzate alla salvaguardia della salute del trapiantato, normalmente affetto da gravi mali o da gravi anomalie. Tutte le attività sono tra loro interdipendenti e debbono essere tra loro coordinate verso l’esito finale della guarigione del malato”. Ne consegue che le varie fasi che caratterizzano la procedura di trapianto non sono l’una autonoma rispetto all’altra, ma si integrano, concretando un apporto collaborativo interdisciplinare che, stante l’unicità del fine, può configurarsi come attività unica. La Corte riconosce, quindi, una posizione di protezione comune a tutti i sanitari che partecipano al trapianto d’organi, caratterizzata dal fatto di assumere tutti la tutela della salute del paziente trapiantato. Questa unitarietà del fine, ad avviso della Corte, rende la procedura dei trapianti equiparabile a quella svolta dalle équipes chirurgiche, nelle quali – affermano i giudici – “ogni sanitario oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, sarà anche astretto dagli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune unico. In virtù di tali obblighi ogni sanitario 35 Cass. pen., sez. IV, 25 febbraio 2000, n. 2325, Altieri ed altri, cit. Per i commenti alla sentenza cfr., A. VALLINI, Cooperazione e concause, cit.; A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 622. ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE 187 non potrà esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza ponendo, se del caso rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, e, come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio”. Orbene, l’affermata riconducibilità della procedura di trapianto alle tradizionali operazioni in équipe comporta l’applicazione, anche alla prima, dei canoni di distribuzione delle responsabilità predisposti per le seconde e la pronuncia della Corte, nonostante una formulazione non del tutto chiara, sembra, in effetti, non discostarsene. La prima asserzione, secondo la quale ogni sanitario non può esimersi dal verificare la condotta di quelli che lo hanno preceduto, viene, infatti, successivamente limitata alle ipotesi di errore riconoscibile, in quanto evidente e non settoriale. Se così è, la pronuncia sembra, seppure implicitamente, affermare la vigenza del principio di affidamento, il quale, tuttavia, trova un proprio limite logico nella riconoscibilità del fatto colposo del collega e nella conseguente insorgenza di un dovere di controllo. Detta ricostruzione, preliminarmente affermata in linea di principio, viene, peraltro, confermata nel momento in cui la Corte si sofferma, specificatamente, sulla posizione del chirurgo che ha effettuato l’espianto ed il successivo trapianto degli organi. Al chirurgo, che aveva materialmente eseguito l’intervento di espianto dei reni e del cuore (quest’ultimo su espressa richiesta dei cardiologi dell’ospedale che volevano esaminare una massa evidenziata dall’ecocardiogramma), veniva contestato di aver omesso di richiedere l’esame estemporaneo della insolita neoformazione cardiaca da lui stesso rilevata. I giudici, quindi, hanno ritenuto configurabile una responsabilità colposa a carico del chirurgo per aver fatto affidamento sulle informazioni fornite dai medici precedentemente intervenuti (ovverosia i due anestesisti rianimatori), nonostante, fossero emersi dati concreti, quali la diretta percezione della neoformazione cardiaca, che dovevano indurre a dubitare degli stessi36. Ulteriore e differente profilo di responsabilità colposa viene, invece, dalla Corte ravvisato a carico dei due medici anestesisti del reparto di rianimazione, ove era avvenuto il decesso del donatore, ai quali viene con36 Con riferimento alla posizione del chirurgo, la Corte sembra, tuttavia, cadere nel comune errore di trasformazione delle fattispecie commissive colpose in fattispecie omissive: il profilo di responsabilità viene, infatti, ravvisato nell’omessa diagnosi, mentre appare del tutto evidente che il chirurgo abbia realizzato una condotta attiva (l’effettuazione del trapianto) in violazione di una regola cautelare che vieta il trapianto di organi con gravi patologie, che è stata causa della morte del paziente. 188 CAPITOLO QUINTO testato di non aver diagnosticato – per imperizia consistita nel non aver effettuato una serie di indagini strumentali e di laboratorio, in presenza di dati anamnestici “sospetti” e di una riscontrata neoformazione cardiaca – la reale causa della morte della donatrice, erroneamente individuata in “edema cerebrale da sarcoidosi”, anziché in “metastasi cerebrali da melanoma”. A parere dei giudici, i due rianimatori erano portatori di una posizione di garanzia, in quanto i sanitari “che decidono di segnalare un paziente come potenziale donatore di organi si inseriscono a pieno titolo nella complessa procedura finalizzata al trapianto”: ne consegue, quindi, che su di essi incombe il dovere di accertare l’idoneità al trapianto degli organi del donatore e, nel caso di errore diagnostico circa la patologia mortale del donatore, essi saranno responsabili delle eventuali lesioni o della morte del ricevente, conseguenti a detto errore37. Infine, ultimo profilo di responsabilità viene individuato a carico del primario del reparto di nefrologia, ove era stati ricoverati i due pazienti dopo il trapianto, per aver omesso di espiantare tempestivamente i reni trapiantati e di sospendere la terapia immunodepressiva, dopo aver appreso, a distanza di tredici giorni dal trapianto, che nel cuore della donatrice era stata rilevata una metastasi da melanoma, con ciò contribuendo a causare la morte dei due trapiantati. Invero, l’imputazione formulata nei confronti del primario nefrologo, appare scevra di dubbi concretizzandosi in un “ordinario” caso di omissione di terapie dovute38. Maggiormente interessante è il profilo attinente alla richiesta da parte del nefrologo – che nel giudizio di merito aveva dichiarato di essersi trovato di fronte ad un caso per lui assolutamente nuovo rispetto alla sua esperienza professionale – di un parere ad un professore statunitense, tra le massime autorità scientifiche in materia, il quale aveva riconosciuto la serietà del problema ed aveva suggerito l’espianto e la sospensione della terapia immunodepressiva solo nel caso in cui si fossero rinvenute negli organi trapiantati cellule tumorali. Si tratta, quindi, di una tipica ipotesi in cui il medico, non dotato della sufficiente esperienza, richiede un consulto ad altro medico che, per età o competenza tecnica, è maggiormente perito. In questi casi, secondo quanto emerso dall’esame condotto in precedenza (v. supra cap. 37 Ancora una volta la Corte incorre nell’errore di conversione della fattispecie colposa in fattispecie omissiva: gli anestesisti hanno in realtà tenuto una condotta attiva consistita nella dichiarazione di trapiantabilità degli organi sulla base di un’errata diagnosi. Peraltro, l’affermazione di una responsabilità omissiva ha indotto i giudici a ricercare la sussistenza di una posizione di garanzia in capo ai due anestesisti che, invero, appare una forzatura non essendovi alcuna norma giuridica che ponga tra i doveri dell’anestesista (non avendone questi neppure la competenza tecnica) di controllare l’idoneità degli organi per il trapianto. 38 A. VALLINI, Cooperazione e concause, cit., p. 479. ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE 189 III § 3), la giurisprudenza ritiene che il parere fornito dal medico “esperto” non sia in alcun modo vincolante: il medico che chieda l’intervento di un collega specialista nella medesima disciplina, ma maggiormente esperto, non si libera per ciò da responsabilità in caso di errata diagnosi o terapia, in quanto è innegabile che egli, una volta ricevuti i necessari consigli tecnici, mantenga comunque una sfera di autonomia in ordine al trattamento da eseguire sul paziente. Questa tesi è confermata dalla Corte, la quale ritiene correttamente motivata la sentenza di merito nella parte in cui evidenzia come lo scienziato statunitense, che già non aveva ricevuto precisi e completi dati informativi, aveva nella sua risposta prospettato due diverse ipotesi astratte di carattere non risolutivo, ma puramente metodologico, che, come tali, lasciavano al nefrologo richiedente il consulto, “piena autonomia di valutare le indicazione ricavabili dal consulto e di pervenire, in considerazione di tutti i dati scientifici disponibili, alla conclusione di preferire nettamente, tra le opzioni possibili quella dell’espianto immediato degli organi, essendo elevata la probabilità della presenza di cellule tumorali negli organi trapiantati e troppo alto il rischio di trasferimento di queste ai riceventi”. Da ultimo, si segnalano gli interessanti spunti di riflessione che la sentenza ha posto in materia di successione di garanti e di interruzione del nesso causale. In particolare, con riferimento alla successione nella posizione di garanzia, la decisione, seppure in modo implicito, sembra porre in particolare evidenza l’importanza dell’adempimento degli obblighi di informazione: sul subentrante pende il dovere di controllare lo stato della situazione ereditata e sul cedente quello di esporre al neogarante le caratteristiche del bene protetto e le linee di gestione sino a quel momento seguite39. Sempre con riferimento a tale profilo, inoltre, la Cassazione sancisce l’irrilevanza della successione nel caso di trasmissione di attività inosservanti: il nesso di causalità tra la condotta inosservante del garante primario non è interrotto dalla successiva condotta del garante secondario, che non può essere considerata causa di per sé sufficiente a produrre l’evento ex art. 41, comma 2, c.p., salvo il caso in cui la condotta sopravvenuta dell’affidatario abbia eliminato o modificato le situazioni di pericolo create dal predecessore, in modo che non siano più a lui riconducibili. In forza di tali principi, pertanto, la Corte perviene all’affermazione di una responsabilità concorsuale dei partecipanti alla procedura, non ritenendo l’ultima condotta colposa del nefrologo da sola sufficiente a cagionare l’evento. 39 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 622. CAPITOLO SESTO RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE SOMMARIO: 1. Eventi lesivi conseguenti a carenze strutturali ed organizzative: quali responsabilità? – 2. Cenni sull’organizzazione delle strutture sanitarie e individuazione dei soggetti responsabili. – 3. La responsabilità degli amministratori delle strutture sanitarie per i reati di omicidio e lesioni colpose. – 4. Gli orientamenti della giurisprudenza. – 5. L’incidenza delle carenze strutturali sulla responsabilità del sanitario: a) il dirigente di struttura complessa. – 5.1. (Segue): b) altro personale medico. – 6. Dalla responsabilità del singolo a quella dell’ente: quali prospettive di applicazione del d.lgs. 231 del 2001 sulla responsabilità “amministrativa” delle persone giuridiche agli enti ospedalieri? – 7. Prospettive de jure condendo sulla responsabilità dell’ente ospedaliero per carenze strutturali ed organizzative. 1. Eventi lesivi conseguenti a carenze strutturali ed organizzative: quali responsabilità? A conclusione dell’indagine sin qui condotta, un dato sembra emergere in modo incontrovertibile: l’attività medica è oggi esercitata, con una netta divisione del lavoro, da parte di sanitari operanti nell’ambito di una struttura complessa. L’atto medico, quindi, si pone all’interno di un’organizzazione, alquanto variegata, che vede la partecipazione, con funzioni diverse, di numerose figure professionali. In tale organizzazione la divisione del lavoro non coinvolge soltanto gli aspetti più propriamente sanitari: accanto al personale medico e paramedico si collocano anche professionisti, che svolgono funzioni di natura prettamente amministrativa e contabile, le cui condotte, nondimeno, possono assumere un ruolo significativo nella catena causale che porta al verificarsi dell’evento lesivo ai danni del paziente1. La frammentazione delle attività ed il passaggio ad un tipo di responsabilità “allargata” costituisce il problema principale della responsabilità professionale medica, poiché si corre, da un lato, il rischio di incriminare operatori sanitari il cui intervento non ha alcun rapporto con 1 C. PARODI, V. NIZZA, La responsabilità, cit., p. 128. 192 CAPITOLO SESTO l’evento dannoso e, dall’altro, di non individuare un responsabile. Oggi, pertanto, nell’individuazione dei profili di responsabilità per un evento dannoso verificatosi all’interno di una struttura sanitaria, si deve tener conto, non solo del rapporto diretto medico-paziente, ma anche del complesso dei rapporti che, oltre a quello personale, s’istituiscono nel momento in cui un soggetto è destinatario di prestazioni mediche all’interno di una struttura sanitaria pubblica o privata2. L’errore medico rappresenta sovente l’evento terminale di una catena di fattori, per cui non necessariamente il sanitario è il solo responsabile o il maggior responsabile di detto evento, in quanto l’esito infausto o insoddisfacente del trattamento non sempre dipende da un difetto di diligenza, prudenza o perizia del medico, ma, talvolta, è la conseguenza di fattori esogeni ambientali riconducibili a deficit strutturali od organizzativi. Si tratta di casi in cui l’evento è il risultato della combinazione della condotta del sanitario e di condizioni latenti, ovvero di quelle condizioni, indipendenti dalla professionalità dell’operatore, frutto di decisioni assunte ad un livello superiore (da managers, autorità politiche, amministrative, di controllo), e tali da determinare inadeguatezza degli strumenti e delle apparecchiature, insufficiente manutenzione dei macchinari, carenza di formazione, assenza di personale per inadeguata organizzazione dei turni lavorativi3. Come evidenziato in dottrina, l’evento morte o lesioni del paziente per carenze strutturali può essere ricondotto a tre diverse situazioni4. Nella prima, l’esito infausto dell’intervento è determinato dalla mancanza o dal malfunzionamento, occasionale e temporaneo, di un’apparecchiatura o di altro presidio medicale, che sarebbero stati necessari per il trattamento di quel caso clinico (nella struttura, ad esempio, è presente l’apparrecchiatura per la dialisi, ma la stessa è momentaneamente non 2 C. PALMIERE, D.M. PICCHIONI, A. MOLINELLI, R. CELESTI, Carenza delle strutture sanitarie: a chi la responsabilità, in Difesa soc., 2004, p. 101. 3 In dottrina, per un esame di tali problematiche, v. A. ZANONE, Inidoneità delle strutture sanitarie e responsabilità professionale del medico, in Riv. it. med. leg., 1981, p. 3; C.F. GROSSO, Organizzazione dei serviz medici, cit., p. 33; F. DE FERRARI, Nuovi paradigmi per la responsabilità professionale degli operatori sanitari, in Dir. pen. proc., 1995, p. 1120; G. DE FALCO, Compiti e responsabilità del direttore sanitario delle case di cura private. Profili penali, in Cass. pen., 1997, p. 604; C. LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale degli amministratori di strutture sanitarie, in Riv. it. med. leg., 1998, p. 403; D. POTETTI, Individuazione del soggetto penalmente responsabile all’interno delle strutture complesse, con particolare considerazione per le strutture sanitarie, in Cass. pen., 2004, p. 2403; P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale per carenze strutturali e organizzative, in Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa, cit., p. 7; A ROIATI, Medicina difensiva, cit., p. 330 ss. 4 P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale, cit., p. 7 ss. RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 193 funzionante). Nella seconda ipotesi, invece, la carenza risulta stabile e duratura, tanto da caratterizzare il presidio ospedaliero, rendendolo “strutturalmente” inidoneo all’erogazione di determinate prestazioni (il nosocomio non è, per esempio, dotato delle apparecchiature necessarie e di sale operatorie attrezzate per interventi di cardiochirurgia). Infine, la carenza può essere di tipo organizzativo, laddove concerna la gestione del personale medico o infermieristico, nonché l’utilizzo delle strumentazioni e dei presidi presenti nella struttura (sempre a titolo esemplificativo, si può ipotizzare il caso dell’ospedale che, a seguito dell’organizzazione dei turni non è in grado di garantire la presenza di due medici durante la notte). Si tratta, quindi, di carenze non direttamente addebitabili al personale medico (salvi i già evidenziati profili di responsabilità del dirigente di struttura complessa per i difetti di organizzazione del reparto da lui diretto), ma riferibili ad omissioni o a precise scelte delle strutture sanitarie sui cui vertici dovrebbero, quindi, ricadere le responsabilità in caso di esiti infausti. Dinnanzi all’impossibilità de jure condito di configurare una responsabilità penale diretta delle strutture sanitarie – a differenza di quanto avviene sul piano civilistico ove le stesse sono astrette da un obbligo risarcitorio5 – la giurisprudenza (nelle, invero assai rare, pronunce in materia) procede ripartendo la responsabilità tra i medici e gli organi amministrativi, escludendo, peraltro, in linea generale, che le carenze strutturali ed organizzative possano fungere da causa di esclusione della colpevolezza per il medico. Si ripropongono, quindi, le note questioni relative all’individuazione dei soggetti responsabili e del riparto di competenze, al fine di identificare coloro che sono in grado, per la loro posizione e per i poteri ad essi attribuiti, di influire sui fattori e sulle funzioni di organizzazione dell’ente, e che sono dotati, quindi, di una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti6. Il riferimento corre, quindi, ai soggetti ex lege incaricati di gestire (sotto il profilo amministrativo, finanziario e organizzativo) la struttura sanitaria e dai quali possono dipendere le carenze strutturali e i difetti di organizzazione. Si tratta di una ricerca non sempre agevole, che richiede l’analisi, da un lato, della ripartizione interna delle funzioni 5 Con riferimento alla responsabilità civile delle strutture sanitarie, cfr. Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2000, n. 6318, in Mass. Giust. civ., 2000, p. 1030; Cass. civ., sez. II, 21 gennaio 2000, n. 632, in Giur. it., 2000, p. 1817; Cass. civ., sez. III, 21 dicembre 1978, in Mass. Giust. civ., 1978, p. 2566. 6 In tal senso, con riferimento in generale alle problematiche connesse al diritto penale di impresa A. ALESSANDRI, voce Impresa (responsabilità penale), in Dig. disc. pen., Torino, 1989, VI, p. 194. 194 CAPITOLO SESTO e delle competenze delle singole figure dirigenziali e, dall’altro, della problematica relativa al conferimento di eventuali deleghe di funzioni7. 2. Cenni sull’organizzazione delle strutture sanitarie e individuazione dei soggetti responsabili Come noto, il Servizio sanitario nazionale viene istituito con l. n. 883 del 1978 e successivamente riordinato con d.lgs. n. 502 del 1992 che, nel tentativo di contenere i costi della spesa sanitaria, ormai giunti a livelli inaccettabili, ha avviato un processo di trasformazione delle organizzazioni sanitarie pubbliche in aziende. Il d.lgs. n. 502 del 1992 è stato poi a sua volta modificato, dapprima, dal d.lgs. n. 517 del 1993 e, successivamente, dal d.lgs. n. 229 del 1999, il quale ha ulteriormente enfatizzato la struttura aziendalistica degli enti ospedalieri. La normativa oggi in vigore delinea, indubbiamente, un quadro organizzativo di estrema complessità, che prevede addirittura tre distinti livelli di intervento e controllo della sanità pubblica: nazionale, regionale ed aziendale. Con specifico riferimento alle unità sanitarie locali, esse sono state trasformate in aziende, pur sempre dipendenti dalla Regione, dotate di personalità giuridica pubblica e di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile e tecnica, a capo delle quali è posto il direttore generale, coadiuvato dal direttore amministrativo e dal direttore sanitario8. In particolare, al direttore generale, spettano, ai sensi dell’art. 3 d.lgs. n. 502 del 1992, tutti i poteri di gestione dell’azienda USL (di cui ha altresì la rappresentanza), tra i quali vanno annoverati i compiti di verificare che sia rispettata la corretta ed economica gestione delle risorse assegnate e di accertarsi dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa. A tal proposito, è giocoforza affermare che al direttore generale è attribuita una posizione di garanzia concernente l’adeguata ed economica gestione dell’ente e la correttezza dell’azione dello stesso, con conseguente dovere di intraprendere tutte le azioni necessarie e di predisporre adeguati controlli per impedire attività illecite all’interno della struttura, avvalendosi della collaborazione dei coadiutori ovvero sostituendosi ad essi, nel caso siano di diverso parere. In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza, la quale ha evidenziato come la normativa attribuisca al 7 Sull’esigenza, nell’ambito delle strutture complesse, di individuare i soggetti responsabili alla luce delle competenze proprie di ciascuno di essi e del ruolo rivestito all’interno della struttura, cfr. Cass. pen., sez. IV, 2 dicembre 2008, n. 1866, Toccafondi e altri, in Guida al dir., 2009, 11, p. 66. 8 C. LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale, cit., p. 409. RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 195 direttore generale una “funzione di alta amministrazione consistente nella elaborazione delle strategie dell’azienda USL”, e lo doti di tutti i poteri necessari per impedire la realizzazione di reati all’interno della struttura da lui diretta, riconoscendogli, quindi, una posizione di garanzia. Laddove, pertanto, il direttore generale venga meno all’adempimento degli obblighi giuridici su di lui incombenti potrà essere chiamato a rispondere, ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p., a titolo di concorso, con gli autori del fatto-reato9. La normativa prevede, altresì, che nell’esercizio delle proprie funzioni, il direttore generale sia coadiuvato dal direttore amministrativo e dal direttore sanitario da lui stesso nominati che, secondo quanto sancito dall’art. 3, comma 1 quinques, d.lgs. n. 502 del 1992, partecipano, unitamente al primo, che ne ha la responsabilità, alla direzione dell’azienda, assumendo diretta responsabilità delle funzioni attribuite alla loro competenza e concorrendo, con la formulazione di proposte e di pareri, alla formazione delle decisioni della direzione generale. Più specificatamente, il direttore amministrativo ha compiti dirigenziali in ordine alla gestione economica e giuridica dell’ente ospedaliero ed è, quindi, responsabile dell’organizzazione dei servizi e della predisposizione di strutture. Tra i dirigenti amministrativi, tuttavia, quello su cui ricadono i maggiori rischi di una responsabilità penale nell’attività di assistenza sanitaria è indubbiamente il direttore sanitario, al quale spetta il controllo delle condizioni igienico-sanitarie all’interno della struttura ospedaliera, la vigilanza del servizio farmaceutico e della qualità e conservazione degli alimenti, nonché, più in generale, la verifica, costante, della regolarità e dell’efficienza dell’assistenza agli infermi, che ricomprende anche il compito di distribuire e razionalizzare l’impiego del personale sanitario10. La ripartizione di compiti tra i dirigenti amministrativi delle strutture sanitarie è stata chiaramente enucleata in una pronuncia della Corte di Cassazione, in cui si afferma che “nelle strutture sanitarie pubbliche la figura del dirigente è facilmente identificabile, al livello più elevato, nei direttori sanitario ed amministrativo dell’azienda, direttamente scelti e nominati dal direttore generale, con il quale costituiscono la cosiddetta Alta direzione, con funzioni eminentemente gestionali e strategiche, secondo le 9 Cass. pen., sez. un., 19 giugno 1996, n. 16, Di Francesco, in Cass. pen., 1997, p. 360; Cass. pen., sez. III, 25 ottobre 2000, n. 3408, Leoni, in CED rv. 217998. In dottrina sull’assunzione di una posizione di garanzia da parte dei soggetti che hanno l’amministrazione della struttura sanitaria v. E. SBORRA, La posizione, cit., p. 120 ss.; R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 774. 10 In tal senso in giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 16 dicembre 2004, n. 7663, Giordano, in CED rv. 230823 196 CAPITOLO SESTO previsioni, non più attuali – in quanto superate da quelle dei c.d. decreti di riordino del d.P.R. n. 128 del 1969 (“Ordinamento interno dei Servizi Ospedalieri”). La differenziazione di base tra le dette Direzioni è – giusta la menzionata normativa – che la prima cura l’organizzazione tecnico sanitaria ed il buon andamento igienico sanitario dei servizi ospedalieri, mentre la seconda provvede alla gestione dell’ente ospedaliero sotto i profili giuridico ed economico. I menzionati decreti di riordino non hanno modificato tale impostazione, riconoscendo al direttore sanitario la direzione dei servizi sanitari ai fini organizzativi ed igienico sanitario, mentre a quello amministrativo la direzione dei servizi amministrativi dell’USL, ora Azienda”11. Come già in precedenza evidenziato (v. supra cap. I), l’accentuazione del carattere aziendale delle unità sanitarie ha comportato un incremento dei compiti prettamente organizzativi in capo al dirigente di struttura complessa che si affianca, quindi, agli organi amministrativi e, al pari di questi, può essere chiamato a rispondere di eventi avversi conseguenti a deficit di organizzazione del reparto da lui diretto. I livelli di controllo e di intervento non si esauriscono, in realtà, a livello aziendale, ma coinvolgono altresì competenze nazionali e regionali, anche se, come meglio si evidenzierà in seguito, raramente sarà configurabile una responsabilità a carico di amministratori regionali e centrali12. L’organizzazione e la dotazione tecnica delle strutture sanitarie risentono, infatti, innegabilmente, di scelte di natura eminentemente politica, assunte a livello nazionale o regionale, circa gli standards qualitativi e quantitativi delle prestazioni sanitarie rese ai cittadini13. Il problema di individuare i soggetti penalmente responsabili all’interno delle strutture sanitarie si pone anche con riferimento alle strutture private le quali, pur organizzate sulla falsariga di quelle pubbliche, presentano, nondimeno, alcune peculiarità. In particolare, il riferimento corre, ad esempio, al diverso atteggiarsi delle prerogative del direttore sanitario, rispetto al quale all’ampiezza dei compiti (simili peraltro a quelli del direttore sanitario di strutture pubbliche) non corrisponde, di norma, un concreto potere di intervento nella conduzione e programmazione dell’attività della casa di cura, rimanendo le scelte decisionali di fondo affidate ai titolari della clinica14. Nell’ambito delle strutture private l’indi11 Cass. civ., sez. III, 16 aprile 1999, Quarta, inedita. 12 C. LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale, cit., p. 411. 13 D. POTETTI, Individuazione del soggetto, cit., p. 2404. 14 G. DE FALCO, Compiti e responsabilità, cit., p. 604. Le funzioni del direttore sanitario delle strutture sanitarie private sono state individuate dapprima dall’art. 53 L. 12 febbraio 1968, n. 128 e, successivamente, confermate dall’art. 27 D.P.C.M. 27 giugno 1986. In giuri- RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 197 viduazione dei soggetti responsabili non potrà prescindere, quindi, dalla valutazione dell’organigramma e delle funzioni attribuite a ciascun dirigente. L’individuazione dei soggetti ex lege responsabili non è, però, di per sé sufficiente per l’imputazione “personale” del fatto di reato. Nell’ambito delle strutture complesse accade, non di rado, che i soggetti titolari della posizione di garanzia deleghino ad altri il compimento delle proprie funzioni. Il problema delle deleghe di obblighi penalmente rilevanti è stato oggetto di interessanti approfondimenti con specifico riferimento al diritto penale dell’impresa, ma i principi ivi espressi ben si attagliano anche rispetto ad un’organizzazione, quale quella sanitaria, caratterizzata, come evidenziato, da spiccati caratteri aziendalistici. Le questioni sottese alla delega di funzioni sono essenzialmente due e concernono, innanzitutto, l’ammissibilità della delega e, secondariamente, gli effetti della stessa. Orbene, per le strutture sanitarie, il problema si pone, in primo luogo, con riferimento alla possibilità per il direttore generale – ovvero colui il quale, collocato al vertice della struttura, è in via principale dotato di tutte le funzioni di gestione organizzativa, finanziaria ed amministrativa dell’ente – di delegare ad altri l’esercizio di alcune delle funzioni ad esso attribuite ex lege. La soluzione deve, indubbiamente, essere positiva, e non solo perché ormai dottrina e giurisprudenza riconoscono, in via generale, l’ammissibilità (ed anzi la necessità) della delega di funzioni nell’ambio di strutture caratterizzate da un’organizzazione complessa, ma altresì in forza di un’espressa previsione normativa. È stato lo stesso legislatore, infatti, che, nel disciplinare le funzioni del direttore generale, ha riconosciuto a quest’ultimo la facoltà di nominare un direttore sanitario ed un direttore amministrativo, a cui demandare le funzioni più squisitamente igienico-sanitarie ed ammnistrative (art. 3, d.lgs. n. 502 del 1992)15. Come detto, tuttavia, l’ammissibilità della delega di funzioni è un fatto ormai da tempo assodato, sia in dottrina che in giurisprudenza, tanto che le stesse, nel silenzio normativo, hanno provveduto ad elaborare (pur non senza contrasti) i presupposti ed i requisiti in presenza dei quali la delega possa essere ritenuta valida ed efficace. Nella pluralità di sprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 5 dicembre 2003, n. 4981, Ligresti, in Dir. prat. lav., 2004, p. 1919, in cui è stata riconosciuta la penale responsabilità dei due amministratori delegati per il reato di omicidio colposo ai danni di un infermiere e di alcuni pazienti della casa di cura a seguito di un incendio scoppiato in una camera iperbarica. La Corte, in particolare, ha riconosciuto in capo ai due amministratori la posizione di garanzia assimilabile a quelle del direttore generale dell’ASL. 15 In dottrina cfr. C. LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale, cit., p. 407. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. un., 19 giugno 1996, n. 16, Di Francesco, cit. 198 CAPITOLO SESTO elaborazioni susseguitesi nel tempo, oggi può dirsi che si è raggiunta una tendenziale uniformità sui requisiti della forma espressa della delega, dell’affidabilità e competenza tecnica del soggetto delegato, dell’attribuzione al delegato dei poteri necessari per poter esercitare le funzioni attribuitegli e dell’accettazione dell’incarico da parte di quest’ultimo16. Resta, però, da interrogarsi circa l’incidenza della delega sulla responsabilità del soggetto delegante e, quindi, in altri termini, se la dislocazione delle funzioni attribuite al soggetto per legge sia idonea ad escluderne qualsiasi forma di responsabilità o se, al contrario, sul titolare originario permanga un dovere di controllo e di vigilanza sull’operato del preposto. A tal riguardo, è dato rinvenire due orientamenti che fondano il proprio diverso convincimento sui differenti piani – oggettivo o soggettivo – di operatività della delega. Secondo una prima impostazione, che muove dal “principio dell’inderogabilità della posizione di garanzia”17, la delega non esclude la responsabilità del delegante, il quale “si libera solo dell’obbligo di una presenza diretta”, in quanto “l’obbligo del garante primario permane (…) ma muta di contenuto”, divenendo obbligo di vigilare ed intervenire laddove venga a conoscenza di qualunque violazione ancora suscettibile di essere impedita18. Tale prospettiva – che esclude la responsabilità solo sul piano soggettivo, qualora il delegante dimostri di aver correttamente adempiuto all’obbligo di vigilanza – è stata, tuttavia, oggetto di critica da parte di altro orientamento dottrinale che ha evidenziato come essa trascuri “che si danno circostanze concrete che impediscono che l’adempimento di un obbligo di vigilanza da parte del datore di lavoro, e che la possibilità oggettiva di osservare l’obbligo di condotta incide sulla stessa possibilità di configurare una condotta omissiva. A voler ritenere che il datore di lavoro sia sempre titolare di un obbligo di garanzia […] si corre purtroppo il rischio di fondare l’addebito sul mero possesso di una qualifica”19. Secondo quest’ultima ricostruzione, invero minoritaria, la delega sarebbe quindi idonea – già sul piano oggettivo – a liberare il garante originario20. 16 A. ALESSANDRI, voce Impresa, cit., p. 210; P. ALDROVANDI, Orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, cit., p. 703; C. PEDRAZZI, Profili problematici, cit., p. 125. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. IV, 24 settembre 2007, n. 47136, Macorig, in CED rv. 238350; Cass. pen., sez. IV, 6 febbraio 2007, n. 12794, Chirafisi, in CED rv. 236279. 17 D. PULITANÒ, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale nel diritto penale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1978, IV, p. 180. 18 C. PEDRAZZI, Profili problematici, cit., p. 139. Nello stesso senso cfr. G. GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 439. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. IV, 10 novembre 2005, n. 47363, Oberrauch, in CED rv. 233181. 19 G. FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 202. 20 A. FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1984, p. 229 ss. RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 199 Se così è anche nell’ambito delle strutture sanitarie, applicando il prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale, la delega conferita dal direttore generale ai propri coadiutori non libera il primo da un controllo sul corretto operato dei preposti. Questa conclusione appare, peraltro, confermata dal dettato normativo che, all’art. 3, comma 6, d.lgs. n. 502 del 1992, riconosce la persistenza delle funzioni delegate anche in capo al direttore generale, stabilendo che questi è tenuto a motivare i provvedimenti assunti in difformità dal parere espresso dal direttore sanitario e da quello amministrativo. La Corte di Cassazione ha ritenuto che tale previsione altro non significhi se non che “il direttore generale può prendere provvedimenti anche nelle materie affidate alla diretta responsabilità dei coadiutori”21: a riprova del fatto che il delegante non si libera della propria posizione di garanzia e delle funzioni ad esso attribuite dalla legge22. 3. La responsabilità degli amministratori delle strutture sanitarie per i reati di omicidio e lesioni colpose I soggetti responsabili delle strutture sanitarie possono, in ragione delle funzioni dagli stessi assunte, essere destinatari in via principale, o a seguito di delega, di precetti penali quali, ad esempio, quelli in materia di tutela ambientale (es. gestione e smaltimento dei rifiuti ospedalieri), di igiene e sicurezza sul lavoro. Nell’ambito della presente indagine, tuttavia, si pone al centro dell’attenzione l’eventuale responsabilità degli amministratori per i reati di omicidio e lesioni colposi verificatisi all’interno della struttura dagli stessi diretta a causa di carenze strutturali o di organizzazione. Laddove, quindi, l’evento morte o lesioni ai danni del paziente sia la conseguenza di tali carenze, si profila una responsabilità di natura concorsuale dei soggetti che hanno effettuato le scelte di tipo amministrativoorganizzativo tali da determinare dette carenze. La condotta dei dirigenti potrà concretizzarsi sia in un’azione, ove la carenza sia il frutto di errori decisionali o di cattiva gestione tecnica ed amministrativa, sia (più di sovente) in un’omissione, per la mancata adozione di tutti i provvedimenti necessari per il corretto funzionamento della struttura dagli stessi diretta. Per non andare incontro a responsabilità, pertanto, i direttori generali, amministrativi e sanitari devono adottare tutti i provvedimenti che, 21 Cass. pen., sez. un., 19 giugno 1996, n. 16, Di Francesco, cit. 22 In tal senso, seppure con riferimento alla responsabilità del direttore sanitario in materia di smaltimento dei rifiuti, cfr. Cass. pen., sez. III, 9 giugno 1994, n. 10155, Bencini e altro, in Giust. pen., 1995, II, p. 232. 200 CAPITOLO SESTO nell’esercizio delle loro funzioni, percepiscano, per conoscenza diretta o su segnalazione, come necessari per soddisfare le necessità tecniche ed organizzative della struttura sanitaria. L’obbligo di attivazione incombente sul dirigente può, come evidenziato, sorgere anche a seguito di segnalazione dell’insorgere di una situazione di rischio da parte del medico che dirige l’unità operativa, al quale fa capo il dovere di monitorare il regolare funzionamento delle strumentazioni e l’adeguatezza delle strutture per lo svolgimento dell’attività medica, ed il conseguente obbligo di segnalare tutti i casi di malfunzionamento, di vetustà o di disorganizzazione. D’altro canto, potrebbe accadere che, a causa delle limitate risorse finanziarie, i dirigenti ospedalieri non siano in grado di soddisfare le richieste di potenziamento, ammodernamento o riparazione delle strumentazioni ovvero di adeguamento dell’organizzazione: in tale evenienza non consegue, però, necessariamente l’esclusione della penale responsabilità dei funzionari amministrativi. Nella ripartizione e nell’impiego delle risorse finanziarie, infatti, i dirigenti devono rispettare le priorità caratterizzate da necessità ed urgenza, con la conseguenza che eventuali alterazioni di questa regola potranno essere fonte di responsabilità degli stessi. Sarà, pertanto, configurabile una responsabilità a carico degli amministratori (ed in particolare del direttore generale, su cui ricade l’obbligo di una corretta gestione finanziaria) nel caso in cui non siano utilizzati capitoli di bilancio per soddisfare richieste caratterizzate da necessità ed urgenza, dirottando le risorse su altri capitoli23. La situazione muta, invece, se la carenza di risorse finanziarie sia da attribuire a scelte “politiche” assunte a livello nazionale o regionale. In tal caso, non è penalmente responsabile l’organo amministrativo ospedaliero che, avendo fatto quanto di sua spettanza per dar corso alle richieste inoltrate, si trovi, tuttavia, nell’impossibilità finanziaria di provvedervi. Orbene, se la dottrina è concorde nel ritenere che in questa circostanza sia da escludersi la responsabilità degli organi apicali aziendali; diverse sono, tuttavia, le ragioni poste a fondamento di tale esclusione. Secondo il prevalente orientamento, la responsabilità deve essere esclusa, ai sensi dell’art. 45 c.p., per carenza di suitas, visto il ricorrere di una causa di forza maggiore24. Per altro filone dottrinale, a cui si ritiene di aderire, invece, nel predetto caso, l’azione doverosa (astrattamente idonea ad impedire 23 C.F. GROSSO, Organizzazione dei servizi medici, cit., p. 34; D. POTETTI, Individuazione del soggetto, cit., p. 2404 ss. 24 C. LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale, cit., p. 408; D. POTETTI, Individuazione del soggetto, cit., p. 2405. RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 201 l’evento) non sarebbe, in concreto esigibile, in quanto il garante non è oggettivamente in grado di porre in essere l’intervento impeditivo. Ne conseguirebbe, quindi, la non punibilità dell’inerzia in quanto atipica: il reato omissivo viene meno proprio perché trova il suo limite logico nell’impossibilità materiale di adempiere all’obbligo giuridico25. Nei casi di inadeguatezza della struttura sanitaria conseguente a carenza di risorse finanziarie potrebbe, nondimeno, residuare una responsabilità degli organi politici nazionali – Ministro o Sottosegretario competenti, nonché dirigenti ministeriali – ovvero regionali – segnatamente l’Assessore alla Sanità – laddove detta carenza sia da addebitarsi a scelte di natura politica26. È innegabile, infatti, che l’esercizio delle competenze attribuite alle Regioni ed al Ministero della Sanità possa incidere fortemente sull’efficienza finanziaria e gestionale delle aziende ospedaliere. Le Regioni, infatti, sono competenti ad adottare norme che regolino la gestione economica, patrimoniale e finanziaria delle Aziende Sanitarie, nonché a programmare l’attività di assistenza e di cura attraverso l’emanazione, in attuazione delle disposizioni del Piano sanitario nazionale e del Piano sanitario regionale. Dal canto suo, il Ministero della Sanità, oltre ai compiti di programmazione relativi all’emanazione del Piano sanitario nazionale, ha competenze decisivi in materia di monitoraggio e vigilanza sulla qualità e sicurezza dell’erogazione delle prestazioni sanitarie27. In definitiva, quindi, può configurarsi una responsabilità colposa omissiva degli organi politici nel caso in cui le scelte di natura politica di contenimento della spesa sanitaria abbiano determinato gravi carenze organizzative o strutturali dell’azienda ospedaliera, tali da causare l’evento mortale o lesivo ai danni del paziente. In particolare, sono riconducibili a detta situazione l’assenza di mezzi terapeutici complessi (ad esempio TAC o RMN), l’eccessiva riduzione di posti letto, gravi carenze di personale a causa della mancata autorizzazione all’assunzione, obsolescenza delle attrezzature, mentre saranno generalmente responsabili i soli dirigenti della struttura nel caso di carenze strutturali circoscritte e di poco conto (es. assenza di farmaci, garze, strumenti operatori)28. Secondo un diverso orientamento dottrinale, invece, la responsabilità degli organi politici andrebbe circoscritta ai soli casi in cui non siano 25 In 26 C. tal senso P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale, cit., p. 27. LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale, cit., p. 411; P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale, cit., p. 28 27 P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale, cit., p. 28, nota 61. 28 A. DE DONNO, A. LOPEZ, V. SANTORO, P. DE DONNO, F. INTRONA, La responsabilità penale degli organi apicali delle strutture sanitarie, in Riv. it. med. leg., 2007, p. 631; P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale, cit., p. 29. 202 CAPITOLO SESTO stati utilizzati capitoli di bilancio già destinati a coprire determinate spese per l’innovazione e il miglioramento delle strutture. Non vi sarebbe, al contrario, alcuna responsabilità penale degli organi politici qualora le decisioni di spesa rientrino nell’ambito di scelte politiche in base alle quali sia stata decisa una diversa ragionevole destinazione delle somme29. D’altro canto, autorevole dottrina ha evidenziato che, mentre non vi sono difficoltà nel riconoscere la responsabilità dei dirigenti dell’azienda sanitaria, in quanto nelle loro scelte esercitano una discrezionalità tutto sommato tecnica, rispetto alla quale sono individuabili regole di buona amministrazione delle risorse disponibili per fronteggiare le necessità sanitarie sulla base dell’esperienza, ben più complessa è, invece, la questione riguardante gli organi politici. Questi ultimi, infatti, sono titolari di una discrezionalità eminentemente politica, le cui regole di esercizio sono difficilmente individuabili in modo così stringente da fondare una colpa penalmente rilevante. Nondimeno la possibilità di configurare una responsabilità di tali organi non può essere esclusa in radice, in quanto se è pur vero che gli stessi hanno il potere di stabilire discrezionalmente l’ordine di priorità degli obiettivi da perseguire, non c’è dubbio, però, che tale discrezionalità non possa spingersi sino a sovvertire la gerarchia dei valori costituzionali, nell’ambito dei quali la salute occupa un posto apicale. Se, quindi, il bilanciamento di interessi pubblici è certamente discrezionale, non altrettanto può, invece, dirsi con riguardo al capovolgimento del loro ordine di valore, anche se non è facile individuare la linea di confine tra i due fenomeni30. 4. Gli orientamenti della giurisprudenza In giurisprudenza, l’affermazione della penale responsabilità dei funzionari amministrativi stenta ancora ad affermarsi e, quindi, sono sporadiche le sentenze in cui è stata riconosciuta l’attribuibilità a direttori generali, amministrativi e sanitari di eventi lesivi ai danni del paziente conseguenti a carenze strutturali. Nello scarno panorama giurisprudenziale, si può ricordare una pronuncia della Corte di Cassazione in cui, secondo i giudici, va ascritta, a titolo di colpa, al direttore amministrativo di una struttura ospedaliera la morte di un paziente a seguito di un intervento chirurgico, nel caso in cui questi non abbia predisposto un’organizzazione almeno sufficiente, e tale comunque da rendere possibile 29 D. POTETTI, Individuazione del soggetto, cit., 2404. 30 F. PALAZZO, Responsabilità medica, cit., p. 1065 ss. RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 203 quel minimo di assistenza notturna post-operatoria che tutti gli interventi in anestesia impongono31. I giudici di legittimità hanno ritenuto che tra le competenze del direttore amministrativo rientri la pianificazione dei turni di lavoro all’interno della struttura ospedaliera, con la conseguenza che, in forza della posizione di garanzia gravante sullo stesso, egli potrà essere chiamato a rispondere per aver omesso di organizzare adeguatamente la struttura, in modo da garantire un’adeguata cura dei pazienti, ove si accerti che l’evento morte o lesioni è stata conseguenza di tale condotta. Con una recente sentenza, inoltre, la Corte di Cassazione si è soffermata sui profili di responsabilità del direttore generale in un caso di omicidio colposo ai danni di un paziente ricoverato presso la struttura ospedaliera dallo stesso diretta, a seguito di black out del reparto e conseguente interruzione per 25-30 minuti del funzionamento dell’impianto di drenaggio toracico che doveva evitare il riformarsi di pneumotorace. Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, il black out si verificò in occasione della sostituzione di un gruppo elettrogeno da sottoporre ad opere di manutenzione, durante la quale mancò la corrente, appunto per 25-30 minuti. La Suprema Corte, investita della questione a seguito di ricorso dell’imputato, ha sancito alcuni principi interessanti in ordine alla posizione di garanzia del dirigente ed alla sua responsabilità, in caso di delega di funzioni, rilevando che “esattamente la sentenza impugnata ha individuato nel d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (che, come del resto riconoscono i ricorrenti, all’art. 3 attribuisce al direttore generale dell’U.S.L. – ora A.S.L. – i poteri di gestione e di controllo) la fonte normativa della attribuzione a ciascuno degli imputati della posizione di garanzia da cui discende l’obbligo di evitare l’evento”. Per poter stabilire se sussiste responsabilità in capo al direttore generale, tuttavia, è necessario verificare se tra i poteri, e i correlati doveri di gestione, rientri anche quello di occuparsi dell’impianto elettrico degli ospedali di competenza dell’U.S.L., tenuto anche conto della delegabilità di alcuni aspetti gestionali. A tal proposito, evidenziano i giudici di legittimità, “sull’argomento la sentenza impugnata coerentemente evidenzia da una parte la macroscopicità dei difetti dell’impianto, e dall’altro l’esistenza di plurime segnalazioni rivolte al direttore generale dal servizio tecnico interno e dagli organi di controllo esterni all’ospedale perché venissero attivate (e questo è evidentemente compito del direttore generale) le procedure necessarie per mettere a norma l’impianto anche sotto il profilo della copertura finanziaria. In31 Cass. pen., sez. IV, 20 settembre 1995, n. 10093, Gazzara, in Cass. pen., 1996, p. 908. 204 CAPITOLO SESTO somma, osserva questa Corte, se per aspetti circoscritti di malfunzionamento dell’impianto elettrico rimediabili dal settore tecnico deve ritenersi che, assieme alla delega del relativo settore la posizione di garanzia si trasferisca dal direttore generale al delegato, così non è nel caso contrario, quando l’impianto presenti macroscopici difetti o carenze e la situazione sia stata dal delegato adeguatamente segnalata al delegante”32. La qualifica di direttore generale (nonché di direttore amministrativo o sanitario) non può quindi essere di per sé sufficiente ai fini dell’affermazione di responsabilità, ma presupposto insuperabile per tale affermazione è che la condotta omessa rientri fra quelle di competenza dell’amministratore e che non vi sia delega di funzioni. In tale ultimo caso, peraltro, la delega non esclude per ciò solo la responsabilità del delegante, laddove il malfunzionamento dell’apparecchiatura o la carenza strutturale sia macroscopica e l’amministratore ne fosse, comunque, a conoscenza. Sempre in applicazione di detti principi, la Suprema Corte ha affermato la responsabilità in concorso del direttore generale, del direttore sanitario e del primario di un reparto di ostetricia e ginecologia per avere causato la morte di un neonato per ipertermia conseguente al malfunzionamento dell’incubatrice nella quale era stata posizionata la vittima. In particolare, i profili di colpa del direttore generale e del direttore sanitario vengono ravvisati nell’aver deciso e deliberato il mutamento del sistema di manutenzione dell’apparecchiatura da periodico a quello, meno sicuro, “a chiamata”33. Infine, con riferimento alle competenze del direttore sanitario, la Corte di Cassazione ne ha, in una recente sentenza, affermato la penale responsabilità per la mancata predisposizione di adeguati presidi di personale sanitario per interventi di urgenza all’interno di una camera iperbarica. La Corte ha rilevato che il direttore sanitario assume una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti, avendo di conseguenza “il potere e il dovere di porre in essere tutti gli accorgimenti idonei ad assicurare un rapido intervento”34. 32 Cass. 33 Cass. pen., sez. IV, 6 ottobre 2005, n. 1147, N., in D&G, 2006, p. 70. pen., sez. IV, 5 dicembre 2007, n. 1553, Spinosa ed altri, in Foro it., 2008, 10, c. 517. 34 Cass. pen., sez. IV, 14 novembre 2005, n. 5959, S.N., inedita. Con riguardo alla responsabilità del direttore sanitario di una casa di cura, ritenuto responsabile dell’omicidio colposo di una paziente avvenuto a causa dell’imperizia del personale medico, per non aver disposto il trasferimento della paziente in nosocomio più attrezzato nonostante fosse a conoscenza della situazione e dell’inadeguatezza della struttura a gestire in modo opportuno l’emergenza, v. Cass. pen., sez. IV, 17 gennaio 2012, n. 142, in Riv. it. med. leg., 2012, p. 1256. RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 5. 205 L’incidenza delle carenze strutturali ed organizzative sulla responsabilità del sanitario: a) il dirigente di struttura complessa Le scelte amministrative finiscono, inevitabilmente, per ripercuotersi sul sanitario e sulla sua capacità di conformarsi agli standards di diligenza35. Questi ultimi – formalizzati in regole cautelari prasseologiche o scritte – non di rado differiscono dalla realt fattuale in cui il medico si trova concretamente ad operare tanto che, già alcuni anni addietro, autorevole dottrina evidenziava che “anche la responsabilità del medico sottostà al limite del ad impossibilia nemo tenetur, nel senso che da lui poteva pretendersi, nei sui confronti era esigibile un comportamento corretto. Il problema sta diventando di sempre più bruciante attualità per una delle non poche contraddizioni del nostro Paese nella presente epoca: all’astratto progredire della scienza medica e alle nostre astratte o velleitarie aspirazioni ad una medicina altamente qualificata, di livello nordeuropeo, fanno spesso da riscontro, in concreto, strutture sanitarie di tipo arretrato o terzomondista, dovute anche alle attuali carenze economiche e alle priorità riservate ai consumi individuali rispetto ai servizi sociali”36. L’Autore proseguiva osservando che è pur vero che non si può chiedere al medico di chiudere i reparti non rispondenti ai requisiti di legge o della miglior scienza del momento storico, tuttavia, allo stesso modo, la sua responsabilità non può essere valutata sulla base di parametri ottimali, non rispondenti alla realtà sanitaria del momento in cui si trova ad operare il sanitario. Ne consegue, pertanto, che “a meno che non si possano riscontrare colpevoli omissioni del medico nel sollecitare gli interventi (economici, ecc.) della Pubblica Amministrazione competente, la colpa medica dovrà essere rapportata alla reale struttura sanitaria in cui il singolo medico concretamente opera”37. Una reale ed effettiva individualizzazione dell’addebito colposo non può, quindi, prescindere da una valutazione delle carenze strutturali od organizzative quali possibili scusanti per il sanitario non conformatosi alla regola di cautela38. Si pensi, ad esempio, al caso del medico speciali35 Il fenomeno degli esiti infausti di interventi diagnostici o terapeutici, conseguenti a carenze strutturali ed organizzative è in continua espansione. In uno studio di alcuni anni orsono si individuava una percentuale del 33% di casi di esiti infausti connessi a carenze strutturali. Cfr. F. INTRONA, Responsabilità professionale medica e gestone del rischio, in Riv. it. med. leg., 2007, p. 641. 36 F. MANTOVANI, La responsabilità del medico, cit., 1980, p. 21. 37 F. MANTOVANI, La responsabilità del medico, cit., p. 22. 38 Un sistema penale che ambisca alla massima personalizzazione della responsabilità colposa “si sforza di ritagliare il metro della condotta colposa sulle condizioni dell’agente”. In tal senso V. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, cit., p. 195. 206 CAPITOLO SESTO sta in cardiologia che non possa effettuare un intervento per aneurisma dell’aorta per carenza nell’ospedale di sale operatorie con le strumentazioni necessaire (quale ad esempio la macchina per la circolazione extracorporea), cagionando in tal modo la morte del paziente. O al medico oculista che esegua un intervento agli occhi utilizzando un’apparecchiatura laser vetusta e malfunzionante, così cagionando una lesione al paziente. O, infine, a un medico che sia sottoposto a turni estenuanti, a seguito della riduzione del personale, il quale a causa della stanchezza, erri nell’esecuzione dell’intervento. Sono tutti casi in cui l’evento avverso non è strettamente connesso (o quantomeno non lo è in via esclusiva) ad un errore diagnostico o terapeutico da parte del sanitario, ma che, piuttosto è la conseguenza, più o meno diretta, di quelle che prima abbiamo indicato come condizioni latenti ambientali.Tuttavia, se è pur vero che i deficit strutturali ed organizzativi possono escludere la penale responsabilità, non può però procedersi con una generalizzazione, essendo, comunque, sempre necessario verificare se, nonostante la carenza, dal medico potesse pretendersi il rispetto di regole di cautela e se, quindi, sia possibile muovere nei suoi confronti un rimprovero colposo. Detto giudizio deve, innanzitutto, tenere conto del ruolo rivestito dal medico all’interno della struttura, e, conseguentemente, di quali poteri egli sia effettivamente dotato con riguardo alla gestione dei predetti deficit. Più pregnanti sono, infatti, i doveri a livello organizzativo del sanitario con incarico di direzione rispetto all’altro personale medico, e conseguentemente, salvo si tratti di carenze strutturali riconducibili in via esclusiva a scelte degli organi amministrativi, o, addirittura politici, su cui il primario non ha alcun potere di intervento (es. impossibilità di ricoverare il paziente per riduzione dei posti letto a seguito di “tagli” economici), egli ha il preciso dovere di attivarsi per la risoluzione della situazione (es. segnalando il malfunzionamento del macchinario e chiedendone la sostituzione o riparazione, nonché vietandone l’uso all’interno del suo reparto)39. In questi termini è orientata la giurisprudenza, secondo la quale la posizione di garanzia del medico si sostanzia non solo nella protezione della salute del paziente, ma, altresì, nel controllo sulla funzionalità ed efficienza degli impianti presenti nella struttura. Sulla scorta di detto principio è stata riconosciuta la responsabilità del primario per omicidio colposo ai danni di una paziente deceduta al termine di un intervento chi39 C.F. GROSSO, Organizzazione dei servizi medici, cit., p. 33; C. PALMIERE, D.M. PICA. MOLINELLI, R. CELESTI, Carenza delle strutture sanitarie, cit., p. 104 ss.; P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale per carenze strutturali ed organizzative, cit., p. 17. CHIONI, RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 207 rurgico, a causa della somministrazione di protossido d’azoto, anziché di ossigeno, conseguente all’inversione, nel corso di lavori di manutenzione, dei tubi di derivazione afferenti alla sala operatoria – hanno rilevato che quando “all’interno di un ospedale siano stati eseguiti lavori sull’impianto di erogazione dei gas medicinali e di anestesia afferenti ad una sala operatoria40. La giurisprudenza (per vero alquanto restia a valorizzare i profili individualizzanti dell’addebito colposo) non sembra, però, tenere conto di due aspetti. Da un lato, che per potersi attivare, il medico deve, innanzitutto, essere in grado di riconoscere la situazione di rischio (ad es. saper individuare il malfunzionamento di un’apparecchiatura) e, dall’altro che, ove lo stesso, per la specifica situazione, non sia dotato di autonomo potere decisionale, la sua condotta è necessariamente influenzata dalle scelte di altri organi. Con riferimento al primo aspetto, non si può non valutare che il sanitario (pur se dirigente di struttura) può non avere le necessarie competenze tecniche per rilevare il malfunzionamento di un’apparecchiatura o per verificare se la stessa, a seguito di interventi di personale specializzato, funzioni correttamente. Si pensi al guasto di un macchinario che già solo per il funzionamentorichieda la presenza di personale altamente qualificato (ingegneri, biotecnologi, ecc.), unico in grado di effettuare complessi settaggi del tutto sconosciuti al medico. Come potrebbe, quindi, pretendersi da questi non solo la rilevazione del malfunzionamento, ma anche la verifica della correttezza del lavoro effettuato dai tecnici? La pretesa di adeguamento alla regola precauzionale non può evi40 Cass. pen., sez. IV, 11 gennaio 1995, n. 4385, Bassetti e altro, in Giust. pen., II, p. 248 ove si afferma che “quando all’interno di un ospedale siano stati eseguiti lavori sull’impianto di erogazione dei gas medicinali e di anestesia afferenti ad una sala operatoria, l’obbligo di verificarne il corretto funzionamento, al fine di garantire che la ripresa dell’attività chirurgica avvenga senza pericolo per i pazienti in dipendenza dei lavori eseguiti, spetta non solo al responsabile tecnico-amministrativo della struttura sanitaria e ai soggetti ai quali è demandata la materiale esecuzione dei lavori, ma anche al primario ospedaliero responsabile del reparto di anestesia”. Più di recente v. Cass. pen., sez. IV, 5 dicembre 2007, n. 1553, Spinosa ed altri, cit., nella quale si afferma che tra i compiti del primario vi è quello di assicurare l’efficiente regolare gestione delle attrezzature sanitarie, e di conseguenza viene dichiarata la sua penale responsabilità per aver tollerato che nel proprio reparto fosse utilizzato un sistema inidoneo (nella fattispecie un’incubatrice non conforme alla normativa CE e non adeguatamente manutenzionata) che creava condizioni di pericolo per i pazienti. Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Milano, sez. IV penale, 13 ottobre 1999, in Foro Ambrosiano, 2000, p. 301, che ha condannato per il rogo dell’ospedale Galeazzi anche il primario per non aver vigilato sul perfetto funzionamento della camera iperbarica e sugli strumenti di sicurezza destinati a prevenire e scongiurare incendi. In dottrina cfr. F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 32; R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 770. 208 CAPITOLO SESTO dentemente essere la stessa nei confronti del medico e del tecnico manutentore. L’assenza della necessaria competenza per individuare il malfunzionamento, ma anche l’eventuale affidamento riposto nelle verifiche effettuate dal personale specializzato devono obbligatoriamente fungere da parametri di valutazione della colposità della condotta del medico, se non si vuole degradare verso forme di responsabilità oggettiva o di posizione. Come già si è avuto modo di evidenziare, peraltro, vi sono situazioni in cui il dirigente di struttura complessa non può far altro che segnalare il deficit, non avendo poi, non solo la competenza tecnica, ma anche quella amministrativa-contabile, per risolverlo. Ci si interroga su quale condotta debba tenere il sanitario nel periodo intercorrente tra la segnalazione ai competenti organi e l’intervento volto alla rimozione della situazione di rischio (legata, ad esempio, all’indisponibilità dell’apparecchiatura per guasto). La risposta più semplice ed immediata sarebbe quella di affermare che nelle more dell’intervento il sanitario deve compiere tutte quelle condotte necessarie per supplire alla carenza del macchinario, predisponendo, quindi, ove possibile, piani diagnostici o terapeutici che non ne contemplino l’uso (invitando, ad esempio, il personale a ricorrere ad altre metodiche altrettanto efficaci), o vietando l’uso dell’apparecchiatura (se la stessa, pur funzionante, può recare danno ai pazienti a causa del difetto), o ancora, disponendo il trasferimento dei pazienti. Vi sono situazioni in cui, però, il medico si trova a dover bilanciare due opposte esigenze: da un lato, la tutela della salute del paziente, che potrebbe essere messa in grave pericolo a causa dell’utilizzo di attrezzature malfunzionanti, e, dall’altro, l’esigenza di non interrompere il servizio e di eseguire interventi diagnostici o terapeutici, magari urgenti. In quest’ultimo caso il rischio per la vita o la salute del paziente, connesso, ad esempio, all’utilizzo del macchinario difettoso, potrebbe essere inferiore rispetto a quello derivante dal mancato intervento. Pertanto, ove ricorra una situazione di urgenza terapeutica e di impossibilità ad attuare scelte alternative, deve ritenersi che l’utilizzo dell’apparecchiatura, anche se difettosa, da cui siano conseguiti eventi lesivi ai danni del paziente non possa essere rimprovarato al medico. La peculiarità della situazione concreta, in un caso di tal fatta, non consente, infatti, al medico di adeguarsi alla regola, che imporrebbe il non utilizzo dell’apparecchiatura e l’attivazione di differenti percorsi terapeutici o diagnositici, con conseguente esclusione della colpevolezza colposa41. 41 C.F. GROSSO, Organizzazione dei servizi medici, cit., p. 33, secondo il quale il comportamento del medico dovrebbe essere giustificato versando in una situazione di stato di necessità. RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 209 5.1. (Segue): b) altro personale medico Al di fuori dello specifico dovere incombente sul primario di fornire la segnalazione di ogni carenza del reparto o malfunzionamento di attrezzature, nonché di indirizzare il paziente presso strutture più idonee, restano da analizzare i possibili profili di responsabilità penale di un qualsiasi sanitario che si trovi ad operare in un ente ospedaliero con evidenti carenze organizzative e strumentali, ma decida, nondimeno, di eseguire l’intervento. In tali casi, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, laddove l’intervento abbia esito infausto, sarà configurabile una responsabilità colposa del medico, concorrente ex art. 113 c.p., con quella del direttore sanitario della struttura. Il medico che si avveda dell’inidoneità della struttura o della mancanza degli strumenti e dei presidi necessari per l’esecuzione dell’intervento deve, infatti, astenersi dal prestare la propria opera, informando adeguatamente il paziente delle carenze esistenti e disponendone, se del caso, il trasferimento ad altro reparto o ad altra struttura42. Con specifico riferimento all’obbligo giuridico incombente sul medico di disporre il trasferimento del paziente, è intervenuta anche la Corte di Cassazione, la quale – pronunciandosi in ordine ad una fattispecie di omicidio colposo commesso ai danni di una partoriente, deceduta a causa della mancanza di strumentazioni e presidi necessari per far fronte ad una copiosa emorragia, verificatasi al termine del parto – ha osservato che “in tema di colpa professionale, il medico, qualora la struttura sanitaria di ricovero risulti inidonea, o sfornita dei mezzi e dei presidi necessari ad affrontare e risolvere la specifica patologia di cui il paziente sia portatore, anche in relazione a probabili complicanze prevedibili nella singolarità del caso, ha il dovere giuridico di disporre il trasferimento del paziente in altra struttura idonea, adottando tutte le opportune cautele”43. Con riferimento al caso di specie, i giudici di legittimità evidenziano che il medico ben conosceva 42 D. POTETTI, Individuazione del soggetto, cit., p. 2407; C. PALMIERE, D.M. PICCHIONI, A. MOLINELLI, R. CELESTI, Carenza delle strutture sanitarie, cit., p. 105. 43 Cass. pen., sez. IV, 9 febbraio 2000, n. 272, De Donno ed altro, in Cass. pen., 2002, p. 226. Nello stesso senso più di recente v. anche Cass. pen., sez. IV, 25 settembre 2007, n. 44765, inedita; Cass. pen., sez. IV, 5 dicembre 2007, n. 1533, Spinosa ed altri, cit. La Corte di Cassazione, seppure in ambito civile, ha riconosciuto la responsabilità del medico per omessa informazione della paziente circa l’inadeguatezza della struttura. Cfr. Cass. civ., sez. III, 28 gennaio 2000, n. 6318, Valli ed altri, in D&G, 2000, 20, p. 14 (“la circostanza che manca nella legislazione italiana uno standard di riferimento degli strumenti, di cui una struttura sanitaria pubblica deve necessariamente disporre, non esime il medico responsabile della cura dei pazienti dal dovere di informarli circa la possibile inadeguatezza della struttura per indisponibilità anche solo momentanea di strumenti essenziali per una corretta terapia o un’adeguata prevenzione di possibili complicazioni”). 210 CAPITOLO SESTO le “miserrime condizioni nelle quali versava la struttura ospedaliera” nella quale da tempo lavorava, e quindi doveva prospettarsi la sostanziale impossibilità di far fronte ad una emergenza di perdita di sangue. La Corte ritiene che il sanitario, quale titolare di una posizione di garanzia, abbia il preciso dovere di prendere cognizione e valutare attentamente la condizione clinico-patologica del paziente e predisporre quanto necessario per affrontarla e positivamente risolverla; un dovere che si spinge sino ad imporre al medico di provvedere al trasferimento del paziente che non possa essere adeguatamente curato all’interno della struttura ovvero ad informare lo stesso di tale inadeguatezza. L’eventuale decisione del sanitario di intervenire nonostante la carenza strutturale configura, secondo i giudici, una responsabilità colposa in caso di esito infausto, essendo configurabile una colpa per assunzione. Nella ricostruzione giurisprudenziale, quindi, la colpa per assunzione sarebbe ravvisabile non solo nel caso in cui il sanitario non sia stato in grado di valutare la propria competenza professionale (eseguendo un intervento senza le dovute capacità tecniche), ma anche nel caso in cui abbia realizzato l’atto diagnostico o terapeutico in una struttura di cui conosceva (o poteva conoscere) l’inadeguatezza e l’inefficienza. Il prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale esclude, peraltro, che l’eventuale consenso del paziente ad essere sottoposto all’intevento, nonostante sia stato adeguatamente informato della carenza, abbia efficacia scriminante ex art. 50 c.p. Si è, infatti, evidenziato che l’attività medica trova il proprio fondamento di liceità, in quanto attività giuridicamente autorizzata, nell’art. 51 c.p., a condizione che ricorrano tutti i requisiti di legittimità posti dall’ordinamento, tra i quali, in particolare, vi è quello dell’idoneità del luogo ove eseguire l’intervento44. Nel caso di medico il quale si avveda della carenza della struttura e, nondimeno, in ragione della sua posizione di garanzia debba fornire le cure, non può certo parlarsi di obbligo di astensione. Egli, al contrario, avendo l’obbligo di attivarsi per salvare la vita del paziente, potrà esonerarsi da responsabilità solo agendo diligentemente, in modo da impedire l’evento, e non, invece, eccependo l’inidoneità della struttura45. In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione, la quale ha affermato che le carenze strutturali non possono escludere la responsabilità colposa del medico quando egli possa porre in essere condotte alternative46. Dovrà, vice44 F. MANTOVANI, La responsabilità del medico, cit., p. 19; P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale per carenze strutturali e organizzative, cit., p. 10 ss. 45 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 113. 46 Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2010, n. 3365, Leone, cit. Nel caso di specie i giudici hanno affermato la penale responsabilità di due anestesisti, per non aver praticato, pur in pre- RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 211 versa ritenersi esclusa la responsabilità quando il medico si sia trovato nell’impossibilità di agire diversamente (non potendosi, ad esempio, procedere a trasferimento per carenza di posti in altre strutture o versandosi in una situazione di emergenza tale da imporre un intervento immediato). Il riconoscimento della sussistenza di un dovere in capo al medico di adottare condotte alternative (e della possibilità concreta di attuarle) non è, però, sufficiente per l’addebito colposo, essendo, comunque necessaria la verifica circa l’efficacia della condotta alternativa. Si ipotizzi il caso del medico ginecologo che non esegua sulla paziente un esame ecografico, per assenza del macchinario nella struttura, non invitandola ad effettuarlo in altro ambulatorio, così non rilevando una sofferenza del feto da cui consegua la morte. Morte che, tuttavia, con accertamento ex post, si verifica sarebbe avvenuta comunque, non essendo il difetto del feto riscontrabile neppure con esame ecografico. In tale evenienza, deve escludersi la responsabilità colposa, in quanto, se pur vero che in astratto la regola di cautela avrebbe imposto al medico, consapevole dell’assenza del macchinario, di inviare la paziente in altra struttura, nondimeno, in concreto, la condotta prescritta non si sarebbe rivelata idonea ad espletare la sua funzione precauzionale evitando la verificazione dell’evento. Si è già avuto modo di anticipare che anche le carenze di natura più strettamente organizzativa (concernenti, ad esempio, i turni di lavoro, il numero dei medici presenti in reparto, le liste d’attesa per gli esami, ecc.) possono incidere sulla capacità del medico di conformarsi alla regola di cautela. Quale rimprovero potrebbe essere mosso al medico nel caso in cui abbia disposto l’esecuzione di un esame sul paziente, di fatto eseguito a distanza di mesi (con conseguente avanzamento della patologia e successivo decesso) a causa delle lunghe liste d’attesa? O come dovrebbe comportarsi il medico sottoposto a turni di lavoro estenuanti che si trovi, in condizioni di particolare stanchezza, a dover effetture un delicato intervento? Con riguardo al primo caso, anche ove si accerti che la tempestiva esecuzione dell’accertamento avrebbe avuto esito salvifico per il paziente, nondimeno, non è possibile muovere un rimprovero colposo al sanitario, in quanto il ritardo non è imputabile a sua negligenza, ma a deficit di organizzazione della struttura nella quale lavora e sui quali non ha potere di intervento. Ove si accerti che il medico ha rispettato le regole senza di evidenti carenze strutturali, un’opzione alternativa, in quanto “anche in assenza di un reparto di rianimazione ed otorinolaringoiatrico nonché dello specialista otorino, gli odierni ricorrenti, per effettuare l’intubazione o la tracheotomia, avrebbero potuto (e, a ben vedere, dovuto) servirsi delle attrezzature del reparto di terapia intensiva cardiologica”. 212 CAPITOLO SESTO cautelari, individuando correttamente la diagnosi e gli esami da intraprendere, nonché informando il paziente sull’urgenza dell’esame e sull’opportunità di rivolgersi ad altre strutture (ove disponibili) per superare il problema della lunghezza delle liste d’attesa, non sembra possibile muovere alcun rimprovero colposo nei suoi confronti. Più delicata, invece, appare la situazione del medico che, operando in condizioni di estrema stanchezza, erri nell’esecuzione dell’intervento cagionando la morte del paziente. L’evento anche in questo caso, risulterebbe essere la diretta conseguenza della condotta del medico che, in effetti, ha errato nell’esecuzione dell’intervento violando le leges artis. Non ci si può esimere, però, dal valutare se, ed in che misura, la stanchezza abbia avuto incidenza sulla determinazione dell’errore e se sia idonea ad escludere la rimproverabilità soggettiva. Semplicistica appare la soluzione del problema attraverso l’individuazione di un dovere di astensione da parte del sanitario: colui che valuti la propria momentanea incapacità dovrebbe astenersi dal prestare l’attività, in quanto in caso contrario dovrebbe rispondere dell’evento verificatosi. Non sempre, infatti, in concreto il medico è libero di effettuare una scelta di astenersi dal prestare l’attività, in quanto ciò potrebbe rivelarsi dannoso per lo stesso sul piano lavorativo o comportare gravi pericoli per il paziente. Il mancato rispetto delle direttive sui turni e sul riparto di carichi di lavoro impartiti dai superiori potrebbe avere ripercussioni sul rapporto di lavoro e comportare l’adozione di provvedimenti disciplinari. D’altro canto, l’astensione del medico dall’attività lavorativa potrebbe determinare un’interruzione del servizio, ove la carenza dell’attività lavorativa potrebbe determinare un’interruzione del servizio, ove la carenza di personale impedisca ad altri di eseguire l’intervento, con grave nocumento per il paziente. Di per sé, quindi, la stanchezza non può fungere da causa di esclusione della colpevolezza, ma questo non può esimere il giudice dal valutare le situazioni concrete in cui il sanitario si è trovato a svolgere il suo compito. Tali situazioni, infatti, possono, come visto, aver precluso altre valide alternative lasciando al medico quale unica scelta quella di intervenire. 6. Dalla responsabilità del singolo a quella dell’ente: quali prospettive di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità “amministrativa” delle persone giuridiche agli enti ospedalieri? Le evidenziate difficoltà nell’attribuzione del fatto in caso di carenze strutturali ed organizzative e la constatazione che sovente queste ultime RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 213 non dipendono da autentiche negligenze dei soggetti coinvolti, ma, piuttosto, da interessi di natura gestionale ed economica dell’ente, hanno indotto gli studiosi a proporre l’introduzione di sanzioni a carico dell’ente ospedaliero. Il dibattito, inizialmente arenatosi di fronte all’imperante dogma del societas delinquere non potest 47, si è rinvigorito nel 2001, a seguito dell’introduzione di una riforma legislativa, dai più considerata, epocale. Risale, infatti, a quell’anno l’entrata in vigore del d.lgs. 8 giugno, n. 231, intitolato “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”, in forza del quale le persone giuridiche possono essere chiamate a rispondere, innanzi al giudice penale, di fatti di reato (tassativamente elencati nel provvedimento legislativo) commessi nel loro esclusivo interesse dai loro rappresentanti. Già all’indomani dell’entrata in vigore della nuova normativa il dibattito si è incentrato sulla natura giuridica della responsabilità configurata dal d.lgs. n. 231 del 2001. Se è vero, infatti, che si tratta di responsabilità che consegue alla commissione di fatti di reato e che è accertata dal giudice penale, essa, nondimeno, è qualificata come “amministrativa” dal legislatore ed al suo accertamento consegue l’irrogazione di sanzioni parimenti qualificate come “amministrative”48. Oscillante tra le differenti soluzioni della qualificazione della responsabilità come penale ovvero amministrativa ovvero di natura mista, il dibattito esprime oggi un orientamento prevalente a favore della prima soluzione49. Nonostante la svolta epocale e il costante ampliamento, nel corso degli anni, del catalogo dei reati presupposto, questa nuova forma di re47 S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 294 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 114 ss. In generale con riferimento alle problematiche connesse alla configurabilità della responsabilità delle persone giuridiche, v. F. BRICOLA, Il costo del principio «societas delinquere non potest» nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in Riv. dir. proc. pen., 1970, pp. 951 ss.; A. ALESSANDRI, Reati d’impresa e modelli sanzionatori, Milano, 1984; G. INSOLERA, Nozione di responsabilità individuale e collettiva, in Indice pen., 1996, p. 259 ss. 48 Si è anche parlato di un tertium genus di responsabilità che coniugherebbe i tratti essenziali del diritto amministrativo e del diritto penale. Per la natura della responsabilità cfr. G. AMARELLI, Profili pratici della questione sulla natura giuridica della responsabilità degli enti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 151 ss.; V. MAIELLO, La natura (formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale) della responsabilità degli enti nel d.lgs. n. 231 del 2001: una «truffa delle etichette» davvero innocua?, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 879 ss. 49 R. GUERRINI, La responsabilità da reato degli enti, sanzioni e loro natura, Milano, 2006, p. 30 ss.; C.E. PALIERO, Dieci anni di “corporate liability” nel sistema penale italiano: il paradigma imputativo ell’evoluzione della legislazione e della prassi, in Le Società, Gli Speciali: d.lgs. 231: dieci anni di esperienze nella legislazione e nella prassi, 2011, p. 15 ss. 214 CAPITOLO SESTO sponsabilità continua, tuttora, a non essere applicabile alle strutture sanitarie. Due sono i limiti contenuti nel d.lgs. n. 231 del 2001 che ostano all’applicazione di tale normativa anche alle strutture sanitarie per eventuali reati di omicidio o lesioni colpose conseguenti a carenze strutturali. Da un lato, la previsione dell’art. 1, che esclude espressamente dall’ambito di applicazione del decreto “lo Stato, gli enti pubblici non economici, nonché gli altri enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”, dall’altro l’assenza dei predetti fatti delittuosi dal catalogo dei reati presupposto. Sotto il primo profilo, secondo il prevalente orientamento interpretativo, non sembrano esservi dubbi circa la riferibilità dell’esclusione prevista dall’art. 1 alle strutture sanitarie (quantomeno quelle pubbliche) le quali sono qualificabili come enti pubblici non economici. Il problema dell’estensione dell’ambito di applicazione della disciplina del d.lgs. n. 231 del 2001 anche alle aziende ospedaliere era già sorto in sede di predisposizione del decreto. La relazione ministeriale, infatti, evidenzia che la legge delega 29 settembre 2000, n. 300, all’art. 11, comma 2, prevedeva l’esclusione dall’ambito di applicazione della nuova normativa degli “enti pubblici che esercitano pubblici poteri”. Tale formulazione precludeva, quindi, senz’altro la riferibilità dell’impianto normativo agli enti pubblici territoriali (Regioni, Province, Comuni) che, indubbiamente, esercitano pubblici poteri, mentre dovevano ritenersi assoggettati alla nuova forma di responsabilità gli enti pubblici eroganti un pubblico servizio, ma privi di pubblici poteri, quali le scuole e le Università pubbliche, ma, soprattutto, le Aziende Ospedaliere. La locuzione originariamente prevista dalla legge delega, però, è stata oggetto di parziale modifica in sede di approvazione del decreto legislativo, il cui art. 1 contempla, come detto, l’esclusione degli “enti pubblici non economici e degli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”. La differenza lessicale non è, invero, di poco conto, dal momento che le due nozioni di enti pubblici non economici e di enti pubblici che esercitano pubblici poteri non sono pienamente sovrapponibili. Secondo la prevalente dottrina, la differente formulazione avrebbe comportato quale principale effetto l’esclusione delle Aziende sanitarie locali ed ospedaliere dall’ambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001, in quanto le stesse non possono essere ricondotte al novero degli enti pubblici economici50. Non tutte le caratteristiche delle aziende sanitarie, in50 Sulla natura giuridica delle Aziende sanitarie locali ed ospedaliere e sulla impossibilità di qualificarle quali enti pubblici economici v. A. ROSSI, Responsabilità “penale amministrativa” delle persone giuridiche (Profili sostanziali), in A. ROSSI (a cura di), Reati societari, Torino, 2005, p. 518; R. LOTTINI, Responsabilità delle persone giuridiche, in F.C. PALAZZO, RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 215 fatti, coincidono con quelle proprie degli enti pubblici economici, tanto che, se è pur vero che esse si pongono, al pari di questi ultimi, obiettivi di efficienza, di pareggio di bilancio, di economicità, nondimeno, non sempre agiscono con atti di diritto privato e sono inserite nel mercato in regime di concorrenza51. La questione, invero, non risulta di lineare soluzione ove si consideri l’impronta fortemente aziendalistica impressa alle Unità sanitarie con la riforma del 1999. D’altro canto, non mancano arresti giurisprudenziali, soprattutto nell’ambito della giustizia amministrativa (e, quindi, non specificamente riferiti alla problematica dell’ambito di applicazione del d.lgs. 231 del 2001), che espressamente qualificano le Aziende sanitarie quali enti pubblici economici52. La questione dell’applicabilità del d.lgs. n. 231 del 2001 agli enti ospedalieri in un’occasione è stata affrontata anche dalla Corte di Cassazione. L’ente oggetto del giudizio, tuttavia, aveva la peculiarità di essere costituito in forma di s.p.a. e di essere partecipato, al 49%, da capitale privato e, al 51%, da capitale pubblico. Proprio tale peculiarità ha indotto i giudici di legittimità a ritenere che l’ente, oltre ad essere pubblico (in quanto la titolarità era riconducibile al 51% alla soggettività pubblica), avesse natura economica, essendo il requisito dell’economicità sempre insito nelle società di capitali che vengono costituite per lo svolgimento di attività economica al fine di dividerne gli utili. D’altro canto, sempre nella ricostruzione della Corte, lo svolgimento di attività d’impresa volta al perseguimento di un utile economico porta ad escludere che l’ente ospedaliero sia riconducibile alla categoria degli enti che svolgono “funzioni di rilievo costituzionale”53. Le persistenti difficoltà connesse alla distinzione tra enti pubblici ed enti privati e tra enti pubblici economici e non si riverberano (come era C.E. PALIERO (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, 2007, p. 2285. Per un esame delle questioni connesse all’applicazione del d.lgs. 231 del 2001 alle Aziende sanitarie v. A. ROIATI Medicina difensiva, cit., p. 358 ss. 51 A. ROSSI, Responsabilità “penale amministrativa”, cit., p. 521, la quale osserva che questi enti, pur svolgendo un’attività con parziale rilevanza economica, non esercitano però un’attività esclusivamente economica, in quanto l’interesse principale perseguito non è quello di lucro ma, piuttosto, quello pubblico di tutela della salute. In tal senso v. E. FIDELBO, Enti pubblici e responsabilità da reato, in Cass. pen., 2010, p. 484 che evidenzia che la Asl si pone sul mercato al pari di qualsiasi altro soggetto, ma tale presenza “non determina imperativamente l’obbligo di ricavare profitti dall’attività d’impresa, con i quali remunerare il capitale” essendo tali aziende, piuttosto, assoggettate ad un “vincolo di equilibrio tra costi e ricavi”. 52 Cons. Stato, sez. V, 14 dicembre 2004, n. 5924, in Ragiusan, 2005, p. 251/252, p. 375; TAR Toscana, sez. II, 17 settembre 2003, n. 5101, in Ragiusan, 2004, p. 79. 53 Cass. pen., sez. II, 21 luglio 2010, n. 28699, in Cass. pen., 2011, p. 1888 e ss., con nota critica di O. DI GIOVINE. In senso critico v. anche A. ROIATI, Medicina difensiva, cit., p. 362 ss. 216 CAPITOLO SESTO prevedibile) anche sulla delimitazione dell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001, e rendono difficile, ad oggi, fornire una univoca soluzione circa l’estendibilità della sua portata alle Aziende sanitarie pubbliche. Nessun dubbio, invece, circa l’assoggettamento alla responsabilità ex d.lgs. 231 del 2001 degli enti ospedalieri privati, i quali svolgono funzioni di interesse pubblico perseguendo uno scopo di natura eminentemente economica, finalizzata al perseguimento ed alla successiva ripartizione degli utili54. L’applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001 alle Aziende sanitarie per i reati di omicidio o lesioni colposi conseguenti a carenze strutturali ed organizzative risulta ostacolata anche dall’assenza di tali fattispecie dal catalogo dei reati presupposto contemplati negli artt. 24 e ss. che, come noto, sono gli unici a legittimare l’irrogazione delle sanzioni previste dal decreto. Il catalogo è stato, invero, via via implementato nel corso degli anni, fino a ricomprendere, con l’introduzione dell’art. 25 septies (ad opera dell’art. 9 l. 3 agosto 2007, n. 123, poi successivamente modificato dall’art. 300 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81), anche le ipotesi di reato di omicidio e lesioni colposi che, tuttavia, sono rimaste limitate ai casi di “violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro”. Non si può, d’altronde, dimenticare che l’introduzione di fattispecie colpose d’evento nella struttura del d.lgs. n. 231 del 2001 ha suscitato non poche critiche, a causa della difficile armonizzazione tra l’elemento psicologico della colpa ed il criterio di imputazione di cui all’art. 5 del decreto, il quale prevede che l’ente sia responsabile per i “reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio”. All’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 25 septies i commentatori avevano, a più riprese, messo in evidenza come fosse una contraddizione in termini immaginare, con riferimento all’interesse, che un fatto illecito, non voluto dall’autore, si possa dire commesso nell’interesse di qualcun altro55, e, con rifermento al vantaggio, che l’evento lesivo ad un lavoratore costituisca un vantaggio per l’ente (basti pensare alle conseguenze negative quali l’obbligo risarcitorio, il danno di immagine, la paralisi della produzione, ecc.)56. 54 Nello stesso senso v. A. ROIATI, Medicina difensiva, cit., p. 365. 55 A. ALESSANDRI, Reati colposi e modelli di organizzazione e gestione, in N. ABRIANI, G. MEO, G. PRESTI (a cura di), Società e modello «231»: ma che colpa abbiamo noi? In Analisi Giuridica dell’Economia, 2009, p. 342. 56 T. VITARELLI, Infortuni sul lavoro e responsabilità degli enti: un difficile equilibrio normativo, in Riv. it. dir. proc. pena., 2009, p. 703 s.; S. DOVERE, Osservazioni in tema di attribuzioni all’ente collettivo dei reati previsi dall’art. 25 septies del d.lgs. 231/2001, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2008, p. 317; G. DE SIMONE, Persone giuridiche e responsabilità da reato, profili storici, dogmatici e comparratistici, Pisa, 2012, p. 388; G. AMARELLI, I criteri oggettivi di ascrizione del reato all’ente collettivo ed i reati in materia di sicurezza sul lavoro. Dalla teorica incompatibilità alla forzata convivenza, in www.penalecontemporaneo.it, 19 aprile 2013, p. 11 s. RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 217 Seppure in dottrina57 e giurisprudenza58 non siano mancate voci che, facendo perno sulla volontà storica del legislatore59, hanno affermato la compatibilità dei reati colposi con il criterio di imputazione ex art. 5, l’orientamento prevalente è stato, tuttavia, nel senso di ritenere difficile il raccordo tra essi60. Cionondimeno l’esigenza di evitare la sostanziale inoperatività dell’art. 25 septies e, quindi, la sua interpretatio abrogans ha portato a proporre alcuni correttivi interpretativi che, seppure attraverso percorsi argomentativi differenti, si risolvono nel senso di riferire l’“interesse o il vantaggio” non già al reato nel suo complesso, ma, piuttosto, alla condotta inosservante di regole cautelari61. Come si diceva, tuttavia, diverso è il percorso logico-argomentativo seguito per pervenire a detta conclusione. I sostenitori della tesi della “ricostruzione oggettiva” (largamente prevalente in dottrina) ritengono, infatti, che tale locuzione rappresenti, in realtà, un’endiadi che sottende un criterio unitario di imputazione. Il criterio dell’interesse dell’ente sarebbe, in sostanza, l’unico parametro rilevante per l’ascrizione della responsabilità all’ente, mentre il vantaggio costituirebbe solo una mera eventualità che potrà anche in concreto realizzarsi, ma dal cui accertamento non può automaticamente desumersi la responsabilità dell’ente62. 57 T.E. EPIDENDIO, G. PIFFER, Criteri di imputazione del reato all’ente: nuove prospettive interpretative, in Resp. amm. soc. ed enti, 2008, 3, p. 17. 58 Trib. Torino, II Corte di Assise, 15 aprile 2011, Espenhahn e altri, in www.penalecontemporaneo.it. 59 A tal riguardo si è evidenziato che già la legge delega n. 300 del 2000 (all’art. 11 comma 1, lett. c) contemplava l’introduzione di reati colposi e non prevedeva, per essi, diversi criteri di imputazione: segno, quest’ultimo, del fatto che lo stesso legislatore riteneva perfettamente compatibili i delitti colposi con il parametro dell’“interesse o vantaggio dell’ente”. 60 Nel senso che il decreto fosse originariamente volto a disciplinare la responsabilità per i soli reati dolosi e che, quindi, il mancato raccordo tra illeciti colposi e criteri di imputazione ex art. 5 costituisse una “svista originaria” v. A. GARGANI, Delitti colposi commessi con violazione delle norme sulla tutela della sicurezza sul lavoro: responsabile “per definizione” la persona giuridica?, in M. BERTOLINO, G. FORTI, L. EUSEBI (a cura di), Studi in onore di M. Romano, vol. III, Napoli, 2011, p. 1955; C.E. PALIERO, Dieci anni di “corporate liability” nel sistema italiano: il paradigma imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi, in AA.VV., D.lgs. 231: dieci anni di esperienze nella legislazione e nella prassi, in Soc., 2011, n. spec., p. 12. 61 Cfr. D. PULITANÒ, La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri di imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 426. In giurisprudenza v. Trib. Trani, sez. distaccata di Molfetta, 11 gennaio 2010, Truck Center e altri, in Dir. pen. e proc., 2010, p. 845; Trib. Novara, 1 ottobre 2010, in www.penalecontemporaneo.it; Trib. Pinerolo, 23 settembre 2010, in www.penalecontemporaneo.it, p. 10; Trib. Torino, II, Corte di Assise, 15 aprile 2011, Espenhahn e altri, cit.; Trib. Tolmezzo, 23 gennaio 2012 (3 febbraio 2012), in www.penalecontemporaneo.it. 62 In questo senso v. D. PULITANÒ, La responsabilità, cit., p. 424; G. COCCO, L’illecito degli enti dipendente da reato ed il ruolo dei modelli di prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 90; G. DE VERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2008, p. 218 CAPITOLO SESTO Differenti vedute si riscontrano, tuttavia, anche i≤n seno a tale indirizzo ermeneutico con riguardo alla nozione di “interesse”. Secondo una prima ricostruzione, esso rappresenterebbe una qualità intrinseca della condotta, denotandone l’attitudine a produrre un beneficio per l’ente e, come tale, sarebbe privo di implicazioni psichiche63. In quest’ottica, l’interesse rappresenterebbe un criterio relazionale che esprime un collegamento tra la condotta inosservante posta in essere dalla persona fisica e le ricadute (anche solo potenziali, essendo espresse in termini di “attitudine della condotta”) in favore dell’ente, di cui il vantaggio ex post effettivamente prodottosi rappresenterebbe un indice probatorio processuale. Secondo i sostenitori di questa ricostruzione, la predetta locuzione sarebbe, quindi, perfettamente compatibile con i delitti colposi, essendo priva di una connotazione psichica. Secondo una differente prospettiva, invece, il criterio dell’interesse esprime l’esigenza che il reato sia realizzato nell’ambito di attività (di per sé lecite) esercitate per l’ente64. In tal caso, l’interesse perde qualsiasi connotazione relazionale e diviene un “mero indice di ambientamento della condotta”, in quanto non è necessario che la condotta delittuosa presenti una oggettiva attitudine al conseguimento di un beneficio per l’ente, ma è sufficiente che la condotta risulti contestualizzata nell’espletamento delle funzioni65. Il criterio di imputazione dell’art. 5, quindi, sarebbe compatibile anche con i reati colposi, essendo riferito non già alla condotta in sé considerata, ma, piuttosto, al contesto in cui la stessa si inserisce66. Nettamente prevalente in giurisprudenza, e accolto da una parte minoritaria della dottrina, è, invece, l’indirizzo – che sembrerebbe fatto proprio anche dalla Relazione governativa – secondo cui l’interesse ed il vantaggio non rappresenterebbero una semplice endiadi, ma, piuttosto, due criteri alternativi67. In particolare, l’interesse rappresenterebbe la fi158 ss.; G. DE SIMONE, La responsabilità da reato degli enti nel sistema sanzionatorio italiano, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, p. 657. 63 R. GUERRINI, Le modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in F. GIUNTA, D. MICHELETTI (a cura di), Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, 2010, p. 146. 64 O. DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in G. LATTANZI (a cura di), Reati e responsabilità degli enti, guida al d.lgs. 231/2001, Milano, 2010, p. 74; G. DE VERO, La responsabilità penale, cit., p. 279 s. 65 In questo senso A. GARGANI, Delitti colposi, cit., 2011, p. 1949. 66 G. DE SIMONE, Persone giuridiche, cit., p. 387. 67 C. SANTORIELLO, Violazioni delle norme antinfortunistiche e reati commessi nell’interesse o a vantaggio della società, in Resp. amm. soc. enti, 2008, n. 1, p. 165; G. AMATO, Osservazioni sulla rilevanza del vantaggio per l’ente e sulla “quantificazione” di tale vantaggio nella responsabilità amministrativa da reato colposo, in Resp. amm. soc. enti, 2013, p. 186; S. DO- RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 219 nalizzazione della condotta del reo verso l’arricchimento dell’ente e richiederebbe, quindi, un accertamento ex ante, mentre il vantaggio esprimerebbe un concetto di tipo oggettivo, ossia il conseguimento di un’utilità o un vantaggio effettivamente perseguito dall’ente (anche se non originariamente previsto dall’agente), e deve essere accertato ex post 68. Per i sostenitori di questa tesi la locuzione in esame sarebbe comunque compatibile anche con i reati colposi, ma il criterio dell’interesse potrebbe trovare operatività solo per le ipotesi di colpa cosciente, in quanto nella colpa incosciente (per la quale, quindi, entrerebbe in gioco il diverso criterio del vantaggio) manca la consapevolezza della violazione della regola cautelare e, quindi, non può certamente aversi una finalizzazione della condotta69. Seppure apprezzabili, i tentativi di “salvare” il dettato normativo, rendendo tra loro compatibili gli illeciti colposi ed il criterio di imputazione dell’art. 5, sembrano, però, forzare troppo l’interpretazione, giungendo, sostanzialmente, ad un’analogia in malam partem. È innegabile, infatti, che nell’art. 5 il criterio dell’interesse o vantaggio sia riferito al reato nel suo complesso e, pare, quindi, difficile, giungere a restringerne la portata, per via interpretativa, alla sola condotta70. 7. Prospettive de jure condendo sulla responsabilità dell’ente ospedaliero per carenze strutturali ed organizzative La previsione di una responsabilità diretta ed esclusiva dell’ente per gli eventi lesivi conseguenti a carenze strutturali ed organizzative permetterebbe di risolvere le problematiche attinenti all’individuazione dei soggetti responsabili ed all’imputazione dei fatti criminosi, ma, come visto, la vigente normativa, attualmente, non consente tale affermazione di responsabilità. Superate le resistenze interpretative alla configurabilità di una responsabilità per fatti di reato in capo alle persone giuridiche, grazie all’introduzione, ormai già da un quindicennio, del d.lgs. 231, non sembrano sussistere ostacoli di ordine tecnico-dommatico né ad una VERE, La responsabilità da reato dell’ente collettivo e la sicurezza sul lavoro: un’innovazione a rischio di ineffettività, in Resp. amm. soc. enti, 2008, p. 97. 68 In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, Jolly Mediterraneo, in Foro it., 2006, II, c. 329 ss.; Cass. pen., sez. II, 17 marzo 2009, n. 13678, in CED rv. 244253. 69 C. SANTORIELLO, Violazioni, cit., p. 171 ss. 70 G. AMARELLI, Morti sul lavoro: arriva la prima condanna per le società, in Dir. pen. proc., 2010, p. 848 ss.; S. DOVERE, Osservazioni, cit., p. 334; P. ALDROVANDI, La responsabilità amministrativa degli enti per i reati in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro alla luce del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in Ind. pen., 2009, p. 501 s. 220 CAPITOLO SESTO estensione di tale disciplina normativa agli enti ospedalieri (naturalmente con le opportune modifiche), né all’introduzione di una normativa ad hoc. Alcune delle obiezioni sollevate in dottrina circa la possibile previsione di una responsabilità delle strutture ospedaliere appaiono, invero, superabili. Tra queste, in particolare, quella relativa alla tipologia di sanzioni contemplate dal d.lgs. 231 del 2001, secondo cui l’applicazione all’ente delle sanzioni pecuniarie e interdittive previste da detta normativa si risolverebbe più in un danno che in un vantaggio per la comunità: il costo della sanzione pecuniaria, infatti, ricadrebbe sulla cittadinanza, mentre un provvedimento di interdizione o di sospensione dall’esercizio dell’attività priverebbe gli abitanti del luogo in cui è situato l’ente ospedaliero di un presidio medico71. L’argomentazione, invero, non appare del tutto convincente, quanto meno per le sanzioni interdittive, in relazione alle quali l’art. 15 d.lgs. 231 del 2001 prevede la possibilità per il giudice di procedere, in luogo dell’applicazione della sanzione interdittiva, alla nomina di un commissario giudiziale che prosegua l’attività dell’ente in tutti i casi in cui quest’ultimo svolga un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità la cui interruzione possa provocare un grave pregiudizio alla collettività72. D’altro canto, può effettivamente ritenersi che la presenza sul territorio di un ente ospedaliero che evidenzi (per scelte di natura politica od economica) gravi carenze strutturali od organizzative rappresenti un effettivo vantaggio per la cittadinanza che a quel servizio debba avere accesso per prossimità territoriale? Sommessamente si ritiene che – al di là della nomina del commissario giudiziale – si potrebbe prevedere l’interdizione, ove possibile, dall’esercizio di singole attività diagnostiche o terapeutiche alle quali siano collegate le carenze strutturali od organizzative: es., se la struttura ospedaliera è priva di adeguati strumenti per monitorare la salute del feto durante il parto e da tale carenza siano conseguite lesioni o morte per il feto o per la partoriente, si potrebbe inibire la prosecuzione della sola attività del c.d. “punto nascita” di quell’ospedale. In tal caso, la durata del periodo di interdizione (ovvero di sospensione) potrebbe essere collegata all’adozione da parte degli organi di rappresentanza della struttura ospedaliera di tutti i provvedimenti necessari a sanare la situazione di carenza strutturale od organizzativa. Se il superamento delle obiezioni concernenti la tipologia delle sanzioni applicabili all’ente può sembrare, tutto sommato, non particolar71 A. 72 In ROSSI, Responsabilità “penale amministrativa”, cit., p. 519. tal senso v. anche A . ROIATI, Medicina difensiva, cit., p. 367. RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE 221 mente impervio, restano, nondimeno, una serie di nodi problematici la cui soluzione si presenta indubbiamente più complessa o che, comunque, richiedono importanti modifiche normative, se non la previsione di un’autonoma disciplina. È noto, anzitutto, che il d.lgs. 231 del 2001 configura una responsabilità dell’ente complementare a quella degli organi che lato sensu svolgono funzioni di direzione o rappresentanza dello stesso: l’ente è sanzionato se tali organi hanno realizzato un reato (tra quelli espressamente contemplati dalla legge) nel suo interesse o a suo vantaggio. Un tale schema operativo della responsabilità dell’ente potrebbe soddisfare a pieno le esigenze connesse alla imputazione degli eventi lesivi per deficit strutturali od organizzativi alle strutture sanitarie? Si è avuto modo di osservare in precedenza che vi sono situazioni in cui, in realtà, l’evento lesivo non è imputabile a titolo di colpa alle persone fisiche (ai sanitari, ma, talvolta, anche agli organi di vertice), difettando il requisito della rimproverabilità. I deficit strutturali od organizzativi, infatti, possono essere riconducibili a cause diverse: mala gestio degli organi apicali (dovuta ad es, ad erronea organizzazione dei turni di lavoro, mancata manutenzione delle apparecchiature, cattiva gestione finanziaria, ecc.), riduzione necessitata dei costi o, financo, a scelte di natura eminentemente politica. Se nella prima ipotesi siamo sicuramente di fronte a condotte colpose dei vertici, avendo questi aggravato o determinato la carenza a causa della violazione di regole di cautela, negli altri due casi (e nell’ultimo in particolare) il fatto potrebbe anche non costituire reato non essendo imputabile alle persone fisiche (dirigenti e sanitari), quantomeno sotto il profilo della colpevolezza colposa. È chiaro che nel sistema delineato dal d.lgs. 231 del 2001, mancando l’integrazione di un fatto di reato, non sarebbe possibile punire l’ente, vista la complementarietà della responsabilità rispetto a quella delle persone fisiche. Viceversa, con riguardo alla responsabilità delle strutture sanitarie, sembrerebbe più opportuno prescindere da tale legame, consentendo la punizione dell’ente in modo indipendente ed autonomo: solo in questo modo si potrebbero superare le già viste difficoltà di individuazione dei soggetti responsabili e, soprattutto, l’imputazione delle carenze strutturali ed organizzative alle persone fisiche che, sovente, non hanno potuto compiere scelte autenticamente libere. D’altro canto, il peculiare criterio di imputazione, fondato sull’“interesse o vantaggio dell’ente” di cui all’art. 5 d.lgs. 231 del 2001, a dispetto degli sforzi interpretativi di dottrina e giurisprudenza, continua francamente a porre forti dubbi circa la sua compatibilità con le fattispecie colpose, oltre a risultare scarsamente adeguato all’attribuzione di re- 222 CAPITOLO SESTO sponsabilità alle strutture sanitarie, tenuto conto del fatto che i deficit di organizzazione e di strumentazioni tendenzialmente creano più un danno all’ente che un vantaggio per lo stesso. Le plurime difficoltà connesse all’estensione della disciplina del d.lgs. 231 del 2001 alle strutture sanitarie per eventi lesivi connessi a carenze strutturali ed organizzative inducono a ritenere più opportuna l’introduzione di una normativa ad hoc. Si tratterebbe di prevedere una forma di responsabilità dell’ente, autonoma rispetto a quella delle persone fisiche, che prescinda dai motivi per cui queste hanno agito e dagli effettivi vantaggi o meno che l’ente abbia ricavato a seguito di tali condotte. Un’imputazione del fatto che, inoltre, possa, alternativamente, prescindere dalla responsabilità penale delle persone fisiche ovvero concorrere con questa. Certo, sarebbe intervento di forte impatto, soprattutto perché travolgerebbe una visione della responsabilità e della punizione che nel nostro ordinamento, nonostante i positivi sforzi rappresentanti dal d.lgs. 231 del 2001, rimane tendenzialmente antropocentrica. Sarebbe, d’altro canto, anche l’unico modo per consentire la punizione di eventi lesivi riconducibili a una mancanza di mezzi o di organizzazione, arginando, però, la responsabilità dei medici per fatti conseguenti a carenze strutturali (e, indirettamente, le condotte di medicina difensiva). Lo schema di riferimento potrebbe essere quello sviluppato nella legislazione anglosassone del Corporate Manslaughter. Con il Corporate Manslaughter and Corporate Homicide Act del 2007 (entrato in vigore il 6 aprile 2008), infatti, nel diritto anglosassone è stato introdotto un nuovo modello di omicidio, ascrivibile direttamente alla corporation e non agli amministratori73, che ha quali presupposti la realizzazione di un reato di omicidio in conseguenza di una grave violazione di un dovere di protezione o controllo dell’ente nei confronti di particolari categorie di soggetti. In sostanza, quindi, potrebbe pensarsi ad una previsione che contempli la responsabilità diretta dell’ente in tutti i casi in cui sussista un nesso causale tra l’evento morte o lesioni ed il difetto di organizzazione, quest’ultimo, a sua volta, riconducibile alla mancata o incompleta predisposizione di compliance programs per la gestione del rischio. Un’imputazione del fatto all’ente che potrà concorrere con la responsabilità delle persone fisiche (in particolare quella dei vertici ospedalieri), ma che potrà anche essere esclusiva nei casi in cui non siano ravvisabili fatti integranti reato. 73 V. TORRE, Riflessioni sul diritto britannico in tema di responsabilità degli enti: il corporate killing, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2009, p. 273. BIBLIOGRAFIA ALBEGGIANI F., I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984. ALBEGGIANI F., La cooperazione colposa, in Studium Iuris, 2000, p. 515. ALDROVANDI P., Orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di delega di compiti penalmente rilevanti, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 699. ALDROVANDI P., La responsabilità amministrativa degli enti per i reati in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro alla luce del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in Ind. pen., 2009, p. 495. ALESSANDRI A., voce Impresa (responsabilità penale), in Dig. disc. pen., Torino, 1992, VI, p. 193. 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