PARADIGMI ASCRITTIVI DELLA RESPONSABILITÀ PENALE NELL

annuncio pubblicitario
Dipartimento di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi di Ferrara
6
ALESSANDRA PALMA
PARADIGMI ASCRITTIVI
DELLA RESPONSABILITÀ PENALE
NELL’ATTIVITÀ MEDICA PLURISOGGETTIVA:
TRA PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO
E DOVERE DI CONTROLLO
Jovene editore
2016
Dipartimento di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi di Ferrara
6
ALESSANDRA PALMA
PARADIGMI ASCRITTIVI
DELLA RESPONSABILITÀ PENALE
NELL’ATTIVITÀ MEDICA PLURISOGGETTIVA:
TRA PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO
E DOVERE DI CONTROLLO
Jovene editore
2016
DIRITTI D’AUTORE RISERVATI
© Copyright 2016
ISBN 978-88-243-0000-0
JOVENE EDITORE
Via Mezzocannone 109 - 80134 NAPOLI NA - ITALIA
Tel. (+39) 081 552 10 19 - Fax (+39) 081 552 06 87
web site: www.jovene.it e-mail: [email protected]
I diritti di riproduzione e di adattamento anche parziale della presente opera
(compresi i microfilm, i CD e le fotocopie) sono riservati per tutti i Paesi. Le
riproduzioni totali, o parziali che superino il 15% del volume, verranno
perseguite in sede civile e in sede penale presso i produttori, i rivenditori, i
distributori, nonché presso i singoli acquirenti, ai sensi della L. 18 agosto 2000
n. 248. È consentita la fotocopiatura ad uso personale di non oltre il 15% del
volume successivamente al versamento alla SIAE di un compenso pari a
quanto previsto dall’art. 68, co. 4, L. 22 aprile 1941 n. 633.
Printed in Italy Stampato in Italia
Ai miei genitori, a mio marito
e al piccolo Matteo
“Se un medico opera un signore per una grave ferita
con un coltello di bronzo e ne determina la morte;
se apre un ascesso nell’occhio di un uomo
con un coltello di bronzo e distrugge l’occhio dell’uomo
gli si dovranno tagliare le mani”
(Art. 218 Codice di Hammurabi - Babilonia 1792-1750 a.C.)
INDICE
Introduzione ..................................................................................................... p. XIII
CAPITOLO PRIMO
MODELLI DI COOPERAZIONE
E QUALIFICHE PROFESSIONALI
1. Le peculiarità dell’attività medico chirurgica plurisoggettiva e i diversi
modelli di collaborazione .........................................................................
2. I soggetti che partecipano all’attività medica plurisoggettiva: fonti
normative ..................................................................................................
2.1. Il dirigente di struttura complessa ...................................................
2.2. Il dirigente di struttura semplice e il dirigente sanitario alla prima
assunzione .........................................................................................
2.3. Lo specializzando ..............................................................................
2.4. Il personale paramedico ...................................................................
»
1
»
»
2
5
»
»
»
6
7
9
»
»
11
13
»
»
»
16
22
29
»
35
5. La tipicità colposa ..................................................................................... »
6. Origini e fondamento del principio di affidamento ............................... »
42
49
CAPITOLO SECONDO
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO
E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
SEZIONE PRIMA
L’INDIVIDUAZIONE DEI SOGGETTI RESPONSABILI
1. Il recupero del principio della responsabilità personale ........................
2. Imputazione oggettiva del fatto: il riparto delle competenze ................
2.1. La posizione di garanzia del sanitario: posizione di protezione o
di impedimento di altrui reati? ........................................................
2.2. I limiti della concezione formale dell’obbligo di garanzia .............
3. La successione nella posizione di garanzia ..............................................
4. Casi di successione nella posizione di garanzia. In particolare: la successione nelle attività inosservanti ...........................................................
SEZIONE SECONDA
IMPUTAZIONE SOGGETTIVA DEL FATTO
X
INDICE
7. I limiti del principio di affidamento ........................................................
8. L’individuazione delle regole cautelari ....................................................
8.1. La progressiva procedimentalizzazione dell’attività medico-chirurgica ................................................................................................
8.2. In particolare: il sistema delle linee guida .......................................
8.3. Formalizzazione delle regole cautelari e colpa generica residua ....
8.4. Linee guida, protocolli e colpa grave: l’art. 3, comma 1, d.l. 13
settembre 2012, n. 158 (c.d. decreto Balduzzi) ..............................
8.5. Le lacune dell’art. 3 d.l. n. 158 del 2012: a) l’ambito soggettivo di
applicazione della nuova normativa .................................................
8.6. (Segue): b) le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla
comunità scientifica ..........................................................................
8.7. (Segue): c) quale nozione di colpa lieve? Possibili casi di esclusione delle responsabilità dei sanitari ..............................................
8.8. Brevi considerazioni conclusive sul decreto Balduzzi ....................
9. Il comportamento alternativo lecito e l’evitabilità dell’evento ...............
10. Misura soggettiva della colpa del medico: la riconoscibilità dell’errore
altrui ..........................................................................................................
11. Cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti .........
p.
»
54
62
»
»
»
66
69
72
»
74
»
80
»
82
»
»
»
86
90
91
» 97
» 102
CAPITOLO TERZO
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE:
LA COOPERAZIONE TRA MEDICI
SENZA VINCOLO GERARCHICO
1. Individuazione dei casi di divisione del lavoro in senso orizzontale .....
2. La collaborazione tra medici appartenenti allo stesso reparto ..............
3. La collaborazione con medici di altro reparto, ma aventi la medesima
specializzazione: a) in particolare, la «cooperazione per consulto» ......
4. (Segue): b) la colpa «per assunzione» ......................................................
5. La collaborazione fra sanitari aventi diversa specializzazione ................
» 117
» 117
» 120
» 128
» 132
CAPITOLO QUARTO
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE:
LA COOPERAZIONE TRA MEDICI
IN DIVERSA POSIZIONE GERARCHICA
E TRA MEDICI E PARAMEDICI
SEZIONE PRIMA
LA COLLABORAZIONE TRA MEDICI IN RAPPORTO GERARCHICO
1. Modelli organizzativi di tipo gerarchico .................................................. » 137
2. La responsabilità del superiore per il fatto colposo del subordinato:
a) la violazione dei doveri di impartire direttive e di coordinamento.
La culpa in vigilando ................................................................................. » 138
INDICE
3. (Segue): b) Il dovere di ripartire i carichi di lavoro tra i medici del
reparto. La culpa in eligendo ....................................................................
4. La responsabilità del medico subordinato per il fatto colposo del superiore: a) «autonomia vincolata», «autonomia limitata» e dovere di
dissenso .....................................................................................................
5. (Segue): b) la condotta colposa del medico in posizione subalterna
esecutiva di direttive impartite dal superiore ..........................................
6. (Segue): c) esercizio del potere di avocazione da parte del dirigente di
struttura complessa e responsabilità del medico in posizione subalterna
7. La responsabilità del medico in posizione subalterna per errori commessi dal superiore gerarchico .................................................................
8. Profili di responsabilità per le attività compiute dal medico specializzando .....................................................................................................
XI
p. 144
» 148
» 151
» 156
» 157
» 159
SEZIONE SECONDA
I RAPPORTI TRA PERSONALE MEDICO E PARAMEDICO
9. I rapporti tra medico e paramedico prima dell’abrogazione del d.P.R.
n. 225 del 1974 ......................................................................................... » 162
10. I rapporti tra medico e paramedico successivamente all’abrogazione
del d.P.R. n. 225 del 1974 ........................................................................ » 164
CAPITOLO QUINTO
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
1. La cooperazione tra sanitari in équipe chirurgica ...................................
2. I rapporti gerarchici all’interno dell’équipe chirurgica: in particolare, il
ruolo del capo-équipe ...............................................................................
3. Profili di responsabilità del medico per anticipato allontanamento dall’équipe operatoria ....................................................................................
4. I rapporti tra medici specialisti in diversa disciplina: a) in particolare,
la cooperazione tra chirurgo ed anestesista .............................................
5. (Segue): b) l’intervento quoad vitam ........................................................
6. (Segue): c) l’intervento quoad valetudinem ..............................................
7. (Segue): d) la ripartizione di responsabilità tra chirurgo ed anestesista
nella fase intra-operatoria e post-operatoria ...........................................
8. Un caso particolare di responsabilità d’équipe: gli interventi di trapianto d’organi ..........................................................................................
» 169
» 170
» 173
» 175
» 179
» 181
» 182
» 185
CAPITOLO SESTO
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI
ED ORGANIZZATIVE
1. Eventi lesivi conseguenti a carenze strutturali ed organizzative: quali
responsabilità? .......................................................................................... » 191
XII
INDICE
2. Cenni sull’organizzazione delle strutture sanitarie e individuazione dei
soggetti responsabili .................................................................................
3. La responsabilità degli amministratori delle strutture sanitarie per
i reati di omicidio e lesioni colpose .........................................................
4. Gli orientamenti della giurisprudenza .....................................................
5. L’incidenza delle carenze strutturali ed organizzative sulla responsabilità del sanitario: a) il dirigente di struttura complessa .......................
5.1. (Segue): b) Altro personale medico ..................................................
6. Dalla responsabilità del singolo a quella dell’ente: quali prospettive di
applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità “amministrativa” delle persone giuridiche agli enti ospedalieri? .........................
7. Prospettive de jure condendo sulla responsabilità dell’ente ospedaliero
per carenze strutturali ed organizzative ..................................................
p. 194
» 199
» 202
» 205
» 209
» 212
» 219
Bibliografia ....................................................................................................... » 223
INTRODUZIONE
Sin dall’antichità si è avvertita l’importanza del ruolo del medico e
del suo rapporto con il paziente e, conseguentemente, l’esigenza di punire i comportamenti del primo che avessero comportato un danno alla
vita o all’integrità fisica del secondo. Se la progressiva civilizzazione ha,
fortunatamente, comportato il superamento delle pene corporali (si pensi
alla c.d. “legge del taglione” applicata nel Codice di Hammurabi), non è,
però, venuta meno l’istanza punitiva da parte di coloro che hanno subito
un danno a causa del comportamento del sanitario, che, anzi, è andata
via via incrementandosi negli ultimi decenni.
Il costante aumento di processi che vedono i medici al banco degli
imputati ha posto in evidenza una serie di criticità legate, da un lato, all’efficacia del sistema e del processo penale rispetto alle istanze di tutela
provenienti dai soggetti danneggiati dal reato e, dall’altro, alla tenuta
delle tradizionali categorie dogmatiche di imputazione del fatto criminoso dinnanzi alle peculiarità dell’attività medica.
Il massiccio ricorso all’armamentario repressivo penale si fonda in
larga parte su motivazioni di ordine sociale e culturale. Il progresso tecnico scientifico ha reso sostanzialmente impossibile il risalente approccio
monosoggettivo all’ars medica, rendendo necessaria una collaborazione
tra professionisti con differenti specializzazioni finalizzata al comune intento di salvaguardare la salute del paziente. Ciò ha comportato una
“spersonalizzazione” dell’atto medico a cui ha fatto seguito, inevitabilmente, un mutamento dei rapporti tra sanitario e paziente. Quella che
era una scienza individuale, esercitata da un singolo professionista “al
servizio” del paziente il quale, quasi acriticamente, accettava tutte le
scelte terapeutiche del medico, e gli eventuali esiti negativi delle stesse, è
ora divenuta un’attività plurisoggettiva, ove il paziente, che vede pienamente riconosciuto il diritto alla libertà di autodeterminazione, non ha
più un atteggiamento passivo, e quasi “reverenziale” nei confronti del
medico.
D’altro canto, il diffondersi della c.d. “medicina sociale” ha provocato un significativo aumento del numero di pazienti ed ha reso necessaria una sempre più accurata e razionale organizzazione delle strutture sa-
XIV
INTRODUZIONE
nitarie1. L’intervento medico diviene, in tal modo, il frutto di una pluralità di singole prestazioni, ognuna delle quali concorrenti all’atto diagnostico o terapeutico, in cui l’attività del singolo medico costituisce solo un
momento di una più complessa prestazione alla cui realizzazione concorre integralmente un assetto organizzativo. Il diffondersi di strumenti
di diagnosi e cura sempre più sofisticati e sempre più noti, grazie ai mass
media che, però tendono ad enfatizzarne i successi piuttosto che i limiti,
ha comportato l’affermarsi di una visione della medicina che “tutto può
e tutto deve”. Questa maggior consapevolezza, affiancata alla caduta
della visione paternalistica della medicina ha comportato l’affermarsi nei
pazienti di una vera e propria aspettativa in ordine all’esito salvifico delle
cure e ad una conseguente scarsa accettazione degli esiti negativi delle
stesse2. Il progresso tecnico-scientifico si rivela, quindi, per l’attività medica un Giano bifronte: se, da un lato, produce innegabili effetti positivi
(grazie alle maggiori possibilità di cura e di salvezza), dall’altro è fonte di
nuovi e, spesso, ingovernabili pericoli. Ogni metodica è, infatti, gravata
da un rischio di effetti collaterali (c.d. rischio terapeutico) che va a sommarsi a quello preesistente rappresentato dalla patologia in atto3. La
stessa cooperazione tra sanitari (come detto, resa sempre più necessaria
dall’elevato livello di specializzazione) si rivela, d’altronde, ad un tempo
stesso fattore di sicurezza e di rischio: pur consentendo, infatti, al medico, ed al personale ausiliario, di “dedicarsi ai compiti specifici del trattamento curativo con la dovuta esclusività e concentrazione”4, può, non1 G.
MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici del lavoro medico-chirurgico in équipe,
in Temi, 1968, p. 217; F. AMBROSETTI, R. PICCINELLI, M. PICCINELLI, La responsabilità nel lavoro
medico d’équipe. Profili penali e civili, Torino, 2003, p. 1.
2 C. PARODI, V. NIZZA, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, in
F. BRICOLA, V. ZAGREBELSKY, Giurisprudenza sistematica di diritto penale, Torino, 1996, p. 3;
F. PALAZZO, Responsabilità medica, “disagio” professionale e riforme penali, in Dir. pen. proc.,
2009, p. 1065.
3 In tal senso A. FIORI, D. MARCHETTI, Medicina legale della responsabilità medica. Nuovi
profili, Milano, 2009, p. 21 “la moderna medicina ha infatti un carattere ampiamente invasivo
e il numero delle prestazioni quotidianamente fornite, specie nelle aree più sviluppate del
globo, è dell’ordine di molti milioni per cui è inevitabile che il tasso percentuale delle complicanze, naturali e iatrogene, sia proporzionato a tali numeri estremamente elevati … Un
contributo importante all’aumento dei rischi, delle complicanze, e, quindi, del contenzioso, è
apportato proprio dall’ampliarsi della varietà dei trattamenti, con nuove indicazioni terapeutiche, mediche e chirurgiche, che moltiplicano la possibilità di danno”. Si veda, inoltre, F. INTRONA, Un paradosso: con il progresso della medicina aumentano i processi contro i medici, in
Riv. it. med. leg., 2001, p. 879.
4 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 217. I due Autori osservano
che “già un’operazione chirurgica di poco conto, se deve essere eseguita con un massimo di
sicurezza e di diligenza, richiede la collaborazione di medici e infermieri; d’altra parte il successo di un gran numero di delicati interventi chirurgici dipende soprattutto, anzi, in modo
INTRODUZIONE
XV
dimeno, divenire fonte di pericoli per la salute del paziente, facendo sorgere rischi nuovi e diversi rispetto a quelli dell’attività medica “monosoggettiva” (ad es. quelli derivanti da difetto di coordinamento, da erronea trasmissione di informazioni, da errori sulla professionalità dei collaboratori, etc.)5.
Il diritto penale, caricato di forte valore simbolico, diviene lo strumento attraverso il quale perseguire non solo, o non tanto, l’irrogazione
di una sanzione penale (spesso, invero, ineffettiva per il massiccio ricorso
alla sospensione condizionale e per l’esiguità dei termini prescrizionali)
e/o il riconoscimento di un risarcimento del danno (con minori oneri
economici rispetto all’instaurazione di un autonomo giudizio civile), ma,
piuttosto, finalità eticizzanti e moralizzatrici6. Il rapporto tra responsabilità penale e processo subisce così una trasmutazione che si ripercuote
inevitabilmente sulle decisioni giudiziali. Queste ultime – particolarmente sensibili alla tutela dei diritti delle vittime di errori sanitari – finiscono, infatti, per ampliare a dismisura le maglie della responsabilità attraverso interpretazioni, non sempre condivisibili, dei tradizionali criteri
di ascrizione oggettiva e soggettiva del fatto di reato7. La regola cautelare
decisivo, dalla divisione dei compiti tra i vari sanitari che partecipano all’atto operatorio (basti pensare ai rapporti tra chirurgo e anestesista). La verità è che anche le normali esigenze
della prassi quotidiana di un ospedale possono essere soddisfatte adeguatamente solo da un
team di medici e ausiliari che si appoggiano e si sollevano vicendevolmente dal lavoro”. V. anche P. VENEZIANI, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, in Trattato di diritto penale
- Parte speciale, diretto da G. MARINUCCI, E. DOLCINI, vol. II, Padova, 2003, p. 205.
5 Si veda P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 204 ss. In questo senso cfr. anche Cass. pen., 11
ottobre 2007, n. 41317, Raso ed altri, in CED rv. 237891, in cui i Giudici osservano che “nell’attività medico-chirurgica in équipe, la divisione del lavoro costituisce un fattore di sicurezza
(perché ciascuno dei sanitari è chiamato a svolgere il lavoro in relazione al quale possiede una
specifica competenza e perché in rapporto ad esso, è posto nelle condizioni di profondere
tutta la diligenza, prudenza e perizia richieste, senza essere tenuto a controllare continuamente l’operato dei colleghi), ma rappresenta anche un fattore di rischio. Fa sorgere, in particolare, rischi nuovi e diversi (rispetto a quelli propri dell’attività medica monosoggettiva),
essenzialmente derivanti da difetti di coordinamento e informazione, da errori di comprensione o dovuti alla mancanza di una visione di insieme, ecc., e spesso tra loro collegati”.
6 R. BARTOLI, Paradigmi giurisprudenziali della responsabilità medica, in Responsabilità
penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa, Firenze, 2010, p. 78 il quale ha osservato
che “l’obiettivo che spesso si vuole raggiungere promuovendo azioni di responsabilità penale
non è tanto quello di vedere il medico andare in prigione, ma di dargli una lezione, soprattutto
in virtù del suo atteggiamento di superficialità e indifferenza tenuto durante un’attività così
delicata quale quella che ha ad oggetto beni primari quali la vita e l’incolumità individuale. E
il nostro sistema sanzionatorio, proprio perché ineffettivo, finisce per permettere il perseguimento di questo obiettivo più correzionale che autenticamente punitivo-preventivo”. Nel medesimo senso cfr. F. GIUNTA, La legalità della colpa, in Criminalia, 2009, p. 157.
7 Una della principali conseguenze delle incertezze connesse all’accertamento della responsabilità colposa nell’attività medica è stata la diffusione della c.d. “medicina difensiva”.
XVI
INTRODUZIONE
diviene, così, il frutto di una determinazione giudiziale ex post (in evidente contrasto con il principio di legalità ed, in particolare, di determinatezza) sulla base di standards di diligenza che trascurano la valutazione
degli ambiti specifici di competenza del medico e delle condizioni in cui
questi si trova ad operare8; le categorie dogmatiche di colpa e nesso causale, nonché di causalità attiva ed omissiva vengono a sovrapporsi9; l’acCon questa espressione si suole indicare quelle condotte sanitarie finalizzate, non tanto a perseguire il migliore interesse del paziente, ma, piuttosto, a minimizzare il rischio di contenzioso giudiziario civile o penale, per i sanitari. La medicina difensiva può assumere due diverse connotazioni: di tipo “positivo” (nei casi in cui il medico prescriva un eccesso di esami
e terapie) e di tipo “negativo” (ove il medico si astenga dall’esecuzione di prestazioni terapeutiche ritenute troppo rischiose o, addirittura si rifiuti di assumere la cura di certi pazienti).
Per gli aspetti definitori ed anche problematici del fenomeno si rinvia più diffusamente a G.
FORTI, M. CATINO, F. D’ALESSANDRO, C. MAZZUCCATO, G. VARRASO, Il problema della medicina
difensiva. Una proposta di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito dell’attività
sanitaria e gestione del contenzioso legato al rischio clinico, Pisa, 2010; A. ROIATI, Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale. Tra teoria e prassi giurisprudenziale, Milano, 2012.
8 Si è efficacemente sottolineato in dottrina che “a differenza dell’agente che affronta la
situazione di pericolo sulla base delle conoscenze consolidate e disponibili al momento della
condotta, il giudice, nella tranquillità metafisica del suo pensatoio […] è in grado di distillare
la cautele più varie, comprese quelle inverosimili ex ante o non ragionevolmente pretendibili,
perché sproporzionatamente onerose o perché sperimentali o semplicemente perché non sufficientemente note o accreditate al momento del fatto”. In tal senso F. GIUNTA, La legalità,
cit., p. 152.
9 In giurisprudenza spesso si assiste ad una commistione tra i concetti di obbligo giuridico e di dovere di diligenza e ad una conseguente trasformazione dei delitti commissivi colposi in delitti omissivi. La stessa Corte di Cassazione, peraltro, ha affermato che l’accertamento del nesso eziologico tra omissione ed evento deve necessariamente precedere quello
della colposità della condotta stessa. In tal senso Cass. pen., sez. V, 20 ottobre 1998, n. 10929,
Casaccio, in Cass. pen., 2000, p. 1183 con nota di R. BLAIOTTA, Causalità e colpa nella professione medica tra probabilità e certezza, ivi, p. 1188 nella quale i giudici osservano che “il rapporto eziologico per giustificare l’imputazione deve sempre necessariamente sussistere anche
tra la condotta omissiva e l’evento e va dal giudice individuato attraverso il processo razionale
della motivazione non potendo rimanere assorbito ed identificato nella posizione di garanzia
né potendo essere fatto automaticamente scaturire da essa o, addirittura dalla semplice verificazione dell’evento”. Invero, nonostante alcuni tentativi anche in dottrina di affermare
un’indifferenza tra i due concetti, l’orientamento a tutt’oggi prevalente è nel senso di una loro
autonomia. Se, difatti, è innegabile che la colpa presenti sicuramente una componente omissiva che si concretizza nella mancata osservanza del dovere di diligenza, ciononostante esso
non può essere equiparato all’obbligo di garanzia. Mentre, infatti, la posizione di garanzia indica il dovere di agire e il bene nei cui confronti l’azione deve svolgere la propria funzione di
tutela, il dovere di diligenza, indica, invece, le modalità del comportamento imposto dalla posizione di garanzia. Per una attenta analisi dei tratti distintivi tra i due obblighi v. C.E. PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med.
leg., 1992, p. 850, il quale osserva che proprio da tale sovrapposizione di piani deriva, in
parte, quella concezione della causalità fondata su percentuali medio basse di “evitabilità”
dell’evento mediante il comportamento alternativo lecito. Una probabilità espressa in questi
INTRODUZIONE
XVII
certamento del nesso causale – problema, invero, arginato grazie al pregevole intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte10 – subisce
aberranti semplificazioni sconfinanti verso il terreno del rischio11; la potermini, infatti, nella sostanza, altro non esprime se non quel rapporto di rischio tipico della
colpa; cfr. inoltre F. GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993,
p. 90 ss.; I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino,
1999, p. 118 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2013, (nota 51, p. 177).
Non mancano, infine, Autori che, pur riconoscendo la differenza concettuale fra i due obblighi, ne hanno però affermato l’interferenza in concreto. Tra questi G. FIANDACA, E. MUSCO,
Manuale di diritto penale, Bologna, 2014, p. 653 ss.
10 Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002, n. 27, Franzese, in Dir. pen. proc., 2003, p.
50, con nota di A. MARTINO, Il nesso causale attivato da condotte omissive tra probabilità, certezza e accertamento, nella quale i giudici del Collegio rilevano che “pretese difficoltà di
prova, ad avviso delle Sezioni Unite, non possono mai legittimare un’attenuazione del rigore
nell’accertamento del nesso di condizionamento necessario e, con essa, una nozione debole
della causalità che, collocandosi ancora sul terreno della teoria, ripudiata dal vigente sistema
penale, dell’aumento del rischio, finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità per omesso impedimento dell’evento, in violazione dei principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fato proprio”. Le stesse Sezioni
Unite, a conclusione dell’iter argomentativo di ricostruzione degli aspetti connessi all’accertamento causale, hanno sancito il principio di diritto, successivamente ribadito dalle sezioni
semplici, secondo cui in ordine all’accertamento del rapporto di causalità, si deve far riferimento al modello di spiegazione causale secondo leggi di copertura scientifiche. Il modello
nomologico può svolgere il proprio scopo esplicativo del nesso causale tanto meglio quanto
più alto è il grado di probabilità su cui è fondata la legge scientifica; ma non è sostenibile che
si debbano utilizzare soltanto leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano
un coefficiente probabilistico prossimo ad 1, cioè alla certezza (da riferire, nel caso di reati
omissivi impropri, all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa, e omessa, rispetto al
singolo evento). In termini di certezza deve invece essere ricostruito l’accertamento del nesso
causale, non essendo consentito dedurre automaticamente e proporzionalmente dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del
rapporto di causalità.
11 Il riferimento è, in particolare, alla tendenza giurisprudenziale, sviluppatasi proprio
nel campo della responsabilità medica, di far fronte alle difficoltà nell’accertamento del nesso
causale nei reati omissivi imputando il fatto al soggetto quando la sua condotta ha provocato
semplicemente un aumento, ovvero non ha ridotto il rischio di lesione del bene protetto.
Sulla tendenza allo spostamento dell’accertamento della causalità sul terreno del rischio con
riferimento alle strutture complesse ed all’attività medica, in particolare cfr. R. BLAIOTTA, La
causalità nella responsabilità professionale, Tra teoria e prassi, Milano, 2004, p. 93; L. CORNACCHIA, Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, Torino, 2004, p.
39. Per una critica alla semplificazione dell’accertamento con riferimento alle ipotesi di divisione del lavoro cfr. A. GARGANI, Ubi culpa, ibi omissio: la successione di garanti in attività
inosservanti, in Indice pen., 2000, p. 596. Per un approfondimento del problema dell’accertamento del nesso causale con particolare riferimento ai reati omissivi impropri ed all’attività
medico-chirugica, e per interessanti ricostruzioni del travaglio giurisprudenziale sino all’intervento delle Sezioni Unite v. tra gli altri, S. MANCINI Probabilità logica e probabilità statistica
nell’accertamento del nesso causale in materia penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2004, p. 265;
G. IADECOLA, La causalità dell’omissione nella responsabilità medica prima e dopo le Sezioni
Unite «Franzese», in Riv. it. med. leg., XXVII, 2005, p. 699; F. STELLA, Causalità e probabilità:
XVIII
INTRODUZIONE
sizione di garanzia si estende fino a ricomprendere qualsiasi operatore
che al più vario titolo entri in contatto con il paziente. Il tutto, peraltro,
reso, se possibile, ancor più grave dalla prassi distorta della formulazione
generica dei capi di imputazione da parte degli organi inquirenti. Sovente, infatti, si assiste a contestazioni di illeciti colposi in cui la regola
cautelare è del tutto evanescente, a causa, da un lato, del semplice rinvio
alla negligenza, imprudenza o imperizia o, dall’altro, dell’enucleazione di
regole cautelari scritte a cui si accompagna l’utilizzo di formule di chiusura omnicomprensive che rinviano, in modo del tutto generico, ancora
una volta alla “negligenza, imprudenza, imperizia”. Tali prassi, come si
evidenziava, sono avallate dalla stessa giurisprudenza di legittimità che
non ritiene violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, di
cui all’art. 521 c.p.p., nel caso di modifica della regola cautelare12.
In questo contesto, già di per sé assai complesso, si innestano le difficoltà relative all’accertamento della responsabilità colposa nelle ipotesi,
oramai ordinarie, di attività plurisoggettive. Si è già avuto modo di sottolineare come l’attività medica si estrinsechi ormai in un agire collettivo
ove il singolo concorre alla realizzazione del fine comune della cura del
paziente. Caduto, quindi, il tradizionale binomio tra errore ascrivibile a
colpa ed autore dell’errore, tipico dell’attività monosoggettiva, le consuete categorie dogmatiche – forgiate sulla responsabilità del singolo – si
rivelano sovente inadeguate per l’individuazione del soggetto responsabile, con conseguenti, pericolose, forme di responsabilità di gruppo o di
posizione.
Gli evidenziati contrasti con i principi costituzionali di legalità (sub
species della determinatezza) e di personalità dell’illecito conseguenti all’applicazione dell’illecito colposo al campo della responsabilità medica13
– nonché l’esigenza di combattere le diffuse pratiche di “medicina difensiva” – hanno indotto la dottrina a plurime proposte di riforma tendenti
il giudizio corpuscolariano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 60; F. STELLA, Causalità omissiva,
probabilità, giudizi controfattuali l’attività medico chirurgica, in Cass. pen., 2005, p. 1062; G.
CASAROLI, Paradigmi giurisprudenziali della causalità nell’attività medica, in Festschrift für
Erich Samson, Heidelberg, 2010, p. 745 ss.
12 Cass. pen., sez. VI, 9 maggio 2013, n. 36394, in Pluris; Cass. pen., sez. IV, 19 aprile
2013, n. 31300, Farinotti ed altro, in Pluris; Cass. pen., sez. III, 8 aprile 2010, n. 19741, in
CED rv. 247171; Cass. pen., sez. IV, 17 novembre, 2005, n. 2393, Tucci e altri, in Arch. nuova
proc. pen., 2007, 1, p. 132; Cass. pen., sez. IV, 4 maggio 2005, n. 38818, De Bona, in Guida
dir., 2005, 47, p. 67; Cass. pen., sez. IV, 10 luglio 2001, n. 35820, Barbieri, in Riv. pen., 2002,
p. 45.
13 Sull’inadeguatezza del modello classico di prevenzione della medical malpractice
fondato sull’illecito colposo L. EUSEBI, Medicina difensiva e diritto penale «criminogeno», in
Riv. it. med. leg., 2011, p. 1087.
INTRODUZIONE
XIX
o ad escludere la rilevanza penale dei casi di malpractice – attraverso il ricorso alla giustizia riparativa ovvero con l’introduzione di strumenti sanzionatori differenti, in particolare, di tipo amministrativo (misure interdittive, pene pecuniarie …) – o a configurare fattispecie di reato ad hoc
costruite quali reati di pura condotta e di pericolo, o, infine a limitare la
responsabilità dei sanitari attraverso il ricorso alla “colpa grave”14.
Su questi aspetti ci si soffermerà nel presente studio, cercando, dapprima, di evidenziare le possibili ricadute della dimensione collettiva
della responsabilità medica sulle categorie dogmatiche, al fine di individuare quali obblighi incombano sul medico che partecipi ad un’attività
multidisciplinare e se – ed entro quali limiti – allo stesso sia ascrivibile
l’evento morte o lesioni del paziente conseguente all’errore professionale
di altro sanitario; e, successivamente, di verificare la tenuta dei principi
così elaborati rispetto alle peculiarità delle singole forme di cooperazione.
14 Sembra orientato in questo senso, seppure con i limiti che saranno evidenziati nel
prosieguo della trattazione, il recente art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158 “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela
della salute”, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189. La norma
dispone che “l’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si
attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.
Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto
della condotta di cui al primo periodo”. La disposizione, in sostanza, prevede l’esclusione
della responsabilità penale del sanitario che abbia osservato, nell’esercizio della propria attività, linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e, ciononostante, si sia
verificato un evento lesivo ai danni del paziente. In dottrina, sulla possibilità di limitare la responsabilità degli esercenti la professione sanitaria attraverso il ricorso alla “colpa grave” v.
A.R. DI LANDRO, La colpa medica negli Stati Uniti e in Italia. Il ruolo del diritto penale e il confronto col sistema civile, Torino, 2009, p. 18 ss.; G. FORTI, M. CATINO, F. D’ALESSANDRO, C.
MAZZUCCATO, G. VARRASO, Il problema della medicina difensiva, cit., p. 199 ss. Gli Autori presentano un progetto di riforma del codice penale nel quale limitano la responsabilità colposa
dell’esercente la professione sanitaria alle sole ipotesi di colpa grave prevedendo, inoltre, parallelamente, l’estinzione del reato in caso di condotte riparatorie. L’articolato del progetto di
riforma è stato pubblicato anche in Riv. it. med. leg., 2011, p. 1309 ss. Anche la giurisprudenza non si è dimostrata insensibile alla questione del possibile ricorso alla colpa grave. In
tal senso, di recente Cass. pen., sez. IV, 26 aprile 2011, n. 16328, Lucisano, in CED rv.
251960.
CAPITOLO PRIMO
MODELLI DI COOPERAZIONE
E QUALIFICHE PROFESSIONALI
SOMMARIO: 1. Le peculiarità dell’attività medico-chirurgica plurisoggettiva e i diversi modelli di collaborazione. – 2. I soggetti che partecipano all’attività medica plurisoggettiva: fonti normative. – 2.1. Il dirigente di struttura complessa. – 2.2. Il dirigente
di struttura semplice e il dirigente sanitario alla prima assunzione. – 2.3. Lo specializzando. – 2.4. Il personale paramedico.
1.
Le peculiarità dell’attività medico chirurgica plurisoggettiva e i diversi
modelli di collaborazione
Nel linguaggio comune si suole unificare tutte le ipotesi di cooperazione in ambito sanitario sotto l’unica locuzione “attività medica in
équipe”. In realtà, dietro questa formula di sintesi si cela un ampio panorama di modelli di collaborazione, di cui l’équipe costituisce solo un
esempio peculiare. Con riguardo, innanzitutto, ai rapporti intercorrenti
tra i medici che concorrono alla cura dei pazienti, si può distinguere tra
divisione del lavoro in senso orizzontale e verticale. La prima si verifica
quando sono chiamati a collaborare tra loro più medici in eguale posizione gerarchica: i sanitari, generalmente specialisti in differenti discipline, in tal caso, sono posti su un piano paritario ed adempiono le loro
diverse funzioni in piena autonomia e in attuazione delle leges artis dei rispettivi settori. Nella seconda ipotesi, invece, i medici sono legati tra loro
da un vincolo gerarchico che crea tra gli stessi un rapporto di sovraordinazione-subordinazione.
Rispetto alle modalità, in particolare temporali, di esecuzione dell’attività medica in cooperazione, si suole, invece, distinguere tra collaborazione sincronica – in cui tutti i sanitari svolgono la propria attività in un
unico contesto spazio-temporale – e collaborazione diacronica – in cui le
attività dei medici non sono contestuali, ma si snodano in una sequenza
in cui ciascun atto si concatena con quello che lo ha preceduto.
L’attività svolta in équipe, tecnicamente, costituisce, quindi, solo una
peculiare forma di cooperazione nella quale un gruppo di sanitari (di
2
CAPITOLO PRIMO
pari o differente specializzazione e grado gerarchico) in un unico contesto spazio-temporale esegue un trattamento diagnostico o terapeutico
(es. équipes chirurgiche).
Se quelle appena citate rappresentano sicuramente le tradizionali
forme di cooperazione tra sanitari, nondimeno, non può dimenticarsi che
all’interno delle strutture sanitarie possono verificarsi altri fenomeni di
divisione del lavoro (e, quindi, di cooperazione) che non coinvolgono
esclusivamente il personale medico e paramedico. Il riferimento è, innanzitutto, a quei casi, invero ancora oggetto di scarsa attenzione da
parte della giurisprudenza, in cui l’esito infausto dell’intervento diagnostico o terapeutico è conseguenza, non solo di un errore del medico, ma
di precise scelte, sovente di natura eminentemente economica, adottate
dagli organi direttivi (direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario) della struttura. Non possono, infine, dimenticarsi nuove
forme di collaborazione, che sempre più si intensificano a causa del progresso tecnologico, tra il personale sanitario e i tecnici addetti, ad esempio, alla fornitura, al funzionamento o alla manutenzione dei macchinari
impiegati in ambito medico (es. ingegneri biomedici che organizzano
l’uso e la manutenzione della strumentazione biomedica o realizzano
strumenti diagnostici e terapeutici, quali protesi e valvole cardiache).
2.
I soggetti che partecipano all’attività medica plurisoggettiva: fonti normative
La trattazione dei temi relativi alla responsabilità dei professionisti
partecipanti ad un’attività plurisoggettiva richiede, preliminarmente, una
breve disamina delle fonti normative che individuano i ruoli e le mansioni del personale sanitario e che, sovente, sono richiamate dalla giurisprudenza per giustificare la responsabilità dei singoli medici anche nel
caso di divisione del lavoro. Seppure, infatti, tali norme non siano state
introdotte dal legislatore con il precipuo scopo di dettare regole cautelari
che integrino i precetti normativi di cui agli artt. 589 e 590 c.p., tuttavia
le stesse incidono significativamente sull’individuazione delle figure dei
sanitari potenzialmente responsabili anche sul versante penale1.
La materia è stata oggetto di plurimi interventi legislativi che, nel
corso degli anni, si sono succeduti ridisegnando i contenuti delle mansioni e dei doveri incombenti su ciascun sanitario. Il primo tentativo di
sistemazione risale al lontano 1938, con l’approvazione del r.d. 30 settembre 1938, n. 1631, recante “Norme generali per l’ordinamento dei
1 P.
VENEZIANI, I delitti, cit., p. 201.
MODELLI DI COOPERAZIONE E QUALIFICHE PROFESSIONALI
3
servizi sanitari e del personale sanitario degli ospedali”, con cui il legislatore individua i profili professionali dei partecipanti all’attività medicochirurgica ed i rapporti tra loro intercorrenti, configurando un’organizzazione di tipo gerarchico al cui vertice è collocato il primario, seguito
dall’aiuto, dall’assistente e dal personale infermieristico.
Il r.d. 1631 del 1938 è stato, successivamente, abrogato dal d.P.R. 27
marzo 1969, n. 128, rubricato “Norme sull’ordinamento interno dei servizi ospedalieri” a cui, dieci anni dopo, ha fatto seguito l’approvazione
del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, sullo “Stato giuridico del personale
delle unità sanitarie locali”. Con quest’ultimo provvedimento normativo
il legislatore è intervenuto nuovamente in argomento senza, tuttavia, abolire le disposizioni contenute nel precedente d.P.R. n. 128 del 1969 che è,
quindi, rimasto formalmente in vigore fino al 1992, anno in cui ne è stata
dichiarata l’abrogazione con il d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, recante il
riordino della disciplina in materia sanitaria.
La dottrina ha osservato, tuttavia, che il d.lgs. n. 502 del 1992, pur
avendo abrogato il d.P.R. n. 128 del 1969, ha lasciato in vigore il d.P.R. n.
761 del 1979, che viene tutt’oggi utilizzato come normativa di riferimento
anche dalla giurisprudenza. Nonostante, quindi, come meglio sarà evidenziato nel prosieguo, nella definizione dei ruoli dei sanitari sia, tuttora,
necessario un richiamo al d.P.R. n. 761 del 1979 non si possono, nondimeno, trascurare le innovazioni introdotte sia dal d.lgs. n. 502 del 1992,
sia dal d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, finalizzate, in particolare, a contemperare la gerarchia ospedaliera con l’autonomia dei singoli medici2. Nel
primo intervento di riforma il legislatore non cita più le figure del primario, dell’aiuto e dell’assistente, ed articola la dirigenza del ruolo sanitario
in due livelli. In luogo della distinzione, di cui all’art. 63 d.P.R. n. 761 del
1979, tra medici in posizione iniziale (assistenti), in posizione intermedia
(aiuti) e in posizione apicale (primari) viene introdotto un nuovo assetto
che prevede lo status di “dirigenti sanitari” di primo o secondo livello.
L’art. 15 del citato decreto, infatti, sancisce che “al personale medico e
delle altre professionalità sanitarie del primo livello sono attribuite le funzioni di supporto, di collaborazione e corresponsabilità, con riconoscimento di precisi ambiti di autonomia professionale, nella struttura di appartenenza, da attuarsi nel rispetto delle direttive del responsabile” ed
inoltre che “al personale medico e delle altre professionalità sanitarie del
secondo livello sono attribuite funzioni di direzione e di organizzazione
della struttura da attuarsi anche mediante direttive a tutto il personale
operante nella stessa e l’adozione dei provvedimenti relativi, necessari per
2 G. IADECOLA, La responsabilità medica nell’attività in équipe alla luce della rinnovata
disciplina della dirigenza sanitaria, in Cass. pen., 2007, p. 154.
4
CAPITOLO PRIMO
il corretto espletamento del servizio; spettano in particolare al dirigente
medico appartenente al secondo livello gli indirizzi e, in caso di necessità,
le decisioni sulle scelte da adottare nei riguardi degli interventi preventivi,
clinici, diagnostici e terapeutici; al dirigente delle altre professioni sanitarie spettano gli indirizzi e le decisioni da adottare nei riguardi dei suddetti
interventi limitatamente a quelli di specifica competenza”.
Con il successivo d.lgs. n. 229 del 1999, il legislatore ha poi ulteriormente modificato l’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992, individuando per la
dirigenza sanitaria un unico ruolo (distinto per profili professionali) ed
un unico livello, articolato in relazione alle diverse responsabilità professionali e gestionali, prevedendo due diversi tipi di struttura, quella semplice e quella complessa, e ridefinendo i poteri del dirigente con incarico
di direzione di struttura, al quale pur sempre residua una funzione di indirizzo programmatico e sanitario (preventivo, diagnostico e terapeutico,
riabilitativo)3.
Il riordino della dirigenza sanitaria ha, indubbiamente, comportato
un’attenuazione del vincolo gerarchico tra i sanitari, attraverso il riconoscimento di maggiori ambiti di autonomia ai medici in posizione subalterna. Per converso, la nuova normativa lascia pressoché invariati i poteri-doveri del dirigente di struttura complessa a cui, peraltro – vista la
mancata abrogazione dell’art. 63 d.P.R. 761 del 1979 – continua ad essere
riconosciuto il potere di avocazione dei casi più delicati.
La Corte di Cassazione ha avuto occasione di occuparsi degli effetti
delle predette novelle (anche se nel caso sottoposto alla sua attenzione
trovava ancora applicazione la normativa previgente) ed ha sottolineato
che a partire dal 1999 il legislatore ha voluto contemperare la gerarchia
ospedaliera con l’autonomia professionale, ma ciò non ha comportato
particolari variazioni con riguardo ai poteri-doveri riconosciuti al medico
in posizione apicale. La nuova disciplina, quindi, secondo la ricostruzione della Suprema Corte – fatta propria anche dalla dottrina – non ha
relegato il dirigente di struttura complessa allo svolgimento di mansioni
prettamente gestionali ed organizzative e non può, quindi, accogliersi
l’assunto secondo cui le condotte inadeguate e lesive poste in essere all’interno della struttura siano, allo stato, divenute riferibili alla esclusiva
responsabilità di chi materialmente le abbia realizzate4.
3 Un’ultima modifica dell’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 è, infine, intervenuta ad opera
dell’art. 8 d.lgs. 28 luglio 2000, n. 254.
4 Cass. pen., sez. IV, 29 settembre 2005, n. 47145, Sciortino ed altri, in Cass. pen., 2007,
p. 143, con nota di G. IADECOLA, La responsabilità medica, cit., p. 154. Si veda alttresì F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità., cit., p. 7, ove si rileva come il d.lgs.
n. 502 del 1992 (e succ. mod.) recante il riordino della disciplina in materia sanitaria, abbia
MODELLI DI COOPERAZIONE E QUALIFICHE PROFESSIONALI
5
Nonostante la nuova nomenclatura legislativa, a tutt’oggi, giurisprudenza e dottrina continuano, comunque, a far riferimento ai precedenti
ruoli di primario, aiuto ed assistente, piuttosto che a quelli di dirigente. In
effetti, anche a fronte dei predetti interventi legislativi sembra, nondimeno, possibile, pur con qualche approssimazione, sovrapporre i nuovi livelli dirigenziali con le vecchie qualifiche individuate nelle pregresse disposizioni normative, riconducendo la figura del primario a quella di dirigente di struttura complessa, dell’aiuto a quella di dirigente di struttura
semplice e dell’assistente a quella di dirigente alla prima assunzione.
2.1. Il dirigente di struttura complessa
Al vertice del complesso organigramma che caratterizza le strutture
sanitarie si colloca il dirigente di struttura complessa, i cui compiti sono
enucleati, innanzitutto, dall’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979, tuttora in vigore, ma da leggersi in combinato disposto con le innovazioni apportate
dal d.lgs. n. 502 del 1992 e dal d.lgs. n. 229 del 1999. Come già osservato
in precedenza (v. supra § 2), con l’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 (come
modificato dal d.lgs. n. 229 del 1999) il primario diviene “dirigente con
incarico di direzione di struttura complessa”, ma rimangono tendenzialmente invariati i poteri che ad esso competono. Ai dirigenti con incarico
di direzione di struttura complessa sono attribuite, oltre a quelle derivanti dalle specifiche competenze professionali, funzioni di direzione e
organizzazione della struttura – queste ultime da attuarsi anche mediante
direttive a tutto il personale operante nella stessa – nonché il potere di
adottare decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e la
realizzazione dell’appropriatezza degli interventi con finalità preventive,
diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata. Il dirigente è, inoltre, responsabile dell’efficace ed efficiente gestione delle risorse attribuite.
Per costante dottrina e giurisprudenza le sopracitate norme introducono un obbligo di garanzia a carico del primario, caratterizzato dal dovere giuridico di impedire eventi lesivi degli altrui beni giuridici della vita
e dell’integrità fisica5. In particolare, l’attribuzione al primario, anche alla
abrogato il d.P.R. n. 128 del 1969, lasciando in vigore il d.P.R. n. 761 del 1979; in ogni caso,
anche a seguito della formale abrogazione del d.P.R. n. 128 del 1969 (il quale pure definiva i
compiti del personale ospedaliero), nulla è cambiato dal punto di vista sostanziale, essendo la
normativa del 1969 e quella del 1979 perfettamente fungibili.
5 In tal senso Cass. pen., sez. IV, 1 febbraio 2000, Gulisano, in Giur. it., 2001, p. 572 “il
primario ospedaliero è titolare di una specifica posizione di garanzia nei confronti dei suoi
pazienti alla quale non può sottrarsi adducendo che ai reparti sono assegnati altri medici o
che il suo intervento è dovuto solo ai casi di particolari difficoltà o di complicazioni; ciò ri-
6
CAPITOLO PRIMO
luce degli ultimi provvedimenti normativi, del potere-dovere di adottare
decisioni “necessarie per l’appropriatezza degli interventi con finalità tra
l’altro diagnostiche e terapeutiche”, determina l’insorgere in capo allo
stesso di un obbligo di attivarsi allorché percepisca che, nella struttura
cui è preposto, i comportamenti dei propri collaboratori, inosservanti di
direttive o comunque di regole di cautela, mettano a repentaglio la vita o
l’integrità fisica del paziente6.
2.2. Il dirigente di struttura semplice e il dirigente sanitario alla prima assunzione
Sottoposti al dirigente di struttura complessa (o primario) si trovano
altri due sanitari: il dirigente di struttura semplice (aiuto) ed il dirigente
alla prima assunzione (assistente). Si tratta di figure professionali che, a
differenza di quanto osservato in precedenza per il primario, hanno visto
ampliati, a seguito degli interventi legislativi del 1992 e del 1999, i propri
ambiti decisionali e di autonomia, con attenuazione del vincolo gerarchico ed accentuazione di quello funzionale. Sotto la vigenza dell’art. 63
d.P.R. n. 761 del 1979, infatti, l’assistente è definito come colui che
svolge “funzioni medico-chirurgiche di supporto e funzioni di studio, di
didattica e di ricerca, nonché attività finalizzate alla sua formazione, all’interno dell’area dei servizi alla quale è assegnato, secondo le direttive
dei medici appartenenti alle posizioni funzionali superiori” con la previsione di una “responsabilità per le attività professionali a lui direttamente
affidate e per le istruzioni e direttive impartite nonché per i risultati conseguiti”. La sua attività viene assoggettata a controllo e la sua autonomia
è “vincolata alle direttive ricevute”. L’aiuto, invece, è colui che svolge
“funzioni autonome nell’area dei servizi a lui affidata, relativamente ad
attività e prestazioni medico-chirurgiche, nonché ad attività di studio, di
didattica, di ricerca e di partecipazione dipartimentale, anche sotto il
profilo della diagnosi e cura, nel rispetto delle necessità del lavoro di
gruppo e sulla base delle direttive ricevute dal medico appartenente alla
posizione apicale”.
A seguito dell’individuazione di un unico ruolo e di un unico livello
per tutta la dirigenza sanitaria, diviene possibile collocare questi medici
sulta chiaramente dall’art. 7, comma 3, d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 (ordinamento interno
dei servizi ospedalieri) che gli attribuisce la ‘responsabilità’ dei malati e dell’art. 63, comma 5,
d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (stato giuridico del personale delle Usl) secondo il quale il
medico appartenente alla posizione apicale ha il potere di impartire istruzioni e direttive in
ordine alla diagnosi e alla cura e di verificarne l’attuazione”; nonché Cass. pen., sez. IV, 9 novembre 2000, n. 3468, Ripoli, in Guida al dir., 2001, p. 90.
6 G. IADECOLA, La responsabilità medica, cit., p. 159.
MODELLI DI COOPERAZIONE E QUALIFICHE PROFESSIONALI
7
nell’ambito dell’articolo 15, comma 4, d.lgs. n. 502 del 1992, che distingue tra dirigenti sanitari all’atto della prima assunzione e dirigenti sanitari
con cinque anni di attività. Ai primi sono affidati compiti professionali
con precisi ambiti di autonomia da esercitare nel rispetto degli indirizzi
del dirigente responsabile della struttura e sono attribuite funzioni di collaborazione e corresponsabilità nella gestione delle attività. Al dirigente
con cinque anni di attività, che abbia superato con esito positivo le procedure di valutazione previste dall’art. 15, comma 5, sono attribuite funzioni di natura professionale anche di alta specializzazione, di consulenza, studio e ricerca, ispettive, di verifica e di controllo, nonché, possono essere attribuiti incarichi di direzione di strutture semplici.
Si può, quindi, ora genericamente parlare di medici che collaborano
(in posizione subordinata) con il dirigente della struttura complessa e i cui
ambiti di autonomia assumono proporzioni diverse a seconda che gli
stessi siano o meno a capo di una struttura semplice. In ogni caso potrebbe essere ancora possibile una distinzione tra i due ruoli, continuando
ad individuare nell’assistente un professionista, relativamente giovane per
età ed esperienza, munito di preparazione per lo più teorica e comunque
di un limitato background pratico7, e nell’aiuto, viceversa, quel professionista che ha già maturato una certa esperienza, anche pratica (almeno
quinquennale), e che potrebbe essere preposto ad una struttura semplice.
2.3. Lo specializzando
Ciascun laureato in medicina e chirurgia può, superando apposito
concorso, accedere alle Scuole di formazione specialistica che si pongono, come finalità precipua, l’acquisizione di una professionalità coerente con le esigenze del Servizio Sanitario Nazionale. La figura dello
specializzando (o assistente in formazione) pone peculiari problemi in ordine all’individuazione dei limiti entro cui lo stesso può svolgere la propria attività e, conseguentemente, dei confini della sua eventuale responsabilità penale. Se, infatti, da un lato, ci si trova di fronte ad una legislazione che, in prima battuta, tratteggerebbe la figura del medico in
formazione come un “allievo” che effettua un periodo di apprendimento
e pratica clinica con un ruolo marginale nell’organigramma, dall’altro,
però, nella realtà ospedaliera, lo specializzando non assume di certo un
ruolo meramente secondario, finendo, invece, per eseguire tutte le mansioni proprie di ogni altra figura a lui gerarchicamente sovraordinata.
7 P. ZANGANI, Sul rapporto di subordinazione tra primario e assistente ospedalieri: concorso nella responsabilità professionale, in Giust. pen., 1962, p. 476 ss.
8
CAPITOLO PRIMO
La normativa di riferimento era originariamente contenuta nel d.lgs.
n. 257 del 1991, adottato in attuazione della direttiva comunitaria
82/76/CEE, il quale all’art. 4 individuava i diritti e doveri dello specializzando stabilendo che “la formazione specialistica del medico a tempo
pieno implica la partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio di cui fanno parte le strutture nelle quali essa si effettua, ivi comprese le guardie e l’attività operatoria per le discipline chirurgiche, nonché la graduale assunzione di compiti assistenziali in modo che lo specializzando dedichi alla formazione pratica e teorica tutta la sua attività
professionale per l’intero anno”.
Il decreto è stato successivamente abrogato dal d.lgs. 17 agosto
1999, n. 368 che, adottato in attuazione delle direttive comunitarie
93/16/CEE, 97/50/CE, 98/21/CE e 99/46/CE, agli articoli da 37 a 42,
riordina alcune delle questioni più critiche del rapporto “azienda sanitaria – specializzando”8, delineando, all’art. 38, in modo più dettagliato rispetto alla previgente disciplina, le mansioni di questa figura di medico.
L’art. 38 d.lgs. n. 368 del 1999 ben sintetizza le mansioni che devono essere attribuite allo specializzando il quale, sotto la diretta guida del proprio tutore (medico di comprovate esperienze professionali e di elevata
qualificazione scientifica), deve svolgere attività sia teoriche sia pratiche
ma, soprattutto, deve gradualmente assumere compiti di natura assistenziale ed eseguire interventi diagnostici e terapeutici, con autonomia vincolata alle direttive ricevute dal tutore. Il medico specializzando, quindi,
è sempre assoggettato al controllo del tutore, il quale ha anche l’obbligo
di verificare costantemente e discutere criticamente con l’interessato ogni
prestazione lasciata all’autonomia gestionale dello specializzando. Esulano, invece, dai compiti dello specializzando le attività di natura prettamente amministrativa quali, ad esempio, la richiesta di esami di laboratorio, il rilascio di certificazioni sanitarie, la redazione della documentazione attestante il ricovero e le dimissioni dei pazienti.
La disciplina normativa dell’attività dei medici specializzandi è poi
completata dal disposto dell’art. 16 d.lgs. 502 del 1992, il quale ribadisce
che la formazione implica la partecipazione alla totalità delle attività mediche, nonché la graduale assunzione di compiti assistenziali con autonomia vincolata alle direttive impartite dal responsabile della formazione.
Dall’esame della disciplina normativa emerge, quindi, che il medico
specializzando non è presente nella struttura per la sola formazione pro8 L’applicazione delle disposizioni degli articoli dal 37 al 42 del d.lgs. n. 368 del 1999 è
stata prorogata diverse volte fino all’approvazione della l. 23 dicembre 2005, n. 266 la quale,
all’art. 1, comma 300, ne ha previsto l’applicazione a decorrere dall’anno accademico 20062007.
MODELLI DI COOPERAZIONE E QUALIFICHE PROFESSIONALI
9
fessionale: egli non è un mero esecutore di ordini del tutore, ma è dotato
di autonomia, tanto che assume personalmente la responsabilità delle attività compiute9. Pur tuttavia, la nuova disciplina introdotta dal d.lgs. 368
del 1999 ha accentuato i poteri-doveri di controllo del tutore specificando, da un lato, che la partecipazione dello specializzando alle attività
deve essere “guidata” e, dall’altro, che l’autonomia del medico in formazione è “vincolata” alle direttive impartite dal primo. Muovendo da tale
constatazione autorevole dottrina ha individuato dei limiti a cui deve sottostare lo specializzando nello svolgimento dell’attività: a) della gradualità progressiva, nel senso che alla progressiva acquisizione di sempre più
ampie conoscenze tecniche fa riscontro la parallela e graduale estensione
degli ambiti di intervento, ad esecuzione personale, dello specializzando;
b) della direzione e controllo da parte del responsabile dell’attività dello
specializzando10.
Eppure, nonostante queste previsioni normative, il medico in formazione svolge spesso mansioni che esulano, non solo dai suoi compiti,
ma, soprattutto, dalle sue competenze. L’assunto trova indiscutibile conferma dall’esame dei numerosi casi giurisprudenziali che hanno affrontato questioni attinenti alla penale responsabilità di specializzandi per
aver adottato erronee decisioni o eseguito interventi diagnostici e terapeutici, senza consultare il medico più esperto (magari irreperibile o indisponibile) o, addirittura, per non essersi discostati dalle direttive (erronee) impartite dal tutor.
2.4. Il personale paramedico
Anche la normativa sui paramedici ha subito nel corso di questi ultimi anni significativi mutamenti che hanno fortemente inciso sui compiti
che il personale infermieristico assume nell’ambito dell’organizzazione
ospedaliera. Fino al 1999, la normativa di riferimento era costituita dal
d.P.R. 14 marzo 1974, n. 225, il quale individuava in modo analitico e
dettagliato le mansioni spettanti agli infermieri generici e professionali,
creando una figura professionale con un compito di ausilio per il medico
e di esecuzione di compiti da quest’ultimo affidatigli.
Il quadro normativo muta con l’approvazione della l. 26 febbraio
1999, n. 42 che, all’art. 1, dichiara espressamente abrogato il precedente
9 In tal senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 16 febbraio 2010, n. 6215, Pappadà, ed altri, in
CED rv. 246419; nonché Cass. pen., sez. IV, 20 gennaio 2004, n. 32901, Marandola ed altro,
in Riv. pen., 2005, p. 750.
10 F. MANTOVANI, La responsabilità nella partecipazione degli specializzandi negli interventi medico chirurgici, in F. MANTOVANI (a cura di), Umanità e razionalità del diritto penale,
Padova, 2008, p. 1512.
10
CAPITOLO PRIMO
d.P.R. n. 225 del 1974. In particolare il nuovo provvedimento normativo
stabilisce che il campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie infermieristiche sia determinato dai contenuti dei decreti
ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti
didattici dei rispettivi corsi di diploma universitario e di formazione postbase nonché degli specifici codici deontologici.
In effetti, già a decorrere dal 1994 si erano succeduti una serie di decreti ministeriali ciascuno dei quali provvedeva ad individuare uno specifico profilo professionale nell’ambito del personale infermieristico specializzato11. La nuova normativa, tuttavia, non elenca più le mansioni dell’infermiere in modo così analitico come il precedente d.P.R. n. 225 del 1974,
ma si limita a definirne i compiti attraverso “principi generali”. In particolare, con specifico riferimento all’infermiere professionale, l’art. 1, d.m.
n. 739 del 1994 individua quali sue principali funzioni la prevenzione
delle malattie, l’assistenza ai malati e ai disabili, l’educazione sanitaria.
L’assenza di un’elencazione dettagliata delle mansioni dell’infermiere, però, non costituisce l’unico profilo di novità della riforma, ma a
questo deve aggiungersi il rilievo che tale figura professionale viene dotata di una maggiore autonomia decisionale. Questo operatore sanitario,
infatti, deve identificare i bisogni della salute e pianificare l’intervento assistenziale assumendo così autonomamente la responsabilità del processo
assistenziale. Pertanto con l’abolizione del d.P.R. n. 225 del 1974, come
osservato anche in dottrina, si è assistito al passaggio da una condizione
di “eteronomia”, cioè di dipendenza, della professione infermieristica, ad
una condizione di “autonomia professionale”12. In altri termini, l’infermiere, da semplice operatore di supporto per altre professionalità ed esecutore di compiti affidatigli da altri, è divenuto soggetto dotato di autonomia decisionale in ordine al processo assistenziale.
Non può, infine, sottacersi che il passaggio da una tecnica normativa
di tipo casistico, utilizzata nel d.P.R. n. 225 del 1974, ad una di tipo sintetico, come quella del d.m. n. 739 del 1994, può determinare una maggiore difficoltà per l’interprete nell’individuare l’esatto contenuto degli
obblighi incombenti sul paramedico e, di conseguenza, anche le ipotesi
in cui eventuali errori di quest’ultimo possano ripercuotersi su altri professionisti che si siano avvalsi della sua collaborazione.
11 I decreti ministeriali che hanno individuato i diversi profili professionali sono: d.m.
n. 666 del 1994 (podologo); d.m. n. 669 del 1994 (igienista dentale); d.m. n. 731 del 1994 (infermiere professionale); d.m. n. 740 del 1994 (ostetrica); d.m. n. 744 del 194 (dietista); d.m.
n. 69 del 1997 (assistente sanitario); d.m. n. 70 del 1997 (infermiere pediatrico).
12 A. FEDRIGOTTI COLOMBO, C. CORTESE FAUSTI, Riferimenti per la nuova assistenza, in
Aggiornamenti professionali, 1999, p. 29; nonché E. CARLI, Le regole della professione, in Aggiornamenti professionali, 1999, p. 28.
CAPITOLO SECONDO
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO
E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
SOMMARIO: Sezione prima. L’INDIVIDUAZIONE DEI SOGGETTI RESPONSABILI: 1. Il recupero del
principio della responsabilità personale. – 2. Imputazione oggettiva del fatto: il riparto delle competenze. – 2.1. La posizione di garanzia del sanitario: posizione di
protezione o di impedimento di altrui reati? – 2.2. I limiti della concezione formale
dell’obbligo di garanzia. – 3. La successione nella posizione di garanzia. – 4. Casi
di successione nella posizione di garanzia. In particolare: la successione nelle attività inosservanti. – Sezione seconda. IMPUTAZIONE SOGGETTIVA DEL FATTO: 5. La tipicità colposa. – 6. Origini e fondamento del principio di affidamento. – 7. I limiti
del principio di affidamento. – 8. L’individuazione delle regole cautelari. – 8.1. La
progressiva procedimentalizzazione dell’attività medico-chirurgica. – 8.2. In particolare: il sistema delle linee guida. – 8.3. Formalizzazione delle regole cautelari e
colpa generica residua. – 8.4. Linee guida, protocolli e colpa grave: l’art. 3, comma
1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (c.d. decreto Balduzzi). – 8.5. Le lacune dell’art.
3 d.l. n. 158 del 2012; a) l’ambito soggettivo di applicazione della nuova normativa. – 8.6. (Segue): b) le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità
scientifica. – 8.8. (Segue): c) quale nozione di colpa lieve? Possibili casi di esclusione della responsabilità dei sanitari. – 8.9. Brevi considerazioni conclusive sul decreto Balduzzi. – 9. Il comportamento alternativo lecito e l’evitabilità dell’evento.
– 10. Misura soggettiva della colpa del medico: la riconoscibilità dell’errore altrui.
– 11. Cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti.
SEZIONE PRIMA
L’INDIVIDUAZIONE DEI SOGGETTI RESPONSABILI
1.
Il recupero del principio della responsabilità personale
L’esame della giurisprudenza di questi ultimi anni mette chiaramente in evidenza i limiti del ricorso ai tradizionali criteri di ascrizione
oggettiva e soggettiva del fatto quando il reato si sia verificato nell’ambito di una struttura complessa (quale ad es. un’équipe chirurgica). Se,
infatti, tali criteri di imputazione ben si attagliavano a società semplici, in
cui la realizzazione del fatto era per lo più monosoggettiva, essi, al contrario, mal si conciliano con la realizzazione plurisoggettiva del fatto di
12
CAPITOLO SECONDO
reato in cui, non di rado, l’evento delittuoso è il frutto di un coacervo di
condotte, rispetto alle quali, talvolta, non è neppure agevole individuare
un nesso eziologico singolo1.
D’altro canto l’esigenza di bilanciare gli interessi che entrano in
gioco nell’esercizio dell’attività medica – da un lato, il diritto del paziente
ad essere curato e rispettato nella integrità della propria persona e, dall’altro, quello del medico di effettuare scelte terapeutiche libere ed autonome2 – ha spesso indotto i giudici, in ragione della particolare rilevanza
di tale bene, a propendere per la salute del paziente.
Si assiste, così, al proliferare di processi per responsabilità medica in
cui il fatto di reato viene imputato, indistintamente, ai componenti della
struttura complessa ritenuti tutti egualmente portatori di una posizione
di garanzia nei confronti del paziente e di un dovere di controllo sull’operato dei colleghi. Al verificarsi di un evento dannoso per la salute
del paziente si apre per il medico lo scenario di una più che probabile responsabilità per omicidio o lesioni colposi. Responsabilità che, tuttavia,
non è riconosciuta solo nei confronti del sanitario che materialmente ha
realizzato la condotta, attiva od omissiva, eziologicamente produttiva dell’evento, ma anche di quelli che con lo stesso hanno avuto occasione di
cooperare (sincronicamente o diacronicamente) nella cura di quel paziente ovvero dei dirigenti della struttura sanitaria pubblica o privata in
cui ha avuto luogo l’intervento. A carico di questi ultimi, in particolare,
nella maggior parte dei casi, viene configurata, attraverso il ricorso alla
clausola di equivalenza dell’art. 40, comma 2, c.p., un responsabilità di
tipo omissivo per non essere intervenuti ad emendare o per non aver riconosciuto l’errore del collega concorrendo, quindi, a cagionare l’evento.
Un’attribuzione di responsabilità che, come si vedrà, non di rado,
fuoriesce, però, dal canone costituzionale del “fatto proprio e colpevole”,
finendo il medico per rispondere di fatti che difficilmente avrebbe potuto impedire (ad es. perché privo dei necessari poteri impeditivi), o di
un controllo omesso che, nondimeno, non avrebbe avuto le competenze
per esercitare (ad es. perché giovane medico in formazione).
Pur consapevoli che il definitivo superamento delle, neppure tanto
mascherate, forme di responsabilità per fatto altrui e di gruppo, potrebbe
essere raggiunto, come già in precedenza evidenziato, con una regolamentazione ad hoc della materia, si ritiene, nondimeno, che, già sul piano
1 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 39.
2 Anche il codice deontologico dei medici, entrato
in vigore il 16 dicembre 2006, all’art.
3, impone al medico il generale dovere di tutela della vita e del sollievo dalla sofferenza del
paziente e, all’art. 4, riconosce che l’esercizio dell’attività medica è fondato sulla libertà e l’indipendenza della professione.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
13
ermeneutico, la corretta reinterpretazione dei canoni ascrittivi – alla luce
delle peculiarità dell’operare in strutture complesse (nelle quali il singolo
non ha una compiuta libertà di autodeterminazione essendo influenzato
dalle scelte del gruppo, e nelle quali i partecipanti, generalmente, governano solo talune e non tutte le aree di rischio) – potrebbe condurre ad
una maggiore individualizzazione della responsabilità in ossequio al canone dell’art. 27 Cost.
2.
Imputazione oggettiva del fatto: il riparto delle competenze
La delimitazione della responsabilità deve avvenire, innanzitutto, sul
piano oggettivo, in quanto il fatto di reato, ancor prima che colpevole,
deve essere “proprio”. Se, tuttavia, l’attribuzione del fatto al soggetto
non presenta particolari insidie nel caso di responsabilità monosoggettiva
essa, al contrario, può rivelarsi particolarmente complessa ove concerna
strutture plurisoggettive nell’ambito delle quali non è sufficiente la verifica della partecipazione all’attività ed il nesso causale tra la condotta e
l’evento3.
Nel caso di strutture complesse è imprescindibile l’individuazione
delle sfere di competenza proprie di ciascun soggetto partecipante all’attività. La tematica, invero, non trova particolare approfondimento nella
giurisprudenza di legittimità la quale si è sempre trincerata dietro la, as3 Il problema dell’individuazione dei soggetti penalmente responsabili è stato fino ad
ora affrontato dalla dottrina con particolare attenzione per l’attività d’impresa, ma incomincia oggi a destare vivo interesse anche nell’ambito dell’attività medica plurisoggettiva. Con riferimento agli studi in materia di diritto penale dell’impresa, cfr. A. ALESSANDRI, voce Impresa
(responsabilità penale), in Dig. disc. pen., Torino, 1992, VI, p. 193; P. ALDROVANDI, Orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di delega di compiti penalmente rilevanti, in Riv.
trim. dir. pen. econ., 1995, p. 699; C. PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale d’impresa,
in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 125.
Interessanti spunti di riflessione sono proposti sul generale problema dell’individuazione dei soggetti responsabili nel caso di realizzazione plurisoggettiva della fattispecie di
reato (con particolare riferimento alla cooperazione colposa) da L. CORNACCHIA, Concorso di
colpe, cit., p. 9 e 41 ss., secondo il quale, in ossequio al principio della responsabilità penale
personale, preliminare, rispetto alla tipicità della condotta di partecipazione, è proprio l’individuazione dei soggetti responsabili, da intendersi quali soggetti che siano stati preventivamente individuati dall’ordinamento quali soggetti “competenti”, ossia dotati di doveri giuridici attinenti allo status che viene loro riconosciuto. La sfera di competenza, quindi, costituisce il limite al di là del quale non è ammesso un addebito di responsabilità penale,
verificandosi, in caso contrario, la violazione del principio costituzionale sancito dall’art. 27.
Nello stesso senso, cfr. L. CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti: spunti problematici (Parte I): in Indice pen., 2001, p. 684; nonché R. BLAIOTTA, La causalità, cit., p. 93
ss. Sulla posizione di garanzia del medico v. E. SBORRA, La posizione di garanzia del medico, in
Medicina e diritto penale, Pisa, 2009, p. 115 ss.
14
CAPITOLO SECONDO
sai semplicistica, soluzione dell’individuazione di una posizione di garanzia nei confronti del paziente in capo a tutti i sanitari che abbiano partecipato all’attività diagnostica o terapeutica. Così in una delle pronunce
più note della Corte di Cassazione, nella quale si afferma che “gli operatori, medici e paramedici, di una struttura sanitaria sono tutti ex lege portatori di una posizione di garanzia – espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex artt. 2 e 32 Cost. – nei confronti dei
pazienti affidati, a diversi livelli, alle loro cure o attenzioni, e, in particolare, sono portatori della posizione di garanzia che va sotto il nome di
posizione di protezione, la quale, come è noto, è contrassegnata dal dovere giuridico incombente al soggetto di provvedere alla tutela di un
certo bene giuridico contro qualsivoglia pericolo atto a minacciarne l’integrità”4.
La nozione di posizione di garanzia elaborata dalla Corte nella citata
sentenza non appare convincente sotto diversi profili. A tal riguardo, anzitutto, appare necessaria una premessa terminologica e metodologica.
Occorre prendere atto, infatti, che ormai, nell’ambito degli illeciti colposi
d’evento, con il termine “garante” dottrina e giurisprudenza sono solite
individuare in generale la sfera di responsabilità di un soggetto e, quindi,
ad utilizzare detto termine in senso diverso e più ampio rispetto a quello
fatto proprio dall’art. 40, comma 2, c.p.5. Frutto, probabilmente, della ricorrente confusione concettuale tra il c.d. momento omissivo della colpa
e la causalità omissiva, l’uso “improprio” del termine garante ha finito
4 Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano, in Cass. pen., 2002, p. 574, con riferimento ad una fattispecie di omicidio colposo ai danni di un paziente giunto in pronto soccorso a seguito di infortunio e condotto nella sala chirurgica ove il medico Troiano era impegnato a prestare assistenza ad un’altra paziente ed aveva, pertanto, richiesto agli infermieri
presenti in reparto di contattare il medico internista. V. inoltre Cass. pen., sez. IV, 11 gennaio
1999, n. 7151, Traballi, in Cass. pen., 2001, p. 125; nonché Cass. pen., sez. IV, 25 febbraio
2000, n. 2325, Altieri ed altri, in Dir. pen. proc., 2001, p. 469. Contra Cass. pen., sez. IV, 24
gennaio 2013, n. 7967, F. e altro, in Riv. it. med. leg., 2013, p. 958; Cass. pen., sez. IV, 7 aprile
2004, Ardovino e altri, n. 25310 in CED rv. 225984, secondo cui “nell’attività medico-chirurgica, la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, ad entrambe le categorie
in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione: la c.d. posizione di protezione
(che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l’integrità) e
la c.d. posizione di controllo (che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che
possano minacciare il bene protetto)”. In dottrina si veda C. PARODI, V. NIZZA, La responsabilità, cit., p. 211 ss.; R. FRESA, La responsabilità penale in ambito sanitario, in I reati contro la
persona, diretto da A. CADOPPI, S. CANESTRARI, M. PAPA, Torino, 2006, p. 766.
5 In tal senso, anche se con riferimento alla materia degli infortuni sul lavoro v. R.
BLAIOTTA, L’imputazione oggettiva nei reati di evento alla luce del testo unico sulla sicurezza del
lavoro, in Cass. pen., 2009, p. 2264. In giurisprudenza Cass. pen., sez. IV, 23 novembre 2012,
n. 49821, in CED rv. 254094.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
15
per entrare nel lessico comune identificando, quindi, anche ipotesi in cui
vengono in gioco condotte commissive, riconducibili alla causalità attiva.
L’esigenza di superare la confusione terminologica, ma anche di trovare un criterio generale per la delimitazione delle sfere di responsabilità,
ha portato, di recente, ad una rilettura della definizione di garante fondata
sul concetto di “rischio”. Si evidenzia, infatti, che in ciascuna attività esistono plurime aree di rischio la cui gestione fa capo a distinti soggetti,
preventivamente individuati, i quali saranno responsabili per eventuali
fatti verificatisi a causa del mancato governo dello stesso6. Soltanto l’individuazione del soggetto che deve rispondere dell’illecito (e che è, quindi,
“garante” o con terminologia più generica “competente”), è possibile
dirsi pienamente rispettato il principio costituzionale di personalità7.
Attraverso un rimando alle teorie dell’imputazione oggettiva8 si
cerca, quindi, di individuare un rapporto di rischio tra condotta e risultato: è rilevante unicamente quel risultato che, non solo è la conseguenza
della condotta del soggetto, ma che concretizza anche quel rischio che il
soggetto aveva la competenza (e, quindi, il dovere giuridico) di impedire9. Rimane, in tal modo, esclusa qualsivoglia responsabilità per rischi
che fuoriescano dal limite segnato dalla propria sfera di competenza, anche se, sotto il profilo strettamente causale, l’evento risulti, a posteriori,
cagionato dal soggetto.
L’idea di delimitare, nelle strutture complesse, l’ambito della responsabilità attraverso il richiamo alle competenze del singolo (e, quindi,
ai suoi doveri) appare assolutamente condivisibile. Ciò che, tuttavia, lascia perplessi è la proposta di ancorare tale delimitazione al tipo di “rischio” che, invero, ove non preventivamente individuato, potrebbe rivelarsi concetto del tutto indeterminato e rimesso, quindi, alla discrezionale
valutazione giudiziale. La compiuta valorizzazione delle sfere di competenza o, per tornare alla tradizionale terminologia del formato giurisprudenziale, della posizione di garanzia, presuppone, necessariamente una
previsione normativa dei doveri del singolo partecipante all’attività plurisoggettiva.
6 Cass. pen., IV, 28 maggio 2013, n. 37738; Cass. pen., IV, 23 novembre 2012, n. 49821,
CED rv. 254094. Nella dottrina, V. PEZZELLA, Carichi esigibili e produttività, ma anche qualità
del decidere e rispetto del codice, in Cass. pen., 2009, p. 2263 ss.
7 M. DONINI, Imputazione oggettiva dell’evento (diritto penale), in Enc. dir., Annali, III,
Milano, 2010, p. 638; L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 310 ss.; ID., Competenze ripartite: il contributo dei criteri normativi all’individuazione dei soggetti penalmente responsabili, in Ind. pen., 2013, p. 249 ss.
8 M. DONINI, Imputazione oggettiva, cit., p. 638.
9 L. CORNACCHIA, Competenze ripartite, cit., p. 253 ss.
16
CAPITOLO SECONDO
2.1. La posizione di garanzia del sanitario: posizione di protezione o di impedimento di altrui reati?
Orbene – seppure come evidenziato – possano darsi casi di responsabilità professionale da collaborazione tra più sanitari conseguenti a
condotte attive (es. errata esecuzione di un esame diagnostico da parte
del tecnico radiologo e conseguente errata diagnosi del medico che ha
fondato la propria decisione sul falso risultato), nondimeno, in numerosi
casi i membri di strutture complesse vengono chiamati a rispondere per
aver omesso di emendare l’errore del collega. Si tratta dell’ipotesi di responsabilità forse più peculiare tra quelle che possono coinvolgere i
membri di una struttura complessa, in quanto al medico (anche alle
prime armi) si rimprovera, non tanto di aver errato (ad es, recidendo
un’arteria nel corso di un intervento o avendo omesso una diagnosi),
quanto, piuttosto, di non essersi attivato per porre rimedio all’errore di
un proprio collega (magari, anche superiore gerarchico).
Un obbligo di impedimento che, nelle ricostruzioni giurisprudenziali, raggiunge, come accennato in precedenza, ampiezza tale da imporre, in definitiva, al sanitario l’alternativa tra esercitare un controllo generale e costante sull’operato dei colleghi o rispondere di eventuali
eventi avversi pur non diretta conseguenza di proprie condotte erronee.
Un’ampiezza che, peraltro, al di là delle formule lessicali utilizzate, sembra far sfociare la posizione di protezione in una più stringente (e preoccupante) posizione di impedimento di altrui reati.
Una categoria di obbligo giuridico, quest’ultima, fatta discendere
dalla lettura in combinato disposto degli artt. 40, comma 2 e 110 c.p. (o
113 c.p. per la responsabilità colposa), sulla cui autonoma configurabilità, invero, vi sono, a tutt’oggi, opinioni discordanti in dottrina. Per quegli autori che ne ammettono l’autonomia concettuale, si tratterebbe di un
obbligo di garanzia che presuppone l’individuazione di un soggetto garante dotato del potere-dovere di vigilare sull’operato di terzi e, al contempo, del potere-dovere, di impedire il compimento di azioni penalmente illecite da parte di tali soggetti10. Obbligo che non sarebbe ricon-
10 Per
la ripartizione dell’obbligo di garanzia in obbligo di protezione, di controllo e di
impedimento di altrui reati v. F. MANTOVANI, L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità personale, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2001, p. 352, il quale definisce l’obbligo di garanzia come “quell’obbligo giuridico che grava
su specifiche categorie predeterminate di soggetti previamente forniti di adeguati poteri giuridici di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla loro tutela per l’incapacità dei titolari di proteggerli adeguatamente”, differenziandolo dall’obbligo di sorveglianza, a sua
volta definito come “obbligo giuridico gravante su specifiche categorie di soggetti, privi di
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
17
ducibile alle tradizionali categorie degli obblighi di protezione e di controllo potendo assumere caratteristiche funzionali riconducibili ad entrambi11. Nei primi, infatti, la fonte sostanziale del dovere di agire sta nel
particolare legame esistente tra il garante ed il titolare del bene tutelato,
tanto che l’ordinamento affianca le capacità di difesa del garante a quelle,
ritenute insufficienti, del titolare, senza però conferire al primo poteri di
impedimento diversi da quelli che ben potrebbe avere il quisque de populo del tutto estraneo alla posizione di garanzia. Nelle posizioni di controllo, viceversa, la tutela rafforzata del bene scaturisce proprio dalla posizione di signoria che un determinato soggetto ha nei confronti di una
fonte di pericolo, in quanto fornito di peculiari poteri di intervento rispetto ad essa. Nel caso di obblighi di impedimento dell’altrui reato, invece, la ratio di tutela varia, potendo discendere dall’esigenza sia di contenere la particolare pericolosità di determinati soggetti sia di far fronte
alla vulnerabilità di determinati beni. D’altro canto, ciò che caratterizza
tale peculiare posizione di garanzia, differenziandola dalle altre, è la capacità del soggetto garante di interferire con la condotta del terzo, essendo dotato di poteri giuridici di impedimento e comando nei confronti
del reo12.
Sennonché, anche a voler accedere alle teorie che riconoscono l’autonomia di questo obbligo giuridico, non si ritiene, tuttavia, che ad esso
sia riconducibile la posizione dei sanitari coinvolti in attività plurisoggettive. Se così fosse, infatti, si imporrebbe al medico di effettuare un controllo onnisciente sull’operato dei colleghi, quasi che questi ultimi fossero una vera e propria fonte di rischio quali soggetti pericolosi da contenere.
poteri giuridici impeditivi, di vigilare su altrui attività per conoscere dell’eventuale commissione di fatti offensivi e di informare il titolare o il garante del bene”, ed infine dall’obbligo
di attivarsi “che comprende, per esclusione, ogni obbligo giuridico di agire per la tutela di
certi beni imposto a soggetti, privi di poteri giuridici impeditivi e di sorveglianza, dalla norma
incriminatrice al verificarsi del presupposto di fatto, dalla stessa indicato”. Ne consegue,
quindi, che solo l’obbligo di garanzia, in quanto connotato dal dovere-potere impeditivo dell’evento, legittima l’equiparazione, attraverso la clausola di equivalenza sancita dall’art. 40,
comma 2, c.p., del non impedire al cagionare. I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., 1999, p.
122. Per una interessante ricostruzione delle problematiche connesse all’obbligo di impedimento dell’altrui reato v. L. BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e giurisprudenza italiane, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1349. Sono, invece, critici rispetto all’autonoma configurabilità dell’obbligo di impedire altrui reati G. FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, p. 181 ss.; L. RISICATO, La partecipazione mediante
omissione a reato commissivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 1267 ss.
11 L. BISORI, L’omesso impedimento, cit., p. 1365.
12 L. BISORI, L’omesso impedimento, cit., p. 1365 ss.
18
CAPITOLO SECONDO
Nonostante in dottrina non siano mancate voci isolate13, che hanno
ritenuto di ricondurre a questa peculiare tipologia di obbligo giuridico la
posizione del medico dirigente di struttura complessa, si ritiene che tale
ricostruzione non sia assolutamente suffragata dal dettato normativo.
Si concorda, in tal senso, con gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, sostanzialmente uniformi, che individuano in capo al primario
una posizione di protezione volta alla tutela del bene della vita e della salute dei pazienti14. La fonte di tale obbligo di garanzia è da ricercarsi nell’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1969, che individua tra i doveri del primario
quelli di direzione ed organizzazione del reparto, di indirizzo e verifica
delle prestazioni di diagnosi e cura, di disposizione di direttive ed istruzioni15. La predetta posizione non si ritiene abbia subito particolari mutamenti in seguito alla riforma operata con il d.lgs. n. 502 del 1992, il
quale, attraverso il riordino della dirigenza sanitaria (v. supra Cap. I § 2),
ha determinato certamente un’attenuazione dei rapporti gerarchici, attribuendo maggiori sfere di autonomia ai medici in posizione subalterna,
ma ha, nondimeno, lasciato sostanzialmente invariati i poteri-doveri del
sanitario in posizione apicale16.
13 In tal senso A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero ed omissione colposa di trattamento terapeutico, in Dir. pen. proc., 2000, p. 1637; M.L. FERRANTE, Gli obblighi di impedire
l’evento nelle strutture sanitarie complesse, Napoli, 2005, p. 144 e 179 ss.
14 Alla posizione del primario viene equiparata quella del capo-équipe.
15 Sulla posizione di garanzia assunta dal primario, v. F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R.
PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 9 ss.; P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 197; R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 767. In giurisprudenza Cass. pen., sez. IV, 1 febbraio 2000, n.
1126, Gulisano e altri, in Riv. pen., 2001, p. 670 in cui si afferma “il primario ospedaliero è
titolare di una specifica posizione di garanzia nei confronti dei suoi pazienti alla quale non
può sottrarsi adducendo che ai reparti sono assegnati altri medici o che il suo intervento è dovuto solo in casi di particolare difficoltà o di complicazioni; ciò risulta chiaramente dall’art.
7, comma 3, del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 che gli attribuisce la «responsabilità dei malati»
e dall’art. 63, comma 5, del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 secondo il quale il medico appartenente alla posizione apicale ha il potere di impartire istruzioni e direttive in ordine alla
diagnosi e alla cura e di verificarne l’attuazione”; nonché Cass. pen., sez. IV, 9 novembre
2000, n. 3468, Ripoli e altri, in Guida al dir., 21 aprile 2001, p. 90.
16 In tal senso Cass. pen., sez IV, 29 settembre 2005, n. 47145, Sciortino ed altri, cit.,
con nota di G. IADECOLA, La responsabilità medica, cit., il quale osserva che “non parrebbe,
insomma, che le nuove norme possano in particolare autorizzare l’assunto secondo cui condotte inadeguate e lesive, poste in essere all’interno della struttura siano, allo stato, diventate
riferibili all’esclusiva responsabilità di chi materialmente le abbia realizzate …”; in dottrina v.
altresì F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsbailità., cit., p. 7, ove si rileva
come il d.lgs. n. 502 del 1992 (e succ. mod.) recante il riordino della disciplina in materia sanitaria, abbia abrogato il d.P.R. n. 128 del 1969, lasciando in vigore il d.P.R. n. 761 del 1979;
in ogni caso, anche a seguito della formale abrogazione del d.P.R. n. 128 del 1969 (il quale
pure definiva i compiti del personale ospedaliero), nulla è cambiato dal punta di vista sostanziale, essendo la normativa del 1969 e quella del 1979 perfettamente fungibili.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
19
Ne consegue, quindi, che il dirigente, sulla scorta dei doveri di organizzazione, programmazione e direzione che gli sono riconosciuti, potrà essere ritenuto penalmente responsabile per esiti infausti di eventuali
interventi terapeutici o diagnostici eseguiti da medici appartenenti alla
struttura, laddove non abbia predisposto i piani di lavoro o non ne abbia
verificato la concreta attuazione, nonché ove abbia omesso di impartire
istruzioni o direttive. In tali casi, ove l’omissione delle azioni doverose da
parte dell’apicale dovesse risultare causale rispetto al verificarsi dell’evento morte o lesioni, potrà configurarsi a suo carico (salvo ovviamente
l’ulteriore accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo) una
corresponsabilità ed una conseguente imputazione, ex art. 40, comma 2,
c.p. per omicidio o lesioni colpose17.
Sennonché, nonostante il medico in posizione apicale sia dotato di
poteri atti ad incidere sulle condotte di terzi (ad esempio il potere di avocazione previsto dall’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979), si ritiene che detti
poteri di controllo siano connessi ad un obbligo di impedire l’evento lesivo della salute del paziente e non, più in generale, la commissione di
reati da parte dei propri colleghi. La dottrina che ha approfondito il generale problema dell’obbligo di impedimento di altrui reati, anche ai fini
di meglio differenziarlo dagli altri obblighi di garanzia, ha, infatti, precisato che, quando si guarda alla concreta funzione di impedire gli altrui
fatti delittuosi, la finalità di garanzia conferisce un diverso contenuto all’obbligo di impedimento. In tal caso, è la condotta del terzo che diventa
l’oggetto di un interesse di tutela che l’ordinamento esprime con il conferimento al garante di specifici poteri di interferenza-impedimento.
Come osservato, infatti, “il mancato impedimento del reato assorbe ogni
elemento di disvalore della condotta del reo, abbraccia ogni caratteristica
oggettiva del reato non impedito, a patto che anche la condotta dell’agente formi oggetto diretto ed immediato dell’obbligo di garanzia. Ove
l’obbligo sia rivolto, invece, alla sola salvaguardia diretta del bene, la
conversione della condotta tipica riguarderà la sola forza causale della
condotta del terzo aggressore, e pertanto l’omissione assorbirà il disvalore della sola causazione dell’evento, e non anche quello dei connotati
della condotta, dello stampo esteriore del reato come compiutamente disegnato dal legislatore”18. Ulteriore conseguenza di tali differenze è che,
mentre il titolare di posizione di protezione ben può attivarsi successiva17 Osserva
P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 198 che “l’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 non
individua solo una posizione di garanzia ma anche una regola cautelare che suona nei termini
seguenti «il primario deve sempre impartire al personale delegato le direttive ed istruzioni
corrette, e comunque deve verificare l’esatta attuazione delle medesime»”.
18 L. BISORI, L’omesso impedimento, cit., p. 1369.
20
CAPITOLO SECONDO
mente alla condotta altrui, intervenendo in qualsiasi momento anteriore
al prodursi dell’evento, al contrario, nel caso di obbligato all’impedimento di reati altrui, l’istanza di protezione arretra al momento in cui
sorga il pericolo che la condotta venga attivata. Tornando, quindi, alla
posizione del medico apicale, dal dato normativo sembra potersi desumere che egli assuma una posizione di vera e propria tutela della salute
del paziente per il fatto di aver preso in carico lo stesso, tanto che il sanitario può, indubbiamente, intervenire in qualsiasi momento in cui si
avveda dell’errore del sottoposto, attivandosi per impedire l’evento lesivo
a carico del paziente.
D’altro canto il ritenere che la posizione di garanzia del dirigente di
struttura complessa abbia come specifico oggetto il controllo dell’attività
altrui comporterebbe il rischio di una vanificazione della stessa divisione
del lavoro e, soprattutto, finirebbe per risolversi in una mera responsabilità di posizione, non essendo per detto medico concretamente possibile
la realizzazione di un controllo tanto stringente, vista la contemporanea
titolarità di compiti operativi.
Alla medesima soluzione non può che pervenirsi con riguardo alla
posizione dei medici in posizione subalterna. Dottrina e giurisprudenza
sono concordi nell’individuare anche in capo a questi sanitari un obbligo
giuridico di impedire eventi dannosi per la salute del paziente. La previsione del potere-dovere del medico in posizione apicale di delegare l’organizzazione di una struttura semplice al medico in posizione intermedia
(c.d. aiuto), ovvero la cura del paziente anche al medico in posizione iniziale (c.d. assistente), previsto dall’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979, e ribadito dal d.lgs. n. 502 del 1992 (v. supra Cap. I § 2), determina la costituzione di un obbligo di garanzia in capo a quest’ultimo che è direttamente
investito della tutela del paziente. La subordinazione non comporta un
obbligo di obbedienza cieca, ed anzi il medico in posizione subalterna ha
il preciso obbligo giuridico di manifestare il proprio dissenso in ordine a
scelte terapeutiche errate effettuate dal superiore19. La disciplina normativa, infatti prevede che il ruolo dell’assistente, ed ancor più dell’aiuto,
non sia quello di un medico “mero esecutore” delle direttive del prima19 La
responsabilità omissiva è configurabile a carico del medico in posizione subalterna, in caso di mancata manifestazione del dissenso, solo nell’ipotesi in cui il primario abbia esercitato il potere di avocazione, obbligando conseguentemente l’assistente o l’aiuto ad
eseguire le proprie direttive. Al contrario, nel caso in cui il primario non abbia esercitato tale
potere e il medico in posizione subalterna abbia eseguito l’intervento diagnostico o terapeutico erroneo, senza manifestare il proprio dissenso, sarà configurabile una responsabilità di
tipo commissivo. Per un approfondimento delle problematiche connesse al potere di avocazione e al dissenso del medico in posizione subalterna v. infra cap. IV § 6.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
21
rio, in quanto gli stessi sono dotati altresì di poteri di controllo e sorveglianza in relazione alle situazioni concrete in cui si trovino a cooperare
con il primario stesso.
L’esito di una tal ricostruzione è di palmare evidenza: attraverso la
clausola di equivalenza dell’art. 40, comma 2, c.p., anche il medico che
non abbia manifestato il proprio dissenso è responsabile dell’eventuale
esito negativo del trattamento terapeutico20.
Non sembrano esservi dubbi, nondimeno, circa l’impossibilità di ricondurre tale posizione di garanzia al genus delle posizioni di impedimento dell’altrui reato. Se, infatti, presupposto fondamentale per la riconoscibilità di detto obbligo è che il garante sia dotato di poteri di inter20 In giurisprudenza Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2000, n. 556, Zanda, in CED rv.
215443, nella quale i giudici del Collegio, nel pronunciarsi circa la delimitazione della responsabilità dell’assistente, affermano che “il problema si presenta di meno agevole soluzione
nel caso in cui l’assistente o (l’aiuto) non condivida le scelte terapeutiche del primario che
non eserciti il suo potere di avocazione. In questo caso il medico in posizione inferiore che ritenga che il trattamento terapeutico disposto dal superiore comporti un rischio per il paziente
è tenuto a segnalare quanto rientra nelle sue conoscenze, esprimendo il proprio dissenso con
le scelte dei medici in posizione superiore; diversamente egli potrà essere ritenuto responsabile dell’esito negativo del trattamento terapeutico non avendo compiuto quanto in suo potere per impedire l’evento”. In questa sentenza, tuttavia la Corte, che correttamente riconosce
in linea generale una posizione di garanzia in capo all’assistente, erra nel ritenere configurabile nel caso specifico una responsabilità omissiva. Come, infatti, rilevato nella nota precedente, e come più diffusamente si osserverà nel prosieguo della presente trattazione, in caso
di mancata avocazione da parte del primario, l’assistente che esegua gli ordini impartitigli,
seppure erronei, realizza una condotta attiva e la mancata manifestazione del dissenso potrà
eventualmente avere rilievo sotto il profilo della colpa. Muovono tale critica alla sentenza in
commento V. FINESCHI, P. FRATI, C. POMARA, I principi dell’autonomia vincolata, dell’autonomia limitata e dell’affidamento nella definizione della responsabilità medica. Il ruolo del capo
equipe e dell’assistente (anche in formazione) alla luce della recente giurisprudenza, in Riv. it.
med. leg., 2001, 2, p. 261. Inoltre in generale sulla posizione di garanzia del medico in posizione subalterna v. G. AMATO, Solo l’esplicita manifestazione del dissenso esclude la colpa dell’aiuto medico, in Guida al dir., 12 febbraio 2000, p. 100; C. MACRÌ, Responsabilità medica dell’assistente nell’ambito dell’autonomia vincolata alle direttive ricevute dal primario, in Resp. civ.
e prev., 2000, p. 621; S. BRAVI, Responsabilità penale e attività medica in équipe, in Riv. pen.,
2005, p. 796. Per una posizione critica sulla effettiva possibilità di dissenso da parte del medico in posizione subalterna, v. A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1630, il
quale, con particolare riferimento all’assistente, rileva che “tale ruolo sia attribuito, almeno in
via di principio, a professionisti relativamente più giovani per età ed esperienza, muniti di
preparazione per lo più teorica e comunque di un background pratico limitato: il medico in
posizione iniziale è un medico affidato al primario e agli aiuti perché essi provvedano a fargli
conseguire l’esperienza pratica necessaria ad assumere in futuro, ruoli di maggiore autonomia
e responsabilità. In tale contesto il preteso rapporto dialettico tra primario e assistente assume evidentemente i contorni di un’astrazione, di una fictio iuris (in malam partem, quando
se ne vogliano ricavare conseguenze sul piano delle responsabilità penali) dimentica, nella sua
assolutezza, del fatto che l’esercizio delle professioni sanitarie abbisogna di una preparazione
culturale in egual misura teorica e pratica”.
22
CAPITOLO SECONDO
ferenza nella condotta del terzo, tali da consentirgli di impedire la commissione del reato, simili poteri non paiono rinvenibili in capo a soggetti
in posizione subalterna. Nei loro confronti, quindi, l’obbligo di garanzia
può essere qualificato quale obbligo di protezione, assumendo gli stessi
una tutela diretta del bene salute e costituendo, quindi, il dissenso che
devono manifestare nei confronti delle erronee scelte del superiore l’esercizio di un potere finalizzato alla tutela della vita del paziente21.
2.2. I limiti della concezione formale dell’obbligo di garanzia
Dato, quindi, per assodato che l’obbligo di garanzia dei sanitari sia
da ricondurre alle tipiche posizioni di protezione, non si ritiene, però, di
poter accettare la ricostruzione giurisprudenziale che, nella maggior
parte dei casi, come visto, fonda siffatto obbligo su meri presupposti formali, finendo, così, per caducare la fondamentale funzione di delimitazione dello stesso.
I positivi effetti, in termini di determinatezza e di prevedibilità della
responsabilità, derivanti dalla formalizzazione dell’obbligo finiscono, infatti, per dissolversi di fronte al rischio di responsabilità di posizione, palesemente in contrasto con i principi dell’art. 27 Cost.
D’altro canto, l’ancoraggio della posizione di garanzia del medico
alle disposizioni costituzionali degli artt. 2 e 32 finisce per rivelarsi solo
apparentemente rispettoso del principio di legalità, a causa dell’assoluta
genericità di tali fonti normative e, soprattutto, non è in grado di fungere
da parametro di selezione delle condotte tipiche, non contenendo alcuna
indicazione relativa ai ruoli e alle mansioni dei partecipanti all’attività
plurisoggettiva. In sostanza, quindi, il richiamo delle due norme costituzionali determina il rischio (invero sovente concretizzatosi) di forme di
responsabilità diffusa riconosciuta in capo a tutti coloro che, a qualsiasi
titolo e con qualsiasi competenza, abbiano preso parte all’atto medico.
La funzione di delimitazione della responsabilità, attraverso la valorizzazione delle competenze, può, invece, essere svolta (a legislazione invariata) dalle fonti normative che regolamentano l’attività medica (d.P.R.
n. 761 del 1979, d.lgs. 502 del 1992 e d.lgs. 229 del 1999) le quali individuano, appunto, i ruoli del personale sanitario e gli ambiti di competenza
di ciascun garante.
21 Esclude la configurabilità di un obbligo di impedimento di reati altrui in capo al medico in posizione subalterna M. RIVERDITI, Responsabilità dell’assistente medico per gli errori
terapeutici del primario: la mancata manifestazione del dissenso dà (sempre) luogo a un’ipotesi
di responsabilità per «mancato impedimento dell’evento», in Cass. pen., 2001, p. 163.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
23
Ulteriori indicazioni utili alla comprensione dell’articolazione della
distribuzione delle sfere di responsabilità nelle istituzioni complesse si
ritiene possano provenire da protocolli e check lists, atti privati di cui la
classe medica è via via venuta a dotarsi (insieme alle linee guida) e che
hanno lo scopo principale di procedimentalizzare l’attività attraverso la
positivizzazione di regole cautelari (v. amplius infra § 8.1). Se quest’ultimo è, indubbiamente, il contenuto tipico di detti atti – tanto da aver
da sempre indotto dottrina e giurisprudenza ad affrontarne le problematiche nell’ambito della responsabilità colposa – nondimeno essi contribuiscono anche ad enucleare le sfere di responsabilità, individuando,
non solo la sequenza comportamentale che il sanitario deve applicare,
ma anche il soggetto che di volta in volta è responsabile della sequenza.
Emerge, in tal modo, lo stretto legame intercorrente tra posizione di garanzia e rischio: l’esigenza di contrastare un determinato rischio porta
all’individuazione dei doveri che incombono su un soggetto e le modalità con cui gli stessi devono essere adempiuti (ovverosia le regole cautelari).
Le potenzialità deflattive connesse alla valorizzazione delle sfere di
competenza e all’utilizzo delle norme di regolamentazione dell’attività
medica per il perseguimento di detto obiettivo, stentano, invero, a trovare compiuto e costante riconoscimento nella giurisprudenza, soprattutto di merito. A tutt’oggi, si continua così ad assistere all’instaurazione
di procedimenti che, almeno nelle fasi iniziali, vedono imputati tutti i
partecipanti all’atto diagnostico o terapeutico che abbia avuto un esito
infausto. Procedimenti nei quali l’eventuale successiva esclusione della
responsabilità per taluni dei sanitari avviene non tanto sul piano oggettivo, quanto piuttosto su quello soggettivo dell’assenza di violazione di
regole cautelari. Tutto ciò, evidentemente, con importanti ripercussioni
di natura processuale relative, in special modo, agli obblighi risarcitori. È
noto, infatti, che, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., mentre l’esclusione della tipicità comporta la pronuncia di sentenza di assoluzione con la formula
“perché il fatto non sussiste”, la mancanza di elemento psicologico, diversamente, determina l’assoluzione con la formula “perché il fatto non
costituisce reato”. Soltanto alla prima formula assolutoria, tuttavia, è riconosciuta, secondo il dettato dell’art. 652 c.p.p., efficacia di giudicato
nell’eventuale giudizio civile instaurato per il risarcimento del danno.
Nonostante la netta preferenza della giurisprudenza per la concezione formale dell’obbligo di garanzia, non mancano pronunce che fanno
proprio un approccio di tipo sostanziale, affermando che la posizione di
garanzia sorge con l’instaurazione della relazione terapeutica con il paziente e, pertanto, prescinde dalla sussistenza di rapporti giuridici con la
24
CAPITOLO SECONDO
struttura, potendo discendere anche dall’assunzione volontaria dell’obbligo da parte del sanitario22.
Si ritiene, tuttavia, che la funzione di delimitazione delle sfere di
competenza possa essere efficacemente svolta se ed in quanto i parametri di tipo formale siano integrati da requisiti di tipo sostanziale-funzionale. La dottrina più recente, infatti, grazie alla progressiva integrazione
tra teoria formale e sostanzialistico-funzionale, ridefinisce la posizione di
garanzia come la situazione fattuale, derivante da fonti formali, in cui un
soggetto predeterminato (c.d. garante) è gravato dall’obbligo di impedire
un evento offensivo di beni altrui ed è dotato dei necessari poteri giuridici atti ad adempiere a tale obbligo23. In ossequio ai principi di riserva
di legge, tassatività, solidarietà e responsabilità personale, quindi, si afferma che: 1) l’obbligo di garanzia deve essere previsto da una fonte giuridica e deve trovare in essa sufficiente determinazione; 2) devono essere
specificamente individuati i soggetti beneficiari dell’altrui obbligo di garanzia, in quanto la tutela rafforzata solidaristica deve essere circoscritta
ai soli soggetti incapaci di adeguata autotutela; 3) devono altresì essere
chiaramente individuati i soggetti destinatari dell’obbligo di garanzia, in
quanto quest’ultimo non può gravare sulla generalità dei consociati, ma
solo su specifiche categorie predeterminate di soggetti; 4) infine, in base
al principio della responsabilità penale personale, ne sono ulteriori requisiti l’imprescindibile esistenza di poteri giuridici impeditivi, nonché la
possibilità materiale del garante di compiere l’azione impeditiva idonea24.
Necessaria, quindi, alla corretta instaurazione dell’obbligo di garanzia è l’esistenza in capo al soggetto di poteri impeditivi dell’evento,
che necessariamente presuppongono l’avvenuta presa in carico del
22 Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 7967, F. e altro, cit.; Cass. pen., sez. IV, 12 ottobre 2000, n. 12781, Avallone, in Riv. pen., 2001, p. 599 in cui la Corte di Cassazione, pronunciandosi sul caso di un medico che aveva effettuato un intervento chirurgico su una paziente pur non avendo alcun rapporto con la clinica ove la donna era stata operata, ha affermato che “l’individuazione della titolarità di una posizione di garanzia da parte di un medico
nei confronti di un paziente non è subordinata alla presenza di rapporti giuridici con la struttura sanitaria ma all’effettivo esercizio dell’attività svolta, anche per atto di volontaria determinazione, e che comporti conseguentemente l’assunzione degli obblighi connessi a quella
posizione direttamente scaturenti dalle funzioni di fatto esercitate”. Si veda inoltre Cass. pen.,
sez. IV, 28 ottobre 2004, n. 46586, Ardizzone e altro, in Cass. pen., 2006, p. 41471, ove si afferma che l’accertamento dell’obbligo di garanzia in ambito sanitario non presenta particolari
problemi, in quanto “è sufficiente che si sia instaurato un rapporto sul piano terapeutico tra
paziente e medico per attribuire a quest’ultimo la posizione di garanzia ai fini della causalità
omissiva, e comunque quella funzione di garante della vita e della salute del paziente che lo
rende responsabile delle condotte colpose che abbiano cagionato una lesione di questi beni”.
23 I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 70 ss.
24 I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 78; F. MANTOVANI, L’obbligo di garanzia, cit.,
2001, p. 340 ss.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
25
bene25. I poteri impeditivi, infatti, arricchiscono la funzione di garanzia e
di delimitazione della responsabilità già insita nella previsione dell’obbligo, in quanto contribuiscono a plasmare quest’ultimo calandolo nella
realtà ed evitando, conseguentemente, che il garante sia chiamato a rispondere di fatti che non poteva impedire26. Il potere di impedimento,
identifica il comportamento pretendibile dal garante in relazione alla disponibilità di strumenti idonei ad impedire la realizzazione dell’evento.
Si tratta, all’evidenza, di un requisito fondamentale ai fini dell’individuazione di un’autentica posizione di garanzia, che la giurisprudenza
effettua, peraltro, in maniera tendenzialmente fattuale e non normativa.
Il potere impeditivo viene, infatti, individuato attraverso la sua funzione
antagonistica rispetto al rischio da contrastare, attraverso un giudizio da
effettuarsi ex ante, in quanto a posteriori risulterebbe sempre inadeguato,
vista l’avvenuta verificazione dell’evento che doveva essere impedito, e
per il tramite di massime d’esperienza27. In tal modo, quindi, in assenza
di una preventiva tipizzazione, la valutazione della portata dell’atto impeditivo è rimessa al giudice, con l’evidente pericolo di dilazione ad libitum del suo contenuto: il soggetto, in sostanza finisce per essere sempre
responsabile in quanto sul piano fattuale avrebbe sempre potuto fare
qualcosa di più di quello che in concreto ha fatto28.
La determinazione fattuale del contenuto dei poteri impeditivi si appalesa, nondimeno, in contrasto con il principio di personalità, giacché si
finiscono per attribuire al garante fatti non autenticamente propri rispetto, ai quali, peraltro, lo stesso non ha potuto orientare consapevolmente la propria condotta. Il recupero della personalità della responsabilità deve, quindi, imprescindibilmente passare attraverso una tipizzazione normativa dei poteri impeditivi29, che consenta di delimitare la
25 Il principio è stato correttamente applicato da Cass. pen., sez. IV, 12 aprile 2006, n.
12894, Vescio, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità (2004-2010), Napoli, 2011, p. 44,
in cui si afferma che “in tema di posizione di garanzia, accanto alla esistenza in capo al garante dell’obbligo giuridico di impedire l’evento e dei correlativi poteri giuridici impeditivi, è
necessaria l’effettiva presa in carico del bene da tutelare”.
26 F. GIUNTA, La responsabilità per omissione, in G.A. DE FRANCESCO (a cura di), Un
nuovo progetto di codice penale: dagli auspici alla realizzazione?, Torino, 2001, p. 70; nonché
E. SBORRA, La posizione, cit., p. 118; C. PAONESSA, Obbligo di impedire l’evento e fisiognomica
del potere impeditivo, in Criminalia, 2012, p.641 ss. Sulla necessità che il garante sia dotato di
poteri impeditivi v. Cass. pen., sez. IV, 1 ottobre 2012, n. 38024, P., in Diritto e giustizia del 2
ottobre 2012; Cass. pen., sez. IV, 11 aprile 2008, n. 15241, Dadda, in CED rv. 240211.
27 C. PAONESSA, Obbligo di impedire, cit., p. 650 ss.
28 C. PAONESSA, Obbligo di impedire, cit., p. 662; A. MASSARO, La colpa nei reati omissivi
impropri, Roma, 2011, p. 106 ss.
29 In tal senso, qualche spiraglio ha iniziato ad aprirsi anche nella giurisprudenza di legittimità. V. Cass. pen., sez. V, 2 novembre 2011, n. 42519, Bonvino, in CED rv. 253765 nella
26
CAPITOLO SECONDO
pretesa nei confronti del garante ai soli atti che egli aveva la competenza
per compiere. Un’esigenza, quella di predeterminazione dei poteri impeditivi, che non può dirsi attualmente appieno soddisfatta dalla normativa
extrapenale la quale, come sovente accade, assolve a funzione del tutto
diversa – di organizzazione del servizio sanitario – rispetto a quella di
prevenzione delle offese penalmente rilevanti.
Siamo, quindi, ad oggi in presenza di una normativa (che nonostante le novazioni intervenute nel corso degli anni) non è in grado di segnare una demarcazione netta tra i poteri delle differenti figure di sanitario. D’altro canto, la peculiare struttura di tipo gerarchico disegnata in
queste norme, incide sull’individuazione delle diverse figure sanitarie e
sui loro compiti, diventando, quindi, difficilmente applicabile, se non
compromettendo il principio di tassatività, al più ampio novero di forme
di collaborazione che vedono spesso la contemporanea o successiva partecipazione di sanitari che si trovano in pari rapporto gerarchico.
L’assenza di effettiva portata delimitatrice delle disposizioni extrapenali richiamate emerge chiaramente nella prassi applicativa, ove la carenza di accertamento circa la sussistenza di poteri impeditivi porta ad
una dilatazione bilaterale della posizione di garanzia, con concentrazione
della responsabilità verso l’alto o verso il basso30. Si assiste, così, di frequente al richiamo delle stesse disposizioni (art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979
e art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992), da un lato, per affermare la sussistenza
in capo al primario di un obbligo di controllo – conseguente alla sua sovraordinazione gerarchica – tendenzialmente assoluto ed illimitato su
tutte le attività che si svolgono all’interno del reparto31, e, dall’altro, per
accentuare l’autonomia diagnostica e terapeutica dei medici in posizione
subalterna i quali, quindi, non possono sottrarsi da responsabilità per il
fatto di aver agito in attuazione di direttive o, addirittura, in diretta collaborazione, con il medico sovraordinato32.
quale la Corte, con riguardo ad un caso di bancarotta fraudolenta patrimoniale, ha precisato
che l’equiparazione tra il non impedire ed il cagionare può avvenire soltanto se i poteri impeditivi del garante “siano ben determinati, ed il loro esercizio sia normativamente disciplinato in guisa tale da poterne ricavare la certezza che, laddove esercitati davvero, l’evento sarebbe stato scongiurato”. In dottrina, nel medesimo senso v. P. PIRAS, G.P. LUBINU, L’attività
medica plurisoggettiva fra affidamento e controllo reciproco, in S. CANESTRARI, F. GIUNTA, R.
GUERRINI, T. PADOVANI (a cura di), Medicina e diritto penale, cit., p. 303.
30 F. GIUNTA, voce Medico (responsabilità penale del), in I Dizionari sistematici, Diritto
penale, a cura di F. GIUNTA, Milano, 2008, p. 889.
31 Cass. pen., sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430, Guida, in Guida al dir., 2004, n. 12,
p. 52 ss.
32 Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2000, n. 2906, Zanda ed altro, in Dir. pen. poc., 2000,
p. 1626.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
27
Per quanto ancora rare, non mancano, però, pronunce di legittimità
che, pregevolmente, fanno propria la prospettiva della delimitazione delle
sfere di competenza. In tal senso, ad esempio, la Suprema Corte ha di recente richiamato l’attenzione sul fatto che “la morte di un paziente a seguito di intervento chirurgico non possa essere attribuita all’équipe nel
suo complesso dovendo essere valutate le concrete mansioni di ciascun
componente”33 o sul fatto che “è priva di rilievo la mera instaurazione del
c.d. rapporto terapeutico, occorrendo accertare la concreta organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza ed ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda”34.
Particolarmente interessante è, poi, una pronuncia, risalente al 1992,
che, facendo corretta applicazione della normativa di regolamentazione
dell’attività medica, giunge ad escludere la responsabilità di alcuni componenti della struttura nelle cui competenze non rientrava l’impedimento
dell’evento oggetto d’imputazione. In quell’occasione, i giudici di legittimità erano chiamati a pronunciarsi sulla penale responsabilità di un’infermiera, una caposala ed un primario di un reparto ospedaliero per i
reati di omicidio colposo commessi ai danni di due pazienti ai quali l’infermiera aveva erroneamente somministrato una sostanza venefica (sodioazide) nella convinzione che si trattasse di solfato di magnesio. Dopo
una sentenza di primo grado, che condannava tutti e tre gli imputati
(l’infermiera per aver erroneamente somministrato la sostanza venefica),
nonché il primario e la caposala per avere con negligenza posizionato il
sodioazide nel carrello dei medicinali e non, invece, in un armadio separato per i veleni), la Corte di Appello, invece, pronunciava, a favore del
primario, sentenza di assoluzione confermata anche dalla Corte di Cassazione, la quale evidenziava che “l’art. 63, quinto comma, d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, sullo stato giuridico del personale delle U.S.L., specifica che al primario competono esclusivamente ‘funzioni di indirizzo e
di verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura’ ed è, dunque, esclusivamente in relazione a tali funzioni che egli deve impartire ‘istruzioni direttive’ ed esercitare ‘la verifica inerente all’attuazione di esse’. Esulano,
dunque, dai compiti assegnati al primario, quelli manageriali e di organizzazione aziendale che spettano ai vertici amministrativi delle U.S.L.
(nella specie, dotazione di contenitore di sostanze venefiche immediatamente distinguibili esteriormente da quelli destinati alla conservazione di
medicamenti), così come, in particolare, esula quello della custodia dei
veleni, che spetta ad altri soggetti (caposala, infermiere professionale)”.
33 Cass.
pen., sez. IV, 9 aprile 2009, n. 19755, Filizzolo, in CED rv. 243511. Nello stesso
senso v. Cass. pen., sez. III, 5 febbraio 2014, n. 5684, in D&G online, 6 febbraio 2014.
34 Cass. pen., sez. IV, 19 gennaio 2009, n. 1866, Toccafondi, in Cass. pen., 2009, p. 4276.
28
CAPITOLO SECONDO
Al contrario, invece, la Corte di legittimità confermava la sentenza
di condanna a carico della caposala, ritenendo che sulla stessa incombesse effettivamente la posizione di garanzia, in quanto “secondo l’art.
41, primo comma, d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 – che regola l’ordinamento interno dei servizi ospedalieri – il caposala… controlla il prelevamento e la distribuzione dei medicinali, del materiale di medicazione, e
di tutti gli altri materiali in dotazione… tra i quali devono ricomprendersi le sostanze venefiche. Vero è che l’art. 1 d.P.R. 14 marzo 1974, n.
225 alla lettera f) affida all’infermiere professionale il compito di custodia
dei veleni, ma, non avendo tale disposizione abrogato, la già citata precedente disposizione di legge, è da intendere che il compito di custodia
dell’infermiere professionale concorra con l’identico compito del caposala senza, ovviamente, escluderlo”35.
Sulla scorta dei medesimi principi, in altra pronuncia, la Corte di
Cassazione ha escluso la responsabilità penale del direttore sanitario di
un nosocomio nel quale un’infermiera professionale in servizio presso il
reparto di malattie infettive – mentre incannulava la vena di un malato di
AIDS – veniva punta dall’ago infetto a causa della manovra incauta di un
altro infermiere e contraeva di conseguenza la malattia. In questo caso, la
Corte ha riconosciuto la responsabilità penale del primario affermando
che egli aveva “il potere-dovere di controllo su tutte le attività terapeutiche svolte all’interno del suo reparto. Egli quindi doveva impedire,
dando precise istruzioni, che personale paramedico non adeguatamente
preparato sul rischio AIDS si occupasse si pazienti affetti da tale malattia”, escludendo, viceversa la responsabilità del direttore sanitario, le cui
competenze, secondo i giudici di legittimità, “non potevano certo riguardare il trattamento del singolo degente e l’impiego, nell’assistenza e nella
cura dello stesso, di personale paramedico con preparazione idonea ad
affrontare lo specifico rischio rappresentato dalla particolarità della malattia di cui il ricoverato era portatore”36.
Se è innegabile che la corretta enucleazione dei doveri e dei soggetti
tenuti all’adempimento degli stessi permetta di delimitare la responsabilità già sul piano della tipicità oggettiva, nondimeno, possono verificarsi
situazioni particolarmente complesse in cui non è dato individuare aree
di competenza autonome, bensì obblighi che fanno capo a più soggetti37.
35 Cass. pen., sez.
36 Cass. pen., sez.
37 In tal senso cfr.
IV, 26 marzo 1992, n. 5359, Vallara, in Giur. it. 1994, II, p. 377.
IV, 15 maggio 1998, n. 5689, in ISL, 8, 1998, p. 439.
l’importantissima sentenza sul disastro di Stava, Cass. pen., sez. IV, 6
dicembre 1990, Sonetti, in Foro it., 1992, II, c. 36, nella quale i giudici osservano che “se più
sono i titolari dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, ciascuno è, per intero, destinatario
di quell’obbligo, con la conseguenza che se è possibile che determinati interventi siano ese-
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
29
Utile in tal senso appare la distinzione dottrinale tra doveri comuni e doveri divisi. In particolare, i doveri comuni si caratterizzano per il fatto di
gravare su più soggetti ciascuno dei quali è titolare di una posizione di
garanzia capace di per sé di assicurare una totale e completa protezione
del bene giuridico, mentre i doveri divisi sono quelli che, singolarmente
considerati, non consentono una globale protezione del bene, tanto che
ciascuno dei partecipanti all’intervento è titolare di una posizione di garanzia che solo per la parte relativa alle mansioni allo stesso affidate contribuisce alla tutela del bene38. Nel caso, ad esempio, di attività svolta in
cooperazione tra sanitari in eguale posizione gerarchica (es. chirugo ed
anestesista), si possono considerare divisi i doveri gravanti su ciascun
partecipante allo svolgimento del processo lavorativo medico-chirugico,
in quanto ognuno è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del
paziente in relazione alle specifiche mansioni e capacità tecniche. Il fenomeno della divisione degli obblighi si attenua, invece, nel caso di ripartizione del lavoro in senso gerarchico, ove il soggetto in posizione apicale ha
un obbligo di coordinamento e di controllo sull’operato dei sottoposti39.
3.
La successione nella posizione di garanzia
La già complessa procedura di individuazione dei soggetti penalmente responsabili può essere resa ancora più gravosa dal possibile sucguiti da uno dei garanti, è però doveroso per l’altro o gli altri garanti, dai quali ci si aspetta la
stessa condotta, accertarsi che il primo sia effettivamente ed adeguatamente intervenuto”.
Nello stesso senso in dottrina v. V. MILITELLO, La colpevolezza nell’omissione: il dolo e la colpa
del fatto omissivo, in Cass. pen., 1998, p. 990.
38 La distinzione è stata elaborata da C. ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, Hamburg,
1963, p. 558 ss. e successivamente ripresa in Italia da E. BELFIORE, Profili penali dell’attività
medico-chirugica in équipe, in Arch. pen., 1986, p. 294 ss.; nonché successivamente da L. TRAMONTANO, Causalità attiva e omissiva, obblighi divisi e congiunti di garanzia: tre sentenze a confronto, in Foro it., 1997, II, p. 417; P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 209 ss.
Come si osserverà in seguito, la distinzione tra doveri comuni e divisi assume rilevanza
anche con riferimento all’individuazione delle regole cautelari ed all’operatività del principio
di affidamento.
39 In tal senso, cfr. E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 294 ss. L’Autore avverte, tuttavia,
del rischio cui si può andare incontro se si considera l’obbligo di controllo del superiore sul
subordinato come vero e proprio obbligo comune. Se così fosse, infatti, il medico in posizione apicale avrebbe un compito di vigilanza continua sul corretto operato dei propri collaboratori che determinerebbe, in caso di esito infausto conseguente ad errore da parte di uno
dei medici sottoposti, una sua automatica responsabilità. Al contrario, solo laddove il medico
accerti che sussistono circostanze che legittimino il sospetto di una possibile negligenza altrui,
avrà il preciso obbligo di compiere un’attività di vigilanza sull’operato del collega. In tal caso,
si è in presenza di un dovere comune, in quanto l’imposizione di tale obbligo è finalizzata a
creare una doppia tutela per la salute del paziente.
30
CAPITOLO SECONDO
cedersi nel tempo di sanitari che si alternano nella cura del paziente,
dando luogo ad una successione nella posizione di garanzia. Come si è
evidenziato in precedenza, infatti, l’attività sanitaria può svilupparsi in
forma diacronica, in quanto una pluralità di sanitari si alternano, in contesti temporali e spaziali differenti, nella cura del paziente. Si pensi, ad
esempio, alle ipotesi di fine turno, di richiesta a sanitario di altra specializzazione di esecuzione di un esame diagnostico o di trasferimento del
paziente tra reparti, nelle quali un sanitario subentra ad un altro nella
cura del paziente40.
Ciascun sanitario che interviene nell’atto diagnostico o terapeutico
si inserisce in una sequenza complessa, nell’ambito della quale assume
una posizione di garanzia nei confronti del paziente. Si pone, quindi,
l’esigenza di stabilire, di fronte ad una parcellizzazione dell’atto medico,
come debba essere distribuita la responsabilità tra i garanti che si sono
succeduti nella cura del paziente.
La Corte di Cassazione è stata chiamata spesso a pronunciarsi in ordine alla delimitazione delle sfere di responsabilità di soggetti succedutisi
nella posizione di protezione nel campo medico, optando per una soluzione “caso per caso” delle problematiche poste dalla specifica situazione
di volta in vola posta alla sua attenzione, piuttosto che soffermarsi sulla
spiegazione di alcun “nodi” dogmatici sottesi alla materia41. Invero, la
mancanza di una ricostruzione organica del fenomeno successorio non è
limitata al campo medico, ma si estende più in generale alle posizioni lato
sensu di protezione. Se, infatti, la Corte di Cassazione si è più volte soffermata sul subentro nelle posizioni di controllo, elaborando una teoria
di valenza generale (c.d. teoria della continuità delle posizioni di garanzia), la varietà e poliedricità delle situazioni riconducibili al genus delle
posizioni di protezione ha, invece, impedito una ricostruzione unitaria
dei passaggi critici sottesi al fenomeno successorio42.
Per potere, di conseguenza, saggiare la tenuta, rispetto alle tradizionali categorie dogmatiche, delle conclusioni a cui giunge la giurisprudenza nelle decisioni che coinvolgono ipotesi di successione di garanti in
campo medico, appare opportuno premettere qualche cenno ricostruttivo della materia generale del trasferimento delle posizioni di garanzia.
In proposito, la dottrina distingue fra trasferimento di obblighi di garan40 Ha proposto un’integrale applicazione dei principi elaborati dalla dottrina in materia
di delega di funzioni nell’ambito delle imprese A. MANNA, voce Trattamento medico-chirugico,
in Enc. dir., Varese, 1992, XLIV, p. 1294.
41 A. GARGANI, La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione: due casi
“esemplari” di responsabilità ex art. 40, comma 2, c.p., in Dir. pen. proc., 2004, p. 1407.
42 A. GARGANI, La congenita indeterminatezza, cit., p. 1407.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
31
zia e successione nella posizione di garanzia. Nel primo caso, il trasferimento di funzioni impeditive crea una nuova posizione di obbligato ad
agire, dando luogo al cumulo di due o più situazioni di garanzia che ruotano attorno alla protezione dello stesso bene. In questa prima categoria
viene, in particolare, collocata la delega di funzioni, ovvero il trasferimento di obblighi e poteri impeditivi di cui è titolare il delegante, con la
creazione di una nuova funzione di garanzia in capo al delegato. Alla delega di funzioni, non consegue, tuttavia, uno scioglimento del vincolo
della posizione di garanzia in capo al delegante. Al contrario, nel caso di
autentica successione si assiste ad una traslazione integrale della posizione di garanzia, con conseguente liberazione del soggetto cedente della
funzione impeditiva in capo al quale non residua neppure un obbligo di
vigilare43. Con la successione nella posizione di garanzia il garante originario si spoglia, quindi, sia dell’obbligo di impedimento dell’evento sia
dei poteri impeditivi che passano in capo al garante secondario il quale
diviene così l’unico soggetto obbligato.
Deve darsi, inoltre, conto di una diffusa opinione secondo cui le due
situazioni si differenzierebbero anche con riferimento alla natura della
posizione trasferita: mentre oggetto della delega di funzioni possono essere obblighi impeditivi inerenti sia a diritti disponibili sia a diritti indisponibili estranei alla sfera di signoria del garante, oggetto di successione, al contrario, possono essere solo funzioni inerenti beni giuridici disponibili, rientranti nella sfera di dominio del cedente44. Si osserva,
peraltro, che l’incedibilità in via definitiva delle posizioni di protezione
discenderebbe non solo dalla indisponibilità del bene garantito, ma anche dall’oggettiva idoneità di detto bene ad essere controllato dal garante
“originario” anche quando è trasferito ad altri45.
Nel caso dell’attività medico-chirurgica, in cui la posizione di garanzia è generalmente qualificata come posizione di protezione, si ritiene,
tuttavia, che non esista una preclusione assoluta alla cessione definitiva
dell’obbligo di attivarsi. In tale situazione, infatti, è la legge che procede
ad un bilanciamento di interessi tra le esigenze di tutela della salute del
paziente e quelle scaturenti dalla divisione del lavoro e dalle necessità organizzative delle strutture. La complessità delle strutture sanitarie, che
prevedono plurime unità operative alle quali sono assegnati i sanitari (in
relazione alle loro specializzazioni), e la imprescindibile continuatività
nell’attività di cura dei pazienti impongono, giocoforza, di ripartire il la43 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 591 ss.
44 I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p.
45 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 599.
238 ss.
32
CAPITOLO SECONDO
voro e di consentire una successione nella posizione di garanzia. Sembra,
quindi, possibile affermare che in talune circostanze anche la posizione
di protezione, tipica dell’attività medico-chirurgica, possa dare luogo ad
un autentico fenomeno successorio con liberazione del garante originario.
La casistica risulta, invero, alquanto variegata, ma sembra comunque possibile affermare che, nonostante il costante utilizzo della locuzione “successione di garanti”, sovente i giudici abbiano piuttosto inteso
far riferimento ad una delega di funzioni e non ad un definitivo trasferimento della posizione di garanzia, tanto che non di rado individuano comunque la persistenza di obblighi in capo al garante primario. In questo
senso, ad esempio, appare configurabile un trasferimento di funzioni e
non, invece, una successione definitiva nella posizione di garanzia, nel
caso del medico in posizione apicale che deleghi ad un sanitario, appartenente alla propria struttura operativa, la cura del paziente. La legge, infatti, prevede espressamente che il primario possa e, anzi debba, ai fini di
una migliore gestione dell’elevato numero dei pazienti, delegare talune
funzioni ad altri sanitari appartenenti alla struttura assegnando, in particolare, al medico in posizione intermedia la cura dei pazienti e, financo,
la gestione diretta di una struttura semplice, e al medico in posizione iniziale la cura di singoli pazienti46. Dalle medesime fonti normative si desume, però, che nel caso del primario la delega non esplica un’efficacia liberatoria completa, in quanto sullo stesso permane un dovere di direttiva, di vigilanza e di verifica dell’attività delegata, che può spingersi fino
all’esercizio del potere di avocazione47.
46 L’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 prevede, infatti, che “il medico in posizione apicale
assegna a sé e agli altri medici i pazienti ricoverati”. Previsione che trova ulteriore esplicitazione nell’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 che statuisce “al dirigente, con cinque anni di attività
con valutazione positiva sono attribuite funzioni di natura professionale anche di alta specializzazione, di consulenza, di studio, di ricerca, ispettive, di verifica e di controllo, nonché possono essere attribuiti incarichi di direzione di strutture semplici” e che “all’atto della prima
assunzione, al dirigente sanitario sono affidati compiti professionali con precisi ambiti di autonomia da esercitare nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura e
sono attribuite funzioni di collaborazione e corresponsabilità nella gestione delle attività”.
47 In tal senso, cfr. A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1631; D. GUIDI,
L’attività medica in équipe alla luce della recente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, in
S. CANESTRARI, F. GIUNTA, R. GUERRINI, T. PADOVANI, Medicina e diritto penale, cit., 219. In
giurisprudenza Cass. pen., sez. IV, 2 maggio 1989, n. 7162, Argelli, in Foro it., 1989, II, c.
603. Più di recente, v. Cass. pen., sez. IV, 28 giugno 2007, n. 39609, Marafioti, in CED rv.
237832, in cui i giudici della Suprema Corte sono tornati ad occuparsi del fenomeno successorio, affermando che, in linea generale, gli obblighi di garanzia connessi all’esercizio della
professione medica possono essere delegati, con conseguente esclusione della responsabilità
del titolare originario della posizione di garanzia. Perché ciò avvenga, è peraltro necessario
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
33
In tale ipotesi, quindi, si verifica un cumulo di posizioni di garanzia
ruotanti attorno alla protezione del medesimo bene, ma la posizione di
cui è originariamente titolare il primario muta il proprio contenuto, trasformandosi in una posizione di vigilanza sull’operato dei propri sottoposti.
La successione nella posizione di garanzia è consentita anche tra sanitari in eguale posizione gerarchica che si turnano nella cura del paziente. In tali situazioni, invero, appare possibile affermare la sussistenza
di un trasferimento definitivo della posizione di garanzia a causa, soprattutto, dell’impossibilità per il garante originario di proseguire nell’opera
di controllo, venendo meno, sin dal momento in cui il bene esce dal suo
controllo, i poteri impeditivi dell’evento (si pensi al caso del trasferimento del paziente in altro reparto). Tuttavia, presupposti per la liberazione del garante primario e dell’efficacia del subentro nella posizione di
garanzia, secondo la ormai affermata ricostruzione teorica, sono che il
trasferimento trovi il proprio fondamento in fonti formali (fonti legislative e sublegislative di organizzazione interna), che il garante secondario
sia dotato dei necessari poteri impeditivi dell’evento lesivo, che l’attività
che il delegato sia persona capace e competente nel settore e che il delegante tenga sempre
conto delle peculiarità del caso in esame, dell’eventuale carattere di urgenza che lo stesso presenta e della gravità dello stato di salute del paziente. Nel caso specifico l’imputato era accusato, nella sua qualità di direttore della Divisione di Ostetricia e Ginecologia, di non aver comunicato ad una paziente. che aveva sottoposto ad isterectomia, l’esito dell’esame istologico
che aveva accertato la presenza di un leiomiosarcoma di alto grado – G3 – nella parete del
fondo uterino, cosi impedendo le terapie necessarie ed opportune le quali, se tempestivamente praticate, avrebbero impedito il decesso intervenuto. I giudici, con riferimento alla posizione del direttore, osservano che per “la posizione dallo stessa rivestita, anche nell’ipotesi
di conferimento ad altro sanitario con un ordine di servizio dell’incarico di svolgere le funzioni connesse al settore con competenza ad informare dell’esito degli esami istologici, aveva
il dovere di vigilare che il detto incarico fosse regolarmente adempiuto”.
Sull’assunzione di un proprio obbligo di garanzia in capo al medico delegato, senza,
tuttavia, esclusione della responsabilità del primario, cfr. Cass. pen., sez. feriale, 24 novembre
1994, n. 11695, Pizza, in A. FIORI, E. BOTTONE, E. D’ALESSANDRO, Quarant’anni di giurisprudenza della Cassazione nella responsabilità medica, Milano, 2000, p. 776, nella quale la Corte
afferma che “la normativa di riferimento costituita dal d.P.R. n. 761 del 1979 e dal d.P.R. n.
128 del 1969, prevede per i medici ospedalieri, che il medico appartenente alla posizione apicale assegni agli altri medici i pazienti ricoverati. Ed è evidente che questo affidamento determina la responsabilità del medico affidatario per gli eventi a lui imputabili che colpiscono
l’ammalato affidatogli”.
Ritengono che il potere-dovere del primario di divisione del lavoro tra i propri collaboratori non costituisca una delega di funzioni, ma semplicemente una modalità di realizzazione dell’obbligo di garanzia ad esso imposto F. AMBROSETTI, R. PICCINELLI, M. PICCINELLI, La
responsabilità, cit., p. 27. Per gli Autori, in definitiva l’unica ipotesi in cui può essere configurata una delega di funzioni è quella di assenza o impedimento del primario, e quindi, di sostituzione temporanea dello stesso da parte di un medico subordinato.
34
CAPITOLO SECONDO
ceduta non sia ab origine viziata dalla violazione di regole cautelari (c.d.
successione in attività inosservanti), che, infine, vi sia l’assolvimento di
un obbligo di informazione all’atto del c.d. passaggio di consegne tra garante primario e secondario. L’insussistenza anche di uno solo di detti
presupposti può aprire la strada a forme differenti di responsabilità (del
solo garante originario o di entrambi i garanti) per l’evento lesivo eventualmente verificatosi a danno del paziente (v. amplius infra § 4).
Fulcro del fenomeno successorio è, quindi, l’assolvimento dell’obbligo informativo all’atto del passaggio di consegne fra sanitari48. Un obbligo informativo che, come osservato dalla Suprema Corte, è biunivoco,
in quanto sussiste, da un lato, il dovere del subentrante di controllare lo
stato della situazione in cui è subentrato, e, dall’altro, quello del cedente
di esporre al nuovo garante le caratteristiche del bene protetto e tutti i
fattori di rischio legati allo stato di salute del paziente49.
Il passaggio delle consegne “informato” segna, quindi, il momento
in cui si verifica l’avvicendamento nella posizione di garanzia: il garante
originario perde i suoi poteri di intervento e si libera, conseguentemente,
dall’obbligo di impedimento, che passa al garante secondario, ora dotato
del patrimonio conoscitivo del suo predecessore e di tutti i poteri.
Non si ritiene, invece, assuma generale rilevanza, a fini del perfezionamento del subentro, il requisito dell’idoneità del subentrante ad assumere la posizione di garanzia. In altri termini, il garante originario (salvo
che su di lui non incomba un obbligo ex lege) non ha nessun dovere di
verificare le effettive capacità del medico subentrante e non potrà ri48 Così ad esempio, nel caso di trasferimento di un paziente da un reparto ad un altro,
all’interno dello stesso nosocomio, nel quale veniva redatta cartella clinica sulla base di semplici supposizioni (poi rivelatesi erronee) del medico redattore e non di informazioni correttamente assunte dal reparto di provenienza, i giudici in Cass. pen., sez. IV, 25 febbraio 1994,
n. 5029, Spoleti, in CED rv. 198626, hanno affermato che “per la funzione della struttura
ospedaliera è da escludere che ciascun reparto da cui questa è composta costituisca un’entità
a sé stante, implicante una divisione tale da impedire quella reciproca comunicazione di notizie attinenti ai malati i quali vengono trasferiti da un reparto all’altro, indispensabile soprattutto nei casi di urgenza, ai fini di una visione completa del quadro patologico da prendere in
considerazione”. Il medesimo dovere di informazione deve essere altresì rispettato nel caso di
passaggio di consegne all’interno del medesimo reparto, sia tra medici, sia tra medici e paramedici che si susseguono nella cura del paziente. In questo senso v. Cass. pen., sez. IV, 9 maggio 1997, n. 4211, Di Paola, in A. FIORI, E. BOTTONE, E. D’ALESSANDRO, Quarant’anni di giurisprudenza, cit., p. 903 in cui la Corte afferma che “il medico ospedaliero che termina il suo
turno di lavoro ha lo specifico dovere di fare le consegne a chi gli subentra, in modo da evidenziare a costui la necessità di un’attenta osservazione e di un controllo costante sull’evoluzione della malattia del paziente che sia soggetto a rischio di complicanze”.
49 Sul dovere del subentrante di assumere le necessarie informazioni v. Cass. pen., sez.
IV, 27 febbraio 2008, n. 8615, Mariotti, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI,
P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 48.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
35
spondere, nel caso di esito infausto dell’atto diagnostico o terapeutico
(per incapacità tecnica del sanitario), a titolo di culpa in eligendo per l’evento lesivo verificatosi.
4.
Casi di successione nella posizione di garanzia. In particolare: la successione nelle attività inosservanti
All’atto del passaggio di consegne tra medici in eguale posizione gerarchica possono verificarsi diversi fenomeni successori dai quali originano differenti responsabilità per i soggetti coinvolti. Può, anzitutto,
darsi il caso del trasferimento, previo adempimento dell’obbligo informativo, di un’attività senza rischi originari in cui, quindi, l’evento lesivo
si verifichi per il subentrare di un nuovo ed autonomo rischio innescato
dalla condotta del garante subentrante (es. al termine del proprio turno
di lavoro il medico affida la cura di un paziente al sanitario subentrante
il quale erra nella somministrazione di un farmaco determinando la
morte del paziente). In tale evenienza si può affermare che il passaggio di
consegne abbia determinato un subentro nella posizione di garanzia in
quanto il garante secondario, a seguito anche dell’avvenuta corretta e
completa informazione, ha la integrale gestione del bene giuridico affidatogli, mentre il garante originario non avrebbe più i poteri giuridici di
impedimento (perché, ad esempio, il paziente non è più nel suo reparto).
Giova, tuttavia, sottolineare che per il concretizzarsi dell’efficacia liberatoria dall’obbligo di impedimento non è sufficiente il verificarsi del presupposto formale quale il termine del turno di lavoro o il trasferimento
del paziente, ma è altresì necessaria, sotto il profilo sostanziale, la presa
in carico del bene da parte del medico subentrante50.
Ad ogni buon conto, ha precisato la Corte di Cassazione, la posizione di garanzia non può essere delegata laddove il garante originario
sia in grado di far fronte ai doveri che gli sono affidati nel corso del
turno; se, infatti, osservano i giudici, “la posizione di garanzia è espres50 In
questo senso anche la giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 30 giugno 2009, n.
26645, Marangolo, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il
diritto penale della medicina, cit., p. 31; nonché Cass. pen., sez. IV, 18 maggio 2006, n. 16991,
Mastropasqua, ivi, p. 48. Cass. pen., sez. IV, 10 novembre 1994, n. 2774, Maresi, in Giust.
pen., 2000, II, p. 118 in cui si afferma che “è agevole rilevare che l’invocato principio di affidamento ha efficacia scriminante nel perdurare delle stesse condizioni e non del mutare di
esse a causa dell’insorgenza di nuovi elementi sintomatici, non esistenti in precedenza e, perciò, naturalmente, non rilevati dai colleghi precedentemente intervenuti. Esso, cioè, non ha
modo di operare quando si contesta all’agente di non aver rilevato – non gli elementi già esistenti, e tuttavia non rilevati dai suoi predecessori – ma gli elementi insorti successivamente,
nell’arco di tempo garantito con la propria assistenza, che solo lui poteva rilevare”.
36
CAPITOLO SECONDO
sione di solidarietà costituzionalmente riconosciuta, è innegabile che gli
operatori sanitari debbano questa solidarietà – la loro posizione di protezione – per l’intero tempo del loro turno di lavoro, con la conseguenza
che non possono trasferire ai colleghi i compiti ad essi affidati, qualora li
possano svolgere agevolmente nel loro turno, contribuendo, così, con
quella esecuzione, alla tempestività degli interventi e ad evitare di caricare di compiti coloro che, nel momento in cui succedono nel turno, assumeranno la loro posizione di garanzia con pari e, magari, più gravosi
compiti da svolgere”51.
L’ipotesi successoria che, invece, crea i maggiori dubbi interpretativi
è quella della cessione di un’attività inosservante. Una simile evenienza si
verifica nel caso in cui il garante originario ceda al subentrante una situazione in cui egli stesso ha instaurato una situazione di rischio per il
paziente (ad es. ha somministrato un farmaco errato) ovvero non ha posto rimedio ad una situazione in precedenza creata da altri (es. erronea
somministrazione del farmaco da parte di un sanitario che lo ha preceduto turno). Si tratta di ipotesi in cui, quindi, la cessione dell’attività avviene in presenza di una violazione di regole cautelari che ha innescato
un fattore di rischio da cui però non è ancora conseguita la verificazione
dell’evento lesivo all’atto del passaggio delle consegne.
L’interrogativo che sorge al riguardo è se, nel caso del successivo verificarsi dell’evento, la responsabilità debba cadere sul cedente, che aveva
violato le regole cautelari; ovvero sul cessionario, dal quale ci si poteva
aspettare l’eliminazione delle violazioni cautelari commesse dal predecessore; ovvero, infine, su entrambi i soggetti52. Quest’ultima è la linea interpretativa prevalentemente accolta dalla giurisprudenza che in queste
ipotesi ritiene configurabile una responsabilità colposa tanto a carico del
cedente (che, anche se ha perso i poteri impeditivi dell’evento, deve assicurarsi che all’eliminazione degli effetti negativi della sua condotta provveda il successore) quanto del cessionario (che, una volta subentrato,
deve in ogni caso acquisire conoscenza dei fattori di rischio) (c.d. principio della continuità della posizione di garanzia)53.
Secondo detta ricostruzione, quindi, l’eventuale condotta colposa
del medico subentrante (che ometta di dare soluzione al rischio attivato
51 Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano, cit.
52 A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee ricostruttive in tema
di responsabilità penale nel
lavoro medico d’èquipe, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, p. 261.
53 Il principio, in origine elaborato con riferimento al noto disastro di Stava, da Cass.
pen., sez. IV, 11 dicembre 1990, n. 4793, Bonetti ed altri, in CED rv. 191793, è stato poi,
pressoché costantemente, ripreso, con specifico riferimento all’attività medica. A titolo esemplificativo v. Cass. pen., sez. IV, 26 maggio 1999, n. 8006, Cattaneo, in CED rv. 214248.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
37
dalla precedente attività) non configurerebbe una causa di per sé sufficiente a produrre l’evento, idonea ad escludere, ai sensi dell’art. 41,
comma 2, c.p., la responsabilità del cedente. Detta evenienza potrebbe
verificarsi solo nel caso in cui, nel corso dell’attività del subentrante, si
sia verificata una causa successiva che, pur inserendosi nel contesto di
pericolo già attivato, si riveli, però, del tutto eccezionale ed imprevedibile
(ad es., se il medico abbia somministrato una dose erronea di farmaco).
In questa ipotesi, infatti, la nuova attività si sovrapporrebbe integralmente a quella precedente, innovando completamene la situazione di pericolo originaria54.
In capo al soggetto cedente rimarrebbe, quindi, una posizione di garanzia che, seppur non espressamente affermato dalla Corte, troverebbe
la propria fonte nella “propria precedente attività pericolosa”55. Una
fonte di obbligo di impedimento, invero, il cui riconoscimento è da attribuirsi alla dottrina tedesca, oggetto di aspre critiche nella dottrina italiana, in quanto ritenuta non conforme ai principi di legalità e di determinatezza (avendo origine di tipo consuetudinario) e in quanto dotata di
enormi potenzialità espansive della responsabilità56. L’accoglimento di
questa teoria da parte della giurisprudenza porta, infatti, al riconoscimento di una posizione di garanzia sostanzialmente illimitata che vincolerebbe, senza soluzione di continuità, il garante originario (autore di una
violazione delle leges artis) al bene oggetto di tutela.
In definitiva, alla luce di questa ricostruzione teorica, per escludere
la responsabilità del garante originario, che ha violato delle regole cautelari, non sarebbe sufficiente un passaggio di consegne informato, ma sarebbe necessario, altresì che lo stesso elimini le fonti di rischio prima di
cedere la cura del paziente ovvero che le stesse siano eliminate dal garante secondario57.
54 In tal senso Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano, cit.; Cass. pen., sez.
IV, 7 aprile 2004, n. 25310, Ardovino e altri, cit.
55 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 625 il quale si sofferma anche sull’origine di questa
fonte dell’obbligo di impedimento.
56 F. GIUNTA, La posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria, in
Dir. pen. proc., 1999, p. 621 s.; I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 107. Nella dottrina tedesca si è sottolineato che “l’artificio dell’ingerenza è stato da tempo svelato: l’obbligo di impedire l’evento derivante da una precedente condotta pericolosa non si fonda su un effettivo
principio di imputazione personale, ma, piuttosto sulla responsabilità oggettiva: l’aver contribuito alla causazione dell’evento”. In questo senso v. V. SCHÜNEMANN, Grundfragen der Unternebmenskriminalität, WISTRA, 1982, p. 316.
57 Cass. pen., sez. IV, 1 ottobre 1998, n. 11444, Bagnoli, in Riv. pen., 1999, p. 507 in cui
la Corte, chiamata a pronunciarsi su un caso di omicidio colposo ai danni di una partoriente
di cui erano imputati tre medici che in successione temporale avevano avuto in carico la paziente, ha affermato che “il significato dell’affidamento, secondo il quale ogni consociato può
38
CAPITOLO SECONDO
La ricostruzione giurisprudenziale della successione nelle attività
inosservanti sembra, inoltre, presentare un ulteriore limite. Tutte le pronunce, infatti, affermano la permanenza dell’obbligo di garanzia in capo
al garante originario, che abbia instaurato (o non abbia rimosso) il fattore
di rischio, evidenziando che in tale situazione non può trovare applicazione il “principio di affidamento”. È noto, nondimeno che il principio di
affidamento opera sul piano della colpa quale limite al dovere di diligenza nel caso di attività monosoggettive, mentre nel caso della successione di garanti, ancor prima del profilo colposo viene in rilievo, come
osservato, il problema della permanenza di una posizione di garanzia.
Affermare, quindi, come avviene nelle pronunce giurisprudenziali,
che, in caso di cessione di attività inosservanti, permane in capo al cedente la posizione di garanzia, non potendo egli fare affidamento sul corretto operato del successore, costituisce un errore metodologico in
quanto determina una sovrapposizione tra omissione (obbligo giuridico)
e momento omissivo della colpa (obbligo di diligenza).
Il recupero dei giusti ambiti di operatività dell’obbligo giuridico, da
un lato, e dell’obbligo di diligenza, dall’altro, non costituisce mero tuziorismo dogmatico, ma risulta necessario se non si vogliono ampliare indiscriminatamente (ed in violazione dei principi costituzionali) gli ambiti
della punibilità. L’inversione dei piani – a cui, invero, non è raro assistere
confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili
al modello di agente proprio dell’attività in esame (nella vicenda di cui ci si occupa della attività medica) e deve evitare unicamente i pericoli scaturenti dalla propria condotta, è quello
per cui di regola non si ha l’obbligo di impedire che realizzino comportamenti pericolosi
terze persone altrettanto capaci di scelte responsabili. Ne consegue che non può parlarsi di
affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli
succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione; sì che, ove anche per l’omissione del successore, si produca l’evento che una certa
azione avrebbe dovuto e potuto impedire, l’evento stesso avrà due antecedenti causali; la seconda omissione non è fatto eccezionale sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l’evento. Né può assumersi che la successione, facendo venire meno in colui che viene sostituito
dal successore, la possibilità di dominare la fonte di pericolo, faccia venir meno anche la garanzia. È infatti di palmare evidenza che gli effetti negativi di un’azione o di una omissione
possono prodursi anche a distanza di tempo, in un momento in cui non siano più sotto il dominio di chi ha posto in essere l’azione o l’omissione, senza che ciò impedisca di farli risalire
e attribuire all’autore dell’azione o della omissione. Questo deve essere tanto oculato da eliminare le fonti di pericolo o, se si vuole, gli effetti negativi della propria condotta, finché può
dominarli o, altrimenti, al fine di escludere eventuali future responsabilità, assicurarsi che il
successore provveda alla eliminazione”. La sentenza appare significativa anche perché testimonia la frequente “confusione dogmatica” in cui incorre la giurisprudenza: il principio di affidamento, infatti, viene richiamato per affermare la sussistenza del nesso di causalità, anziché
nella sua funzione tipica di limitazione della colpa. V. anche Cass. pen., sez. IV, 26 maggio
1999, n. 8006, Cattaneo, cit.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
39
in giurisprudenza – determina, infatti, un ingiustificato riconoscimento
di responsabilità: l’affermazione del permanere di un obbligo di impedimento sul garante originario giustificherebbe il riconoscimento di una responsabilità fondata sulla sola sussistenza della colpa (derivante dalla violazione della regola cautelare che ha determinato l’instaurazione della situazione di rischio) in assenza, però, di una tipicità oggettiva e, quindi, di
un fatto proprio, non residuando più un’autentica posizione di garanzia
in capo al cedente che ha perduto i poteri di impedimento.
Per questi motivi, se la giurisprudenza ha costantemente affermato
la responsabilità sia del cedente (anche se non più in grado di “dominare” gli effetti negativi della propria condotta) sia del cessionario, nella
dottrina, al contrario, si levano voci che evidenziano l’eccessivo rigore di
tale tesi, anche se differenti sono gli approdi ermeneutici. Secondo un
primo orientamento, sarebbe da escludersi la possibilità di configurare la
permanenza della posizione di garanzia in capo al cedente, essendo la
stessa svuotata del contenuto tipico della titolarità di poteri di impedimento. In difetto di idonei poteri impeditivi il garante originario viene a
trovarsi in una posizione non essenziale sul piano della tutela del bene
giuridico58.
Il garante originario, quindi, pur quando ha ceduto un’attività inosservante, non può essere chiamato a rispondere dell’evento verificatosi
sotto la gestione del subentrante, né per non essersi attivato per impedire
l’evento, né a titolo di concorso, non sussistendo in capo allo stesso un
generale obbligo di impedimento dell’altrui condotta illecita59.
Sennonché, se è pur vero che il garante originario all’atto della cessione si spoglia della posizione di garanzia che ha quale contenuto l’obbligo di impedimento dell’evento, egli rimane comunque destinatario di
un obbligo che muta il proprio contenuto: di rimozione di fattori di rischio innestati dalla propria attività. Rimozione che, tuttavia, in assenza,
come detto, di poteri impeditivi diretti, deve avvenire in via mediata attraverso la compiuta rappresentazione al successore della situazione di
pericolo (con particolare riguardo alle circostanze non palesi e non facilmente riconoscibili), nonché delle caratteristiche e dei risultati della propria gestione. Informando il medico subentrante, quindi, l’originario garante si libera della sua posizione di garanzia e, conseguentemente da responsabilità penale per i fatti lesivi60.
58 A.
GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 643; A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove, cit., p. 261; P.
PIRAS, G.P. LUBINU, L’attività medica, cit., p. 315.
59 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 640.
60 A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 645 ss.; P. PIRAS, G.P. LUBINU, L’attività medica, cit.,
p. 315 s.
40
CAPITOLO SECONDO
Secondo un diverso orientamento, invece, il medico che ceda un’attività inosservante non può liberarsi sic et simpliciter della posizione di
garanzia (e, quindi) della responsabilità, attraverso una corretta informazione al collega. Si osserva, infatti, che nelle fattispecie colpose a struttura causale, la condotta tipica deve essere identificata nella prima negligenza che, oltre a risultare causalmente efficiente, incarna l’evitabilità
dell’evento caratteristico dell’imputazione a titolo di colpa. Sarà, dunque,
tipica la prima negligenza che abbia aumentato il rischio di verificazione
dello specifico evento che rientrava nel suo spettro preventivo, mentre
sarà irrilevante quella da cui discenda la concretizzazione di un rischio
ancora correggibile dal garante subentrante. Nella prima ipotesi, quindi,
il garante originario sarà punibile, mentre nella seconda deve escludersi
una sua responsabilità in caso di successiva condotta colposa del garante
secondario61.
Quest’ultimo sembra l’orientamento preferibile: se è pur vero, infatti, che, una volta che vi sia stato il trasferimento delle funzioni, il garante originario perde i poteri impeditivi e, quindi, la possibilità di evitare l’evento, è altrettanto vero, però, che, nel caso in cui la sua negligenza abbia aumentato il rischio di verificazione dell’evento (ad es. abbia
effettuato una erronea trasfusione di sangue), non vi è più alcun potere
impeditivo da poter esercitare essendo le condizioni del paziente ormai
irrimediabilmente compromesse. In una simile evenienza, quindi, seppur
l’evento lesivo si verifichi nel momento in cui altro sanitario ha assunto la
cura del paziente, nondimeno deve ritenersi responsabile colui che lo ha
preceduto e che ha determinato l’instaurazione dello specifico fattore di
rischio. Ciò, si ritiene, non determinerebbe una violazione dei principi di
legalità e di personalità della responsabilità, in quanto il soggetto, nel
momento in cui ha realizzato la condotta colposa, era investito della posizione di garanzia ed era dotato di adeguati poteri impeditivi.
La soluzione, viceversa, deve essere nel senso di esclusione della responsabilità nel caso in cui vi sia la cessione di una attività inosservante
in cui, tuttavia, è ancora possibile arginare il rischio insorto a seguito
della violazione delle regole di cautela. In questa situazione, infatti, è ancora possibile l’impedimento dell’evento e l’unico soggetto che ha gli
adeguati poteri per operare in tal senso è il garante secondario, ove preventivamente informato.
Resta, da ultimo, da stabilire quale sia la responsabilità del sanitario
cedente l’attività in caso di inadempimento dell’obbligo di informazione.
Si ritiene che essa possa assumere due diversi contenuti: in primo luogo,
61 F.
GIUNTA, Medico, cit., p. 896.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
41
può configurarsi una responsabilità monosoggettiva colposa per l’evento
verificatosi laddove il medico subentrante (nonostante l’ignoranza circa i
fattori di rischio precedentemente insorti) abbia correttamente adempiuto ai propri obblighi, pur non riuscendo ad impedire l’evento; ovvero,
può realizzarsi un concorso di cause colpose indipendenti nel caso in cui
alla condotta colposa del garante originario si aggiunga quella, parimenti
colposa, del subentrante. A tal riguardo, si concorda con gli orientamenti
che escludono in questa seconda ipotesi la configurabilità di una cooperazione colposa. Come noto, infatti, ai fini della configurabilità dell’ipotesi concorsuale tipizzata dall’art. 113 c.p., occorre non solo la realizzazione di condotte oggettivamente e soggettivamente colpose, ma, altresì,
la consapevolezza di concorrere con altri nella realizzazione di tali condotte inosservanti. Orbene, giacché la condotta colposa del garante (ad
esempio la erronea effettuazione di una trasfusione di sangue) interviene
in un momento antecedente a quello del passaggio di consegne ed a
quello della condotta colposa del successore, non vi può essere consapevolezza alcuna di interagire con l’altrui condotta colposa62.
62 A.
GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 649.
SEZIONE SECONDA
IMPUTAZIONE SOGGETTIVA DEL FATTO
5.
La tipicità colposa
Il ruolo preponderante assunto, nell’indagine sulla responsabilità
penale, dalla posizione di garanzia (pur con i limiti di accertamento visti
in precedenza) determina, di sovente, un offuscamento dei criteri di imputazione di matrice soggettiva e, in particolare della colpa che, indubbiamente, costituisce la forma di responsabilità tipica nel campo dell’attività medico-chirurgica. Deve riscontrarsi, infatti, una generale tendenza
da parte della giurisprudenza alla sottovalutazione dei profili attinenti sia
alla misura oggettiva sia alla misura soggettiva della colpa che, invece,
ove correttamente valutati, permetterebbero non solo di restringere la
punibilità, ma, soprattutto, di riporre al centro il principio della responsabilità personale.
È noto che esito del progressivo processo di normativizzazione della
colpa è stato innanzitutto, la valorizzazione del “tipo” colposo, essendo
ormai uniformemente accolta l’idea che la colpa assolva la propria funzione non solo nell’ambito della colpevolezza, ma, ancor prima, sul piano
oggettivo, in quanto le regole di cautela selezionano l’ambito della tipicità. La colpa diviene così, sotto il profilo oggettivo, violazione di regola
cautelare63.
Alla sostanzialmente unanime adesione dottrinale e giurisprudenziale alla concezione normativa della colpa non ha fatto, tuttavia, da pendant un compiuto approfondimento dei criteri di individuazione delle regole cautelari (v. amplius infra § 8), rimanendo, così, ancora in gran parte
oscuri i meccanismi di concretizzazione della colpa64. Le generali difficoltà che si riscontrano, nella responsabilità monosoggettiva, nell’individuazione delle regole precauzionali si sommano, nel caso di attività plurisoggettive, a quelle connesse ai profili relazionali della colpa65. Nell’am63 D. CASTRONUOVO, La colpa penale, Milano, 2009, p. 28 s.; F. GIUNTA, La normatività
della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 86 ss.
64 D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., p. 280.
65 Sui profili relazionali della colpa vedi D. CASTRONUOVO, L’evoluzione teorica della
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
43
bito delle organizzazioni complesse, infatti, la colpa assume caratteristiche peculiari, dal momento che la condotta del singolo si interseca con
quella di altri soggetti agenti e, spesso, con questa finisce per fondersi in
un unicum indistinto.
Il tema dell’individuazione delle regole precauzionali assume,
quindi, un ruolo primario anche nel campo dell’attività medica plurisoggettiva, rispetto alla quale è necessario stabilire se sul sanitario incomba
il solo obbligo del rispetto delle regole di diligenza, prudenza e perizia
attinenti alla propria specializzazione, ovvero se, dall’interazione con l’attività di altri colleghi, discendano ulteriori regole di cautela e, in particolare, un dovere di controllo sull’operato altrui.
La tematica si è posta all’attenzione della dottrina già sul finire degli
anni ’50 dello scorso secolo quando la dottrina ha rilevato come la risposta al predetto interrogativo non potesse essere fornita applicando al
campo medico le acquisizioni generali in materia di responsabilità colposa, evidenziando, da un lato, le singolarità dell’atteggiarsi della colpa
professionale e, dall’altro, le storture derivanti dall’applicazione al campo
medico (e più specificamente alle ipotesi di divisione del lavoro) delle
teorie di stampo psicologico allora imperanti. Proprio l’impasse in cui si
sono venute a trovare le concezioni psicologiche, nella loro applicazione
concreta al campo della responsabilità medica, ha, d’altro canto, fortemente inciso sul processo (all’epoca già in atto) di normativizzazione
della colpa66. In effetti, per lungo tempo, il principio della divisione del
lavoro e la sua rilevanza giuridica non sono stati oggetto di autonoma ed
approfondita analisi nell’ambito della responsabilità colposa, con la conseguenza che dottrina e giurisprudenza trovavano terreno fertile nel ritenere che i problemi di imputazione soggettiva, posti da tale fenomeno,
andassero risolti in termini meramente psicologici di prevedibilità delle
negligenze altrui67.
In altri termini, in un periodo in cui imperavano le concezioni psicologiche della colpa, già nell’ambito della responsabilità del singolo, il
problema della responsabilità del medico per eventuali errori di altro sanitario che con lui avesse collaborato, veniva risolto sulla base della prevedibilità ed evitabilità dell’evento: al pari del singolo, anche il medico
colpa penale tra dottrina e giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, p. 1632 ss.; ID., La
colpa penale, cit., p. 321 ss.
66 In questo senso cfr. E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 268; ss.; F. GIUNTA, Illiceità,
cit., p. 65.
67 Nella dottrina tedesca v. EBERMAYER, Die zivil - und strafrechtliche Haftung des Arztes
für Kunstfehler, in Diagnostische und therapeutische Irrtümer und deren Verhütung. Innere
Medizin, 1918, p. 38 ss.; ID., Arzt und Patient in der Rechtsprechung, 1925, p. 105 ss.
44
CAPITOLO SECONDO
che cooperi con altri professionisti è chiamato a rispondere di eventuali
esiti infausti, laddove non abbia previsto, e quindi evitato, il comportamento imprudente, negligente o imperito dell’altro partecipe al trattamento. Sennonché, la trasposizione di tali ricostruzioni della colpa nell’ambito dell’attività plurisoggettiva, determina una “biasimevole esasperazione dei doveri di diligenza del medico”68, dal momento che l’errore
del professionista, anche del più qualificato, è, invero, sempre prevedibile69. Si finisce, in tal modo, per svuotare completamente di significato il
principio della divisione del lavoro, chiedendo al medico di avere una costante sfiducia nel comportamento dei propri collaboratori e di monitorarne, conseguentemente, l’attività70, con il rischio di pericolose forme di
responsabilità per fatto altrui o di gruppo.
Sotto la spinta del progresso tecnico della medicina e della necessaria ripartizione delle mansioni, la dottrina, avvedutasi delle storture conseguenti a simili interpretazioni della responsabilità per colpa, rivolge la
propria attenzione alle specifiche problematiche relative all’attività medico-chirugica in équipe, cercando di dotare la colpa di contenuti che
meglio si adattino a questa peculiare forma di attività71. Pur muovendo
68 G.
STRATENWERTH, Arbeitsteilung und ärztliche Sorgfaltpflicht, Festschrift für Eb.
Schmidt, 1961, p. 383 ss. citato in G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 218.
69 E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 270.
70 Osservava ad esempio A. CRESPI, La responsabilità penale nel trattamento medico-chirurgico con esito infausto, Palermo, 1955, p. 156 che “quanto più urgente ed improrogabile è
la necessità di una determinata misura diagnostica o terapeutica e quanto più rischiosa è la
sua esecuzione sul piano clinico o quello chirurgico, tanto più ampio è il dovere di controllo
del medico responsabile della cura e l’obbligo di provvedere personalmente all’esecuzione di
detta misura”. In particolare, prosegue l’Autore, nel caso di evento dannoso il medico (che si
è avvalso di collaboratori) dovrà risponderne a titolo di colpa, “ben difficilmente in simili
ipotesi … potendo trovare valide giustificazioni per fare ragionevole affidamento sui propri
aiuti ed assistenti”. Salvo poi apportare un correttivo all’affermazione di un generale principio di sfiducia, laddove, Crespi afferma “in concreto quel medico in quel determinato caso
avesse avuto ragionevoli motivi per fare affidamento su quell’assistente o personale sanitario”.
71 Sono sicuramente dirette in tal senso le indagini svolte da E. SCHMIDT, il quale nel
suo lavoro Der Arzt in Strafrecht, Leipzing, 1939, seppure rimanendo ancora legato ad una
concezione psicologica della colpa, si discosta dagli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali
all’epoca dominanti, e, attraverso lo studio di casi di cooperazione fra organismi medici pubblici e privati, elabora una nuova visione del lavoro in équipe. Il caso preso in esame da Schmidt è quello di un paziente che, necessitando di cure specialistiche, venga affidato dal proprio medico ad uno specialista. Ad avviso dell’Autore, tuttavia, in caso di errore dello specialista l’accertamento di un’eventuale responsabilità del primo sanitario dovrà essere
effettuato tenendo conto del tipo di specialista a cui è stato affidato il paziente: se lo specialista è incardinato in una struttura pubblica, del suo eventuale errore non risponderà anche il
medico che ha affidato il paziente, in quanto per tale tipo di specialista vale una presunzione
di un’attività immune da errori, legittimata dalla elevatezza delle cariche che esso ricopre; al
contrario, se lo specialista appartiene ad una struttura privata, potrà essere chiamato a ri-
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
45
da assunti dogmatici differenti, gli autori giungono, nondimeno, ad un risultato comune: la delimitazione della responsabilità deve essere ottenuta
attraverso un attento esame del contenuto del dovere, che sarebbe, più di
ogni altro, l’elemento caratterizzante il «tipo» dei delitti colposi e che,
nell’ambito degli stessi, si modificherebbe a seconda che il soggetto agisca da solo oppure congiuntamente ad altri72. Ne discende che, nel caso
di trattamento sanitario eseguito dal medico in cooperazione con altri sanitari, il contenuto del dovere di diligenza si arricchisce di nuovi profili,
tesi a garantire il coordinamento delle attività dei diversi sanitari coinvolti. Il dibattito, nel frattempo apertosi anche in Italia, si sposta, quindi,
sull’individuazione del contenuto del dovere di diligenza nel caso di cooperazione nell’attività medico-chirugica, per la delimitazione del quale
viene fatto ricorso al principio dell’affidamento.
Abbandonata la tradizionale concezione della “assoluta sfiducia nell’operato altrui”73, perché incentrata su criteri meramente psicologici di
prevedibilità ed evitabilità dell’evento, e rifiutata, altresì, una concezione,
di stampo prettamente civilistico, di una responsabilità di gruppo per
tutti gli interventi eseguiti in cooperazione, in quanto contrastante con
l’art. 27 Cost., si afferma, invece, la nuova visione incentrata sull’affidamento nell’operato del collega74. La trasposizione sul piano della responspondere anche il primo medico, a seconda che, nel caso concreto, operi oppure no il principio di affidamento. Per Schmidt il principio di affidamento opera solo se il medico che ha iniziato la cura non ha commesso alcun errore, ovvero ha commesso un errore riparabile dallo
specialista. Al contrario, se l’errore commesso dal primo medico è di tale gravità da non poter essere eliminato dal medico intervenuto successivamente, non potrà trovare applicazione
l’affidamento.
72 E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 276.
73 In Italia sostenuta da A. CRESPI, La responsabilità penale, cit., p. 155 per il quale
“qualsiasi operazione tecnica alla cui esecuzione vada congiunto un pericolo alla salute del
paziente, importa per il medico un obbligo di controllo diretto: se, pertanto, per errore del
personale assistente, sia stata omessa la installazione dell’indispensabile filtro e sia da ciò derivato un danno al paziente, è ovvio che al medico possa essere rimproverata la realizzazione
del fatto tipico, perché precisamente a lui incombeva l’obbligo di adoperarsi perché nel corso
dell’esecuzione di quella terapia rischiosa venisse allontanata ogni eventualità di danno”.
74 Per la concezione di matrice civilistica, cfr., invece, G. CATTANEO, La responsabilità
medica nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1982, p. 9 ss., il quale,
per affermare la responsabilità del gruppo in caso di esito infausto dell’intervento terapeutico, osserva che “è ragionevolmente presumibile che abbia errato uno dei componenti dell’équipe chirurgica, ma tuttavia impossibile stabilire se si tratti del chirurgo, dell’anestesista
oppure dell’una o dell’altra infermiera”. Si veda, inoltre L. MACCHIARELLI, T. FEOLA, Medicina
legale, Torino, 1995, p. 1288.
Per la prima compiuta affermazione in Italia del principio dell’affidamento sull’operato
dei colleghi cfr. G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, p. 217 ss. In giurisprudenza
il principio ha trovato applicazione in tempi relativamente recenti: per la giurisprudenza di
merito cfr. ad esempio Trib. Bologna, 31 maggio, 1996, Martinelli e altri, in Riv. it. dir. pen.
46
CAPITOLO SECONDO
sabilità medica del principio di affidamento, elaborato dalla dottrina
tedesca con riferimento alla circolazione stradale, consente di meglio delineare le sfere di responsabilità di ciascun partecipe all’attività medicochirugica, in quanto ogni sanitario risponde solo del corretto adempimento dei doveri di diligenza e perizia a lui affidati, senza essere gravato
da un dovere di sorveglianza del comportamento altrui.
Sennonché la nuova visione, unanimemente accolta dalla dottrina, ha
stentato e, a dire il vero, stenta a tutt’oggi, a trovare compiuta attuazione
giurisprudenziale. Al di là dell’affermazione formale del principio (rinvenibile in molte delle decisioni che si occupano di medical malpractice)75,
infatti, sono rare le pronunce in cui, grazie alla corretta applicazione dello
stesso, si giunge a pronunce di assoluzione. Quasi sempre più attente alle
istanze di punizione del medico, piuttosto che ai vincoli derivanti dal
principio di responsabilità personale, nella maggior parte delle decisioni si
finisce per affermare la sostanziale sfiducia nell’operato altrui, sia quando
vi sono in gioco rapporti di tipo orizzontale (ad es. tra medici aventi la
medesima specializzazione), sia quando si discuta di rapporti di tipo verticale (es. tra medico in posizione apicale e aiuto). La conseguenza è
quella dell’implicito riconoscimento nei confronti dei sanitari che cooperano di un “obbligo di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta
degli altri soggetti coinvolti nel contesto” in quanto la cooperazione comproc., 1997, p. 1043, in cui i giudici sono chiamati a pronunciarsi su un caso di omicidio colposo ai danni di due pazienti, che avevano contratto il virus dell’AIDS a seguito di trapianto
di reni ricevuti da donatore poi risultato sieropositivo. In particolare, tra i medici imputati
per omicidio colposo, veniva rinviato a giudizio il primario del reparto di rianimazione della
struttura dove venne effettuato il trapianto (diversa da quella in cui fu effettuato l’espianto),
con l’accusa di “non aver organizzato tra i suoi collaboratori e preteso da questi un adeguato
e generalizzato sistema di anamnesi che individuasse i potenziali rischi nei donatori prima che
si procedesse al trapianto di organi”. I giudici del Tribunale di Bologna, quindi, nell’esaminare la posizione del primario osservano che “è noto che le prestazioni mediche di un certo
rilievo vengono oggi eseguite normalmente da una pluralità di soggetti, inseriti all’interno di
una struttura ed organizzati secondo principi di divisione del lavoro, sono spesso interdisciplinari e richiedono a volte la stretta collaborazione di istituti diversi. Tutti questi soggetti,
che interagiscono fornendo ciascuno il proprio apporto, quando e in che termini possono essere chiamati a rispondere di comportamenti colposi altrui? Ex facto oritur ius: tale nuova situazione ha condotto la dottrina e la giurisprudenza ad elaborare il principio di affidamento.
Come sempre accade varie teorie si sono intrecciate sulla valutabilità di tale principio ai fini
dell’esonero dalla colpa. Da quelle più rigoristiche, postulatrici di un dovere generale di controllo reciproco, che ammetterebbe deroghe soltanto in caso di assoluta imprevedibilità dell’errore altrui; a quelle, compromissorie e temperanti, che senza prendere posizioni definitorie rigide, segnalano la necessità di adeguare la valutazione alle circostanze concrete”.
75 In giurisprudenza, per l’individuazione dei contenuti del principio di affidamento,
cfr. Cass. pen., sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430, Guida, in D&G, 2004, n. 16, p. 31; Cass.
pen., sez. IV, 2 marzo 2000, n. 9368, Troiano, cit.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
47
porta un doveroso accrescimento delle cautele76 con una, inaccettabile,
sostanziale elusione del principio di affidamento in tutti i casi (come
quello dell’attività medica esercitata in forma plurisoggettiva) in cui uno
stesso rischio sia, consapevolmente, gestito da più soggetti.
In altri termini, secondo la ricostruzione giurisprudenziale, mentre
in una prospettiva monosoggettiva, il principio di affidamento ha la funzione di rendere penalmente irrilevante la astratta prevedibilità del comportamento colposo altrui, in un contesto plurisoggettivo, viceversa, ciascuno dei compartecipi, oltre ad essere gravato dall’obbligo del rispetto
76 Questa ricostruzione è nitidamente tratteggiata da Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio
2009, n. 1786, Tomaccio ed altri, in Dir. pen. proc., 2009, p. 571, con nota di L. RISICATO, Cooperazione in eccesso colposo: concorso “improprio” o compartecipazione in colpa “impropria”.
Nella sentenza, la Corte si sofferma (con riferimento ad un caso che non concerne la responsabilità medica) sui confini di operatività dell’art. 113 c.p. e sugli elementi di differenziazione
rispetto al concorso di cause colpose indipendenti di cui all’art. 41, comma 3, c.p. Dopo aver
ricostruito gli orientamenti concernenti la funzione dell’art. 113 c.p., la Corte ritiene di aderire a quello secondo cui la predetta norma svolge una funzione estensiva dell’incriminazione,
consentendo la punizione anche di condotte di per sé atipiche o incomplete. Ai fini della configurabilità della cooperazione sarebbe necessaria e sufficiente la mera consapevolezza della
condotta altrui (e non anche della sua colposità). Ciò, indubbiamente, rileva la stessa Corte,
comporterebbe, però, un possibile indiscriminato ampliamento della responsabilità. Problema che, tuttavia, secondo il Supremo Collegio, può essere risolto ritenendo che la punibilità delle condotte atipiche debba essere limitata ai soli casi in cui “il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione
del rischio, o almeno sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente
condivisa sul piano della consapevolezza”. In senso adesivo a questa ricostruzione v. L. RISICATO, Il concorso colposo tra vecchie e nuove incertezze, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, p. 168
ss. L’Autrice sottolinea che “il contesto consapevole di azione, che lega tra loro le condotte
dei compartecipi, amplia l’ambito del dovere di diligenza fino a ricomprendere la (normalmente irrilevante) prevedibilità delle possibili conseguenze del fatto (non più del terzo ma)
comune. Proprio tale prevedibilità è atipica a livello monosoggettivo, perché incontra il limite
del Vertrauensgrundsatz: il fatto colposo del terzo, pur se prevedibile, non fonda, in via di
principio, una corrispondente norma cautelare […]. Solo la consapevole interazione tra le
condotte dei concorrenti consente all’interprete di superare di slancio e senza residue perplessità il principio di affidamento, solido argine della tipicità colposa monosoggettiva: la
consapevolezza di cooperare con altri, ponendosi come indispensabile elemento di coesione
nella produzione dell’evento, fa sì che l’intero fatto sia proprio, al tempo stesso dell’autore e
del partecipe e che dunque l’uno non assuma più rispetto all’altro la veste di «terzo» (più o
meno affidabile)”.
Il principio è, altresì, fatto proprio, con specifico riferimento al campo dell’attività medica, da Cass. pen., sez. IV, 25 maggio 2010, n. 19637, F.F. e altro, in Ragiusan, 2010, p. 168
in cui si afferma, appunto, che nella cooperazione multidisciplinare nell’attività medico-chirurgica ogni sanitario è tenuto ad osservare, non solo regole di diligenza e prudenza connesse
alle specifiche mansioni, ma anche a coordinare la propria attività con gli altri partecipanti
verso il fine comune unico. Il singolo medico, quindi, non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente e contestuale di altro collega e dal controllarne la correttezza. Nello
stesso senso v. Cass. pen., sez. IV, 22 marzo 2013, n. 13542, A.C., in Riv. it. med. leg., 2013,
p. 1480.
48
CAPITOLO SECONDO
delle regole cautelari relative alle proprie mansioni, è gravato anche da
un obbligo di prudente interazione e, quindi, di controllo sull’operato
dei colleghi (che non sarebbe, pertanto, meramente eventuale o secondario). L’obbligo di prudente interazione costituisce, secondo questa ricostruzione, il fulcro per l’operatività dell’art. 113 c.p. il quale renderebbe
punibili anche condotte di per sé atipiche e che non abbiano determinato
un contributo essenziale al verificarsi dell’evento, pur avendolo agevolato. In tal modo, la stessa Corte giustifica il riconoscimento della responsabilità anche in capo a soggetti che nell’ambito di una équipe svolgono un ruolo subalterno e meno qualificato in quanto sugli stessi, nonostante la posizione subordinata incombe comunque il dovere di
manifestare il dissenso rispetto alle scelte terapeutiche77 (v. amplius infra
Cap. 4, § 4).
Una ricostruzione che, tuttavia, non si ritiene affatto condivisibile.
Pur non potendosi negare che dalla cooperazione sorgano nuove ed ulteriori regole cautelari volte alla gestione del rischio comune (quali, in
particolare gli obblighi di corretta informazione e trasmissione delle notizie tra colleghi), non pare, nondimeno, corretto affermare che nelle attività plurisoggettive vi sia una regola cautelare primaria che imponga a
ciascun componente di vigilare costantemente sull’operato del collega.
Le attività plurisoggettive, anzi, costituiscono, come meglio sarà evidenziato nel prosieguo, l’autentico terreno elettivo per l’operatività del principio di affidamento che funge (esso sì) da regola cautelare primaria che
soccombe solo al verificarsi di situazioni concrete nelle quali (per la particolare posizione ricoperta o per l’insorgere di particolari circostanze,
quali l’errore riconoscibile del collega) sorge un obbligo di controllo78.
Un obbligo, quindi, che non discende in via primaria dalla sola interazione tra più soggetti (come, invece, ritenuto dalla richiamata giurisprudenza), ma che sorge in via secondaria per effetto della cessazione del
principio di affidamento a seguito dell’insorgere di situazioni concrete
(c.d. obblighi cautelari relazionali)79.
77 Vedi
in tal senso la giurisprudenza formatasi con riguardo ai rapporti tra primario ed
assistente tra cui Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2000, n. 556, Zanda, cit.
78 In tal senso v. anche L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 519; ID., La cooperazione colposa come fattispecie di colpa per inosservanza di cautele relazionali, in Studi in onore
di Mario Romano, Napoli, 2011, p. 839, in cui si evidenzia che “la cooperazione colposa […]
non rappresenta una «deviazione» rispetto [al principio di affidamento]. Ma, piuttosto, una
conseguenza logica del suo esautoramento quando il pericolo derivante dall’altrui imprudenza sia riconoscibile, una conseguenza che comporta, appunto, l’accrescimento delle cautele in direzione del comportamento altrui”.
79 M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997,
p. 74 ss.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
6.
49
Origini e fondamento del principio di affidamento
Le origini del principio di affidamento (Vertrauensgrundsatz) sono
da ricercarsi in Germania, dove, nel 1938, il giurista Hermann Gülde
pubblica un articolo dal titolo particolarmente significativo: “Der Vertrauensgrundsatz als Leitgedanke des Straßenverkehrsrechts” (ovvero “il
principio di affidamento come criterio-guida del diritto della circolazione
stradale”)80. Gülde conia l’espressione nel tentativo di dare soluzione ad
una questione che in quell’epoca, con l’incremento della circolazione
stradale, comincia ad affacciarsi con sempre maggiore insistenza: se ed
entro quali limiti il singolo partecipante al traffico stradale debba adeguare il proprio comportamento di guida alle eventuali violazioni delle
regole della circolazione da parte di altri utenti della strada81. Ad esito
del proprio studio, l’Autore, in contrasto con la giurisprudenza allora imperante, secondo la quale il singolo dovrebbe essere sempre pronto a far
fronte alle altrui infrazioni, afferma, invece, il diverso criterio dell’affidamento. Seppure fortemente legata ad una visione nazionalsocialista, alla
cui base sta la convinzione che ciascun consociato si conformi ai doveri
che sullo stesso incombono e gli altri possano su ciò fare affidamento82,
l’elaborazione di Gülde è, nondimeno, significativa, non solo per la
prima elaborazione del principio, ma anche per il primo tentativo di sistemazione dogmatica dello stesso, dall’Autore collocato nell’ambito
della colpevolezza, quale limite al dovere di diligenza nei reati colposi.
All’incirca vent’anni dopo, il medesimo principio viene esteso all’ambito dell’attività medico chirurgica in équipe. Nel 1961, infatti, un altro giurista tedesco, Günther Stratenwerth pubblica un articolo nel quale
significativamente osserva: “un medico, il quale si occupi di tutto quanto”
(id est non solo delle proprie mansioni, ma anche dell’adempimento da
80 L’articolo è stato pubblicato sulla rivista Juristische Wochenschrift, 1938, p. 2785 ss.
81 Per un’approfondita analisi delle origini storiche del principio si rinvia a M. MANTOVANI,
Il principio, cit., p. 11 ss.
82 Gülde critica l’orientamento giurisprudenziale, allora imperante, che negava l’affidamento nell’altrui condotta diligente, partendo proprio dai principi che stanno alla base del
nazionalsocialismo. Egli, infatti, osserva che l’orientamento affermatosi è in palese contrasto
con la visione nazionalsocialista la quale presuppone che ognuno dei consociati si conformi ai
doveri che su di lui incombono. Imporre al singolo di tenersi pronto alle infrazioni che terzi
commetteranno, equivarrebbe a postulare negli altri componenti della collettività non già
l’osservanza delle norme, ma la loro violazione. In tal modo si giungerebbe però al paradosso
di indurre all’inosservanza delle regole di circolazione, perché in ogni caso gli altri partecipanti al traffico saranno tenuti a salvaguardare la posizione del contravventore: il principio di
affidamento in altri termini verrebbe ad avere una funzione pedagogica, tendente a promuovere l’osservanza delle norme stradali. Per queste osservazioni sull’opera di Gülde cfr. M.
MANTOVANI, Il principio, cit., p. 12 ss.
50
CAPITOLO SECONDO
parte dei colleghi delle loro) “certo non si esporrà al rimprovero penale di
aver mancato di diligenza, difficilmente, tuttavia, sarà un buon medico”83.
L’Autore, per la prima volta, applica, quindi, il principio di affidamento
anche alle ipotesi di divisione tecnica del lavoro, ritenendolo necessario
per consentire al medico, sgravato dall’onere di verificare la correttezza
degli altrui adempimenti, di svolgere al meglio il proprio lavoro, salvaguardando la salute del paziente84.
A fronte di un così vivido interesse per il principio di affidamento in
ambito tedesco, deve invece riscontrarsi una difficile affermazione dello
stesso nella dottrina e giurisprudenza italiane, a causa, almeno inizialmente, della diffusione delle concezioni psicologiche della colpa. La visione della colpa, al pari del dolo, come mera riferibilità psichica del
fatto all’agente, impediva di cogliere, come già in precedenza rilevato, il
suo essenziale radicarsi su un rapporto di contrarietà del comportamento
dell’agente ad una regola di condotta a contenuto precauzionale. Soltanto la specifica dimensione normativa dell’addebito colposo avrebbe
permesso l’emersione del principio di affidamento: è proprio la pretesa
di diligenza, rivolta ad ogni consociato, che fonda un’aspettativa dall’ordinamento stesso in ordine al suo effettivo adempimento, aspettativa che
non può non rifrangersi su ogni consociato che entri in contatto con
quello chiamato all’assolvimento dell’obbligo di diligenza85. L’iniziale
scarsa penetrazione in Italia del principio di affidamento fa si che lo
stesso venga utilizzato dalla giurisprudenza in modo del tutto asistematico ed occasionale, per giustificare l’esclusione di responsabilità del medico, il quale deve poter fare affidamento sul rispetto delle regole caute83 G. STRATENWERTH,
84 L’Autore, tuttavia,
Arbeitsteilung, cit., p. 383 ss.
osserva che il principio di affidamento da lui elaborato con riferimento all’attività medico-chirugica non corrisponde affatto al Vertrauensgrundsatz elaborato
da dottrina e giurisprudenza con riferimento alla circolazione stradale. Secondo Stratenwerth, infatti, quest’ultimo troverebbe il proprio fondamento nella categoria dogmatica
del “rischio consentito”: dal momento che l’ordinamento autorizza la circolazione stradale,
pur trattandosi di attività in sé pericolosa, e visto che tra i pericoli dalla stessa derivanti deve
collocarsi anche quello del mancato rispetto delle norme di diligenza da parte degli utenti
della circolazione, ne discenderebbe che il poter fare affidamento sull’altrui comportamento
diligente sarebbe un riflesso della generale autorizzazione. Il principio elaborato con riferimento all’attività medica, al contrario, non potrebbe trovare fondamento nell’istituto del “rischio consentito”, in quanto se è vero che anche l’attività medica è attività autorizzata dall’ordinamento pur se pericolosa, tuttavia, l’esecuzione del trattamento con divisione del lavoro richiederebbe un proprio autonomo fondamento rispetto a quello generale sottostante
all’attività medica. La divisione del lavoro, infatti, è essa stessa produttrice di nuovi pericoli,
diversi ed ulteriori, rispetto a quelli già insiti nell’atto medico e quindi non in sé coperti dall’autorizzazione statale.
85 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 58.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
51
lari da parte dei colleghi, senza che vi faccia seguito, però, una compiuta
elaborazione teorica ed una sistemazione dogmatica.
La dottrina italiana, invece, richiamandosi alle già compiute elaborazioni dogmatiche della dottrina tedesca, pone, via via, particolare attenzione al profilo della collocazione sistematica del principio di affidamento nell’ambito della teoria del reato, senza, tuttavia, raggiungere
un’uniformità di vedute. Nell’ambito delle diverse ricostruzioni del fondamento del principio in esame sembra possibile enucleare due diversi
correnti interpretative: la prima ne ricerca il fondamento nell’ambito di
categorie più generali, quali il “rischio consentito” ed il “principio di autoresponsabilità”; la seconda, invece, ne configura un autonomo fondamento, riportandolo sul piano della teoria della colpa86.
Nell’ambito del primo orientamento si inseriscono, anzitutto, quegli
Autori che configurano il principio di affidamento come ipotesi di esclusione della responsabilità collocata nell’ambito della più ampia categoria
del rischio consentito, la quale designa quella serie di comportamenti
che, pur essendo in sé e per sé portatori di un rilevante pericolo per uno
o più beni giuridici penalmente protetti, sono tuttavia autorizzati, in via
generale, dall’ordinamento giuridico in nome della loro utilità87. Il rischio
consentito, quindi, influirebbe già come limite dell’operatività del precetto penale: tutte le condotte che rientrano nell’ambito dell’autorizzazione, e che siano state rispettose dei limiti e delle regole che presiedono
al loro svolgimento, anche se produttive di eventi lesivi, sono da ritenersi
atipiche. L’ulteriore passaggio che effettuano i sostenitori di questa concezione, elaborata con riferimento alla circolazione stradale, è che, nell’ambito delle attività rischiose, gli eventi lesivi, che possano essersi verificati nonostante l’osservanza delle regole cautelari, devono ricondursi al
fatto che altre persone (id est utenti della strada) non abbiano osservato
le norme precauzionali che a loro si rivolgono. In nessun caso, comunque, colui che ha tenuto la condotta autorizzata, rispettando le regole
precauzionali88, potrà essere chiamato a rispondere delle altrui negligenze. Da qui, pertanto, l’ulteriore ed ovvia conseguenza che egli potrà,
altresì, fare affidamento sul fatto che gli altri si attengano alle nome pru86 M.
87 M.
88 M.
MANTOVANI, Il principio, cit., p. 66.
MANTOVANI, Il principio, cit., p. 68.
ROMANO, Art.43, in Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, p.
461, ha osservato che il rischio consentito “può divenire un singolare cappello protettivo per
attività pericolose per le quali potrebbero invece in concreto adottarsi più efficaci misure precauzionali. Importante è dunque avere ben presente che rilevante è sempre se l’attività sia in
concreto conforme o meno alla regola di diligenza: insomma, un comportamento non è antigiuridico o non conforme al tipo perché consentito, ma è al contrario consentito perché (o
purché) concretamente diligente”.
52
CAPITOLO SECONDO
denziali che li concernono, che altro non sarebbe se non il nucleo centrale del principio di affidamento89.
Nella dottrina, invero, non sono mancate le critiche alla collocazione
del principio di affidamento nell’ambito della più generale categoria del
rischio consentito, ed anzi si è osservato che è lo stesso Vertrauensgrundsatz a contribuire alla delimitazione dei confini del rischio consentito, e
pertanto, se la determinazione dell’estensione del rischio consentito dipende proprio dall’applicazione del principio di affidamento, il primo
non potrà certamente porsi come fondamento del secondo90.
I tentativi di affrancare il principio di affidamento dall’area del rischio consentito ha indotto altra parte della dottrina a ricercarne il fondamento nel principio di autoresponsabilità. La tesi si fonda sulla constatazione che il terzo che abbia realizzato un comportamento illecito, inseritosi sul decorso causale già avviato dalla condotta di altri, sia un
soggetto in grado di autodeterminarsi e di orientare le proprie scelte
comportamentali in modo conforme ovvero difforme rispetto ai precetti
penali che gli sono indirizzati. Il principio di affidamento opererebbe,
quindi, come delimitazione di responsabilità del primo soggetto che ha
attivato il decorso causale, il quale, giustamente, ripone la propria aspettativa sul corretto adempimento delle regole di diligenza da parte di soggetti responsabili91. Nel caso in cui, tuttavia, emergano nella situazione
concreta indizi tali da far venire meno l’aspettativa del rispetto delle regole cautelari da parte del terzo, il principio di affidamento cede il passo
ad un dovere secondario di diligenza.
Sennonché la possibilità di ricondurre il principio di affidamento al
canone dell’autoresponsabilità sconta degli evidenti limiti insiti nella
stessa ricostruzione fornita dai suoi sostenitori. Se, difatti, si ammette che
il principio di affidamento non operi in tutti i casi in cui dagli elementi
89 Per le critiche alla riconduzione del principio di affidamento nella categoria del rischio consentito, v. M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 70 ss.
90 M. MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni sul principio di affidamento, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1997, p. 1054.
91 Nella dottrina italiana v. F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984,
p. 151; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 357. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 7
aprile 2004, n. 25310, Ardovino ed altri, cit., in cui la Corte ha osservato che “il principio di
affidamento implica infatti, nel caso di ripartizione degli obblighi tra più soggetti, che colui
che si affida non possa essere automaticamente ritenuto responsabile delle autonome condotte del soggetto cui si è affidato; e ciò in base al principio di autoresponsabilità. Non esiste
infatti un obbligo di carattere generale di impedire che terzi, responsabili delle loro scelte,
realizzino condotte pericolose. Ma nel caso in cui l’affidante ponga in essere una condotta
causalmente rilevante, la condotta colposa dell’affidato, anch’essa con efficacia causale nella
determinazione dell’evento, non vale ad escludere la responsabilità del primo in base al principio dell’equivalenza delle cause e dell’efficacia non esclusiva della causa sopravvenuta”.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
53
fatturali emerga che il terzo non si atterrà alle regole prudenziali impostegli dall’ordinamento, si dovrebbe altresì concludere che quest’ultimo
non è soggetto in grado di autodeterminarsi. Nella realtà, però, non tutte
le situazioni che rendono prevedibile l’inosservanza delle regole cautelari
da parte del terzo sono anche conseguenza di una sua incapacità di autodeterminarsi. Significativo in questo senso l’esempio di soggetto che
venga a trovarsi in una situazione di debolezza od impedimento fisico,
verosimilmente tale da non consentirgli l’adeguamento agli standards di
diligenza impostigli, ma non certamente non in grado di autodeterminarsi o di essere responsabile92.
Secondo i più recenti orientamenti, oggi prevalenti, sarebbe, invece,
possibile riconoscere un’autonomia concettuale al principio di affidamento collocandolo all’interno della dogmatica sulla colpa. In particolare, in un ampio studio monografico sul principio93 è stato evidenziato
che il ragionamento circa il fondamento di detto principio deve prendere
le mosse dall’analisi della c.d. componente omissiva della colpa. È, infatti, indubbio, che la colpa presenti una componente omissiva che si
concretizza nella violazione del dovere di diligenza sistematicamente collocata, per la dottrina classica, nell’ambito della colpevolezza, mentre,
per quella più recente, già nell’ambito della tipicità94. Nondimeno, il
mancato rispetto della regola prudenziale può assumere rilevanza giuridica solo in quanto contravvenga ad un’aspettativa dell’ordinamento giuridico che ha posto tale regola95. La conclusione di questo iter argomen92 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 98 ss. Si pensi al caso di un medico specializzando
alla sua prima esperienza in sala operatoria, che, pur essendo perfettamente in grado di autodeterminarsi, potrebbe comunque, vista la sua inesperienza, porre in essere delle condotte
negligenti.
93 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 98.
94 Secondo la concezione classica la colpa costituisce esclusivamente una forma della
colpevolezza e, quindi, anche la violazione del dovere di diligenza produrrebbe effetti solo in
questo ambito. Gli studi più moderni hanno, invece, distinto una misura oggettiva ed una misura soggettiva della colpa, la prima delle quali produrrebbe i propri effetti già a livello di tipicità dell’illecito colposo: il fatto di reato, quindi, sotto il profilo oggettivo si sostanzia nel
mancato rispetto, da parte di chi vi è obbligato, della diligenza necessaria ad impedirne l’integrazione. In dottrina per la tesi tradizionale v. G. DELITALIA, Il «fatto» nella teoria generale
del reato, in Diritto penale, Raccolta degli scritti, vol. I, Milano, 1976, p. 235 ss.; F. ALIMENA,
La colpa nella teoria generale del reato, Palermo, 1947, p. 153 ss.; G. MAGGIORE, Principi di diritto penale, parte generale, 5ª ed., Bologna, 1949, p. 451.
Per le più recenti acquisizioni teoriche nella manualistica v. S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2007, p. 413; G.
FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 564 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale., cit., p. 336
ss. Si vedano, inoltre, G. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 149 ss.; F.
GIUNTA, Illiceità, cit., p. 141 ss.
54
CAPITOLO SECONDO
tativo è, pertanto, che “all’esistenza di un obbligo di diligenza in capo ad
un determinato soggetto, corrisponde un’aspettativa, mettente capo all’ordinamento e, di riflesso necessario, a tutti coloro – compresi anche
quanti sono riguardati da obblighi di diligenza concorrenti – che con il
primo interagiscono, avente ad oggetto l’effettivo impiego della diligenza
a lui prescritta”96. La ratio della tutela di tale aspettativa deve essere ricercata nel fatto che l’ordinamento non potrebbe imporre il rispetto di
determinati doveri e presupporre poi che gli stessi non saranno rispettati,
perché, se così fosse, verrebbe messa in discussione l’attitudine dell’ordinamento stesso a porre norme di comportamento vincolanti e, quindi,
capaci di orientare il comportamento della generalità dei consociati, in
quanto dotate di effettività97.
Questa ricostruzione conduce a configurare il principio di affidamento quale limite al dovere di diligenza che, quindi, ove operante, determina l’atipicità del fatto colposo per carenza della componente oggettiva della colpa. In altri termini, la funzione del principio di affidamento,
è proprio quella di “modellare” la tipicità del fatto colposo nelle situazioni plurisoggettive, escludendo, come regola, la configurabilità di obblighi diretti al comportamento di terzi98.
7.
I limiti del principio di affidamento
Nelle attività svolte con divisione di lavoro, quindi, la regola è che
ciascuno risponda dell’inosservanza delle leges artis del proprio specifico
settore, poiché, per un buon risultato dell’attività, è necessario che ogni
partecipante possa avere fiducia nel comportamento altrui, concentrandosi sulle proprie mansioni99. Anzi, si è rilevato che il principio di affida95 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 152.
96 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 153 ss.
97 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 154 ss.
98 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p.
518. Questa ricostruzione è stata nitidamente tratteggiata da Cass. pen., sez. IV, 26 maggio 2006, n. 31462, Capobianchi e altri, in
Cass. pen., 2008, p. 446 ss. nella quale si afferma che “il principio di affidamento può valere
a delimitare il dovere di diligenza degli altri consociati qualora nella stuazione concreta non
fossero riscontrabili circostanze particolari tali da fa prevedere e, cioè, da rendere più probabile, il verificarsi di violazioni della diligenza da parte del terzo”. In senso parzialmente differente v. L. RISICATO, L’attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L’obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, p. 40 secondo la quale l’essenza del principio di affidamento è strettamente collegata non tanto al perimetro generale
della tipicità colposa quanto, piuttosto il cardine su cui ruota la funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p.: esso rappresenterebbe, infatti, il confine oltre il quale sussiste la compartecipazione criminosa.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
55
mento non delimita semplicemente il contenuto della regola cautelare,
ma lo struttura, dovendo ritenersi vigente un vero e proprio “dovere di
affidarsi”: l’affidamento è necessario, allo scopo di ottimizzare i risultati
organizzativi, per cui, colui che partecipa ad un’attività svolta con divisione del lavoro, ha il dovere di affidarsi ai propri colleghi per poter esercitare al meglio le proprie mansioni100.
Se non vi è dubbio, quindi, che la finalità ultima del principio sia
quella di consentire ai partecipanti ad attività plurisoggettive di dedicarsi
integralmente alle proprie attribuzioni, la stessa deve, nondimeno, essere
bilanciata con la preminente esigenza della tutela della salute del paziente,
che impone un coordinamento tra i vari professionisti che prendono parte
all’atto medico. Proprio quest’ultima esigenza ha indotto la dottrina e la
giurisprudenza ad individuare dei limiti all’operatività del principio di affidamento, tali per cui, in presenza di determinati presupposti, insorge (o
permane) a carico del medico un dovere di controllo sull’operato dei colleghi (c.d. principio di affidamento temperato o relativo)101.
Un primo limite al legittimo affidamento nell’operato dei colleghi
deve essere ravvisato avendo riguardo al contenuto della regola cautelare.
Con riferimento alla finalità preventiva delle regole cautelari, debbono,
infatti, individuarsi regole (definite a contenuto bifasico o cumulativo)102
dirette, non tanto a scongiurare il verificarsi dell’evento lesivo, quanto
piuttosto, a contenere la pericolosità della condotta di un altro sog99 P. AVECONE, La responsabilità penale del medico, Padova, 1981, p. 154 il quale osserva
che “la sempre più necessaria specializzazione e l’opportunità di una precisa divisione dei
compiti, associata ad un obbligo di concentrazione del medico nell’attività a lui affidata, fa si
che, in linea generale, ognuno debba rispondere per il proprio fatto, senza ritenerlo obbligato
contestualmente a studiare l’operato del collega per poter correggere eventuali errori, cosa
questa che, a parte i ritardi e le disfunzioni che comporterebbe, certamente distrarrebbe il sanitario dai suoi compiti specifici”.
Sul contenuto del principio di affidamento cfr. anche Cass. pen., sez. IV, 26 maggio
1999, n. 8006, Cattaneo ed altri, in Ragiusan, 2000, p. 227, in cui la Corte ha affermato che
l’affidamento è il “principio secondo il quale ogni consociato può confidare che ciascuno si
comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell’attività che di volta in volta è in esame, ed ognuno deve evitare unicamente i pericoli scaturenti dalla propria condotta”.
100 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1634 ss.; ID., Cooperazione e concause in ipotesi di trattamento sanitario “diacronicamente plurisoggettivo”, in Dir. pen. proc.,
2001, p. 480.
101 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 217; F. MANTOVANI, La responsabilità del medico, in Riv. it. med. leg., 1980, p. 21; C. PARODI, V. NIZZA, La responsabilità,
cit., p. 139; M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 155 ss.; ID., Sui limiti del principio di affidamento, in Indice pen., 1999, p. 1195 ss.; P. PIRAS, G.P. LUBINU, L’attività medica, cit., p. 306 ss.
102 Per la definizione, cfr. L. CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti
(Parte II), in Indice pen., 2001, p. 1098.
56
CAPITOLO SECONDO
getto103. Nell’ambito dell’attività medica, questa tipologia di regole cautelari si riscontra tendenzialmente in capo ai soggetti gerarchicamente sovraordinati, e quindi, in particolare, al primario e al capo-équipe, sui
quali incombe, ex lege, un obbligo di verifica e controllo sulle attività
svolte dal personale sanitario a loro sottoposto. Pertanto, questi sanitari
non potranno, per andare esenti da responsabilità, invocare a loro favore
l’operatività del principio di affidamento, ma dovranno fornire la prova
di aver adempiuto al dovere di controllo su di loro incombente104.
In tali ipotesi (ma solo in queste), quindi, il principio di affidamento
cede il passo ad un obbligo di controllo che opera quale regola cautelare
primaria, affiancandosi alle leges artis proprie dello specifico settore di
attività. Non che, tuttavia, si possa parlare di una generale esclusione dell’operatività del principio di affidamento nei confronti del medici in posizione apicale. L’obbligo di controllo incombente sul medico gerarchicamente sovraordinato non deve, infatti, essere inteso come obbligo di vigilanza continuo e generale su tutte le attività compiute dai medici a lui
sottoposti, perché, se così fosse, il medico non sarebbe più in grado di at103 Per
la ricostruzione di questa categoria di regole cautelari cfr. F. GIUNTA, Illiceità,
cit., p. 454; ID., La normatività della colpa, cit., p. 107, secondo il quale si tratta di norme la
cui violazione dà luogo a responsabilità per culpa in vigilando e che concretizzano l’ipotesi di
cooperazione colposa ex art. 113 c.p.; nonché L. CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti (Parte II), cit., p. 1098.
104 D. TASSINARI, Rischio penale e responsabilità professionale in medicina, in S. CANESTRARI, M.P. FANTINI (a cura di), La gestione del rischio in medicina. Profili di responsabilità
nell’attività medico-chirugica, Trento, 2006, p. 42 il quale osserva che il dovere di controllo del
medico in posizione apicale trova la propria fonte nell’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 e di conseguenza la sua violazione concretizza un’ipotesi di colpa specifica. Più in generale l’autore
osserva che “nell’ambito della colpa c.d. specifica, i problemi connessi al principio di affidamento sono per lo più risolvibili facendo riferimento al contenuto stesso delle regole cautelari scritte che si assumono violate; esse, infatti, non di rado prevedono espressamente l’esistenza di obblighi preventivi rispetto all’operato di altre persone”. Inoltre A.R. DI LANDRO,
Vecchie e nuove, cit., p. 257. Con riferimento al ruolo assunto dal capo-équipe in giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 2 aprile 2007, n. 21594, Scipioni e altro, in CED rv. 236726, nella
quale la Corte, con riferimento alla responsabilità di un capo-équipe per gli errori commessi
da due assistenti, ha affermato che “… al caso in esame vanno applicati con particolare rigore
i principi afferenti alla sfera di responsabilità del chirurgo capo équipe, considerando che gli
assistenti erano due sanitari ancora in formazione e quindi abbisognevoli di un accentuato
controllo. I principi di cui si parla sono stati affermati ripetutamente da questa Corte e riguardano, tra l’altro, il dovere di sorveglianza e controllo nei confronti dell’assistente e l’obbligo di attivarsi per prevenire o correggere eventuali condotte errate. Proprio tale obbligo di
sorveglianza e controllo limita fortemente, in tale ambito, la portata del principio di affidamento”. V. anche Cass. pen., sez. IV, 3 marzo 1988, n. 3904, Grassi, in Cass. pen., 1989, p.
607. Nello stesso senso, v. anche le sentenze che affrontano il problema del riparto di responsabilità tra medici e personale infermieristico. Così Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2005,
n. 18568, Cloro ed altri, in CED rv. 231538; Cass. pen., sez. IV, 1 febbraio 1982, n. 6018, Berio, in Riv. pen., 1983, p. 345.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
57
tendere alle proprie mansioni e si finirebbe per esautorare il medico subalterno a cui, invece, la legge riconosce ampi spazi di autonomia105. La
dottrina ha, quindi, ritenuto opportuno distinguere tra casi, c.d. “di difficile soluzione”, rispetto ai quali il dovere di controllo dovrebbe essere
più stringente, tanto da imporre ai collaboratori di informare il primario
prima di effettuare scelte terapeutiche, e casi, c.d. “di semplice soluzione” (o di routine), rispetto ai quali, invece, il medico in posizione apicale dovrebbe fare affidamento sull’operato dei propri collaboratori, non
esimendosi, tuttavia, dall’informarsi sull’evoluzione della salute del paziente106. Nella medesima ottica dovrà essere valutato anche il profilo
professionale del sanitario delegato ed il livello di “affiatamento” del
gruppo, e di conseguenza maggiore dovrà essere la vigilanza del primario
rispetto al medico in posizione iniziale, anche a prescindere da specifici
segnali che consiglino di attivarsi107, e rispetto a collaboratori con i quali
non abbia mai lavorato e di cui non conosca la effettiva preparazione e
capacità tecniche108.
Al di fuori delle ipotesi ora esaminate di obbligo di controllo connesso alla posizione assunta dal medico nell’ambito del gruppo, il princi105 Con
riferimento al dovere di controllo del primario cfr. Cass. civ., sez. III, 25 febbraio 2005, n. 4058, in Mass. giust. civ., 2, ove si precisa che “il primario non può essere chiamato a rispondere di ogni evento dannoso che si verifichi, in sua assenza, all’interno del reparto affidato alla sua responsabilità, non essendo dal medesimo esigibile un controllo continuo e analitico di tutte le attività terapeutiche ivi attuate. Tuttavia, il suo dovere di vigilanza
sull’attività del personale sanitario implica, quantomeno, che egli si procuri informazioni precise sulle iniziative intraprese dagli altri medici, cui il paziente sia stato affidato, ed indipendentemente dalla responsabilità degli stessi, con riguardo a possibili, e non del tutto imprevedibili, eventi che possono intervenire durante la degenza del paziente in relazione alle sue
condizioni, allo scopo di adottare i provvedimenti richiesti da eventuali esigenze terapeutiche”. Si tratta, tuttavia, di sentenze isolate. Nella maggior parte dei casi, infatti, ai medici in
posizione apicale viene chiesto un controllo constante e capillare sull’operato dei subalterni.
106 A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove, cit., p. 255 ss.; nonché V. ZANETTA, La colpevolezza
coinvolge anche il primario che non «conosce» lo stato di salute dei pazienti, in Guida al dir.,
2000, 3 giugno 2000, p. 28. Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Palermo, 16 luglio 2002,
Florena, in Giur. mer., 2003, p. 327, secondo cui “il dovere di vigilanza e coordinamento del
primario non si estende alle operazioni routinarie affidate agli altri medici”.
107 P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 199.
108 M. MARINUCCI, M. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 228, i quali richiamano i casi
“in cui ad una determinata divisione o servizio ospedalieri vengano assegnati aiuti o assistenti,
non noti precedentemente al primario (perché ad esempio, provenienti da altre sedi), bensì in
quanto classificatisi come vincitori di pubblici concorsi. Vale a dire con un crisma almeno ufficiale di competenza tecnica, di idoneità comportamentale e così via, che possono effettivamente corrispondere a quanto dichiarato nei documenti concorsuali, oppure no”. Con specifico riguardo all’obbligo di controllo del capo-équipe v. E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 299,
secondo il quale “una volta che il capo-équipe (prima dell’inizio dell’intervento chirurgico o
del trattamento terapeutico) abbia ictu oculi constatato l’assenza di comportamenti colposi
58
CAPITOLO SECONDO
pio di affidamento può subire dei temperamenti – in tal caso anche laddove si tratti di attività svolte da medici in posizione paritetica – all’insorgere di situazioni concrete che rendano prevedibile l’inosservanza
delle norme precauzionali da parte dei colleghi. Se, quindi, normalmente
il medico è tenuto ad osservare solo le proprie leges artis (c.d. dovere primario), può, tuttavia, insorgere un dovere secondario di controllo sull’operato altrui nel caso in cui vi siano circostanze concrete (quali ad esempio l’individuazione di un errore da parte del collega ovvero le sue cattive condizioni di salute ovvero la sua inesperienza) che facciano ritenere
prevedibile un errore109. In questi casi, l’assenza di un legittimo affidamento determina la riespansione del dovere di diligenza, tale per cui il
medico non è più tenuto semplicemente al rispetto delle regole cautelari
che presiedono all’esercizio delle sue specifiche mansioni, ma altresì all’adozione di misure cautelari volte ad evitare ovvero ad emendare gli errori altrui (c.d. obblighi relazionali)110. La responsabilità del partecipante
al trattamento diagnostico o terapeutico plurisoggettivo sarà, conseguentemente, esclusa, laddove il comportamento colposo del collega sia del
già in atto e le buone condizioni psico-fisiche di tutti i componenti l’équipe, egli può invero
concentrarsi indisturbato sul corretto svolgimento delle proprie mansioni senza preoccuparsi
di dovere controllare l’operato altrui”. V. anche G. IADECOLA, La responsabilità medica nei più
recenti orientamenti della Corte di Cassazione, in Riv. dir. prof. san., 2003, p. 18, il quale evidenzia che il controllo da parte del capo-équipe va ripetuto nel corso dell’intervento solo se
si è in presenza di passaggi delicati.
109 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, p. 220, secondo i quali, peraltro, il
dovere di controllo è sempre eventuale, non prendendo essi in considerazione l’ipotesi in cui
detto dovere rientri già tra quelli incombenti sul medico in forza della posizione gerarchica
da esso assunta nell’ambito dell’équipe. In giurisprudenza ha ricostruito il duplice fondamento del dovere di controllo Cass. pen., sez. IV, 8 aprile 1993, n. 3456, Gallo ed altro, in
CED rv. 198445, nella quale i giudici hanno rilevato che “i rapporti tra partecipanti [all’équipe] debbono essere giudicati nell’ambito del criterio dell’affidamento, con il metro della
delimitazione della responsabilità degli stessi in ragione e nei limiti dei loro compiti specifici.
Ogni partecipante deve, in altri termini rispondere solo del corretto adempimento dei doveri
di diligenza e di perizia inerenti ai compiti che gli sono affidati, perché solo in questo modo
ciascun membro del gruppo è lasciato libero nell’interesse del paziente di adempiere in modo
qualificato e responsabile alle proprie mansioni. Stabilire allora, se sussiste anche un obbligo
di controllo e di sorveglianza dell’operato altrui dipende, da un lato – prima condizione/eccezione – dalla posizione gerarchica che ciascun partecipante occupa in seno all’équipe e, dall’altro – seconda condizione/eccezione – dall’esistenza di ragioni oggettive o soggettive che
fanno dubitare del fatto che il terzo tenga un comportamento conforme a diligenza”.
110 M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 74; C. CANTAGALLI, Brevi cenni sul dovere secondario di controllo e sul rilievo dello scioglimento anticipato dell’équipe in tema di responsabilità
medica, in Cass. pen., 2006, p. 2841. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2005,
n. 18548, Miranda, Riv. pen., 2006, p. 761, che ha affermato la responsabilità per omicidio
colposo (morte del feto per insufficienza respiratoria) di un medico non specialista in ginecologia, componente dell’équipe che assisteva la partoriente, per non aver avvisato il medico
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
59
tutto imprevedibile non essendo emerso nel caso concreto alcuno di quegli indici fattuali, tali da rendere prevedibile l’errore altrui e conseguentemente far sorgere il dovere di controllo111.
Sorge, quindi, innanzitutto, il problema di determinare come debba
essere valutato, da un lato, il requisito della prevedibilità che, in questo
caso attiene principalmente alla condotta negligente altrui e, solo in via
mediata, all’evento lesivo, e, dall’altro il requisito della riconoscibilità
dell’errore (v. infra § 10). Come noto, infatti, caratteristica intrinseca di
ogni regola cautelare (e, quindi, anche di quella che si concretizza in un
obbligo di controllo sull’operato altrui) è la prevedibilità ed evitabilità
dell’evento: la regola cautelare (di matrice sociale o positivizzata) è quella
che consente di prevedere l’evento lesivo e, conseguentemente, di evitarlo.
Con riguardo al giudizio di prevedibilità occorre, quindi, interrogarsi se sia sufficiente la previsione di un generico errore da parte del collega ovvero se occorra la prevedibilità dello specifico comportamento
colposo dello stesso da cui è scaturito l’evento lesivo (ad esempio erronea
somministrazione di un farmaco, erronea lettura di un referto, recisione
di un vaso durante l’intervento …). La questione non appare di poco
momento, ove si consideri che una prevedibilità generica finirebbe per
comportare una responsabilità pressoché certa del sanitario anche nei
casi in cui dalle circostanze concrete non emergesse, ex ante, la prevedibilità dell’errore specificamente realizzato dal collega112.
In questa sede non è possibile dare conto in modo ampio ed esauriente dei dibattiti concernenti la valutazione della prevedibilità. In termini sintetici appare necessario, tuttavia, rammentare che giurisprudenza
e dottrina hanno orientamenti fortemente divergenti sul punto. Secondo
il predominante orientamento giurisprudenziale, sviluppato soprattutto
con riguardo alle malattie professionali (e, in particolare, alle morti da
amianto), deve escludersi che il giudizio di prevedibilità debba essere
rapportato all’evento così come storicamente si è verificato, essendo sufficiente l’accertamento che un evento del genere di quello prodottosi
specialista – che procedeva secondo la tecnica del parto naturale – di una situazione che in
modo evidente attestava lo stato di asfissia del feto ed imponeva l’immediato utilizzo della
cardiotocografia, di un metodo strumentale che avrebbe permesso di rilevare con tempestività l’insorgere della sofferenza fetale, e di ricorrere al parto per via laparotomica.
111 Pret. Vibo Valentia - Tropea, 15 marzo 1999, Garuzzo, in Cass. pen., 1999, p. 3264.
112 G. MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 176, precisa che
la regola precauzionale sganciata dal requisito della prevedibilità in concreto, finirebbe con
l’avere a contenuto l’obbligo di fare tutto ciò che era assolutamente necessario ad evitare
l’evento, assegnandosi, così a tale regolare avente lo stesso contenuto di una norma che addirittura “vietasse la pura e semplice causazione dell’evento lesivo”.
60
CAPITOLO SECONDO
fosse prevedibile113. La dottrina, viceversa, anche nel tentativo di contenere la portata espansiva del giudizio di prevedibilità, è orientata nel
senso che il giudizio di prevedibilità ed evitabilità debba attenere all’evento concretamente verificatosi114.
La sostanziale indeterminatezza dei predetti limiti, che (in particolare quello concernente la prevedibilità dell’errore altrui) richiedono un
accertamento caso per caso, ha, pian piano condotto, come chiaramente
evidenzia la prassi giurisprudenziale (già più volte richiamata e meglio
analizzata nel prosieguo), a sovvertire il meccanismo di regola/eccezione.
Il continuo ampliamento dei casi in cui era prevedibile la condotta colposa altrui, nonché l’attribuzione al medico in posizione sovraordinata di
un obbligo di controllo costante e capillare hanno, difatti, finito per
svuotare di contenuto il principio in esame che è a poco a poco passato
da regola ad eccezione115.
I rischi connessi alla genericità dei predetti limiti erano, in effetti,
stati paventati da autorevole dottrina che aveva tentato di individuare un
criterio generale che permettesse di rifuggire il ricorso all’esame delle situazioni fattuali. Tale criterio è stato individuato nella distinzione tra doveri comuni e doveri divisi (su cui v. supra § 2.2) e sulla constatazione che
solo con riferimento ai secondi potrebbe operare il principio di affidamento. Nel caso di doveri comuni, infatti, su ogni medico incombe un
113 Tra
le sentenze più note che si sono occupate del problema della prevedibilità dell’evento, v. Pretura Torino, 9 febbraio 1995 e Corte d’Appello di Torino, sez. III, 15 ottobre
1996, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1447 ss., con nota di C. PIERGALLINI, Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di «diritto penale del rischio», p. 1473. Le due sentenze sono significative in quanto, in qualche modo prodromiche all’indirizzo che si affermerà nella giurisprudenza anche di legittimità. Il principio che in esse viene enucleato è sostanzialmente quello della “prevedibilità in astratto” in quanto si afferma che non è
necessario che la prevedibilità e l’vitabilità abbiano ad oggetto la potenziale idoneità della
condotta a dar vita ad una situazione di danno, che non necessariamente deve essere quella
che storicamente si è avverata. Nella giurisprudenza di legittimità v. Cass. pen., sez. IV, 6 dicembre 1990, n. 4793, Bonetti, cit.; Cass. pen., sez. IV, 30 marzo 2000, Camposanto, in Foro
it., 2004, II, c. 69; Cass. pen., sez. IV, 6 febbraio 2007, n. 4675, Bartalini, in Cass. pen., 2009,
p. 2837 ss., con nota di E. DI SALVO, Esposizione a sostanze nocive, leggi scientifiche e rapporto
causale nella pronuncia della Cassazione sul caso “Porto Marghera”, p. 287 ss.; Cass. pen., sez.
IV, 11 marzo 2010, n. 16761, Catalano, in Cass. pen., 2011, p. 95, con nota di A. VERRICO, Le
insidie al rispetto di legalità e colpevolezza nella causalità e nella colpa: incertezze dogmatiche,
deviazioni applicative, possibili confusioni e sovrapposizioni.
114 G. FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 378, secondo il quale “l’evento potrebbe essere
imputato solo allorché l’agente […] abbia determinato un pericolo giuridicamente riprovato
e questo pericolo si sia realizzato nell’evento tipico”; N. MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale. L’illecito commissivo doloso e colposo, Milano, 1983, p. 273.
115 Sulla “crisi” giurisprudenziale del principio di affidamento v. P. PIRAS, G.P. LUBINU,
L’attività medica, cit., p. 309 ss.; G.A. DE FRANCESCO, L’imputazione della responsabilità penale
in campo medico-chirurgico: un breve sguardo d’insieme, in Riv. it. med. leg., 2012, p. 953 ss.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
61
autonomo obbligo di garanzia per la tutela della salute del paziente, con
la conseguenza che, perché si verifichi effettivamente la lesione del bene,
è necessario che tutti i soggetti gravati da tale dovere lo violino. Ne consegue che il medico non potrà esentarsi da responsabilità penale assumendo di aver fatto affidamento sull’esatto adempimento delle leges artis
da parte del collega, in quanto, in presenza di doveri comuni, non basterebbe la negligenza del collega per la realizzazione dell’evento, ma concorrerebbe quella di tutti i soggetti gravati dal dovere. In situazioni siffatte, quindi, la problematica circa l’esistenza o meno del dovere di previsione delle negligenze altrui verrebbe scavalcata, non bastando
appunto la negligenza altrui a provocare la lesione del bene protetto116.
La dottrina più recente è restia a ritenere detto criterio di per sé sufficiente a risolvere i problemi circa l’operatività del principio di affidamento. In tal senso, infatti, si osserva, in primo luogo, che non è sempre
possibile distinguere con assoluta certezza un dovere comune da uno diviso, ed, in secondo luogo, che tale criterio sembra fallire proprio nel tentativo di eliminare gli elementi fattuali dall’indagine circa il principio di
affidamento. Per poter individuare se il dovere è comune piuttosto che
diviso è, infatti, comunque necessario indagare su quali siano i rapporti
tra i sanitari che partecipano all’atto medico e quali le circostanze concrete in cui l’atto stesso si svolge, con la conseguenza che tale criterio non
sembra aggiungere nulla di nuovo, rispetto a quello casistico117.
Rimane da chiarire un ultimo aspetto circa l’operatività del principio
di affidamento rispetto a condotte inosservanti già realizzatesi. Sotteso al
116 E. BELFIORE,
117 Significativo
Profili penali, cit., p. 298.
a tal proposito sembra l’esempio riportato in F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 172: prendendo le mosse dall’esame della dottrina tradizionale e soprattutto dal caso analizzato da E. BELFIORE, secondo il quale sul capoéquipe sorgerebbe un dovere comune di controllo nel caso in cui si accorgesse dell’esistenza
di circostanze tali da far presumere negligenze da parte di un compartecipe, osservano che
“analizzare le varie situazioni collaborative al fine di capire se esse comportino doveri comuni
oppure divisi per i soggetti coinvolti non ci sembra, infatti, molto dissimile dall’analizzarle al
fine di stabilire se sia applicabile o meno il principio di affidamento […]. Come, infatti, le
condizioni psicofisiche precarie di un collaboratore comportano l’impossibilità per il chirurgo di fare su di esso affidamento, allo stesso modo comportano la trasformazione dei doveri coinvolti da divisi in comuni; di conseguenza comportano l’inapplicabilità dell’affidamento. Questo esempio sembra dimostrare come non solo debbano comunque essere considerati, per applicare il criterio proposto gli stessi elementi fattuali che condizionano
l’applicabilità del principio di affidamento, ma – soprattutto – come i due percorsi conducano a identico risultato”.
Sempre in termini critici circa il tentativo di portare il dibattito su un piano più astratto,
slegato da criteri di natura fattuale, cfr. A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove, cit., p. 271, secondo
il quale non pare così chiara la distinzione tra doveri comuni e divisi ed, inoltre, non sembra
veritiera l’affermazione che i doveri comuni siano rari nell’attività medica plurisoggettiva.
62
CAPITOLO SECONDO
principio di affidamento vi è, infatti, come visto, un concetto di aspettativa, il quale a sua volta evoca un accadimento necessariamente futuro. Di
qui la difficoltà ad ammettere un impiego di tale principio anche con riferimento a condotte passate118. Invero, secondo dottrina e giurisprudenza,
non sorgono particolari problemi nell’ammettere, anche in tali casi, la
configurabilità di un legittimo affidamento, non potendosi ritenere che la
discrasia tra il concetto di aspettativa e comportamento passato siano sufficienti per escludere l’operatività dello stesso, ove si precisi l’oggetto dell’aspettativa sottesa all’affidamento. In tal senso non appaiono esservi
dubbi circa il fatto che oggetto dell’aspettativa, nel caso di divisione del
lavoro, sia il rispetto delle regole cautelari da parte dei soggetti con i quali
si interagisce. Regole cautelari che sono poste da una norma che ha la finalità preventiva (quindi rivolta al futuro) di evitare il pericolo che si realizzino eventi lesivi, comunque futuri rispetto alla posizione della norma
stessa. Di talché, come nitidamente evidenziato in dottrina, “se ciò su cui
si conta è l’osservanza di una norma, e questa norma fa riferimento ad un
comportamento da tenersi nel futuro e per prevenire i pericoli che esso
può trarre seco, se ne evince che il contare sul suo rispetto si traduce nell’attesa di un quid che, nell’ottica della norma, si può indubbiamente classificare come futuro: ciò anche se il comportamento preteso dalla norma
medesima si deve assumere di fatto come già tenuto”119.
8.
L’individuazione delle regole cautelari
Come noto, il problema dell’individuazione della regola cautelare è
stato affrontato dalla dottrina – sotto il peculiare profilo della conformità
al principio di legalità – con riguardo, in particolare alla colpa generica.
Le esigenze garantiste sottese al principio di legalità, ed in particolare al
corollario della determinatezza, incidono sull’idealtipo dell’illecito colposo che postula l’esistenza di regole cautelari precostituite e conoscibili
ex ante dal soggetto agente.
Sennonché all’idealtipo si contrappone un assetto giurisprudenziale
sostanzialmente invariato da decenni che tende a capovolgere la struttura
dell’illecito, finendo per incentrare l’accertamento della violazione della
regola cautelare sul disvalore di evento: il giudice (in genere attraverso
l’ausilio dei periti) muove proprio dall’evento per ricostruire ex post il
contenuto della regola cautelare, in taluni casi ricorrendo anche a conoscenze ulteriori e superiori successivamente disponibili, divenendo in tal
118 M.
119 M.
MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni, cit., p. 1057.
MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni, cit., p. 1058.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
63
modo creatore della regola120. Tale distorsione comporta un evidente
scardinamento della tipicità dell’illecito colposo, derivante dall’imputazione di eventi assolutamente non prevedibili (e neppure pretendibili)
alla luce del sapere disponibile al momento della condotta121.
Occorre, peraltro, rimarcare che l’esigenza di predeterminazione
della regola cautelare trova il proprio fondamento costituzionale non solo
nel principio di legalità (anche se ciò sarebbe di per sé solo già sufficiente)122, ma anche in quelli di colpevolezza e nel diritto di difesa. Questi ultimi due profili non appaiono certamente di minor pregio rispetto
alle esigenze di garanzia sottese al canone della legalità, poiché in tanto si
può muovere un autentico rimprovero a taluno per non aver rispettato
una regola cautelare, in quanto egli sia stato posto nella condizione di conoscere preventivamente quale sia il comportamento doveroso, e, d’altro
canto, soltanto una compiuta enucleazione, sin dalle prime fasi del procedimento, della regola violata, consente al reo di approntare una compiuta
linea difensiva anche in ordine alle prove da assumere123.
La delicatezza della questione ben si evidenzia attraverso una lettura
delle sentenze della giurisprudenza di legittimità, dalle quali emerge un
120 F. GIUNTA, La legalità della colpa, cit., p. 151 s. Sulla centralità nel sistema penale
dell’evento e sulla necessità di superamento del modello del reato colposo d’evento v. L. EUSEBI, La prevenzione dell’evento non voluto. Elementi per una rivisitazione dogmatica dell’illecito colposo e del dolo eventuale, in Studi in onore di Mario Romano, 2011, II, pp. 963 ss.
121 Circa l’integrazione di regole cautelari ad opera di conoscenze scientifiche successive alla condotta, v. il noto caso del Petrolchimico di Porto Marghera conclusosi con la pronuncia di legittimità Cass. pen., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, Bartalini e altri, in Foro it.,
2007, II, c. 550. Per una critica alla sentenza, soprattutto con riguardo al ricorso a conoscenze
scientifiche successive per la determinazione delle spettro preventivo della regola cautelare,
cfr. D. PULITANÒ, Colpa ed evoluzione del sapere scientifico, in Dir. pen. proc., 2008, p. 650 ss.
Si veda inoltre, il commento alle due sentenze di merito di C. PIERGALLINI, Il paradigma della
colpa nell’età del rischio: prove di resistenza del tipo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 1697 ss.
122 La collocazione della colpa non solo nell’ambito della colpevolezza, ma anche della
tipicità del fatto fa si che, come osservato dalla Corte di Cassazione, al giudice spetti un compito non di integrazione giurisprudenziale delle fattispecie normative, ma, ai fini della colpa
generica, di individuazione delle regole sociali pertinenti al caso concreto. In tal senso cfr.
Cass. pen., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, cit. Anche la dottrina afferma questo imprescindibile principio in tema di responsabilità colposa. In particolare, F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 90 osserva che “attratta nell’orbita del fatto colposo, la regola cautelare condivide
la duplice funzione di garanzia che la tipicità svolge, in modo equilibrato e simmetrico nei
confronti del bene giuridico e del favor libertatis”. Ne consegue, quindi, che “la sua determinazione non può essere rimessa alla discrezionalità giudiziale, ma deve risultare pre-definita e
riconoscibile ex ante dall’agente quale regola comportamentale astratta”.
123 Si è osservato che il principio di colpevolezza sarebbe violato anche nell’ipotesi in
cui il meccanismo del rinvio fosse troppo intricato in quanto “il destinatario [del dovere di
diligenza] rischierebbe di essere punito malgrado non gli si possa rimproverare la suddetta
mancata conoscenza della norma: inconoscibile, lo si vuol ripeter, proprio perché inceppata
nell’intricato meccanismo del rinvio”. In tal senso cfr. M. PETRONE, La costruzione della fatti-
64
CAPITOLO SECONDO
orientamento, sostanzialmente monolitico, tendente ad escludere la rilevanza di qualsiasi questione attinente alla genericità dell’individuazione
della regola cautelare. Sovente, infatti, si assiste a contestazioni di illeciti
colposi in cui la regola cautelare è del tutto evanescente, a causa, da un
lato, del semplice rinvio alla negligenza, imprudenza o imperizia, o, dall’altro, dell’enucleazione di regole cautelari scritte a cui si accompagna
l’utilizzo di formule di chiusura omnicomprensive che rinviano, in modo
del tutto generico, ancora una volta alla “negligenza, imprudenza, imperizia”. Tali prassi, come si evidenziava, sono avallate dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che non ritiene violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, di cui all’art. 521 c.p.p., nel caso di modifica
della regola cautelare124.
Alle difficoltà di conciliare la colpa generica con i principi costituzionali si accompagna anche il travaglio dottrinale e giurisprudenziale in
merito al criterio da adottare per l’individuazione della regola cautelare125. Da un lato, coloro i quali, più sensibili proprio alle esigenze di
tassatività e di predeterminazione della regola cautelare, ricorrono a criteri di matrice sociologica (quali gli usi e le prassi consolidate e diffuse).
Gli usi, secondo questo orientamento (invero minoritario), in quanto generalmente riconosciuti, consentirebbero di evitare il ricorso al criterio
(maggioritario) di tipo deontologico dell’agente modello che, determinando ex post la regola cautelare126, ha, per sua stessa natura, una vena
accusatoria: l’agente modello (proprio perché “modello”) sarà sempre
più diligente, perito e prudente dell’agente reale!127.
Il ricorso agli usi per la ricostruzione del contenuto della regola cautelare è stato avallato anche dalla Corte costituzionale nella discussa senspecie penale mediante rinvio, in Studi in onore di Marcello Gallo, Scritti degli allievi, Torino,
2004, p. 151 ss.
124 Cass. pen., sez. III, 8 aprile 2010, n. 19741, in CED rv. 247171; Cass. pen., sez. IV,
17 novembre, 2005, n. 2393, Tucci e altri, in Arch. nuova proc. pen., 2007, 1, p. 132; Cass.
pen., sez. IV, 4 maggio 2005, n. 38818, De Bona, in Guida dir., 2005, 47, p. 67; Cass. pen.,
sez. IV, 10 luglio 2001, n. 35820, Barbieri, in Riv. pen., 2002, p. 45.
125 Per una ricostruzione del dibattito cfr. D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit.,
p. 291 ss.
126 Come osservato da F. GIUNTA, I tormentati rapporti tra colpa e regola cautelare, in
Dir. pen. e proc., 1999, p. 1296. In dottrina si evidenzia, altresì che vi è necessariamente un divario tra le conoscenze del perito del tribunale (che a posteriori ricostruisce la figura dell’agente modello) e il medico clinico. In tal senso cfr. D. MARCHETTI, D. BOSCO, A. ZAPPALÀ, Il
medico legale e la deposizione orale nel processo penale. Strumenti per ragionare e per comunicare, Milano, 2005, p. 133 “a tale riguardo bisognerebbe sempre ricordarsi che il responso,
spesso immediato, di fronte all’insorgere di una complicanza quasi mai avviene con al possibilità di consultare testi scientifici o di revisionare la letteratura specialistica”.
127 Di virtualità colpevoliste dell’agente modello parla F. GIUNTA, I tormentati rapporti,
cit., p. 1295.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
65
tenza 25 luglio 1996, n. 312128. In quell’occasione la Corte era chiamata a
pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 41, comma 1, d.lgs.
277 del 1991, in materia di protezione dei lavoratori dal rumore, per violazione del principio di legalità a causa della ritenuta genericità dell’obbligo imposto al datore di lavoro, sintetizzato nella locuzione “mediante
misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente attuabili”.
Nel rigettare la questione di legittimità costituzionale la Corte ha precisato che la predetta locuzione deve essere interpretata nel senso che le
misure “concretamente attuabili” corrispondono ad “applicazioni tecnologiche generalmente praticate” nello specifico settore industriale.
Di segno contrario sono, tuttavia, le posizioni espresse da dottrina e
giurisprudenza prevalenti, secondo le quali il ricorso agli usi, pur garantendo la predeterminazione della regola cautelare, nondimeno conduce
al rischio dell’introduzione di livelli di diligenza sempre più bassi129. Si
propone, quindi, il ricorso a criteri di matrice deontologica (quali l’agente
modello o la miglior scienza) in forza dei quali la diligenza esigibile non
si misura su ciò che viene usualmente fatto, ma su ciò che deve essere
fatto in relazione alle misure tecnicamente esistenti, in un dato momento
storico, capaci di ridurre al minimo i rischi connessi all’attività pericolosa. La prassi generalmente seguita, infatti, può non coincidere con lo
standard di diligenza richiesto ad un uomo ragionevolmente prudente,
mentre i predetti criteri di matrice deontologica imporrebbero al soggetto un continuo adeguamento alle nuove acquisizioni, con un conseguente innalzamento degli standards di diligenza130.
Non si può, tuttavia, ritenere che tale innalzamento degli standards
di diligenza possa spingersi sino a chiedere al soggetto di adeguare le
proprie conoscenze a quelle degli specialisti: le conoscenze rilevanti,
come sottolineato in dottrina, sono solo quelle che costituiscono, a partire da un certo momento storico, patrimonio diffuso131.
128 Corte cost., 25 luglio 1996, n. 312,
129 In questo senso cfr., in particolare,
in Giur. cost., 1996, p. 2575 ss.
G. MARINUCCI, La colpa per inosservanza, cit., p.
179; ID., Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di adeguamento delle regole di diligenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 35 ss., in cui è riportato un ampio excursus
degli orientamenti dottrinali nei più importanti ordinamenti di civil e common law. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. IV, 1 aprile 2010, n. 20047, in Foro it., 2010, 9, 2, c. 429, con
nota di R. GUARINIELLO; Cass. pen., sez. IV, 18 aprile 2008, n. 22187, in Ragiusan, 2008, 295296; Cass. pen., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, Bartalini e altri, cit.; Cass. pen., sez. III, 11
aprile 1992, n. 4488, Quaini, in Dir. prat. lav., 1992, p. 1769 ss.
130 G. MARINUCCI, Innovazioni tecnologiche, cit., p. 40 ss. L’Autore precisa che “la diligenza esigibile si ricava non da quel che si usa fare nello svolgimento di questa o quella attività, bensì da quel che si poteva pretendere anche in termine di sopportazione dei costi economici, fini alla rinuncia dell’attività, dall’homo ejusdem condicionis et professionis”.
66
CAPITOLO SECONDO
8.1. La progressiva procedimentalizzazione dell’attività medico-chirurgica
La natura “aperta” della colpa generica consente, quindi, alla giurisprudenza di individuare quasi sempre, appunto a posteriori, una regola
la cui osservanza avrebbe impedito il verificarsi dell’evento e, nel caso di
attività plurisoggettiva, una situazione che avrebbe richiesto un intervento correttivo sull’operato del collega. Non stupisce, quindi, l’atteggiamento di favore con cui gli interpreti hanno accolto il fenomeno di progressiva positivizzazione, nel campo dell’attività medica (ma anche della
sicurezza sul lavoro), delle regole cautelari, tanto da affermare che si assiste ad uno sconfinamento, in tali ambiti, della colpa generica verso la
colpa specifica132.
L’importanza del fenomeno di positivizzazione delle regole cautelari
è innegabile, anche se, come si evidenzierà nel prosieguo con riguardo
specifico all’attività medica, non si ritiene possa realmente parlarsi di un
effettivo scardinamento della colpa generica, con conseguente soluzione
di tutte le questioni attinenti alla predeterminazione della regola cautelare sopra richiamate.
Nel campo medico si sono via via venuti diffondendo strumenti,
quali le linee-guida, i protocolli e le check-lists, volti a codificare, seppure
con modalità e finalità differenti, il sapere medico ed a procedimentalizzare l’attività133. In particolare, le linee guida – secondo la definizione ormai più accreditata, frutto dell’elaborazione dell’Insitute of Medicine statunitense – sono raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate,
mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle
opinioni di esperti, allo scopo di aiutare le decisioni del medico e del paziente riguardo alle cure sanitarie più adatte nelle specifiche circostanze
cliniche134. Esse, in sostanza, sono un percorso diagnostico ideale che
131 G. MARINUCCI, Innovazioni tecnologiche, cit., p. 49 ss. Questa tesi è accolta anche
dalla Corte di Cassazione in Cass. pen., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, cit., pur con la precisazione che “l’agente ha un obbligo di informazione in relazione alle più recenti acquisizioni
scientifiche anche se non ancora patrimonio comune e anche se non applicate nel circolo di
riferimento a meno che si tratti di studi isolati ancora privi di conferma”.
132 Afferma che è anacronistico continuare a parlare di colpa generica V. ATTILI, L’agente-modello nell’era della complessità: tramonto, eclissi o trasfigurazione?, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2006, p. 1240.
133 Sulla procedimentalizzazione di molte attività e, in particolare, di quella medica v. F.
GIUNTA, Protocolli medici e colpa penale secondo il «decreto Balduzzi», in Riv. it. med. leg.,
2013, p. 820.
134 Di recente le linee guida sono state così definite dalla Suprema Corte “costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato, metabolizzato, reso disponibile in
forma condensata, in modo che possa costituire un’utile guida per orientare agevolmente, in
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
67
viene suggerito per agevolare i medici nel decidere quali siano le modalità di assistenza più adeguate135 ed hanno, quindi, l’obiettivo fondamentale di ridurre al minimo quella parte di variabilità nelle decisioni cliniche legata alla carenza di conoscenze ed alla soggettività nella scelta delle
strategie assistenziali.
Emerge, quindi, una delle prime caratteristiche delle linee guida: si
tratta sostanzialmente di strumenti di indirizzo, privi, pertanto, di vincolatività nei confronti del medico. Nella dottrina medico legale si è sottolineato che “non si tratta di ordini calati dall’alto, categorici e definitivi,
ma di suggerimenti, di indirizzi motivati ed intesi a tener conto di tutte le
istanze talora confliggenti, quali emergono dal mondo dei sanitari, dei
pazienti, degli amministratori, dei giuristi”136.
D’altro canto, la vincolatività delle linee guida sarebbe incompatibile, da un lato, con la natura dell’attività medico-chirurgica, rispetto alla
quale non è possibile standardizzare i rischi, con la conseguenza che la
regola contenuta nella linea guida, e, dall’altro, con le esigenze di celerità
del progresso scientifico. Le linee guida, quindi, dovrebbero di volta in
volta adeguarsi alle peculiarità del caso concreto137 e dovrebbero, in
tempi particolarmente ridotti, adeguarsi alle nuove scoperte.
Così definite, le linee guida si differenziano da altri strumenti quali,
ad esempio, i protocolli, ovvero schemi di comportamento diagnostico o
terapeutico predefiniti e vincolanti – generalmente coincidenti con gli usi
cautelari diffusi in un determinato contesto spazio-temporale – cui il medico deve pedissequamente attenersi nell’esercizio di una determinata attività138.
Alla categoria dei protocolli sono riconducibili anche le c.d. chek-limodo efficiente ed appropriato, le decisioni terapeutiche”. In tal senso cfr. Cass. pen., sez.
IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di F. VIGANÒ, Linee guida, sapere scientifico e responsabilità in una importante sentenza della Cassazione.
135 M.J. FIELD, K.N. LOHR, Guidelines for clinical practice: from development to use, Washington, Institute of Medicine, 1992, p. 35. La definizione è ripresa da P. VENEZIANI, I delitti,
cit., p. 175.
136 M. PORTIGLIATTI BARBOS, Le linee-guida nell’esercizio della pratica clinica, in Dir. pen.
proc., 1996, p. 891.
137 La dottrina medico legale sottolinea che le linee guida non possono essere considerate alla stregua di rigidi precetti, ma come indicazioni operative di massima che la situazione
clinica del singolo caso può, di volta in volta, imporre di accantonare. In tal senso cfr. F.
BUZZI, Formulazione e comunicazione della diagnosi: aspetti medico legali e risvolti deontologici, in Riv. it. med. leg., 2005, p. 32. Sui limiti delle linee guida v. O. Di GIOVINE, La responsabilità penale del medico: dalle regole ai casi, in Riv. it. med. leg., 2013, pp. 61 ss.
138 Sulla differenza tra linee guida e protocolli cfr. F. GIUNTA, voce Medico, cit., p. 881;
nonché P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 180.
68
CAPITOLO SECONDO
sts, vere e proprie liste di controlli e di procedure da eseguire che permettono, attraverso la “spunta” dei passaggi precedentemente effettuati,
di verificare i diversi momenti di un’attività complessa. Interessante l’elaborazione teorica, e la spinta verso l’utilizzo di questi strumenti, da parte
del medico indiano dell’Organizzazione mondiale della Sanità Atul
Gawande, secondo il quale le check-lists sono un sistema di gestione della
sicurezza dei pazienti contro la fallacia della memoria e l’omissione di alcuni passaggi nello svolgimento di attività139.
Le linee guida, ed ancor più i protocolli e le check lists, si presentano, quindi, quali strumenti di particolare rilevanza nelle attività plurisoggettive, in quanto regolamentano i profili di interazione fra professionisti, individuandone anche compiti e mansioni.
Ma, più in generale, la codificazione della regola cautelare presenta
innegabili vantaggi anche in punto di determinatezza e di accertamento
della colpa. Essa, infatti, proprio in quanto predeterminata, è conoscibile
ex ante dal soggetto agente e fa si che il giudice diventi effettivamente
fruitore, e non facitore, della stessa140, eliminando, in punto di accertamento della responsabilità colposa, il ricorso all’agente modello ovvero
agli usi che, come visto, tanti interrogativi hanno suscitato in dottrina.
D’altro canto, la previsione scritta della regola di cautela consente anche
una contestazione certa dell’addebito colposo, con conseguente possibilità di meglio delimitare il thema probandum ed i conseguenti mezzi di
prova.
139 M.A. GAWANDE, Checklist. Come fare andare meglio le cose, Torino, 2011, p. 37, il
quale osserva che “le checklis […] ci ricordano il minimo di operazioni necessarie e le rendono esplicite. Oltre a facilitare le verifiche instillano una sorta di disciplina per prestazioni
più elevate”. Segnala l’importanza delle check lists L. EUSEBI, Il diritto penale di fronte alla malattia, in L. FIORAVANTI (a cura di), La tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili
equilibri, Milano, 2011, p. 142. L’Autore, in particolare, evidenzia che l’introduzione di queste forme di “regolamento di reparto” potrebbe indurre “le istituzioni sanitarie a costruire, in
una logica non lontana, da quella dei compliance programs nel diritto penale dell’economia,
strutture di controllo interno intese a far emergere gli errori medesimi (ma anche i casi di successo e di esito infausto rispetto al tipo di patologie affrontate, i criteri di selezione dell’accesso alle terapie ed ogni altro dato significativo riguardante il lavoro delle unità operative
mediche), contribuendo a quella correttezza di rapporto e di informazione verso i pazienti attuali e potenziali che costituisce il senso più autentico secondo cui dovrebbe sostanziarsi il superamento del c.d. paternalismo medico”.
140 In questo senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 6 giugno 2000, Fratta, in Cass pen., 2001, p.
1217, secondo cui “in tema di colpa, posto che il giudice non è facitore di norme ma solo
fruitore, il giudizio di rimproverabilità di una data condotta non può essere formulato su congetture personali, su criteri soggettivi e, quindi, arbitrari, ma deve fondarsi su regole preesistenti e certe, conosciute – conoscibili – dall’agente siccome conformi a condotte generalmente adottate di prudenza, diligenza, perizia”.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
69
8.2. In particolare: il sistema delle linee guida
Se è pur vero che le linee guida hanno assunto un peso sempre maggiore nell’attività medica e nell’ambito dei procedimenti penali per medical malpractice – tanto da aver costituito nel 2012 oggetto di un provvedimento normativo (v. infra § 8.4) – nondimeno le stesse, allo stato attuale, presentano ancora numerosi limiti che, in taluni casi, finiscono per
inficiarne, addirittura, l’effettiva valenza di regole cautelari.
A tal riguardo, occorre, innanzitutto, sottolineare che la portata cautelare delle linee guida e la loro utilizzabilità nel processo penale dipende
dall’autorevolezza della fonte di produzione. Come noto, il movimento
delle linee guida nasce negli Stati Uniti intorno agli anni ’70 sotto l’egida
di società scientifiche ed assicurazioni, con finalità non solo terapeutiche,
ma anche, o soprattutto, economiche. Solo in un secondo momento si
procede all’adozione di linee guida istituzionali, con la costituzione di organismi il cui compito è quello di coordinarne lo sviluppo anche attraverso la gestione di sistemi di banche dati141.
Anche in Italia si assiste alla progressiva introduzione di un sistema
istituzionalizzato e pubblico di sviluppo delle linee guida attraverso il
Programma Nazionale per le linee guida, previsto dal Piano Sanitario
Nazionale 1998-2000 e dal d.l. 229 del 1999, che ha, appunto, lo scopo
di preparare, divulgare, aggiornare ed implementare questo strumento.
In tale contesto normativo, il Ministero della Salute ha istituito, con d.m.
30 giugno 2004, presso l’Istituto Superiore di Sanità, il Sistema Nazionale Linee Guida, a cui è attribuito il compito di elaborare raccomandazioni di comportamento clinico evidence based. La banca dati del Sistema
Nazionale, liberamente accessibile in internet, ha, in sostanza, lo scopo di
individuare linee guida che per ogni patologia descrivono le alternative
disponibili e le relative possibilità di successo, in modo che il medico
possa orientarsi nella gran quantità di informazione scientifica in circolazione, il paziente abbia modo di esprimere consapevolmente le proprie
preferenze e l’amministratore possa compiere scelte razionali in rapporto
agli obiettivi e alle priorità locali.
Nella medesima banca dati vengono, inoltre, raggruppate – sempre
con il medesimo metodo di accreditamento – anche le linee guida adottate dai Servizi Sanitari Regionali.
Continuano, nondimeno, a coesistere accanto al predetto sistema
istituzionalizzato, anche linee guida prodotte da società scientifiche na141 Per
una ricostruzione delle origini delle linee guida e delle fonti delle stesse A.R. DI
LANDRO, Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa penale nel settore
sanitario. Misura oggettiva e soggettiva della malpractice, Torino, 2012, p. 26 ss.
70
CAPITOLO SECONDO
zionali o internazionali e linee guida adottate dalle singole Aziende Sanitarie o da singoli Dipartimenti.
La pluralità e la diversa autorevolezza delle fonti di produzione delle
linee guida – persistente tutt’oggi nonostante la progressiva introduzione
di un sistema istituzionalizzato – rappresenta, indubbiamente, uno dei
principali limiti alla loro utilizzabilità in ambito processuale per fondare
un giudizio di colpa: può accadere, infatti, che rispetto al medesimo trattamento diagnostico o terapeutico esistano plurime linee guida, magari
parimenti autorevoli ed accreditate nella comunità scientifica.
D’altro canto, la valutazione dell’adeguatezza della linea guida presuppone che gli estensori indichino compiutamente il metodo utilizzato
(evidenze cliniche, composizione del gruppo, randomizzazione) e gli
orientamenti clinici raccomandati (tipologie di pazienti destinatari, benefici e rischi attesi, terapie alternative, costi, oneri organizzativi, ecc.)142.
Strettamente connesso al tema dell’autorevolezza delle linee guida è
quello del loro grado di imperatività e sedimentazione. Alcuni studi di
settore hanno evidenziato che le linee guida non sempre hanno elevati livelli di adesione, con conseguente riduzione del grado di imperatività. La
scarsa adesione alle linee guida può dipendere da svariati fattori, tra i
quali, in particolare, la ridotta conoscenza delle stesse da parte dei sanitari, la ritenuta inapplicabilità al caso concreto ovvero la non condivisione della linea guida (ciò evidentemente, dipenderà anche dal grado di
autorevolezza della fonte). Quest’ultimo profilo, peraltro, è influenzato
anche dai lunghi tempi di sedimentazione delle linee guida: dapprima,
infatti, esse debbono diffondersi ed essere accolte e, successivamente, è
necessario che i medici modifichino il proprio comportamento nel senso
indicato dalla linea guida143.
Ultimo profilo di non poco momento attiene al contenuto ed al
grado di diligenza adottato dalle linee guida. Talvolta, infatti, esse individuano il miglior trattamento terapeutico, altre volte, invece, si limitano
ad individuare lo standard minimo, facendo riferimento non tanto alle
cure ottimali, ma a quelle generalmente praticate. Entrambe le scelte presentano, invero, dei limiti. Il riconoscimento di efficacia cautelare alle
sole linee guida che adottino il parametro della miglior scienza avrebbe,
infatti, il pregio di garantire al meglio la funzione di tutela dei beni giuridici e pedagogica delle regole cautelari, ma avrebbe, per converso, il limite – chiedendo standards elevati di diligenza – di non considerare la
realtà fattuale in cui i sanitari si trovano ad operare e potrebbe, quindi,
142 M. PROTIGLIATTI BARBOS, Le linee-guida, cit., p. 891
143 A.R. DI LANDRO, Dalle linee guida, cit., p. 66 ss.
s.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
71
alimentare – in ottica difensiva – la fuga dalle stesse (pensiamo non solo
alla peculiarità del caso concreto, ma anche alle effettive competenze
professionali del medico – specializzando, piuttosto che dirigente di
struttura complessa – nonché alle strutture nelle quali opera)144. Dall’altro lato, nondimeno, la scelta di standards medio-bassi presenta l’innegabile rischio di un progressivo appiattimento verso il basso delle prestazioni dei sanitari.
Un minor grado di affidabilità – sempre con riferimento al contenuto – deve, inoltre, riconoscersi alle linee guida fondate sul consenso di
un gruppo di esperti rispetto a quelle fondate su evidenze scientifiche
emerse da sperimentazioni cliniche controllate (Evidence Based Medicine
- EBM). Nonostante il maggior grado di oggettività – in quanto non influenzate da interessi particolari di cui possono essere portatori gli
esperti che concordano le posizioni su una determinata materia – le linee
guida EBM sono poco diffuse a causa dell’assenza di validi trials clinici e,
quindi, di evidenze scientifiche esaustive, per numerose patologie e attività diagnostiche e terapeutiche145.
Sovente, peraltro, le linee guida sono prive di un contenuto autenticamente cautelare. Esse, infatti, mirano a ridurre il divario tra conoscenza scientifica e pratica clinica, a conseguire miglioramenti della pratica clinica o, semplicemente a ricondurre le variazioni di trattamento, riscontrate nella prassi, entro un binario unico. Per questo motivo le linee
guida sono costruite in funzione di un effetto tipicamente clinico o terapeutico e non già, di prevedibilità ed evitabilità dell’evento infausto per
il paziente, come, invece dovrebbe essere se si trattasse di regola cautelare.
Non mancano, infine, linee guida che si prefiggono scopi diversi da
quelli della diffusione di metodi uniformi di comportamento per la diagnosi e la terapia, essendo governate da scopi – talvolta esclusivi – di riduzione della spesa sanitaria e prive, quindi, di contenuto autenticamente cautelare146.
144 A.R. DI LANDRO,
145 A.R. DI LANDRO,
146 Sulle linee guida
Dalle linee guida, cit., p. 63.
Dalle linee guida, cit., p. 151.
fondate su logiche prettamente mercantili v. Cass. pen., sez. IV, 2
marzo 2011, n. 8254, Grassini, in Dir. pen. proc., 2011, p. 1227; Cass. pen., sez. IV, 1 febbraio
2012, n. 4391, Di Lella, in Cass. pen., 2012, p. 2069, in cui si evidenzia che “… spesso le linee guida sono frutto di scelte totalmente economicistiche, sono ciniche o pigre; e, dunque,
non è detto che una linea guida sia un punto di approdo definitivo. Alcune volte le linee
guida sono obsolete o inefficaci e, dunque, anche sulle linee guida occorre posare uno
sguardo speciale, occorre attenzione e cautela; le linee guida non sono – da sole – la soluzione
dei problemi …”.
72
CAPITOLO SECONDO
8.3. Formalizzazione delle regole cautelari e colpa generica residua
Da tempo si discute circa la possibilità che il progressivo diffondersi
delle linee guida e dei protocolli abbia comportato l’affermazione di regole cautelari scritte ed il conseguente travalicamento, nel campo della
responsabilità medica, della colpa generica nella colpa specifica. Ciò,
come già evidenziato (v. supra § 8.1.), comporterebbe indubbiamente
maggiori garanzie in termini di tassatività della colpa e minori incertezze
nel momento dell’accertamento giudiziale, essendo, sotto il profilo oggettivo, possibile affermare la penale responsabilità per i reati di cui agli
artt. 589 e 590 c.p. in conseguenza della mera violazione di linee guida.
D’altro canto, il rischio insito in tale sistema sarebbe quello di
un’oggettivizzazione della responsabilità colposa nella quale, “accontentandosi” dell’accertata violazione della linea guida-regola cautelare si
prescinda dalla verifica circa l’attribuibilità di tale violazione al soggetto.
L’attribuzione personale dell’illecito colposo, ex art. 27 Cost., impone comunque al giudice di accertare che l’evento sia eziologicamente connesso
alla violazione della linea guida (c.d. causalità della colpa); che le linee
guida fossero effettivamente volte a prevenire quello specifico evento poi
concretamente verificatosi (c.d. nesso di rischio); che l’evento non si sarebbe verificato con il rispetto della regola cautelare e, quindi, che con il
ispetto della regola fosse prevedibile ed evitabile l’evento lesivo (c.d.
comportamento alternativo lecito).
Tutti i benefici di una predeterminazione della regola cautelare sarebbero, infatti, vanificati se poi, in sede di accertamento, il giudice si limitasse a constatare (come, purtroppo sovente ancora avviene nella giurisprudenza italiana) la sola violazione della regola cautelare, ritenendo la
stessa assorbente e preminente rispetto alla verifica dell’attribuibilità di
quella violazione al soggetto agente.
Parte della dottrina è favorevole a ritenere che linee guida e protocolli siano idonei a fondare ipotesi di colpa specifica in quanto riconducibili alla nozione di “discipline” di cui all’art. 43 c.p. Le “discipline”, infatti, sarebbero norme generali, emanate non solo da Autorità pubbliche,
ma anche private, allo scopo di fissare determinate regole di comportamento nell’esercizio di un certo tipo di attività147. Così formulato, quindi,
l’art. 43 c.p. consente di dare rilievo a fonti subnormative (a cui possono
essere ricondotte non solo le linee guida o i protocolli, ma anche le pre147 In tal senso v. P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 182 s. V. inoltre G. IADECOLA, Il valore
“dell’opinione” dell’ordine professionale e delle società scientifiche nel contenzioso penale, in
Riv. it. med. leg., 2001, p. 11; P. PIRAS, A. CARBONI, Linee guida e colpa specifica del medico, in
Medicina e diritto penale, cit., p. 289.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
73
scrizioni del codice deontologico) o a regole di condotta professionale affermate e ritenute valide nell’ambito della comunità scientifica148.
Sennonché, le criticità sopra richiamate inducono ad escludere che
la diffusione delle linee guida abbia condotto ad un progressivo sconfinamento in ambito sanitario della colpa generica nella colpa specifica. Il
tentativo di ricondurre le linee guida all’ambito della colpa specifica – attraverso una loro inclusione nelle “discipline” dell’art. 43 c.p. – si arresta
di fronte al profilo dell’assenza di vincolatività delle linee guida. Si è, infatti, sopra evidenziato che le linee guida costituiscono solo dei parametri di comportamento non vincolanti per il medico, il quale mantiene l’assoluta libertà di scelta in ordine al trattamento diagnostico e terapeutico
più adeguato al caso concreto. D’altronde, proprio la peculiarità dell’attività medica impedisce una precostituita e vincolante individuazione
della regola che escluda qualsiasi valutazione dell’operatore e qualsiasi
adeguamento alle peculiari caratteristiche del caso individuale149.
Anche nell’ipotesi in cui, pertanto, si volesse riconoscere alla singola
linea guida la valenza di regola cautelare scritta (perché rispettosa di tutti
i principi sopra richiamati in tema di autorevolezza della fonte, di sedimentazione, di contenuto e grado di diligenza), essa si caratterizzerebbe,
comunque, vista l’assenza di vincolatività, per la sua elasticità e, quindi,
per la permanenza di margini di colpa generica che imporrebbero, in
sede di accertamento, il ricorso all’agente modello.
In tal senso si è sempre espressa la giurisprudenza, la quale ha affermato il principio secondo cui tanto l’osservanza delle linee guida quanto
la loro deroga può essere fonte di responsabilità colposa in capo al medico laddove si ravvisi che le contingenze del caso concreto avrebbero richiesto un diverso comportamento150.
148 G. IADECOLA, Il
149 In tal senso cfr.
150 Cass. pen., sez.
valore, cit., p. 11.
anche Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit.
IV, 11 luglio 2012, n. 35922, Ingrassia, in Dir. pen. proc., 2012, p.
191, ha ricostruito i principi in materia affermando che le linee guida “non possono fornire
indicazioni di valore assoluto ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale responsabilità del sanitario, sia per la libertà di cura, che caratterizza l’attività del medico […], sia perché […] in
taluni casi, le linee guida possono essere indubbiamente influenzate da preoccupazioni legate
al contenimento dei costi sanitari oppure si palesano obiettivamente controverse, non unanimemente condivise oppure non rispondenti ai progressi nelle more verificatisi nella cura della
patologia”. La decisione ha, inoltre, sancito che: a) pur nel rispetto delle linee guida rimane
la possibilità per il Giudice di valutare la condotta del medico alla luce del parametro dell’agente modello e di criticarne l’appiattimento alle linee guida; b) le linee guida che possono
avere rilevanza nell’accertamento della responsabilità colposa sono solo quelle che fanno riferimento a standards elevati di diligenza, conformi alla miglior scienza ed esperienza. Nello
stesso senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2011, n. 8254, in Dir. pen. proc., 2011, p. 547, in
cui la Corte ha affermato il principio secondo cui “non esime da colpa il medico il rispetto di
74
CAPITOLO SECONDO
Ciò, naturalmente, è ancor più vero con riguardo a linee guida non
esaustive (che mantengono cioè margini di incertezza in quanto indicano
un comportamento che, però, è da determinarsi in base a circostanze concrete), di linee guida che perseguono, prevalentemente, obiettivi di riduzione della spesa o di linee guida obsolete. Anche in tal caso la giurisprudenza ha escluso che il rispetto di standards comportamentali che abbiano
quale scopo unico, o comunque prevalente, quello della riduzione dei costi sia idoneo ad escludere la responsabilità penale del sanitario per esiti
infausti. In una recente decisione, pur non facendo diretta applicazione
delle linee guida, la Suprema Corte ha, infatti, osservato che “le linee
guida ed i protocolli sono, in talune situazioni, in grado di offrire delle indicazioni e dei punti di riferimento. Tuttavia, anche in questa materia, vi
sono dei rilevanti problemi, perché occorre comprendere qual è la logica
nella quale si è formata una prassi di comportamento, perché spesso le linee guida sono frutto di scelte totalmente economicistiche, sono ciniche o
pigre, e dunque non è detto che una linea guida sia un punto di approdo
definitivo. A volte le linee guida sono obsolete o inefficaci e, dunque, anche sulle linee guida occorre posare uno sguardo speciale, occorre attenzione e cautela; le linee guida non sono la soluzione dei problemi”151.
Il discorso potrebbe, invece, essere differente per quanto concerne i
protocolli. Questi ultimi strumenti, infatti, a differenza delle linee guida,
si caratterizzano per il loro grado di precisione e di vincolatività e, soprattutto per i contenuti autenticamente preventivi che consentono,
quindi, una più ampia riconducibilità alla nozione di “disciplina” e, soprattutto, di regola cautelare di cui all’art. 43 c.p.
8.4. Linee guida, protocolli e colpa grave: l’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (c.d. decreto Balduzzi)
L’art. 3, comma 1, d.l 13 settembre 2012, n. 158 “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello
linee guida che antepongono ragioni economiche a ragioni di tutela della salute che siano in
contrasto con esigenze di cura del paziente. La Corte precisa, altresì, che non può andare
esente da colpa il medico che si lasci condizionare dalle linee guida, rinunciando al proprio
compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico”. Non sono mancate pronunce in cui la Corte di Cassazione ha posto, invece, il mancato
adeguamento alle linee guida come fonte di responsabilità colposa del sanitario. In tal senso
cfr. Cass. pen., sez. IV, 12 luglio 2011, n. 34729, Ravasio, in CED rv. 251348. Per un excursus
sul ruolo delle linee guida nella giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del decreto
Balduzzi v. G. ROTOLO, Guidelines e leges artis in ambito medico, in Riv. it. med. leg., 2013,
p. 281; M. CAPUTO, Filo d’Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema della
responsabilità per colpa medica, in Riv. it.dir. proc. pen., 2012, p. 875 ss.
151 Cass. pen., sez. IV, 1 febbraio 2012, n. 4391, P.C., in CED rv. 251941.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
75
di tutela della salute”, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189, dispone che “l’esercente le professioni sanitarie che
nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente
per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art.
2043 c.c. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del
danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
La disposizione, in sostanza, prevede l’esclusione della responsabilità penale del sanitario che abbia osservato, nel corso dell’esercizio della
propria attività, linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità
scientifica e, ciononostante, si sia verificato un evento lesivo ai danni del
paziente. Due sembrano essere, secondo le prime ricostruzioni giurisprudenziali, i casi astrattamente riconducibili alla norma in esame: da un
lato, quello del sanitario che si adegui alle linee guida e che, invece,
avrebbe dovuto discostarsene in relazione alla valutazione della situazione concreta; dall’altro, quello del sanitario che commetta un errore
proprio nella fase di adattamento delle direttive di massima alle peculiarità che si prospettano nello specifico caso clinico152. In entrambe le ipotesi la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria è esclusa se si
è in presenza di una colpa lieve e, quindi, di un errore non macroscopico
o di un caso di particolare complessità.
A discapito di una formulazione apparentemente contraddittoria (il
sanitario verserebbe in colpa nonostante il rispetto delle linee guida)153,
la norma, in realtà altro non fa se non accogliere, implicitamente, il principio, fin qui monoliticamente affermatosi in dottrina e giurisprudenza,
secondo cui il rispetto delle linee guida non esclude automaticamente la
responsabilità penale, essendo necessario comunque verificare se il medico, per le concrete circostanze in cui si è trovato ad operare, avesse
l’obbligo di non applicarle. Ciò, d’altro canto, è connaturale alla natura
delle linee guida che, come sopra evidenziato, fungono da mere direttrici
di comportamento, imponendo, comunque, al medico di rapportarle alla
concreta situazione clinica.
L’art. 3 d.l. n. 158 del 2012 costituisce innegabilmente un novum nel
panorama giuridico interno, in quanto, per la prima volta, riconosce
espressamente la rilevanza, in ambito penale, della distinzione tra colpa
lieve e grave, e valorizza il sistema delle linee guida, facendolo assurgere
a parametro per stabilire il quantum di diligenza esigibile dal medico154.
152 In tal senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit.
153 P. PIRAS, In culpa sine culpa, in www.penalecontemporaneo.it.
154 In questo senso v. anche G. ROTOLO, Guidelines e leges artis, cit., p. 278 il quale
evidenzia, altresì, che il dato normativo sembra avanzare in sede legislativa una soluzione per le
76
CAPITOLO SECONDO
Sotto il primo profilo, in particolare, la nuova disposizione sembra
rispondere alle sollecitazioni (provenienti soprattutto dalla dottrina) alla
limitazione della responsabilità penale professionale attraverso il ricorso
alla colpa grave quale valido strumento, tra gli altri, per la riduzione del
fenomeno della medicina difensiva155. L’aumento del contenzioso legale
(in particolare penale) induce, infatti, i medici, da un lato, a prescrivere
un numero esorbitante di visite ed esami (spesso non necessari) ovvero,
dall’altro, ad evitare la cura dei pazienti a più alto rischio, con conseguente aumento dei costi e riduzione della qualità tecnica dell’assistenza
sanitaria156. A dispetto, però, delle proposte avanzate dalla dottrina ed
anche da alcuni progetti di riforma del codice penale presentati negli ultimi anni – che escludevano la punibilità della colpa lieve in tutti i casi in
cui si richiedesse la soluzione di “problemi tecnici di speciale difficoltà”
(sulla scorta della previsione dell’art. 2236 c.c.) – il legislatore limita la
portata della novella alle sole situazioni in cui vi sia stata l’applicazione di
linee guida157.
D’altro canto, pur se non espressamente contemplata, sino ad oggi,
da alcuna norma penale, la distinzione tra colpa grave e lieve è stata, nondimeno, sovente invocata in quanto strumento necessario per perseguire
l’obiettivo di personalizzazione dell’illecito colposo: il giudizio di rimmolte ambiguità fronteggiate dalla giurisprudenza in ordine al rilievo da attribuire all’osservanza delle linee guida. V., inoltre, F. GIUNTA, Protocolli medici, cit., p. 820. L’Autore, in particolare, evidenzia come la nuova disposizione abbia il merito di precisare una volta per tutte
tanto il valore dell’osservanza delle guideliness quanto della loro violazione sul versante della
responsabilità medica. Precisa, però, che la disciplina manca l’obiettivo chiarificatore per via
di una formulazione poco lineare che mette in diretta correlazione due parametri funzionalmente eterogenei: le linee guida, che attengono all’individuazione della regola cautelare e,
quindi, all’an della responsabilità, e la colpa lieve, che concerne il quantum di rimproverabilità.
155 L. CORNACCHIA, Colpa incosciente e colpa lieve: le ragioni di una possibile delimitazione della responsabilità penale, in G. DE FRANCESCO, E. VENAFRO (a cura di), Meritevolezza
di pena e logiche deflattive, Torino, 2002, p. 193 ss.; D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit.,
pp. 529 ss.; A.R. DI LANDRO, La colpa medica negli Stati Uniti e in Italia. cit., p. 18 ss.; G.
FORTI, M. CATINO, F. D’ALESSANDRO, C. MAZZUCATO, G. VARRASO, Il problema della medicina
difensiva, cit., p. 41.
156 La volontà di disincentivare il ricorso alla medicina difensiva è chiaramente perseguita anche dal d.l. 158 del 2012. Nella relazione che accompagna il disegno di legge si evidenzia, infatti, che l’obiettivo, strettamente connesso a quello del contenimento della spesa
sanitaria, è quello di disincentivare “il fenomeno della medicina difensiva, che determina la
prescrizione di esami diagnostici inappropriati, con gravi conseguenze sia sulla salute dei cittadini, sia sull’aumento delle liste d’attesa e dei costi a carico delle aziende”.
157 Per un richiamo ai progetti di riforma v. A.R. DI LANDRO, Le novità normative in
tema di colpa penale (l. 189/2012 c.d. Balduzzi). Le indicazioni del diritto comparato, in Riv. it.
med. leg., 2013, p. 835 s.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
77
proverabilità non può prescindere dalla valutazione del grado di diligenza pretendibile dal soggetto agente158.
Sulla possibilità di limitare l’ambito della responsabilità colposa ai
soli casi di colpa grave, tuttavia, non si è mai riscontrata uniformità di vedute. Accanto a orientamenti che – maggiormente sensibili all’esigenza di
tutelare la professionalità dei medici – hanno tentato di restringere la
portata della responsabilità colposa ai soli casi della colpa grave attraverso l’estensione all’ambito penale del dettato dell’art. 2236 c.c., se ne
sono fatti strada altri che – spinti dall’esigenza di tutelare in misura più
ampia i diritti delle vittime di errori sanitari – hanno escluso la rilevanza
della distinzione tra colpa lieve e grave sotto il profilo penale159.
Intorno agli anni Settanta, in giurisprudenza incomincia ad affermarsi un primo orientamento che – sulla scorta del rilievo per cui la professione medica deve essere valutata con “larghezza di vedute e comprensione”160, non essendovi metodi obbligatori di indagine e cura ed essendo sempre possibile l’errore di apprezzamento – ritiene rilevante, per
l’affermazione di una penale responsabilità, solo la colpa c.d. “grossolana”, rinvenibile nella “trascuranza di quelle norme elementari che il più
modesto professionista non deve ignorare” o “nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione”,
e, quindi, in ogni comportamento incompatibile con il bagaglio minimo
di conoscenze proprie di ciascun medico161. Lo strumento giuridico per
operare tale limitazione di responsabilità viene individuato nell’art. 2236
158 Sul
tema del grado della colpa e della sua attinenza all’ambito del giudizio di colpevolezza cfr. D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., p. 345 ss.; T. PADOVANI, Il grado della colpa,
in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, p. 836. Non sono mancati Autori che hanno sostenuto la rilevanza della tematica del grado della colpa già a livello di tipicità e non solo di colpevolezza.
In tal senso cfr. F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 107.
159 Per la ricostruzione dell’evoluzione della giurisprudenza e della dottrina in materia
di colpa grave v. A. CRESPI La «colpa grave» nell’esercizio dell’attività medico- chirurgica, in
Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 255 ss.; G. GRASSO, La responsabilità penale nell’attività medico-chirurgica: orientamenti giurisprudenziali sul “grado” della colpa, in Riv. it. med. leg.,
1979, p. 80 ss.; A. CRESPI, I recenti orientamenti giurisprudenziali nell’accertamento della colpa
professionale del medico chirurgo: evoluzione o involuzione, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 785
ss.; R. RIZ, Colpa penale per imperizia del medico: nuovi orientamenti, in Riv. it. med. leg.,
1985, p. 267 ss.; M. BARTOLI, La colpa medica nella giurisprudenza di fine secolo, in Resp. civ.
prev., 2001, p. 254 ss.; A.R. DI LANDRO, I criteri di valutazione della colpa penale del medico,
dal limite della “gravità” ex art. 2236 c.c. alle prospettive della gross negligence anglosassone,
in Indice pen., 2004, p. 733 ss.; S. FERRARI, Sulla valutazione della responsabilità medica per
colpa, in Giur. it., 2004, p. 1492 ss.
160 Cass. pen. sez. IV, 4 febbraio 1972, n. 2508, Del Vecchio, in Cass. pen., 1973, p. 538.
161 Cass. pen., sez. IV, 21 ottobre 1970, n. 1820, Lisco, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973,
p. 55; Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 1968, n. 124, Chiantese, in Cass. pen., 1969, p. 1077;
Cass. pen., sez. IV, 6 marzo 1967, n. 456, Izzo, in Cass. pen., 1968, p. 420.
78
CAPITOLO SECONDO
c.c., il quale dispone, seppure con riferimento all’illecito civile, che “se la
prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà,
il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o
colpa grave”. Ragioni di coerenza interna dell’ordinamento giuridico impongono, secondo questo orientamento, di estendere il dettato dell’art.
2236 c.c., onde evitare che comportamenti che non concretizzano un illecito civile possano, invece, assumere una rilevanza penale.
Sennonché, secondo questa interpretazione, tutte le figure di colpa
(non solo per imperizia, ma anche per negligenza ed imprudenza) sarebbero penalmente rilevanti solo se “gravi”. Per questo motivo essa è stata
sottoposta a critica da parte di quegli orientamenti dottrinali che, nei medesimi anni, pur affermando l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. anche alle
fattispecie colpose penali, ritenevano, tuttavia, di doverne circoscrivere la
portata ai soli casi di imperizia. Si è, infatti, sottolineato che sarebbe solo
la colpa per imperizia (quella, quindi, che propriamente deriva dalla violazione di regole cautelari che prescrivono il possesso di particolari conoscenze per lo svolgimento di determinate attività) a poter essere valutata nell’ambito della colpa grave, al fine di allargare il campo della discrezionalità del professionista, chiamato a risolvere casi particolarmente
difficili, la cui soluzione implica inevitabili rischi di insuccesso162.
Quest’ultima tesi è stata fatta propria dalla Corte costituzionale,
chiamata nel 1973 a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale (sollevata dal Tribunale di Varese) degli artt. 42 e 589 c.p., nella
parte in cui consentono che nella valutazione della colpa professionale il
giudice attribuisca rilevanza penale soltanto ai gradi della colpa di tipo
particolare. La Corte, nel dichiarare l’infondatezza della censura, ha ammesso la legittimità della prassi applicativa dell’art. 2236 c.c. anche alla
colpa penale, limitandola, però, alle sole ipotesi di imperizia163.
162 In tal senso A. CRESPI, Il grado della colpa nella responsabilità professionale del medico chirurgo, in Scuola Positiva, 1960, p. 484; A. CRESPI, La colpa grave, cit., p. 255.
163 Corte cost., 28 novembre 1973, n. 166, in Foto it., 1974, c. 19, in cui la Corte ha rilevato che “la particolare disciplina in tema di responsabilità penale desumibile dagli artt. 589
e 42 (e meglio 43) c.p., in relazione all’art. 2236 c.c., per l’esercente una professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, è il
riflesso di una normativa dettata (come si legge nella relazione del guardasigilli al codice civile,
n. 917) di fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa
di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso.
Ne consegue che solo la colpa grave e cioè quella derivante da errore inescusabile, dalla ignoranza dei principio elementari attinenti all’esercizio di una determinata attività professionale o
propri di una data specializzazione possa nella indicata ipotesi rilevare ai fini della responsabilità penale. Siffatta esenzione o limitazione di responsabilità d’altra parte, non conduce a do-
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
79
La giurisprudenza ha, negli anni immediatamente successivi all’intervento della Corte, tenuto indubbiamente conto dell’imprimatur dato
dalla sentenza, dichiarando che il carattere colposo della condotta del sanitario, quando l’addebito viene mosso sotto il profilo dell’imperizia,
deve essere valutato nel ristretto ambito della “colpa grave”, e, segnatamente, che l’errore del medico, da cui è conseguita la morte o la lesione
dell’integrità fisica del paziente, può essere valutato sulla base del parametro di cui all’art. 2236 c.c. solo se il caso implica la soluzione di particolari problemi diagnostici e terapeutici in presenza di un quadro clinico
complesso164.
Nel corso degli ultimi anni, però, si assiste ad un fenomeno di sovrapposizione tra le varie tesi affermatesi. Infatti, accanto a sentenze che,
abbandonata qualsiasi benevolenza e comprensione nei confronti dei sanitari, affermano che la colpa professionale del medico debba essere
valutata nei limiti fissati dall’art. 43 c.p., sancendo conseguentemente
l’inapplicabilità dell’art. 2236 c.c. (norma peraltro non estendibile analogicamente, visto il suo carattere eccezionale) e riconoscendo al “grado”
della colpa uno spazio solo a livello di graduazione della pena ex art. 133
c.p.165, se ne collocano altre che, invece, temperano la rigidità di quest’ultima costruzione, richiamando una non ben definita “larghezza di
vedute” e “comprensione” nella valutazione della colpa medica166. Da ultimo, non sono mancate sentenze che, per aggirare le critiche sollevate
con riguardo all’applicabilità dell’art. 2236 c.c., affermano l’esclusione
della responsabilità penale del medico quando il caso specifico sottopover ammettere che, accanto al minimo di perizia richiesta, basti pure un minimo di prudenza
o di diligenza. Anzi, c’è da riconoscere che, mentre nella prima l’indulgenza del giudizio del
magistrato è direttamente proporzionata alle difficoltà del compito, per le altre due forme di
colpa ogni giudizio non può che essere improntato a criteri di formale severità”.
164 Cass. pen., sez. IV, 23 marzo 1995, Salvati, in Cass. pen., 1996, p. 1835; Cass. pen.,
sez. IV, 27 gennaio 1984, n. 6650, Ricolizzi, in Riv. pen., 1985, p. 373; Cass. pen., sez. IV, 24
giugno 1983, n. 8917, Veronesi, in Cass. pen., 1984, p. 307; Cass. pen., sez. IV, 19 febbraio
1981, n. 5860, Desiato, in Riv. pen., 1981, p. 707.
165 Cass. pen., sez. IV, 22 novembre 2002, n. 39637, Amato, in Riv. pen., 2003, p. 110
“ai fini penalistici, la colpa medica va valutata alla stregua degli ordinari criteri dettati dall’art.
43 c.p., e non di quelli dettatati dall’art. 2236 c.c., per cui può venire in rilievo anche la colpa
lieve, da rapportarsi, peraltro, in termini di esigibilità, al parametro oggettivo dell’homo ejusdem condicionis et professionis, tenendo conto, tra l’altro, con riguardo alla scusabilità o
meno dell’errore, del grado di difficoltà tecnico-scientifica e dei conseguenti eventuali margini di opinabilità che il caso presenta, ferma restando poi la possibilità che la colpa, oltre che
nell’imperizia, possa consistere anche in negligenza o imprudenza le quali abbiano anche esse
concorso a determinare l’errore”.
166 Cass. pen., sez. IV, 22 febbraio 1991, n. 4028, Lazzeri, in Giust. pen., 1992, II, p. 49;
Cass. pen., sez. IV, 17 luglio 1987, n. 8360, Mondonico, in Giust. pen., 1988, II, p. 105.
80
CAPITOLO SECONDO
sto al suo esame impone la soluzione di problemi di speciale difficoltà,
non, però, per effetto della diretta applicazione della norma civilistica,
ma come regola di esperienza a cui il giudice deve attenersi nel valutare
l’addebito di imperizia, sia quando si versa in una situazione emergenziale, sia quando il caso implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà167.
8.5. Le lacune dell’art. 3 d.l. n. 158 del 2012: a) l’ambito soggettivo di applicazione della nuova normativa
Accolta con particolare interesse, soprattutto dalla classe medica che
in essa ha visto una possibile deflazione del ricorso al processo penale
per i casi di medical malpractice, la riforma, come si evidenzierà nel prosieguo, sembra, invero, tradire le aspettative, essendo, allo stato, destinata ad avere scarso impatto applicativo e lasciando, peraltro, insolute
una serie di questioni interpretative. La nuova disciplina, anzitutto, rimane collocata nel decreto legge Balduzzi e non viene, invece, inserita
nell’art. 43 c.p. Cionondimeno essa, indubbiamente, concorre con quest’ultima disposizione alla definizione di colpa, seppure limitatamente al
campo dell’attività medica. L’art. 3 d.l. 158 del 2012, infatti, contribuisce
alla descrizione della fattispecie astratta restringendo l’ambito di rilevanza penale della colpa alle sole ipotesi di colpa grave168. Dal punto di
167 Cass. pen., sez. IV, 26 aprile 2011, n. 16328, Lucisano, in CED rv. 251960; Cass.
pen., sez. IV, 21 giugno 2007, n. 39552, Buggè, in CED rv. 237875. La sentenza, peraltro, specifica i contesti che per la loro difficoltà possono giustificare l’esclusione di responsabilità del
medico: situazioni in cui si sia in presenza di difficoltà o novità tecnico-scientifiche ovvero situazioni in cui il medico si trovi ad operare in emergenza quando anche le scelte più semplici,
proprio per la necessaria rapidità delle stesse, diventano difficili. Nello stesso senso, più di recente cfr. Cass. pen., sez. IV, 5 aprile 2011, n. 16328, Montalto, in CED rv. 251941, nonché
Cass. pen., sez. IV, 22 novembre 2011, n. 4391, Di Lella, in CED rv. 251941.
168 In tal senso cfr. L. RISICATO, Linee guida, cit., p. 203, che evidenzia come la nuova
norma qualifichi l’osservanza delle linee guida quale limite della tipicità colposa dell’attività
medico-chirurgica; G.L. GATTA, Colpa medica e art. 3, co. 1, d.l. n. 158/2012: affermata dalla
Cassazione l’abolitio criminis (parziale) per i reati commessi con colpa lieve, in www.penalecontemporaneo.it. Prima dell’introduzione della norma autorevole dottrina aveva evidenziato
che la misura della diligenza richiesta al medico poteva già rilevare a livello di tipicità con limitazione della rilevanza penale della colpa. In tal senso F. GIUNTA, La normatività, cit., p.
107. Si evidenzia che, anche nell’ambito della dottrina che riconduce la misura della diligenza
alla colpevolezza, si precisa che, nondimeno, essa potrebbe riverberare i propri effetti già sul
piano della tipicità nel caso in cui il legislatore introducesse ipotesi specifiche di irrilevanza
penale di fatti offensivi, ma dotati di colpa esigua. In tal senso D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., p. 543.Nel senso che quella introdotta dall’art. 3 d.l. 158/2012 sia una causa di non
punibilità cfr. D. PULITANÒ, Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum
legislativo, in www.penalecontemporaneo.it.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
81
vista processuale, l’esclusione di tipicità della colpa lieve comporta, ai
sensi dell’art. 530 c.p.p., la pronuncia di una sentenza di assoluzione
“perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, formula assolutoria che, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., non fa stato nel giudizio civile promosso per il risarcimento del danno.
La collocazione sistematica della nuova disposizione – nonché l’espresso riferimento testuale ai soli “esercenti la professione sanitaria” – fa
sì che essa abbia un ristretto ambito di applicazione, non estensibile, più
in generale, a tutti i casi di responsabilità professionale. L’art. 3 d.l.
158/2012, infatti, risulta applicabile solo in presenza di tre presupposti: il
soggetto responsabile sia un esercente la professione sanitaria; vi siano linee guida o buone pratiche, pertinenti al caso, scientificamente accreditate; il sanitario si sia attenuto a dette linee guida o buone pratiche. Ne
consegue la non applicabilità, non solo ai professionisti diversi dai sanitari, ma anche ai casi in cui non vi siano linee guida o non vi sia stata applicazione delle stesse nel caso oggetto del giudizio169.
Quest’ultima sembra costituire una della principali criticità della
nuova disposizione – con riguardo, in particolare, alla possibile violazione del principio di uguaglianza – soprattutto nei casi di cooperazione
tra sanitari e soggetti aventi diversa professionalità. Si pensi ad esempio
all’ipotesi in cui l’evento lesivo sia la conseguenza di una cooperazione
tra sanitari e ingegneri biomedici (che organizzano l’uso e la manuten169 Alcune delle limitazioni previste dalla norma sono state tacciate di possibile incostituzionalità da Tribunale Milano, sez. IX, ordinanza 21 marzo 2013, in www.penalecontemporaneo.it che ha rimesso la questione alla Corte costituzionale. La questione di legittimità costituzionale è, però, stata dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte, con ordinanza
6 dicembre 2013 (in www.penalecontemporaneo.it), in quanto “il giudice a quo ha omesso di
descrivere compiutamente la fattispecie concreta sottoposta al suo giudizio e, conseguentemente, di fornire un’adeguata motivazione alla rilevanza della questione”. Fra i numerosi profili di illegittimità rilevati dai Giudici ambrosiani vi era quello della violazione dell’art. 3 Cost.
per disparità di trattamento, in caso di cooperazione colposa tra un sanitario ed un soggetto
con diversa qualifica (ad esempio un amministratore che non ha predisposto la struttura, il
materiale, i prodotti), essendo la disposizione applicabile solo al primo a fronte di medesimo
grado di colpa lieve. Un secondo profilo di disparità di trattamento, e, quindi, di possibile
violazione dell’art. 3 Cost. (oltreché dell’art. 28 Cost.), era stato ravvisato con riguardo agli
operatori sanitari che prestano la propria attività nel settore pubblico: ad essi verrebbe, infatti
riconosciuto un trattamento più mite rispetto agli altri dipendenti pubblici. Al di là di questi
specifici profili di illegittimità sollevati dal Tribunale di Milano (e non affrontati nel merito
dalla Corte costituzionale, vista l’ordinanza di manifesta inammissibilità) sembra più in generale possibile affermare che la disposizione potrebbe essere illegittima per violazione dell’art.
3 Cost. in quanto, sul fondamento della peculiarità e della rischiosità della professione sanitaria, distingue la stessa da qualsiasi altra professione (es. piloti di aerei, ingegneri …) che
presentano, invero, caratteristiche del tutto assimilabili, richiedendo spesso la soluzione di
questioni tecniche particolarmente complesse.
82
CAPITOLO SECONDO
zione della strumentazione biomedica o realizzano strumenti diagnostici
o terapeutici, quali protesi o valvole) ovvero tra sanitari e dirigenti (è il
caso, ad esempio, di eventi lesivi da ricondursi a carenze causate da una
cattiva organizzazione della struttura da parte degli organi direttivi e
dalla condotta colposa del sanitario che non abbia segnalato tali carenze
o disposto il trasferimento del paziente)170. È evidente la disparità di trattamento che si potrebbe verificare in queste situazioni: la responsabilità
di soggetti la cui professione non sia riconducibile a quelle sanitarie non
potrebbe essere limitata, ed essi, pur eventualmente versando, al pari del
sanitario, in colpa lieve, dovrebbero rispondere, a differenza del primo,
per i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p.
Orbene, l’unico modo per superare l’impasse interpretativo potrebbe essere quello di interpretare la locuzione “esercenti la professione
sanitaria” non in senso soggettivo, ma piuttosto in senso oggettivo come
riferita latamente a tutti quei soggetti che, pur non rientrando nei ruoli
tipici della professione sanitaria (medico, infermiere, ostetrico, veterinario, biologo…), esercitano, comunque, un’attività sanitaria in quanto collegata alla cura ed alla diagnosi.
8.7. (Segue): b) le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità
scientifica
Il secondo profilo di problematicità connesso all’interpretazione
della nuova disposizione concerne i due strumenti posti dal legislatore a
fondamento dell’esclusione della rilevanza penale del fatto: le linee guida
e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Un primo elemento di criticità è determinato dall’equiparazione di due strumenti, invero, tra loro fortemente differenti e, soprattutto, nel caso delle buone
pratiche, non tassativamente definiti dalla legge. Come già sopra evidenziato, infatti, le linee guida (che trovano una definizione, non normativa,
ma comunemente accolta da dottrina e giurisprudenza) rappresentano
delle direttive, non vincolanti, volte ad indicare al medico un trattamento
terapeutico che non sempre coincide con i migliori usi. Le buone pratiche, invece, non sono state oggetto di una compiuta definizione, tanto
che una parte della dottrina ha ritenuto che esse non siano da ricondurre
ad una disciplina regolamentata (come le linee guida o i protocolli), ma
consistano piuttosto nella concreta attuazione delle linee guida ovvero in
170 Sul concorso tra dirigenti e sanitari nel caso di carenze strutturali ed organizzative
v. amplius infra cap. VI; nonché Cass. pen., sez. IV, 9 febbraio 2000, n. 272, De Donno ed altro, in Cass. pen., 2002, p. 226; Cass. pen., sez. IV, 5 dicembre 2007, n. 1533, in Foro it., 2008,
10, c. 517.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
83
procedure non previste dalle linee guida, ma comunemente applicate, di
cui sia riconosciuta l’efficacia terapeutica o comunque la non dannosità
per il paziente171. Per altro orientamento interpretativo, invece, le buone
pratiche devono essere ricondotte proprio alla categoria dei protocolli,
evidenziando che questi ultimi, generalmente altro non sono se non la
trasposizione – in schemi predefiniti di comportamento, rigidi e vincolanti – di dette buone pratiche172.
Orbene, dalla dizione normativa non appare possibile effettuare
quest’ultima equiparazione, dal momento che, se è pur vero che sovente
le buone pratiche sono trasfuse in protocolli (i quali si caratterizzano per
specificità, contenuto spiccatamente cautelare e vincolatività), nondimeno questi ultimi non esauriscono tutto il panorama delle buone pratiche, che possono continuare ad essere applicate anche se non trasfuse in
detto strumento.
Se così è, tuttavia, non appare giustificata l’esclusione dei protocolli
dagli strumenti in cui possono essere formalizzate regole cautelari idonee
ad escludere, ove correttamente osservate, la responsabilità per colpa
lieve. Mentre, infatti, le linee guida, sono strumenti, non vincolanti, che
descrivono modelli di condotta che non necessariamente coincidono con
le migliori prassi (sovente individuano solo un livello minimo di diligenza), al contrario, i protocolli, nella loro rigidità e vincolatività, indicano modelli comportamentali condivisi e generalmente coincidenti con
gli usi cautelari diffusi in un determinato contesto spazio-temporale173.
Se, quindi, per i protocolli è più immediata l’individuazione di un contenuto cautelare (e non sembrano, di conseguenza, porsi particolari problemi circa la loro utilizzabilità ai fini del giudizio sulla colpa), non così
171 Sulla definizione in generale di buone pratiche cfr. F. GIUNTA, La legalità della colpa,
cit., p. 165 ss. Sull’interpretazione della locuzione “linee guida e buone pratiche accreditate
dalla comunità scientifica” cfr. C. BRUSCO, Linee guida, protocolli e regole deontologiche. Le
modifiche introdotte dal c.d. decreto Balduzzi, in www.penalecontemporaneo.it, p. 18. L’Autore
riporta anche il seguente esempio: “se la somministrazione di un farmaco, pur non specificamente indicato e non previsto dalle linee guida per il contrasto di una determinata patologia
(farmaci off label), ha dato, in un numero significativo di casi, effetti positivi e mai negativi il
medico che lo somministra si attiene ad una buona pratica”; P.F. POLI, Legge Balduzzi tra problemi aperti e possibili soluzioni interpretative: alcune considerazioni, in www penalecontemporaneo.it, p. 4 s. Ritiene che quella utilizzata dal legislatore sia semplicemente un’endiadi
A.R. DI LANDRO, Le novità normative, cit., p. 884.
172 F. GIUNTA, Protocolli medici, cit., p. 821 s.; A. ROIATI, Il ruolo del sapere scientifico e
l’individuazione della colpa lieve nel cono d’ombra deella prescrizione, in Dir. pen. cont., 2013,
cit., p. 9. In termini dubitativi cfr. C. CUPELLI, I limiti di una codificazione terapeutica (a proposito della colpa grave del medico e linee guida), in www.penalecontemporaneo.it, p. 7.
173 In tal senso cfr. F. GIUNTA, voce Medico (responsabilità penale del), cit., p. 881.
84
CAPITOLO SECONDO
può, invece, dirsi per le linee guida, per le quali è necessaria una preliminare valutazione contenutistica da parte del giudicante.
Peraltro, i protocolli, ove riconosciuti quali atti che formalizzano regole cautelari che, come tali, devono essere osservate dal medico nell’esercizio della sua attività, potrebbero rivelarsi anche validi strumenti per
individuare i soggetti penalmente responsabili nel caso di divisione del
lavoro, limitando in tal modo le pericolose forme di responsabilità del
gruppo o di responsabilità apicali. I protocolli, infatti, non solo individuano la corretta sequenza comportamentale che il sanitario deve applicare, ma anche il soggetto che di volta in volta è responsabile della sequenza. Non sarebbe sufficiente, così come, invece, ancora oggi si afferma nella giurisprudenza maggioritaria, l’accertamento dell’obbligo di
garanzia in capo al sanitario (per il solo fatto di avere assunto la cura del
paziente) e il nesso causale tra la condotta e l’evento, ma occorrerebbe,
altresì, individuare la regola cautelare che è stata trasgredita e, di conseguenza, il soggetto che doveva adeguarsi a tale regola di condotta.
Interessante a tal proposito è il caso, ricostruito dalla dottrina174,
della derelizione di oggetti nel ventre del paziente nel corso di interventi
chirurgici. I protocolli medici175 prevedono, infatti, che il conteggio e la
verifica dell’integrità degli strumenti chirurgici (ferri, garze, etc.) sia effettuata dal personale infermieristico o da operatori di supporto, mentre
sul chirurgo incomberebbe il solo obbligo di verificare che detto conteggio sia stato effettuato, ma non certamente di ripeterlo. Solo al c.d. “ferrista”, quindi, potrebbe essere mosso un rimprovero colposo, in caso di
dimenticanza nelle viscere del paziente di uno strumento chirurgico, in
quanto solo lui non ha dominato quell’area di rischio che la regola cautelare intendeva governare176.
Tornando al dettato dell’art. 3 d.l. n. 158 del 2012, siano consentite
due ultime notazioni. La prima è che non ogni linea guida può costituire
parametro del giudizio sulla colpa, ma solo quelle che, avendo contenuto
174 D.
MICHELETTI, La normatività della colpa medica nella giurisprudenza, in S. CANEF. GIUNTA, R. GUERRINI, T. PADOVANI, Medicina e diritto penale, cit., p. 250 ss.
175 Cfr. in particolare la raccomandazione pubblicata dall’Osservatorio buone pratiche
che descrive una dettagliata procedura per il conteggio degli strumenti chirurgici, citata da A.
ROIATI, Il ruolo, cit., p. 12.
176 In senso contrario, tuttavia, la giurisprudenza afferma la responsabilità dell’intera
équipe. V. Cass. pen., sez. IV, 26 maggio 2004, n. 39062, Picciurro ed altri, in Riv. pen., 2005,
p. 302; Cass. pen., sez. IV, 13 maggio 2008, n. 19506, Malagnino, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D.
MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 53; nonché
più di recente Cass. pen., sez. IV, 29 aprile 2014, n. 36229, P. F., in Ragiusan, 2014, p. 367. In
senso contrario si veda l’isolata pronuncia Cass. pen., sez. IV, 6 aprile 2005, n. 22579, Malinconico, in Cass. pen., 2006, p. 2834.
STRARI,
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
85
tipicamente modale ed essendo incentrate sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento, possono assurgere al rango di regola di condotta. Non
così può dirsi, come già osservato nei paragrafi precedenti, per quelle linee guida che perseguono finalità differenti dalla cura e salvaguardia
della salute del paziente, prefiggendosi principalmente (e talvolta esclusivamente) il mero contenimento di costi.
La seconda concerne, invece, il necessario “accreditamento da parte
della comunità scientifica” di linee guida e buone prassi. Anche tale requisito, che evidentemente, nell’intenzione del legislatore, doveva delimitare l’ambito delle linee guida e buone pratiche utilizzabili, si rivela, invero, ancora una volta alquanto indeterminato. Si è, infatti, in precedenza evidenziato che attualmente in Italia esiste un sistema istituzionale
di produzione ed accreditamento delle linee guida (SNLG), il quale, tuttavia, continua ad essere affiancato da linee guida prodotte da singole
Aziende ospedaliere, da associazioni scientifiche e da compagnie assicuratrici. Orbene, di fronte ad un coacervo di discipline, tutte, eventualmente, egualmente accreditate dalla comunità scientifica, per quale dovrebbe optare il giudice (ed il medico dapprima)? Nessun parametro di
riferimento è individuabile nella nuova disposizione che, non solo non
precisa quale debba essere la fonte di produzione delle linee guida, ma
non indica neppure quale debba essere la comunità scientifica di riferimento (internazionale, nazionale, del presidio ospedaliero …).
Orbene, alla luce di quanto sino ad ora osservato, si ritiene che dovrebbe prevalere un’interpretazione restrittiva del dettato normativo, per
cui le sole linee guida istituzionalizzate, o che abbiano riconoscimento in
ambito internazionale, possano assurgere al rango di regole cautelari, dovendosi, invece, tralasciare quelle formatesi nei singoli presidi ospedalieri
o, addirittura, nei singoli reparti salvo che a loro volta non rappresentino
il precipitato di linee guida del primo tipo.
Sennonché, quest’ultimo si rivela essere uno dei maggiori limiti della
nuova disposizione. Se, nelle intenzioni del legislatore, essa doveva limitare la discrezionalità giudiziale ed il ricorso ai periti nell’accertamento
della colpa, tale obiettivo non sembra, invero, pienamente raggiunto: l’individuazione delle linee guida o delle buone pratiche “accreditate” sarà,
comunque, rimessa al giudice, che dovrà individuare, tra le plurime fonti,
eventualmente anche di pari valenza scientifica, quella che ritiene maggiormente adeguata al caso concreto. Per far ciò, peraltro, il giudicante
dovrà ancora una volta rivolgersi ad un perito, senza, peraltro, alcun obbligo di preventiva verifica delle sue qualità professionali e della sua indipendenza.
86
CAPITOLO SECONDO
8.8. (Segue): c) quale nozione di colpa lieve? Possibili casi di esclusione
delle responsabilità dei sanitari
Un ulteriore profilo di incertezza introdotto dalla nuova disposizione concerne proprio la distinzione tra colpa lieve e colpa grave posta
dal legislatore a fondamento dell’esclusione di responsabilità. Nel nostro
ordinamento, infatti, non esiste una definizione penale di colpa lieve e di
colpa grave, nonostante già altre disposizioni normative limitino la responsabilità penale alla sola colpa grave177. Anche sotto questo aspetto
l’art. 3 in oggetto, quindi, si rivela incapace di delimitare l’ambito di discrezionalità del giudicante, al quale sarà rimessa l’individuazione, per
via interpretativa, delle due nozioni e, conseguentemente, la delimitazione dell’area del penalmente rilevante.
Nella sua prima formulazione la norma conteneva, invero, un richiamo all’art. 2236 c.c. Tale rinvio, seppure non risolutivo, imponeva di
delimitare la rilevanza della colpa lieve ai soli casi che richiedessero la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e fondati sulla violazione
di regole cautelari di perizia178. L’espunzione del riferimento all’art. 2236
c.c. dal testo definitivo dell’art. 3 richiede, quindi, un duplice sforzo interpretativo: da un lato, la delimitazione dei concetti di colpa lieve e
colpa grave e, dall’altro, l’individuazione dell’ambito di estensione della
colpa lieve (se ai soli casi di colpa per imperizia, ovvero anche a quelli
per negligenza o imprudenza).
Questo tentativo di delimitazione è ben presente nelle prime pronunce giurisprudenziali nelle quali vi è stata applicazione della nuova
norma. In una di dette pronunce, in particolare, si evidenzia che “la novella si riferisce ad un terapeuta che si sia mantenuto entro l’area astrattamente, genericamente segnata dalle accreditate istituzioni scientifiche
ed applicative, e, tuttavia, nel corso del trattamento, abbia in qualche
guisa errato nell’adeguare le prescrizioni alle specificità del caso trattato”. Orbene, osserva la Suprema Corte, in questo caso si potrà affermare la rilevanza penale del fatto e, quindi, la gravità della colpa, solo
quando “l’erronea conformazione dell’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della
malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente”. Nello stesso
modo si dovrà procedere laddove il sanitario si sia attenuto allo standard
177 In
tal senso cfr. P.F. POLI, Legge Balduzzi, cit., p. 6 ss. che elenca le disposizioni
normative che contengono un riferimento alla colpa grave: art. 64 c.p.c., art. 217, comma 1,
nn. 2, 3 e 4 l. fall.
178 Per gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che hanno limitato la portata
dell’art. 2236 c.c. ai soli casi di colpa per imperizia v. supra § 8.4.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
87
generalmente appropriato per un’affezione, trascurando, però, gli specifici fattori di rischio che avrebbero giustificato uno scostamento da tale
standard. In tale situazione, la Corte ritiene che si possa parlare di colpa
grave “solo quando i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono
delle prassi accreditate assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non lascino residuare un dubbio plausibile sulla necessità di un intervento
difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente”179.
Alla luce di tale ricostruzione, la rilevanza della colpa lieve non è,
quindi, limitata (come, invece, avveniva attraverso il richiamo all’art.
2236 c.c.) ai soli casi di speciale difficoltà, ma si estende più in generale
a tutti i casi in cui vi sia stata un’ingiustificata applicazione delle linee
guida ovvero un’erronea applicazione delle stesse, indipendentemente
dalla natura del caso trattato. Il giudizio che si è chiamati a compiere è di
tipo meramente quantitativo, concernendo, appunto, il grado di scostamento dalle linee guida o, altrimenti, il grado di riconoscibilità dei fattori
concreti che imponevano di discostarsi dalle linee guida.
Non può non riscontrarsi in un giudizio di tal fatta l’elevato grado
di discrezionalità rimessa al giudice e, soprattutto, il ritorno a criteri di
valutazione di tipo deontico. È la stessa Corte di Cassazione, in effetti,
che precisa come, per valutare quale sia il grado di scostamento dalle linee guida, occorra riferirsi (nuovamente!) alla figura dell’agente modello,
l’archetipo cioè di un professionista che opera al livello di qualificazione
dell’agente concreto e che esprime il modo di operare appropriato, tipico180. D’altro canto, la personalità dell’illecito impone al giudice di valutare anche le peculiarità del caso concreto quali, in particolare, la complessità del caso trattato, l’urgenza, la carenza di idonee strutture.
Quanto più il caso si dimostri complesso, ovvero maggiore sia il grado di
urgenza o la carenza di idonee strutture, tanto più dovrà ritenersi lieve lo
scostamento dalla regola di condotta181.
La valorizzazione delle peculiarità del caso concreto, promossa oggi
nella pronuncia della Suprema Corte appena richiamata, era, invero, sollecitata unanimemente dalla dottrina, già prima dell’entrata in vigore
della nuova disposizione quale necessario requisito per un rimprovero
autenticamente soggettivo. La valutazione della situazione concreta in cui
il sanitario si trovi ad operare deve diventare momento rilevante del giudizio soggettivo in ogni ipotesi di colpa e non semplicemente in quelle in
cui si ha riguardo alla corretta o errata applicazione di linee guida.
179 Cass.
180 Cass.
181 Cass.
pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit.
pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit.
pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit.
88
CAPITOLO SECONDO
La mente corre, ad esempio, a tutto quel filone giurisprudenziale
che riconosce la responsabilità del medico in posizione subalterna per
non essersi discostato dalle direttive impartite dal primario o per non essere intervenuto per correggere l’errore di quest’ultimo182, senza che vi
sia considerazione alcuna in ordine all’effettiva capacità (in ragione della
sua preparazione) di riconoscere l’errore del superiore e di essere in
grado di correggerlo.
Seppur pregevole, per il richiamo alla valutazione della concreta situazione in cui il sanitario si trovi ad operare, la sopra richiamata sentenza, nondimeno, lascia residuare qualche dubbio proprio con riguardo
alle individuate ipotesi di colpa lieve. Non convince appieno, ad esempio, il riconoscimento di una situazione di esonero da responsabilità in
capo al medico che si sia attenuto alle linee guida dovendosene, invece,
discostare in relazione alle circostanze concrete183. In tal caso, infatti, il
rispetto delle linee guida è meramente apparente avendo il medico, nella
sostanza, fatto applicazione di regole cautelari estranee all’area di rischio
concreta: per quale motivo egli, quindi, dovrebbe avvantaggiarsi di un
trattamento più mite (che addirittura esclude, la responsabilità penale in
caso di colpa lieve) rispetto al sanitario che, non facendo applicazione di
linee guida, abbia erroneamente individuato la lex artis da applicare nel
caso concreto?
Resta, invece, escluso dalle prime classificazioni giurisprudenziali il
caso – che, invero, sembra rispecchiare appieno il senso della nuova disposizione – dell’evento avverso conseguente alla pur corretta applicazione, da parte del sanitario, di una linea guida (adeguata rispetto all’area
di rischio in concreto sussistente), la quale, tuttavia, si appalesi in contrasto con altre linee guida, dotate di pari autorevolezza, che, laddove applicate, avrebbero impedito il verificarsi dell’evento. Orbene, proprio, in
tale situazione, più che in qualsiasi altra, sembra opportuno escludere la
responsabilità del sanitario per colpa lieve, da individuarsi in tutti i casi
in cui non fosse da lui pretendibile la scelta della diversa (o delle diverse)
linee guida. Assumeranno, quindi, rilevanza ai fini dell’accertamento
della responsabilità colposa la diversa professionalità del sanitario, il
grado di complessità tecnica delle plurime linee guida e la, conseguente,
conoscibilità di queste ultime: cosicché, di fronte a linee guida di difficile
acquisizione (per l’elevata complessità tecnica), diverso sarà il grado di
pretesa nei confronti del dirigente di struttura complessa (il c.d. prima182 Cass. pen., sez.
183 In tal senso cfr.
IV, 20 gennaio 2004, n. 32901, in CED rv. 229069.
anche A. VALLINI, L’art. 3 del “decreto Balduzzi” tra retaggi dottrinali,
esigenze concrete, approsimazioni testuali, dubbi di costituzionalità, in Riv. it. med. leg., 2013,
p. 744 ss.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
89
rio) che, vista la sua professionalità ha le competenze tecniche per poterle raffrontare tra loro e mettere in discussione, e nei confronti del medico specializzando che ancora non ha quel bagaglio di conoscenze tale
da potergli consentire di porsi in contrasto con linee guida non solo autorevoli (perché provenienti da fonti accreditate), ma il cui rispetto è,
magari, stato imposto dai suoi diretti superiori.
Sotto questo profilo la nuova normativa potrebbe, quindi, rivelarsi
particolarmente utile (accanto al già consolidato principio di affidamento, pur sovente disatteso dalla giurisprudenza) per la delimitazione
della responsabilità dei soggetti che prendono parte ad attività diagnostiche o terapeutiche plurisoggettive, attraverso la compiuta valorizzazione
del diverso grado di competenza e, quindi, di riconoscibilità della situazione di rischio e della conseguente regola di cautela da adottare.
Con riguardo, invece, al problema dell’applicazione della norma ai
soli casi di colpa per imperizia (come avveniva ai tempi dell’applicazione
dell’art. 2236 c.c.) o, viceversa, anche a quelli per negligenza o imprudenza, deve evidenziarsi che, almeno inizialmente, la giurisprudenza si è
graniticamente orientata nel primo senso. Pur in assenza di una espressa
previsione, i giudici di legittimità hanno, infatti, ritenuto che l’esclusione
di responsabilità per colpa lieve debba essere limitata ai soli casi di imperizia. La conclusione si fonda sull’assunto secondo cui le linee guida
contengono esclusivamente regole di perizia e, di conseguenza, il medico
che non vi sia adegui non sarebbe professionalmente capace e, quindi,
imperito184.
La tesi suscita, invero, forti perplessità, non solo perché una simile
limitazione non traspare dal contenuto della norma (e neppure dai lavori
preparatori del decreto), ma anche perché non corrisponde a verità che
le linee guida contemplino solo regole di perizia. Si pensi, ad esempio,
alle linee guida in tema di dimissioni del paziente a seguito di infarto del
miocardio (oggetto, peraltro, di una decisione della Suprema Corte antecedente al decreto Balduzzi)185 che prevedono, evidentemente, norme di
prudenza (dopo quanti giorni dall’evento infartuale e dopo quali accertamente il paziente può essere dimesso) e non certamente di perizia.
D’altro canto, come in precedenza rilevato, l’art. 3 del decreto Balduzzi non pone al centro della disciplina dell’esclusione della rilevanza
penale della colpa lieve le solo linee guida, ma, più in generale, le buone
184 Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, cit., in cui espressamente si
afferma che l’art. 3 del decreto Balduzzi trova il suo “terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia”; Cass. pen., 24 gennaio 2013, n. 11493, Pagano, in www.penalecontemporaneo.it.
185 Cass. pen., sez. IV, 23 novembre 2010, n. 8254, Grassini, in Foro it., 2011, 7-8, c. 416.
90
CAPITOLO SECONDO
prassi che, nulla esclude, possano avere quale contenuto anche regole di
diligenza o prudenza.
Alcune aperture in tal senso incominciano a rinvenirsi anche nella
giurisprudenza di legittimità, ammettendosi che, effettivamente, “non
può escludersi che le linee guida pongano regole rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza;
come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la
sfera dell’accuratezza di compiti magari non particolarmente qualificanti,
che quella dell’adeguatezza professionale”186.
8.8. Brevi considerazioni conclusive sul decreto Balduzzi
Quanto sin qui evidenziato porta alla conclusione che a tutt’oggi appare di difficile realizzazione la definitiva normativizzazione della regola
cautelare nel settore dell’attività medico-chirurgica. Se è pur vero, infatti,
che un processo di regolamentazione ed istituzionalizzazione delle linee
guida potrebbe costituire un primo passo avanti verso la normativizzazione/oggettivizzazione della regola cautelare, è altrettanto vero, però,
che esso continuerebbe ad arrestarsi di fronte all’ineludibile margine di
discrezionalità tecnica che caratterizza l’attività medica, nella quale non
può darsi una regola cautelare sempre valida ed indistintamente applicabile a tutti i casi concreti.
Detto processo, tuttavia, non deve certamente arrestarsi, in quanto è
innegabile che, pur non potendosi operare (sotto il profilo oggettivo) l’equiparazione – rispetto della linea guida-assenza di colpa ovvero violazione della linea guida-colpa (così come avviene nelle ipotesi di colpa
specifica) – nondimeno l’utilizzo delle linee guida e, ancor più dei protocolli, per il giudizio di responsabilità colposa può certamente fornire
maggiori margini di garanzia.
In tutti i casi in cui, infatti, siano presenti linee guida, il giudice non
sarà chiamato (attraverso i periti) a ricostruire ex post la regola di cautela
appellandosi a criteri di tipo deontico, ma, piuttosto, dovrà individuare
(compito che, invero, spetterà all’organo dell’accusa già all’atto della formulazione del capo di imputazione) la specifica linea guida (preesistente)
che deve essere applicata al caso, chiedendo, eventualmente, al perito di
186 Cass. pen., sez. IV, 9 ottobre 2014, n. 47289, Stefanetti, in CED rv. 260739. Nello
stesso senso v. Cass. pen., sez. IV, 8 luglio 2014, n. 2168, Anelli, in CED rv., 261764. Contra,
più di recente, Cass. pen., sez. IV; 27 aprile 2015, n. 26996, Caldarazzo, in CED rv. 263826,
in cui si torna ad affermare che l’art. 3 “non si estende agli errori diagnostici connotati da negligenza o imprudenza, perché le linee guida contengono solo regole di perizia”. Nonché
Cass. pen., sez. IV, 20 marzo 2015, n. 16944, Rota, in CED rv. 263389.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
91
individuare circostanze concrete che avrebbero imposto un percorso differente187.
In tale ottica, assume particolare importanza la novella del decreto
Balduzzi che, seppure con le numerose difficoltà interpretative connesse,
soprattutto, alla sua imprecisa formulazione, ha avuto indubbiamente il
merito di riconoscere il sistema delle linee guida e di valorizzare, conseguentemente, la normatività della colpa. Siffatto sistema, però, ad oggi
presenta ancora profonde lacune che dovrebbero essere superate, innanzitutto, attraverso un modello istituzionalizzato di formazione e selezione. Solo in tal modo sarà effettivamente possibile riconoscere alle
stesse una effettiva portata cautelare e, soprattutto, sarà possibile eliminare quei margini di incertezza ad oggi nascenti dalla pluralità di fonti di
produzione e dalla diversa autorevolezza delle stesse.
Da ultimo, anche se forse è il profilo che, come già evidenziato, assume la maggior rilevanza, la nuova disposizione richiama l’attenzione
sul necessario accertamento della rimproverabilità soggettiva, troppo
spesso, in realtà, disatteso dalla giurisprudenza. Da questo punto di vista,
però, non del tutto giustificabile è l’ancoraggio proposto dal legislatore
della gradazione della colpa al rispetto delle linee guida: l’attribuzione al
sanitario del fatto colposo deve tenere conto delle concrete situazioni e
delle concrete possibilità di riconoscibilità del rischio anche nei casi in
cui non si discuta dell’applicazione di linee guida, ma di regole di comune diligenza, prudenza e perizia.
9.
Il comportamento alternativo lecito e l’evitabilità dell’evento
Uno dei rischi connessi all’ipernormativizzazione della colpa è
quello di una progressiva oggettivazione della responsabilità, come si assiste nella prassi giurisprudenziale: l’accertamento dell’avvenuta violazione della regola cautelare (sia essa generica o specifica) diviene, di
fatto, assorbente, rispetto a qualsiasi ulteriore verifica. Nei casi in cui non
risulta operante il principio di affidamento, in quanto il medico è astretto
da un obbligo di controllo sull’operato del collega, l’accertamento circa
la violazione della regola cautelare e circa l’efficacia causale della condotta rispetto all’evento non è, tuttavia, ancora sufficiente per poter
muovere un rimprovero autenticamente colposo nei confronti del medico. L’esigenza di rimuovere dall’imputazione colposa del fatto ogni residua forma di responsabilità oggettiva occulta impone, infatti, l’ulteriore
187 In tal senso cfr. anche C. VALBONESI, Linee guida e protocolli per una nuova tipicità
dell’illecito colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 250.
92
CAPITOLO SECONDO
verifica circa l’effettiva evitabilità dell’evento in caso di comportamento
alternativo lecito e circa la rimproverabilità del soggetto.
L’imputazione colposa dell’evento richiede, quindi, un quid pluris,
oltre al nesso causale tra condotta ed evento, caratterizzato dal nesso tra
condotta colposa ed evento (c.d. causalità della colpa): è nell’ambito di
questo accertamento che assume rilievo la tematica del comportamento
alternativo lecito. Utilizzato per la delimitazione della responsabilità colposa, quale criterio ulteriore rispetto a quello della concretizzazione del
rischio che la regola cautelare mirava ad impedire, il comportamento alternativo lecito è stato collocato dalla dottrina maggioritaria nella teoria
della colpa e, segnatamente, nel profilo attinente l’evitabilità dell’evento.
Nell’illecito colposo dovrebbero, infatti, individuarsi due momenti distinti di accertamento, concernenti, uno, il nesso causale tra condotta ed
evento, l’altro, il nesso causale tra colpa – o meglio violazione della regola cautelare – ed evento. Non è, quindi, sufficiente che l’evento sia
conseguenza della condotta attiva od omissiva del soggetto agente, ma è
altresì necessario che detto evento trovi il suo specifico presupposto nella
violazione della regola cautelare188. La verifica circa il nesso normativo
tra violazione della regola di diligenza ed evento presuppone, ovviamente, la sussistenza della causalità naturalistica, in quanto non avrebbe
senso indagare su un’imputazione colposa dell’evento se questo già materialmente non fosse attribuibile al soggetto, ma non può restare assorbita da questa.
Per poter valutare l’evitabilità dell’evento in caso di comportamento
conforme alla regola cautelare, l’attenzione deve, quindi, spostarsi sulla
funzione preventiva della regola e, dunque, sull’attitudine della condotta
prescritta ad evitare la verificazione dell’evento, in modo da escludere il
nesso tra la violazione del dovere oggettivo di diligenza ed il risultato
dannoso o pericoloso ogniqualvolta quest’ultimo si sarebbe comunque
verificato, anche qualora il soggetto avesse tenuto il comportamento corretto. Il giudizio sull’efficacia preventiva della norma cautelare passa attraverso una duplice valutazione: la prima effettuata con criterio ex ante,
finalizzata all’individuazione del contenuto in astratto della condotta doverosa che rende evitabile l’evento; la seconda, invece, effettuata con un
giudizio ex post che, tenuto conto delle circostanze di fatto, permetta di
stabilire se, nel caso concreto, la regola cautelare potesse o meno espletare la sua funzione precauzionale. Come osservato in dottrina, la puni188 È lo stesso articolo 43 c.p. a prevedere che l’inosservanza della regola cautelare costituisca causa dell’evento, prevedendo un accertamento causale successivo e distinto rispetto
a quello ex art. 40 c.p. Cfr. in tal senso M. DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione “per
l’aumento del rischio”, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 43.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
93
bilità per un evento, davvero cagionato per colpa, deve conseguire alla
constatazione della tendenziale evitabilità della lesione del bene in caso
di osservanza della regola di diligenza prescritta. Si tratta, quindi, di un
requisito destinato a venir meno laddove, invece, l’aderenza della condotta ai doveri cautelari si rivelasse nella prospettiva ex post “neutrale” in
rapporto all’evento. In tal senso, può configurarsi la verifica in esame
come diretta a portare alla luce l’eventuale fallimento della norma di diligenza rispetto al conseguimento delle sue finalità di protezione del
bene189, fallimento che può, invero, essere ricondotto a due ipotesi di
fondo, a seconda che la stessa si riveli destinata all’insuccesso nel singolo
caso concreto, oppure che risulti in astratto inidonea ad assicurare quel
livello di efficacia preventiva da cui (erroneamente) la si riteneva contraddistinta190.
La dottrina rimane, tuttavia, divisa circa il grado di probabilità di
evitabilità dell’evento, a seguito dell’ipotetico comportamento alternativo
lecito, necessario per poter escludere la responsabilità per colpa dell’agente191. Secondo il prevalente orientamento, per l’ascrivibilità dell’evento al soggetto è sufficiente che la condotta contraria alla regola di diligenza abbia aumentato il rischio di verificazione dell’evento192. La ratio
189 G. FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 670.
190 P. VENEZIANI, Regole cautelari “proprie”
ed “improprie” nella prospettiva delle fattispecie colpose causalmente orientate, Padova, 2003, p. 61.
191 Per una ricostruzione delle tesi dottrinali sviluppate in materia v. di recente M.
GROTTO, Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, Torino, 2012, p.
207 ss.
192 G. FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 692; F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 409; M. ROMANO,
Art. 41, in Commentario sistematico, cit., p. 408 ss.; M. DONINI, Imputazione oggettiva dell’evento. “Nesso di rischio” e responsabilità per fatto proprio, Torino, 2006, p. 116. Anche la
Corte di Cassazione afferma che in materia di accertamento della “causalità della colpa” il
giudizio possa essere basato su un giudizio di probabilità. In tal senso cfr. Cass. pen., 12 luglio 1991, n. 371, Silvestri, in Foro it., 1992, c. 363, in cui i giudici osservano che “nella ricerca del nesso di causalità in materia di responsabilità per colpa professionale al criterio
della certezza degli effetti della condotta si può sostituire quello della probabilità di tali effetti
(e dell’idoneità della condotta a produrli); per cui il rapporto causale sussiste anche quando
l’opera del sanitario, se correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non già
la certezza, bensì soltanto serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata probabilmente salvata”. V. inoltre, Cass. pen., sez. IV, 27 settembre 1993,
n. 10437, Rossello, in Cass. pen., 1996, p. 3325, secondo la quale “in tema di responsabilità
per colpa professionale del medico può essere consentito il ricorso ad un giudizio di probabilità in ordine alla prognosi sugli effetti che avrebbe potuto avere, se tenuta, la condotta dovuta. Qualora debba invece accertarsi il rapporto di causalità fra due avvenimenti concretamente verificatisi è necessario che l’esistenza del nesso causale venga riscontrata con sufficiente grado di certezza, se non assoluta, almeno con un grado tale da fondare su basi solide
un’affermazione di responsabilità, non essendo sufficiente a tal fine un giudizio di mera verosimiglianza”.
94
CAPITOLO SECONDO
della scelta del parametro dell’aumento del rischio viene ravvisata in
un’esigenza di tipo politico-repressivo: richiedere la certezza dell’idoneità
impeditiva del comportamento lecito, in presenza di una condotta sicuramente causale sul piano naturalistico e contraria alla regola cautelare,
significherebbe restringere eccessivamente l’ambito della responsabilità
penale, determinando un’inaccettabile caduta di tutela193. In particolare,
si è osservato, che, in presenza di sicura incidenza causale tra condotta
inosservante ed evento, l’accertamento “controfattuale” ammette valutazioni molto più probabilistiche: se infatti già sussiste la prova della causalità c.d. materiale della condotta, da un lato, della colpa come inosservanza della regola cautelare, dall’altro, e, altresì, la prova che comunque
l’evento materialmente realizzato era del tipo di quelli che lo scopo preventivo della regola cautelare mirava a prevenire, non si può dubitare che
si imputi un evento cagionato come “fatto proprio”194.
Non si è mancato, tuttavia, di rilevare come una simile ricostruzione
contrasti con il principio in dubio pro reo, in quanto riconoscere una responsabilità colposa anche nei casi in cui non vi è la certezza che la condotta diligente avrebbe impedito il verificarsi dell’evento, significa valutare a carico del soggetto alcuni elementi affetti da ambiguità. Se l’evitabilità dell’evento è elemento dell’imputazione colposa, allora essa deve
essere dimostrata in termini di positiva certezza per poter muovere un
rimprovero penale. Per di più, se si ritenesse sufficiente, ai fini dell’ascrizione dell’evento a colpa del soggetto agente, la mera possibilità che la
condotta conforme al violato dovere di diligenza avrebbe evitato la verificazione del risultato lesivo, si finirebbe per porre in discussione la
stessa rilevanza del comportamento alternativo lecito nella struttura dell’illecito colposo. Pertanto, nonostante le riconosciute esigenze di carattere preventivo, secondo i sostenitori di questo indirizzo, deve ritenersi
che per l’imputazione dell’evento sia necessaria la certezza o alta credibilità dell’effettiva efficacia preventiva della regola cautelare195. Di conse193 F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 419.
194 M. DONINI, Causalità omissiva, cit., p. 43.
195 G. MARINUCCI, Causalità reale e causalità ipotetica
nell’omissione impropria, in Riv. it.
dir. proc. pen., 2009, p. 528 ss. per il quale, ai fini della condanna del soggetto occorre dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, che il rispetto della regola cautelare avrebbe impedito
l’evento con un grado di probabilità «ai limiti della certezza». V. altresì L. EUSEBI, Appunti sul
confine tra dolo e colpa nella teoria del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 1061, il quale
richiede che l’accertamento sull’evitabilità dell’evento conduca ad affermare che il comportamento alternativo lecito avrebbe con certezza impedito l’evento, osservando, peraltro, che “le
nozioni di causalità cui fanno riferimento gli articoli 40 e 43 c.p. – l’uno con riguardo al rapporto dell’evento con la condotta, l’altro con riguardo al rapporto del medesimo con la violazione di una norma cautelare – non si riferiscono a due realtà distinte, da considerarsi in
successione, bensì alla medesima realtà, e, dunque, coincidono”.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
95
guenza, ogni volta che, a conclusione del giudizio ipotetico volto ad accertare l’efficacia del comportamento alternativo lecito, permangano
dubbi circa l’attitudine ad impedire l’evento, la responsabilità colposa
deve essere esclusa.
Secondo una tesi intermedia, la valutazione circa l’idoneità ad impedire l’evento del comportamento alternativo lecito deve avvenire secondo
parametri probabilistici diversi a seconda che si tratti di fattispecie commissive ovvero omissive. Se, infatti, per le prime è sufficiente l’aumento
del rischio (secondo i rilievi già svolti sopra), per le seconde, invece “non
è possibile attribuire al soggetto, come fatto proprio, il decorso causale
effettivo, se non ricostruendolo come omissione e quindi attraverso il suo
ipotetico comportamento alternativo lecito: perché c’è una sola condotta
illecita, che si definisce come tale in virtù di un giudizio controfattuale,
mentre il giudizio fattuale si riduce alla valutazione del verificasi dell’evento, senza causazione alcuna da parte del soggetto che ha rifiutato l’intervento. Pertanto, qualora consti che la condotta doverosa avrebbe
avuto significative probabilità di salvare il bene giuridico, si ha un “aumento del rischio” a fronte del dubbio sulla causazione: non è infatti
possibile affermare che la diminuzione di chance risultante a contrario
dall’omissione equivalga alla diminuzione della condotta colposa commissiva, giacché, in quest’ultima, il soggetto ha comunque cagionato l’evento oltre ad aumentarne il rischio, mentre nell’omissione no”196.
Un approfondito studio dottrinale circa le questioni sottese al comportamento alternativo lecito ha, infine, evidenziato la necessità di una
distinzione tra regole cautelari “proprie” ed “improprie”, fondata sull’efficacia della regola cautelare: sono regole cautelari proprie quelle fondate
su un giudizio di prevedibilità e di sicura evitabilità dell’evento, ovverosia quelle precauzioni che, con probabilità prossima alla certezza, sono
idonee ad impedirne la verificazione; sono, invece, regole cautelari improprie, quelle che, a fronte della prevedibilità dell’evento, impongono
di adottare precauzioni che, tuttavia, non garantiscono un azzeramento
(o quasi del rischio), ma soltanto una riduzione del medesimo (sicché il
comportamento lecito con un certo livello di probabilità, variabile a seconda dell’efficacia della regola – è in grado di prevenire l’evento, ma
senza che sia ragionevole nutrire alcuna ragionevole certezza in merito)197. Queste ultime sono relative alle attività pericolose (quale l’attività
196 M.
DONINI, Causalità omissiva, cit., p. 43 ss. Contra L. EUSEBI, Appunti, cit., p. 1067
ss.; F. ANGIONI, Note sull’imputazione dell’evento colposo con particolare riferimento all’attività
medica, in E. DOLCINI, C.E. PALIERO (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano,
2006, vol. II, p. 1279 ss.
197 P. VENEZIANI, Regole cautelari, cit., p. 15.
96
CAPITOLO SECONDO
medica), consentite dall’ordinamento in ragione della loro utilità sociale,
ma non provviste di regole cautelari idonee ad azzerare i rischi connessi
al loro esercizio.
Sulla base di questa classificazione, sarebbe possibile risolvere anche
il problema del grado di evitabilità dell’evento nel caso di comportamento
alternativo lecito, distinguendo tra situazioni in cui il soggetto con la propria condotta abbia creato un rischio non consentito e situazioni in cui invece il rischio non sia stato creato dal soggetto. Orbene, nel primo caso,
laddove il rischio sia effettivamente sfociato nella verificazione dell’evento
lesivo tipico e sia certo che la condotta attiva creatrice del rischio abbia
cagionato l’evento e quest’ultimo rappresenti la concretizzazione del rischio specifico che la regola cautelare violata mirava ad evitare, il fatto
colposo può dirsi realizzato anche in presenza di mere chances di salvezza
del comportamento alternativo lecito. In tali casi, infatti, la fattispecie colposa causalmente orientata si presta ad essere integrata anche da regole
cautelari improprie, l’osservanza delle quali non avrebbe comunque impedito con certezza il verificarsi dell’evento. Nel diverso caso in cui, invece, il soggetto non abbia creato alcun rischio, ma si trovi a dover fronteggiare una situazione creatasi aliunde (es. il medico che deve curare una
patologia già in atto), l’obbligo che incombe sul soggetto è quello di fare
quanto necessario, in base alle regole cautelari enucleabili rispetto al caso,
per impedire la realizzazione dell’evento lesivo. Si tratta, quindi, di attivare, mediante il comportamento alternativo lecito, “decorsi causali alternativi, accreditati – in base alla stessa regola cautelare di riferimento – di
un certo livello di probabilità di successo o addirittura di un grado di probabilità di salvezza del 100%”. Ciò, implica, evidentemente, l’inidoneità
delle regole cautelari improprie ad integrare il contenuto precettivo della
fattispecie colposa causalmente orientata198.
Nonostante i fervidi dibattiti dottrinali sulla rilevanza del comportamento alternativo lecito e sulla sua collocazione dogmatica, la giurisprudenza non ha, dal canto suo, mostrato particolare interesse per il tema
dell’accertamento dell’evitabilità dell’evento nei reati colposi. Un accertamento che è stato, quindi, per lo più pretermesso nelle decisioni giurisprudenziali o che, anche laddove effettuato, ha finito per essere erroneamente collocato sul piano sistematico del nesso di causalità materiale,
anziché della causalità colposa. Tale disorientamento è il frutto della già
più volte segnalata difficoltà della giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità, di distinguere i piani di indagine della colpa e della causalità,
che la spinge, nonostante l’utilizzo di formule “nesso causale tra colpa ed
198 P.
VENEZIANI, Regole cautelari, cit., p. 46 ss.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
97
evento”, “efficienza causale della condotta colposa nella produzione dell’evento” ovvero “evitabilità dell’evento da parte del comportamento
conforme alla regola di diligenza prescritta nel caso concreto”, a collocare il comportamento alternativo lecito nell’impropria sede del rapporto
di causalità. La frequente trasformazione degli illeciti commissivi colposi
in illeciti omissivi, infatti, fa si che il requisito della causalità della colpa
venga ricostruito secondo lo schema della causalità omissiva199, con il corollario che la prova che il comportamento alternativo lecito non avrebbe
impedito l’evento esclude la sussistenza del rapporto causale tra la condotta omissiva, consistente nella mancata adozione delle cautele doverose, e l’evento lesivo.
Delineate, quindi, le caratteristiche del comportamento alternativo
lecito, deve ritenersi che esso assuma contorni peculiari nel campo dell’attività plurisoggettiva. In tal caso, infatti, corre l’obbligo di verificare
l’effettiva efficacia salvifica dell’intervento di emenda dell’errore altrui.
Dovrà, quindi, concludersi per la carenza di colpa nei casi in cui si accerti che, anche laddove il medico avesse correttamente adempiuto all’obbligo di vigilanza, l’evento si sarebbe comunque verificato, in quanto
il suo tempestivo intervento non avrebbe potuto porre rimedio all’errore
del collega.
In realtà, le sentenze che si sono occupate del problema si sono limitate a verificare la sussistenza della violazione di un dovere cautelare
da cui scaturiva l’obbligo di controllo (ad esempio in forza della posizione gerarchica sovraordinata del medico imputato), ma non si sono mai
spinte a verificare l’effettiva efficacia impeditiva dell’evento nel caso di
comportamento conforme alla regola doverosa che imponeva di effettuare l’attività di vigilanza200.
10. Misura soggettiva della colpa del medico: la riconoscibilità dell’errore
altrui
La massima valorizzazione del principio della responsabilità personale avviene nella fase di accertamento della c.d. “misura soggettiva”
della colpa. Come autorevolmente osservato in dottrina, infatti, mentre
l’accertamento del momento oggettivo dell’illecito (a cui afferiscono sia il
giudizio di causalità che quello di negligenza) esprime un’istanza di raccordo di carattere generale ed astratto tra condotta ed evento – a pre199 L. GIZZI, Il comportamento alternativo lecito nell’elaborazione giurisprudenziale, in
Cass. pen., 2005, p. 4118.
200 Cass. pen., sez. IV, 2 aprile 2007, n. 21594, Scipioni e altro, cit.; Cass. pen., sez. IV,
29 settembre 2005, n. 47145, Sciortino, cit.
98
CAPITOLO SECONDO
scindere, quindi, dalle caratteristiche dell’agente concreto – il giudizio di
colpevolezza, invece, impedisce l’imputazione dell’illecito ogni qualvolta
i processi motivazionali che hanno determinato l’agente hic et nunc alla
realizzazione dell’illecito presentino un certo grado di alterazione. Per
questo il giudizio di colpevolezza non può trascurare la riconoscibilità o
meno dei presupposti di fatto che rendono obbligatorio il dovere di diligenza201 e deve tenere conto delle reali attitudini del soggetto concreto
che ha agito onde valutare se egli fosse in grado di uniformare il proprio
comportamento alla regola di cautela.
Nella dottrina italiana (e, ancor più nella giurisprudenza) persistono, tuttavia, ancora notevoli riluttanze ad una piena individualizzazione della colpa. Si evidenzia, infatti, che il parametro dell’“agente concreto” finirebbe per relativizzare troppo il giudizio di colpa, rendendolo
sostanzialmente inattuabile, mentre il ricorso ad un parametro quale
quello dell’“agente modello”consentirebbe di non oggettivizzare, fino a
svuotarlo, il momomento dell’imputazione soggettiva, ma contemporaneamente di salvaguardare le esigenze di certezza del diritto202. Pur rimanendo un sistema predefinito (in quanto individua standards ottimali di
comportamento in ragione dell’attività svolta) esso sarebbe, nondimeno,
in grado di relativizzare il giudizio attraverso la costruzione nell’ambito
dello stesso genus di operatori di sotto-categorie di agenti modello con
diversi livelli di conoscenza e capacità per ragioni obiettive (es. nell’ambito del genus “medico”, sarà possibile distinguere l’agente modello specialista dall’agente modello specializzando).
Pur dovendosi dare atto dello sforzo individualizzante compiuto attraverso la predisposizione di sotto-categorie di agenti modello, si deve,
però constatare che quello proposto resta pur sempre un modello
astratto, che implica un raffronto del soggetto con qualcosa di esterno
determinando un potenziale scarto203.
Il giudizio di imputazione colposa non può prescindere da una valorizzazione delle circostanze peculiari del caso concreto e dall’accertamento delle reali attitudini dell’agente. Lo impone, non solo il già richiamato, principio di personalità (art. 27 Cost.), ma anche quello di uguaglianza (art. 3 Cost.). È noto, infatti, che le regole cautelari sono regole
“generaliste”, in quanto volte a regolare categorie di situazioni in modo
201 F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 347.
202 F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 349 ss.
203 G. FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 234, il quale
evidenzia, altresì, che l’agente modello è l’espressione “dell’aspettativa dell’ordinamento di un adeguamento dei consociati ai
propri giudizi prognostici” e, come tale, “incarna il punto di vista del diritto, è la personificazione dell’ordinamento giuridico nella situazione concreta”.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
99
omogeneo ed uguale per tutti i consociati, e come tali, quindi, non consentono di valutare se nel contesto motivazionale si siano innestate condizioni soggettive talmente anomale da mettere in dubbio la possibilità di
ricomprendere l’agente nella categoria generale delineata in sede normativa. L’applicazione delle medesime conseguenze giuridiche a situazioni,
che per il loro grado di anomalia, divergono dal dettato normativo determinerebbe una violazione del principio di uguaglianza204.
Ammessa, quindi, l’esigenza di un giudizio in concreto, resta, però,
da stabilire quali e quante caratteristiche personali e quali situazioni concrete debbano avere rilevanza nel giudizio, perché il rischio diviene
quello di fondare il giudizio su tutte le caratteristiche del soggetto agente
giungendo sostanzialmente sempre ad escludere la colpa205. Secondo il
prevalente orientamento, oggetto del giudizio di colpevolezza non possono essere tutte le caratteristiche del soggetto agente, in quanto in tal
modo si finirebbe per far coincidere il punto di vista dell’ordinamento
giuridico con quello del soggetto. Si ritiene, in particolare, di dover
escludere dalla valutazione tutte le qualità di tipo morale o caratteriale
(quali ad es, l’insensibilità, la superficialità, etc.), mentre, al contrario dovrebbero essere incluse tutte le caratteristiche fisiche ed intellettuali
(quali ad. es. livello di scolarizzazione, menomazioni o cattive condizioni
di salute, esperienze, etc.) e circostanze anomale concomitanti all’agire
(quali ad esempio stanchezza, stress emotivo, paura, etc.)206.
Proprio le persistenti incertezze interpretative sull’individuazione
dei parametri per l’accertamento della misura soggettiva, tuttavia, hanno
probabilmente frenato la compiuta affermazione, anche in ambito giurisprudenziale, di tale giudizio207. Un esame dei casi giurisprudenziali nei
quali, in generale, si è affrontato il tema della responsabilità colposa evidenzia, difatti, la quasi assoluta carenza di valutazioni in ordine al profilo
dell’attribuibilità soggettiva del fatto e, quindi, dell’individualizzazione
del giudizio di colpa. D’altro canto, anche nelle rare ipotesi in cui si assista ad una valutazione di componenti soggettive esse, peraltro, non vengono compiutamente valorizzate e dalla loro sussistenza non se ne traggono le necessarie conseguenze in sede di decisione208.
204 E. BORSATTI, La soggettivizzazione della colpa: profili dogmatici e pratico-applicativi,
in Ind. pen., 2005, p. 78.
205 M. ROMANO, Art. 43, cit., p. 468 s.
206 G. FIANDACA, E, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 604 ss.; M. ROMANO, Art. 43, cit., p.
468; S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 445 s.
207 In dottrina si è osservato che una nozione di colpa molto “normativizzata” e, in definitiva, “oggettiva” risulta di più facile gestione processuale. In tal senso cfr. D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., p. 573.
208 Autorevole dottrina ha sottolineato che “troppi processi sono tutti giocati sul piano
della causalità e della lex artis, mentre il vero nodo problematico è quello della rimprovera-
100
CAPITOLO SECONDO
Esemplificativo in questo senso è l’andamento delle decisioni in materia di cooperazione multidisciplinare in campo medico, la cui analisi
mostra l’utilizzo da parte della giurisprudenza dei due parametri della
evidenza e della non settorialità dell’errore altrui che, a prima vista, orientano il giudizio di individualizzazione209. Due parametri il cui contenuto,
tuttavia, lungi dall’essere predeterminabile e, quindi, autenticamente limitativo della responsabilità, essendo sostanzialmente rimesso alla discrezionalità interpretativa del giudicante che generalmente ne amplia il
contenuto a tal punto da snaturare il principio di affidamento.
Il requisito dell’evidenza, infatti, viene inteso in un senso meramente
quantitativo di grossolanità dello scostamento del collega dalle regole
dell’arte che disciplinano la corretta esecuzione della prestazione dovuta.
In sostanza, come sottolineato in dottrina, è la sola macroscopicità della
colpa a determinare l’ampliamento delle sfere di competenza, e l’evidenza dell’altrui condotta colposa non si ricava dalla peculiare dinamica
del caso concreto, ma si modella su un astratto piano deontico210.
Per un giudizio autenticamente individualizzante l’“evidenza” dovrebbe, piuttosto, essere intesa in senso qualitativo, come concreta percezione o percepibilità dell’errore da parte di un professionista, che è pur
sempre astretto, in via primaria, dall’obbligo della diligente esecuzione
delle mansioni di sua competenza. In questo ambito dovrebbero, peraltro, trovare valorizzazione anche le competenze del soggetto agente, in
quanto un medico in posizione iniziale ha minori strumenti per poter riconoscere l’errore del collega rispetto, ad esempio, ad un medico in posizione apicale.
Se concepita in questi termini, l’evidenza non può dirsi sottesa o implicita ad ogni attività svolta in cooperazione, ma deve essere accertata di
volta in volta. Ne consegue che la percepibilità dell’errore è a sua volta
collegata alla non-settorialità dello stesso: in tanto può esigersi da un sanitario di avvedersi dell’altrui errore e di emendarlo, in quanto lo stesso
sia rilevabile sulla base delle conoscenze comuni di ogni sanitario e non
sulla base di conoscenze tecniche legate alla specializzazione211.
bilità colposa”, evidenziando, altresì, che, per restringere la portata della responsabilità medica e per ricondurla nell’alveo dei principi, occorre recuperare la colpevolezza della colpa,
nonché incrementare l’attenzione per la colpa che alligna nel contesto organizzativo, in cui
sempre più spesso e necessariamente si svolge l’attività medica. In tal senso v. F. PALZZO, Responsabilità medica, cit., p. 1064.
209 Cass. pen., sez. IV, 15 novembre 2012, n. 44830, in Riv. it. med. leg., 2013, p. 900 ss.
210 A. ROIATI, Medicina difensiva, cit., p. 269 s.
211 C. CANTAGALLI, Brevi cenni, cit., p. 2843. In dottrina si è osservato che quest’ultima
costituisce un’ipotesi di affidamento definito come necessario “caratterizzato dalla circostanza che colui che fa affidamento sulla correttezza del comportamento di un altro soggetto
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
101
La valutazione dei predetti requisiti dell’errore deve, peraltro, essere
necessariamente riferita alle peculiarità della fattispecie concreta e, di
conseguenza, essi andranno apprezzati con riferimento anche alle caratsi troverebbe nella necessità di dovere, e di conseguenza potere, attendere solo quel dato
comportamento, a ragione di un proprio deficit di conoscenza, che gli preclude di sindacare
e controllare in modo effettivo l’operato altrui”. In tal senso cfr. M. MANTOVANI, Il principio,
cit., p. 156 ss., il quale, invece definisce affidamento “fondato” quello che si instaura “fra e/o
su persone che si possono reciprocamente controllare”.
Secondo parte della dottrina, nel caso in cui il sanitario non possa esercitare il proprio
dovere di controllo in quanto non in possesso delle dovute conoscenze tecniche, verrebbe
meno la stessa componente oggettiva della colpa e non semplicemente la rimproverabilità. In
tal senso cfr. L. CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti (Parte II), cit., p. 1103
(nota 124), secondo il quale “sembra più corretto invece ritenere non concretata già la misura
oggettiva della colpa, dato che non si fa questione, in subiecta materia, di relazionare il giudizio di colpa alle particolari capacità o conoscenze individuali del soggetto: il parametro di riferimento è ancora quello dell’homo eiusdem condicionis et professionis (oltretutto, già sul
piano oggettivo, l’ordinamento non può imporre obblighi che si escludono e pretenderne
l’osservanza senza cadere in contraddizione: in questi casi è già implicito che la sussistenza di
un dovere di diligenza è prevalente, quindi esclude la sussistenza degli eventuali altri)”.
In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 25 maggio 2010, n. 19637, F.F., cit. L’errore riconoscibile, peraltro, deve essere emendato dal sanitario anche se commesso in una fase antecedente rispetto al suo intervento: Cass. pen., sez. IV, 11 ottobre 2007, n. 41317, Raso ed
altri, cit., in cui si afferma “in tema di colpa medica nell’attività di équipe, ciascuno dei soggetti che si dividono il lavoro risponde dell’evento illecito, non solo per non aver osservato le
regole di diligenza, prudenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte,
ma altresì per non essersi fatto carico dei rischi connessi agli errori riconoscibili commessi
nelle fasi antecedenti o contestuali al suo specifico intervento”. V. anche Cass. pen., sez. IV,
12 luglio 2006, n. 33619, Iaquinta, in Riv. it. med. leg., 2007, p. 188, in cui i giudici della Suprema Corte sono chiamati a pronunciarsi in ordine alla penale responsabilità di due anestesisti (I.U. e B.R.) imputati di aver provocato la morte di una partoriente, durante il taglio cesareo, a seguito dell’erronea esecuzione della manovra di intubazione. Nel corso di tale manovra, infatti, gli anestesisti avevano per ben due volte introdotto la cannula nell’esofago,
anziché in trachea, determinando uno stato di anossia prolungata, a cui era conseguita la
morte della paziente. Dopo la prima manovra di intubazione, al manifestarsi dei primi sintomi di sofferenza da ipossigenazione, i due sanitari erano stati indotti ad una nuova introduzione del tubo nella trachea; ma, nonostante il secondo tentativo, la situazione era degenerata in arresto cardiaco, che aveva portato al decesso della paziente. In particolare, i giudici
si sono occupati dei profili di responsabilità del secondo anestesista, il quale “non si è avveduto della prima manovra di intubazione eseguita dal B., ed ha provveduto ad effettuare la
seconda erronea […]; sicché ha partecipato attivamente alle due fasi dell’anestesia, entrambe
errate […]. Ciò costituisce elemento tranciante rispetto all’affermazione dello I. secondo cui
questi sarebbe intervenuto solo allorquando si era già verificato il decesso della M. (affermazione peraltro priva di qualsiasi fondamento alla luce di quanto accertato in sede di merito
dalla Corte territoriale: quest’ultima ha precisato, infatti, che la situazione degenerò in arresto cardiaco dopo la seconda introduzione del tubo nella trachea della M.)”. In sostanza,
quindi, ad avviso della Corte, il secondo anestesista avrebbe dovuto avvedersi dell’errore del
sanitario che lo ha preceduto avendo la medesima specializzazione. Sempre nello stesso senso
v. altresì Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2005, n. 18548, Miranda ed altri, cit.; Cass. pen., sez.
IV, 26 maggio 2004, n. 39062, Picciurro ed altri, cit.
102
CAPITOLO SECONDO
teristiche tecniche delle mansioni affidate al singolo medico ed al ruolo
dallo stesso assunto nel contesto del trattamento. Appare di tutta evidenza, infatti, che la difficoltà delle mansioni attribuite a ciascun medico
non potrà non influire, in modo inversamente proporzionale, sull’esercizio del dovere di controllo, e quindi sulla rilevabilità dell’errore: più impegnative saranno le attività demandate al singolo sanitario, minore sarà
il controllo che lo stesso potrà esercitare sull’altrui operato. D’altro
canto, anche l’effettivo grado di inserimento del sanitario nel contesto
del trattamento terapeutico influisce innegabilmente sulla possibilità
dello stesso di rilevare l’errore: il professionista che abbia assunto un
ruolo assolutamente marginale, non potrà certamente avere una compiuta conoscenza della storia clinica del paziente o delle scelte terapeutiche effettuate, e tale difetto cognitivo potrebbe riflettersi sulle possibilità
e sulle modalità di intervento in caso di errore altrui212.
Si tratta, invero, di circostanze che generalmente non vengono prese
in considerazione dalla giurisprudenza che ritiene evidenti e non-settoriali (e, quindi, emendabili) gli errori altrui indipendentemente dalla valutazione della situazione concreta in cui il medico si è trovato ad operare e, soprattutto, delle sue competenze. Tale difetto di accertamento è,
ad esempio, nitidamente rinvenibile nelle decisioni in cui si afferma la responsabilità del medico nonostante abbia operato in una situazione di
carenza strutturale ovvero del medico specializzando per non essersi
astenuto dall’eseguire le direttive impartite dal superiore, cagionando in
tal modo un evento infausto per la vita o l’integrità fisica del paziente.
Nel primo caso, infatti, generalmente non viene riconosciuta alcuna efficacia scusante alle carenze strutturali ed organizzative facendosi, invece,
ricadere sul medico un obbligo di trasferimento del paziente; mentre nel
secondo caso nessuna valutazione viene compiuta in ordine alla capacità
dello specializzando, da un lato, di rilevare i rischi per la salute del paziente (tenuto conto delle sue ancora limitate conoscenze tecniche) e,
dall’altro, di opporsi efficacemente agli ordini imposti dal superiore gerarchico.
11. Cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti
Da quanto sin qui osservato è emerso che, in un’epoca (quale quella
attuale) di crescente tecnicizzazione dell’ars medica, l’intervento diagnostico o terapeutico richiede la necessaria partecipazione di più sanitari,
con la conseguenza che l’evento lesivo che si verifichi ai danni del pa212 C.
CANTAGALLI, Brevi cenni, cit., p. 2843 ss.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
103
ziente è quasi sempre frutto di una pluralità di condotte colpose: o perché i medici che hanno cooperato (contestualmente o in successione)
hanno tutti violato le leges artis eseguendo in modo erroneo l’atto di loro
competenza, ovvero perché un medico ha compiuto materialmente l’errore ed i suoi colleghi non hanno impedito l’evento lesivo, omettendo il
dovuto controllo. In entrambi i casi le condotte hanno concorso a cagionare l’evento lesivo ai danni del paziente. Rispetto ad esse, si pone l’ulteriore problema di verificare se il medico debba essere chiamato a rispondere dell’evento a titolo concorsuale (ex art. 113 c.p.), ovvero ai sensi
della fattispecie monosoggettiva di parte speciale (artt. 589 o 590 c.p.).
La soluzione presuppone il preliminare esame di un annoso, ed ancora fervido, dibattito dottrinale circa l’effettiva portata incriminatrice
dell’art. 113 c.p. e circa la possibilità di distinguere tra la cooperazione
nel delitto colposo ed il concorso di cause colpose indipendenti. La questione, oggetto di nutriti – seppur frammentari – studi di carattere generale213, sconta, al contrario, una scarna o quasi assente, elaborazione nello
specifico ambito della responsabilità medica.
Come noto, l’art. 113 c.p. disciplina l’istituto della cooperazione colposa, inserito per la prima volta nel nostro ordinamento dal codice
Rocco, sancendo l’eguale responsabilità di tutti coloro che abbiano colposamente cooperato alla realizzazione di un delitto colposo. Pur avendo
risolto in radice la questione dell’ammissibilità di un concorso nel delitto
colposo, la norma ha tuttavia lasciato aperte diverse questioni interpretative. Già all’indomani della sua entrata in vigore, infatti, gli interpreti si
sono divisi tra i fautori di una sua funzione incriminatrice214 e quelli che
invece ne sostenevano una funzione di mera disciplina215. Secondo i sostenitori di quest’ultimo orientamento, l’art. 113 c.p. non avrebbe alcuna
attitudine incriminatrice, limitandosi ad estendere l’applicabilità di al213 In realtà, negli studi che se ne sono occupati, la cooperazione colposa è spesso relegata ai margini della teoria del concorso di persone nel reato, quale forma “impropria” di
concorso. La dottrina, infatti, prevalentemente orientata nell’accomunare i due fenomeni, del
concorso doloso e della cooperazione colposa, entro schemi unitari, piuttosto che a metterne
in evidenza il profondo divario strutturale, ha finito, da un lato, con il lasciare in ombra le
note tipiche della cooperazione colposa, e, dall’altro, con l’adattarvi principi che, enucleati
dalla disciplina della partecipazione dolosa, non sono invece compatibili con la struttura della
colpa. In questo senso, v. G. COGNETTA, La cooperazione nel delitto colposo, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1980, p. 65.
214 M. SPASARI, Profili di teoria generale del reato in relazione al concorso di persone nel
reato colposo, Milano, 1957, p. 79; A.R. LATAGLIATA, Cooperazione nel delitto colposo, in Enc.
dir., vol. X, Milano, 1962, p. 615; G. COGNETTA, La cooperazione, cit., p. 71 ss.; F. MANTOVANI,
Diritto penale, cit., p. 543.
215 M. GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano, 1957,
p. 112.
104
CAPITOLO SECONDO
cune norme di disciplina del concorso a comportamenti già tipici alla
stregua delle fattispecie colpose di parte speciale. La principale giustificazione che viene addotta a sostegno di questa ricostruzione va ravvisata
nella particolare struttura degli illeciti colposi che, secondo questo indirizzo, sarebbero tutti “causalmente orientati” e gravitanti, quindi, intorno al mero disvalore dell’evento lesivo216. Se così è, non vi sarebbe bisogno di una norma che, al pari dell’art. 110 c.p., assolva ad una funzione
di estensione della tipicità, in quanto, nell’ambito della fattispecie colposa monosoggettiva, assumerebbe rilievo qualsiasi condotta, purché
causale rispetto al verificarsi dell’evento.
Si è, però, osservato che le premesse da cui muove la concezione che
riduce la portata applicativa dell’art. 113 c.p. non trovano compiuto riscontro sul terreno del diritto positivo ove, in realtà, si rinvengono (seppure in numero minore rispetto a quelle “causalmente orientate”) anche
fattispecie colpose di mera condotta e a forma vincolata, rispetto alle
quali, quindi, sicuramente la disposizione in esame potrebbe e dovrebbe
assolvere ad un’autonoma funzione incriminatrice.
In ogni caso, rimarrebbe comunque da verificare se, anche con riferimento alle fattispecie causalmente orientate, l’art. 113 c.p. possa assumere una funzione di estensione della tipicità217. In tal senso, alcuni autori hanno sottolineato l’esistenza di una sia pur limitata funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. anche per gli illeciti colposi causalmente
orientati fra i quali, senza alcuna pretesa di completezza, si possono ricordare i casi dei reati omissivi impropri e delle condotte realizzate in
violazione di norme secondarie ovvero di condotte c.d. neutre. Con riferimento alla prima ipotesi, si è sostenuto che l’art. 113 c.p. potrebbe consentire l’incriminazione di un contributo positivo, di per sé atipico – realizzato da un soggetto estraneo alla posizione di garanzia – prestato per
la realizzazione di un reato commesso mediante omissione colposa218. Per
216 M. GALLO, Lineamenti di una teorica, cit., p. 117 e 125.
217 Nel senso dell’efficacia estensiva dell’art. 113 c.p. rispetto
a condotte atipiche, agevolatrici, incomplete o di semplice partecipazione è orientata anche la giurisprudenza di legittimità. In questo senso v. Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 2009, n. 1786, Tomaccio ed altri,
cit.; Cass. pen., sez. IV, 2 novembre 2011, n. 1428, Gallina, in Dir. e giust., 20 dicembre 2012;
Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 2012, n. 36280, Forlani, in Cass. pen., 2013, p. 3015, con nota
di M. ZINCANI, La cooperazione nel delitto colposo. La portata incriminatrice dell’art. 113 c.p.
nei reati a forma libera, ivi, 2014, p. 163 ss.; F. PIQUÈ, La funzione estensiva della punibilità
dell’art. 113 c.p., ivi, 2014, p. 882 ss.
218 In tal senso cfr. G. GRASSO, Commento all’art. 113 c.p., in Commentario sistematico
al codice penale (artt. 85-149), II, M. ROMANO, G. GRASSO, Milano, 2012, p. 233, secondo il
quale “nei reati omissivi impropri è solo grazie all’art. 113 c.p. che risulta possibile sanzionare
il contributo positivo alla condotta omissiva del garante, mentre una compartecipazione
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
105
quanto, invece, concerne il secondo gruppo di ipotesi, le norme sulla
cooperazione colposa avrebbero la funzione di sottolineare una tipicità
che potrebbe essere definita di “secondo livello”, consentendo di incriminare condotte che, pur avendo contribuito colposamente a cagionare
un evento lesivo, non potrebbero assumere autonomo rilievo ai sensi
della fattispecie di parte speciale219. Seguendo questa impostazione, non
rientrerebbero nell’ambito di applicazione della fattispecie monosoggettiva, e conseguentemente assumerebbero rilevanza solo grazie all’applicazione dell’art. 113 c.p., le condotte realizzate in violazione di regole cautelari c.d. secondarie, che non si propongono in via diretta l’impedimento dell’evento, ma che sono piuttosto dirette al controllo di condotte
colpose di terzi220. Secondo altri autori, infine, l’art. 113 c.p. manterrebbe
una funzione incriminatrice riguardo a condotte ancora neutre, rispetto
alla fattispecie di parte speciale, caratterizzate cioè da una pericolosità
ancora astratta ed indeterminata, priva di un’immediata connessione di
rischio rispetto al tipo di evento che hanno contribuito a cagionare221.
La giurisprudenza è in modo sostanzialmente unanime orientata nel
senso di riconoscere portata estensiva all’art. 113 c.p. giungendo fino a
riconoscergli un’efficacia incriminatrice anche rispetto a condotte “atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione” che non sono
causali rispetto al verificarsi dell’evento e che, quindi, per assumere significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte realizzate dai
concorrenti222.
omissiva da parte di un soggetto obbligato all’impedimento dell’evento risulterebbe invece
già sanzionata sulla base della clausola di equivalenza contenuta nell’art. 41 cpv., c.p.”. Nello
stesso senso F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, cit., p. 183, il quale propone anche
il seguente esempio: “A, infermiere, che si è impegnato a praticare a B, gravemente ammalato,
alcune fleboclisi. La moglie di A, per mera trascuratezza, riesce a convincere il marito ad accompagnarla a far compere, ritardando così l’appuntamento con B. Quest’ultimo, in conseguenza della ritardata terapia, è colto da una crisi cardiaca e muore”. L’Autore, invocando,
appunto, la funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. ritiene che in questa ipotesi debba ritenersi responsabile di omicidio colposo anche la moglie di A (pur non essendo ella garante).
219 F. ALBEGGIANI, La cooperazione colposa, in Studium Iuris, 2000, p. 517.
220 G. COGNETTA, La cooperazione, cit., p. 88 ss.
221 A.R. LATAGLIATA, Cooperazione, cit., p. 615; L. RISICATO, Combinazione e interferenza
di forme di manifestazione del reato, Milano, 2001, p. 139. Si riporta a tal proposito l’esempio
del noleggiatore che fornisca un’autovettura ad una persona nella consapevolezza che questa
userà l’automobile per una gara di velocità in pieno centro abitato. La prima condotta,
quindi, non avrebbe ancora realizzato il rischio rispetto al tipo di evento che ha, nondimeno,
contribuito a cagionare e, di conseguenza, non potrebbe essere ritenuta tipica ai sensi della
fattispecie di parte speciale. Nello stesso senso v. C. BRUSCO, L’effetto estensivo della responsabilità penale nella cooperazione colposa, in Cass. pen., 2014, p. 2882.
222 In questo senso, in particolare, v. Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 2012, n. 36280, Forlani, cit.
106
CAPITOLO SECONDO
A questi sforzi di riconoscere, anche rispetto a fattispecie colpose
causalmente orientate, una funzione incriminatrice all’art. 113 c.p. sono
state mosse alcune obiezioni. Con riferimento, innanzitutto, alle ipotesi
di contributo positivo, prestato da un soggetto privo della posizione di
garanzia, alla commissione di un reato omissivo improprio, è stato rilevato come una sua incriminazione, grazie alle norme sulla cooperazione
colposa, comporterebbe una intollerabile dilazione della punibilità ed
una sostanziale violazione del principio di legalità223. Secondariamente, è
stata criticata la tesi volta a ritenere atipiche per la fattispecie di parte
speciale, e quindi punibili solo in forza dell’art. 113 c.p., le condotte costituenti violazione di norme c.d. secondarie, sulla scorta del rilievo che
“il disvalore connesso alla violazione di obblighi cautelari c.d. secondari
– e cioè, obblighi di controllo o sorveglianza nei confronti di un contegno altrui – è quello che tipicamente connota la condotta omissiva: in altri termini il rimprovero penale si riferisce ad una omissione di controllo
o di vigilanza che ha per effetto il mancato impedimento del reato del
terzo che si doveva impedire. Ricorre, dunque, lo schema del reato omissivo improprio colposo: cioè di un modello di fatto delittuoso, direttamente riconducibile alla fattispecie monosoggettiva di parte speciale
senza che al riguardo muti qualcosa a seconda che l’obbligo di condotta
disatteso abbia a contenuto il diretto impedimento dell’evento lesivo, ovvero, l’impedimento di una condotta altrui causativa a sua volta dell’evento da evitare”224. Si è, inoltre, sottolineato che quest’ultima tesi restringerebbe in modo eccessivo il novero delle regole cautelari rilevanti
in sede di cooperazione colposa, in quanto le regole “secondarie” non
sono le uniche che possono fondare una responsabilità a titolo di concorso nel delitto colposo, che può avere origine anche dalla comune violazione di una regola la cui osservanza gravi su più soggetti225.
Le problematiche attinenti all’individuazione della funzione dell’art.
113 c.p. non esauriscono le questioni interpretative della norma. Altro
spinoso nodo concerne, infatti, gli elementi strutturali della cooperazione
colposa e la sua distinzione, da un lato, dal concorso doloso e, dall’altro,
dal concorso di cause colpose indipendenti. Nonostante qualche opinione contraria, la prevalente dottrina è giunta alla conclusione che la
223 G. INSOLERA, voce Concorso di persone nel reato, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988,
p. 47, il quale osserva che se in queste ipotesi si applicasse l’art. 113 c.p. si finirebbe per punire un soggetto per un fatto che egli non ha materialmente commesso e che non aveva neppure l’obbligo giuridico di impedire.
224 G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 609 ss.; G. GRASSO, Commento all’art.
113 c.p., cit., p. 202.
225 G. GRASSO, Commento all’art. 113 c.p., cit., p. 198.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
107
cooperazione colposa si caratterizzi per un nesso psichico, dato dalla coscienza e volontà di accedere con la propria condotta a quella altrui (necessariamente colposa), che si differenzierebbe da quello intercorrente
nel concorso doloso per il solo fatto di non investire in alcun modo l’evento realizzato. In carenza di detto nesso psicologico non sarebbe più
configurabile una cooperazione colposa, ma, piuttosto, un concorso di
cause colpose indipendenti, rientrante nel disposto dell’art. 41, comma 3,
c.p.226.
Se, come visto, il prevalente orientamento dottrinale, ma soprattutto
giurisprudenziale, è nel senso di ritenere che, per aversi cooperazione
colposa, sia necessario un nesso psichico, altrettanto non può dirsi con
riguardo al contenuto di tale nesso. Con riferimento a quest’ultimo profilo la dottrina maggioritaria ritiene sufficiente la consapevolezza dell’altrui condotta227, mentre secondo una diversa impostazione la consapevolezza deve investire anche il carattere colposo della condotta del concorrente228.
Non sono mancati, tuttavia, autori che, nel tentativo di valorizzare la
natura normativa della colpa, hanno escluso la necessità di un nesso psicologico nella cooperazione. Si è a tal proposito osservato che, se è vero,
in chiave generale, che la colpa non si risolve in un dato psichico, ma in
un giudizio di qualificazione normativa del comportamento alla stregua
di determinate regole di diligenza o prudenza, il carattere colposo di un
atto atipico di cooperazione non può che discendere anch’esso dalla violazione di un dovere di natura cautelare229. Ne consegue, pertanto, che
un’efficace limitazione della cooperazione colposa potrebbe essere collegata già al tipo di regola prudenziale violata ed all’oggetto del suo scopo
preventivo230. Il ragionamento da cui muovono questi Autori, seppure
226 Nella
manualistica v. F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 543 ss. In giurisprudenza
v. Cass. pen., sez. IV, 30 marzo 2004, n. 45069, Casciotti ed altri, in CED rv. 230280, secondo
la quale “la cooperazione nel delitto colposo si caratterizza per un legame psicologico tra le
condotte dei concorrenti, nel senso che ciascuno dei compartecipi deve essere consapevole
della convergenza della propria condotta con quella altrui, senza però che tale consapevolezza investa l’evento richiesto per l’esistenza del reato: ed è questo legame che consente di
distinguere la cooperazione dal concorso di cause colpose indipendenti”. Nello stesso senso
v. Cass. pen., sez. IV, 12 novembre 2009, n. 48318, Gigli ed altri, in CED rv. 245736; Cass.
pen., sez. IV, 28 gennaio 2010, n. 3584, Capodiferro, in CED rv. 246304.
227 F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, cit., p. 187; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 544.
228 R. LATAGLIATA, cooperazione, cit., p. 615.
229 G. COGNETTA, La cooperazione, cit., p. 88; F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 453.
230 F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 453, per il quale, peraltro, la distinzione fra cause colpose
indipendenti e cooperazione colposa non ha alcuna rilevanza. L’Autore, infatti, ritiene che rispetto all’art. 113 c.p. possono rilevare due tipologie di norme cautelari. Una prima categoria
108
CAPITOLO SECONDO
con importanti distinguo, è che la cooperazione colposa è configurabile
quando il principio di affidamento non dispieghi i propri effetti e la regola cautelare assuma direttamente a contenuto il comportamento altrui.
È, infatti, inconfutabile che il principio di affidamento operi sul presupposto che i terzi rispetteranno le cautele che competono loro, nondimeno, al verificarsi del presupposto che essi non potranno o vorranno rispettarle, sorgono in capo al soggetto obblighi verso terzi (c.d. obblighi
relazionali) finalizzati a controllarne ed eliminarne gli effetti dannosi231.
Oggetto della cooperazione colposa sarebbero le regole cautelari
c.d. “secondarie”, che si pongono in diretta connessione non tanto con
l’evento, ma, piuttosto, con l’altrui comportamento che sono, appunto,
dirette ad impedire. L’art. 113. c.p. consentirebbe, quindi, di riconoscere
rilevanza penale alla violazione di dette regole cautelari e si distinguerebbe, così, dalla colpa monosoggettiva nella quale le regole cautelari si
pongono in diretta connessione di rischio con l’evento232.
Sempre nello stesso solco interpretativo, ma con argomentazioni
maggiormente condivisibili, si è evidenziato che gli obblighi relazionali
scaturiscono dalla eccezionale assenza di operatività del principio di affidamento233. Il principio di affidamento, che come già in precedenza evidenziato, trova ordinaria vigenza nei rapporti intersoggettivi, può, tuttavia, subire delle eccezioni al verificarsi di situazioni concrete (e, quindi,
che comprende le cautele che si ricollegano direttamente alla pericolosità della stessa condotta dell’agente e nel cui spettro rientra l’evento tipico. Si tratta di regole deputate a neutralizzare una data situazione rischiosa, che possono essere poste a carico di tanti soggetti
quanti sono quelli a cui fa capo la situazione. A caratterizzare la cooperazione sarebbe quindi
una pluralità di negligenze causali, anche eterogenee ed anche reciprocamente autonome (che
nella ricostruzione tradizionale costituirebbe, invece, un concorso di cause indipendenti).
L’Autore, individua, poi una seconda categoria di regole cautelari di secondo grado, dirette
cioè a prevenire la produzione dell’evento tipico ad opera di condotte altrui.
231 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 520.
232 G. COGNETTA, Concorso di colpe, cit., p. 88 ss. Per l’Autore le regole cautelari secondarie sorgerebbero quando viene meno l’applicabilità del principio di affidamento. In
modo, non condivisibile, l’Autore colloca questo momento allorquando la condotta altrui sia
rappresentabile al soggetto agente. Criterio, quello della “rappresentabilità” che appare eccessivamente ampio, dal momento che la condotta negligente altrui è astrattamente sempre
prevedibile e si finirebbe, così, per inficiare l’operatività del principio di affidamento. In
senso parzialmente difforme v. F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 451 ss., per il quale, l’art. 113 c.p.
non richiede alcuna componente psicologica e una sufficiente delimitazione di tale fattispecie
si potrebbe ottenere estendendo alla fattispecie concorsuale i criteri di correlazione tra la
condotta negligente (previamente individuata) e l’evento, negli stessi termini in cui essi operano in relazione alle fattispecie monosoggettive. Quanto al suo contenuto precettivo la condotta di cooperazione dovrà essere contraria almeno ad una cautela doverosa che secondo
l’Autore può assumere due diversi contenuti, come già evidenziato supra alla nota 256.
233 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 520.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
109
non della mera prevedibilità dell’errore altrui) che facciano sorgere un
obbligo di controllo sull’operato altrui234. Più specificatamente, nell’ambito degli obblighi relazionali questa dottrina distingue tre diverse tipologie235. Alla prima tipologia possono essere ricondotti i c.d. obblighi sinergici o complementari, caratterizzati da cautele da adottare in coordinamento con il comportamento diligente di altri, in quanto la propria
condotta singolarmente considerata non sarebbe sufficiente a generare
un rischio capace di tradursi in un evento lesivo: si tratterebbe di quegli
obblighi che danno luogo alla c.d. causalità cumulativa, in cui la condizione colposa posta in essere da taluno è da sola carente dal punto di vista dell’idoneità lesiva, ma può essere compensata dall’interazione con altri fattori236. La seconda tipologia di obblighi relazionali può essere definita di obblighi accessori, ovverosia di quelle cautele dirette a contenere i
rischi connessi all’esercizio della propria attività che altri possono sfruttare per commettere illeciti237. Infine, l’ultima tipologia è quella degli obblighi eterotropi, cioè di quegli obblighi di controllo del comportamento
altrui o di informazione che sorgono in particolari situazioni, connesse,
ad esempio, alla posizione di sovraordinazione rivestita dal soggetto obbligato, ovvero alla successione nella posizione di garanzia238.
Appare alquanto interessante la trasposizione della summenzionata
tripartizione al campo dell’attività medico-chirurgica svolta con divisione
del lavoro, rispetto alla quale, nei casi in cui non operi il principio di affidamento, sono sicuramente configurabili obblighi relazionali. In tal
senso, al fine di individuare la diversa tipologia di obblighi configurabili,
234 Non può, quindi, accogliersi il diverso orientamento (già richiamato supra § 5), affermatosi in giurisprudenza e accolto da una parte della dottrina, secondo cui nei rapporti intersoggettivi non vige il principio di affidamento, essendo i partecipanti astretti da un obbligo
di controllo primario derivante dal dovere di “prudente interazione”. In giurisprudenza v.
Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 2009, n. 1786, Tomaccio ed altri, cit. In dottrina v. L. RISICATO,
Il concorso colposo, cit., p. 519
235 L. CORNACCHIA, Concorso di cause, cit., p. 521 ss.; ID., La cooperazione colposa come
fattispecie di colpa per inosservanza, cit., p. 829 ss.
236 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 521; S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE
SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 346 e 731, i quali riportano quale esempio di causalità cumulativa quello dell’infermiera A che, violando per disattenzione le prescrizioni,
inietta al paziente una dose di farmaco superiore al dovuto, ma non tale da ledere la salute.
L’infermiera B, credendo che il farmaco non sia ancora stato assunto (e quindi violando la regola che impone di controllare le cartelle cliniche, gli orari, la divisione delle incombenze
ecc.), inietta al paziente una dose conforme alle prescrizioni. Tuttavia, il cumulo delle due
quantità di farmaco provoca danni gravi al soggetto passivo.
237 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 522; S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE
SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 732.
238 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 525 ss., il quale richiama l’esempio del
capo-équipe al quale, in ragione del dovere giuridico attinente al suo status riconosciuto dal-
110
CAPITOLO SECONDO
è necessaria in via preliminare una distinzione tra i diversi modelli di divisione del lavoro che possono configurarsi nell’attività medica. Infatti,
come già evidenziato, (v. supra Cap. I § 1), nell’ambito dell’attività plurisoggettiva sono configurabili tre diversi modelli di collaborazione, fondati rispettivamente su un rapporto gerarchico tra i partecipanti al trattamento sanitario, su un rapporto paritetico o, infine, su un’organizzazione multidisciplinare diacronica, che si caratterizza per lo svolgimento,
da parte dei sanitari, di attività in successione temporale, ma unificate dal
comune fine del buon esito del trattamento239.
Orbene, con riferimento alle attività organizzate con divisione dei
compiti in senso orizzontale (di cui sicuramente l’esempio più significativo è quello dell’èquipe chirurgica), è dato rinvenire obblighi sia complementari sia eterotropi, in quanto i soggetti hanno l’obbligo di coordinare la propria attività con quella altrui ed inoltre, in presenza di peculiari situazioni che fanno ritenere che il collega non rispetterà le regole
precauzionali, sono gravati di obblighi di controllo sull’operato altrui.
Nel caso, invece, di attività organizzate gerarchicamente, nelle quali si assiste ad una divisione del lavoro in senso verticale, è individuato un soggetto sovraordinato che è gravato da obblighi eterotropi di controllo. Infine, appare indubbio che anche nel caso di attività multidisciplinari diacroniche i partecipanti siano gravati, oltre che da obblighi autonomi,
anche da obblighi relazionali, che impongono agli stessi di controllare
l’attività del collega e di correggere eventuali errori che siano evidenti e
non-settotiali.
Tirando le fila del discorso, si potrebbe concludere che la cooperazione colposa può concretizzarsi secondo il modello della causalità cumulativa, ovvero come incauta produzione di una situazione stereotipata
in cui altri inseriscono la propria condotta delittuosa, nonché, infine,
come mancato adempimento di incombenze proprie nelle relazioni di sovraordinazione/subordinazione gerarchica, ovvero residuate dal trasferimento di competenze240. Al di fuori di queste situazioni rimarrebbe, invece, spazio per la configurabilità del concorso di cause colpose indipendenti, in cui rientrerebbero i casi nei quali più persone, autonomamente
l’una dall’altra, violando diverse norme cautelari, producano un unico
evento lesivo241. In definitiva, le due fattispecie di concorso di cause coll’ordinamento, compete il controllo nel corso dell’intervento chirurgico sull’operato dei colleghi; nonché S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit.,
p. 730.
239 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 527 ss.
240 S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 733.
241 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 541; S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE
SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 734.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
111
pose indipendenti e di cooperazione colposa si differenzierebbero in
quanto la prima evidenzia l’inscindibile nesso tra ciascun obbligo ed il
soggetto portatore dello stesso, in quanto la regola cautelare è finalizzata
ad impedire il verificarsi di un determinato evento, mentre la seconda riflette l’aspetto interrelazionale, essendo le regole cautelari rivolte alla
condotta altrui (a causa dell’eccezionale inoperatività del principio di affidamento) e, solo in via mediata, ad impedire l’evento lesivo242.
Orbene, nonostante l’affacciarsi di queste nuove ricostruzioni della
cooperazione colposa, certamente più attente, da un lato, alla nuove teoriche sulla colpa e, dall’altro, alle peculiarità connesse alle strutture complesse, la giurisprudenza continua ad individuare, quale elemento discretivo tra cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti,
il legame psicologico tra concorrenti243. Tale assunto trova conferma nelle
sentenze della Corte di Cassazione la quale, nelle pur rare occasioni in
cui ha affrontato il problema della configurabilità della cooperazione colposa in campo medico, ha individuato, la “consapevolezza dell’altrui
condotta” quale elemento differenziatore fra la fattispecie monosoggettiva e quella concorsuale244.
Dall’esame delle sentenze pronunciate in materia sembra potersi
trarre un indirizzo di massima che riconosce la cooperazione colposa
nelle ipotesi di attività eseguite in un unico contesto spazio-temporale (e,
quindi, in particolare in équipe) ovvero, anche in tempi diversi, ma con
attività tra loro coordinate, mentre ritiene configurabile un concorso di
cause colpose indipendenti quando più medici, in tempi diversi, intervengono nella cura del paziente, senza un coordinamento fra le loro atti242 L. CORNACCHIA, Concorso di colpe, cit., p. 541; ID., La cooperazione colposa come fattispecie di colpa, cit., p. 837.
243 Per l’affermazione da parte della Corte di Cassazione della configurabilità della cooperazione colposa nel campo medico v. Cass. pen., sez. IV, 7 giugno 2004, n. 25311, Sidoti ed
altro, in Riv. pen., 2004, p. 109, nella quale i giudici hanno osservato che “… la cooperazione
è ipotizzabile anche nelle ipotesi riguardanti le organizzazioni complesse quali la sanità, le imprese e i settori della PA nei cui atti confluiscono condotte poste in essere, anche in tempi diversi, da soggetti tra i quali non v’è rapporto diretto; in tali ipotesi esiste comunque il legame
psicologico previsto per la cooperazione colposa perché ciascuno e conscio che altro soggetto
(medico, pubblico funzionario, dirigente, ecc.) ha partecipato o parteciperà alla trattazione
del caso”. Sulla necessità del legame psicologico per la configurabilità della cooperazione cfr.
Cass. pen., sez. IV, 10 marzo 2005, n. 44623, Budano, in Riv. pen., 2006, p. 315; Cass. pen.,
sez. IV, 09 luglio 2004, n.40205, Bettin, in Riv. pen., 2005, p. 1229.
244 Sul piano processuale, peraltro, la rilevanza della questione sfuma ulteriormente, dal
momento che, con orientamento costante, la Corte di Cassazione afferma che non si verifica
violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, sancito dall’art. 521 c.p.p., in
ipotesi in cui, pur rimanendo identico il fatto, fosse stata contestata la cooperazione colposa
e la condanna venga invece pronunciata per concorso di cause indipendenti e viceversa.
112
CAPITOLO SECONDO
vità, con azioni che sono l’una autonoma rispetto all’altra245. Proprio l’agire contestuale darebbe luogo al c.d. “intreccio cooperativo” dal quale
discenderebbe in capo ai medici l’obbligo di reciproco controllo e, la cui
violazione dà appunto luogo ad una responsabilità ex artt. 40 e 113
c.p.246.
A conclusione di questa breve indagine sugli orientamenti in materia di cooperazione colposa e concorso di cause indipendenti nell’attività
medica, non si può prescindere dall’osservare che non sempre la pluralità
di condotte erronee realizzate dai medici dà luogo ad un concorso. Fenomeno del tutto antitetico rispetto a quest’ultimo è, infatti, quello della
c.d. causalità interrotta o sorpassante in cui, in realtà, solo una delle condotte è causale rispetto al verificarsi dell’evento, ai sensi dell’art. 41,
comma 2, c.p.247. È inconfutabile, infatti, che tanto la cooperazione colposa quanto il concorso di cause colpose indipendenti presuppongano
che tutte le condotte risultino causa del verificarsi dell’evento. Quando,
al contrario, la condotta di una sanitario sia stata da sola sufficiente alla
realizzazione dell’evento lesivo ai danni del paziente, dovrà trovare applicazione la diversa disciplina dell’art. 41, comma, 2 c.p., il quale riconosce a tale condotta efficacia interruttiva del nesso eziologico248.
Questa norma, tacciata sin dalla sua entrata in vigore, di formulazione contraddittoria e assolutamente generica, ha dato luogo a differenti
interpretazioni da parte della dottrina, fra le quali ne sono, in particolare,
enucleabili due. Secondo la prima impostazione, rimasta minoritaria, le
cause “da sole sufficienti” contemplate dalla disposizione sarebbero le
sole cause autonome che attivano un nuovo processo eziologico, escludendo l’efficacia causale della prima condotta249. Il prevalente orienta245 In questo senso v. Cass. pen., sez. IV, 22 gennaio 2007, n. 14130, Pastorelli, in CED
rv. 236191; Cass. pen., sez. IV, 14 dicembre 2006, n. 4177, G., in Guida al dir., 2007, fasc. 10,
p. 66.
246 Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 2009, n. 1786, Tomaccio ed altri, cit.
247 Cfr. in questo senso L. CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti (Parte
I), cit., p. 653, il quale rileva che “il fenomeno (della causalità interrotta) estraneo al concorso
di cause colpose indipendenti, ne descrive l’estremo confine: il concorso esiste fintanto che
permane il nesso che avvince le condotte reciprocamente e in direzione dell’evento, oltre questo limite uno solo dei fattori è da ritenersi causale”.
248 Sulle diverse teorie succedutesi in relazione all’interpretazione dell’art. 41, comma
2, c.p. si veda nella manualistica S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 327 ss.; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 262 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 153 ss. Cfr. inoltre L.CORNACCHIA, Il concorso di cause colpose indipendenti (Parte I), cit., p. 657 ss.; R. BLAIOTTA, La causalità nella responsabilità professionale,
cit., p. 16 ss.
249 Per un riassunto della critiche mosse a questa concezione vedi la bibliografia citata
alla nota precedente.
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
113
mento, invece, afferma che le cause di cui all’art. 41, comma 2, non determinerebbero un processo eziologico autonomo rispetto a quello attivato dalla condotta iniziale (che quindi rimarrebbe condicio sine qua non
del verificarsi dell’evento), ma interverrebbero su quest’ultimo deviandone il corso in modo anomalo ed imprevedibile. L’art. 41, cpv., c.p.,
quindi, dovrebbe essere letto come disposizione limitativa della portata
del principio dell’equivalenza delle condizioni sancito dal primo comma,
in quanto introdurrebbe una disciplina di quelle cause, definite come
straordinarie o eccezionali, che si innestano sul decorso eziologico attivato dalla condotta precedente deviandolo e determinando la verificazione di un evento del tutto imprevedibile, secondo la miglior scienza ed
esperienza250. Quest’ultimo indirizzo sembra essere stato accolto anche
dalla giurisprudenza la quale, nonostante il frequente utilizzo di formule
contraddittorie251, ritiene che la disposizione codicistica debba essere
letta in funzione limitativa rispetto al principio di equivalenza delle condizioni espresso dal primo comma.
Venendo all’attività medico-chirugica, e soprattutto alle ipotesi di
divisione del lavoro, deve darsi atto del fatto che la giurisprudenza è in
250 L’art.
41, comma 2, è stato utilizzato anche dai sostenitori della teoria dell’imputazione obiettiva come legittimazione normativa della stessa. Secondo quest’ultimo orientamento, la disposizione ricomprenderebbe, oltre all’accertamento del nesso causale, la predisposizione di criteri per una selezione dei rischi, per cui l’ascrizione del fatto andrebbe
esclusa in caso di difetto di un rischio riprovato dall’ordinamento ovvero di difetto di rapporto di rischio tra il pericolo realizzato dall’agente e l’evento verificatosi o, infine, di riduzione del rischio: situazioni nelle quali l’intervento di cause sopravvenute determina la realizzazione di un rischio nuovo o diverso da quello instaurato dalla condotta precedente. In tal
senso cfr. V. MILITELLO, Rischio e responsabilità, Milano, 1988, p. 246 ss.
251 Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002, n. 27, Franzese, cit., in cui la Corte, seppure
a margine delle più generali considerazioni in materia di causalità, con riferimento all’art. 41,
comma 2, c.p. rileva che “la teoria condizionalistica è temperata, ma in realtà ribadita mediante il riferimento, speculare ed in negativo, alla causalità umana, quanto alle serie sopravvenute, autonome e indipendenti da sole sufficienti a determinare l’evento”. Anche le Sezioni
Unite sembrano essere incorse in quella confusione terminologica che si segnalava: da un lato
si configura l’art. 41, comma 2, c.p. come limite alla teoria della condicio sine qua non accolta
dal primo comma, dall’altro, poi, si tratteggiano le cause da sole sufficienti come “cause autonome ed indipendenti”. V. anche Cass. pen., sez. IV, 25 febbraio 2000, 2325, Altieri ed altri, cit., nella quale la Corte afferma “il nesso causale tra la condotta omissiva dell’agente e l’evento può essere escluso e la condotta degradata a mera occasione quando nella serie causale
risalente a questa condotta si inserisce ad interromperla un fattore estrinseco del tutto anomalo, eccezionale, imprevedibile ed estraneo, avulso dalla condotta dell’agente e che viene a
porsi come causa esclusiva recidendo il legame con tale condotta che, così, viene privata di
ogni rilevanza”; nonché Cass. pen., sez. IV, 23 marzo 2007, n. 21588, Margani ed altri, in
CED rv. 236722, “la norma intende esercitare una funzione limitativa rispetto al principio di
equivalenza causale espresso nel comma precedente, alludendo a concause qualificate, capaci
di assumere su di sé, da un punto di vista normativo, la spiegazione dell’imputazione”.
114
CAPITOLO SECONDO
realtà tendenzialmente restia a riconoscere l’efficacia interruttiva del
nesso causale di condotte susseguenti che vengano ad inserirsi in un processo causale già attivato da una precedente condotta colposa di altri252.
Questo orientamento restrittivo è ben chiarito da una recente sentenza
della Corte di Cassazione in cui i giudici osservano che “l’effetto interruttivo può essere seriamente ipotizzato solo quando l’errore terapeutico
crea un pericolo prima inesistente o conduce improvvisamente il rischio
originario a conseguenze esorbitanti”. Pertanto, solo quando l’errore medico sia in grado di determinare una situazione rischiosa nuova, idealmente separabile da quella antecedente, è possibile configurare l’interruzione del nesso causale253. Secondo questi principi, la Corte esclude l’in252 A questo proposito si segnala l’interessante osservazione di R. BLAIOTTA, Con una
storica sentenza le Sezioni Unite abbandonano l’irrealistico modello nomologico deduttivo di
spiegazione causale di eventi singoli. Un nuovo inizio per la giurisprudenza, in Cass. pen., 2003,
p. 1177, in particolare nota 3, il quale riferendosi all’art. 41, comma 2, c.p. afferma che “si
tratta di un tema di indubbia valenza teorica e tuttavia privo di significative implicazioni pratiche: dando uno sguardo alla giurisprudenza di legittimità a proposito dell’art. 41, comma 2,
e quindi delle concause sopravvenute dotate, secondo il lessico codicistico, di esclusiva valenza causale, ci si avvede che, quasi mai è stata esclusa la rilevanza causale di una condotta
umana per via della sua atipicità o eccezionalità”. Anzi l’Autore aggiunge un dato statistico:
in quarant’anni di giurisprudenza di legittimità si rinvengono solo sei sentenze che hanno
escluso il nesso causale per il sopravvenire di un fattore giudicato eccezionale!
253 Cass. pen., sez. IV, 23 marzo 2007, n. 21588, Margani ed altri, cit. La Corte era chiamata a pronunciarsi su un caso di omicidio colposo ai danni di una bambina di nove anni, per
il quale erano imputati tre medici che, a distanza di alcuni giorni l’uno dall’altro, avevano
avuto in cura la paziente. La bambina, infatti, a seguito della comparsa di anomalie comportamentali e di movimenti incontrollati, era stata ricoverata presso il reparto di pediatria ove
veniva presa in carico dal dott. M., il quale diagnosticava una corea reumatica, sottoponendo
la bambina a terapia cortisonica. All’atto delle dimissioni, tuttavia, la terapia farmacologica
veniva variata ed il medico prescriveva, in sostituzione del cortisone, la somministrazione di
un farmaco a base di acido acetilsalicilico. Dal momento che nei giorni successivi le condizioni della bambina continuavano a peggiorare, i genitori decidevano di riportarla nuovamente all’ospedale e, lì, il dott. P. programmava alcuni accertamenti da eseguirsi il giorno seguente. All’esito degli esami il medico P., consultatosi con il dott. M., disponeva una nuova
modifica nella terapia. Senonché le condizioni della giovane paziente continuavano a peggiorare, tanto da manifestare atteggiamenti aggressivi e incontrollati. Ricoverata ancora, la paziente veniva presa in cura dal dott. E., il quale decideva di somministrarle dei sedativi, ma le
condizioni continuavano a peggiorare La bambina veniva, quindi, trasferita presso altro nosocomio, con la nuova diagnosi di Sindrome di Reye (SDR); qui però ella giungeva in coma
irreversibile a cui, dopo quindici giorni, faceva seguito l’exitus. Nel corso del giudizio di merito i periti avevano accertato che il decesso era dovuto all’insorgere della Sindrome di Reye,
una malattia determinata dalla somministrazione di acido acetilsalicilico a pazienti di età inferiore a dodici anni, che colpisce il cervello ed il fegato. Senonché i giudici hanno dovuto valutare se la condotta del medico M., che aveva disposto la somministrazione del farmaco,
fosse stata causale rispetto al verificarsi dell’evento o se il nesso eziologico attivato da tale
condotta fosse stato interrotto dagli errori diagnostici del medico E., che non avendo tempestivamente diagnosticato la Sindrome di Reye, non ha neppure sottoposto la paziente alle do-
IMPUTAZIONE DEL FATTO DELITTUOSO E RESPONSABILITÀ PENALE PERSONALE
115
terruzione del nesso causale in caso di condotta successiva che intervenga
su un processo morboso già attivato dalla precedente condotta colposa
del collega (nel caso di trattamenti sia diacronici sia contestuali)254 e nel
caso di successione nelle posizioni di garanzia255.
vute terapie che, se repentinamente effettuate, secondo i periti, avrebbero incrementato la
probabilità di salvare la paziente. Il giudizio di primo grado si era concluso con una pronuncia di condanna per tutti e tre i medici, ma la Corte d’Appello aveva riformato la sentenza e
assolto i medici M. e P., osservando che solo all’atto del secondo ricovero, quando era in
servizio E. sarebbe stata diagnosticabile la SDR ed era, quindi, tale fase della vicenda (in cui
M. e P. non erano in servizio) che assumeva “decisivo rilievo nel determinismo causale”. La
Corte di Cassazione, invece, annulla la sentenza di appello, rilevando che “il processo causale
innescato da M. con l’incontrollata somministrazione del salicilato nelle circostanze che si
sono esposte è giunto al suo drammatico epilogo senza che siano intervenuti fattori eziologici
nuovi ed eccezionali, idealmente separabili da quello originario. In particolare l’errore dell’E.
in occasione del secondo ricovero non costituisce un quid novi, ma rappresenta solo lo sviluppo ulteriore dell’originario nesso eziologico”.
254 Cfr. Cass. pen., sez. IV, 25 febbraio 2000, n. 2325, Altieri ed altri, cit.
255 Cass. pen., 18 maggio 2005, n. 18568, C ed altri, cit.; Cass. pen., sez. IV, 26 maggio
1999, n. 8006, Cattaneo, cit.
CAPITOLO TERZO
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE:
LA COOPERAZIONE TRA MEDICI
SENZA VINCOLO GERARCHICO
SOMMARIO: 1. Individuazione dei casi di divisione del lavoro in senso orizzontale. – 2. La
collaborazione tra medici appartenenti allo stesso reparto. – 3. La collaborazione
con medici di altro reparto, ma aventi la medesima specializzazione: a) in particolare, la «cooperazione per consulto». – 4. (Segue): b) la colpa «per assunzione». –
5. La collaborazione fra sanitari aventi diversa specializzazione.
1.
Individuazione dei casi di divisione del lavoro in senso orizzontale
Dopo l’individuazione delle direttrici di fondo che devono presiedere alla ricostruzione della responsabilità colposa in caso di divisione
del lavoro, occorre ora verificarne la tenuta con riferimento ai ruoli assunti dai partecipanti al gruppo di lavoro ed ai rapporti tra loro intercorrenti, in quanto, indubbiamente, incidenti sull’individuazione dell’esatto contenuto delle regole cautelari. Nell’ambito delle diverse tipologie
di divisione di lavoro, come già ricordato, si può innanzitutto individuare
una divisione di tipo orizzontale, nella quale, cioè i medici, non sono avvinti da alcun rapporto di tipo gerarchico. Al riguardo, tuttavia, possono
concretamente prospettarsi diverse situazioni fattuali che, per successiva
comodità espositiva, potremmo schematicamente così riassumere:
– casi di collaborazione tra medici dello stesso reparto;
– casi di collaborazione tra medici che appartengono a reparti o addirittura a strutture sanitarie diverse, ma aventi la medesima specializzazione;
– casi di collaborazione tra medici aventi diversa specializzazione.
2.
La collaborazione tra medici appartenenti allo stesso reparto
I medici incardinati nello stesso reparto hanno l’obbligo di coordinare le proprie attività per il miglior perseguimento del fine di tutela
118
CAPITOLO TERZO
della salute dei pazienti ricoverati. Accade, quindi, quotidianamente, che
i sanitari dello stesso reparto, ed in eguale posizione gerarchica, si trovino a collaborare gli uni con gli altri nella cura dei pazienti: o in quanto,
contestualmente, si dedichino all’atto terapeutico o diagnostico (stante,
ad esempio, la sua particolare complessità), o perché si succedano nella
cura del paziente (ad esempio, per il cambio turno). Questo tipo di attività è, dunque, caratterizzata dal fatto che i medici con la stessa specializzazione e con le medesime mansioni si prendano cura contestualmente, ovvero in successione temporale, dei pazienti loro affidati.
Nel primo caso i sanitari risultano titolari di doveri comuni, ovvero
di doveri che gravano contemporaneamente su più soggetti, ciascuno titolare di una autonoma posizione di garanzia, in grado di assicurare una
totale protezione per la vita e la salute dei pazienti1. Pur portatori di distinte posizioni di garanzia (e, naturalmente, di autonomi poteri di impedimento dell’evento) e pur dovendo coordinare la propria attività di cura
del paziente, si ritiene, nondimeno, che i sanitari che cooperano non
siano tenuti ad un costante controllo sul corretto operato del collega. Il
medico deve, infatti, poter legittimamente fare affidamento sul fatto che
il collega che con lui sta effettuando il medesimo atto diagnostico o terapeutico si atterrà alle leges artis, salvo che non emergano circostanze concrete tali da far dubitare del corretto adempimento.
Di parere diverso è, tuttavia, la giurisprudenza il cui esame evidenzia la tendenza ad un’attenuazione del canone dell’affidamento nel caso
di cooperazione tra sanitari dello stesso reparto. Con riferimento ad un
caso di omicidio colposo che vedeva imputati alcuni medici appartenenti
ad un medesimo reparto, la Suprema Corte ha, infatti, affermato che
“sono responsabili di omicidio colposo i sanitari che, pur dovendosi
coordinare nell’adozione delle scelte terapeutiche – in quanto portatori
di un’autonomia decisionale da cui dipende un obbligo di adottare in
corso di necessità tutti i presidi utili per fronteggiare l’emergenza – omettono di adottare idonee cure per negligenza ed imprudenza poiché è
sempre attuale l’obbligo di intervenire per chi si avveda della inadeguatezza della scelta terapeutica in atto decisa da altri sanitari; tale posizione
di controllo non può mai venire meno dal momento che i medici di un reparto ospedaliero sono un gruppo di professionisti sostanzialmente equivalenti e paritetici”2.
I medici appartenenti allo stesso reparto, quindi, nella ricostruzione
giurisprudenziale, devono coordinare la propria attività in modo tale da
1 Per
la nozione di dovere comune e per la distinzione dai doveri divisi, v. supra cap. II,
§ 2.2.
2 Pret.
Ravenna, 15 dicembre 1995, in Resp. civ. e prev., 1997, p. 787.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE
119
garantire la miglior cura per il paziente, e non potranno andare esenti da
responsabilità penale per il solo fatto di aver confidato nel corretto
adempimento delle loro mansioni da parte dei colleghi: la natura comune
dei doveri incombenti sui medici dello stesso reparto fa sì che, per la verificazione dell’evento lesivo, non sia sufficiente una sola violazione, ma
sia necessario l’incontro di due o più violazioni. Da ciò deriva anche l’ulteriore corollario che il medico non può interessarsi solo di ciò che accade durante il proprio turno di lavoro, ma deve avere una visione generale della situazione clinica del paziente e, quindi, anche delle attività diagnostiche o terapeutiche che siano state compiute da suoi colleghi.
Seppure si concordi circa il fatto che i sanitari che cooperano nella
cura del paziente debbano coordinare la propria attività e, quindi, avere
contezza anche delle attività compiute dal collega, non si ritiene, nondimeno, che tale dovere debba spingersi fino ad integrare un controllo costante sull’altrui operato. Semmai, si potrà affermare che la comune attività di cura del paziente e la medesima specializzazione renderanno più
facilmente riconoscibili per il sanitario gli eventuali comportamenti imperiti del collega e da qui potrà sorgere il dovere di attivarsi per emendarli.
La complessità delle strutture sanitarie impone un’organizzazione di
reparto fondata non solo sulla presenza di più sanitari, ma, altresì, su
turni di lavoro, essendo, evidentemente, impossibile che ogni sanitario
sia costantemente presente e segua senza soluzione di continuità la cura
del paziente. Di sovente, quindi, la cooperazione tra medici dello stesso
reparto è di tipo diacronico, in quanto essi si succedono nella cura dei
pazienti al cambio di turno.
In questi casi si verifica un fenomeno di successione nella posizione
di garanzia (v. supra cap. II, § 3) in cui il medico uscente deve essere liberato dagli obblighi di protezione nei confronti del paziente e quello subentrante deve poter fare affidamento sul corretto operato del predecessore, non potendosi pretendere dal primo il controllo e la ripetizione di
tutti gli accertamenti già eseguiti. L’affermazione di un diverso principio
finirebbe per pregiudicare la stessa ratio della cooperazione, in quanto
impedirebbe al sanitario di dedicarsi ai propri compiti (essendo egli impegnato a sottoporre a verifica e revisione critica l’operato del collega) e
potrebbe, addirittura, rivelarsi pregiudizievole per la salute del paziente
(il controllo sull’attività del predecessore provocherebbe indubbiamente
ritardi sull’avanzamento delle cure).
In tutti i casi di successione nella posizione di garanzia, per cessazione del proprio turno di lavoro, incombe, comunque, sul medico
uscente il dovere di “dare le consegne” al collega subentrante, in modo
120
CAPITOLO TERZO
che quest’ultimo possa avere una visione completa e veritiera della situazione dei pazienti a lui affidati. A tal proposito, la Corte di Cassazione ha
evidenziato che è corretta l’affermazione di responsabilità a titolo di
colpa per la morte di un paziente, dovuta a peritonite non curata, di un
medico che, pur avendo più volte visitato nella stessa giornata detto paziente, le cui condizioni di salute si erano aggravate ed erano tali da non
consentire dubbi sull’erroneità della iniziale diagnosi di pancreatite, invece di dare l’allarme, abbia riferito al collega, che aveva preso il suo posto, che tutto procedeva secondo le prospettive terapeutiche deducibili
dalla (errata) diagnosi iniziale ed abbia creato, quindi, una delle condizioni della condotta imprudente e negligente di quest’ultimo3.
Appare, quindi, evidente, come in queste fasi sia di fondamentale
importanza la corretta e accurata tenuta della cartella clinica, quale strumento che consente di ricostruire i passaggi relativi sia alle condizioni di
salute del paziente (quali eventuali miglioramenti e peggioramenti) sia
delle terapie praticate: un dovere di corretta compilazione che si ritiene
incombente su tutti i medici ed in alcun modo delegabile4.
3.
La collaborazione con medici di altro reparto, ma aventi la medesima
specializzazione: a) in particolare, la «cooperazione per consulto»
Nel corso dello svolgimento della propria attività terapeutica o diagnostica può accadere che il medico si renda conto di non essere in
grado (per carenza delle necessarie cognizioni tecniche o per la particolare complessità del caso da trattare) di effettuare una corretta diagnosi o
di praticare un intervento terapeutico. In tali casi sorge in capo al sanitario un dovere di astensione dall’attività, nonché un dovere, risvolto di regole cautelari di prudenza, di chiedere la consulenza di un collega (che
può appartenere ad altro reparto o essere anche “esterno” rispetto alla
3 Cass. pen., sez. IV, 27 aprile 1993, n. 7650, Messina, in Cass. pen.,
4 Dalla mancata annotazione di alcune attività nella cartella clinica
1994, p. 2439.
la Corte di Cassazione ha addirittura ricavato presunzioni circa l’omissione delle attività non trascritte; v. Cass.
pen., sez. III, 8 settembre 1998, n. 8875, in Giust. civ. mass., 1998, p. 1867, ove si osserva che
l’omessa tenuta della cartella clinica ha impedito ai consulenti tecnici di ricostruire le concrete modalità del parto e dell’assistenza prestata dal personale sanitario: “in una tale situazione è possibile presumere che le attività che altrimenti vi sarebbero state documentate siano
state omesse e comunque la mancata segnalazione, nella cartella clinica, di manifestazioni cliniche rilevanti, di trattamenti medicamentosi e di atti operativi, è indice di un comportamento assistenziale costantemente negligente ed imperito. Le irregolarità e deficienze della
cartella clinica denotavano per sé un corrispondente comportamento di assistenza al parto
manchevole e negligente, segno di un impegno mediocre e disattento, fonte certa di responsabilità, perché avevano influito in modo determinante sull’insuccesso del parto”.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE
121
struttura sanitaria), avente la medesima specializzazione, ma più esperto,
per autorevolezza ed esperienza5.
Può, nondimeno, accadere che il parere fornito dal medico chiamato a consulto risulti erroneo e che, dando esecuzione allo stesso, il sanitario richiedente cagioni il decesso o una lesione all’integrità fisica del
paziente. In una simile evenienza differenti appaiono i profili di responsabilità dei due sanitari che hanno cooperato nella cura del paziente.
La questione della ripartizione delle responsabilità in caso di cooperazione per consulto è stata oggetto di varie pronunce giurisprudenziali,
dall’esame delle quali è possibile desumere alcune direttrici di fondo. A
tal riguardo deve, anzitutto, constatarsi la generale tendenza ad escludere
l’operatività, nel caso di specie, del principio di affidamento nei confronti del sanitario che ha chiesto il consulto. I giudici, sia di legittimità
sia di merito, hanno, infatti, evidenziato che “la richiesta di altro medico
a consulto, di non diversa specializzazione, anche se di maggiore esperienza, non comporta la completa assunzione di ogni responsabilità di valutazione e decisione da parte del sanitario chiamato a consulto; la responsabilità è congiunta, collegiale, e non esclusiva, salvo che si dimostri
un’effettiva e conclamata difformità di valutazione diagnostica e di opportunità terapeutica tra i sanitari convenuti”6. Di conseguenza, il me5 F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 67. Sul dovere
incombente sul medico meno esperto di chiedere la consulenza di un medico di maggiore
esperienza nella stessa o in altre specialità, v. in giurisprudenza Cass. pen., sez. IV, 13 giugno
1983, n. 7670, Duè, in Cass. pen., 1984, p. 1965.
6 Cass. pen., sez. IV, 17 febbraio 1981, n. 5555, Faraggiana, in Giust. pen., 1982, III, p.
634. In realtà la Suprema Corte, già nel 1959, ebbe ad occuparsi dei problemi inerenti la collaborazione per consulto con sentenza Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 1959, Niesi, in Riv. it.
dir. proc. pen., 1960, p. 1173, nella quale i giudici, occupandosi di un caso di consulto tra medici, l’uno primario e l’altro assistente, aventi identica specializzazione ma appartenenti a reparti diversi (e quindi non legati da vincolo gerarchico), osservarono che il medico che ha
prestato l’attività di consulenza “non può trarre argomento dall’accertata inesistenza di un
rapporto di subordinazione per sostenere che, lungi dall’impartire disposizioni vincolanti,
diede semplici pareri o consigli, onde non gli si dovrebbe far carico di aver cooperato alla
condotta colposa di chi li ricevette. Il peso dell’autorità, dell’anzianità e maggiore esperienza
di chi li esprime, attribuirebbe inevitabilmente a quei pareri ed a quei consigli natura ed effetto di partecipazione per la determinazione nell’azione od omissione del sanitario che, indottovi dall’inevitabile senso di soggezione verso il collega più anziano si uniformasse ad essi.
Si avrebbe, cioè, pur sempre una tipica ipotesi di cooperazione di più volontà dirette a regolare la condotta causante l’evento non voluto, ipotesi, anzi, in cui un’attività di determinazione del superiore potrebbe, in alcuni casi, riconoscersi efficienza causale tale da rendere di
minore importanza, pur senza escluderne la rilevanza penale, l’attività materiale dell’inferiore”. La Corte di Cassazione, inoltre, soffermandosi sulla posizione del medico che ha richiesto la consulenza, conclude che il consulto fra un medico avente la qualifica di primario
appartenente ad una divisione diversa ed un medico avente qualifica di assistente non vale ad
escludere la penale responsabilità del secondo per avere ottemperato, in ragione dell’autorità
122
CAPITOLO TERZO
dico che chieda l’intervento di un collega specialista nella medesima disciplina, ma maggiormente esperto, non si libera per ciò solo da responsabilità in caso di errata diagnosi o terapia, in quanto è innegabile che
egli, una volta ricevuti i necessari consigli tecnici, mantenga comunque
una sfera di autonomia in ordine al trattamento da eseguire sul paziente7.
Alla base di questo costante orientamento giurisprudenziale sta la valutazione circa la continuità nella posizione di garanzia in capo al medico
che richiede la consulenza.Quest’ultimo, infatti, non si libera dall’obbligo
di impedire eventi lesivi per la salute del paziente per il solo fatto di essersi rivolto, per una collaborazione, ad altro sanitario. Il collega chiamato
a consulto si affianca, ma non sostituisce il medico primo affidatario del
paziente: il rapporto che si instaura darà vita ad obblighi comuni, essendo
ciascuno dei sanitari titolare di una posizione di garanzia che è di per sé
in grado di assicurare totale protezione alla salute del paziente.
Da ciò consegue che il medico primo affidatario del paziente non è
esonerato dal valutare le opinioni espresse dal medico chiamato a consulto, soprattutto, in un campo nel quale anche egli possiede, comunque,
le dovute competenze, avendo la medesima specializzazione. Nel caso,
quindi, di errore diagnostico o terapeutico conseguente al consulto, tutti
i medici coinvolti risponderanno del fatto di reato in cooperazione tra
loro ai sensi dell’art. 113 c.p., essendo consapevoli ciascuno della colposa
condotta altrui ed avendo cooperato nella realizzazione dell’atto diagnostico o terapeutico.
L’unica possibilità che sembrerebbe residuare, per il medico che ha
richiesto la consulenza, per sottrarsi ad un addebito di colpa, sarebbe
quella, secondo la Corte di Cassazione, di fornire la prova di un disaccordo con il medico chiamato a consulto sulle modalità del trattamento
o dell’intervento8. Il Supremo Collegio, tuttavia, omette di fornire indie della maggiore esperienza di chi gli ha fornito il consulto, in adesione all’indicazione medica
del sanitario di grado superiore.
In senso difforme, v. invece nella giurisprudenza di merito Corte d’Appello di Venezia,
21 aprile 1981, De Vido ed altri, in Riv. it. med. leg., 1982, p. 249, in cui i giudici hanno affermato che “quando un sanitario chiede consulto con chi più di lui reputa competente ed
esperto per una particolare sindrome, e di concerto con questi pratica la terapia consigliata,
il suo comportamento si dimostra sicuramente improntato a diligenza e prudenza”.
7 V. in questo senso Pret. Caltanissetta, 17 ottobre, 1995, Zanda e altro, in Foro it., 1997,
II, c. 418, in cui si legge: “non sono applicabili all’istituto della consulenza i principio giurisprudenziali elaborati in materia di attività medica prestata in équipe […] perché la responsabilità di valutazione e decisione rimane unicamente in capo al richiedente il consulto che ha in
cura il paziente per lo meno fino a quando gli accertamenti diagnostici da lui disposti, ed in
cui si inserisce il coinvolgimento del personale medico di altra specialità, non determinino una
modifica all’assegnazione del malato per la necessità di ricorrere a diverse specializzazioni”.
8 Cass. pen., sez. IV, 17 febbraio 1981, n. 5555, Faraggiana, cit.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE
123
cazioni circa il criterio da seguire per dirimere, da un lato, il problema
della prova dell’avvenuto dissenso e, dall’altro, quello della delimitazione
delle sfere di responsabilità. Con riferimento al primo profilo, sembra
possibile affermare che, stante la vigenza del principio processuale del
“libero convincimento del giudice”, la prova del dissenso possa essere
fornita con qualsiasi strumento, anche se appare evidente che il metodo
sicuramente più sicuro sarebbe quello di annotare sulla cartella clinica il
dissenso manifestato. Per quanto, invece, concerne il secondo profilo, la
soluzione è certamente più complessa e richiede, in particolare, di stabilire se sia sufficiente la manifestazione del dissenso perché il medico vada
esente da responsabilità colposa o se, al contrario, una volta manifestato
il proprio dissenso il medico debba anche astenersi dal praticare l’atto
diagnostico o terapeutico così come consigliato dal collega o debba eseguirlo in difformità dall’indirizzo ricevuto. Quest’ultima sembrerebbe la
soluzione preferibile, in quanto, trattandosi di medici non legati da alcun
vincolo gerarchico, non sembra configurabile alcun dovere, per il sanitario che ha richiesto il consulto, di adeguarsi alle indicazioni fornite dal
proprio collega9.
La predetta ricostruzione giurisprudenziale evidenzia, però, ancora
una volta, la sostanziale indifferenza degli organi giudicanti per la valutazione del “momento soggettivo” della colpa. Seppure debba concordarsi
circa il fatto che il medico che intervenga per un consulto non assuma su
di sé la completa responsabilità per ogni decisione e che, conseguentemente, il collega che ha chiesto il consulto mantenga nei confronti del
paziente la propria posizione di garanzia e sia titolare, congiuntamente al
primo, di doveri comuni (vista anche la comunanza di specializzazione),
pur tuttavia ciò non può ritenersi sufficiente per escludersi il legittimo affidamento.
Nel giudizio circa la responsabilità del sanitario richiedente il consulto non si può, infatti, omettere di valutare le effettive capacità e competenze di quest’ultimo di rilevare e, conseguentemente, di emendare
l’errore del collega. Il fatto che si tratti di sanitari che hanno la medesima
specializzazione non è elemento di per sé sufficiente per inferire la capacità del medico che ha richiesto il consulto di riconoscere l’eventuale fallacia del parere o del percorso terapeutico praticato dal consulente. D’altro canto, la circostanza che il medico abbia chiesto l’intervento di un
altro sanitario è essa stessa sintomo della sua scarsa attitudine alla solu9 In questo senso cfr. anche F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 72. In senso contrario v. A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 263,
secondo il quale il semplice disaccordo, purché dimostrabile, farebbe persistere la penale
responsabilità in capo al solo consulente.
124
CAPITOLO TERZO
zione del caso: o perché privo della necessaria esperienza (come ad esempio nel caso di medico alla prima assunzione) o perché trovatosi dinnanzi
ad una situazione di particolare complessità tecnica. Egli, quindi, ben potrebbe non essere in grado (non essendolo, peraltro, già stato all’atto
della presa in carico del caso, tanto da aver ritenuto necessario chiedere
l’intervento di un collega più esperto) di rilevare l’erroneità della valutazione espressa dal consulente.
Non sembra, quindi, possibile affermare de plano il permanere di
una responsabilità, in capo al medico che ha richiesto il consulto, essendo, piuttosto, necessario procedere, nel caso concreto, a verificare
quale sia il tipo di errore che ha determinato l’esito infausto. Se, infatti,
l’erroneo parere del consulente concerne aspetti della terapia o della diagnosi che non hanno particolari profili di complessità e la cui corretta attuazione dovrebbe rientrare nel patrimonio di ciascun medico (a maggior
ragione della medesima specializzazione), allora potrà affermarsi la riconoscibilità dell’errore e, di conseguenza la responsabilità anche del sanitario che ha chiesto il consulto. Viceversa, se l’errore cade proprio sul nucleo centrale della consulenza (in genere richiesta proprio per affrontare
problemi di particolare complessità che il medico richiedente, come
detto non sarebbe in grado da solo di risolvere), dovrebbe escludersi la
responsabilità del medico richiedente per assenza di rimproverabilità.
Restano, infine, da chiarire quali possano essere i profili di responsabilità ravvisabili a carico del medico chiamato a consulto. Se, come già
emerso, è innegabile che egli assuma la diretta responsabilità per l’intervento diagnostico o terapeutico praticato insieme al collega, maggiori
dubbi sorgono nel caso in cui il consulente non risponda alla chiamata
del collega ovvero apporti un contributo che non sia tale da configurare
un’effettiva partecipazione. A tal proposito, bisogna innanzitutto sottolineare che, ai sensi dell’art. 10 d.P.R. n. 128 del 1969, “i sanitari sono tenuti alla reciproca consulenza”, essendo ravvisabile in capo agli stessi un
dovere non solo morale, ma giuridico, di prestare la propria consulenza,
mettendo, così, la propria esperienza a tutela della salute dei pazienti.
Sennonché, appare indispensabile comprendere se la semplice richiesta di consulenza faccia sorgere in capo al sanitario un obbligo di garanzia nei confronti del paziente, cosicché la sua inerzia, ove fosse ritenuta causale rispetto al verificarsi dell’evento, potrebbe portare ad una
responsabilità per omicidio o lesioni colpose ai danni del paziente da lui
non assistito, o se, al contrario, il rifiuto di consulenza, lungi dal costituire condotta valutabile ai fini della realizzazione delle fattispecie di
omicidio o lesioni, possa assumere rilievo ai sensi di altre disposizioni. La
Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su un caso di omicidio col-
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE
125
poso ai danni di un paziente giunto presso l’ospedale con grave traumatismo cranio-encefalico, per il quale erano imputati, tra gli altri, il medico
di guardia e lo specialista consulente neurologo esterno, ha affermato che
“anche il collaboratore esterno, una volta chiamato, deve non solo esaminare, con una sommaria anche se non superficiale visita, l’ammalato,
ma deve seguirlo quando è necessario, disponendo tutto quanto occorre,
con ulteriori visite, disponendo gli esami necessari e disporre eventualmente il trasferimento d’urgenza in altro ospedale”10. Nel caso sottoposto alla loro attenzione i giudici hanno ritenuto che l’essersi disinteressato del paziente, dopo essere stato chiamato a visitarlo, e l’aver omesso
gli esami necessari, costituisce colpa professionale penalmente rilevante.
Sembra, pertanto, possibile affermare, in linea di principio, che sul
medico specialista, chiamato a prestare la propria consulenza, incomba un
vero e proprio obbligo giuridico di attivarsi che, se inadempiuto, dà luogo
a responsabilità omissiva colposa per i delitti di omicidio o lesioni11.
In simili ipotesi, tuttavia, sembra aprirsi anche la strada per una responsabilità per il reato di rifiuto od omissione di atti d’ufficio, di cui all’art. 328 c.p., in quanto ai medici ospedalieri, riconosciuti concordemente da dottrina e giurisprudenza quali pubblici ufficiali, fa capo un
dovere di prestare la propria opera “alla Società e allo Stato, senza divisioni di competenze, secondo le loro capacità professionali, quando si versi
in condizioni di necessità”12. Sicché di fronte ad una situazione di urgenza, resa evidente dai fatti sottoposti all’attenzione del consulente da
parte del medico che lo chiama a consulto, “l’inerzia omissiva” del primo
assume “intrinsecamente valenza di rifiuto” e integra la fattispecie delittuosa di cui sopra, la quale potrà, eventualmente concorrere con i delitti
di omicidio o lesioni colpose, laddove l’omissione sia causa dell’evento
dannoso per la vita o l’integrità fisica del paziente13.
Del tutto peculiare è poi il caso del medico “reperibile”, il quale ha
il dovere di rientrare in servizio, laddove venga chiamato durante il turno
di reperibilità per un consulto. Costituisce, al riguardo, un caso di colpa
per negligenza il non aver ottemperato tempestivamente al proprio obbligo in caso di chiamata in servizio, con la conseguenza che il medico reperibile potrà essere chiamato a rispondere del decesso o delle lesioni subite dal paziente, ove si accerti che questi sono stati conseguenza della
sua condotta omissiva14.
10 Cass. pen., sez. IV, 13 giugno 1983, n. 7670, Duè, cit.
11 Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2010, n. 3365, Leone, in Cass. pen., 2011, p. 2590.
12 Cass. pen., sez. VI, 11 marzo 1987, n. 2914, Amico, in CED rv. 175295.
13 Cass. pen., sez. VI, 11 maggio 2000, n. 10538, Giannelli, in Cass. pen., 1001, p. 1488.
14 C. PARODI, V. NIZZA, La responsabilità, cit., p. 65. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez.
126
CAPITOLO TERZO
A tal proposito, la Corte ha rilevato che “sarebbe semplicistico ridurre i doveri incombenti ai medici in reperibilità al presentarsi in ospedale a chiamata in mezz’ora al massimo, riprendendo servizio ed espletando le cure e l’assistenza […]. Allorquando l’intervento d’emergenza
del medico reperibile viene richiesto per un processo patologico a progressione lenta nel tempo, ne consegue che l’intervento d’emergenza non
può esaurirsi nella visita, ancorché attenta e scrupolosa, una tantum, sia
pure seguita dalle prescrizioni del caso al personale paramedico, ma deve
tradursi in una sorta di monitoraggio sotto forma di sorveglianza e controlli in modo assiduo delle condizioni respiratorie del paziente”15. Anche il medico reperibile, che venga chiamato per un consulto, quindi,
non si libera da responsabilità per il solo fatto di aver risposto alla chiamata ed essere rientrato in servizio, ma, avendo assunto una vera e propria posizione di garanzia nei confronti del paziente, egli è tenuto a proseguire nell’attività di vigilanza sulla salute del paziente16.
Con riferimento, invece, alla seconda questione, attinente al contributo minimo che debba aver prestato il medico chiamato a consulto per
poter rispondere dell’eventuale fatto colposo del collega a titolo di cooperazione ex art. 113 c.p., deve rilevarsi come spesso nell’ambito della
frenetica vita ospedaliera il medico presti consigli estemporanei. In tal
senso, si possono richiamare i casi del medico specialista che, di passaggio in reparto (ma non espressamente chiamato a consulto), fornisca un
parere ai colleghi che già stanno effettuando l’intervento diagnostico o
terapeutico con le modalità dallo stesso confermate, ovvero dello specialista che presti una consulenza via telefono, senza avere, peraltro, la necessaria conoscenza di tutti gli elementi di giudizio necessari per una
compiuta valutazione del caso.
Orbene, la giurisprudenza (che, come detto, esprime un orientamento di forte rigore in ordine alla ripartizione delle responsabilità nel
caso di consulto) ritiene sufficiente l’effettuazione della consulenza, per
poter configurare una responsabilità a carico del medico che l’ha effettuata. Questa conclusione si fonda, ad avviso dei giudici, sulla sudditanza
psicologica del medico che richiede il consulto nei confronti del medico
che lo ha prestato: l’autorità, l’anzianità e la maggiore esperienza del me-
IV, 10 luglio 1987, n. 8290, Ziliotto, in Riv. it. med. leg., 1989, p. 668; Cass. pen., sez. VI, 12
giugno 1986, n. 5465, Badessa, in CED rv. 173105.
15 Cass. pen., sez. IV, 7 dicembre 2000, n. 12796, inedita.
16 Sulla responsabilità per il reato di rifiuto di atti d’ufficio in caso di omesso intervento
a seguito di chiamata del medico reperibile v. Cass. pen., sez. IV, 2 aprile 2013, n. 14979, M.,
in CED rv. 254863.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE
127
dico consulente, conferirebbero, ex se, efficacia vincolante alle sue opinioni, comunque espresse17.
In realtà, tale posizione non sembra conciliarsi con le ricostruzioni,
affermatesi in materia di accertamento del c.d. “contributo minimo” del
concorrente, che richiedono un’efficacia causale o quantomeno agevolatrice della condotta rispetto alla realizzazione del fatto di reato: la semplice autorevolezza del consulente, non può, infatti, dirsi elemento sufficiente per concretizzare una sua partecipazione, anche solo a titolo di
agevolazione, nel fatto colposo realizzato dal collega, laddove non si accerti l’efficacia del parere rispetto all’esito dell’intervento diagnostico o
terapeutico.
L’ultima questione che rimane da affrontare, con riferimento ai rapporti di collaborazione per consulto, concerne l’ipotesi in cui il medico
presti la propria consulenza, ma, dopo aver riscontrato l’esistenza e la natura della patologia, non si adoperi per disporre gli opportuni trattamenti diagnostici e terapeutici. Con specifico riferimento a questa ipotesi
la Corte di Cassazione ha affermato che “il medico che sia pure a titolo
di consulto, accerti l’esistenza di una patologia ad elevato ed immediato
rischio di aggravamento, in virtù della sua posizione di garanzia ha l’obbligo di disporre personalmente i trattamenti terapeutici idonei ad evitare eventi dannosi ovvero, in caso di impossibilità di intervento, è tenuto
ad adoperarsi facendo ricoverare il paziente in un reparto specialistico,
portando a conoscenza dei medici specialisti la gravità ed urgenza del
caso ovvero, nel caso di indisponibilità di posti letto nel reparto specialistico, richiedendo che l’assistenza specializzata venga prestata nel reparto
dove il paziente si trova ricoverato, specie là dove questo reparto non sia
idoneo ad affrontare la patologia riscontrata con la necessaria perizia
professionale”18. Il medico intervenuto per il consulto, quindi, non può
17 F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 55. Interessante
anche l’osservazione di P. ZANGANI, Sul rapporto, cit., p. 480, il quale rileva che “il timore di
essere ritenuto partecipe della responsabilità penale del medico addetto – ad esempio – al
pronto soccorso, potrebbe indurre il primario ovvero ogni altro sanitario all’astenersi da consigli non richiesti e, soprattutto, non dovuti a norma di regolamento”.
In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 1959, Niesi, cit., per cui non sarebbe lecito “al superiore trarre argomento, dalla accertata inesistenza di un rapporto di subordinazione per sostenere che, lungi dall’impartire disposizioni vincolanti, diede semplici
pareri o consigli, onde non gli si dovrebbe far carico di aver cooperato nella condotta colposa
di chi li ricevette. Il peso dell’autorità, anzianità e maggiore esperienza di chi li esprime, attribuirebbe inevitabilmente a quei pareri ed a quei consigli natura ed effetto di partecipazione
per determinazione nell’azione o nell’omissione del sanitario che, indottovi dall’inevitabile
senso di soggezione verso il collega più anziano ed autorevole, si uniformasse ad essi”.
18 Cass. pen., sez. IV, 3 febbraio 2003, n. 4827, Perilli, in CED rv. 224178 (la fattispecie era relativa ad un chirurgo vascolare che, richiesto di un consulto dal sanitario del pronto
128
CAPITOLO TERZO
fare affidamento sul fatto che il collega, primo affidatario del paziente,
esegua tutti gli interventi diagnostici e terapeutici necessari, ma deve egli
stesso attivarsi, in tutela della salute del paziente, perché vengano eseguite tutte le attività ritenute necessarie per la cura dello stesso; in caso
contrario egli risponderà per gli eventuali esiti infausti occorsi a causa
della sua omissione.
4.
(Segue): b) la colpa «per assunzione»
Come evidenziato in precedenza, regole di diligenza e prudenza impongono al medico, che si avveda della propria incapacità di affrontare
un intervento diagnostico o terapeutico, di chiedere un consulto e,
quindi, il contributo di un collega di maggiore esperienza. Può accadere,
tuttavia, che il sanitario, violando tali regole precauzionali, decida, viceversa, di eseguire personalmente detto intervento.
Come noto, l’attività medica si colloca nell’ambito delle attività rischiose, ma giuridicamente autorizzate per la loro intrinseca utilità sociale19, rispetto alle quali la colpa si qualifica come speciale. Lo svolgimento di dette attività, difatti, è ammesso, ma nel rispetto delle leges artis,
ovverosia di cautele dettate al fine di mantenere la pericolosità dell’attività
entro i limiti del rischio consentito e socialmente tollerabile20. Sennonché,
laddove il medico si trovi ad affrontare un intervento che non sia in grado
di svolgere nel rispetto del dovere di diligenza, non essendo in possesso
delle dovute capacità e conoscenze tecniche, sullo stesso incomberà una
nuova regola cautelare che impone un obbligo di astensione. Sarà, quindi,
configurabile una responsabilità colposa (c.d. colpa per assunzione), in
caso di esiti infausti, a carico del medico che decida egualmente di effettuare l’intervento, nonostante la propria incapacità tecnica.
In realtà, proprio la colpa per assunzione ha costituito banco di
prova per quegli orientamenti più recenti secondo cui le regole cautelari
non possono avere quale contenuto un dovere di astensione. Se, infatti,
la dottrina tradizionale pone tra i possibili contenuti delle regole cautelari anche il dovere di astensione21, le opinioni più recenti (anche se, insoccorso, dopo aver diagnosticato un sospetto aneurisma dell’aorta addominale retropancreatica, aveva omesso l’immediato ricovero nel reparto, gli immediati approfondimenti diagnostici, il ricovero nel reparto di chirurgia vascolare, gli immediati approfondimenti diagnostici, l’immediato intervento chirurgico o, comunque, la segnalazione dell’immediata necessità dello stesso).
19 F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 180.
20 F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 357 e 343.
21 Nella manualistica v. S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 434; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 578.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE
129
vero, minoritarie) procedono, invece, ad una revisione di tale ricostruzione, in quanto ritenuta incompatibile con la stessa nozione di regola
cautelare22. Risulta, infatti, ormai recepito l’assunto secondo il quale le
regole cautelari sono norme modali, in quanto indicano il modo in cui
un’attività pericolosa debba essere svolta: ebbene, se si conviene sul carattere modale della regola cautelare, è chiaro che essa non potrebbe
consistere in un dovere di astensione23.
Secondo il predetto orientamento, anche le ipotesi di colpa per assunzione possono essere correttamente affrontate senza ricorrere all’artificio della regola dell’astensione. Il ragionamento, da cui muove la dottrina
in esame, è che esistono attività (tra le quali per l’appunto quella medica)
che non sono semplicemente autorizzate, ma anche doverose, in quanto il
compimento di esse è imposto all’agente dall’assunzione di una posizione
di garanzia24. In tali casi, l’obbligo di astensione non avrebbe alcuno spazio di autonomia rispetto alla qualificazione del comportamento dannoso
come imperito. È, infatti, innegabile che là dove la doverosità dell’attività
pericolosa gravi su un soggetto per la sua qualifica professionale, si delinei
con sufficiente chiarezza l’ambito in cui l’eventuale violazione del dovere
di diligenza integri l’imperizia25.
Nel caso di medico, il quale non abbia le necessarie capacità tecniche e che, nondimeno, in ragione della sua posizione di garanzia, debba
fornire le cure, non può certo parlarsi di obbligo di astensione. Egli, al
contrario, avendo l’obbligo di attivarsi per salvare la vita del paziente,
potrà andare esente da responsabilità solo agendo diligentemente, in
modo da impedire l’evento, e non, invece, eccependo la sua incapacità26.
Nelle ipotesi di consapevolezza della propria imperizia, al medico,
quindi, altro non rimane se non chiedere l’intervento di un collega con
maggiore esperienza, in quanto, in caso contrario, egli dovrà rispondere,
a titolo di colpa, dei danni eventualmente procurati al paziente27.
Può dirsi, pertanto, confermato l’assunto iniziale per cui il dovere di
astensione non è altro che un risvolto dell’imperizia. Infatti, se il medico,
22 F.
23 F.
GIUNTA, La normatività, cit., p. 88; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 344.
GIUNTA, La normatività, cit., p. 89; D. MICHELETTI, La colpa del medico. Prima
lettura di una recente ricerca “sul campo”, in Criminalia, 2009, p. 179 ss.
24 F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 215.
25 Il contenuto delle regole di perizia viene, infatti, comunemente individuato nell’insieme di regole tecniche (c.d. leges artis) proprie di un determinato tipo di attività. Specularmene, quindi, l’imperizia dovrebbe qualificarsi come la violazione delle leges artis e ciò a prescindere dal fatto che essa sia dovuta ad ignoranza delle leggi medesime o a inettitudine del
soggetto agente. In tal senso cfr. F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 167; F. MANTOVANI, Diritto penale,
cit., p. 341 s.
26 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 113.
27 F. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 218.
130
CAPITOLO TERZO
nonostante le riscontrate difficoltà, decide comunque di proseguire la
propria attività, senza chiamare a consulto un collega di maggiore esperienza, ma non si verifichi alcun evento dannoso ai danni del paziente,
egli andrà esente da qualsivoglia responsabilità. In caso contrario egli
sarà chiamato a rispondere, ma non per aver assunto un incarico in assenza delle capacità tecniche (di per sé condotta non tipica, stante l’assenza nel nostro ordinamento di una norma che incrimini il tentativo colposo), bensì per aver cagionato l’evento a causa della violazione delle leges artis28.
In conclusione, quindi, se l’obbligo di astensione non smentisce la
natura modale della regola cautelare, è perché esso risulta “una mera superfetazione del dovere di diligenza, che solo impropriamente può essere
considerata un’autonoma tipologia di regola prudenziale. La conclusione
a cui perviene la dottrina maggioritaria è solo il frutto di un’erronea trasposizione sul piano della pretesa comportamentale generale ed astratta
di un dato che – al pari di altri – attiene all’evitabilità del fatto colposo”29.
La dottrina tradizionale30 e la giurisprudenza31, tuttavia, sono ancora
orientate nel senso di ritenere che la regola cautelare della colpa per as28 F.
29 F.
GIUNTA, Illiceità, cit., p. 217.
GIUNTA, Illiceità, cit., p. 235. Ritiene che il profilo del dovere di astensione attenga
al contenuto della colpevolezza colposa e non della tipicità M. GROTTO, Principio di colpevolezza, cit., p. 125. L’Autore sottolinea che per il soggetto che agisce, sapendo (o potendo rendersi conto) che non sarà in grado di rispettare le pretese comportamentali poste dall’ordinamento, scatta l’obbligo di astenersi dallo svolgere l’attività in generale libera, ma che per lui
diventa interdetta. L’agente dotato di conoscenze non sufficienti è rimproverabile perché ha
causato l’evento trasgredendo la regola cautelare che egli non era ab initio in grado di rispettare. Decidendo di agire, pur nell’impossibilità di “agire bene”, egli ha cagionato l’evento con
condotta tipica (se avesse rispettato la regola cautelare l’evento non si sarebbe verificato) e
colposa (se fosse stato avveduto, si sarebbe astenuto dall’agire).
30 D. CASTRONUOVO, L’evoluzione teorica, cit., p. 1621, il quale ritiene esemplificativo in
tal senso il caso del medico che ponga in essere un atteggiamento attendistico (c.d. terapia
dell’attesa) in relazione agli sviluppi di una terapia così come suggerito dai protocolli. Contra
D. MICHELETTI, La colpa, cit., p. 179, secondo il quale, anzi, è proprio la lettura della giurisprudenza in tema di “terapia dell’attesa” ad evidenziare la rinuncia da parte di quest’ultima
ad assumere l’astensione quale contenuto dell’obbligo cautelare. Rinuncia che, osserva l’Autore, non dipenderebbe tanto da una ponderata predilezione per l’interpretazione più rigorosa del carattere necessariamente modale della regola cautelare, ma, piuttosto, da una “spontanea comprensione delle illogiche conseguenze cui si esporrebbe la soluzione alternativa”.
Quest’ultima, infatti, sfruttando il dovere di astensione, finirebbe per imputare al medico la
verificazione del rischio che è intrinseco nello svolgimento della propria attività. Così, la giurisprudenza, là dove l’intervento medico si rivelerebbe dannoso anziché benefico, tende a
contestare non già l’obbligo di astensione, bensì l’obbligo di osservare la terapia dell’attesa,
sintomo, appunto, della tendenza a privilegiare la concezione modale della regola cautelare.
31 Cass. pen., sez. IV, 17 novembre 2005, n. 7661, G., in Dir. pen. proc., 2006, p. 1272
secondo cui “nell’esercizio di attività pericolose consentite, proprio perché la soglia della pre-
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE
131
sunzione abbia quale contenuto un “dovere di astensione”. Per questo
orientamento, infatti, l’astensione può costituire una modallità operativa
secondo i protocolli cautelari di un’attività rischiosa lecita e, quindi, nella
colpa per assunzione si rimprovererebbe al soggetto proprio di aver assunto – anziché astenersi – un rischio che non era in grado di dominare.
In ogni caso, al di là del contenuto che si ritenga di attribuire alla regola cautelare, appare imprescindibile che anche nella colpa per assunzione vi sia una compiuta valorizzazione del giudizio di individualizzazione dell’addebito. Affinché l’agente possa essere rimproverato per
l’evento dannoso cagionato a causa della sua inettitudine, infatti, occorre,
anzitutto, verificare la sua capacità di rendersi conto della pericolosità
dell’attività intrapresa e la consapevolezza della incapacità di gestire il rischio assunto32.
Non possono poi non considerarsi particolari circostanze esterne
che rendano necessitato l’intervento e, quindi, impossibile per il medico
conformarsi alla regola cautelare. È il caso, ad esempio, della situazione
di urgenza terapeutica nella quale il medico si trova di fronte all’alternativa di agire (per l’indisponibilità di uno specialista) ovvero, di attendere,
compromettendo, però, l’esito salvifico dell’intervento. L’emergenza caratterizza necessariamente la scelta del medico inducendolo ad assumersi
una porzione di rischio non consentito pur di salvare la vita del paziente
e ciò, evidentemente, rende scusabile – in caso di esito infausto – il suo
comportamento.
Non sembra, invece, possibile escludere la responsabilità già sul
piano oggettivo, attraverso il ricorso al soccorso di necessità ex art. 54
c.p. Detta causa di giustificazione appare, infatti, concepita per escludere
la rilevanza penale di offese che vengono arrecate a beni di un terzo innocente per salvaguardare un bene altamente personale dell’agente o di
vedibilità di eventi dannosi è più alta rispetto alle attività comuni, maggiore è la diligenza e la
perizia richiesta all’agente con la conseguenza che il soggetto che intraprenda l’attività senza
le competenze e le capacità necessarie versa in colpa per assunzione per essersi assunto un
compito che non era in grado di svolgere”. V. inoltre Cass. pen., sez. IV, 22 febbraio 2012, n.
6981, in Riv. it. med. leg., 2012, p. 1247, con riguardo alla colpa del medico specializzando
per aver assunto compiti che non era in grado di compiere; nonché Cass. pen., sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti ed altro, cit., in cui la Corte ha affermato che “il dovere obiettivo di diligenza, che contrassegna il delitto colposo, può avere a contenuto anche un obbligo di preventiva informazione nonché quello di ricorrere alle altrui speciali competenze, sicché versa
nella cosiddetta ‘colpa per assunzione’ colui che, non essendo del tutto all’altezza del compito
‘assunto’, esegua un’opera senza farsi carico di munirsi di tutti i dati tecnici necessari per dominarla, secondo lo ‘standard’ di diligenza, capacità e conoscenze richieste per il corretto
svolgimento del ruolo stesso. E sempre nel caso, ovviamente, che quell’opera diventi fonte di
danno anche a causa della mancata acquisizione dei dati o conoscenze specialistiche”.
32 M. ROMANO, Art. 43, cit., p. 469.
132
CAPITOLO TERZO
altri33. Requisito di “terzietà” del bene che difetterebbe, invece, ogniqualvolta il medico agisca in situazione di emergenza, pur non avendo le
necessarie capacità: egli si farebbe arbitro nella scelta tra i beni da tutelare, tutti appartenenti al medesimo soggettto (il paziente).
5.
La collaborazione fra sanitari aventi diversa specializzazione
L’ultima forma di collaborazione che può essere configurata nell’ipotesi di divisione del lavoro in senso orizzontale, è quella tra medici
aventi differente specializzazione, che si verifica in tutti i casi in cui il sanitario, che ha in cura il paziente, diagnostichi una patologia che non è
inerente in tutto o in parte al proprio ramo specialistico e che, pertanto,
richiede la necessaria partecipazione di altri medici aventi la necessaria
specializzazione. Il tema, invero, è difficilmente circoscrivibile, perché vi
confluiscono le più varie ipotesi di relazione fra medici, reparti e ospedali
diversi, e anche la giurisprudenza dimostra (come spesso accade in questa materia) di procedere con un approccio casistico, prescindendo dall’elaborazione di direttrici generali. A tal riguardo, i fenomeni di collaborazione più spesso oggetto di giudizio – e dai quali si muoverà per ricostruire l’orientamento interpretativo giurisprudenziale – concernono, il
rapporto tra medico di guardia e specialista, il trasferimento del paziente
da un reparto all’altro, ovvero in diversa struttura ospedaliera, nonché, il
rapporto intercorrente, nell’ambito dell’équipe chirurgica, tra anestesista
e chirurgo (ipotesi di cui per ora tralasciamo l’esame rinviando più analiticamente al prosieguo della trattazione v. infra, cap. V).
La collaborazione fra sanitari, in eguale posizione gerarchica ma con
diversa specializzazione, dovrebbe costituire il terreno d’elezione per l’operatività del principio di affidamento. Si tratta di situazioni in cui sui
medici incombono doveri che possono qualificarsi come divisi, per cui
ciascuno di essi dovrebbe essere tenuto solo al rispetto delle leges artis
relative alla propria qualifica, come, peraltro, suggerirebbe la logica
stessa della divisione del lavoro. D’altro canto, il medico, avendo diversa
specializzazione, non sarebbe dotato delle conoscenze tecnico-scientifiche necessarie per poter valutare la correttezza della condotta del collega
e, quindi, non sarebbe in grado, sulla base delle regole prudenziali proprie della sua specializzazione, di prevedere ed evitare l’eventuale fallacia
delle indicazioni fornite o dell’intervento effettuato dal collega (salvo che
33 C.
ROXIN, Antigiuridicità e cause di giustificazione. Problemi di teoria dell’illecito penale, a cura di S. MOCCIA, Napoli, 1996, p. 151 ss.; F. VIGANÒ, Stato di necessità e conflitti di
doveri, Milano, 2000, p. 450 ss.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE
133
non si tratti di errore emendabile con le conoscenze comuni a ciascun sanitario). Infine, deve anche rilevarsi che, soprattutto nei casi di cooperazione diacronica, l’operatore si trova spesso nell’impossibilità materiale
di intervenire sulla condotta del collega, posto che le varie condotte si
svolgono in contesti temporali (e, talvolta, anche spaziali) diversi34.
Il formante giurisprudenziale, tuttavia, manifesta una realtà in parte
differente. Pur dandosi atto che, proprio con riguardo a questa particolare forma di coperazione, è possibile rinvenire sentenze che teorizzano il
principio di affidamento (a differenza di quanto accade nel caso di collaborazione tra colleghi aventi eguale specializzazione, in cui si è visto,
come la giurisprudenza tenda ad affermare de plano la pari responsabilità
dei sanitari intervenuti nella cura del paziente)35, nondimeno, a queste se
ne affiancano altre che, invece, configurano obblighi reciproci di vigilanza e controllo sull’operato altrui. Secondo il prevalente orientamento
giurisprudenziale, infatti, nel caso di cooperazione multidisciplinare (sia
sincronica che diacronica) ogni sanitario è tenuto, oltre che al rispetto
dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle proprie specifiche mansioni, anche a conoscere e valutare l’attività svolta da altro collega, pur se
specialista in altra disciplina36.
L’estensione del predetto dovere viene, almeno apparentemente affievolita, dall’introduzione del limite degli “errori evidenti e non settoriali” e, quindi, evitabili grazie al patrimonio di conoscenze proprie di
ciascun medico. Si è, però, già avuto modo di rilevare che l’attuale ricostruzione giurisprudenziale dei predetti concetti di “evidenza” e “non
settorialità” (intesi, in particolare il primo, in termini meramente quantitativi e, soprattutto, scollegati dalla realtà concreta in cui il sanitario
opera) non consente di attribuire ad essi una effettiva portata delimitatrice della responsabilità (v. supra cap. II § 9).
Una delle principali forme di cooperazione tra medici aventi diversa
specializzazione è quella che si verifica quando un paziente venga trasferito da un reparto all’altro dello stesso ovvero di diverso nosocomio.
34 In tal senso v. D. GUIDI, L’attività medica, cit., p. 245.
35 Cass. pen., sez. IV, 6 marzo 2009, n.10311, Di Fiore, in
F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MIP. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 52, in cui la
Corte afferma che “la cooperazione fra medici di differenti specializzazioni in cui si sostanzia
l’équipe medica si fonda sul principio della divisione del lavoro, in base al quale ciascun operatore rispende delle decisioni che afferiscono alla propria branca di specializzazione”.
36 Cass. pen., sez. IV, 12 luglio 2006, n. 33619, Iaquinta, cit.; Cass. pen., sez. IV, 18
maggio 2005, n. 18548, Cavuoto, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 55; Cass. pen., sez. IV, 16 luglio 2008, n.
29443, Cortese, in F. GIUNTA, G. LUBINU, D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 53
CHELETTI,
134
CAPITOLO TERZO
L’ipotesi si verifica in tutti i casi in cui la patologia dalla quale il paziente
è affetto possa essere adeguatamente curata soltanto in un reparto dotato
della dovuta specializzazione ovvero, nel caso di carenze infrastrutturali,
in un nosocomio avente le adeguate strutture e strumentazioni. Si tratta
di una tipica ipotesi di successione nella posizione di garanzia: il bene
passa dalla sfera di tutela del garante originario, privo ormai di poteri impeditivi, a quella del successore.
Non sempre, tuttavia, al trasferimento del paziente ad altro reparto
e, quindi, della posizione di garanzia ad altro medico, consegue anche la
completa liberazione del garante originario, che avviene solo laddove, innanzitutto, l’attività ceduta non sia ab origine viziata dalla violazione di
regole cautelari (c.d. successione in attività inosservanti), e, secondariamente, sia stato correttamente adempiuto l’obbligo di informazione all’atto del c.d. passaggio di consegne tra garante primario e secondario.
Tralasciando l’esame delle problematiche attinenti alla successione in attività inosservanti ed all’omissione di informazioni, già affrontate in precedenza, sembra qui utile soffermarsi su un ulteriore profilo attinente alla
responsabilità del medico che abbia ricevuto, all’atto del passaggio delle
consegne, informazioni erronee. In tali situazioni deve ritenersi perfettamente operante il principio di affidamento, in quanto si tratta di ipotesi
nelle quali il medico subentrante deve poter confidare nella correttezza
delle informazioni sulle condizioni di salute del paziente e sulle terapie
effettuate, tramandategli dal collega. Naturalmente, il legittimo affidamento verrà meno, subentrando un obbligo di verifica e controllo delle
informazioni ricevute, nel caso in cui dalle circostanze concrete emergano condizioni tali da poter indurre il medico a dubitare della correttezza delle informazioni ricevute ovvero intervengano situazioni del tutto
nuove che impongano al medico di discostarsi dai ragguagli ottenuti dal
collega.
Questa linea ricostruttiva è stata accolta anche dalla giurisprudenza,
che non ha mancato di escludere, in forza del principio di affidamento,
la responsabilità del medico che avesse ricevuto informazioni erronee dal
proprio collega che lo aveva preceduto nella cura del paziente. È stata
così, ad esempio, esclusa la responsabilità colposa dei medici che avevano effettuato un trapianto di organi da cadavere senza previamente
raccogliere i dati anamnestici sul donatore preveniente da altra struttura
ospedaliera, facendo affidamento, in assenza di indizi contrari, sull’esattezza e la completezza dei dati da quest’ultima raccolti37. La responsabilità di un medico, che aveva fatto affidamento sulle informazioni ricevute
37 Pret.
Bologna, 31 maggio, 1995, Martinelli, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1053.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO ORIZZONTALE
135
all’atto del trasferimento del paziente al suo reparto, è stata altresì esclusa
nel caso di un chirurgo che aveva operato una paziente al ginocchio sinistro, anziché al destro, a causa di un refuso nella relazione di ingresso in
ospedale della paziente, che indicava il ginocchio sinistro come quello da
operare38.
Tra i numerosi casi di cooperazione fra sanitari aventi diversa specializzazione si può, infine, ricordare quello intercorrente tra i medici che
hanno in cura i pazienti e quelli dei laboratori che eseguono analisi ovvero esami radiografici. Anche in questo caso, la giurisprudenza esclude
la responsabilità del medico che abbia fatto legittimo affidamento sui risultati di esami diagnostici eseguiti da altri sanitari. In questo senso si è
affermato che, “esistendo in ambito medico un’organizzazione del lavoro
basata sulla specializzazione, non può ritenersi responsabile della morte
del paziente il chirurgo che, sulla base delle sue competenze e dei dati a
sua disposizione, di fronte alle caratteristiche morfologiche del tumore
asportato abbia chiesto l’esame istologico indicando il sospetto di tumore
maligno, abbia altresì disposto una serie di indagini sulla malata per la ricerca dei tumori, e ricevuto, infine, il referto dell’anatomopatologo non
indicante alcuna nota di malignità”39.
38 Trib.
39 Trib.
Firenze - Empoli, 19 ottobre 1999, Firenzani, in Tosc. giur., 1999, p. 834.
Roma, 13 giugno 1996, Capelli, in Foro it., 1997, II, c. 417.
CAPITOLO QUARTO
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE:
LA COOPERAZIONE TRA MEDICI
IN DIVERSA POSIZIONE GERARCHICA
E TRA MEDICI E PARAMEDICI
SOMMARIO: Sezione prima. LA COLLABORAZIONE TRA MEDICI IN RAPPORTO GERARCHICO: 1.
Modelli organizzativi di tipo gerarchico. – 2. La responsabilità del superiore per il
fatto colposo del subordinato: a) la violazione dei doveri di impartire direttive e di
coordinamento. La culpa in vigilando. – 3. (Segue): b) il dovere di ripartire i carichi
di lavoro tra i medici del reparto. La culpa in eligendo. – 4. La responsabilità del
medico subordinato per il fatto colposo del superiore: a) «autonomia vincolata»,
«autonomia limitata» e dovere di dissenso. – 5. (Segue): b) la condotta colposa del
medico in posizione subalterna esecutiva di direttive impartite dal superiore. –
6. (Segue): c) esercizio del potere di avocazione da parte del dirigente di struttura
complessa e responsabilità del medico in posizione subalterna. – 7. La responsabilità del medico in posizione subalterna per errori commessi dal superiore gerarchico. – 8. Profili di responsabilità per le attività compiute dal medico specializzando. – Sezione seconda. I RAPPORTI TRA PERSONALE MEDICO E PARAMEDICO: 9. I rapporti tra medico e paramedico prima dell’abrogazione del d.P.R. n. 225 del 1974.
– 10. I rapporti tra medico e paramedico successivamente all’abrogazione del
d.P.R. n. 225 del 1974.
SEZIONE PRIMA
LA COLLABORAZIONE TRA MEDICI
IN RAPPORTO GERARCHICO
1.
Modelli organizzativi di tipo gerarchico
A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 229 del 1999, si è assistito ad una attenuazione del vincolo gerarchico all’interno delle strutture sanitarie e, conseguentemente, anche ad una ridefinizione delle sfere
di responsabilità dei singoli professionisti. Come evidenziato in precedenza (v. supra Cap. I), nonostante la formale abolizione dei ruoli del primario, dell’aiuto e dell’assistente, riuniti, ora, in un unico ruolo dirigenziale (distinto per profili professionali) ed in un unico livello, nella prassi
138
CAPITOLO QUARTO
si assiste ancora ad un utilizzo di tali qualifiche per individuare le diverse
figure di medici con riferimento alla posizione che essi assumono nella
piramide gerarchica.
Naturalmente, al vertice di tale piramide si colloca il dirigente di
struttura complessa, c.d. primario (a cui nell’ambito dell’équipe chirurgica viene equiparato il capo-équipe), seguito dal dirigente con cinque
anni di anzianità ed eventualmente dirigente di struttura semplice, c.d.
aiuto, dal dirigente alla prima assunzione, c.d. assistente ed, infine, dallo
specializzando. Nell’ambito di questi rapporti, la delimitazione delle
sfere di responsabilità presenta profili del tutto peculiari anche in relazione alla qualifica rivestita e, per tale motivo, ai fini di un più agevole
esame delle questioni interpretative, sembra opportuno individuare due
diversi filoni di indagine: da un lato, i profili attinenti alle responsabilità
del medico in posizione sovraordinata per il fatto colposo del subordinato e, dall’altro, i profili relativi alle eventuali responsabilità di quest’ultimo rispetto alle violazioni cautelari commesse dal suo superiore gerarchico ovvero in caso di esecuzione di direttive erronee. Aspetti del tutto
peculiari concernono, poi, i profili di responsabilità del medico specializzando e del tutor.
2.
La responsabilità del superiore per il fatto colposo del subordinato:
a) la violazione del dovere di impartire direttive e di coordinamento.
La culpa in vigilando
La questione dell’individuazione dei soggetti responsabili, nel caso
di attività medica eseguita con suddivisione del lavoro in senso verticale,
è, forse, quella che, più di ogni altra, evidenzia rischi di affermazione di
responsabilità di “posizione”. Nella giurisprudenza di merito e di legittimità, infatti, solitamente si assiste all’affermazione della penale responsabilità del medico in posizione apicale per i fatti colposi commessi dai sanitari a lui sottoposti, in virtù di una generale posizione di garanzia assunta nei confronti di tutti i pazienti ricoverati nel suo reparto,
indipendentemente dalla loro assegnazione ad altri medici1. Dalla pre1 Cass. pen., sez. IV, 30 novembre 1989, n. 16741, Cipollaro, in Cass. pen., 1991, p. 433.
Interessante anche Cass. pen., sez. IV, 25 maggio 2005, n. 25233, Lucarelli, in Riv. pen., 2005,
p. 1350, in cui, giungendo all’esclusione della responsabilità del primario, per carenza probatoria in ordine alla sussistenza del nesso causale, si ricostruiscono gli obblighi di organizzazione e vigilanza incombenti su detto sanitario. Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici, e
particolarmente noto alle cronache per l’autorevolezza del medico coinvolto, concerneva la
ripetuta insorgenza nel reparto diretto dal Prof. Lucarelli, in un breve lasso temporale, di affezioni patologiche di natura infettiva, astrattamente riconducibili alla mancata osservanza da
parte del personale sanitario, di norme igieniche di varia natura. Per tali fatti veniva rinviato
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
139
detta posizione di garanzia viene, poi, quasi automaticamente fatto discendere un costante obbligo di controllo sull’operato dei collaboratori,
fino ad identificare in capo al medico in posizione apicale un vero e proprio obbligo di impedimento del reato altrui2.
Una simile ricostruzione ermeneutica comporta, come è evidente,
un drastico affievolimento del principio di affidamento ed una conseguente responsabilità del medico in posizione apicale per qualsivoglia
fatto colposo commesso dai medici del suo reparto, con introduzione di
inaccettabili e pericolose forme di responsabilità oggettiva o, addirittura,
per fatto altrui. Ciò sarebbe, non solo costituzionalmente illegittimo per
violazione dell’art. 27 Cost., ma, altresì, troppo semplicistico: la sussistenza di una posizione di garanzia non può certamente ritenersi sufficiente ai fini dell’affermazione della penale responsabilità del medico in
posizione apicale, essendo, invece, necessario anche l’accertamento della
violazione di una regola cautelare e dell’attribuibilità soggettiva di detta
violazione. Il corretto comportamento del medico in posizione apicale
non può farsi coincidere, peraltro, con un generico obbligo di vigilanza
continuo e generale, ma occorre indagare nel dettaglio quale sia la regola
cautelare violata nella situazione specifica, vista la pluralità di funzioni attribuite a questo sanitario.
Come noto, infatti, la legge attribuisce al primario non solo funzioni
attinenti alla sua specializzazione sanitaria, e, quindi, direttamente attinenti alla cura e all’assistenza dei pazienti, ma anche, più in generale,
funzioni di tipo gestionale-organizzativo. L’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992
dispone, infatti, che al dirigente di struttura complessa spetti la funzione
di direzione ed organizzazione del reparto, da attuarsi attraverso l’adozione di direttive a tutto il personale operante nello stesso, nonché di dea giudizio il Prof. Lucarelli, primario del reparto di ematologia, con l’accusa di non aver correttamente vigilato sull’osservanza delle più elementari norme igieniche da parte del personale ad esso sottoposto. La Suprema Corte ha però rilevato che “non può invero richiedersi
al primario – pur attribuendo a costui l’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1971 il potere-dovere di impartire istruzioni e direttive ed esercitare la verifica inerente all’attuazione di esse – di essere
costantemente al fianco di ogni singolo operatore sanitario del suo reparto, ed in occasione di
ogni singolo contatto tra l’operatore ed il paziente. Non essendo consentita nel nostro ordinamento un’imputazione a titolo di responsabilità penale oggettiva, solo l’accertamento della
condotta in concreto posta in essere da un operatore di un reparto può consentire di stabilire
se detta condotta possa essere o meno imputabile al primario del reparto sotto il profilo della
violazione dell’obbligo di vigilanza o dell’erroneità delle direttive impartite”.
2 Cass. pen., sez. IV, 23 settembre 2010, n. 34521, Huscher ed altri, cit., p. 237, in cui si
afferma che “sul medico primario grava un obbligo di controllo e di sorveglianza dell’operato
altrui e, pertanto, egli risponde della condotta colposa dei componenti l’équipe medica”. Nello
stesso senso v. Cass. pen., sez, IV, 16 luglio 2004, n. 31313, Cantini, in F. GIUNTA, G. LUBINU,
D. MICHELETTI, P. PICCIALLI, P. PIRAS, C. SALE, Il diritto penale della medicina, cit., p. 44.
140
CAPITOLO QUARTO
cisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio3. Alle predette
funzioni si aggiunge, inoltre, quella di efficace ed efficiente gestione delle
risorse attribuite alla struttura complessa. Il medico in posizione sovraordinata deve, quindi, innanzitutto, organizzare il proprio reparto procedendo ad una ripartizione dei compiti e delle funzioni (riservando, a sé,
se del caso, gli interventi più complessi od urgenti), nonché predisponendo procedure standardizzate che individuino le modalità di esecuzione degli interventi (ad esempio indicando l’utilizzo di protocolli o guidelines), le modalità di controllo sugli interventi particolarmente rischiosi
e di annotazione delle informazioni riguardanti i pazienti, le forme di comunicazione e di scambio di informazioni tra i medici che si susseguono
nella cura dei pazienti4.
Con la corretta organizzazione, che consente già in via preventiva di
impedire il verificarsi di eventi lesivi ai danni dei pazienti, deve, quindi,
ritenersi che il primario eserciti la propria funzione di controllo sull’andamento del reparto: non è, infatti, plausibile ritenere che egli possa in
modo diretto, continuo ed illimitato esercitare una vigilanza sull’operato
dei propri collaboratori5. A tal riguardo, è stato evidenziato che l’organizzazione svolge un ruolo essenziale nei meccanismi di funzionamento
di strutture complesse, e la ragione di ciò sarebbe di palmare evidenza: la
divisione coordinata di compiti consente a ciascuno di concentrarsi al
meglio su quelli a lui spettanti; la tendenziale omogeneizzazione delle
tecniche operative, d’altro canto, permette una migliore e più agevolmente preordinabile allocazione di uomini e mezzi, amplia le possibilità
di collaborazione tra sanitari, agevola l’automatizzazione dei profili tecnicamente meno pregnanti delle procedure. Se ciò è vero, allora, deve
concludersi che “l’organizzazione integra un’attività finalizzata al rag3 Il
comma 6 dell’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 dispone che “ai dirigenti con incarico di
direzione di struttura complessa sono attribuite, oltre a quelle derivanti dalle specifiche competenze professionali, funzioni di direzione e organizzazione della struttura, da attuarsi, nell’ambito degli indirizzi operativi e gestionali del dipartimento di appartenenza, anche mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa, e l’adozione delle relative decisioni
necessarie per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l’appropriatezza degli interventi con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata. Il dirigente è responsabile dell’efficace ed efficiente gestione delle risorse
attribuite. I risultati della gestione sono sottoposti a verifica annuale tramite il nucleo di valutazione”. Ai sensi del comma 4, inoltre, al dirigente di struttura complessa spetta il compito
di attribuire i compiti e le funzioni ai sanitari della struttura: “… il dirigente responsabile
della struttura predispone e assegna al dirigente un programma di attività finalizzato al raggiungimento degli obiettivi prefissati e al perfezionamento delle competenze tecnico professionali e gestionali riferite alla struttura di appartenenza”.
4 F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 19.
5 A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 255.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
141
giungimento di un miglior risultato operativo di un gruppo professionale; in altre parole le prescrizioni che definiscono ed attualizzano i meccanismi organizzativi di un complesso coordinato di persone teso all’attuazione di una mansione tecnica sono esse stesse regole cautelari”6.
L’adempimento degli obblighi di corretta organizzazione e direzione
della struttura consente al medico in posizione apicale di poter fare affidamento sull’operato dei propri collaboratori – salvo che nel caso concreto non siano riconoscibili loro condotte colpose – e, conseguentemente, di andare esente da responsabilità per eventuali errori imputabili
a questi ultimi. Sarà, viceversa, ravvisabile una responsabilità di natura
omissiva7 in tutti i casi in cui emerga che l’evento lesivo ai danni del paziente è la conseguenza di una non corretta o, addirittura, di una mancata, organizzazione del reparto, ovvero, infine, di una condotta colposa
del medico sotto-ordinato il quale, ad es. non abbia ottemperato alle direttive impartite.
Le predette funzioni di organizzazione e di direzione, d’altro canto,
devono essere contemperate con gli ampi margini di autonomia che, soprattutto in seguito alle modifiche introdotte con il d.lgs. n. 229 del
1999, sono stati riconosciuti agli altri sanitari8. Questo provvedimento
normativo, tendente a contemperare l’organizzazione rigidamente gerarchica con una maggiore responsabilizzazione dei soggetti che a vario titolo partecipano all’attività sanitaria, ha, almeno in parte, limitato l’obbligo di controllo del medico in posizione sovraordinata. Se, infatti, non
pare possibile sostenere che le nuove norme possano autorizzare l’assunto secondo cui condotte inadeguate e lesive, poste in essere all’interno della struttura, siano, allo stato, diventate riferibili alla esclusiva responsabilità di chi materialmente le abbia realizzate, nondimeno, deve
osservarsi che la vigente descrizione delle competenze attribuite alla figura apicale non sembra espressamente (continuare a) contemplare anche poteri-doveri di generalizzata e continuativa sorveglianza sulle scelte
diagnostico-terapeutiche operate dagli altri sanitari9.
6 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1635.
7 C.F. GROSSO, Organizzazione dei servizi medici e problemi
di responsabilità penale, in
La medicina e la legge, Atti dell’83° Congresso SPLLOT, Torino, 1989, p. 29 ss.; C. PARODI, V.
NIZZA, La responsabilità, cit., p. 134; F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 19 ss.
8 L’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1971 prevedeva che il primario dovesse esercitare funzioni
di indirizzo e di verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura, impartendo all’uopo direttive ed
esercitando la verifica inerente all’attuazione di esse. Nel d.lgs. n. 502 del 1992, così come
modificato dal d.lgs. n. 229 del 1999, scompare invece qualsiasi riferimento ad obblighi di verifica: l’art. 15, infatti, riconosce al primario funzioni di direzione ed organizzazione, ma non
prevede più poteri-doveri di vigilanza continuativa sulle scelte degli altri sanitari.
9 G. IADECOLA, La responsabilità medica nell’attività in équipe, cit., p. 155.
142
CAPITOLO QUARTO
Da questa diversa formulazione della norma, i primi commentatori
hanno ritenuto di poter desumere che, attualmente, l’obbligo di attivarsi,
da parte del soggetto apicale, insorgerebbe nel momento in cui il medesimo venga comunque a conoscenza (se non in forza di un controllo diuturnamente dovuto e svolto) per segnalazione di terzi o, ad esempio, anche per occasionale, diretta, percezione, di atteggiamenti terapeutici dei
sanitari collaboratori che, discostandosi dalle regole della corretta prassi
medica, pongano a rischio il comune obiettivo finale della attuazione
della migliore prestazione sanitaria a beneficio del paziente10.
Si ritiene, quindi, che una culpa in vigilando sia configurabile in
capo al medico in posizione apicale solo nel caso in cui l’esito infausto
del trattamento sia la conseguenza della violazione del suo dovere di impartire istruzioni o direttive ovvero nel caso in cui tale dovere sia stato
adempiuto, ma il medico in posizione subalterna non vi si sia adeguato.
In quest’ultimo caso, tuttavia, non può ritenersi che discenda automaticamente la responsabilità del primario dovendosi individuare, in primo
luogo, contenuti ed ampiezza del suo dovere di controllo circa la corretta
attuazione delle proprie direttive e, in secondo luogo, i limiti di riconoscibilità della condotta colposa altrui.
In tal senso, si può ritenere che sulla delimitazione dell’estensione
del dovere di controllo incidano, innanzitutto, le differenti qualifiche
funzionali e le attribuzioni del personale medico. Dal dettato dell’art. 15
d.lgs. n. 502 del 1992 (così come modificato dal d.lgs. n. 229 del 1999)
emerge, infatti, che il dirigente alla prima assunzione, pur essendo affidatario di compiti professionali di alto livello con precisi ambiti di autonomia, è, però, chiamato a svolgere la sua attività nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura complessa. I margini di autonomia aumentano con l’anzianità professionale: il dirigente sanitario
con cinque anni di assunzione (al quale può essere attribuita anche la direzione di una struttura semplice), infatti, non è più destinatario di istruzioni operative da parte del primario, ma solo di direttive di carattere generale concernenti l’organizzazione della struttura di reparto. È innega10 G. IADECOLA, La responsabilità medica nell’attività in équipe, cit., p. 155. La Corte di
Cassazione, nell’unica sentenza che si è diffusamente occupata delle novità introdotte dal
d.lgs. n. 229 del 1999 ha escluso che la maggiore responsabilizzazione degli altri ruoli abbia
determinato un ridimensionamento dei doveri di controllo e vigilanza del medico in posizione apicale. Tanto che i giudici osservano che tale dovere si attua con due diversi comportamenti: il primo, di carattere generale, dovendo il dirigente di struttura informarsi della situazione generale del reparto; il secondo, di carattere specifico, dovendo lo stesso assumere
la direzione dell’intervento, laddove venga a conoscenza di eventuali comportamenti imperiti,
negligenti o imprudenti dei propri collaboratori. In tal senso Cass. pen., sez. IV, 29 settembre
2005, n. 47145, Sciortino, cit.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
143
bile che i diversi ambiti di autonomia e competenze riconosciuti dalla
legge ai medici in posizione subalterna incidano sul contenuto del dovere
di vigilanza del medico apicale: maggiore e più stringente dovrà essere il
controllo sul medico in posizione inziale, la cui attività è espressamente
definita come soggetta a vigilanza, meno incisivo potrà, invece, essere il
controllo sull’aiuto, a cui per legge sono riconosciuti ambiti più ampi di
autonomia decisionale11.
In secondo luogo, assumerà rilievo la natura del caso da trattare; a
tal proposito, è utile distinguere fra “casi di difficile soluzione”, ai quali il
primario deve prestare particolare attenzione, richiedendo di essere interpellato dai suoi collaboratori o addirittura assumerne la diretta esecuzione, e “casi di semplice soluzione”, per i quali, invece, laddove siano
stati adempiuti i doveri “preventivi” di organizzazione del reparto, il primario può fare affidamento sul corretto adempimento delle regole cautelari da parte del collaboratore12. Dunque, se, in linea di massima, è vero
che il primario ha il dovere di conoscere lo stato di salute di ogni paziente ricoverato nel suo reparto, non sempre, però, il dovere di controllo si configura nello stesso modo, intensificandosi nel caso di prestazioni eseguite da medici inesperti ovvero di particolare complessità o pericolosità per la salute del paziente13.
Il dovere di controllo, tuttavia, torna ad avere la sua massima portata (indipendentemente dalla qualifica dell’affidatario e dalla natura dell’attività) nel caso in cui il sanitario in posizione apicale percepisca, in via
diretta o mediata (in quanto, ad esempio, riferitegli) circostanze concrete
che possano far prevedere il mancato rispetto di regole precauzionali da
parte dei collaboratori. In questa evenienza, il primario dovrà vigilare
sull’operato del sanitario a lui sottoposto e, se del caso, esercitare il potere di avocazione, esautorando il collaboratore ed eseguendo personalmente l’intervento diagnostico o terapeutico14.
11 P. VENEZIANI, I delitti, cit.,
12 Per l’esclusione del dovere
p. 197.
di controllo rispetto ad attività c.d. routinarie, v. nella giurisprudenza di merito Trib. Palermo, 16 luglio 2002, Florena, cit. Si veda, inoltre, Cass. pen.,
sez. IV, 26 marzo 1992, n. 5539, Ciccarelli e altro, cit., in cui i giudici affermano che “proprio
nel rispetto delle specifiche competenze e nella dovuta ripartizione dei compiti di un’organizzazione complessa, che si sviluppa non soltanto in senso verticale ma anche in quello orizzontale attraverso la diramazione dei reparti e degli altri servizi collaterali, l’obbligo di direzione
del primario appare riservato e funzionalizzato alla più professionale e più proficua effettuazione delle prestazioni ospedaliere, soprattutto sul piano della verifica più propriamente medica, ma non può abbracciare l’organizzazione di ogni e qualsiasi servizio e soprattutto non si
può rivolgere al controllo della regolarità anche delle mansioni più propriamente esecutive”.
13 A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 255 ss.
14 L’art. 63, comma 6, d.P.R. n. 761 del 1979 riconosce espressamente in capo al primario la possibilità di “avocare casi alla sua diretta responsabilità fermo restando l’obbligo di
144
CAPITOLO QUARTO
In tale ipotesi rimane da accertare se la violazione cautelare commessa dal sottoposto fosse effettivamente percepibile e riconoscibile dal
medico in posizione apicale. Seppur vero, infatti, che il medico in posizione apicale è dotato di particolari competenze tecniche e di anzianità di
servizio tali da consentirgli di rilevare anche errori tecnicamente complessi15, tuttavia occorre tenere presente che particolari circostanze concrete (come l’assenza dal reparto o la contemporanea esecuzione di altro
intervento che richiede la sua presenza) possono di fatto escludere l’evidenza di tale errore e, quindi, la sua attribuibilità a detto sanitario.
3.
(Segue): b) il dovere di ripartire i carichi di lavoro tra i medici del
reparto. La culpa in eligendo
Ritornando all’ambito dei compiti di organizzazione del primario,
deve evidenziarsi che tra essi rientra, naturalmente, anche quello di ripartizione del carico di lavoro tra i medici appartenenti al proprio reparto. Con riferimento a questo specifico profilo, il dettato dell’art. 15
d.lgs. n. 502 del 1992 risulta completato, anche se non in modo sufficientemente esaustivo, dall’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 che precisa le
modalità con le quali il primario deve effettuare la distribuzione dei compiti. La norma, infatti, dispone che il medico in posizione sovraordinata
“assegna a sé o agli altri medici i pazienti ricoverati e può avocare casi alla
sua diretta responsabilità … Le modalità di assegnazione in cura dei pazienti debbono rispettare criteri oggettivi di competenza, di equa distribuzione del lavoro, di rotazione nei cari settori di pertinenza”.
Sembra, quindi, possibile affermare che sul dirigente di struttura
complessa incomba, addirittura, un vero e proprio obbligo di ripartizione dei compiti tra i medici appartenenti al reparto dallo stesso diretto,
il cui adempimento risulta, peraltro, indispensabile per il corretto esplecollaborazione da parte del personale appartenente alle altre posizioni funzionali”. La legislazione successiva, che come già più volte ricordato, non ha però formalmente abrogato il
d.P.R. n. 761 del 1979, seppure non espressamente, sembra continuare a riconoscere tale potere in capo al medico in posizione apicale. L’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992, così come modificato dal d.lgs. n. 229 del 1999, prevede, infatti, che il medico in pozione apicale debba adottare tutte le “decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio”, tra le quali sembra possibile ricomprendere anche l’avocazione del caso.
15 A. MASSARO, Principio di affidamento e “obbligo di vigilanza” sull’operato altrui: riflessioni in materia di attività medico-chirurgica in équipe, in Cass. pen., 2011, p. 3857 ss. L’Autrice osserva che proprio le maggiori competenze del medico in posizione apicale impedirebbero di fare riferimento, per valutare la rilevabilità dell’errore, ad un agente modello
corrispondente alla figura del “medico generale”. Quando viene in considerazione la responsabilità del vertice, l’homo eiusdem condicionis et professionis da assumere quale parametro è
quello della cerchia professionale a cui appartiene il medico in posizione apicale.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
145
tamento delle mansioni di natura più prettamente specialistica. Sennonché l’adempimento dell’obbligo di ripartizione dei carichi di lavoro può
far sorgere nuovi profili di penale responsabilità per il medico in posizione apicale. Non sempre, infatti, questo sanitario si libera da responsabilità per il sol fatto di aver affidato ad altri la cura del paziente e, anzi,
nel caso di evento infausto conseguente a fatto colposo del subordinato
può essere chiamato a risponderne. In questa ipotesi l’attribuzione di responsabilità al dirigente deve passare per il vaglio di due profili attinenti,
il primo, alle modalità di scelta del medico affidatario e, il secondo, alla
portata liberatoria dell’attribuzione dell’incarico. Con riferimento al
primo aspetto, è indubbio che il medico in posizione apicale, prima di
poter procedere all’affidamento delle mansioni all’interno del proprio reparto, debba, innanzitutto, individuare le categorie di compiti delegabili
e, secondariamente, attribuirli ad un soggetto dotato delle necessarie capacità tecniche per adempierli16. Peraltro, tale ultima verifica deve fondarsi, non tanto sulla qualifica giuridico-funzionale del sanitario, ma sulle
sue capacità effettive, personalmente saggiate dal primario. In tal senso,
parte della dottrina ha osservato che il dirigente di struttura non può
presumere le capacità tecniche del medico a cui deve affidare un incarico
per il solo fatto che esso sia risultato vincitore di un concorso pubblico e
di conseguenza sia stato incardinato nel reparto, ma ha il preciso dovere
di “far precedere un’opera di personale controllo e critica delle capacità
tecniche di tutto il personale da lui dipendente, prima di affidare a
chiunque mansioni implicanti una qualsiasi autonomia”17. Particolarmente delicata, quindi, si presenta la questione circa la responsabilità del
primario a causa dell’assegnazione di compiti a personale tecnicamente
non idoneo. La dottrina ha, a tal riguardo, osservato che l’aspettativa del
personale medico e paramedico, di essere assegnato a compiti confacenti
alla propria qualifica formale, deve essere contemperata con il superiore
principio della salvaguardia della salute del paziente. Ne consegue che,
laddove un medico non sia tecnicamente in grado o non sia sufficientemente preparato, per eseguire determinati interventi, terapie o diagnosi,
il dirigente sarà tenuto a non affidargli tali compiti ed a scegliere colleghi
preparati o a compiere lui stesso l’intervento18.
Un diverso indirizzo ermeneutico, invece, restringe la portata del
dovere del primario di saggiare le concrete capacità del collaboratore,
16 In
dottrina cfr. F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p.
15; P. VENEZIANI, I delitti, cit., p. 199; R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 770.
17 G. MARIUNUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 228; A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 259.
18 C.F. GROSSO, Organizzazione dei servizi medici, cit., p. 31.
146
CAPITOLO QUARTO
sulla scorta del rilievo che, nelle strutture sanitarie pubbliche, la scelta del
personale medico afferente al reparto non è demandata al dirigente della
struttura, ma obbedisce a chiamate da parte del direttore dell’azienda
ospedaliera ed a regole concorsuali, la cui efficacia selettiva, di per sé, può
spesso essere insoddisfacente19. Secondo questo orientamento, nei casi in
cui alla qualifica funzionale non corrispondano capacità effettive, al dirigente non resterebbe altro da fare se non attivare le procedure di tipo amministrativo per la segnalazione della questione al direttore sanitario.
Sembra, tuttavia, preferibile ritenere che il medico in posizione apicale non possa semplicemente fare affidamento sulla qualifica funzionale
del proprio collaboratore per potergli affidare degli incarichi, laddove nel
corso della collaborazione abbia verificato l’eventuale incapacità tecnica o
la scarsa preparazione dello stesso. Sicché, il primario potrà essere ritenuto responsabile dei fatti verificatosi ai danni del paziente nel caso in cui
emerga che egli ha affidato l’incarico ad un collaboratore privo delle capacità tecniche per adempierlo. Si tratta dei c.d. casi di culpa in eligendo,
consistente, per l’appunto, nella “cattiva scelta del preposto”, e nella
quale la regola cautelare assume un contenuto peculiare, dato proprio
dalla interferenza tra l’attività di più soggetti. Le regole cautelari, infatti,
come già evidenziato, possono avere quale finalità preventiva, non tanto
l’impedimento dell’evento, quanto piuttosto il contenimento della altrui
condotta pericolosa. In questo ambito si collocano anche quelle regole
prudenziali che operano in un momento precedente all’inizio dell’attività
pericolosa, nel senso che orientano la scelta dei soggetti ai quali è possibile affidare lo svolgimento di tale attività. Proprio la violazione di dette
regole dà luogo alla culpa in eligendo la quale, tuttavia, assume rilevanza
solo ove l’incapacità del soggetto delegato sia stata la causa di un evento
dannoso per il paziente: in questo caso, la responsabilità del soggetto delegante concorrerà, ex art. 113 c.p., con quella del soggetto delegato20.
A tal proposito, la dottrina è solita distinguere tra errori di esecuzione
– tendenzialmente riconducibili a condotte negligenti che si verificano, in
particolare, nelle attività di routine a causa di disattenzione, nonostante la
competenza tecnica del medico e la correttezza delle direttive ed istruzioni impartite dal primario – ed errori di valutazione – derivanti da defi19 In
questo senso, cfr. F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 107, per il quale “se il soggetto
cui viene affidato lo svolgimento dell’attività pericolosa è a ciò abilitato dalla legge, non può
pretendersi in capo al delegante un accertamento delle capacità del delegato, che si spinga oltre la verifica dei requisiti formali che ne attestano l’abilitazione. Qui opera il principio di affidamento, come espressione dell’aspettativa dell’altrui diligenza”. Si vedano, inoltre, A.
FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, Milano, 1999, p. 526; A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 259.
20 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 107.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
147
cit di preparazione e competenza del singolo medico e sostanziantisi in
condotte imperite21. Orbene, mentre nel primo caso non può escludersi
l’operatività del principio di affidamento, non potendosi pretendere dal
medico in posizione apicale una costante presenza nella struttura e un
controllo continuo sull’operato (anche routinario) dei propri collaboratori
(salva la sua partecipazione diretta all’intervento e la possibilità di rilevare
l’errore), nel secondo caso, viceversa, potranno verificarsi situazioni in cui
è riconoscibile una colpa del medico in posizione apicale. Egli, infatti, potrà essere ritenuto responsabile dell’esito infausto derivante da errore di
valutazione del proprio collaboratore ove emerga che tale errore è la conseguenza dell’attribuzione a detto sanitario di un incarico avente per oggetto una situazione del tutto nuova o una patologia particolarmente complessa, che questi con le proprie competenze non è in grado di gestire22.
La responsabilità del primario andrà, invece, esclusa ove egli abbia rispettato i criteri di distribuzione degli incarichi ed abbia correttamente esercitato il proprio potere di organizzazione del reparto.
Nel delegare un determinato compito al proprio collaboratore, il primario ha l’obbligo di impartire istruzioni tese a definire criteri terapeutici
e diagnostici. Tali direttive assumono, evidentemente, un carattere prettamente tecnico, in quanto definiscono linee di condotta tese a garantire il
miglior esito possibile del trattamento23. Questa natura e funzione delle
direttive impartite dal dirigente al proprio collaboratore consente di classificarle, secondo autorevole dottrina, come vere e proprie “regole cautelari” attinenti allo svolgimento di un’attività caratterizzata da un elevato
coefficiente di rischio. Secondo questo orientamento, le direttive così impartite potrebbero, in caso di loro violazione, dare luogo ad ipotesi di
colpa specifica, trattandosi di regole cautelari positivizzate, rientranti appieno nella nozione di “discipline” di cui all’art. 43 c.p.24.
21 In tal senso v. A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 243 ss.; F. PALAZZO, Responsabilità medica, cit., p. 1065; D. GUIDI, L’attività medica in équipe, cit., p. 227.
22 Si deve, d’altro canto, sottolineare che nel caso in cui il sanitario in posizione subalterna abbia assunto l’esecuzione di un intervento per il quale non aveva le dovute competenze, sarà configurabile nei suoi confronti un’ipotesi di colpa per assunzione (su cui v. supra
cap. III, § 4.).
23 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1632. In giurisprudenza v. Cass.
pen., sez. IV, 11 marzo 2005, n. 9739, Dilonardo ed altri, cit.; Cass. pen., sez. IV, 2 marzo
2004, n. 24036, Sarteanesi, in CED rv. 228577.
24 Cfr. F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 89, il quale osserva che, con riferimento al fondamento preventivo delle regole cautelari, è possibile individuare regole la cui funzione cautelare rifletta una funzione puramente organizzativa ed ordinatoria. Sulla riconducibilità delle
regole cautelari aventi carattere organizzatorio, seppur con riferimento alla materia degli
infortuni sul lavoro, alla categoria delle “discipline” di cui all’art. 43 c.p., v. M. MANTOVANI,
Il principio di affidamento, cit., p. 352 ss.
148
4.
CAPITOLO QUARTO
La responsabilità del medico subordinato per il fatto colposo del superiore: a) «autonomia vincolata», «autonomia limitata» e dovere di
dissenso
Dall’esame fin qui condotto, è emerso che spettano al dirigente della
struttura complessa le scelte circa gli indirizzi diagnostici e terapeutici
concernenti i pazienti ricoverati nel reparto dallo stesso diretto. Si pone,
quindi, l’esigenza di verificare se ed entro quali limiti le scelte del primario siano vincolanti per i medici in posizione subalterna, chiamati a darvi
esecuzione.
Naturalmente, il problema non si pone tanto con riferimento alle direttive lecite, rispetto alle quali deve riconoscersi un’ampia vincolatività,
pena altrimenti la perdita di valore del rapporto gerarchico25, quanto,
piuttosto, rispetto a quelle che giungono a concretare una condotta colposa. Con riferimento a tale ultima questione, si riscontra un orientamento uniforme ed alquanto rigoroso della giurisprudenza che, valorizzando l’autonomia professionale del medico in posizione subalterna, ha
sempre sostenuto che la gerarchia instaurata ex lege in ambito ospedaliero
non è da ritenere in realtà caratterizzata da una cieca ed assoluta soggezione agli ordini del primario, riconoscendo, di conseguenza, l’obbligo
per il subordinato di dissentire dagli ordini impartiti da quest’ultimo, ove
manifestamente erronei. Un rapporto di subordinazione, quindi, che secondo la giurisprudenza non può considerarsi “assoluto”: il subordinato
conserva margini di dissenso, che aumentano anche in relazione alla qualifica da lui posseduta, rispetto all’operato del proprio superiore o alle direttive ricevute, nei casi in cui questi concretizzino fatti colposi26.
25 La vincolatività delle direttive lecite deriverebbe, peraltro, dalla loro natura di regole
cautelari. Si è, infatti, osservato sopra che le direttive impartite dal primario hanno una finalità organizzativa la quale, secondo la più recente dottrina, ben può costituire il contenuto
precauzionale di regole cautelari.
26 In tal senso v. Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 1959, Niesi, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1960, p. 1173, secondo cui “il rapporto di subordinazione tra due sanitari non può mai considerarsi tanto assoluto che il sottoposto nell’uniformarsi alle disposizioni del superiore non
vi cooperi volontariamente così da esonerarlo conseguentemente da responsabilità per l’evento non voluto derivante dalla condotta medesima”. Nel medesimo senso v. Cass. pen., sez.
IV, 2 maggio 1989, n. 7162, Argelli, cit.: “l’autonomia professionale che il primario deve rispettare non può non essere, inoltre, l’autonomia corrispondente alle diverse qualifiche; sicché se il medico appartenente alla posizione iniziale gode di autonomia «vincolata alle direttive ricevute», come dice la legge, il medico appartenente alla posizione intermedia, l’aiuto,
«svolge funzioni autonome nell’area dei servizi a lui affidata nel rispetto della necessità del lavoro di gruppo e sulla base delle direttive ricevute dal medico appartenente alla posizione
apicale»: l’autonomia di quest’ultimo, come si vede, non è vincolata alle direttive impartite,
così come avviene per il medico appartenente alla posizione iniziale, ma deve svolgersi, semplicemente, sulla base di quelle direttive, il che significa che queste ultime serviranno di
orientamento senza poter assurgere al livello di altrettanti insuperabili confini”.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
149
Tale rigoroso orientamento trova, ad avviso dei giudici, riscontro
nelle disposizioni normative in tema di organizzazione gerarchica e ripartizione di competenze tra sanitari aventi diversa qualifica giuridica. E, in
effetti, è inconfutabile che le normative che si sono succedute nella regolamentazione dell’organizzazione ospedaliera, abbiano sempre salvaguardato l’autonomia e l’indipendenza del singolo professionista incardinato
nella struttura gerarchica. Dal reticolo normativo emerge una rigida
struttura gerarchica, nella quale i sanitari sono collocati in un crescendo
di responsabilità e di autonomia. In tale prospettiva, l’art. 63 d.P.R. n.
761 del 1979 attribuisce al medico in posizione iniziale – assistente –
un’autonomia tecnica e professionale (essendogli consentito l’esercizio di
funzioni medico-chirurgiche di supporto con assunzione di responsabilità diretta) seppur vincolata alle direttive del primario (c.d. autonomia
vincolata); al medico in posizione intermedia – aiuto – funzioni autonome nell’area dei servizi a lui affidata, relativamente ad attività e prestazioni medico chirurgiche, nonché ad attività di studio, di didattica, di ricerca, anche sotto il profilo di diagnosi e cura, sulla base delle direttive
ricevute dal primario (c.d. autonomia limitata)27.
Secondo la linea interpretativa giurisprudenziale, quindi, l’art. 63
d.P.R. n. 761 del 1979 non attribuisce al medico, neppure in posizione
iniziale, un ruolo di mero esecutore di direttive ed istruzioni, ma ne va27 Con specifico riferimento alla figura dell’assistente ospedaliero, v. Cass. pen., sez. IV,
28 giugno 1996, n. 7363, Cortellaro, in CED rv. 205829, in cui i giudici hanno osservato che
egli “è tenuto a seguire le direttive organizzative dei superiori, collaborare con il primario e
gli aiutanti nei loro compiti, ha la responsabilità degli ammalati a lui affidati, provvede direttamente nei casi d’urgenza. Comunque, egli, in qualità di collaboratore del primario e degli
aiuti, non è tenuto, nella cura degli ammalati, ad un pedissequo e acritico atteggiamento di
sudditanza verso gli altri sanitari perché, qualora costui ravvisi elementi di sospetto percepiti
o percepibili con la necessaria diligenza, attenzione e perizia, ha il dovere di segnalarli e di
esprimere il proprio dissenso, e solo a fronte di tale condotta potrà rimanere esente da responsabilità nel caso il superiore gerarchico non ritenga di condividere il suo suggerimento”.
In altra pronuncia più recente la Corte ha specificato che cosa debba intendersi per “autonomia vincolata”, sottolineando che “la normativa in esame non configura affatto la posizione
dell’assistente come quella di un mero esecutore di ordini. Questa conclusione la si trae chiaramente dalla prima norma richiamata (art. 63, comma 3, d.P.R. n. 761 del 1979) – nella parte
in cui fa riferimento alla responsabilità per le attività professionali a lui direttamente affidate
– e, in negativo, dalla seconda e terza (5° e 6° comma) laddove per un verso prevede che il
primario debba rispettare l’autonomia professionale operativa del personale dell’unità assegnatagli; per altro verso consente al primario di avocare il caso alla sua diretta responsabilità.
Quando la norma in esame parla di «autonomia vincolata alle direttive ricevute» non intende
quindi riferirsi ad una subordinazione gerarchica che non consente scelte diverse (…) ma ad
un’autonomia limitata dalla possibilità, prevista per il medico in posizione superiore, di imporre le proprie scelte terapeutiche quando esse contrastino con quelle del medico cui è assegnato il caso”. In tal senso v. Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2000, n. 556, Zanda, cit.
150
CAPITOLO QUARTO
lorizza l’autonomia decisionale ed operativa. Anche la locuzione “autonomia vincolata”, che sembrerebbe alludere ad un rapporto di rigida sovraordinazione-subordinazione, in cui il medico in posizione iniziale non
possa dissentire dagli ordini impartitigli, vuole, invece, esplicitare l’esistenza di un rapporto dialettico in cui la “vincolatività” è da ricondurre
al fatto che al medico in posizione apicale è sempre data la possibilità di
superare il dissenso del proprio collaboratore attraverso l’esercizio del
potere di avocazione.
Detta ricostruzione, si desume dalle sentenze, trova ulteriori conferme nella nuova normativa introdotta, dapprima con il d.lgs. n. 502 del
1992 e, successivamente, con il d.lgs.n. 229 del 1999, che hanno ulteriormente ampliato gli ambiti di autonomia dei medici in posizione subalterna attenuando i vincoli gerarchici.
Quest’ultimo assunto, tuttavia, non appare condivisibile. Seppur
vero, infatti, che la nuova normativa, ha cercato di contemperare i vincoli
gerarchici riconoscendo maggiori spazi di autonomia ai medici in posizione subalterna (in particolare al dirigente con almeno cinque anni di
anzianità), essa, nondimeno, lascia irrisolta la questione del grado di vincolatività delle direttive ed istruzioni che il primario – anche nel nuovo
assetto – deve continuare ad impartire ai medici del proprio reparto. Direttive ed istruzioni alle quali deve, necessariamente, essere riconosciuto
un certo grado di vincolatività (a cui fa da contrappeso una limitazione
del potere/dovere di dissenso del medico in posizione subalterna) pena,
altrimenti, la loro inefficacia e l’impossibilità per il primario di organizzare e gestire il reparto28.
Nei paragrafi che seguono si cercherà di individuare le direttrici
per la ricostruzione della penale responsabilità del medico in posizione
subordinata per il fatto del medico in posizione apicale. Responsabilità
che può assumere due diverse forme: la prima, concernente i casi in cui
il medico in posizione subordinata realizzi materialmente la condotta
colposa, in esecuzione di direttive impartite dal primario; la seconda, relativa a quella costellazione di casi in cui i medici subordinati assistono
all’attività del primario che, personalmente, compia una condotta colposa.
28 In tal senso in dottrina v. P. AVECONE, La responsabilità, cit., p. 157; A.R. DI LANVecchie e nuove linee, cit., p. 233; A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p.
1635, il quale osserva che la previsione di un generale dovere di verifica delle istruzioni impartitegli dal superiore gerarchico sarebbe addirittura disfunzionale rispetto alla ratio delle
disposizioni di legge ed invita a riflettere sui pregiudizi che potrebbe subire un paziente inserito in una struttura operativa in cui ogni decisione fosse sottoposta alla verifica di ogni
medico.
DRO,
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
5.
151
(Segue): b) la condotta colposa del medico in posizione subalterna esecutiva di direttive impartite dal superiore
La prima questione che si impone all’attenzione concerne la natura
dell’ordine impartito dal primario e se esso possa essere disatteso dal medico in posizione subalterna. La dottrina penalistica, scontrandosi con
l’interpretazione rigoristica, appena citata, della giurisprudenza, ha spostato la propria attenzione sulla misura di sindacabilità dell’ordine, vagliando anche l’eventuale applicabilità della scriminante dell’adempimento del dovere di cui all’art. 51 c.p.29.
Come è noto, presupposti indefettibili per la configurabilità di questa scriminante sono la sussistenza di un rapporto di supremazia-subordinazione di diritto pubblico e la legittimità, formale e sostanziale, dell’ordine impartito30. Con specifico riferimento all’attività medica, sussiste
sicuramente un rapporto di diritto pubblico con riferimento ai medici
appartenenti a strutture ospedaliere pubbliche. Tale conclusione trova riscontro nella natura pubblica delle strutture in cui tali medici operano;
nella lettera del d.P.R. n. 761 del 1979, che in più parti statuisce l’applicabilità al personale sanitario delle norme riguardanti i dipendenti civili
dello Stato; nelle caratteristiche del rapporto, da individuarsi nel potere
di dare unità di indirizzo ad una serie di uffici mediante istruzioni ed ordini, e nel potere di sorveglianza che spetta al superiore sulle attività del
subordinato, tipiche dei rapporti pubblicistici31. Una prima, ovvia, considerazione è che detta causa di giustificazione non potrà sicuramente trovare applicazione rispetto a rapporti gerarchici di tipo privatistico e, segnatamente, con riferimento al tema qui trattato, rispetto a tutte quelle
situazioni che si verifichino in case di cura.
29 C.
DODERO, Colpa e cooperazione colposa nell’esercizio della professione sanitaria, in
Riv. it. dir. proc. pen., 1960, p. 1173; P. AVECONE, La responsabilità, cit., p. 157; F. AMBROSETTI,
M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 36.
La questione dell’applicabilità dell’art. 51 c.p. al medico in posizione subordinata che
abbia adempiuto un ordine del proprio superiore gerarchico presuppone a monte la soluzione positiva dell’applicazione di tale scriminante ai reati colposi: in tal senso cfr. S. FIORE,
Cause di giustificazione e fatti colposi, Padova, 1996, p. 102 ss. Contra D. PULITANÒ, voce Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, in Dig. disc. pen., IV, Torino, 1990, p. 327.
30 Nella manualistica v. S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 54; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 288 ss.; F. MANTOVANI,
Diritto penale, cit., p. 244 ss. Per approfondimenti sulla causa di giustificazione dell’art. 51
c.p. cfr. G. DELITALIA, voce Adempimento di un dovere, in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958, p.
567; A. REGINA, voce Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, in Enc. giur., vol.
XIII, Roma, 1989.
31 C. DODERO, Colpa e cooperazione colposa, cit., p. 1174; F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI,
R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 37.
152
CAPITOLO QUARTO
Qualche problema sembra, invece, porsi con riferimento alla legittimità sostanziale dell’ordine in un caso, come quello dell’attività medica,
in cui la legge non determina i presupposti ed il contenuto dell’ordine,
ma attribuisce al medico in posizione apicale un potere discrezionale, sia
in relazione all’opportunità di emanare l’ordine che al suo contenuto. È
evidente, tuttavia, che l’ordine potrà ritenersi sicuramente illegittimo nel
caso in cui consista nell’esecuzione di condotte criminose e, quindi, laddove il primario impartisca al medico subordinato direttive che comporterebbero la realizzazione di condotte colpose ai danni del paziente.
È proprio con riferimento a questi ultimi che la dottrina si è interrogata circa l’applicabilità dell’art. 51, ult. co., c.p. che esclude la punibilità del subordinato che abbia adempiuto ad un ordine illegittimo insindacabile. Sennonché, per costante orientamento, l’art. 51, ult. co., c.p.,
inserito nel codice per l’esigenza di evitare la paralisi di funzioni che devono essere adempiute con la massima sollecitudine, è applicabile solo a
rapporti di subordinazione di tipo militare. Tale ultimo rilievo sarebbe
già di per sé sufficiente per escludere l’applicabilità della scriminante ai
rapporti tra medici con vincolo di gerarchia; tuttavia, anche laddove si
volesse ammettere l’applicabilità dell’art. 51, ult. co., c.p. al di fuori dei
rapporti di tipo militare, non si potrebbe fare a meno di rilevare che l’orientamento ormai predominante ne esclude comunque l’operatività rispetto ad ordini che siano manifestamente criminosi.
Alla luce di quanto sinora osservato, sembra, quindi, possibile giungere ad una prima conclusione: l’ordine impartito dal superiore non è
per ciò solo insindacabile ed il medico subordinato ha l’obbligo di non
adempiervi laddove sia illegittimo. Ne consegue che, per la soluzione del
problema della responsabilità del medico in posizione subalterna, l’attenzione deve spostarsi dal piano del fatto o dell’antigiuridicità (a seconda della concezione bipartita o tripartita a cui si acceda) a quello
della colpevolezza ed, in particolare, ai profili attinenti ai limiti dell’esigibilità del rifiuto di eseguire l’atto colposo da parte del subordinato32.
Detti limiti andranno, quindi, necessariamente, tracciati in considerazione della possibilità per il medico, in posizione subordinata, di percepire la natura criminosa della direttiva impartitagli, e saranno, ovviamente, diversamente modulati a seconda che l’ordine sia stato impartito
ad un aiuto, ad un assistente ovvero ad uno specializzando.
32 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedialero, cit., p. 1632; M. RIVERDITI, Responsabilità dell’assistente medico per gli errori terapeutici del primario: la mancata manifestazione del
dissenso dà (sempre) luogo a un’ipotesi di responsabilità per «mancato impedimento dell’evento»?, in Cass. pen., 2001, p. 161; A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 240.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
153
Come significativamente osservato in dottrina, riconoscere in capo al
medico subordinato la sussistenza di un dovere di verifica delle direttive
impartitegli dal primario alla stregua delle leges artis, significa presupporre l’agevole conoscibilità e, dunque, l’assoluta linearità di queste ultime, da parte di ogni medico, anche quello alle “prime armi”: tale pretesa, dimostra un approccio superficiale da parte della Cassazione al problema della colpa medica e, soprattutto, non conforme alle elaborazioni
teoriche in materia33. Il problema è, quindi, quello di valutare il profilo,
del tutto assente nelle pronunce della Corte, della esigibilità del dissenso
da parte del medico in posizione subalterna e, in sostanza, della riconoscibilità della criminosità della direttiva impartitagli dal proprio superiore.
Esistono, infatti, attività – tra le quali si colloca quella medico-chirurgica – ove le direttrici di comportamento, inerendo a situazioni di rischio sfuggente, sono caratterizzate da un’intrinseca ed incessante mutevole adeguatezza, nel tempo e nei diversi luoghi34. Così, accanto a trattamenti diagnostici e terapeutici la cui efficacia è consolidata, e di cui
quindi sono ben note le regole di esecuzione (si pensi ad esempio alla
somministrazione di antibiotici per combattere le infezioni), ve ne è tutta
una serie la cui efficacia o la cui esecuzione è ancora controversa. Si allude, in particolare, a quella serie di regole cautelari di natura sperimentale, la cui esistenza non origina da una prassi consolidata, ma promana
direttamente dalle superiori conoscenze causali dell’agente e dalle valutazioni di rischio da questi effettuate35. Orbene, indipendentemente dall’indirizzo dottrinale che si intenda seguire in merito alla ricostruzione
del momento oggettivo della colpa36, rispetto a questo tipo di regole tecniche, caratterizzate da un’incessante opera di adattamento e confronto
dialettico di tipo scientifico, appare, invero, ardua l’individuazione di un
riferimento cautelare unico e certo nella miglior scienza ed esperienza del
33 A.
34 A.
VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1632.
VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1633. Nella dottrina medico-legale v. A. FIORI, Medicina legale, cit., p. 432.
35 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 102: si fa riferimento a tutti quei trattamenti medici autorizzati e scientificamente legittimati, ma, tuttavia, non ancora unanimemente accolti
dalla scienza medica nel suo complesso. In questo senso, cfr. anche F. MANTOVANI, I trapianti
e la sperimentazione umana, Padova, 1974, p. 19 ss.
36 Il riferimento è ai due filoni interpretativi dominanti in materia di individuazione
della regola cautelare: per il primo il parametro deve essere quello della miglior scienza ed
esperienza, mentre, per il secondo, il parametro di riferimento deve essere quello dell’homo
eiusdem condicionis ed professionis a cui l’agente è riconducibile. Per il primo orientamento v.
F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 96; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 342; per il secondo
orientamento cfr. G. FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 237 ss.; S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G.
DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 423 ss.; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale,
cit., p. 579 ss.
154
CAPITOLO QUARTO
momento storico, così come di un unico e ben riconoscibile comportamento standard proprio dell’homo eiusdem condicionis et professionis 37.
È pur vero che, anche rispetto a tali attività, sono sicuramente enucleabili leges artis che devono essere rispettate nell’esecuzione dell’attività sperimentale (si pensi a quelle relative agli usi procedimentali propri
della sperimentazione, generalmente contenute nei c.d. protocolli scientifici propri della sperimentazione scientifica)38; ciononostante non può
negarsi che la mancanza di una conferma prasseologica di tali regole cautelari ne condizioni, inevitabilmente, la scelta scientificamente responsabile e ne renda assai meno agevole la conoscibilità39.
Tali considerazioni inducono a ritenere che l’affermazione della responsabilità colposa passi necessariamente attraverso una diversificazione dei parametri del rimprovero a seconda del tipo di lex artis e dei
diversi gradi di sapere scientifico del medico. Venendo più specificatamente alla realtà ospedaliera, emerge che i medici aventi la qualifica di
primario, per l’esperienza conseguita, “possono assumere nel dibattito
medico-scientifico un ruolo centrale, si da assumere un atteggiamento
autonomo e critico rispetto alle novità e comunque alle divergenze della
scienza medica”40. Di conseguenza, proprio tali medici potranno utilizzare ed imporre l’utilizzo (tramite direttive) all’interno del reparto di
nuovi metodi, magari aventi ancora carattere sperimentale.
Orbene, se normalmente il medico in posizione subalterna sarà chiamato a svolgere trattamenti rispetto ai quali si siano già consolidate sufficienti conoscenze e leges artis uniformemente riconosciute, non può,
nondimeno, escludersi che lo stesso sia chiamato (in forza del potere di
impartire direttive riconosciuto al primario) ad eseguire trattamenti di
tipo sperimentale. Ne consegue che il riconosciuto dovere di verifica da
parte del medico subordinato della validità delle istruzioni ricevute dal
primario potrà affermarsi solo con riferimento a quei trattamenti diagnostici o terapeutici per l’esecuzione dei quali siano necessarie e sufficienti
le conoscenze che devono appartenere a qualsiasi medico. In questo
caso, il riconoscimento dell’ordine criminoso è assolutamente esigibile
dal sanitario e con esso anche la prestazione di dissenso rispetto all’esecuzione dell’ordine ricevuto. Laddove, al contrario, la direttiva del dirigente di struttura imponga l’esecuzione dell’intervento attraverso protocolli scientifici di natura ancora sperimentale, non potrebbe esigersi la ri37 Per
questa ricostruzione del problema v. A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero,
cit., p. 1633.
38 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 102.
39 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1634.
40 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1634.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
155
conoscibilità della natura colposa della condotta imposta: se così fosse si
richiederebbe, infatti, ad un medico in posizione iniziale (assistente o addirittura specializzando), ancora privo della necessaria esperienza, di saggiare la validità di prescrizioni che richiedono una conoscenza tecnicoscientifica molto avanzata41.
Naturalmente, la riconoscibilità dell’ordine criminoso aumenterà
man mano che si passa dalla qualifica di medico in posizione iniziale a
quella di aiuto: quest’ultimo, infatti, sarà sicuramente dotato di conoscenze professionali superiori rispetto all’assistente o allo specializzando
e potrà, quindi, essere in grado di valutare anche trattamenti sperimentali.
L’errore terapeutico realizzato dal medico in posizione subordinata,
nel caso di trattamenti innovativi imposti dal primario, sarebbe scusabile,
ex art. 5 c.p., in quanto riconducibile ad un errore sul precetto inevitabile, essendo l’erronea informazione stata fornita da un soggetto istituzionalmente abilitato a fornirla42. Se, infatti, si accoglie il più recente
orientamento dottrinale che riconosce, con riferimento alle fattispecie
colpose, la natura “tipizzante” della regola cautelare, allora il problema
della conoscibilità della regola cautelare diventa attinente alla conoscibilità del precetto43.
Conclusivamente, si può affermare che nessun problema sorge nel
caso in cui l’assistente o l’aiuto condividano le scelte terapeutiche proposte dal primario: in tal caso si configurerà una cooperazione colposa tra i
due sanitari, che assumeranno pari responsabilità rispetto all’eventuale
evento lesivo verificatosi. Al contrario, nel caso in cui l’assistente o l’aiuto
non condividano le scelte terapeutiche indicate dal primario, sorgerà in
capo agli stessi un preciso dovere, derivante dalla loro posizione di ga41 A.
VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., p. 1634; P. AVECONE, La responsabilità, cit., p. 159, il quale osserva che “quando però si entra nell’opinabile e nel discutibile il
collaboratore non può opporre il suo rifiuto con la semplice motivazione di non essere d’accordo sulle modalità del trattamento. Non bisogna, infatti, dimenticare che, a parte i rapporti
di gerarchia il malato si è affidato a “quel” chirurgo, perché nelle sue determinazioni ripone
ogni fiducia. È giusto quindi che, quando la scienza medica prospetta più strade egualmente
percorribili, la decisione venga presa da chi deve rendere conto (al malato ed al giudice) del
suo operato”.
42 A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero, cit., nota 43, p. 1636.
43 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 110, il quale osserva che “nel delitto colposo l’ancoraggio della colpevolezza al requisito della scientia iuris non può avere come raggio di
azione la sola norma incriminatrice di parte speciale, che delinea l’ossatura della fattispecie
colposa nel suo complesso. Vale a dire che, sul piano del diritto positivo vigente, l’errore e
l’ignoranza che interessano la regola cautelare si risolvono, ai sensi, dell’art. 5 c.p., in un error
iuris, che investe la fattispecie colposa nel suo complesso”.
In tal senso, cfr. inoltre P. VENEZIANI, I delitti, cit., pp. 73 e 218.
156
CAPITOLO QUARTO
ranzia nei confronti del paziente, di attivarsi per impedire l’evento lesivo,
manifestando, quindi, il proprio dissenso nei confronti delle scelte del
primario. In tal caso, tuttavia, non è sufficiente, che il medico subordinato manifesti il proprio dissenso (magari facendolo annotare sulla cartella clinica), ma è altresì necessario che egli si astenga dal porre in essere
la condotta colposa sollecitata dal primario: ove eseguano egualmente
l’intervento, l’assistente e l’aiuto risponderanno degli eventuali esiti dannosi conseguenti alla condotta colposa44. Infine, a carico del medico subordinato, sarà configurabile una responsabilità colposa in tutti i casi in
cui egli non percepisca la criminosità dell’ordine impartitogli, riconoscibile sulla base delle comuni conoscenze mediche.
Alle medesime conclusioni giunge la Corte di Cassazione in una
pronuncia nella quale è ben enucleato il pensiero di sintesi dei giudici sul
rapporto tra medici in posizione gerarchica: “avuto riguardo ai ruoli e
alle funzioni rispettivamente attribuiti dalla normativa vigente, agli assistenti ospedalieri, agli aiuti ed ai primari, e considerate altresì le condizioni proprie della professione medica, a tutti i livelli, deve ritenersi che
se primario, aiuto ed assistente condividono le scelte terapeutiche, tutti
insieme ne assumono la responsabilità. Quando invece l’assistente o
l’aiuto non condividano le scelte terapeutiche del primario, possono andare esenti da responsabilità solo se abbiano provveduto a segnalare allo
stesso primario la ritenuta inidoneità o rischiosità delle scelte”45.
6.
(Segue): c) esercizio del potere di avocazione da parte del dirigente di
struttura complessa e responsabilità del medico in posizione subalterna
Rimane da analizzare un ultimo profilo con riferimento al caso in
cui il medico in posizione subalterna si rifiuti di eseguire le direttive impartitegli dal primario, in quanto ritenute criminose. Si tratta dell’ipotesi
in cui il medico in posizione apicale, ricevuto il dissenso da parte del proprio collaboratore, decida di esercitare il potere, riconosciutogli dalla
legge, di avocare il caso alla sua diretta responsabilità.
Il dettato normativo prevede espressamente che, ogniqualvolta il
medico in posizione apicale eserciti il potere di avocazione, sorga in capo
44 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 229. Contra F. AMBROSETTI, M.
PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 41, per i quali una tale ricostruzione vanificherebbe i poteri direttivi-impositivi del primario, il quale, peraltro, potrebbe far ricorso al
potere di avocazione.
45 Cass. pen., sez. IV, 5 ottobre 2000, n. 13212, Brignoli ed altri, in Riv. pen., 2001,
p. 452.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
157
al medico subordinato un dovere di prestare la propria collaborazione46.
L’esercizio del potere di avocazione da parte del primario diviene così
uno strumento per costringere il subordinato dissenziente a prestare comunque la propria opera, conformandosi alle sue direttive47.
In questi casi non può affermarsi la penale responsabilità del medico
subordinato dissenziente, per gli eventuali fatti colposi realizzati, avendo
egli un preciso obbligo ex lege di collaborare con il primario. La stessa
Corte di Cassazione ha escluso la responsabilità dell’aiuto o dell’assistente, sottolineando che essi, in caso di esercizio del potere di avocazione da parte del primario, divengono meri esecutori materiali, privi di
qualsivoglia spazio di autonomia decisionale48.
7.
La responsabilità del medico in posizione subalterna per errori commessi dal superiore gerarchico
Al di fuori dei casi sopra esaminati, può accadere che il medico in
posizione subordinata non esegua personalmente l’intervento diagnostico o terapeutico, ma assista il proprio superiore nell’esecuzione dello
stesso. In tale evenienza occorre indagare circa l’eventuale responsabilità
del subalterno per la condotta colposa, materialmente realizzata dal medico apicale, da cui sia conseguita la morte o lesioni all’integrità fisica del
paziente.
La giurisprudenza, ancora una volta, si mostra alquanto rigorosa nel
riconoscere anche la responsabilità del medico, aiuto, assistente o specializzando, che abbia collaborato con il medico in posizione apicale nella
realizzazione dell’intervento. Se, tuttavia, si può concordare con le conclusioni a cui giunge la giurisprudenza con riferimento alla sussistenza di
un obbligo per il collaboratore di segnalare al superiore eventuali condotte erronee, al contrario non si può giungere alle medesime conclusioni dei giudici, di merito e di legittimità, in ordine alla sussistenza di un
vero e proprio dovere di controllo in capo al subordinato.
Con riferimento a quest’ultimo profilo, ed anticipando un tema che
sarà poi riproposto più specificatamente con riferimento alle attività chirurgiche in équipe, la Corte di Cassazione ha ritenuto che “nel caso di
evento colposo determinato da negligenza nel corso di un’operazione
46 Art.
63 d.P.R. n. 761 del 1979 che stabilisce “il primario può avocare casi alla sua
diretta responsabilità, fermo restando l’obbligo di collaborazione da parte del personale
appartenente alle altre posizioni funzionali”.
47 G. AMATO, Solo l’esplicita manifestazione del dissenso, cit., p. 100.
48 Cass. pen., sez. IV, 2 maggio 1989, n. 7162, Argelli, cit.
158
CAPITOLO QUARTO
chirurgica, va ritenuto responsabile sia il chirurgo, principale esecutore
dell’intervento, che il suo assistente, poiché quest’ultimo, nella sua qualità di collaboratore e potenziale continuatore dell’operazione, ha il compito di vigilare sull’intera esecuzione … L’assistente chirurgo è, dunque,
per titolo e qualifica professionale, un collaboratore del chirurgo che
opera ed è, inoltre, in qualsiasi momento, dell’operazione un potenziale
diretto esecutore dell’operazione medesima qualora si presenti la necessità di portarla a termine in sostituzione dell’operatore: egli pertanto non
è tenuto soltanto a svolgere gli atti richiesti con cautela, diligenza e perizia, ma anche a sorvegliare nel complesso in ogni suo atto e dettaglio,
l’intera fase esecutiva dell’operazione”49.
Sarebbe ravvisabile, quindi, a parere dei giudici, quello che dalla
dottrina è stato qualificato come un “dovere di controllo incrociato”50,
ovverosia il dovere in capo al subordinato di controllare l’operato del superiore, tanto che di eventuali errori colposi di quest’ultimo risponderebbe anche il primo, per il fatto di non averli rilevati e corretti. Tale assunto, in realtà, non appare compatibile con i principi sin qui enucleati
ed in particolare con il principio di affidamento quale canone di delimitazione delle sfere di responsabilità dei sanitari che cooperano nella realizzazione di un intervento. Il legittimo affidamento, infatti, cede il passo
ad un generale dovere di controllo solo nelle ipotesi in cui detto dovere
discenda ex lege dalla qualifica assunta dal medico ovvero al presentarsi
di situazioni che rendano evidente o comunque prevedibile la realizzazione di un fatto colposo da parte dei sanitari con cui avviene la cooperazione.
Orbene, nel caso del medico in posizione subordinata non vi è alcun
dato normativo che riconosca l’esistenza in capo a questo soggetto di un
generale obbligo di controllo e vigilanza sull’altrui operato, essendo simili obblighi ravvisabili solamente a carico di medici in posizione gerarchica sovraordinata (controllo e vigilanza da esercitare, peraltro, non in
modo continuo, ma, impartendo, in via preventiva, direttive ed istruzioni
ed organizzando adeguatamente il reparto).
Tutt’al più, un obbligo di controllo potrebbe sorgere in capo al sanitario nel caso in cui si trovi ad operare in situazioni (quali ad esempio
le cattive condizioni di salute) che facciano ritenere prevedibile una condotta colposa del medico gerarchicamente sovraordinato, ovvero nel caso
in cui egli abbia diretta percezione dell’errore. Ebbene, con riferimento a
questa seconda situazione, devono integralmente richiamarsi le conside49 Cass. pen., sez. IV, 5 gennaio 1982, n. 7006, Fenza,
50 L. VERGINE, F. BUZZI, A proposito di una singolare
Cass. pen., 1983, p. 1546.
in Cass. pen., 1983, p. 1543.
ipotesi di colpa professionale, in
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
159
razioni svolte in precedenza circa la riconoscibilità delle circostanze che
fanno insorgere un obbligo di controllo e di attivazione per emendare gli
errori del proprio superiore (v. supra § 5). Non si può, infatti, ancora una
volta sottovalutare il fatto che si richiede ad un medico dotato di minori
conoscenze, capacità ed esperienza di vigilare sull’operato di un medico
ben più qualificato di lui, che nel corso dell’intervento metterà, quindi,
in atto anche metodiche che richiedano una conoscenza ed un’abilità tecnica ben superiori a quelle possedute dal medico in posizione iniziale51.
Diversa rilevanza assume, invece, la condotta del sanitario in posizione subalterna che, avvedutosi dell’errore del proprio superiore (riconoscibile sulla base delle conoscenze comuni a ciascun medico), rimanga
inerte. In tali casi, in forza della posizione di garanzia che detto medico
assume nei confronti dei pazienti alla cui cura collabori, sorge un obbligo
per lo stesso di attivarsi quando, magari anche a seguito dell’apprendimento di elementi sconosciuti al primario, percepisca l’errore diagnostico o terapeutico. In tal senso è orientata anche la Corte di Cassazione,
la quale ha rilevato che “in ipotesi di omicidio colposo, il medico, aiuto
dello specialista primario e suo diretto collaboratore, che abbia visitato
più volte il paziente, e che sia stato posto in grado di esprimere dubbi
sull’esattezza della diagnosi, a seguito di nuovi accertamenti e per l’acquisizione di altri convergenti elementi di giudizio, ha il dovere di attivarsi presso il primario per una più sicura diagnosi ai fini di adeguata terapia; sicché ove abbia lasciato correre le cose, astenendosi dal disporre
altre indagini e, anzi, associandosi all’errato convincimento e al comportamento indolente del primario, versa in colpa per morte del paziente, in
termini ancora più gravi dello stesso primario”52.
Il medico in posizione subordinata che non si attivi presso il superiore per segnalare eventuali violazioni delle leges artis da questi commesse, pertanto, concorrerà con condotta omissiva, rilevante ex art. 40,
comma 2, c.p., nel fatto di reato materialmente realizzato da quest’ultimo.
8.
Profili di responsabilità per le attività compiute dal medico specializzando
Tra i medici in posizione subalterna un ruolo del tutto peculiare è rivestito dal medico specializzando, ovvero colui che, laureatosi in medicina e chirurgia, prosegue il suo percorso di studi accedendo alla Scuola
51 VERGINE,
NELLI,
BUZZI, A proposito, cit., p. 1547; F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCILa responsabilità, cit., p. 49.
52 Cass. pen., sez. IV, 2 maggio 1989, n. 7162, Argelli, cit.
160
CAPITOLO QUARTO
di formazione specialistica. Si tratta, quindi, di un medico che sta perfezionando la sua formazione e che, per tale ragione, effettua la pratica clinica attraverso un inserimento, pur marginale, nell’organigramma di reparto.
La normativa di riferimento è attualmente contenuta nel d.lgs. n.
368 del 1999, che delinea le mansioni del medico specializzando cercando di contemperare, da un lato, la sua veste di medico in formazione
(come tale, quindi, assoggettato al controllo del tutore) e, dall’altro, la
sua autonomia (trattandosi pur sempre di laureato in medicina e chirurgia, abilitato all’esercizio della professione) nello svolgere compiti di natura assistenziale ed eseguire interventi diagnostici e terapeutici.
La, già più volte riscontrata, tendenza giurisprudenziale a privilegiare l’assunzione della posizione di garanzia del medico nei confronti
del paziente, a scapito dei profili di esigibilità della condotta diligente, si
riscontra anche in questo ambito. La lettura delle sentenze evidenzia, infatti, la propensione ad una responsabilizzazione dello specializzando,
per eventi avversi verificatisi nell’esercizio delle sue mansioni, attraverso
la valorizzazione dei profili di autonomia riconosciuti a questo medico.
Secondo l’orientamento della Suprema Corte, quindi, lo specializzando
non è un mero spettatore esterno alla comunità ospedaliera, in quanto
egli non è presente nella struttura per la sola formazione professionale.
Egli, invece, nel momento in cui espleta personalmente l’attività medica,
assume una posizione di garanzia nei confronti del paziente53.
Sotto la spinta di questo rigorismo interpretativo, la giurisprudenza
giunge ad affermare la penale responsabilità delle specializzando anche
qualora l’esito infausto non sia il frutto di una sua autonoma scelta terapeutica, ma sia la conseguenza dell’adempimento di direttive erronee impartite dal tutore. Ad avviso dei giudici, infatti, “non lo esime da responsabilità la passiva acquiescenza alla direttiva data ove non si appalesi appropriata, avendo egli, al contrario l’obbligo di astenersi dal direttamente
operare”54.
Ora, se è indubbio che il medico specializzando assuma, nei confronti del paziente, una posizione di garanzia, non altrettanto sicura può
dirsi, però, l’esigibilità di alcuni comportamenti da parte sua, tenuto
conto della sue ridotte competenze professionali. In tal senso, sembra di
potersi concordare con l’orientamento giurisprudenziale che riconosce la
responsabilità penale dello specializzando, per le conseguenze lesive
53 Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2010, n. 6215, Pappadà, cit.; Cass. pen., sez. IV, 10
luglio 2008, n. 32424, Sforzini, in Foro it., 2008, II, c. 477.
54 Cass. pen., sez. IV, 24 novembre 1999, n. 13389, Tretti, cit.; v. anche Cass. pen., sez.
IV, 20 gennaio 2004, n. 32901, Marandola ed altro, cit.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
161
della sua condotta contraria alle leges artis, con riferimento alle attività
assistenziali che egli svolga personalmente. La progressiva autonomia
nello svolgimento di attività assistenziali, riconosciuta allo specializzando
dall’art. 38 d.lgs. n. 368 del 1999, deve, infatti, necessariamente comportare anche una assunzione di responsabilità dello stesso per quanto compiuto, facendo carico allo stesso l’obbligo di non svolgere quelle attività
per cui non si ritiene sufficientemente competente (essendo, altrimenti,
ravvisabile una colpa per assunzione).
Non si ritiene, viceversa, sempre corretta l’affermazione della responsabilità dello specializzando nei casi in cui egli svolga attività di supporto al proprio tutore o, comunque, interventi in esecuzione di direttive
da quest’ultimo impartite. In tali evenienze, infatti, deve necessariamente
valutarsi la capacità per il medico in formazione, sulla base delle conoscenze teorico-pratiche sino al momento acquisite, di rilevare l’errore di
un sanitario ben più competente di lui e di emendarlo.
In caso di esiti infausti conseguenti a condotte colpose del medico
specializzando, sono, naturalmente, ravvisabili profili di responsabilità
anche a carico del c.d. tutore, il quale, ex lege, ha un dovere di controllo
sulle attività eseguite dal proprio allievo. Anche in questo caso la giurisprudenza si dimostra particolarmente severa nell’escludere l’operatività
del principio di affidamento, e nell’affermare la conseguente concorrente
responsabilità del tutore con quella dello specializzando, proprio in ragione del generale dovere di controllo su questi incombente. La soluzione proposta dalla giurisprudenza, tuttavia, appare, ancora una volta,
troppo semplicistica. Si è già evidenziato, infatti, che al medico specializzando sono riconosciuti veri e propri ambiti di autonomia nell’esercizio
progressivo di attività assistenziale, nel rispetto, però, delle direttive impartite dal tutore. Si ritiene, quindi, che, una volta che il tutore abbia impartito adeguate direttive ed abbia correttamente assegnato (in relazione
alle sue competenze) i compiti allo specializzando egli possa fare legittimo affidamento sull’osservanza da parte di questi delle lege artis.
Potrà, invece, al contrario, configurarsi una responsabilità colposa
(per culpa in eligendo) del tutore (in concorso con quella dello specializzando) nel caso in cui egli abbia assegnato al proprio allievo mansioni
particolarmente complesse esorbitanti, quindi, dalla sua sfera di competenza55.
55 Nello
stesso senso v. A.R. DI LANDRO, Dalle linee guida, cit., p. 306. L’Autore evidenzia, tuttavia, che in questi casi non sempre vi sarà responsabilità concorrente dello specializzando essendo necessario verificare se egli fosse in grado “di rendersi conto della (di riconoscere la) propria inadeguatezza: in ciò consistendo, appunto, il momento soggettivo della
colpa”.
SEZIONE SECONDA
I RAPPORTI TRA PERSONALE MEDICO E PARAMEDICO
9.
I rapporti tra medico e paramedico prima dell’abrogazione del d.P.R.
n. 225 del 1974
Nel capitolo introduttivo si è già delineato il percorso legislativo di
valorizzazione e responsabilizzazione della professione infermieristica,
avviato nel 1990, con l’introduzione della formazione universitaria, e proseguito con l’emanazione del c.d. “profilo professionale” (d.m. 14 settembre 1994, n. 739) e l’abrogazione del c.d. “mansionario” (con l. 26 febbraio 1999, n. 42). Il mansionario, in particolare, indicava con elencazione analitica i compiti assegnati al personale infermieristico, precisando
che gli stessi dovevano essere eseguiti secondo le direttive ricevute dal
primario e, in taluni casi, anche sotto il diretto controllo di quest’ultimo
(es. vaccinazioni, esecuzione di ECG, cateterismo …).
Se, sotto la vigenza del d.P.R. n. 225 del 1974, quindi, il paramedico
era qualificato come un mero esecutore di ordini imparti dal medico, con
l’introduzione delle nuove disposizioni egli diviene soggetto dotato di autonomia decisionale in ordine al processo assistenziale.
Tale cambiamento di prospettiva incide evidentemente anche sulla
delimitazione delle sfere di responsabilità di medici e paramedici che
cooperino nella cura di un paziente, rispetto ai fenomeni definiti di nursing malpractice. Ai fini di una migliore comprensione dell’attuale assetto,
sembra, tuttavia, opportuno un richiamo, seppur sintetico, agli orientamenti formatisi in vigenza del d.P.R. n. 225 del 1974.
A tal riguardo, gli interpreti erano concordi nell’affermare che il
mansionario definiva espressamente i compiti dell’infermiere ed i correlativi doveri di direzione e vigilanza del medico: il medico aveva l’obbligo
di delegare all’infermiere solo i compiti espressamente previsti dal mansionario e doveva controllare solo l’esecuzione di quegli interventi per i
quali ciò fosse richiesto dalla legge stessa. Doveva, pertanto, sempre
escludersi la concorrente responsabilità del medico per eventuali fatti
colposi commessi dal personale infermieristico nell’esecuzione di compiti
autonomamente eseguibili, in quanto non assoggettati a controllo. In altri termini, il medico, nell’ambito degli interventi rientranti tra le man-
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
163
sioni degli infermieri e da questi ultimi eseguibili senza controllo, poteva
fare legittimo affidamento sul loro corretto operato.
Tale assunto aveva, peraltro, trovato accoglimento anche in giurisprudenza, tanto che la Corte di Cassazione assolveva, dall’accusa di
omicidio colposo, un medico di pronto soccorso che, impegnato nelle
cure non rinviabili di un paziente, richiedeva a tre infermieri presenti in
reparto di contattare il medico internista per visitare un nuovo paziente,
nel frattempo giunto in pronto soccorso per una ferita alla testa a seguito
di caduta. Senonché, gli infermieri omettevano di dare esecuzione all’ordine impartito loro dal medico, lasciando il paziente per tre ore su una
sedia a rotelle, e limitandosi a delegare all’infermiere subentrato al termine del turno la chiamata del medico internista. Nel pronunciarsi sulla
penale responsabilità del medico di guardia, la Corte ha affermato che
egli aveva fatto legittimamente affidamento sull’esecuzione dell’ordine
impartito, sia perché si trattava di “ordine facilmente e rapidamente eseguibile (anche attraverso il citofono”, sia perché non sussistevano circostanze tali da far dubitare dell’immediata esecuzione dell’ordine. Al contrario, gli infermieri devono ritenersi responsabili per la morte del paziente ex artt. 40, comma 2, e 589 c.p., in quanto portatori di una
posizione di garanzia nei confronti della vita e dell’integrità del paziente
affidato alle loro cure, che imponeva loro di attivarsi per impedire eventi
lesivi56.
Al di fuori di queste ipotesi, al contrario, a carico del medico sussisteva tanto un dovere di impartire direttive all’infermiere, quanto un dovere di controllare la corretta esecuzione degli interventi delegati che,
ove non adempiuti, davano luogo, in caso di fatti colposi commessi dagli
infermieri, a concorrente responsabilità colposa del medico per culpa in
eligendo ovvero per culpa in vigilando.
La prima ipotesi di responsabilità del medico era ravvisabile in tutti
i casi in cui questi avesse delegato al personale infermieristico compiti
non espressamente previsti dal mansionario, rispetto ai quali, quindi, l’infermiere era ex lege incompetente. Nell’ipotesi in cui, a seguito di delega
da parte del medico di compiti non specificatamente ricompresi nelle
mansioni infermieristiche, si fosse verificato un evento lesivo per la vita o
l’integrità fisica del paziente, sarebbe, quindi, stata configurabile a carico
del medico un responsabilità per culpa in eligendo.
Concorde con questo assunto, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la penale responsabilità di un anestesista per la morte di una paziente, verificatasi nella fase del risveglio da un intervento chirurgico, per
56 Cass.
pen., 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano, cit.
164
CAPITOLO QUARTO
arresto cardiaco causato da anossia acuta conseguente all’effetto deprimente dei farmaci utilizzati per la narcosi. I giudici, infatti, contestarono
all’anestesista di aver omesso di sorvegliare la paziente nella fase del risveglio, delegando tale incombenza ad un’infermiera, neppure specializzata in anestesiologia, la quale, quindi, non era stata in grado di riconoscere i sintomi della turba anossica. La Corte ha così sostenuto che “rettamente è affermata la responsabilità di un anestesista per la morte di
una paziente dovuta ad arresto cardiaco per anossia acuta da oblio respiratorio conseguente all’effetto deprimente dei farmaci utilizzati per la
narcosi, nel caso in cui costui, dopo l’intervento operatorio, abbia
omesso di sorvegliare adeguatamente la paziente in fase di risveglio, affidando intempestivamente il relativo compito ad un’infermiera professionale non specializzata in anestesia, e conseguentemente, di intervenire
con efficacia ai primi sintomi della turba anossica, poi divenuta irreversibile”57.
Nei confronti del medico erano, infine, ravvisabili ipotesi di responsabilità, per omesso controllo (c.d. culpa in vigilando): il d.P.R. n. 225 del
1974 indicava, infatti, pedissequamente, tutti gli interventi delegabili al
personale paramedico, ma da eseguirsi sotto il diretto controllo del medico. Come già evidenziato, infatti, nel caso di soggetti investiti ex lege di
poteri-doveri di vigilanza non può trovare applicazione il principio di affidamento, con la conseguenza che il medico non potrà invocare a proprio favore l’aspettativa sul corretto adempimento dei compiti da parte
del paramedico.
10. I rapporti tra medico e paramedico successivamente all’abrogazione del
d.P.R. n. 225 del 1974
Come già osservato, a seguito dell’abrogazione del d.P.R. n. 225 del
1974 il ruolo dell’infermiere è radicalmente mutato e con esso anche le
sfere di responsabilità di medici e paramedici che cooperino. Scomparsa,
innanzitutto, la figura dell’infermiere generico, oggi l’attenzione si concentra sulle nuove mansioni attribuite all’infermiere professionale, al
quale la legge riconosce ampi spazi di autonomia ed indipendenza dal
medico. Il d.m. n. 739 del 1994, infatti, non prevede più che sia il medico
ad indicare all’infermiere le attività da compiere, essendo quest’ultimo a
dover individuare i bisogni infermieristici della persona e pianificare l’intervento assistenziale, e non subordina l’attività infermieristica a forme di
controllo.
57 Cass.
pen., sez. IV, 30 novembre 1992, n. 1213, Aniballi, in Cass. pen., 1994, p. 1497.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
165
Dal nuovo quadro normativo emerge, quindi, che il medico non ha
più alcun potere di imporre al paramedico le modalità di svolgimento di
un intervento rientrante fra le sue competenze e, soprattutto, non può indicargli quali attività compiere per soddisfare i bisogni infermieristici del
paziente. Ma, addirittura, il d.m. n. 739 del 1994 valorizza l’indipendenza
dell’infermiere anche con riferimento a quelle attività che si risolvono in
un’esecuzione di compiti affidati dal medico (es. somministrazione di
medicinali), assegnandogli la “garanzia della corretta esecuzione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche”.
Rispetto a quest’ultima previsione sono, tuttavia, necessarie alcune
precisazioni in ordine alla portata dell’espressione “corretta applicazione”
delle prescrizioni, nonché all’ambito della “garanzia” data dall’infermiere58. A tal proposito, deve, anzitutto, sgombrarsi il campo da un possibile errore interpretativo: le prescrizioni diagnostiche e terapeutiche
continuano ad essere di esclusiva competenza del medico, il quale deve
stabilire il trattamento più opportuno ed efficace. Con riferimento, ad
esempio, ad una tipica forma di cooperazione tra medici ed infermieri,
quale la somministrazione di medicinali, rimane, quindi, a tutt’oggi di
competenza del medico l’indicazione del tipo di farmaco da somministrare, del dosaggio, dei tempi di somministrazione, della via di somministrazione e della forma farmaceutica.
Il ruolo dell’infermiere non è, tuttavia, quello di semplice esecutore
delle istruzioni ricevute dal medico, ma il compito attribuitogli dalla
legge è quello di garante della corretta applicazione delle prescrizioni.
Seppur privo di un potere di sindacare la cura prescelta e l’efficacia dei
trattamenti prescritti dal medico, il personale paramedico ha comunque
non solo il potere, ma il dovere derivante dalla sua posizione di garanzia,
di sollecitare l’intervento del medico in caso di dubbi sulle terapie, come
ad esempio sul dosaggio, sui tempi di somministrazione di un farmaco e
su quant’altro concerne la correttezza degli elementi contenuti nelle indicazioni fornite dal medico.
L’infermiere, che abbia dubbi o incertezze sulle istruzioni impartitegli, ha il dovere di richiedere chiarimenti al medico e, pertanto, laddove
violi tale regola cautelare assumerà direttamente la responsabilità, in concorso con il medico, per l’eventuale esito infausto verificatosi a seguito
dell’erroneo trattamento terapeutico o diagnostico.
Un contributo all’interpretazione della formula legislativa arriva anche dalla giurisprudenza. La Corte di Cassazione, infatti, ha rilevato che
“l’attività di somministrazione di farmaci deve essere eseguita dall’infer58 R.
FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 808.
166
CAPITOLO QUARTO
miere non in modo meccanicistico, ma in modo collaborativo con il medico. In caso di dubbio sul dosaggio prescritto l’infermiere si deve attivare non per sindacare l’efficacia terapeutica del farmaco prescritto,
bensì per richiamare l’attenzione e richiedere la rinnovazione in forma
scritta della prescrizione”59.
L’infermiere non ha, invece, alcuna abilitazione alla prescrizione di
esami diagnostici ovvero di terapie, né ha il potere di sindacare la cura
prescelta dal medico e l’efficacia terapeutica della stessa60. Si può in sostanza affermare che il personale infermieristico non ha competenza ad
eseguire quelli che sono tradizionalmente individuati come “atti medici”,
definiti dalla giurisprudenza come quell’insieme di atti finalizzati alla
profilassi e alla diagnosi delle patologie, nonché alla prescrizione dei rimedi per curarle61.
Resta, infine, da analizzare l’aspetto concernente la responsabilità
del medico per eventuali errori del personale infermieristico. A tal proposito, deve constatarsi come la diversa formulazione legislativa abbia in
realtà ridotto gli ambiti di interferenza fra l’attività infermieristica e la supervisione del personale medico, tanto che in dottrina si è osservato
come oggi vi sia una netta separazione funzionale tra l’attività medica e
quella infermieristica62. Se così è, deve ritenersi che i rapporti tra medico
ed infermiere siano regolati dal principio di affidamento: le diverse sfere
di competenza e l’assenza di un generale dovere di controllo in capo al
medico permettono di affermare che quest’ultimo, salvo l’insorgenza di
situazioni concrete che facciano ritenere il contrario, deve poter fare affidamento sul corretto operato del personale paramedico nello svolgimento delle mansioni ad esso demandate.
Il predetto principio, però, non sembra trovare accoglimento in giurisprudenza ove, invece, continua ad affermarsi che il medico ha l’obbligo di controllare e vigilare sul regolare svolgimento dei compiti attribuiti al personale paramedico, non potendo, quindi, fare affidamento sul
corretto operato di quest’ultimo63.
59 Cass.
pen., sez. IV, 25 ottobre 2000, n. 1878, Rumi ed altri, in Riv. dir. prof. san.,
2001, p. 41. Sempre in ordine all’obbligo da parte dell’infermiere di segnalare errori o anomalie nella terapia farmacologia v. Cass. pen., sez. IV, 19 settembre 2003, n. 39108, Palmaccio, in Cass. pen., 2004, p. 4084.
60 R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 808, il quale, peraltro, evidenzia che l’eventuale indebita prescrizione di farmaci da parte degli infermieri configura la fattispecie,
prevista dall’art. 348 c.p., di esercizio abusivo della professione.
61 Sulla nozione di “atto medico” cfr. Cass. pen., sez. II, 9 febbraio 1995, n. 5838,
Avanzini ed altri, in Cass. pen., 1997, p. 394.
62 F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 92.
63 Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2005, n. 18568, Cloro ed altri, cit.
LA DIVISIONE DEL LAVORO IN SENSO VERTICALE
167
In realtà, l’unico sanitario sul quale sembra incombere un obbligo di
controllo è il medico in posizione apicale. Si è già avuto modo di evidenziare, tuttavia, che tale obbligo si sostanzia nel dovere di organizzazione
e gestione della struttura, da attuarsi anche mediante l’esercizio del potere-dovere di impartire direttive a tutto il personale operante nella
stessa. Orbene, è indubbio che anche il personale infermieristico rientri
nell’ambito dell’organizzazione del reparto diretto dal medico in posizione apicale, con la conseguenza che quest’ultimo dovrà esercitare tutti
quei poteri riconosciutigli dalla legge per poter garantire il regolare funzionamento del reparto e la miglior cura per i pazienti ivi ricoverati64.
Laddove, quindi, l’evento lesivo materialmente realizzato dal paramedico
sia la conseguenza di una omessa organizzazione del reparto o di mancato esercizio del potere di impartire direttive potrà configurarsi la concorrente responsabilità (omissiva) del medico in posizione apicale.
64 F.
AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 93.
CAPITOLO QUINTO
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
SOMMARIO: 1. La cooperazione tra sanitari in èquipe chirurgica. – 2. I rapporti gerarchici
all’interno dell’équipe chirurgica: in particolare, il ruolo del capo-équipe. – 3. Profili
di responsabilità del medico per anticipato allontanamento dall’équipe operatoria. –
4. I rapporti tra medici specialisti in diversa disciplina: a) in particolare, la cooperazione tra chirurgo ed anestesista. – 5. (Segue): b) l’intervento quoad vitam. – 6. (Segue): c) l’intervento quoad valetudinem. – 7. (Segue): d) la ripartizione di responsabilità tra chirurgo ed anestesista nella fase intra-operatoria e post-operatoria. – 8.
Un caso particolare di responsabilità d’équipe: gli interventi di trapianto d’organi.
1.
La cooperazione tra sanitari in équipe chirurgica
L’attività chirurgica costituisce sicuramente la forma per eccellenza
di collaborazione in ambito medico: qualsiasi intervento, anche se di modeste dimensioni, prevede la necessaria partecipazione di due o più sanitari (c.d. équipe chirurgica). Lo stesso termine équipe è, infatti, propriamente utilizzato per indicare quelle attività che sono svolte in un unico
contesto spazio-temporale da parte di un gruppo di sanitari (medici e paramedici) che svolgono assieme, ma con compiti differenziati, un determinato intervento diagnostico o terapeutico.
In effetti, i sanitari componenti un’équipe chirurgica, sia essa strutturata con la semplice presenza del chirurgo, dell’aiuto e dell’anestesista
o sia essa articolata in maniera assai più complessa, talora con la contemporanea presenza di una pluralità di sanitari aventi diversa specializzazione, rappresenta il momento che, per eccellenza, fotografa la contemporanea attività di sanitari appartenenti a diverse specialità, il più delle
volte organizzati gerarchicamente e diretti da un capo-équipe1.
Orbene, rispetto alle forme di collaborazione fra sanitari esaminate
finora, l’équipe si caratterizza per la contemporanea presenza di rapporti
di tipo verticale e di tipo orizzontale che, naturalmente, danno vita a differenti questioni con riferimento alla ripartizione delle responsabilità in
caso di fatti colposi commessi da uno dei partecipanti al gruppo.
1 C.
PARODI, V. NIZZA, La responsabilità, cit., p. 155.
170
CAPITOLO QUINTO
Il profilo della divisione del lavoro nell’ambito della équipe chirurgica è quello che, sicuramente più di ogni altro, ha suscitato interesse ed
è stato in varie occasioni affrontato dalla giurisprudenza, la quale, tuttavia, come spesso è accaduto con riferimento alle questioni relative alla responsabilità medica in generale, non è riuscita a sviluppare una linea interpretativa univoca e costante. Nel prosieguo della presente trattazione
si cercherà di tratteggiare le questioni sottese alle diverse forme di collaborazione nell’ambito dell’équipe, richiamando ed analizzando i diversi
orientamenti giurisprudenziali formatisi in materia.
2.
I rapporti gerarchici all’interno dell’équipe chirurgica: in particolare, il
ruolo del capo-équipe
All’interno di un équipe viene generalmente individuato un medico
al quale, per qualifica professionale, esperienza, anzianità, è demandata
la materiale organizzazione, il coordinamento e la direzione del gruppo
di lavoro (c.d. capo-équipe). Si tratta, invero, di una qualifica meramente
fattuale, che non trova alcuno specifico riscontro in ambito normativo e
che non coincide necessariamente con il medico dirigente di reparto.
Due sono le situazioni che possono concretizzarsi: da un lato un’équipe
chirurgica diretta dal dirigente di reparto e, quindi, organizzata, anche da
un punto di vista formale, in modo gerarchico; dall’altro un’équipe diretta da un sanitario che non abbia la qualifica apicale e che, nondimeno
assuma, in concreto, la funzione di coordinare il gruppo di lavoro. Mentre con riguardo alla prima ipotesi non sembrano porsi particolari questioni interpretative, facendo capo al medico tutti i doveri (contemplati
dagli artt. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 e dall’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992)
che discendono dalla posizione apicale formalmente assunta, nella seconda, viceversa, sorge il problema di stabilire quali doveri incombano
sul sanitario che abbia assunto il ruolo di capo-équipe e, in particolare, se
sullo stesso incombano, al pari del medico in posizione apicale, i doveri
di istruzione e vigilanza sull’operato dei componenti il gruppo di lavoro
La giurisprudenza è solita ricondurre la figura del capo-équipe (indipendentemente dal ruolo assunto nella gerarchia ospedaliera) a quella
del medico in posizione apicale disciplinata dall’art. 63 d.P.R. n. 761 del
1979, ritenendo, quindi, detta norma fonte di una specifica posizione di
garanzia per tale sanitario, da cui discendono doveri di controllo e sorveglianza sull’operato altrui. Eloquente in tal senso è una sentenza della
giurisprudenza di merito in cui si afferma che l’art. 63 d.P.R. n. 761 del
1979 “laddove descrive i doveri del medico in posizione apicale si riferi-
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
171
sce non solo al primario, ma anche al capo dell’équipe in quanto tale”2. Il
capo-équipe, pertanto, oltre a dover eseguire, con diligenza e perizia, le
mansioni che a lui spettano, in forza della divisione delle competenze fra
i vari partecipanti al gruppo di lavoro, ha il dovere di coordinare l’attività
dei collaboratori e di vigilare sul loro operato. La posizione di supremazia attribuita al capo-équipe, ed il conseguente obbligo di controllo sull’operato dei colleghi, escluderebbe, pertanto, secondo il sostanzialmente
unanime orientamento giurisprudenziale, l’operatività del principio di affidamento nei confronti di detto sanitario3.
2 Trib. Firenze, 25 maggio 1981, in Arch. civ., 1981, p. 685.
3 La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare
il dovere di controllo incombente in capo al medico che viene ad assumere il ruolo di responsabile dell’équipe chirurgica, ritenendo responsabile un primario di chirurgia che, assunta la veste di capo dell’équipe, autorizzò l’anestesista a procedere ad anestesia, indi si allontanò dalla sala operatoria
per un emergenza in reparto, senza farvi più ritorno. L’intervento fu, di conseguenza, condotto da due specializzandi che, nel corso dell’esecuzione dell’atto operatorio, recisero l’arteria epigastrica senza suturarla. Nella pronuncia, i giudici ricostruiscono in generale il ruolo
del capo-èquipe attribuendogli, in particolare, un dovere di controllo e sorveglianza sull’operato dei propri collaboratori che, peraltro, nel caso specifico, doveva essere ancora più stringente, stante la qualifica di specializzandi dei due operatori. In tal senso v. Cass. pen., 2 aprile
2007, n. 21594, Scipioni e altro, cit. Sempre con riferimento alle responsabilità del capoéquipe si veda Cass. pen., sez. IV, 25 marzo 1988, n. 3904, Grassi, in CED rv. 177967, in cui
i giudici hanno ritenuto responsabile di omicidio colposo il primario che, una volta assunto il
controllo dell’andamento di un parto, abbia abbandonato la sala operatoria affidando la paziente ad un suo assistente, determinando, così, con la sua negligenza la morte del neonato.
Sempre con riferimento al dovere di controllo incombente ex lege sul capo-équipe, possono
trarsi interessanti spunti di riflessione da una decisione della giurisprudenza di merito che si
è occupata di una particolare ipotesi di collaborazione tra sanitari, pronunciandosi su un caso
di omicidio colposo per il quale erano imputati tre primari, rispettivamente, in ostetricia, urologia e chirurgia (quest’ultimo anche con il ruolo di capo-équipe), accusati di aver procurato
la morte del paziente a seguito della dimenticanza nel suo addome di una garza, nel corso di
un intervento chirurgico. Nei confronti di tutti e tre i sanitari si era proceduto per concorso
in omicidio colposo, avendo la garza causato perforazioni intestinali dalle quali era derivata la
morte della paziente; ma il giudizio di primo grado si era concluso con una singolare sentenza
di assoluzione per tutti gli imputati. In secondo grado, invece, la Corte d’Appello aveva riformato parzialmente la decisione, condannando l’ostetrico e l’urologo, che avevano entrambi
provveduto a richiudere l’addome della paziente senza prima estrarre la garza, ed assolvendo,
invece, il chirurgo, il quale non aveva materialmente partecipato alla fase di sutura. È evidente che, pur trattandosi di medici specialisti in differente disciplina ed aventi tutti la qualifica di primario, uno di essi, per la precisione il primario specialista in chirurgia, aveva assunto la qualifica di capo-équipe dando, quindi, luogo ad un’équipe gerarchicamente organizzata. La Corte d’Appello, facendo piena applicazione del principio di affidamento, ha
ritenuto di escludere la responsabilità del chirurgo, sulla scorta del rilievo che il suo intervento si era limitato alla “emostasi della parete vescicolare posteriore e si era quindi allontanato dal campo operatorio dopo aver revisionato l’addome, non ritenendo più necessaria la
sua presenza”: il chirurgo, quindi, non essendo presente all’atto della sutura, aveva legittimamente confidato nel corretto adempimento delle loro mansioni da parte degli altri medici
partecipanti all’intervento. In tal senso v. Corte App. Bari, 26 gennaio 1981, Lilli ed altro, in
172
CAPITOLO QUINTO
In realtà, l’applicabilità dell’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979 al capoéquipe che non abbia anche la qualifica apicale, non appare così pacifica.
L’articolo in esame, infatti, disciplina i doveri incombenti sul “medico in
posizione apicale”, facendo, tuttavia, riferimento non alla generica assunzione di una posizione di superiorità (attraverso, appunto, la direzione di
un intervento), ma, piuttosto, all’assunzione di una qualifica giuridicoformale (legata anche al superamento di appositi concorsi). D’altro
canto, occorre, altresì, rammentare che l’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992
(così come modificato dal d.lgs. n. 227 del 1999), pur non avendo abrogato l’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979, ha nondimeno riorganizzato la dirigenza sanitaria individuando un unico ruolo dirigenziale distinto in tre
profili professionali (dirigente di struttura complessa, dirigente di struttura semplice e dirigente senza alcuna responsabilità di struttura) (sul
punto v. amplius Cap. 1, § 2). Alla luce di questa nuova disciplina (con
cui deve necessariamente coordinarsi l’art. 63 d.P.R. n. 761 del 1979), si
ritiene che l’assunzione di una posizione apicale sia strettamente connessa alla qualifica giuridico-funzionale di direzione di una struttura e
non possa da essa prescindere4.
Dall’attuale sistema normativo non sembra, pertanto, possibile far
discendere un generale dovere di controllo sul medico che, in assenza di
posizione apicale, assuma la direzione di un intervento, potendo egli fare
affidamento (salvo l’emergere di situazioni concrete) sul corretto operato
dei componenti del gruppo di lavoro. A tal riguardo, in dottrina si è evidenziato che soltanto sul medico che assume contemporaneamente la posizione apicale ed il ruolo di capo-équipe sussiste un obbligo di indirizzo
e vigilanza nei confronti degli altri sanitari componenti l’équipe, mentre
sul sanitario che assuma solo la direzione dell’intervento non incomberebbe un obbligo di vigilanza sistematica sui colleghi5. Quest’ultimo,
nondimeno, vista la funzione in concreto assunta, sarà destinatario di
specifici doveri cautelari di coordinamento e di raccordo operativo tra le
Foro it., 1983, II, c. 167. La decisione è stata criticata da una parte della dottrina, per l’eccessiva semplificazione del ragionamento sottostante all’affermazione di innocenza del chirurgo: costui avrebbe potuto andare esente da responsabilità solo se il suo precoce allontanamento dalla sala operatoria fosse stato giustificato e non vi fossero state circostanze oggettive
e soggettive tali da poter fare dubitare del diligente operato dei propri collaboratori (es. giovane età, particolare complessità dell’intervento anche in relazione al numero di garze utilizzate, particolare collocazione delle stesse individuabili solo da chi le ha inserite, etc.). Per tali
osservazioni v. E. BELFIORE, Sulla responsabilità colposa nell’ambito dell’attività medico-chirurgica in équipe, in Foro it., 1983, II, c. 168.
4 Nel senso della necessità di un coordinamento interpretativo tra gli artt. 63 d.P.R. n.
761 del 1979 e 15 d.lgs. n. 502 del 1992 v. anche D. GUIDI, L’attività medica, cit., p. 237 s.
5 In tal senso v. F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, E. PICCINELLI, La responsabilità, cit.,
p. 103 ss.
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
173
condotte dei vari componenti l’équipe, in modo da assicurare una corretta convergenza tra le attività dei medici appartenti a differenti specializzazioni.
Anche in dottrina non sono mancati, però, autori che hanno riconosciuto per il capo-équipe, indipendentemente dalla qualifica funzionale,
un dovere di controllo sull’operato altrui cercando, tutttavia, di limitarne
la portata. In tal senso si è, ad esempio, evidenziato che il controllo del
capo-équipe non deve essere inteso come obbligo di svolgere una vigilanza
continua, ma, piuttosto, come più circoscritto obbligo di verifica dell’inesistenza di circostanze di fatto che facciano supporre come altamente probabile il prodursi di una negligenza altrui, che deve esercitarsi all’inizio
dell’intervento chirurgico e deve ripetersi, eventualmente, anche nel corso
dell’intervento, in presenza di passaggi delicati o al verificarsi di circostanze tali da evidenziare il probabile fatto colposo del collaboratore6.
3.
Profili di responsabilità del medico per anticipato allontanamento dall’équipe operatoria
Un’interessante questione che si è posta negli ultimi tempi all’attenzione dei giudici concerne i profili di responsabilità, per errori commessi
da altri membri dell’équipe, del medico che si sia allontanato dalla sala
operatoria prima della conclusione dell’intervento. La questione è stata
oggetto di un’interessante sentenza della Corte di Cassazione la quale,
nell’affermare la legittimità dell’anticipato abbandono della sala operatoria da parte del medico la cui opera non sia più necessaria, ha individuato i presupposti in presenza dei quali l’allontanamento può comportare l’esclusione della responsabilità del medico per errori commessi in
sua assenza.
Ad avviso dei giudici, l’allontanamento, per ritenersi giustificato,
deve avvenire, innanzitutto, in un contesto temporale in cui, rispetto all’intervento in corso, l’opera del sanitario non sia più necessaria (es. chirurgo che lasci la sala operatoria al termine di un intervento di modesta
difficoltà, demandando ai propri collaboratori la sutura della ferita) ed,
6 Con
riferimento all’estensione del dovere di controllo, in dottrina sono state prospettate due diverse soluzioni. Secondo E. BELFIORE, Profili penali, cit., p. 298, il dovere di controllo del capo-équipe si sostanzia nell’accertamento, nel momento iniziale, delle buone condizioni fisiche e psichiche dei componenti del gruppo e dell’inesistenza di comportamenti
colposi in atto. In senso parzialmente difforme v., invece, G. IADECOLA, Il medico e la legge penale, Padova, 1993, p. 79, secondo il quale il controllo da parte del capo-èquipe sull’operato
dei collaboratori deve avvenire non solo nella fase iniziale dell’intervento, ma in vari intervalli
di tempo e, in special modo, in presenza di passaggi delicati.
174
CAPITOLO QUINTO
in secondo luogo, in un momento in cui la condizione generale del paziente non presenti particolari caratteri di gravità7. Con riferimento al
caso specifico, peraltro, i giudici rilevano, quale ulteriore elemento che
può giustificare un anticipato allontanamento, la necessaria prestazione
da parte del medico di cure indilazionabili ad altri pazienti.
L’orientamento espresso dalla Corte appare del tutto coerente con il
principio di affidamento e con la divisione delle competenze derivante da
detto principio: il medico, quindi, può legittimamente allontanarsi una
volta adempiute tutte le proprie mansioni nel rispetto delle leges artis,
confidando nella corretta prosecuzione dell’intervento da parte dei colleghi. D’altro canto, il legittimo affidamento subisce una limitazione nel
caso in cui circostanze concrete, quali la difficoltà dell’intervento o l’inesperienza dei colleghi, facciano ritenere prevedibile il verificarsi di un
errore8.
Alcune perplessità sorgono, nondimeno, con riferimento alla possibilità, riconosciuta dai giudici della Corte, di legittimare l’anticipato allontanamento dalla sala operatoria del medico in forza della necessità di
prestare la propria attività nella cura ad altri pazienti. Dal tenore letterale
dell’affermazione sembrerebbe potersi desumere, in questo caso, la facoltà per il medico di allontanarsi dalla sala operatoria, andando esente
da qualsivoglia responsabilità, anche nelle ipotesi in cui l’intervento sia
ancora in corso e restino ancora da compiere attività a lui direttamente
assegnate. La dottrina ha osservato che, nell’ipotesi oggetto di valutazione, il medico che si allontani tiene una condotta inosservante del contenuto del dovere di diligenza, fonte di responsabilità penale, ove si accerti che egli, qualora presente, avrebbe potuto e, quindi, dovuto emendare l’errore commesso da un suo collega, in quanto evidente e non
settoriale. In tal caso, la condotta omissiva del medico assente concorrerà
– seppure in modo indipendente, non essendo ravvisabile alcun nesso
psicologico tra le due condotte colpose – con quella del medico che abbia praticato l’intervento negligente, imprudente o imperito, rispondendo entrambi dell’evento lesivo ai danni del paziente ai sensi dell’art.
41, comma 3, c.p.9.
7 Cass. pen., sez. IV, 6 aprile 2005, n. 22579, Malinconico, cit.
8 In dottrina cfr. E. BELFIORE, Sulla responsabilità colposa, cit., c.
168, secondo il quale,
i sanitari componenti l’équipe chirurgica possono legittimamente allontanarsi prima del termine dell’intervento, trovando piena applicazione il principio di affidamento. Diversa, però,
appare, la posizione del capo-équipe, il quale può allontanarsi nella fase di “chiusura” dell’intervento solo in quanto non vi siano ragioni per dubitare dell’operato diligente dei propri
collaboratori.
9 C. CANTAGALLI, Brevi cenni, cit., p. 2845. In una pronuncia più recente, però, la Corte
sembra ritornare sui propri passi, affermando che il capo-équipe non può abbandonare la sala
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
175
Le acquisizioni interpretative in materia di scioglimento anticipato
dell’équipe chirurgica devono, nondimeno, essere coordinate con il principio, sopra richiamato, della permanenza sul capo-équipe di un obbligo
di sorveglianza del decorso post-operatorio. Pertanto, l’anticipato allontanamento dalla sala operatoria non elide l’obbligo di protezione facente
capo al sanitario, il quale dovrà essere pur sempre reperibile nel caso di
eventuali complicanze post-operatorie, rimanendo, pur tuttavia, salva la
possibilità di affidare il malato ad altro medico con le dovute capacità
tecniche10.
4.
I rapporti tra medici specialisti in diversa disciplina: a) in particolare,
la cooperazione tra chirurgo ed anestesista
All’interno dell’équipe è possibile ravvisare anche rapporti non subordinati tra medici specialisti in diversa disciplina, rispetto ai quali, ancora una volta, si pone un problema di individuazione dei soggetti penalmente responsabili in caso di fatto colposo. In particolare, l’interrogativo, a cui si deve cercare di fornire una risposta, è se il medico specialista
risponda solo della propria condotta o se, al contrario, debba rispondere,
quale concorrente, anche per condotte colpose tenute da altri membri
dell’équipe.
In linea teorica, nei rapporti tra medici non legati da vincolo gerarchico, trova compiuta applicazione il principio di affidamento, in quanto
ogni medico che compone l’équipe deve poter svolgere le proprie mansioni confidando nel fatto che i colleghi, aventi diversa specializzazione,
a loro volta, rispettino le leges artis proprie della loro attività. D’altro
canto, non sarebbe neppure possibile, per carenza delle necessarie competenze tecniche, pretendere da un medico di valutare il corretto operato
di un collega, a lui non gerarchicamente subordinato, avente diversa specializzazione. In tali casi, quindi, il dovere di controllo sull’operato degli
altri componenti dell’équipe sarà meramente “secondario”, dovendo essere effettuato solo ove si verifichino concrete circostanze che rendano
prevedibile la realizzazione dell’errore, riconoscibile, sulla base del baoperatoria prima del termine dell’intervento per assistere altri pazienti. In tal senso v. Cass.
pen., sez. IV, 2 aprile 2007, n. 21594, Scipioni, cit., ove si afferma che “non si dubita che l’imputato avesse valide ragioni per assistere altri pazienti […]. Il problema è che in una tale
eventualità egli non poteva abdicare ai doveri determinati dal ruolo di capo-équipe formalmente affidatogli, ma doveva differire l’atto operatorio, oppure sollecitare la sua sostituzione
o infine adottare altre misure appropriate; ma di certo non poteva consentire che la vittima
restasse interamente affidata a due apprendisti chirurghi”.
10 M. GRIMALDI, L’attività medico-chirurgica in équipe, in Diritto e formazione, 2006,
p. 241.
176
CAPITOLO QUINTO
gaglio di conoscenze comune a qualsiasi medico, da parte del proprio
collega.
È fuori di dubbio, però, che, se i professionisti, aventi differente
specializzazione, hanno materialmente cooperato, realizzando tutti condotte negligenti o imperite, potrà sussistere nei loro confronti una responsabilità colposa concorsuale ex art. 113 c.p. Sotto tale profilo si può
richiamare un’interessante sentenza della Corte di Cassazione, nella
quale i giudici hanno affermato la penale responsabilità di tutti i sanitari
che avevano partecipato all’intervento (il primario chirurgo, i due chirurghi aiuti e gli infermieri) per lesioni colpose ai danni di un paziente a seguito della dimenticanza di una pinza kelly nell’addome11. La “conta dei
ferri”, infatti, ad avviso dei giudici, incombe su tutti i medici che hanno
preso parte all’intervento, i quali autonomamente avevano la possibilità
di eliminare la fonte di pericolo, ed anche laddove gli stessi deleghino
tale compito a personale paramedico, mantengono inalterato un dovere
di vigilanza sull’operato di quest’ultimo12.
Nell’ambito della pluralità di rapporti tra specialisti, in concreto
ipotizzabile con riferimento ad un intervento chirurgico, dottrina e giurisprudenza hanno assunto quale “situazione simbolo” quella relativa ai
rapporti intercorrenti tra chirurgo ed anestesista, cercando di individuare
i profili di responsabilità propri di ciascuno dei due professionisti e le
ipotesi di responsabilità concorrente
La giurisprudenza, a tal riguardo, ha manifestato orientamenti ondivaghi e, soprattutto, non sempre conformi ai principi sinora espressi in
materia di individuazione dei soggetti responsabili nell’ambito delle
strutture complesse. I giudici, infatti, hanno alternato a pronunce in cui
affermano la sussistenza di un generale dovere di controllo reciproco tra
chirurgo ed anestesista, altre, sicuramente prevalenti, ove, al contrario, riconoscono la compiuta operatività del principio di affidamento, salva
l’insorgenza di circostanze fattuali tali da determinare la reviviscenza di
un dovere di controllo secondario.
Per una corretta impostazione del problema è, preliminarmente, necessario richiamare il dato normativo utile per l’individuazione delle
sfere di competenza dell’anestesista e del chirurgo. In tal senso assume
fondamentale rilievo l’art. 1, comma 2, l. 9 agosto 1954, n. 653, istitutiva
dei servizi ospedalieri di anestesia, che provvede a delineare le funzioni
dell’anestesista statuendo che “il medico anestesista pratica direttamente
sui malati sotto la propria diretta responsabilità gli interventi per anestesia,
11 Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2005, n. 18568, Cloro ed altri, cit.
12 Per un esame più approfondito della problematica relativa alla
sponsabilità in caso di derelizione di oggetti v. supra cap. II, sez. II, § 8.7.
ripartizione di re-
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
177
sorvegliando l’andamento del trattamento; esprime il proprio motivato parere sulle condizioni del malato in relazione al trattamento anestetico in
tutto quanto possa essere richiesto nei riguardi del servizio di anestesia”.
Fino all’intervento del legislatore, nel 1954, la figura dell’anestesista
non trovava alcuna qualificazione e regolamentazione, con la conseguenza che nel contesto operatorio questo sanitario veniva collocato, al
pari degli altri, sotto la direzione del chirurgo, il quale assumeva tutte le
decisioni. Il che, se, da un lato, alleggeriva notevolmente la responsabilità
di detto sanitario in caso di evento dannoso, dall’altro lato, lo relegava ad
una situazione di subordinazione tecnica al chirurgo, il quale non era,
però, provvisto delle qualifiche essenziali per valutare l’attività specialistica del primo13. Con l’introduzione della citata norma si inverte la tendenza, sino a quell’epoca invalsa all’interno delle strutture ospedaliere, di
riconoscere il chirurgo quale dominus della sala operatoria ed unico responsabile della valutazione sia del c.d. “rischio chirurgico” sia del c.d.
“rischio anestetico”. La l. n. 653 del 1954 sancisce, infatti, una separazione fra le due figure di specialisti, attribuendo all’anestesista una responsabilità diretta per i trattamenti da lui stessi praticati, distinta ed autonoma rispetto a quella del chirurgo14.
L’art. 1, comma 2, l. n. 653 del 1954, in particolare, individua due
mansioni tipiche dell’anestesista: la somministrazione del trattamento anestetico e la vigilanza sull’andamento dello stesso; la manifestazione del
proprio parere sulle condizioni del paziente in relazione al trattamento
anestetico. È con riferimento a tali specifiche mansioni attribuite all’anestesista che si deve, quindi, indagare sulla ripartizione delle responsabilità,
nel caso di esito infausto, tra quest’ultimo sanitario ed il chirurgo, procedendo, peraltro, ad un esame differenziato in relazione alle diverse fasi
dell’intervento (pre-operatoria, intra-operatoria, post-operatoria).
La fase pre-operatoria è tecnicamente di competenza dell’anestesista: è, infatti, su tale sanitario che incombe il dovere della preparazione
del paziente per l’intervento, della verifica del corretto allestimento della
sala operatoria e dei gas medicinali. In questa fase, non ancora propriamente operatoria, è, invero, difficile configurare una responsabilità concorrente del chirurgo che, generalmente, neppure assiste alla preparazione della sala e del paziente15. In tal senso si è espressa anche la giuri13 G.
14 G.
MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 231.
MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 231; F. AMBROSETTI, R. PICCINELLI, M. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 106 ss.
15 R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 795 il quale, peraltro, osserva che il chirurgo non ha la visuale sul campo operatorio dell’anestesista, essendo i due professionisti separati mediante il c.d. “telo operatorio”.
178
CAPITOLO QUINTO
sprudenza, la quale ha riconosciuto che “il medico anestesista ha l’obbligo di sorvegliare e controllare che tutte le apparecchiature siano in regola e non sussistano difetti di funzionamento. Tale azione deve essere effettuata prima dell’intervento e del trattamento”16. In dette ipotesi,
quindi, il chirurgo non risponde in concorso con l’anestesista di eventuali
eventi lesivi ai danni del paziente, in quanto solo a quest’ultimo sanitario
è demandata ex lege la competenza circa la preparazione della sala operatoria, la sterilizzazione degli strumenti, il dosaggio delle soluzioni anestetiche e di quanto occorra per l’intervento.
Il dovere di sorveglianza dell’anestesista sulla corretta preparazione
del paziente per l’intervento è stata ravvisata anche con riferimento al
corretto posizionamento sul tavolo operatorio. La Corte di Cassazione,
infatti, ha affermato la responsabilità colposa dell’anestesista per l’erroneo posizionamento del paziente sul tavolo operatorio, che ne aveva determinato una compressione del braccio durante l’intervento chirurgico.
Nella motivazione, la Corte sottolinea la sussistenza di differenti sfere di
competenza, e conseguentemente di responsabilità, tra i due professionisti nell’ambito dello svolgimento di un intervento chirurgico: incombe
sull’anestesista, che interviene nella fase pre-operatoria e presenzia alle
operazioni preparatorie che ivi vengono compiute, l’obbligo di posizionare il paziente sul tavolo operatorio, mentre il chirurgo è del tutto estraneo all’attività di immobilizzazione del paziente, in quanto costui interviene in sala operatoria solo quando ormai le operazioni preparatorie
sono terminate17.
Nella prima fase dell’intervento chirurgico si verifica, tuttavia, un altro significativo passaggio, il quale, a differenza di quello più propriamente preparatorio del paziente e della sala operatoria, è di competenza
sia dell’anestesista che del chirurgo. Si tratta di quello concernente la valutazione della necessità dell’intervento chirurgico ed i rischi, anche di natura anestetica, ad esso connessi. Come poc’anzi evidenziato, infatti, l’anestesista ha il dovere di esprimere il proprio parere sulle condizioni del
malato in ordine all’effettuazione del trattamento anestetico, da ritenersi
finalizzato ad evidenziare al chirurgo i rischi che l’anestesia potrebbe
comportare per la vita del paziente. È, però, indubbio che l’anestesista,
nell’esprimere il proprio parere, debba procedere ad un bilanciamento tra
i rischi dell’anestesia e la necessità dell’intervento chirurgico: il c.d. “rischio anestetico” non costituisce, quindi, oggetto di un giudizio assoluto,
ma relativizzato rispetto alla natura dell’intervento da eseguire18.
16 Cass. pen., sez. IV, 4 novembre 1983, n. 10868, Costanzi, in Cass. pen., 1986,
17 Cass. pen., sez. IV, 14 aprile 1983, n. 7082, Prelong, in CED rv. 160049.
18 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 232.
p. 283.
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
179
Il medico chirurgo, pertanto, nel decidere se praticare o meno l’intervento deve tenere conto, oltre che delle proprie valutazioni in ordine
alla necessità o meno dello stesso, anche del parere dell’anestesista in ordine a rischi connessi alla somministrazione dell’anestesia. Il problema
diviene, però, quello di stabilire se il parere espresso dall’anestesista sia,
o meno, vincolante per il chirurgo o, se, invece, quest’ultimo possa comunque effettuare l’intervento discostandosi dal parere espresso dal
primo. In tale ottica in dottrina si distingue tra interventi quoad vitam –
necessari per salvare la vita del paziente – ed interventi quoad valetudinem – non finalizzati a salvare la vita del paziente, ma comunque a migliorarne lo stato di salute.
5.
(Segue): b) l’intervento quoad vitam
Il riferimento è, innanzitutto, a quegli interventi che risultino necessari per salvare la vita del paziente e nei quali, quindi, pur in presenza di
un “rischio anestetico” elevato e di un eventuale parere negativo dell’anestesista, il chirurgo si trovi a dover intervenire comunque. Si pensi al
caso del paziente molto anziano sul quale debba essere eseguito un delicato intervento di cardiochirurgia per la sostituzione di una valvola aortica e per l’impianto di alcuni by-pass: il rischio anestesiologico per l’età
del paziente e per ulteriori patologie in atto potrebbe essere molto elevato, ma al contempo, la mancata esecuzione dell’intervento porterebbe
a morte certa, e in termini tutto sommato brevi, il paziente. Quali responsabilità saranno ravvisabili nel caso di esito infausto dell’intervento,
per il verificarsi proprio del rischio connesso all’anestesia e previsto dall’anestesista?
La dottrina che si è occupata della questione ha evidenziato come in
tale evenienza il parere dell’anestesista sui possibili effetti negativi del
trattamento anestetico debba ritenersi assolutamente non vincolante per
il chirurgo le cui eventuali preoccupazioni dovrebbero necessariamente
cedere il passo davanti al pericolo di un più grave danno alla persona
non altrimenti evitabile19. In questi casi, secondo alcuni interpreti, il chirurgo si troverebbe ad operare in una situazione fattuale nient’affatto diversa da quella che configura la causa di giustificazione dello stato di necessità prevista dall’art. 54 c.p., con la conseguenza che egli dovrà ritenersi scriminato nel caso in cui si verifichi l’esito infausto conseguente
alla somministrazione dell’anestetico, sempreché non fosse fallace la va19 A.R.
DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p. 269.
180
CAPITOLO QUINTO
lutazione della necessità salvifica dell’intervento20. Pur condividendo l’idea che al chirurgo non possa ascriversi la responsabilità per l’eventuale
esito infausto dell’intervento, si ritiene, nondimeno, che ciò debba avvenire non tanto sul piano oggettivo, quanto su quello soggettivo dell’esclusione della rimproverabilità21. Il chirurgo si trova, infatti, davanti all’alternativa di lasciar progredire la patologia del paziente ovvero intervenire, assumendosi, però, il rischio di un esito infausto. La peculiare
situazione in cui si trova ad agire (assimilabile a quella dell’urgenza terapeutica) lo induce all’assunzione di un rischio (quello anestesiologico)
che, ordinariamente, sarebbe “non consentito”. L’assunzione della porzione di rischio non consentito è, però, evidentemente, il frutto di una
scelta non autenticamente libera ma “viziata” dall’esigenza di salvare la
vita del paziente e, come tale, rende il comportamento del chirurgo scusabile ove si verifichi l’evento avverso.
Qualche difficoltà in più sembra sorgere con riferimento alle eventuali responsabilità dell’anestesista che, a seguito del parere del chirurgo
sulla improcrastinabilità dell’intervento, lo abbia coadiuvato somministrando al paziente il trattamento anestetico e vigilando sugli equilibri vitali del paziente. A tal proposito, con riferimento all’individuazione dei
doveri che devono essere rispettati dall’anestesista per andare esente da
responsabilità, si sono formati tre distinti orientamenti.
Secondo un primo orientamento, sull’anestesista incomberebbe un
dovere di controllo sulla valutazione di necessità dell’intervento effettuata dal chirurgo: solo in caso di esito positivo potrebbe prestare la propria collaborazione, mentre, in caso contrario, l’unico modo per non essere chiamato a rispondere di eventuali esiti infausti, sarebbe quello di
astenersi dal collaborare22. Per un diverso orientamento, maggiormente
compatibile con il principio della responsabilità penale personale, invece,
non può essere richiesta tale forma di verifica al medico anestesista, il
quale non ha la competenza tecnica per poter valutare la condotta del
collega avente diversa specializzazione. Soltanto laddove l’errore di valutazione potesse essere facilmente riconoscibile, in forza delle conoscenze
tecniche proprie di ciascun medico, potrebbe allora riconoscersi un’autentica responsabilità colposa in capo all’anestesista che non si sia astenuto dal prestare la propria attività; in caso contrario, si imputerebbe in20 G.
MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 231 ss.; F. AMBROSETTI, R. PICM. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 114.
21 Per un approfondimento delle ragioni che escludono la configurazione dello stato di
necessità v. supra cap. III § 4.
22 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 232.
CINELLI,
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
181
vece un fatto senza l’accertamento di un’autentica rimproverabilità del
soggetto23.
Tali orientamenti sono, peraltro, confutati da altra parte della dottrina, la quale rileva che dal dettato normativo non emerge né la vincolatività del parere dell’anestesista, né la possibilità per quest’ultimo di valutare la scelta del chirurgo e di astenersi in caso di dissenso. All’anestesista, quindi, non sarebbe possibile non ottemperare alla richiesta di
collaborazione avanzatagli dal chirurgo, con la conseguenza che a lui sarebbe riconosciuta solo la possibilità di formulare per iscritto il proprio
parere sull’elevato rischio anestesiologico, e ciò dovrebbe ritenersi sufficiente per escludere la sua responsabilità, in caso di verificazione dell’evento lesivo24.
6.
(Segue): c) l’intervento quoad valetudinem
Più complesse appaiono, invece, le valutazioni nel caso in cui l’intervento non si rappresenti, neppure al chirurgo, come necessario per la
vita del paziente e si riscontri, peraltro, un elevato rischio connesso alla
somministrazione del trattamento anestetico: sono i casi, ad esempio, di
ulcera duodenale, di calcolosi biliare o di interventi di chirurgia estetica
che non comportano gravi insufficienze in soggetti che però presentano
rischi anestesiologici assai elevati. In simili situazioni sarebbe proprio il
trattamento anestetico ad esporre a pericolo la vita del paziente, a fronte
di una condizione patologica che presenta rischi di portata inferiore25.
Non sembrano sussistere dubbi, quindi, circa la prevalenza della
controindicazione all’intervento data dall’anestesista rispetto all’indicazione puramente chirurgica con la conseguenza che potrà configurarsi
una responsabilità colposa a carico del chirurgo, e non dell’anestesista,
nel caso in cui il primo decida di procedere egualmente all’intervento ed
il paziente perisca o riporti gravi lesioni a causa dell’anestesia.
Può, d’altro canto, verificarsi anche l’ipotesi in cui il chirurgo si adegui all’indicazione di “elevato rischio anestesiologico” impartito dall’ane23 P. AVECONE, La responsabilità, cit., p. 164, il quale rileva che “se nonostante il parere
contrario del chirurgo fosse di piena evidenza che il caso non è assolutamente grave o che comunque si potrebbero utilmente esperire altre strade curative, allora l’anestesista, che pur è
medico, deve esprimere il suo motivato parere circa l’’inutilità dell’assunzione del rischio o addirittura, a scanso di ogni sua responsabilità, rifiutarsi di eseguire quanto gli venga ordinato”.
24 A. LAUDATI, A. LAUDATI, La responsabilità penale dell’anestesista-rianimatore per fatti
legati a colpa professionale, in Giust. pen., 1986, p. 215. Nello stesso senso cfr. L. MACCHIARELLI, T. FEOLA, Medicina legale, cit., p. 1424.
25 G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 232.
182
CAPITOLO QUINTO
stesista e decida, di conseguenza, di non effettuare l’intervento. Non è,
nondimeno, da escludersi l’eventualità che dalla mancata effettuazione
dell’intervento derivino comunque eventi dannosi per la salute del paziente, rispetto ai quali, quindi, si porrà un problema di individuazione
del soggetto responsabile.
La soluzione in tali casi muta, a seconda che la valutazione sul rischio connesso alla somministrazione dell’anestetico fosse corretta ovvero errata. Nel primo caso, non sembra ricorrere alcun profilo di responsabilità colposa né in capo all’anestesista – che ha correttamente valutato i rischi legati all’intervento – né in capo al chirurgo – che ha
correttamente bilanciato i rischi ed i vantaggi derivanti dall’intervento
stesso. Al contrario, nel caso in cui l’anestesista abbia errato nel giudizio
relativo alla pericolosità dell’anestesia, è certo che sarà configurabile a
suo carico una responsabilità colposa per imperizia, mentre seri dubbi si
pongono rispetto alla configurabilità di una responsabilità a carico del
chirurgo che abbia accettato il parere dell’anestesista.
Il problema, seppure a parti invertite, deve essere risolto nei medesimi termini indicati rispetto agli interventi quoad vitam. Deve, cioè, ritenersi perfettamente operante il principio di affidamento, non potendosi
pretendere un controllo da parte del chirurgo sull’operato del collega.
Andrà, quindi, esente da responsabilità il chirurgo che abbia fatto affidamento sul parere dell’anestesista in ordine alle controindicazioni all’intervento, laddove poi si sia verificato un evento lesivo ai danni del paziente in conseguenza della mancata effettuazione dell’intervento26.
7.
(Segue): d) la ripartizione di responsabilità tra chirurgo ed anestesista
nella fase intra-operatoria e post-operatoria
La fase intra-operatoria dell’intervento chirurgico costituisce sicuramente quella che, più di ogni altra, comporta una cooperazione fra sanitari e che determina anche le maggiori difficoltà nella delimitazione delle
sfere di responsabilità. È per tali ragioni che, probabilmente, la giurisprudenza, pur avendo accolto i principi della ripartizione delle competenze tra anestesista e chirurgo, si esprime talvolta ancora nel senso di
configurare un dovere di controllo tra i due professionisti.
26 Contra G. MARINUCCI, G. MARRUBINI, Profili penalistici, cit., p. 233, secondo i quali in
simili casi “la responsabilità decisionale ricade sul chirurgo nel senso di garantirsi fin dove
possibile in ordine all’esattezza del giudizio negativo espresso dall’anestesista, ricorrendo ad
indagini diagnostiche supplementari, volte a dimostrare o a smentire la effettiva fondatezza
dell’eccessiva gravità del rischio, ed altresì richiedendo nuovi pareri e consulti con altri anestesisti di maggiore esperienza ed autorevolezza del primo”.
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
183
In realtà, in tale fase dovrebbe valere, come regola generale, il principio che nessun obbligo di sorveglianza reciproca sussiste tra chirurgo
ed anestesista, stante le differenti e distinte competenze: il primo ha i
controllo dei parametri vitali del paziente, il secondo si occupa, invece,
dell’atto operatorio in senso stretto27. Questa linea ricostruttiva è stata
fatta propria anche dalla Corte di Cassazione la quale, affermando l’operatività del principio di affidamento, ha escluso la responsabilità dell’anestesista, in un caso di lesioni gravi a danno di un paziente nel cui addome, durante un intervento chirurgico, era stata dimenticata una garza
laparotomica. I giudici hanno, infatti, osservato che “in una équipe medica, che svolge un’operazione chirurgica, l’anestesista è deputato a controllare lo stato di insensibilità del paziente all’azione chirurgica, la sua
reazione e magari la sua sicurezza dal punto di vista circolatorio, mentre
non ha nessuna competenza e, quindi, nessun incarico di porre o estrarre
tamponi dalla cavità soggetta all’operazione. Ne consegue che l’anestesista non risponde del fatto che venga dimenticata nell’addome del paziente una garza laparotomica”28.
Specularmene, si trovano decisioni che, sempre nell’ottica di una
corretta differenziazione dei ruoli, escludono la responsabilità del chirurgo, affermando quella dell’anestesista29. Interessante a tal proposito
una pronuncia della Corte di Cassazione in cui i giudici hanno ben delineato le responsabilità dell’anestesista in ordine alla trasfusione di sangue
effettuata nel corso di un intervento chirurgico. I giudici del Collegio, infatti, hanno escluso la responsabilità del chirurgo, per l’evento lesivo cagionato al paziente dal comportamento colposo ascrivibile, in via esclu27 R. FRESA, La responsabilità penale, cit., p. 795.
28 Cass. pen., sez. IV, 30 ottobre 1984, n. 9525, Passarelli,
in Cass. pen., 1985, p. 2233.
Analogamente nel senso dell’esclusione della responsabilità dell’anestesista v. Pret. Verbania,
11 marzo 1998, Govoni e altri, cit., in cui si evidenzia che “in un intervento di tracheotomia
gli anestesisti possono, una volta segnalato al chirurgo l’errore nel quale è incorso, attendere
che questi vi ponga rimedio, non avendo motivo per ritener che fosse incapace di effettuare
un’operazione manuale, che sapevano che aveva compiuto molte altre volte. Imprudenti sarebbero invece stati se si fossero subito sostituiti al chirurgo, esautorandolo dall’operazione,
per tentare una manovra alternativa più lunga e difficile di quella che il collega doveva a quel
punto eseguire. Proprio in considerazione di questo, si deve escludere che tale manovra fosse
connotata da doverosità per cessazione del principio di affidamento nell’équipe chirurgica
sulla corretta esecuzione dei propri compiti da parte di uno dei suoi membri: non solo gli
anestesisti non avevano, per posizione gerarchica, un obbligo di prevenire e correggere l’errore del chirurgo, né, in relazione alle concrete circostanze del caso, il comportamento inefficiente di quest’ultimo era in qualche modo da loro prevenibile ed evitabile; ma soprattutto
non si manifestava in modo così clamoroso da autorizzarli a sostituirsi completamente a lui”.
29 Cass. pen., sez. IV, 4 novembre 1983, n. 10868, Costanzi, in Cass. pen., 1986, p. 283;
Cass. pen., sez. IV, 25 ottobre 1955, in Resp. civ. e prev., 1956, p. 359.
184
CAPITOLO QUINTO
siva, all’anestesista e consistente nell’erronea trasfusione di una sacca di
sangue, in quanto spetta all’anestesista, e non anche al chirurgo, l’obbligo
di assicurarsi che il tipo di sangue sia esattamente quello destinato al paziente30.
Il legittimo affidamento del chirurgo nell’operato dell’anestesista
viene meno, però, nel caso in cui il primo, sulla base delle conoscenze comuni ad ogni medico, rilevi condotte colpose da parte del collega. In tal
caso il sanitario, in forza della posizione di garanzia assunta nei confronti
del paziente, ha l’obbligo di attivarsi per porre rimedio agli eventuali errori colposi del collega, purché tali errori non siano settoriali ovvero, pur
appartenendo al settore specialistico dell’anestesista, siano talmente grossolani da essere rilevabili da qualsiasi professionista31. Interessante, in tal
senso, una pronuncia della giurisprudenza di merito, in cui è stata riconosciuta la cooperazione colposa tra chirurgo ed anestesista, in relazione
alla morte per arresto cardiaco di un bambino di nove anni, nel corso di
un’operazione di appendicectomia e in cui sono stati condannati: 1) l’anestesista, per aver omesso, nella fase preparatoria dell’intervento, di intubare il paziente e di applicargli il monitor dell’elettrocardiogramma; 2) il
primario anestesista, per aver fatto interrompere anzitempo il massaggio
cardiaco, con una decisione inconsulta e frettolosa; 3) i tre chirurghi, per
aver omesso, constata la inconsulta desistenza dal massaggio cardiaco, di
sostituirsi ai due anestesisti, non potendo ignorare, alla stregua del necessario corredo professionale di ogni medico, anche generico, che la
pratica rianimatoria del massaggio cardiaco avrebbe dovuto essere protratta per un tempo non inferiore a mezz’ora ed essere accompagnata da
idonea terapia farmacologica cardio-stimolante32.
Con riferimento alla fase detta più propriamente post-operatoria –
ovvero la fase di c.d. “risveglio” del paziente dalla narcosi – si ritorna, invece, ad una responsabilità esclusiva dell’anestesista, salvo che l’evoluzione successiva all’operazione non si manifesti anomala33.
30 Cass.
pen., sez. IV, 16 novembre 1990, n. 7601, Rappazzo ed altri, in Riv. pen., 1991,
p. 652.
31 M. GRIMALDI, L’attività medico-chirurgica, cit., p. 235.
32 Pret. Genova, 13 novembre 1991, Galliccia, in Foro
it., II, c. 586. Nella giurisprudenza di legittimità, per l’affermazione della responsabilità concorsuale del chirurgo e dell’anestesista, cfr. Cass. pen., sez. IV, 11 ottobre 2007, n. 41317, Raso ed altri, cit., in cui i giudici
hanno dichiarato la penale responsabilità del chirurgo per l’erronea esecuzione della procedura di intubazione della paziente da parte dell’anestesista, essendo la negligenza di quest’ultimo evidente.
33 In tal senso si è espressa Cass. pen., sez. IV, 7 novembre 1988, n. 790, in CED rv.
180245, affermando che “il chirurgo capo-équipe, una volta concluso l’atto operatorio in
senso stretto, qualora si manifestino circostanze denuncianti possibili complicanze, tali da
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
185
In tutt’altro verso si colloca, invece, una decisione che riconosce,
nella fase post-operatoria la sussistenza di un dovere di controllo tra i
due professionisti. I giudici – pronunciandosi su un caso di intervento di
adenotonsillectomia con decesso della paziente per l’insorgenza di una
grave ipossia post-operatoria – hanno, infatti, affermato la penale responsabilità sia dell’anestesista, per aver omesso la vigilanza nella fase
post-operatoria, sia del chirurgo, per essersi affidato alla vigilanza (in
realtà non effettuata) dell’anestesista senza controllarne il corretto operato34. In particolare, la Corte giustifica l’affermazione della responsabilità del chirurgo sottolineando che, nel caso concreto, questi non aveva
delegato la vigilanza sulla fase di risveglio all’anestesista, mantenendo,
quindi, egli stesso il dovere di seguire tale fase.
Una simile conclusione appare, però, in contrasto con i principi di
corretta ripartizione dei compiti e delle conseguenti responsabilità.
Come poc’anzi evidenziato, infatti, la l. n. 653 del 1954 ha attribuito all’anestesista la diretta competenza sulle operazioni di anestesia, con la
conseguenza che non può condividersi l’orientamento della Corte secondo la quale sarebbe necessaria una delega di volta in volta attribuita
all’anestesista dal chirurgo, perché il primo esegua le verifiche relative all’anestesia.
8.
Un caso particolare di responsabilità d’équipe: gli interventi di trapianto d’organi
Le problematiche sin qui analizzate si arricchiscono di nuovi contenuti e di nuove sfaccettature con riferimento ad un’ipotesi molto particolare di intervento chirurgico: il trapianto di organi. La tematica è stata
oggetto di una pronuncia della Corte di Cassazione – sottoposta a particolare riflessione anche da parte della dottrina per la singolarità delle
questioni in essa affrontate – costituendo banco di prova per la verifica
della tenuta dei principi, sin qui analizzati, rispetto ad un caso di intervento chirurgico che vede la partecipazione di una pluralità di specialisti
che intervengono, sia contestualmente (si pensi all’équipe deputata ad efescludere la assoluta normalità del decorso operatorio, non può disinteressarsene, abbandonando il paziente alle sole cure dei suoi collaboratori, ma ha l’obbligo di non allontanarsi dal
luogo di cura onde prevenire tali complicanze e tempestivamente avvertirle, attuare quelle
cure e quegli interventi che una attenta diagnosi consigliano e, altresì, vigilare sull’operato dei
collaboratori”. Per la responsabilità dell’anestesista nella fase del risveglio del paziente cfr.
Cass. pen., sez. IV, 30 novembre 1992, n. 1213, Aniballi, cit.; Cass. pen., sez. IV, 21 maggio
2003, n. 22341, Marinari, in Dir. pen. proc., 2004, p. 53.
34 Cass. pen., sez. IV, 14 giungo 2000, n. 1410 inedita.
186
CAPITOLO QUINTO
fettuare il trapianto), sia in tempi e luoghi differenti (l’espianto degli organi dal donatore precede la successiva procedura di trapianto e spesso
avviene anche in luogo diverso)35.
A chiusura dell’indagine concernente la divisione del lavoro in ambito sanitario sembra interessante, quindi, l’esame di questa sentenza
che, a volte in modo più approfondito ed altre solo implicitamente, ha
comunque affrontato tutte le tematiche oggetto della presente trattazione: posizioni di garanzia, successione di garanti, principio di affidamento, cooperazione colposa ed interruzione del nesso causale.
La fattispecie sottoposta al vaglio dei giudici della Corte di Cassazione riguardava un’ipotesi di c.d. “morte da trapianto”, ovverosia del
decesso di due pazienti a seguito di trapianto di reni provenienti da un
donatore affetto da metastasi cancerose. La Corte, innanzitutto, individua alcune linee ricostruttive sulla base delle quali poi effettuare la valutazione delle singole posizioni dei sanitari intervenuti.
I giudici ritengono opportuno, innanzitutto, ricostruire le posizioni
di garanzia nel contesto della complessa procedura dei trapianti e l’ambito
generale di operatività del principio di affidamento. In tal senso, evidenziano come la procedura dei trapianti d’organi si instauri attraverso “la sequenza di una serie di attività tecnico-scientifiche poste in essere da tutti i
sanitari o gruppi di sanitari chiamati a svolgere i loro compiti in successione e sul presupposto di una o più precedenti attività svolte da altri e
tutte finalizzate alla salvaguardia della salute del trapiantato, normalmente
affetto da gravi mali o da gravi anomalie. Tutte le attività sono tra loro interdipendenti e debbono essere tra loro coordinate verso l’esito finale
della guarigione del malato”. Ne consegue che le varie fasi che caratterizzano la procedura di trapianto non sono l’una autonoma rispetto all’altra,
ma si integrano, concretando un apporto collaborativo interdisciplinare
che, stante l’unicità del fine, può configurarsi come attività unica.
La Corte riconosce, quindi, una posizione di protezione comune a
tutti i sanitari che partecipano al trapianto d’organi, caratterizzata dal
fatto di assumere tutti la tutela della salute del paziente trapiantato. Questa unitarietà del fine, ad avviso della Corte, rende la procedura dei trapianti equiparabile a quella svolta dalle équipes chirurgiche, nelle quali
– affermano i giudici – “ogni sanitario oltre che al rispetto dei canoni di
diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, sarà anche
astretto dagli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le
attività verso il fine comune unico. In virtù di tali obblighi ogni sanitario
35 Cass. pen., sez. IV, 25 febbraio 2000, n. 2325, Altieri ed altri, cit. Per i commenti alla
sentenza cfr., A. VALLINI, Cooperazione e concause, cit.; A. GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 622.
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
187
non potrà esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal
controllarne la correttezza ponendo, se del caso rimedio ad errori altrui
che siano evidenti e non settoriali, e, come tali, rilevabili ed emendabili
con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista
medio”.
Orbene, l’affermata riconducibilità della procedura di trapianto alle
tradizionali operazioni in équipe comporta l’applicazione, anche alla
prima, dei canoni di distribuzione delle responsabilità predisposti per le
seconde e la pronuncia della Corte, nonostante una formulazione non del
tutto chiara, sembra, in effetti, non discostarsene. La prima asserzione,
secondo la quale ogni sanitario non può esimersi dal verificare la condotta di quelli che lo hanno preceduto, viene, infatti, successivamente limitata alle ipotesi di errore riconoscibile, in quanto evidente e non settoriale. Se così è, la pronuncia sembra, seppure implicitamente, affermare
la vigenza del principio di affidamento, il quale, tuttavia, trova un proprio limite logico nella riconoscibilità del fatto colposo del collega e nella
conseguente insorgenza di un dovere di controllo.
Detta ricostruzione, preliminarmente affermata in linea di principio,
viene, peraltro, confermata nel momento in cui la Corte si sofferma, specificatamente, sulla posizione del chirurgo che ha effettuato l’espianto ed
il successivo trapianto degli organi. Al chirurgo, che aveva materialmente
eseguito l’intervento di espianto dei reni e del cuore (quest’ultimo su
espressa richiesta dei cardiologi dell’ospedale che volevano esaminare
una massa evidenziata dall’ecocardiogramma), veniva contestato di aver
omesso di richiedere l’esame estemporaneo della insolita neoformazione
cardiaca da lui stesso rilevata. I giudici, quindi, hanno ritenuto configurabile una responsabilità colposa a carico del chirurgo per aver fatto affidamento sulle informazioni fornite dai medici precedentemente intervenuti (ovverosia i due anestesisti rianimatori), nonostante, fossero emersi
dati concreti, quali la diretta percezione della neoformazione cardiaca,
che dovevano indurre a dubitare degli stessi36.
Ulteriore e differente profilo di responsabilità colposa viene, invece,
dalla Corte ravvisato a carico dei due medici anestesisti del reparto di rianimazione, ove era avvenuto il decesso del donatore, ai quali viene con36 Con riferimento alla posizione del chirurgo, la Corte sembra, tuttavia, cadere nel comune errore di trasformazione delle fattispecie commissive colpose in fattispecie omissive: il
profilo di responsabilità viene, infatti, ravvisato nell’omessa diagnosi, mentre appare del tutto
evidente che il chirurgo abbia realizzato una condotta attiva (l’effettuazione del trapianto) in
violazione di una regola cautelare che vieta il trapianto di organi con gravi patologie, che è
stata causa della morte del paziente.
188
CAPITOLO QUINTO
testato di non aver diagnosticato – per imperizia consistita nel non aver
effettuato una serie di indagini strumentali e di laboratorio, in presenza
di dati anamnestici “sospetti” e di una riscontrata neoformazione cardiaca – la reale causa della morte della donatrice, erroneamente individuata in “edema cerebrale da sarcoidosi”, anziché in “metastasi cerebrali
da melanoma”. A parere dei giudici, i due rianimatori erano portatori di
una posizione di garanzia, in quanto i sanitari “che decidono di segnalare
un paziente come potenziale donatore di organi si inseriscono a pieno titolo nella complessa procedura finalizzata al trapianto”: ne consegue,
quindi, che su di essi incombe il dovere di accertare l’idoneità al trapianto degli organi del donatore e, nel caso di errore diagnostico circa la
patologia mortale del donatore, essi saranno responsabili delle eventuali
lesioni o della morte del ricevente, conseguenti a detto errore37.
Infine, ultimo profilo di responsabilità viene individuato a carico del
primario del reparto di nefrologia, ove era stati ricoverati i due pazienti
dopo il trapianto, per aver omesso di espiantare tempestivamente i reni
trapiantati e di sospendere la terapia immunodepressiva, dopo aver appreso, a distanza di tredici giorni dal trapianto, che nel cuore della donatrice era stata rilevata una metastasi da melanoma, con ciò contribuendo
a causare la morte dei due trapiantati. Invero, l’imputazione formulata
nei confronti del primario nefrologo, appare scevra di dubbi concretizzandosi in un “ordinario” caso di omissione di terapie dovute38. Maggiormente interessante è il profilo attinente alla richiesta da parte del nefrologo – che nel giudizio di merito aveva dichiarato di essersi trovato di
fronte ad un caso per lui assolutamente nuovo rispetto alla sua esperienza professionale – di un parere ad un professore statunitense, tra le
massime autorità scientifiche in materia, il quale aveva riconosciuto la serietà del problema ed aveva suggerito l’espianto e la sospensione della terapia immunodepressiva solo nel caso in cui si fossero rinvenute negli organi trapiantati cellule tumorali.
Si tratta, quindi, di una tipica ipotesi in cui il medico, non dotato
della sufficiente esperienza, richiede un consulto ad altro medico che,
per età o competenza tecnica, è maggiormente perito. In questi casi, secondo quanto emerso dall’esame condotto in precedenza (v. supra cap.
37 Ancora
una volta la Corte incorre nell’errore di conversione della fattispecie colposa
in fattispecie omissiva: gli anestesisti hanno in realtà tenuto una condotta attiva consistita
nella dichiarazione di trapiantabilità degli organi sulla base di un’errata diagnosi. Peraltro,
l’affermazione di una responsabilità omissiva ha indotto i giudici a ricercare la sussistenza di
una posizione di garanzia in capo ai due anestesisti che, invero, appare una forzatura non essendovi alcuna norma giuridica che ponga tra i doveri dell’anestesista (non avendone questi
neppure la competenza tecnica) di controllare l’idoneità degli organi per il trapianto.
38 A. VALLINI, Cooperazione e concause, cit., p. 479.
ATTIVITÀ CHIRURGICA IN ÉQUIPE
189
III § 3), la giurisprudenza ritiene che il parere fornito dal medico
“esperto” non sia in alcun modo vincolante: il medico che chieda l’intervento di un collega specialista nella medesima disciplina, ma maggiormente esperto, non si libera per ciò da responsabilità in caso di errata
diagnosi o terapia, in quanto è innegabile che egli, una volta ricevuti i necessari consigli tecnici, mantenga comunque una sfera di autonomia in
ordine al trattamento da eseguire sul paziente.
Questa tesi è confermata dalla Corte, la quale ritiene correttamente
motivata la sentenza di merito nella parte in cui evidenzia come lo scienziato statunitense, che già non aveva ricevuto precisi e completi dati
informativi, aveva nella sua risposta prospettato due diverse ipotesi
astratte di carattere non risolutivo, ma puramente metodologico, che,
come tali, lasciavano al nefrologo richiedente il consulto, “piena autonomia di valutare le indicazione ricavabili dal consulto e di pervenire, in
considerazione di tutti i dati scientifici disponibili, alla conclusione di
preferire nettamente, tra le opzioni possibili quella dell’espianto immediato degli organi, essendo elevata la probabilità della presenza di cellule
tumorali negli organi trapiantati e troppo alto il rischio di trasferimento
di queste ai riceventi”.
Da ultimo, si segnalano gli interessanti spunti di riflessione che la
sentenza ha posto in materia di successione di garanti e di interruzione
del nesso causale. In particolare, con riferimento alla successione nella
posizione di garanzia, la decisione, seppure in modo implicito, sembra
porre in particolare evidenza l’importanza dell’adempimento degli obblighi di informazione: sul subentrante pende il dovere di controllare lo
stato della situazione ereditata e sul cedente quello di esporre al neogarante le caratteristiche del bene protetto e le linee di gestione sino a quel
momento seguite39. Sempre con riferimento a tale profilo, inoltre, la Cassazione sancisce l’irrilevanza della successione nel caso di trasmissione di
attività inosservanti: il nesso di causalità tra la condotta inosservante del
garante primario non è interrotto dalla successiva condotta del garante
secondario, che non può essere considerata causa di per sé sufficiente a
produrre l’evento ex art. 41, comma 2, c.p., salvo il caso in cui la condotta sopravvenuta dell’affidatario abbia eliminato o modificato le situazioni di pericolo create dal predecessore, in modo che non siano più a lui
riconducibili. In forza di tali principi, pertanto, la Corte perviene all’affermazione di una responsabilità concorsuale dei partecipanti alla procedura, non ritenendo l’ultima condotta colposa del nefrologo da sola sufficiente a cagionare l’evento.
39 A.
GARGANI, Ubi culpa, cit., p. 622.
CAPITOLO SESTO
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI
ED ORGANIZZATIVE
SOMMARIO: 1. Eventi lesivi conseguenti a carenze strutturali ed organizzative: quali responsabilità? – 2. Cenni sull’organizzazione delle strutture sanitarie e individuazione dei soggetti responsabili. – 3. La responsabilità degli amministratori delle
strutture sanitarie per i reati di omicidio e lesioni colpose. – 4. Gli orientamenti
della giurisprudenza. – 5. L’incidenza delle carenze strutturali sulla responsabilità
del sanitario: a) il dirigente di struttura complessa. – 5.1. (Segue): b) altro personale
medico. – 6. Dalla responsabilità del singolo a quella dell’ente: quali prospettive di
applicazione del d.lgs. 231 del 2001 sulla responsabilità “amministrativa” delle
persone giuridiche agli enti ospedalieri? – 7. Prospettive de jure condendo sulla responsabilità dell’ente ospedaliero per carenze strutturali ed organizzative.
1.
Eventi lesivi conseguenti a carenze strutturali ed organizzative: quali
responsabilità?
A conclusione dell’indagine sin qui condotta, un dato sembra emergere in modo incontrovertibile: l’attività medica è oggi esercitata, con
una netta divisione del lavoro, da parte di sanitari operanti nell’ambito di
una struttura complessa. L’atto medico, quindi, si pone all’interno di
un’organizzazione, alquanto variegata, che vede la partecipazione, con
funzioni diverse, di numerose figure professionali. In tale organizzazione
la divisione del lavoro non coinvolge soltanto gli aspetti più propriamente sanitari: accanto al personale medico e paramedico si collocano
anche professionisti, che svolgono funzioni di natura prettamente amministrativa e contabile, le cui condotte, nondimeno, possono assumere un
ruolo significativo nella catena causale che porta al verificarsi dell’evento
lesivo ai danni del paziente1.
La frammentazione delle attività ed il passaggio ad un tipo di responsabilità “allargata” costituisce il problema principale della responsabilità professionale medica, poiché si corre, da un lato, il rischio di incriminare operatori sanitari il cui intervento non ha alcun rapporto con
1 C.
PARODI, V. NIZZA, La responsabilità, cit., p. 128.
192
CAPITOLO SESTO
l’evento dannoso e, dall’altro, di non individuare un responsabile. Oggi,
pertanto, nell’individuazione dei profili di responsabilità per un evento
dannoso verificatosi all’interno di una struttura sanitaria, si deve tener
conto, non solo del rapporto diretto medico-paziente, ma anche del complesso dei rapporti che, oltre a quello personale, s’istituiscono nel momento in cui un soggetto è destinatario di prestazioni mediche all’interno
di una struttura sanitaria pubblica o privata2.
L’errore medico rappresenta sovente l’evento terminale di una catena di fattori, per cui non necessariamente il sanitario è il solo responsabile o il maggior responsabile di detto evento, in quanto l’esito infausto
o insoddisfacente del trattamento non sempre dipende da un difetto di
diligenza, prudenza o perizia del medico, ma, talvolta, è la conseguenza
di fattori esogeni ambientali riconducibili a deficit strutturali od organizzativi. Si tratta di casi in cui l’evento è il risultato della combinazione
della condotta del sanitario e di condizioni latenti, ovvero di quelle condizioni, indipendenti dalla professionalità dell’operatore, frutto di decisioni assunte ad un livello superiore (da managers, autorità politiche,
amministrative, di controllo), e tali da determinare inadeguatezza degli
strumenti e delle apparecchiature, insufficiente manutenzione dei macchinari, carenza di formazione, assenza di personale per inadeguata organizzazione dei turni lavorativi3.
Come evidenziato in dottrina, l’evento morte o lesioni del paziente
per carenze strutturali può essere ricondotto a tre diverse situazioni4.
Nella prima, l’esito infausto dell’intervento è determinato dalla mancanza
o dal malfunzionamento, occasionale e temporaneo, di un’apparecchiatura o di altro presidio medicale, che sarebbero stati necessari per il
trattamento di quel caso clinico (nella struttura, ad esempio, è presente
l’apparrecchiatura per la dialisi, ma la stessa è momentaneamente non
2 C. PALMIERE, D.M. PICCHIONI, A. MOLINELLI, R. CELESTI, Carenza delle strutture sanitarie: a chi la responsabilità, in Difesa soc., 2004, p. 101.
3 In dottrina, per un esame di tali problematiche, v. A. ZANONE, Inidoneità delle strutture sanitarie e responsabilità professionale del medico, in Riv. it. med. leg., 1981, p. 3; C.F.
GROSSO, Organizzazione dei serviz medici, cit., p. 33; F. DE FERRARI, Nuovi paradigmi per la responsabilità professionale degli operatori sanitari, in Dir. pen. proc., 1995, p. 1120; G. DE
FALCO, Compiti e responsabilità del direttore sanitario delle case di cura private. Profili penali,
in Cass. pen., 1997, p. 604; C. LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale degli amministratori di strutture sanitarie, in Riv. it. med. leg., 1998, p. 403; D. POTETTI, Individuazione del soggetto penalmente responsabile all’interno delle strutture complesse, con particolare considerazione per le strutture sanitarie, in Cass. pen., 2004, p. 2403; P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale per carenze strutturali e organizzative, in Responsabilità penale e rischio nelle attività
mediche e d’impresa, cit., p. 7; A ROIATI, Medicina difensiva, cit., p. 330 ss.
4 P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale, cit., p. 7 ss.
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
193
funzionante). Nella seconda ipotesi, invece, la carenza risulta stabile e
duratura, tanto da caratterizzare il presidio ospedaliero, rendendolo
“strutturalmente” inidoneo all’erogazione di determinate prestazioni (il
nosocomio non è, per esempio, dotato delle apparecchiature necessarie e
di sale operatorie attrezzate per interventi di cardiochirurgia). Infine, la
carenza può essere di tipo organizzativo, laddove concerna la gestione
del personale medico o infermieristico, nonché l’utilizzo delle strumentazioni e dei presidi presenti nella struttura (sempre a titolo esemplificativo, si può ipotizzare il caso dell’ospedale che, a seguito dell’organizzazione dei turni non è in grado di garantire la presenza di due medici durante la notte).
Si tratta, quindi, di carenze non direttamente addebitabili al personale medico (salvi i già evidenziati profili di responsabilità del dirigente
di struttura complessa per i difetti di organizzazione del reparto da lui diretto), ma riferibili ad omissioni o a precise scelte delle strutture sanitarie
sui cui vertici dovrebbero, quindi, ricadere le responsabilità in caso di
esiti infausti. Dinnanzi all’impossibilità de jure condito di configurare una
responsabilità penale diretta delle strutture sanitarie – a differenza di
quanto avviene sul piano civilistico ove le stesse sono astrette da un obbligo risarcitorio5 – la giurisprudenza (nelle, invero assai rare, pronunce
in materia) procede ripartendo la responsabilità tra i medici e gli organi
amministrativi, escludendo, peraltro, in linea generale, che le carenze
strutturali ed organizzative possano fungere da causa di esclusione della
colpevolezza per il medico.
Si ripropongono, quindi, le note questioni relative all’individuazione
dei soggetti responsabili e del riparto di competenze, al fine di identificare coloro che sono in grado, per la loro posizione e per i poteri ad essi
attribuiti, di influire sui fattori e sulle funzioni di organizzazione dell’ente, e che sono dotati, quindi, di una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti6. Il riferimento corre, quindi, ai soggetti ex lege incaricati di gestire (sotto il profilo amministrativo, finanziario e organizzativo)
la struttura sanitaria e dai quali possono dipendere le carenze strutturali
e i difetti di organizzazione. Si tratta di una ricerca non sempre agevole,
che richiede l’analisi, da un lato, della ripartizione interna delle funzioni
5 Con riferimento alla responsabilità civile delle strutture sanitarie, cfr. Cass. civ., sez.
III, 16 maggio 2000, n. 6318, in Mass. Giust. civ., 2000, p. 1030; Cass. civ., sez. II, 21 gennaio
2000, n. 632, in Giur. it., 2000, p. 1817; Cass. civ., sez. III, 21 dicembre 1978, in Mass. Giust.
civ., 1978, p. 2566.
6 In tal senso, con riferimento in generale alle problematiche connesse al diritto penale
di impresa A. ALESSANDRI, voce Impresa (responsabilità penale), in Dig. disc. pen., Torino,
1989, VI, p. 194.
194
CAPITOLO SESTO
e delle competenze delle singole figure dirigenziali e, dall’altro, della problematica relativa al conferimento di eventuali deleghe di funzioni7.
2.
Cenni sull’organizzazione delle strutture sanitarie e individuazione dei
soggetti responsabili
Come noto, il Servizio sanitario nazionale viene istituito con l. n. 883
del 1978 e successivamente riordinato con d.lgs. n. 502 del 1992 che, nel
tentativo di contenere i costi della spesa sanitaria, ormai giunti a livelli
inaccettabili, ha avviato un processo di trasformazione delle organizzazioni sanitarie pubbliche in aziende. Il d.lgs. n. 502 del 1992 è stato poi
a sua volta modificato, dapprima, dal d.lgs. n. 517 del 1993 e, successivamente, dal d.lgs. n. 229 del 1999, il quale ha ulteriormente enfatizzato
la struttura aziendalistica degli enti ospedalieri. La normativa oggi in vigore delinea, indubbiamente, un quadro organizzativo di estrema complessità, che prevede addirittura tre distinti livelli di intervento e controllo della sanità pubblica: nazionale, regionale ed aziendale.
Con specifico riferimento alle unità sanitarie locali, esse sono state
trasformate in aziende, pur sempre dipendenti dalla Regione, dotate di
personalità giuridica pubblica e di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile e tecnica, a capo delle quali è posto il direttore generale, coadiuvato dal direttore amministrativo e dal direttore sanitario8. In particolare, al direttore generale, spettano, ai sensi dell’art. 3
d.lgs. n. 502 del 1992, tutti i poteri di gestione dell’azienda USL (di cui
ha altresì la rappresentanza), tra i quali vanno annoverati i compiti di verificare che sia rispettata la corretta ed economica gestione delle risorse
assegnate e di accertarsi dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa.
A tal proposito, è giocoforza affermare che al direttore generale è attribuita una posizione di garanzia concernente l’adeguata ed economica
gestione dell’ente e la correttezza dell’azione dello stesso, con conseguente dovere di intraprendere tutte le azioni necessarie e di predisporre
adeguati controlli per impedire attività illecite all’interno della struttura,
avvalendosi della collaborazione dei coadiutori ovvero sostituendosi ad
essi, nel caso siano di diverso parere. In tal senso si è espressa anche la
giurisprudenza, la quale ha evidenziato come la normativa attribuisca al
7 Sull’esigenza,
nell’ambito delle strutture complesse, di individuare i soggetti responsabili alla luce delle competenze proprie di ciascuno di essi e del ruolo rivestito all’interno della
struttura, cfr. Cass. pen., sez. IV, 2 dicembre 2008, n. 1866, Toccafondi e altri, in Guida al dir.,
2009, 11, p. 66.
8 C. LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale, cit., p. 409.
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
195
direttore generale una “funzione di alta amministrazione consistente nella
elaborazione delle strategie dell’azienda USL”, e lo doti di tutti i poteri necessari per impedire la realizzazione di reati all’interno della struttura da
lui diretta, riconoscendogli, quindi, una posizione di garanzia. Laddove,
pertanto, il direttore generale venga meno all’adempimento degli obblighi giuridici su di lui incombenti potrà essere chiamato a rispondere, ai
sensi dell’art. 40, comma 2, c.p., a titolo di concorso, con gli autori del
fatto-reato9.
La normativa prevede, altresì, che nell’esercizio delle proprie funzioni, il direttore generale sia coadiuvato dal direttore amministrativo e
dal direttore sanitario da lui stesso nominati che, secondo quanto sancito
dall’art. 3, comma 1 quinques, d.lgs. n. 502 del 1992, partecipano, unitamente al primo, che ne ha la responsabilità, alla direzione dell’azienda,
assumendo diretta responsabilità delle funzioni attribuite alla loro competenza e concorrendo, con la formulazione di proposte e di pareri, alla
formazione delle decisioni della direzione generale.
Più specificatamente, il direttore amministrativo ha compiti dirigenziali in ordine alla gestione economica e giuridica dell’ente ospedaliero
ed è, quindi, responsabile dell’organizzazione dei servizi e della predisposizione di strutture.
Tra i dirigenti amministrativi, tuttavia, quello su cui ricadono i maggiori rischi di una responsabilità penale nell’attività di assistenza sanitaria
è indubbiamente il direttore sanitario, al quale spetta il controllo delle
condizioni igienico-sanitarie all’interno della struttura ospedaliera, la vigilanza del servizio farmaceutico e della qualità e conservazione degli alimenti, nonché, più in generale, la verifica, costante, della regolarità e dell’efficienza dell’assistenza agli infermi, che ricomprende anche il compito
di distribuire e razionalizzare l’impiego del personale sanitario10.
La ripartizione di compiti tra i dirigenti amministrativi delle strutture
sanitarie è stata chiaramente enucleata in una pronuncia della Corte di
Cassazione, in cui si afferma che “nelle strutture sanitarie pubbliche la figura del dirigente è facilmente identificabile, al livello più elevato, nei direttori sanitario ed amministrativo dell’azienda, direttamente scelti e nominati dal direttore generale, con il quale costituiscono la cosiddetta Alta
direzione, con funzioni eminentemente gestionali e strategiche, secondo le
9 Cass. pen., sez. un., 19 giugno 1996, n. 16, Di Francesco, in Cass. pen., 1997, p. 360;
Cass. pen., sez. III, 25 ottobre 2000, n. 3408, Leoni, in CED rv. 217998. In dottrina sull’assunzione di una posizione di garanzia da parte dei soggetti che hanno l’amministrazione della
struttura sanitaria v. E. SBORRA, La posizione, cit., p. 120 ss.; R. FRESA, La responsabilità penale,
cit., p. 774.
10 In tal senso in giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 16 dicembre 2004, n. 7663, Giordano, in CED rv. 230823
196
CAPITOLO SESTO
previsioni, non più attuali – in quanto superate da quelle dei c.d. decreti
di riordino del d.P.R. n. 128 del 1969 (“Ordinamento interno dei Servizi
Ospedalieri”). La differenziazione di base tra le dette Direzioni è – giusta
la menzionata normativa – che la prima cura l’organizzazione tecnico sanitaria ed il buon andamento igienico sanitario dei servizi ospedalieri,
mentre la seconda provvede alla gestione dell’ente ospedaliero sotto i profili giuridico ed economico. I menzionati decreti di riordino non hanno
modificato tale impostazione, riconoscendo al direttore sanitario la direzione dei servizi sanitari ai fini organizzativi ed igienico sanitario, mentre
a quello amministrativo la direzione dei servizi amministrativi dell’USL,
ora Azienda”11.
Come già in precedenza evidenziato (v. supra cap. I), l’accentuazione
del carattere aziendale delle unità sanitarie ha comportato un incremento
dei compiti prettamente organizzativi in capo al dirigente di struttura
complessa che si affianca, quindi, agli organi amministrativi e, al pari di
questi, può essere chiamato a rispondere di eventi avversi conseguenti a
deficit di organizzazione del reparto da lui diretto.
I livelli di controllo e di intervento non si esauriscono, in realtà, a livello aziendale, ma coinvolgono altresì competenze nazionali e regionali,
anche se, come meglio si evidenzierà in seguito, raramente sarà configurabile una responsabilità a carico di amministratori regionali e centrali12.
L’organizzazione e la dotazione tecnica delle strutture sanitarie risentono,
infatti, innegabilmente, di scelte di natura eminentemente politica, assunte a livello nazionale o regionale, circa gli standards qualitativi e quantitativi delle prestazioni sanitarie rese ai cittadini13.
Il problema di individuare i soggetti penalmente responsabili all’interno delle strutture sanitarie si pone anche con riferimento alle strutture
private le quali, pur organizzate sulla falsariga di quelle pubbliche, presentano, nondimeno, alcune peculiarità. In particolare, il riferimento
corre, ad esempio, al diverso atteggiarsi delle prerogative del direttore sanitario, rispetto al quale all’ampiezza dei compiti (simili peraltro a quelli
del direttore sanitario di strutture pubbliche) non corrisponde, di norma,
un concreto potere di intervento nella conduzione e programmazione
dell’attività della casa di cura, rimanendo le scelte decisionali di fondo affidate ai titolari della clinica14. Nell’ambito delle strutture private l’indi11 Cass. civ., sez. III, 16 aprile 1999, Quarta, inedita.
12 C. LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale, cit., p. 411.
13 D. POTETTI, Individuazione del soggetto, cit., p. 2404.
14 G. DE FALCO, Compiti e responsabilità, cit., p. 604. Le funzioni
del direttore sanitario
delle strutture sanitarie private sono state individuate dapprima dall’art. 53 L. 12 febbraio
1968, n. 128 e, successivamente, confermate dall’art. 27 D.P.C.M. 27 giugno 1986. In giuri-
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
197
viduazione dei soggetti responsabili non potrà prescindere, quindi, dalla
valutazione dell’organigramma e delle funzioni attribuite a ciascun dirigente.
L’individuazione dei soggetti ex lege responsabili non è, però, di per
sé sufficiente per l’imputazione “personale” del fatto di reato. Nell’ambito delle strutture complesse accade, non di rado, che i soggetti titolari
della posizione di garanzia deleghino ad altri il compimento delle proprie
funzioni. Il problema delle deleghe di obblighi penalmente rilevanti è
stato oggetto di interessanti approfondimenti con specifico riferimento al
diritto penale dell’impresa, ma i principi ivi espressi ben si attagliano anche rispetto ad un’organizzazione, quale quella sanitaria, caratterizzata,
come evidenziato, da spiccati caratteri aziendalistici.
Le questioni sottese alla delega di funzioni sono essenzialmente due
e concernono, innanzitutto, l’ammissibilità della delega e, secondariamente, gli effetti della stessa. Orbene, per le strutture sanitarie, il problema si pone, in primo luogo, con riferimento alla possibilità per il direttore generale – ovvero colui il quale, collocato al vertice della struttura,
è in via principale dotato di tutte le funzioni di gestione organizzativa, finanziaria ed amministrativa dell’ente – di delegare ad altri l’esercizio di
alcune delle funzioni ad esso attribuite ex lege.
La soluzione deve, indubbiamente, essere positiva, e non solo perché ormai dottrina e giurisprudenza riconoscono, in via generale, l’ammissibilità (ed anzi la necessità) della delega di funzioni nell’ambio di
strutture caratterizzate da un’organizzazione complessa, ma altresì in
forza di un’espressa previsione normativa. È stato lo stesso legislatore, infatti, che, nel disciplinare le funzioni del direttore generale, ha riconosciuto a quest’ultimo la facoltà di nominare un direttore sanitario ed un
direttore amministrativo, a cui demandare le funzioni più squisitamente
igienico-sanitarie ed ammnistrative (art. 3, d.lgs. n. 502 del 1992)15.
Come detto, tuttavia, l’ammissibilità della delega di funzioni è un
fatto ormai da tempo assodato, sia in dottrina che in giurisprudenza,
tanto che le stesse, nel silenzio normativo, hanno provveduto ad elaborare (pur non senza contrasti) i presupposti ed i requisiti in presenza dei
quali la delega possa essere ritenuta valida ed efficace. Nella pluralità di
sprudenza v. Cass. pen., sez. IV, 5 dicembre 2003, n. 4981, Ligresti, in Dir. prat. lav., 2004, p.
1919, in cui è stata riconosciuta la penale responsabilità dei due amministratori delegati per
il reato di omicidio colposo ai danni di un infermiere e di alcuni pazienti della casa di cura a
seguito di un incendio scoppiato in una camera iperbarica. La Corte, in particolare, ha riconosciuto in capo ai due amministratori la posizione di garanzia assimilabile a quelle del direttore generale dell’ASL.
15 In dottrina cfr. C. LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale, cit., p. 407. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. un., 19 giugno 1996, n. 16, Di Francesco, cit.
198
CAPITOLO SESTO
elaborazioni susseguitesi nel tempo, oggi può dirsi che si è raggiunta una
tendenziale uniformità sui requisiti della forma espressa della delega, dell’affidabilità e competenza tecnica del soggetto delegato, dell’attribuzione al delegato dei poteri necessari per poter esercitare le funzioni attribuitegli e dell’accettazione dell’incarico da parte di quest’ultimo16.
Resta, però, da interrogarsi circa l’incidenza della delega sulla responsabilità del soggetto delegante e, quindi, in altri termini, se la dislocazione delle funzioni attribuite al soggetto per legge sia idonea ad escluderne qualsiasi forma di responsabilità o se, al contrario, sul titolare originario permanga un dovere di controllo e di vigilanza sull’operato del
preposto. A tal riguardo, è dato rinvenire due orientamenti che fondano
il proprio diverso convincimento sui differenti piani – oggettivo o soggettivo – di operatività della delega. Secondo una prima impostazione,
che muove dal “principio dell’inderogabilità della posizione di garanzia”17, la delega non esclude la responsabilità del delegante, il quale “si libera solo dell’obbligo di una presenza diretta”, in quanto “l’obbligo del
garante primario permane (…) ma muta di contenuto”, divenendo obbligo di vigilare ed intervenire laddove venga a conoscenza di qualunque
violazione ancora suscettibile di essere impedita18.
Tale prospettiva – che esclude la responsabilità solo sul piano soggettivo, qualora il delegante dimostri di aver correttamente adempiuto all’obbligo di vigilanza – è stata, tuttavia, oggetto di critica da parte di altro orientamento dottrinale che ha evidenziato come essa trascuri “che si
danno circostanze concrete che impediscono che l’adempimento di un
obbligo di vigilanza da parte del datore di lavoro, e che la possibilità oggettiva di osservare l’obbligo di condotta incide sulla stessa possibilità di
configurare una condotta omissiva. A voler ritenere che il datore di lavoro sia sempre titolare di un obbligo di garanzia […] si corre purtroppo
il rischio di fondare l’addebito sul mero possesso di una qualifica”19. Secondo quest’ultima ricostruzione, invero minoritaria, la delega sarebbe
quindi idonea – già sul piano oggettivo – a liberare il garante originario20.
16 A. ALESSANDRI, voce Impresa, cit., p. 210; P. ALDROVANDI, Orientamenti dottrinali e
giurisprudenziali, cit., p. 703; C. PEDRAZZI, Profili problematici, cit., p. 125. In giurisprudenza
cfr. Cass. pen., sez. IV, 24 settembre 2007, n. 47136, Macorig, in CED rv. 238350; Cass. pen.,
sez. IV, 6 febbraio 2007, n. 12794, Chirafisi, in CED rv. 236279.
17 D. PULITANÒ, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale nel diritto penale
del lavoro, in Riv. giur. lav., 1978, IV, p. 180.
18 C. PEDRAZZI, Profili problematici, cit., p. 139. Nello stesso senso cfr. G. GRASSO, Il
reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 439. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. IV, 10
novembre 2005, n. 47363, Oberrauch, in CED rv. 233181.
19 G. FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 202.
20 A. FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1984,
p. 229 ss.
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
199
Se così è anche nell’ambito delle strutture sanitarie, applicando il
prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale, la delega conferita dal direttore generale ai propri coadiutori non libera il primo da un
controllo sul corretto operato dei preposti. Questa conclusione appare,
peraltro, confermata dal dettato normativo che, all’art. 3, comma 6, d.lgs.
n. 502 del 1992, riconosce la persistenza delle funzioni delegate anche in
capo al direttore generale, stabilendo che questi è tenuto a motivare i
provvedimenti assunti in difformità dal parere espresso dal direttore sanitario e da quello amministrativo. La Corte di Cassazione ha ritenuto
che tale previsione altro non significhi se non che “il direttore generale
può prendere provvedimenti anche nelle materie affidate alla diretta responsabilità dei coadiutori”21: a riprova del fatto che il delegante non si
libera della propria posizione di garanzia e delle funzioni ad esso attribuite dalla legge22.
3.
La responsabilità degli amministratori delle strutture sanitarie per i
reati di omicidio e lesioni colpose
I soggetti responsabili delle strutture sanitarie possono, in ragione
delle funzioni dagli stessi assunte, essere destinatari in via principale, o a
seguito di delega, di precetti penali quali, ad esempio, quelli in materia di
tutela ambientale (es. gestione e smaltimento dei rifiuti ospedalieri), di
igiene e sicurezza sul lavoro. Nell’ambito della presente indagine, tuttavia, si pone al centro dell’attenzione l’eventuale responsabilità degli amministratori per i reati di omicidio e lesioni colposi verificatisi all’interno
della struttura dagli stessi diretta a causa di carenze strutturali o di organizzazione.
Laddove, quindi, l’evento morte o lesioni ai danni del paziente sia la
conseguenza di tali carenze, si profila una responsabilità di natura concorsuale dei soggetti che hanno effettuato le scelte di tipo amministrativoorganizzativo tali da determinare dette carenze. La condotta dei dirigenti
potrà concretizzarsi sia in un’azione, ove la carenza sia il frutto di errori
decisionali o di cattiva gestione tecnica ed amministrativa, sia (più di sovente) in un’omissione, per la mancata adozione di tutti i provvedimenti
necessari per il corretto funzionamento della struttura dagli stessi diretta.
Per non andare incontro a responsabilità, pertanto, i direttori generali, amministrativi e sanitari devono adottare tutti i provvedimenti che,
21 Cass. pen., sez. un., 19 giugno 1996, n. 16, Di Francesco, cit.
22 In tal senso, seppure con riferimento alla responsabilità del
direttore sanitario in
materia di smaltimento dei rifiuti, cfr. Cass. pen., sez. III, 9 giugno 1994, n. 10155, Bencini e
altro, in Giust. pen., 1995, II, p. 232.
200
CAPITOLO SESTO
nell’esercizio delle loro funzioni, percepiscano, per conoscenza diretta o
su segnalazione, come necessari per soddisfare le necessità tecniche ed
organizzative della struttura sanitaria. L’obbligo di attivazione incombente sul dirigente può, come evidenziato, sorgere anche a seguito di segnalazione dell’insorgere di una situazione di rischio da parte del medico
che dirige l’unità operativa, al quale fa capo il dovere di monitorare il regolare funzionamento delle strumentazioni e l’adeguatezza delle strutture
per lo svolgimento dell’attività medica, ed il conseguente obbligo di segnalare tutti i casi di malfunzionamento, di vetustà o di disorganizzazione.
D’altro canto, potrebbe accadere che, a causa delle limitate risorse
finanziarie, i dirigenti ospedalieri non siano in grado di soddisfare le richieste di potenziamento, ammodernamento o riparazione delle strumentazioni ovvero di adeguamento dell’organizzazione: in tale evenienza
non consegue, però, necessariamente l’esclusione della penale responsabilità dei funzionari amministrativi. Nella ripartizione e nell’impiego
delle risorse finanziarie, infatti, i dirigenti devono rispettare le priorità
caratterizzate da necessità ed urgenza, con la conseguenza che eventuali
alterazioni di questa regola potranno essere fonte di responsabilità degli
stessi. Sarà, pertanto, configurabile una responsabilità a carico degli amministratori (ed in particolare del direttore generale, su cui ricade l’obbligo di una corretta gestione finanziaria) nel caso in cui non siano utilizzati capitoli di bilancio per soddisfare richieste caratterizzate da necessità
ed urgenza, dirottando le risorse su altri capitoli23.
La situazione muta, invece, se la carenza di risorse finanziarie sia da
attribuire a scelte “politiche” assunte a livello nazionale o regionale. In tal
caso, non è penalmente responsabile l’organo amministrativo ospedaliero
che, avendo fatto quanto di sua spettanza per dar corso alle richieste inoltrate, si trovi, tuttavia, nell’impossibilità finanziaria di provvedervi. Orbene, se la dottrina è concorde nel ritenere che in questa circostanza sia
da escludersi la responsabilità degli organi apicali aziendali; diverse sono,
tuttavia, le ragioni poste a fondamento di tale esclusione. Secondo il prevalente orientamento, la responsabilità deve essere esclusa, ai sensi dell’art. 45 c.p., per carenza di suitas, visto il ricorrere di una causa di forza
maggiore24. Per altro filone dottrinale, a cui si ritiene di aderire, invece,
nel predetto caso, l’azione doverosa (astrattamente idonea ad impedire
23 C.F. GROSSO, Organizzazione dei servizi medici, cit., p. 34; D. POTETTI, Individuazione
del soggetto, cit., p. 2404 ss.
24 C. LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale, cit., p. 408; D. POTETTI, Individuazione del soggetto, cit., p. 2405.
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
201
l’evento) non sarebbe, in concreto esigibile, in quanto il garante non è oggettivamente in grado di porre in essere l’intervento impeditivo. Ne conseguirebbe, quindi, la non punibilità dell’inerzia in quanto atipica: il reato
omissivo viene meno proprio perché trova il suo limite logico nell’impossibilità materiale di adempiere all’obbligo giuridico25.
Nei casi di inadeguatezza della struttura sanitaria conseguente a carenza di risorse finanziarie potrebbe, nondimeno, residuare una responsabilità degli organi politici nazionali – Ministro o Sottosegretario competenti, nonché dirigenti ministeriali – ovvero regionali – segnatamente l’Assessore alla Sanità – laddove detta carenza sia da addebitarsi a scelte di
natura politica26. È innegabile, infatti, che l’esercizio delle competenze attribuite alle Regioni ed al Ministero della Sanità possa incidere fortemente
sull’efficienza finanziaria e gestionale delle aziende ospedaliere. Le Regioni, infatti, sono competenti ad adottare norme che regolino la gestione
economica, patrimoniale e finanziaria delle Aziende Sanitarie, nonché a
programmare l’attività di assistenza e di cura attraverso l’emanazione, in
attuazione delle disposizioni del Piano sanitario nazionale e del Piano sanitario regionale. Dal canto suo, il Ministero della Sanità, oltre ai compiti
di programmazione relativi all’emanazione del Piano sanitario nazionale,
ha competenze decisivi in materia di monitoraggio e vigilanza sulla qualità
e sicurezza dell’erogazione delle prestazioni sanitarie27.
In definitiva, quindi, può configurarsi una responsabilità colposa
omissiva degli organi politici nel caso in cui le scelte di natura politica di
contenimento della spesa sanitaria abbiano determinato gravi carenze organizzative o strutturali dell’azienda ospedaliera, tali da causare l’evento
mortale o lesivo ai danni del paziente. In particolare, sono riconducibili
a detta situazione l’assenza di mezzi terapeutici complessi (ad esempio
TAC o RMN), l’eccessiva riduzione di posti letto, gravi carenze di personale a causa della mancata autorizzazione all’assunzione, obsolescenza
delle attrezzature, mentre saranno generalmente responsabili i soli dirigenti della struttura nel caso di carenze strutturali circoscritte e di poco
conto (es. assenza di farmaci, garze, strumenti operatori)28.
Secondo un diverso orientamento dottrinale, invece, la responsabilità degli organi politici andrebbe circoscritta ai soli casi in cui non siano
25 In
26 C.
tal senso P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale, cit., p. 27.
LORÉ, P. MARTINI, Sulla responsabilità penale, cit., p. 411; P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale, cit., p. 28
27 P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale, cit., p. 28, nota 61.
28 A. DE DONNO, A. LOPEZ, V. SANTORO, P. DE DONNO, F. INTRONA, La responsabilità
penale degli organi apicali delle strutture sanitarie, in Riv. it. med. leg., 2007, p. 631; P. PISA,
G. LONGO, La responsabilità penale, cit., p. 29.
202
CAPITOLO SESTO
stati utilizzati capitoli di bilancio già destinati a coprire determinate spese
per l’innovazione e il miglioramento delle strutture. Non vi sarebbe, al
contrario, alcuna responsabilità penale degli organi politici qualora le decisioni di spesa rientrino nell’ambito di scelte politiche in base alle quali
sia stata decisa una diversa ragionevole destinazione delle somme29.
D’altro canto, autorevole dottrina ha evidenziato che, mentre non vi
sono difficoltà nel riconoscere la responsabilità dei dirigenti dell’azienda
sanitaria, in quanto nelle loro scelte esercitano una discrezionalità tutto
sommato tecnica, rispetto alla quale sono individuabili regole di buona
amministrazione delle risorse disponibili per fronteggiare le necessità sanitarie sulla base dell’esperienza, ben più complessa è, invece, la questione riguardante gli organi politici. Questi ultimi, infatti, sono titolari di
una discrezionalità eminentemente politica, le cui regole di esercizio sono
difficilmente individuabili in modo così stringente da fondare una colpa
penalmente rilevante. Nondimeno la possibilità di configurare una responsabilità di tali organi non può essere esclusa in radice, in quanto se è
pur vero che gli stessi hanno il potere di stabilire discrezionalmente l’ordine di priorità degli obiettivi da perseguire, non c’è dubbio, però, che
tale discrezionalità non possa spingersi sino a sovvertire la gerarchia dei
valori costituzionali, nell’ambito dei quali la salute occupa un posto apicale. Se, quindi, il bilanciamento di interessi pubblici è certamente discrezionale, non altrettanto può, invece, dirsi con riguardo al capovolgimento del loro ordine di valore, anche se non è facile individuare la linea
di confine tra i due fenomeni30.
4.
Gli orientamenti della giurisprudenza
In giurisprudenza, l’affermazione della penale responsabilità dei
funzionari amministrativi stenta ancora ad affermarsi e, quindi, sono sporadiche le sentenze in cui è stata riconosciuta l’attribuibilità a direttori
generali, amministrativi e sanitari di eventi lesivi ai danni del paziente
conseguenti a carenze strutturali. Nello scarno panorama giurisprudenziale, si può ricordare una pronuncia della Corte di Cassazione in cui, secondo i giudici, va ascritta, a titolo di colpa, al direttore amministrativo
di una struttura ospedaliera la morte di un paziente a seguito di un intervento chirurgico, nel caso in cui questi non abbia predisposto un’organizzazione almeno sufficiente, e tale comunque da rendere possibile
29 D. POTETTI, Individuazione del soggetto, cit., 2404.
30 F. PALAZZO, Responsabilità medica, cit., p. 1065 ss.
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
203
quel minimo di assistenza notturna post-operatoria che tutti gli interventi
in anestesia impongono31. I giudici di legittimità hanno ritenuto che tra le
competenze del direttore amministrativo rientri la pianificazione dei
turni di lavoro all’interno della struttura ospedaliera, con la conseguenza
che, in forza della posizione di garanzia gravante sullo stesso, egli potrà
essere chiamato a rispondere per aver omesso di organizzare adeguatamente la struttura, in modo da garantire un’adeguata cura dei pazienti,
ove si accerti che l’evento morte o lesioni è stata conseguenza di tale condotta.
Con una recente sentenza, inoltre, la Corte di Cassazione si è soffermata sui profili di responsabilità del direttore generale in un caso di omicidio colposo ai danni di un paziente ricoverato presso la struttura ospedaliera dallo stesso diretta, a seguito di black out del reparto e conseguente interruzione per 25-30 minuti del funzionamento dell’impianto di
drenaggio toracico che doveva evitare il riformarsi di pneumotorace. Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, il black out si verificò in
occasione della sostituzione di un gruppo elettrogeno da sottoporre ad
opere di manutenzione, durante la quale mancò la corrente, appunto per
25-30 minuti.
La Suprema Corte, investita della questione a seguito di ricorso dell’imputato, ha sancito alcuni principi interessanti in ordine alla posizione
di garanzia del dirigente ed alla sua responsabilità, in caso di delega di
funzioni, rilevando che “esattamente la sentenza impugnata ha individuato nel d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (che, come del resto riconoscono i ricorrenti, all’art. 3 attribuisce al direttore generale dell’U.S.L.
– ora A.S.L. – i poteri di gestione e di controllo) la fonte normativa della
attribuzione a ciascuno degli imputati della posizione di garanzia da cui
discende l’obbligo di evitare l’evento”. Per poter stabilire se sussiste responsabilità in capo al direttore generale, tuttavia, è necessario verificare
se tra i poteri, e i correlati doveri di gestione, rientri anche quello di occuparsi dell’impianto elettrico degli ospedali di competenza dell’U.S.L.,
tenuto anche conto della delegabilità di alcuni aspetti gestionali. A tal
proposito, evidenziano i giudici di legittimità, “sull’argomento la sentenza
impugnata coerentemente evidenzia da una parte la macroscopicità dei
difetti dell’impianto, e dall’altro l’esistenza di plurime segnalazioni rivolte
al direttore generale dal servizio tecnico interno e dagli organi di controllo
esterni all’ospedale perché venissero attivate (e questo è evidentemente
compito del direttore generale) le procedure necessarie per mettere a
norma l’impianto anche sotto il profilo della copertura finanziaria. In31 Cass.
pen., sez. IV, 20 settembre 1995, n. 10093, Gazzara, in Cass. pen., 1996, p. 908.
204
CAPITOLO SESTO
somma, osserva questa Corte, se per aspetti circoscritti di malfunzionamento dell’impianto elettrico rimediabili dal settore tecnico deve ritenersi
che, assieme alla delega del relativo settore la posizione di garanzia si trasferisca dal direttore generale al delegato, così non è nel caso contrario,
quando l’impianto presenti macroscopici difetti o carenze e la situazione
sia stata dal delegato adeguatamente segnalata al delegante”32.
La qualifica di direttore generale (nonché di direttore amministrativo o sanitario) non può quindi essere di per sé sufficiente ai fini dell’affermazione di responsabilità, ma presupposto insuperabile per tale affermazione è che la condotta omessa rientri fra quelle di competenza dell’amministratore e che non vi sia delega di funzioni. In tale ultimo caso,
peraltro, la delega non esclude per ciò solo la responsabilità del delegante, laddove il malfunzionamento dell’apparecchiatura o la carenza
strutturale sia macroscopica e l’amministratore ne fosse, comunque, a conoscenza.
Sempre in applicazione di detti principi, la Suprema Corte ha affermato la responsabilità in concorso del direttore generale, del direttore sanitario e del primario di un reparto di ostetricia e ginecologia per avere
causato la morte di un neonato per ipertermia conseguente al malfunzionamento dell’incubatrice nella quale era stata posizionata la vittima. In
particolare, i profili di colpa del direttore generale e del direttore sanitario vengono ravvisati nell’aver deciso e deliberato il mutamento del sistema di manutenzione dell’apparecchiatura da periodico a quello, meno
sicuro, “a chiamata”33.
Infine, con riferimento alle competenze del direttore sanitario, la
Corte di Cassazione ne ha, in una recente sentenza, affermato la penale
responsabilità per la mancata predisposizione di adeguati presidi di personale sanitario per interventi di urgenza all’interno di una camera iperbarica. La Corte ha rilevato che il direttore sanitario assume una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti, avendo di conseguenza “il
potere e il dovere di porre in essere tutti gli accorgimenti idonei ad assicurare un rapido intervento”34.
32 Cass.
33 Cass.
pen., sez. IV, 6 ottobre 2005, n. 1147, N., in D&G, 2006, p. 70.
pen., sez. IV, 5 dicembre 2007, n. 1553, Spinosa ed altri, in Foro it., 2008, 10,
c. 517.
34 Cass. pen., sez. IV, 14 novembre 2005, n. 5959, S.N., inedita. Con riguardo alla responsabilità del direttore sanitario di una casa di cura, ritenuto responsabile dell’omicidio
colposo di una paziente avvenuto a causa dell’imperizia del personale medico, per non aver
disposto il trasferimento della paziente in nosocomio più attrezzato nonostante fosse a conoscenza della situazione e dell’inadeguatezza della struttura a gestire in modo opportuno
l’emergenza, v. Cass. pen., sez. IV, 17 gennaio 2012, n. 142, in Riv. it. med. leg., 2012,
p. 1256.
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
5.
205
L’incidenza delle carenze strutturali ed organizzative sulla responsabilità del sanitario: a) il dirigente di struttura complessa
Le scelte amministrative finiscono, inevitabilmente, per ripercuotersi sul sanitario e sulla sua capacità di conformarsi agli standards di diligenza35. Questi ultimi – formalizzati in regole cautelari prasseologiche o
scritte – non di rado differiscono dalla realt fattuale in cui il medico si
trova concretamente ad operare tanto che, già alcuni anni addietro, autorevole dottrina evidenziava che “anche la responsabilità del medico
sottostà al limite del ad impossibilia nemo tenetur, nel senso che da lui
poteva pretendersi, nei sui confronti era esigibile un comportamento corretto. Il problema sta diventando di sempre più bruciante attualità per
una delle non poche contraddizioni del nostro Paese nella presente
epoca: all’astratto progredire della scienza medica e alle nostre astratte o
velleitarie aspirazioni ad una medicina altamente qualificata, di livello
nordeuropeo, fanno spesso da riscontro, in concreto, strutture sanitarie di
tipo arretrato o terzomondista, dovute anche alle attuali carenze economiche e alle priorità riservate ai consumi individuali rispetto ai servizi sociali”36. L’Autore proseguiva osservando che è pur vero che non si può
chiedere al medico di chiudere i reparti non rispondenti ai requisiti di
legge o della miglior scienza del momento storico, tuttavia, allo stesso
modo, la sua responsabilità non può essere valutata sulla base di parametri ottimali, non rispondenti alla realtà sanitaria del momento in cui si
trova ad operare il sanitario. Ne consegue, pertanto, che “a meno che
non si possano riscontrare colpevoli omissioni del medico nel sollecitare
gli interventi (economici, ecc.) della Pubblica Amministrazione competente, la colpa medica dovrà essere rapportata alla reale struttura sanitaria in cui il singolo medico concretamente opera”37.
Una reale ed effettiva individualizzazione dell’addebito colposo non
può, quindi, prescindere da una valutazione delle carenze strutturali od
organizzative quali possibili scusanti per il sanitario non conformatosi
alla regola di cautela38. Si pensi, ad esempio, al caso del medico speciali35 Il fenomeno degli esiti infausti di interventi diagnostici o terapeutici, conseguenti a
carenze strutturali ed organizzative è in continua espansione. In uno studio di alcuni anni orsono si individuava una percentuale del 33% di casi di esiti infausti connessi a carenze strutturali. Cfr. F. INTRONA, Responsabilità professionale medica e gestone del rischio, in Riv. it. med.
leg., 2007, p. 641.
36 F. MANTOVANI, La responsabilità del medico, cit., 1980, p. 21.
37 F. MANTOVANI, La responsabilità del medico, cit., p. 22.
38 Un sistema penale che ambisca alla massima personalizzazione della responsabilità
colposa “si sforza di ritagliare il metro della condotta colposa sulle condizioni dell’agente”. In
tal senso V. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, cit., p. 195.
206
CAPITOLO SESTO
sta in cardiologia che non possa effettuare un intervento per aneurisma
dell’aorta per carenza nell’ospedale di sale operatorie con le strumentazioni necessaire (quale ad esempio la macchina per la circolazione extracorporea), cagionando in tal modo la morte del paziente. O al medico
oculista che esegua un intervento agli occhi utilizzando un’apparecchiatura laser vetusta e malfunzionante, così cagionando una lesione al paziente. O, infine, a un medico che sia sottoposto a turni estenuanti, a seguito della riduzione del personale, il quale a causa della stanchezza, erri
nell’esecuzione dell’intervento.
Sono tutti casi in cui l’evento avverso non è strettamente connesso
(o quantomeno non lo è in via esclusiva) ad un errore diagnostico o terapeutico da parte del sanitario, ma che, piuttosto è la conseguenza, più o
meno diretta, di quelle che prima abbiamo indicato come condizioni latenti ambientali.Tuttavia, se è pur vero che i deficit strutturali ed organizzativi possono escludere la penale responsabilità, non può però procedersi con una generalizzazione, essendo, comunque, sempre necessario
verificare se, nonostante la carenza, dal medico potesse pretendersi il rispetto di regole di cautela e se, quindi, sia possibile muovere nei suoi
confronti un rimprovero colposo.
Detto giudizio deve, innanzitutto, tenere conto del ruolo rivestito
dal medico all’interno della struttura, e, conseguentemente, di quali poteri egli sia effettivamente dotato con riguardo alla gestione dei predetti
deficit. Più pregnanti sono, infatti, i doveri a livello organizzativo del sanitario con incarico di direzione rispetto all’altro personale medico, e
conseguentemente, salvo si tratti di carenze strutturali riconducibili in via
esclusiva a scelte degli organi amministrativi, o, addirittura politici, su cui
il primario non ha alcun potere di intervento (es. impossibilità di ricoverare il paziente per riduzione dei posti letto a seguito di “tagli” economici), egli ha il preciso dovere di attivarsi per la risoluzione della situazione (es. segnalando il malfunzionamento del macchinario e chiedendone la sostituzione o riparazione, nonché vietandone l’uso all’interno
del suo reparto)39.
In questi termini è orientata la giurisprudenza, secondo la quale la
posizione di garanzia del medico si sostanzia non solo nella protezione
della salute del paziente, ma, altresì, nel controllo sulla funzionalità ed efficienza degli impianti presenti nella struttura. Sulla scorta di detto principio è stata riconosciuta la responsabilità del primario per omicidio colposo ai danni di una paziente deceduta al termine di un intervento chi39 C.F.
GROSSO, Organizzazione dei servizi medici, cit., p. 33; C. PALMIERE, D.M. PICA. MOLINELLI, R. CELESTI, Carenza delle strutture sanitarie, cit., p. 104 ss.; P. PISA, G.
LONGO, La responsabilità penale per carenze strutturali ed organizzative, cit., p. 17.
CHIONI,
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
207
rurgico, a causa della somministrazione di protossido d’azoto, anziché di
ossigeno, conseguente all’inversione, nel corso di lavori di manutenzione,
dei tubi di derivazione afferenti alla sala operatoria – hanno rilevato che
quando “all’interno di un ospedale siano stati eseguiti lavori sull’impianto di erogazione dei gas medicinali e di anestesia afferenti ad una
sala operatoria40.
La giurisprudenza (per vero alquanto restia a valorizzare i profili individualizzanti dell’addebito colposo) non sembra, però, tenere conto di
due aspetti. Da un lato, che per potersi attivare, il medico deve, innanzitutto, essere in grado di riconoscere la situazione di rischio (ad es. saper
individuare il malfunzionamento di un’apparecchiatura) e, dall’altro che,
ove lo stesso, per la specifica situazione, non sia dotato di autonomo potere decisionale, la sua condotta è necessariamente influenzata dalle
scelte di altri organi.
Con riferimento al primo aspetto, non si può non valutare che il sanitario (pur se dirigente di struttura) può non avere le necessarie competenze tecniche per rilevare il malfunzionamento di un’apparecchiatura o
per verificare se la stessa, a seguito di interventi di personale specializzato, funzioni correttamente. Si pensi al guasto di un macchinario che già
solo per il funzionamentorichieda la presenza di personale altamente
qualificato (ingegneri, biotecnologi, ecc.), unico in grado di effettuare
complessi settaggi del tutto sconosciuti al medico. Come potrebbe,
quindi, pretendersi da questi non solo la rilevazione del malfunzionamento, ma anche la verifica della correttezza del lavoro effettuato dai tecnici? La pretesa di adeguamento alla regola precauzionale non può evi40 Cass.
pen., sez. IV, 11 gennaio 1995, n. 4385, Bassetti e altro, in Giust. pen., II, p. 248
ove si afferma che “quando all’interno di un ospedale siano stati eseguiti lavori sull’impianto
di erogazione dei gas medicinali e di anestesia afferenti ad una sala operatoria, l’obbligo di verificarne il corretto funzionamento, al fine di garantire che la ripresa dell’attività chirurgica
avvenga senza pericolo per i pazienti in dipendenza dei lavori eseguiti, spetta non solo al responsabile tecnico-amministrativo della struttura sanitaria e ai soggetti ai quali è demandata
la materiale esecuzione dei lavori, ma anche al primario ospedaliero responsabile del reparto
di anestesia”. Più di recente v. Cass. pen., sez. IV, 5 dicembre 2007, n. 1553, Spinosa ed altri,
cit., nella quale si afferma che tra i compiti del primario vi è quello di assicurare l’efficiente
regolare gestione delle attrezzature sanitarie, e di conseguenza viene dichiarata la sua penale
responsabilità per aver tollerato che nel proprio reparto fosse utilizzato un sistema inidoneo
(nella fattispecie un’incubatrice non conforme alla normativa CE e non adeguatamente manutenzionata) che creava condizioni di pericolo per i pazienti.
Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Milano, sez. IV penale, 13 ottobre 1999, in Foro
Ambrosiano, 2000, p. 301, che ha condannato per il rogo dell’ospedale Galeazzi anche il primario per non aver vigilato sul perfetto funzionamento della camera iperbarica e sugli strumenti di sicurezza destinati a prevenire e scongiurare incendi. In dottrina cfr. F. AMBROSETTI,
M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità, cit., p. 32; R. FRESA, La responsabilità penale,
cit., p. 770.
208
CAPITOLO SESTO
dentemente essere la stessa nei confronti del medico e del tecnico manutentore. L’assenza della necessaria competenza per individuare il malfunzionamento, ma anche l’eventuale affidamento riposto nelle verifiche effettuate dal personale specializzato devono obbligatoriamente fungere da
parametri di valutazione della colposità della condotta del medico, se
non si vuole degradare verso forme di responsabilità oggettiva o di posizione.
Come già si è avuto modo di evidenziare, peraltro, vi sono situazioni
in cui il dirigente di struttura complessa non può far altro che segnalare il
deficit, non avendo poi, non solo la competenza tecnica, ma anche quella
amministrativa-contabile, per risolverlo. Ci si interroga su quale condotta
debba tenere il sanitario nel periodo intercorrente tra la segnalazione ai
competenti organi e l’intervento volto alla rimozione della situazione di rischio (legata, ad esempio, all’indisponibilità dell’apparecchiatura per guasto). La risposta più semplice ed immediata sarebbe quella di affermare
che nelle more dell’intervento il sanitario deve compiere tutte quelle condotte necessarie per supplire alla carenza del macchinario, predisponendo, quindi, ove possibile, piani diagnostici o terapeutici che non ne
contemplino l’uso (invitando, ad esempio, il personale a ricorrere ad altre
metodiche altrettanto efficaci), o vietando l’uso dell’apparecchiatura (se la
stessa, pur funzionante, può recare danno ai pazienti a causa del difetto),
o ancora, disponendo il trasferimento dei pazienti.
Vi sono situazioni in cui, però, il medico si trova a dover bilanciare
due opposte esigenze: da un lato, la tutela della salute del paziente, che
potrebbe essere messa in grave pericolo a causa dell’utilizzo di attrezzature malfunzionanti, e, dall’altro, l’esigenza di non interrompere il servizio e di eseguire interventi diagnostici o terapeutici, magari urgenti. In
quest’ultimo caso il rischio per la vita o la salute del paziente, connesso,
ad esempio, all’utilizzo del macchinario difettoso, potrebbe essere inferiore rispetto a quello derivante dal mancato intervento. Pertanto, ove ricorra una situazione di urgenza terapeutica e di impossibilità ad attuare
scelte alternative, deve ritenersi che l’utilizzo dell’apparecchiatura, anche
se difettosa, da cui siano conseguiti eventi lesivi ai danni del paziente non
possa essere rimprovarato al medico. La peculiarità della situazione concreta, in un caso di tal fatta, non consente, infatti, al medico di adeguarsi
alla regola, che imporrebbe il non utilizzo dell’apparecchiatura e l’attivazione di differenti percorsi terapeutici o diagnositici, con conseguente
esclusione della colpevolezza colposa41.
41 C.F.
GROSSO, Organizzazione dei servizi medici, cit., p. 33, secondo il quale il comportamento del medico dovrebbe essere giustificato versando in una situazione di stato di
necessità.
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
209
5.1. (Segue): b) altro personale medico
Al di fuori dello specifico dovere incombente sul primario di fornire
la segnalazione di ogni carenza del reparto o malfunzionamento di attrezzature, nonché di indirizzare il paziente presso strutture più idonee,
restano da analizzare i possibili profili di responsabilità penale di un
qualsiasi sanitario che si trovi ad operare in un ente ospedaliero con evidenti carenze organizzative e strumentali, ma decida, nondimeno, di eseguire l’intervento. In tali casi, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, laddove l’intervento abbia esito infausto, sarà configurabile
una responsabilità colposa del medico, concorrente ex art. 113 c.p., con
quella del direttore sanitario della struttura.
Il medico che si avveda dell’inidoneità della struttura o della mancanza degli strumenti e dei presidi necessari per l’esecuzione dell’intervento deve, infatti, astenersi dal prestare la propria opera, informando
adeguatamente il paziente delle carenze esistenti e disponendone, se del
caso, il trasferimento ad altro reparto o ad altra struttura42. Con specifico
riferimento all’obbligo giuridico incombente sul medico di disporre il trasferimento del paziente, è intervenuta anche la Corte di Cassazione, la
quale – pronunciandosi in ordine ad una fattispecie di omicidio colposo
commesso ai danni di una partoriente, deceduta a causa della mancanza
di strumentazioni e presidi necessari per far fronte ad una copiosa emorragia, verificatasi al termine del parto – ha osservato che “in tema di colpa
professionale, il medico, qualora la struttura sanitaria di ricovero risulti
inidonea, o sfornita dei mezzi e dei presidi necessari ad affrontare e risolvere la specifica patologia di cui il paziente sia portatore, anche in relazione a probabili complicanze prevedibili nella singolarità del caso, ha il
dovere giuridico di disporre il trasferimento del paziente in altra struttura
idonea, adottando tutte le opportune cautele”43. Con riferimento al caso
di specie, i giudici di legittimità evidenziano che il medico ben conosceva
42 D. POTETTI, Individuazione del soggetto, cit., p. 2407; C. PALMIERE, D.M. PICCHIONI,
A. MOLINELLI, R. CELESTI, Carenza delle strutture sanitarie, cit., p. 105.
43 Cass. pen., sez. IV, 9 febbraio 2000, n. 272, De Donno ed altro, in Cass. pen., 2002,
p. 226.
Nello stesso senso più di recente v. anche Cass. pen., sez. IV, 25 settembre 2007, n.
44765, inedita; Cass. pen., sez. IV, 5 dicembre 2007, n. 1533, Spinosa ed altri, cit.
La Corte di Cassazione, seppure in ambito civile, ha riconosciuto la responsabilità del
medico per omessa informazione della paziente circa l’inadeguatezza della struttura. Cfr.
Cass. civ., sez. III, 28 gennaio 2000, n. 6318, Valli ed altri, in D&G, 2000, 20, p. 14 (“la circostanza che manca nella legislazione italiana uno standard di riferimento degli strumenti, di
cui una struttura sanitaria pubblica deve necessariamente disporre, non esime il medico responsabile della cura dei pazienti dal dovere di informarli circa la possibile inadeguatezza
della struttura per indisponibilità anche solo momentanea di strumenti essenziali per una corretta terapia o un’adeguata prevenzione di possibili complicazioni”).
210
CAPITOLO SESTO
le “miserrime condizioni nelle quali versava la struttura ospedaliera” nella
quale da tempo lavorava, e quindi doveva prospettarsi la sostanziale impossibilità di far fronte ad una emergenza di perdita di sangue.
La Corte ritiene che il sanitario, quale titolare di una posizione di
garanzia, abbia il preciso dovere di prendere cognizione e valutare attentamente la condizione clinico-patologica del paziente e predisporre
quanto necessario per affrontarla e positivamente risolverla; un dovere
che si spinge sino ad imporre al medico di provvedere al trasferimento
del paziente che non possa essere adeguatamente curato all’interno della
struttura ovvero ad informare lo stesso di tale inadeguatezza. L’eventuale
decisione del sanitario di intervenire nonostante la carenza strutturale
configura, secondo i giudici, una responsabilità colposa in caso di esito
infausto, essendo configurabile una colpa per assunzione.
Nella ricostruzione giurisprudenziale, quindi, la colpa per assunzione sarebbe ravvisabile non solo nel caso in cui il sanitario non sia stato
in grado di valutare la propria competenza professionale (eseguendo un
intervento senza le dovute capacità tecniche), ma anche nel caso in cui
abbia realizzato l’atto diagnostico o terapeutico in una struttura di cui
conosceva (o poteva conoscere) l’inadeguatezza e l’inefficienza.
Il prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale esclude,
peraltro, che l’eventuale consenso del paziente ad essere sottoposto all’intevento, nonostante sia stato adeguatamente informato della carenza,
abbia efficacia scriminante ex art. 50 c.p. Si è, infatti, evidenziato che l’attività medica trova il proprio fondamento di liceità, in quanto attività
giuridicamente autorizzata, nell’art. 51 c.p., a condizione che ricorrano
tutti i requisiti di legittimità posti dall’ordinamento, tra i quali, in particolare, vi è quello dell’idoneità del luogo ove eseguire l’intervento44.
Nel caso di medico il quale si avveda della carenza della struttura e,
nondimeno, in ragione della sua posizione di garanzia debba fornire le
cure, non può certo parlarsi di obbligo di astensione. Egli, al contrario,
avendo l’obbligo di attivarsi per salvare la vita del paziente, potrà esonerarsi da responsabilità solo agendo diligentemente, in modo da impedire
l’evento, e non, invece, eccependo l’inidoneità della struttura45. In tal
senso si è espressa la Corte di Cassazione, la quale ha affermato che le carenze strutturali non possono escludere la responsabilità colposa del medico quando egli possa porre in essere condotte alternative46. Dovrà, vice44 F.
MANTOVANI, La responsabilità del medico, cit., p. 19; P. PISA, G. LONGO, La responsabilità penale per carenze strutturali e organizzative, cit., p. 10 ss.
45 F. GIUNTA, La normatività, cit., p. 113.
46 Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2010, n. 3365, Leone, cit. Nel caso di specie i giudici
hanno affermato la penale responsabilità di due anestesisti, per non aver praticato, pur in pre-
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
211
versa ritenersi esclusa la responsabilità quando il medico si sia trovato nell’impossibilità di agire diversamente (non potendosi, ad esempio, procedere a trasferimento per carenza di posti in altre strutture o versandosi in
una situazione di emergenza tale da imporre un intervento immediato).
Il riconoscimento della sussistenza di un dovere in capo al medico
di adottare condotte alternative (e della possibilità concreta di attuarle)
non è, però, sufficiente per l’addebito colposo, essendo, comunque necessaria la verifica circa l’efficacia della condotta alternativa. Si ipotizzi il
caso del medico ginecologo che non esegua sulla paziente un esame ecografico, per assenza del macchinario nella struttura, non invitandola ad
effettuarlo in altro ambulatorio, così non rilevando una sofferenza del
feto da cui consegua la morte. Morte che, tuttavia, con accertamento ex
post, si verifica sarebbe avvenuta comunque, non essendo il difetto del
feto riscontrabile neppure con esame ecografico.
In tale evenienza, deve escludersi la responsabilità colposa, in
quanto, se pur vero che in astratto la regola di cautela avrebbe imposto
al medico, consapevole dell’assenza del macchinario, di inviare la paziente in altra struttura, nondimeno, in concreto, la condotta prescritta
non si sarebbe rivelata idonea ad espletare la sua funzione precauzionale
evitando la verificazione dell’evento.
Si è già avuto modo di anticipare che anche le carenze di natura più
strettamente organizzativa (concernenti, ad esempio, i turni di lavoro, il
numero dei medici presenti in reparto, le liste d’attesa per gli esami, ecc.)
possono incidere sulla capacità del medico di conformarsi alla regola di
cautela. Quale rimprovero potrebbe essere mosso al medico nel caso in
cui abbia disposto l’esecuzione di un esame sul paziente, di fatto eseguito
a distanza di mesi (con conseguente avanzamento della patologia e successivo decesso) a causa delle lunghe liste d’attesa? O come dovrebbe
comportarsi il medico sottoposto a turni di lavoro estenuanti che si trovi,
in condizioni di particolare stanchezza, a dover effetture un delicato intervento?
Con riguardo al primo caso, anche ove si accerti che la tempestiva
esecuzione dell’accertamento avrebbe avuto esito salvifico per il paziente, nondimeno, non è possibile muovere un rimprovero colposo al
sanitario, in quanto il ritardo non è imputabile a sua negligenza, ma a deficit di organizzazione della struttura nella quale lavora e sui quali non ha
potere di intervento. Ove si accerti che il medico ha rispettato le regole
senza di evidenti carenze strutturali, un’opzione alternativa, in quanto “anche in assenza di
un reparto di rianimazione ed otorinolaringoiatrico nonché dello specialista otorino, gli
odierni ricorrenti, per effettuare l’intubazione o la tracheotomia, avrebbero potuto (e, a ben
vedere, dovuto) servirsi delle attrezzature del reparto di terapia intensiva cardiologica”.
212
CAPITOLO SESTO
cautelari, individuando correttamente la diagnosi e gli esami da intraprendere, nonché informando il paziente sull’urgenza dell’esame e sull’opportunità di rivolgersi ad altre strutture (ove disponibili) per superare il problema della lunghezza delle liste d’attesa, non sembra possibile
muovere alcun rimprovero colposo nei suoi confronti.
Più delicata, invece, appare la situazione del medico che, operando
in condizioni di estrema stanchezza, erri nell’esecuzione dell’intervento
cagionando la morte del paziente. L’evento anche in questo caso, risulterebbe essere la diretta conseguenza della condotta del medico che, in effetti, ha errato nell’esecuzione dell’intervento violando le leges artis. Non
ci si può esimere, però, dal valutare se, ed in che misura, la stanchezza
abbia avuto incidenza sulla determinazione dell’errore e se sia idonea ad
escludere la rimproverabilità soggettiva.
Semplicistica appare la soluzione del problema attraverso l’individuazione di un dovere di astensione da parte del sanitario: colui che valuti la propria momentanea incapacità dovrebbe astenersi dal prestare
l’attività, in quanto in caso contrario dovrebbe rispondere dell’evento verificatosi. Non sempre, infatti, in concreto il medico è libero di effettuare
una scelta di astenersi dal prestare l’attività, in quanto ciò potrebbe rivelarsi dannoso per lo stesso sul piano lavorativo o comportare gravi pericoli per il paziente. Il mancato rispetto delle direttive sui turni e sul riparto di carichi di lavoro impartiti dai superiori potrebbe avere ripercussioni sul rapporto di lavoro e comportare l’adozione di provvedimenti
disciplinari. D’altro canto, l’astensione del medico dall’attività lavorativa
potrebbe determinare un’interruzione del servizio, ove la carenza dell’attività lavorativa potrebbe determinare un’interruzione del servizio, ove la
carenza di personale impedisca ad altri di eseguire l’intervento, con grave
nocumento per il paziente.
Di per sé, quindi, la stanchezza non può fungere da causa di esclusione della colpevolezza, ma questo non può esimere il giudice dal valutare le situazioni concrete in cui il sanitario si è trovato a svolgere il suo
compito. Tali situazioni, infatti, possono, come visto, aver precluso altre
valide alternative lasciando al medico quale unica scelta quella di intervenire.
6.
Dalla responsabilità del singolo a quella dell’ente: quali prospettive di
applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità “amministrativa” delle persone giuridiche agli enti ospedalieri?
Le evidenziate difficoltà nell’attribuzione del fatto in caso di carenze
strutturali ed organizzative e la constatazione che sovente queste ultime
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
213
non dipendono da autentiche negligenze dei soggetti coinvolti, ma, piuttosto, da interessi di natura gestionale ed economica dell’ente, hanno indotto gli studiosi a proporre l’introduzione di sanzioni a carico dell’ente
ospedaliero. Il dibattito, inizialmente arenatosi di fronte all’imperante
dogma del societas delinquere non potest 47, si è rinvigorito nel 2001, a seguito dell’introduzione di una riforma legislativa, dai più considerata,
epocale.
Risale, infatti, a quell’anno l’entrata in vigore del d.lgs. 8 giugno, n.
231, intitolato “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n.
300”, in forza del quale le persone giuridiche possono essere chiamate a
rispondere, innanzi al giudice penale, di fatti di reato (tassativamente
elencati nel provvedimento legislativo) commessi nel loro esclusivo interesse dai loro rappresentanti.
Già all’indomani dell’entrata in vigore della nuova normativa il dibattito si è incentrato sulla natura giuridica della responsabilità configurata dal d.lgs. n. 231 del 2001. Se è vero, infatti, che si tratta di responsabilità che consegue alla commissione di fatti di reato e che è accertata
dal giudice penale, essa, nondimeno, è qualificata come “amministrativa”
dal legislatore ed al suo accertamento consegue l’irrogazione di sanzioni
parimenti qualificate come “amministrative”48. Oscillante tra le differenti
soluzioni della qualificazione della responsabilità come penale ovvero
amministrativa ovvero di natura mista, il dibattito esprime oggi un orientamento prevalente a favore della prima soluzione49.
Nonostante la svolta epocale e il costante ampliamento, nel corso degli anni, del catalogo dei reati presupposto, questa nuova forma di re47 S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 294
ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 114 ss. In generale con riferimento alle problematiche connesse alla configurabilità della responsabilità delle persone giuridiche, v. F. BRICOLA, Il
costo del principio «societas delinquere non potest» nell’attuale dimensione del fenomeno
societario, in Riv. dir. proc. pen., 1970, pp. 951 ss.; A. ALESSANDRI, Reati d’impresa e modelli
sanzionatori, Milano, 1984; G. INSOLERA, Nozione di responsabilità individuale e collettiva, in
Indice pen., 1996, p. 259 ss.
48 Si è anche parlato di un tertium genus di responsabilità che coniugherebbe i tratti essenziali del diritto amministrativo e del diritto penale. Per la natura della responsabilità cfr.
G. AMARELLI, Profili pratici della questione sulla natura giuridica della responsabilità degli enti,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 151 ss.; V. MAIELLO, La natura (formalmente amministrativa,
ma sostanzialmente penale) della responsabilità degli enti nel d.lgs. n. 231 del 2001: una «truffa
delle etichette» davvero innocua?, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 879 ss.
49 R. GUERRINI, La responsabilità da reato degli enti, sanzioni e loro natura, Milano,
2006, p. 30 ss.; C.E. PALIERO, Dieci anni di “corporate liability” nel sistema penale italiano: il
paradigma imputativo ell’evoluzione della legislazione e della prassi, in Le Società, Gli Speciali:
d.lgs. 231: dieci anni di esperienze nella legislazione e nella prassi, 2011, p. 15 ss.
214
CAPITOLO SESTO
sponsabilità continua, tuttora, a non essere applicabile alle strutture sanitarie. Due sono i limiti contenuti nel d.lgs. n. 231 del 2001 che ostano all’applicazione di tale normativa anche alle strutture sanitarie per eventuali
reati di omicidio o lesioni colpose conseguenti a carenze strutturali. Da un
lato, la previsione dell’art. 1, che esclude espressamente dall’ambito di applicazione del decreto “lo Stato, gli enti pubblici non economici, nonché
gli altri enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”, dall’altro l’assenza dei predetti fatti delittuosi dal catalogo dei reati presupposto.
Sotto il primo profilo, secondo il prevalente orientamento interpretativo, non sembrano esservi dubbi circa la riferibilità dell’esclusione prevista dall’art. 1 alle strutture sanitarie (quantomeno quelle pubbliche) le
quali sono qualificabili come enti pubblici non economici. Il problema
dell’estensione dell’ambito di applicazione della disciplina del d.lgs. n.
231 del 2001 anche alle aziende ospedaliere era già sorto in sede di predisposizione del decreto. La relazione ministeriale, infatti, evidenzia che
la legge delega 29 settembre 2000, n. 300, all’art. 11, comma 2, prevedeva
l’esclusione dall’ambito di applicazione della nuova normativa degli “enti
pubblici che esercitano pubblici poteri”. Tale formulazione precludeva,
quindi, senz’altro la riferibilità dell’impianto normativo agli enti pubblici
territoriali (Regioni, Province, Comuni) che, indubbiamente, esercitano
pubblici poteri, mentre dovevano ritenersi assoggettati alla nuova forma
di responsabilità gli enti pubblici eroganti un pubblico servizio, ma privi
di pubblici poteri, quali le scuole e le Università pubbliche, ma, soprattutto, le Aziende Ospedaliere.
La locuzione originariamente prevista dalla legge delega, però, è
stata oggetto di parziale modifica in sede di approvazione del decreto legislativo, il cui art. 1 contempla, come detto, l’esclusione degli “enti pubblici non economici e degli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”.
La differenza lessicale non è, invero, di poco conto, dal momento
che le due nozioni di enti pubblici non economici e di enti pubblici che
esercitano pubblici poteri non sono pienamente sovrapponibili. Secondo
la prevalente dottrina, la differente formulazione avrebbe comportato
quale principale effetto l’esclusione delle Aziende sanitarie locali ed
ospedaliere dall’ambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001, in
quanto le stesse non possono essere ricondotte al novero degli enti pubblici economici50. Non tutte le caratteristiche delle aziende sanitarie, in50 Sulla natura giuridica delle Aziende sanitarie locali ed ospedaliere e sulla impossibilità di qualificarle quali enti pubblici economici v. A. ROSSI, Responsabilità “penale amministrativa” delle persone giuridiche (Profili sostanziali), in A. ROSSI (a cura di), Reati societari,
Torino, 2005, p. 518; R. LOTTINI, Responsabilità delle persone giuridiche, in F.C. PALAZZO,
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
215
fatti, coincidono con quelle proprie degli enti pubblici economici, tanto
che, se è pur vero che esse si pongono, al pari di questi ultimi, obiettivi
di efficienza, di pareggio di bilancio, di economicità, nondimeno, non
sempre agiscono con atti di diritto privato e sono inserite nel mercato in
regime di concorrenza51.
La questione, invero, non risulta di lineare soluzione ove si consideri
l’impronta fortemente aziendalistica impressa alle Unità sanitarie con la
riforma del 1999. D’altro canto, non mancano arresti giurisprudenziali,
soprattutto nell’ambito della giustizia amministrativa (e, quindi, non specificamente riferiti alla problematica dell’ambito di applicazione del
d.lgs. 231 del 2001), che espressamente qualificano le Aziende sanitarie
quali enti pubblici economici52.
La questione dell’applicabilità del d.lgs. n. 231 del 2001 agli enti
ospedalieri in un’occasione è stata affrontata anche dalla Corte di Cassazione. L’ente oggetto del giudizio, tuttavia, aveva la peculiarità di essere
costituito in forma di s.p.a. e di essere partecipato, al 49%, da capitale
privato e, al 51%, da capitale pubblico. Proprio tale peculiarità ha indotto i giudici di legittimità a ritenere che l’ente, oltre ad essere pubblico
(in quanto la titolarità era riconducibile al 51% alla soggettività pubblica), avesse natura economica, essendo il requisito dell’economicità
sempre insito nelle società di capitali che vengono costituite per lo svolgimento di attività economica al fine di dividerne gli utili. D’altro canto,
sempre nella ricostruzione della Corte, lo svolgimento di attività d’impresa volta al perseguimento di un utile economico porta ad escludere
che l’ente ospedaliero sia riconducibile alla categoria degli enti che svolgono “funzioni di rilievo costituzionale”53.
Le persistenti difficoltà connesse alla distinzione tra enti pubblici ed
enti privati e tra enti pubblici economici e non si riverberano (come era
C.E. PALIERO (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, 2007, p.
2285. Per un esame delle questioni connesse all’applicazione del d.lgs. 231 del 2001 alle
Aziende sanitarie v. A. ROIATI Medicina difensiva, cit., p. 358 ss.
51 A. ROSSI, Responsabilità “penale amministrativa”, cit., p. 521, la quale osserva che
questi enti, pur svolgendo un’attività con parziale rilevanza economica, non esercitano però
un’attività esclusivamente economica, in quanto l’interesse principale perseguito non è quello
di lucro ma, piuttosto, quello pubblico di tutela della salute. In tal senso v. E. FIDELBO, Enti
pubblici e responsabilità da reato, in Cass. pen., 2010, p. 484 che evidenzia che la Asl si pone
sul mercato al pari di qualsiasi altro soggetto, ma tale presenza “non determina imperativamente l’obbligo di ricavare profitti dall’attività d’impresa, con i quali remunerare il capitale”
essendo tali aziende, piuttosto, assoggettate ad un “vincolo di equilibrio tra costi e ricavi”.
52 Cons. Stato, sez. V, 14 dicembre 2004, n. 5924, in Ragiusan, 2005, p. 251/252, p. 375;
TAR Toscana, sez. II, 17 settembre 2003, n. 5101, in Ragiusan, 2004, p. 79.
53 Cass. pen., sez. II, 21 luglio 2010, n. 28699, in Cass. pen., 2011, p. 1888 e ss., con nota
critica di O. DI GIOVINE. In senso critico v. anche A. ROIATI, Medicina difensiva, cit., p. 362 ss.
216
CAPITOLO SESTO
prevedibile) anche sulla delimitazione dell’ambito di applicazione del
d.lgs. n. 231 del 2001, e rendono difficile, ad oggi, fornire una univoca
soluzione circa l’estendibilità della sua portata alle Aziende sanitarie
pubbliche. Nessun dubbio, invece, circa l’assoggettamento alla responsabilità ex d.lgs. 231 del 2001 degli enti ospedalieri privati, i quali svolgono
funzioni di interesse pubblico perseguendo uno scopo di natura eminentemente economica, finalizzata al perseguimento ed alla successiva ripartizione degli utili54.
L’applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001 alle Aziende sanitarie per i
reati di omicidio o lesioni colposi conseguenti a carenze strutturali ed organizzative risulta ostacolata anche dall’assenza di tali fattispecie dal catalogo dei reati presupposto contemplati negli artt. 24 e ss. che, come
noto, sono gli unici a legittimare l’irrogazione delle sanzioni previste dal
decreto. Il catalogo è stato, invero, via via implementato nel corso degli
anni, fino a ricomprendere, con l’introduzione dell’art. 25 septies (ad
opera dell’art. 9 l. 3 agosto 2007, n. 123, poi successivamente modificato
dall’art. 300 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81), anche le ipotesi di reato di omicidio e lesioni colposi che, tuttavia, sono rimaste limitate ai casi di “violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro”.
Non si può, d’altronde, dimenticare che l’introduzione di fattispecie
colpose d’evento nella struttura del d.lgs. n. 231 del 2001 ha suscitato
non poche critiche, a causa della difficile armonizzazione tra l’elemento
psicologico della colpa ed il criterio di imputazione di cui all’art. 5 del
decreto, il quale prevede che l’ente sia responsabile per i “reati commessi
nel suo interesse o a suo vantaggio”. All’indomani dell’entrata in vigore
dell’art. 25 septies i commentatori avevano, a più riprese, messo in evidenza come fosse una contraddizione in termini immaginare, con riferimento all’interesse, che un fatto illecito, non voluto dall’autore, si possa
dire commesso nell’interesse di qualcun altro55, e, con rifermento al vantaggio, che l’evento lesivo ad un lavoratore costituisca un vantaggio per
l’ente (basti pensare alle conseguenze negative quali l’obbligo risarcitorio, il danno di immagine, la paralisi della produzione, ecc.)56.
54 Nello stesso senso v. A. ROIATI, Medicina difensiva, cit., p. 365.
55 A. ALESSANDRI, Reati colposi e modelli di organizzazione e gestione,
in N. ABRIANI, G.
MEO, G. PRESTI (a cura di), Società e modello «231»: ma che colpa abbiamo noi? In Analisi
Giuridica dell’Economia, 2009, p. 342.
56 T. VITARELLI, Infortuni sul lavoro e responsabilità degli enti: un difficile equilibrio normativo, in Riv. it. dir. proc. pena., 2009, p. 703 s.; S. DOVERE, Osservazioni in tema di attribuzioni all’ente collettivo dei reati previsi dall’art. 25 septies del d.lgs. 231/2001, in Riv. trim. dir.
pen. econ., 2008, p. 317; G. DE SIMONE, Persone giuridiche e responsabilità da reato, profili storici, dogmatici e comparratistici, Pisa, 2012, p. 388; G. AMARELLI, I criteri oggettivi di ascrizione
del reato all’ente collettivo ed i reati in materia di sicurezza sul lavoro. Dalla teorica incompatibilità alla forzata convivenza, in www.penalecontemporaneo.it, 19 aprile 2013, p. 11 s.
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
217
Seppure in dottrina57 e giurisprudenza58 non siano mancate voci
che, facendo perno sulla volontà storica del legislatore59, hanno affermato la compatibilità dei reati colposi con il criterio di imputazione ex
art. 5, l’orientamento prevalente è stato, tuttavia, nel senso di ritenere
difficile il raccordo tra essi60. Cionondimeno l’esigenza di evitare la sostanziale inoperatività dell’art. 25 septies e, quindi, la sua interpretatio
abrogans ha portato a proporre alcuni correttivi interpretativi che, seppure attraverso percorsi argomentativi differenti, si risolvono nel senso di
riferire l’“interesse o il vantaggio” non già al reato nel suo complesso,
ma, piuttosto, alla condotta inosservante di regole cautelari61.
Come si diceva, tuttavia, diverso è il percorso logico-argomentativo
seguito per pervenire a detta conclusione. I sostenitori della tesi della “ricostruzione oggettiva” (largamente prevalente in dottrina) ritengono, infatti, che tale locuzione rappresenti, in realtà, un’endiadi che sottende un
criterio unitario di imputazione. Il criterio dell’interesse dell’ente sarebbe, in sostanza, l’unico parametro rilevante per l’ascrizione della responsabilità all’ente, mentre il vantaggio costituirebbe solo una mera
eventualità che potrà anche in concreto realizzarsi, ma dal cui accertamento non può automaticamente desumersi la responsabilità dell’ente62.
57 T.E. EPIDENDIO, G. PIFFER, Criteri di imputazione del reato all’ente: nuove prospettive
interpretative, in Resp. amm. soc. ed enti, 2008, 3, p. 17.
58 Trib. Torino, II Corte di Assise, 15 aprile 2011, Espenhahn e altri, in www.penalecontemporaneo.it.
59 A tal riguardo si è evidenziato che già la legge delega n. 300 del 2000 (all’art. 11
comma 1, lett. c) contemplava l’introduzione di reati colposi e non prevedeva, per essi, diversi
criteri di imputazione: segno, quest’ultimo, del fatto che lo stesso legislatore riteneva perfettamente compatibili i delitti colposi con il parametro dell’“interesse o vantaggio dell’ente”.
60 Nel senso che il decreto fosse originariamente volto a disciplinare la responsabilità
per i soli reati dolosi e che, quindi, il mancato raccordo tra illeciti colposi e criteri di imputazione ex art. 5 costituisse una “svista originaria” v. A. GARGANI, Delitti colposi commessi con
violazione delle norme sulla tutela della sicurezza sul lavoro: responsabile “per definizione” la
persona giuridica?, in M. BERTOLINO, G. FORTI, L. EUSEBI (a cura di), Studi in onore di M. Romano, vol. III, Napoli, 2011, p. 1955; C.E. PALIERO, Dieci anni di “corporate liability” nel sistema italiano: il paradigma imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi, in
AA.VV., D.lgs. 231: dieci anni di esperienze nella legislazione e nella prassi, in Soc., 2011, n.
spec., p. 12.
61 Cfr. D. PULITANÒ, La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri di imputazione, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 426. In giurisprudenza v. Trib. Trani, sez. distaccata di Molfetta, 11 gennaio 2010, Truck Center e altri, in Dir. pen. e proc., 2010, p. 845; Trib. Novara, 1
ottobre 2010, in www.penalecontemporaneo.it; Trib. Pinerolo, 23 settembre 2010, in www.penalecontemporaneo.it, p. 10; Trib. Torino, II, Corte di Assise, 15 aprile 2011, Espenhahn e altri, cit.; Trib. Tolmezzo, 23 gennaio 2012 (3 febbraio 2012), in www.penalecontemporaneo.it.
62 In questo senso v. D. PULITANÒ, La responsabilità, cit., p. 424; G. COCCO, L’illecito degli enti dipendente da reato ed il ruolo dei modelli di prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2004, p. 90; G. DE VERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2008, p.
218
CAPITOLO SESTO
Differenti vedute si riscontrano, tuttavia, anche i≤n seno a tale indirizzo
ermeneutico con riguardo alla nozione di “interesse”. Secondo una
prima ricostruzione, esso rappresenterebbe una qualità intrinseca della
condotta, denotandone l’attitudine a produrre un beneficio per l’ente e,
come tale, sarebbe privo di implicazioni psichiche63. In quest’ottica, l’interesse rappresenterebbe un criterio relazionale che esprime un collegamento tra la condotta inosservante posta in essere dalla persona fisica e
le ricadute (anche solo potenziali, essendo espresse in termini di “attitudine della condotta”) in favore dell’ente, di cui il vantaggio ex post effettivamente prodottosi rappresenterebbe un indice probatorio processuale.
Secondo i sostenitori di questa ricostruzione, la predetta locuzione sarebbe, quindi, perfettamente compatibile con i delitti colposi, essendo
priva di una connotazione psichica.
Secondo una differente prospettiva, invece, il criterio dell’interesse
esprime l’esigenza che il reato sia realizzato nell’ambito di attività (di per
sé lecite) esercitate per l’ente64. In tal caso, l’interesse perde qualsiasi
connotazione relazionale e diviene un “mero indice di ambientamento
della condotta”, in quanto non è necessario che la condotta delittuosa
presenti una oggettiva attitudine al conseguimento di un beneficio per
l’ente, ma è sufficiente che la condotta risulti contestualizzata nell’espletamento delle funzioni65. Il criterio di imputazione dell’art. 5, quindi, sarebbe compatibile anche con i reati colposi, essendo riferito non già alla
condotta in sé considerata, ma, piuttosto, al contesto in cui la stessa si inserisce66.
Nettamente prevalente in giurisprudenza, e accolto da una parte minoritaria della dottrina, è, invece, l’indirizzo – che sembrerebbe fatto
proprio anche dalla Relazione governativa – secondo cui l’interesse ed il
vantaggio non rappresenterebbero una semplice endiadi, ma, piuttosto,
due criteri alternativi67. In particolare, l’interesse rappresenterebbe la fi158 ss.; G. DE SIMONE, La responsabilità da reato degli enti nel sistema sanzionatorio italiano,
in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, p. 657.
63 R. GUERRINI, Le modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in F. GIUNTA,
D. MICHELETTI (a cura di), Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano,
2010, p. 146.
64 O. DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in G. LATTANZI (a
cura di), Reati e responsabilità degli enti, guida al d.lgs. 231/2001, Milano, 2010, p. 74; G. DE
VERO, La responsabilità penale, cit., p. 279 s.
65 In questo senso A. GARGANI, Delitti colposi, cit., 2011, p. 1949.
66 G. DE SIMONE, Persone giuridiche, cit., p. 387.
67 C. SANTORIELLO, Violazioni delle norme antinfortunistiche e reati commessi nell’interesse o a vantaggio della società, in Resp. amm. soc. enti, 2008, n. 1, p. 165; G. AMATO, Osservazioni sulla rilevanza del vantaggio per l’ente e sulla “quantificazione” di tale vantaggio nella
responsabilità amministrativa da reato colposo, in Resp. amm. soc. enti, 2013, p. 186; S. DO-
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
219
nalizzazione della condotta del reo verso l’arricchimento dell’ente e richiederebbe, quindi, un accertamento ex ante, mentre il vantaggio esprimerebbe un concetto di tipo oggettivo, ossia il conseguimento di un’utilità o un vantaggio effettivamente perseguito dall’ente (anche se non originariamente previsto dall’agente), e deve essere accertato ex post 68.
Per i sostenitori di questa tesi la locuzione in esame sarebbe comunque compatibile anche con i reati colposi, ma il criterio dell’interesse potrebbe trovare operatività solo per le ipotesi di colpa cosciente, in quanto
nella colpa incosciente (per la quale, quindi, entrerebbe in gioco il diverso criterio del vantaggio) manca la consapevolezza della violazione
della regola cautelare e, quindi, non può certamente aversi una finalizzazione della condotta69.
Seppure apprezzabili, i tentativi di “salvare” il dettato normativo,
rendendo tra loro compatibili gli illeciti colposi ed il criterio di imputazione dell’art. 5, sembrano, però, forzare troppo l’interpretazione, giungendo, sostanzialmente, ad un’analogia in malam partem. È innegabile,
infatti, che nell’art. 5 il criterio dell’interesse o vantaggio sia riferito al
reato nel suo complesso e, pare, quindi, difficile, giungere a restringerne
la portata, per via interpretativa, alla sola condotta70.
7.
Prospettive de jure condendo sulla responsabilità dell’ente ospedaliero per carenze strutturali ed organizzative
La previsione di una responsabilità diretta ed esclusiva dell’ente per
gli eventi lesivi conseguenti a carenze strutturali ed organizzative permetterebbe di risolvere le problematiche attinenti all’individuazione dei soggetti responsabili ed all’imputazione dei fatti criminosi, ma, come visto,
la vigente normativa, attualmente, non consente tale affermazione di responsabilità. Superate le resistenze interpretative alla configurabilità di
una responsabilità per fatti di reato in capo alle persone giuridiche, grazie all’introduzione, ormai già da un quindicennio, del d.lgs. 231, non
sembrano sussistere ostacoli di ordine tecnico-dommatico né ad una
VERE,
La responsabilità da reato dell’ente collettivo e la sicurezza sul lavoro: un’innovazione a rischio di ineffettività, in Resp. amm. soc. enti, 2008, p. 97.
68 In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, Jolly Mediterraneo, in Foro it., 2006, II, c. 329 ss.; Cass. pen., sez. II, 17 marzo 2009, n. 13678, in CED rv.
244253.
69 C. SANTORIELLO, Violazioni, cit., p. 171 ss.
70 G. AMARELLI, Morti sul lavoro: arriva la prima condanna per le società, in Dir. pen.
proc., 2010, p. 848 ss.; S. DOVERE, Osservazioni, cit., p. 334; P. ALDROVANDI, La responsabilità
amministrativa degli enti per i reati in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro alla luce
del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in Ind. pen., 2009, p. 501 s.
220
CAPITOLO SESTO
estensione di tale disciplina normativa agli enti ospedalieri (naturalmente
con le opportune modifiche), né all’introduzione di una normativa ad
hoc.
Alcune delle obiezioni sollevate in dottrina circa la possibile previsione di una responsabilità delle strutture ospedaliere appaiono, invero,
superabili. Tra queste, in particolare, quella relativa alla tipologia di sanzioni contemplate dal d.lgs. 231 del 2001, secondo cui l’applicazione all’ente delle sanzioni pecuniarie e interdittive previste da detta normativa
si risolverebbe più in un danno che in un vantaggio per la comunità: il
costo della sanzione pecuniaria, infatti, ricadrebbe sulla cittadinanza,
mentre un provvedimento di interdizione o di sospensione dall’esercizio
dell’attività priverebbe gli abitanti del luogo in cui è situato l’ente ospedaliero di un presidio medico71.
L’argomentazione, invero, non appare del tutto convincente, quanto
meno per le sanzioni interdittive, in relazione alle quali l’art. 15 d.lgs. 231
del 2001 prevede la possibilità per il giudice di procedere, in luogo dell’applicazione della sanzione interdittiva, alla nomina di un commissario
giudiziale che prosegua l’attività dell’ente in tutti i casi in cui quest’ultimo svolga un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità la cui
interruzione possa provocare un grave pregiudizio alla collettività72. D’altro canto, può effettivamente ritenersi che la presenza sul territorio di un
ente ospedaliero che evidenzi (per scelte di natura politica od economica) gravi carenze strutturali od organizzative rappresenti un effettivo
vantaggio per la cittadinanza che a quel servizio debba avere accesso per
prossimità territoriale? Sommessamente si ritiene che – al di là della nomina del commissario giudiziale – si potrebbe prevedere l’interdizione,
ove possibile, dall’esercizio di singole attività diagnostiche o terapeutiche
alle quali siano collegate le carenze strutturali od organizzative: es., se la
struttura ospedaliera è priva di adeguati strumenti per monitorare la salute del feto durante il parto e da tale carenza siano conseguite lesioni o
morte per il feto o per la partoriente, si potrebbe inibire la prosecuzione
della sola attività del c.d. “punto nascita” di quell’ospedale. In tal caso, la
durata del periodo di interdizione (ovvero di sospensione) potrebbe essere collegata all’adozione da parte degli organi di rappresentanza della
struttura ospedaliera di tutti i provvedimenti necessari a sanare la situazione di carenza strutturale od organizzativa.
Se il superamento delle obiezioni concernenti la tipologia delle sanzioni applicabili all’ente può sembrare, tutto sommato, non particolar71 A.
72 In
ROSSI, Responsabilità “penale amministrativa”, cit., p. 519.
tal senso v. anche A . ROIATI, Medicina difensiva, cit., p. 367.
RESPONSABILITÀ PER CARENZE STRUTTURALI ED ORGANIZZATIVE
221
mente impervio, restano, nondimeno, una serie di nodi problematici la
cui soluzione si presenta indubbiamente più complessa o che, comunque,
richiedono importanti modifiche normative, se non la previsione di
un’autonoma disciplina.
È noto, anzitutto, che il d.lgs. 231 del 2001 configura una responsabilità dell’ente complementare a quella degli organi che lato sensu svolgono funzioni di direzione o rappresentanza dello stesso: l’ente è sanzionato se tali organi hanno realizzato un reato (tra quelli espressamente
contemplati dalla legge) nel suo interesse o a suo vantaggio. Un tale
schema operativo della responsabilità dell’ente potrebbe soddisfare a
pieno le esigenze connesse alla imputazione degli eventi lesivi per deficit
strutturali od organizzativi alle strutture sanitarie?
Si è avuto modo di osservare in precedenza che vi sono situazioni in
cui, in realtà, l’evento lesivo non è imputabile a titolo di colpa alle persone fisiche (ai sanitari, ma, talvolta, anche agli organi di vertice), difettando il requisito della rimproverabilità. I deficit strutturali od organizzativi, infatti, possono essere riconducibili a cause diverse: mala gestio degli organi apicali (dovuta ad es, ad erronea organizzazione dei turni di
lavoro, mancata manutenzione delle apparecchiature, cattiva gestione finanziaria, ecc.), riduzione necessitata dei costi o, financo, a scelte di natura eminentemente politica. Se nella prima ipotesi siamo sicuramente di
fronte a condotte colpose dei vertici, avendo questi aggravato o determinato la carenza a causa della violazione di regole di cautela, negli altri
due casi (e nell’ultimo in particolare) il fatto potrebbe anche non costituire reato non essendo imputabile alle persone fisiche (dirigenti e sanitari), quantomeno sotto il profilo della colpevolezza colposa.
È chiaro che nel sistema delineato dal d.lgs. 231 del 2001, mancando l’integrazione di un fatto di reato, non sarebbe possibile punire
l’ente, vista la complementarietà della responsabilità rispetto a quella
delle persone fisiche. Viceversa, con riguardo alla responsabilità delle
strutture sanitarie, sembrerebbe più opportuno prescindere da tale legame, consentendo la punizione dell’ente in modo indipendente ed autonomo: solo in questo modo si potrebbero superare le già viste difficoltà
di individuazione dei soggetti responsabili e, soprattutto, l’imputazione
delle carenze strutturali ed organizzative alle persone fisiche che, sovente, non hanno potuto compiere scelte autenticamente libere.
D’altro canto, il peculiare criterio di imputazione, fondato sull’“interesse o vantaggio dell’ente” di cui all’art. 5 d.lgs. 231 del 2001, a dispetto degli sforzi interpretativi di dottrina e giurisprudenza, continua
francamente a porre forti dubbi circa la sua compatibilità con le fattispecie colpose, oltre a risultare scarsamente adeguato all’attribuzione di re-
222
CAPITOLO SESTO
sponsabilità alle strutture sanitarie, tenuto conto del fatto che i deficit di
organizzazione e di strumentazioni tendenzialmente creano più un danno
all’ente che un vantaggio per lo stesso.
Le plurime difficoltà connesse all’estensione della disciplina del
d.lgs. 231 del 2001 alle strutture sanitarie per eventi lesivi connessi a carenze strutturali ed organizzative inducono a ritenere più opportuna l’introduzione di una normativa ad hoc. Si tratterebbe di prevedere una
forma di responsabilità dell’ente, autonoma rispetto a quella delle persone fisiche, che prescinda dai motivi per cui queste hanno agito e dagli
effettivi vantaggi o meno che l’ente abbia ricavato a seguito di tali condotte. Un’imputazione del fatto che, inoltre, possa, alternativamente,
prescindere dalla responsabilità penale delle persone fisiche ovvero concorrere con questa.
Certo, sarebbe intervento di forte impatto, soprattutto perché travolgerebbe una visione della responsabilità e della punizione che nel nostro ordinamento, nonostante i positivi sforzi rappresentanti dal d.lgs.
231 del 2001, rimane tendenzialmente antropocentrica. Sarebbe, d’altro
canto, anche l’unico modo per consentire la punizione di eventi lesivi riconducibili a una mancanza di mezzi o di organizzazione, arginando,
però, la responsabilità dei medici per fatti conseguenti a carenze strutturali (e, indirettamente, le condotte di medicina difensiva).
Lo schema di riferimento potrebbe essere quello sviluppato nella legislazione anglosassone del Corporate Manslaughter. Con il Corporate
Manslaughter and Corporate Homicide Act del 2007 (entrato in vigore il 6
aprile 2008), infatti, nel diritto anglosassone è stato introdotto un nuovo
modello di omicidio, ascrivibile direttamente alla corporation e non agli
amministratori73, che ha quali presupposti la realizzazione di un reato di
omicidio in conseguenza di una grave violazione di un dovere di protezione o controllo dell’ente nei confronti di particolari categorie di soggetti.
In sostanza, quindi, potrebbe pensarsi ad una previsione che contempli la responsabilità diretta dell’ente in tutti i casi in cui sussista un
nesso causale tra l’evento morte o lesioni ed il difetto di organizzazione,
quest’ultimo, a sua volta, riconducibile alla mancata o incompleta predisposizione di compliance programs per la gestione del rischio. Un’imputazione del fatto all’ente che potrà concorrere con la responsabilità delle
persone fisiche (in particolare quella dei vertici ospedalieri), ma che potrà anche essere esclusiva nei casi in cui non siano ravvisabili fatti integranti reato.
73 V. TORRE, Riflessioni sul diritto britannico in tema di responsabilità degli enti: il corporate killing, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2009, p. 273.
BIBLIOGRAFIA
ALBEGGIANI F., I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984.
ALBEGGIANI F., La cooperazione colposa, in Studium Iuris, 2000, p. 515.
ALDROVANDI P., Orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di delega di
compiti penalmente rilevanti, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 699.
ALDROVANDI P., La responsabilità amministrativa degli enti per i reati in materia
di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro alla luce del d.lgs. 9 aprile 2008, n.
81, in Ind. pen., 2009, p. 495.
ALESSANDRI A., voce Impresa (responsabilità penale), in Dig. disc. pen., Torino,
1992, VI, p. 193.
ALESSANDRI A., Reati d’impresa e modelli sanzionatori, Milano, 1984.
ALESSANDRI A., Reati colposi e modelli di organizzazione e gestione, in N.
ABRIANI, G. MEO, G. PRESTI (a cura di), Società e modello «231»: ma che
colpa abbiamo noi?, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2009, p. 337.
ALIMENA F., La colpa nella teoria generale del reato, Palermo, 1947.
AMARELLI G., Profili pratici della questione sulla natura giuridica della responsabilità degli enti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 151.
AMARELLI G., Morti sul lavoro: arriva la prima condanna per le società, in Dir.
pen. proc., 2010, p. 848.
AMARELLI G., I criteri oggettivi di ascrizione del reato all’ente collettivo ed i reati
in materia di sicurezza sul lavoro. Dalla teorica incompatibilità alla forzata
convivenza, in www.penalecontemporaneo.it, 19 aprile 2013.
AMATO G., Solo l’esplicita manifestazione del dissenso esclude la colpa dell’aiuto
medico, in Guida al dir., 2000, 5, p. 100.
AMATO G., Osservazioni sulla rilevanza del vantaggio per l’ente e sulla “quantificazione” di tale vantaggio nella responsabilità amministrativa da reato colposo, in Resp. amm. soc. enti, 2013, p. 185.
AMBROSETTI F., PICCINELLI R., PICCINELLI M., La responsabilità nel lavoro medico
d’équipe. Profili penali e civili, Torino, 2003.
ANGIONI F., Note sull’imputazione dell’evento colposo con particolare riferimento
all’attività medica, in E. DOLCINI, C.E. PALIERO (a cura di), Studi in onore di
Giorgio Marinucci, Milano, 2006, p. 1279.
ATTILI V., L’agente-modello nell’era della complessità: tramonto, eclissi o trasfigurazione?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 1240.
AVECONE P., La responsabilità penale del medico, Padova, 1981.
BARTOLI R., Paradigmi giurisprudenziali della responsabilità medica, in Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa, Firenze, 2010, p. 75.
224
BIBLIOGRAFIA
BARTOLI M., La colpa medica nella giurisprudenza di fine secolo, in Resp. civ.
prev., 2001, p. 254.
BELFIORE E., Sulla responsabilità colposa nell’ambito dell’attività medico-chirurgica in «équipe», in Foro it., 1983, II, c. 167.
BELFIORE E., Profili penali dell’attività medico-chirugica in équipe, in Arch. pen.,
1986, p. 265.
BISORI L., L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e giurisprudenza
italiane, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1339.
BLAIOTTA R., Causalità e colpa nella professione medica tra probabilità e certezza,
in Cass. pen., 2000, p. 1188.
BLAIOTTA R., Con una storica sentenza le Sezioni Unite abbandonano l’irrealistico
modello nomologico deduttivo di spiegazione causale di eventi singoli. Un
nuovo inizio per la giurisprudenza, in Cass. pen., 2003, p. 62.
BLAIOTTA R., La causalità nella responsabilità professionale. Tra teoria e prassi,
Milano, 2004.
BLAIOTTA R., L’imputazione oggettiva nei reati di evento alla luce del testo unico
sulla sicurezza del lavoro, in Cass. pen., 2009, p. 2263.
BORSATTI E., La soggettivizzazione della colpa: profili dogmatici e pratico-applicativi, in Ind. pen., 2005, p. 75.
BRAVI S., Responsabilità penale e attività medica in équipe, in Riv. pen., 2005,
p. 795.
BRICOLA F., Il costo del principio «societas delinquere non potest» nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in Riv. dir. proc. pen., 1970, p. 951.
BRUSCO C., Linee guida, protocolli e regole deontologiche. Le modifiche introdotte
dal c.d. decreto Balduzzi, in www.penalecontemporaneo.it.
BRUSCO C., L’effetto estensivo della responsabilità penale nella cooperazione colposa, in Cass. pen., 2014, p. 2882.
BUZZI F., Formulazione e comunicazione della diagnosi: aspetti medico legali e risvolti deontologici, in Riv. it. med. leg., 2005, p. 31.
CANESTRARI S., FANTINI M.P., La gestione del rischio in medicina. Profili di responsabilità nell’attività medico-chirugica, Trento, 2006.
CANTAGALLI C., Brevi cenni sul dovere secondario di controllo e sul rilievo dello
scioglimento anticipato dell’équipe in tema di responsabilità medica, in Cass.
pen., 2006, p. 2838.
CAPUTO M., Filo d’Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema
della responsabilità per colpa medica, in Riv. it.dir. proc. pen., 2012, p. 875.
CARLI E., Le regole della professione, in Aggiornamenti professionali, 1999, p. 28.
CASAROLI G., Paradigmi giurisprudenziali della causalità nell’attività medica, in
Festschrift für Erich Samson, Heidelberg, 2010, p. 745.
CASTRONUOVO D., La colpa penale, Milano, 2009.
CASTRONUOVO D., L’evoluzione teorica della colpa penale tra dottrina e giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, p. 1534.
CATTANEO G., La responsabilità medica nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1982, p. 9.
BIBLIOGRAFIA
225
COCCO G., L’illecito degli enti dipendente da reato ed il ruolo dei modelli di prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 90.
COGNETTA G., La cooperazione nel delitto colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980,
p. 63.
CORNACCHIA L., Il concorso di cause colpose indipendenti. Spunti problematici
(Parte I), in Indice pen., 2001, p. 645.
CORNACCHIA L., Il concorso di cause colpose indipendenti. Spunti problematici
(Parte II), in Indice pen., 2001, p. 1063.
CORNACCHIA L., Colpa incosciente e colpa lieve: le ragioni di una possibile delimitazione della responsabilità penale, in G. DE FRANCESCO, E. VENAFRO (a cura
di), Meritevolezza di pena e logiche deflattive, Torino, 2002, p. 193.
CORNACCHIA L., Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto
proprio, Torino, 2004.
CORNACCHIA L., La cooperazione colposa come fattispecie di colpa per inosservanza
di cautele relazionali, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011,
p. 821.
CORNACCHIA L., Competenze ripartite: il contributo dei criteri normativi all’individuazione dei soggetti penalmente responsabili, in Ind. pen., 2013, p. 247.
CRESPI A., La responsabilità penale nel trattamento medico-chirurgico con esito infausto, Palermo, 1955.
A. CRESPI, Il grado della colpa nella responsabilità professionale del medico chirurgo, in Scuola Positiva, 1960, p. 484.
CRESPI A., La “colpa grave” nell’esercizio dell’attività medico-chirugica, in Riv. it.
dir. proc. pen., 1973, p. 255.
CRESPI A., I recenti orientamenti giurisprudenziali nell’accertamento della colpa
professionale del medico chirurgo: evoluzione o involuzione?, in Riv. it. med.
leg., 1992, p. 785.
CUPELLI C., I limiti di una codificazione terapeutica (a proposito della colpa grave
del medico e linee guida), in www.penalecontemporaneo.it.
DE DONNO A., LOPEZ A., SANTORO V., DE DONNO P., INTRONA F., La responsabilità penale degli organi apicali delle strutture sanitarie, in Riv. it. med. leg.,
2007, p. 625.
DE FALCO G., Compiti e responsabilità del direttore sanitario delle case di cura
private. Profili penali, in Cass. pen., 1997, p. 604.
DE FERRARI F., Nuovi paradigmi per la responsabilità professionale degli operatori
ospedalieri, in Dir. pen. proc., 1995, p. 1120.
DE FRANCESCO G.A., L’imputazione della responsabilità penale in campo medicochirurgico: un breve sguardo d’insieme, in Riv. it. med. leg., 2012, p. 953.
DELITALIA G., voce Adempimento di un dovere, in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958,
p. 567.
DELITALIA G., Il «fatto» nella teoria generale del reato, in Diritto penale, Raccolta
degli scritti, vol. I, Milano, 1976, p. 235.
DE SIMONE G., La responsabilità da reato degli enti nel sistema sanzionatorio italiano, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, p. 657.
226
BIBLIOGRAFIA
DE SIMONE G., Persone giuridiche e responsabilità da reato, profili storici, dogmatici e comparratistici, Pisa, 2012.
DE VERO G., La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2008.
DI GIOVINE O., Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in G. LATTANZI
(a cura di), Reati e responsabilità degli enti, guida al d.lgs. 231/2001, Milano, 2010.
DI GIOVINE O., La responsabilità penale del medico: dalle regole ai casi, in Riv. it.
med. leg., 2013, p. 61.
DI LANDRO A.R., I criteri di valutazione della colpa penale del medico, dal limite
della gravità ex art. 2236 c.c. alle prospettive della “gross negligence” anglosassone, in Indice pen., 2004, p. 733.
DI LANDRO A.R., Vecchie e nuove linee ricostruttive in tema di responsabilità penale nel lavoro medico d’équipe, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, p. 225.
DI LANDRO A.R., La colpa medica negli Stati Uniti e in Italia. Il ruolo del diritto
penale e il confronto col sistema civile, Torino, 2009.
DI LANDRO A.R., Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della
colpa penale nel settore sanitario. Misura oggettiva e soggettiva della malpractice, Torino, 2012.
DI LANDRO A.R., Le novità normative in tema di colpa penale (l. 189/2012 c.d.
Balduzzi). Le indicazioni del diritto comparato, in Riv. it. med. leg., 2013, p.
833.
DI SALVO E., Esposizione a sostanze nocive, leggi scientifiche e rapporto causale
nella pronuncia della Cassazione sul caso “Porto Marghera”, in Cass. pen.,
2009, p. 2887.
DODERO C., Colpa e cooperazione colposa nell’esercizio della professione sanitaria,
in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, p. 1173.
DONINI M., La causalità omissiva e l’imputazione per «aumento del rischio», in
Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 31.
DONINI M., Imputazione oggettiva dell’evento. “Nesso di rischio” e responsabilità
per fatto proprio, Torino, 2006.
DONINI M., Imputazione oggettiva dell’evento (diritto penale), in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, p. 635.
DOVERE S., Osservazioni in tema di attribuzioni all’ente collettivo dei reati previsi
dall’art. 25 septies del d.lgs. 231/2001, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2008, p.
316.
DOVERE S., La responsabilità da reato dell’ente collettivo e la sicurezza sul lavoro:
un’innovazione a rischio di ineffettività, in Resp. amm. soc. enti, 2008, p. 97.
EPIDENDIO E., PIFFER G., Criteri di imputazione del reato all’ente: nuove prospettive interpretative, in Resp. amm. soc. ed enti, 2008, 3, p. 17.
EUSEBI L., Appunti sul confine tra dolo e colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p.
1053.
EUSEBI L., Il diritto penale di fronte alla malattia, in L. FIORAVANTI (a cura di), La
tutela penale della persona, Milano, 2001, p. 119.
EUSEBI L., Medicina difensiva e diritto penale «criminogeno», in Riv. it. med. leg.,
2011, p. 1085.
BIBLIOGRAFIA
227
EUSEBI L., La prevenzione dell’evento non voluto. Elementi per una rivisitazione
dogmatica dell’illecito colposo e del dolo eventuale, in M. BERTOLINO, G.
FORTI, L. EUSEBI (a cura di), Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011,
II, p. 963.
FEDRIGOTTI COLOMBO A., CORTESE FAUSTI C., Riferimenti per la nuova assistenza,
in Aggiornamenti professionali, 1999, p. 29.
FERRANTE M.L., Gli obblighi di impedire l’evento nelle strutture sanitarie complesse, Napoli, 2005.
FERRARI S., Sulla valutazione della responsabilità medica per colpa, in Giur. it.,
2004, I, 1492.
FIANDACA G., Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979.
FIDELBO E., Enti pubblici e responsabilità da reato, in Cass. pen., 2010, p. 4079.
FINESCHI V., FRATI P., POMARA C., I principi dell’autonomia vincolata, dell’autonomia limitata e dell’affidamento nella definizione della responsabilità medica. Il ruolo del capo équipe e dell’assistente (anche in formazione) alla luce
della recente giurisprudenza, in Riv. it. med. leg., 2001, p. 261.
FIORE S., Cause di giustificazione e fatti colposi, Padova, 1996.
FIORELLA A., Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze,
1984.
FIORI A., Medicina legale della responsabilità medica, Milano, 1999.
FIORI A., BOTTONE E., D’ALESSANDRO E., Quarant’anni di giurisprudenza della
Cassazione nella responsabilità medica, Milano, 2000, p. 776.
FIORI A., MARCHETTI D., Medicina legale della responsabilità medica. Nuovi profili, Milano, 2009.
FORTI G., Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990.
FORTI G., CATINO M., D’ALESSANDRO F., MAZZUCCATO C., VARRASO G., Il problema della medicina difensiva. Una proposta di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito dell’attività sanitaria e gestione del contenzioso legato al rischio clinico, Pisa, 2010.
FRESA R., La responsabilità penale in ambito sanitario, in I reati contro la persona,
diretto da CADOPPI A., CANESTRARI S., PAPA M., Torino, 2006, p. 603.
GALLO M., Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano,
1957.
GARGANI A., Ubi culpa, ibi omissio: la successione di garanti in attività inosservanti, in Indice pen., 2000, p. 581.
GARGANI A., La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione: due casi
“esemplari” di responsabilità ex art. 40, comma 2, c.p., in Dir. pen. proc.,
2004, p. 1390.
GARGANI A., Delitti colposi commessi con violazione delle norme sulla tutela della
sicurezza sul lavoro: responsabile “per definizione” la persona giuridica?, in
M. BERTOLINO, G. FORTI, L. EUSEBI (a cura di), Studi in onore di M. Romano, vol. III, Napoli, 2011, p. 1939.
GATTA G.L., Colpa medica e art. 3, co. 1, d.l. n. 158/2012: affermata dalla Cassazione l’abolitio criminis (parziale) per i reati commessi con colpa lieve, in
www.penalecontemporaneo.it.
228
BIBLIOGRAFIA
GAWANDE M.A., Checklist. Come fare andare meglio le cose, Torino, 2011.
GIUNTA F., Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993.
GIUNTA F., La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in Riv. it.
dir. proc. pen., 1999, p. 86.
GIUNTA F., La posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria, in Dir. pen. proc., 1999, p. 620.
GIUNTA F., I tormentati rapporti tra colpa e regola cautelare, in Dir. pen. e proc.,
1999, p. 1295.
GIUNTA F., La responsabilità per omissione, in G.A. DE FRANCESCO (a cura di),
Un nuovo progetto di codice penale: dagli auspici alla realizzazione?, Torino,
2001, p. 70.
GIUNTA F., voce Medico (responsabilità penale del), in I Dizionari sistematici, Diritto penale, a cura di F. GIUNTA, Milano, 2008, p. 876.
GIUNTA F., La legalità della colpa, in Criminalia, 2009, p. 149.
GIUNTA F., LUBINU G., MICHELETTI D., PICCIALLI P., PIRAS P., SALE C., Il diritto
penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità (2004-2010), Napoli, 2011.
GIUNTA F., Protocolli medici e colpa penale secondo il «decreto Balduzzi», in Riv.
it. med. leg., 2013, p. 819.
GIZZI L., Il comportamento alternativo lecito nell’elaborazione giurisprudenziale,
in Cass. pen., 2005, p. 4107.
GRASSO G., La responsabilità penale nell’attività medico-chirurgica: orientamenti
giurisprudenziali sul «grado» della colpa, in Riv. it. med. leg., 1979, p. 80.
GRASSO G., Il reato omissivo improprio, Milano, 1983.
GRIMALDI M., L’attività medico-chirugica in équipe, in Diritto e formazione, 2006,
p. 231.
GROSSO C. F., Organizzazione dei servizi medici e problemi di responsabilità penale, in La medicina e la legge, Atti dell’83° Congresso SPLLOT, Torino,
1989, p. 29.
GROTTO M., Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, Torino, 2012.
GUERRINI R., La responsabilità da reato degli enti, sanzioni e loro natura, Milano,
2006.
GUERRINI R., Le modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in F.
GIUNTA, D. MICHELETTI (a cura di), Il nuovo diritto penale della sicurezza
nei luoghi di lavoro, Milano, 2010, p. 146.
GUIDI D., L’attività medica in équipe alla luce della recente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, in S. CANESTRARI, F. GIUNTA, R. GUERRINI, T. PADOVANI, Medicina e diritto penale, Pisa, 2009, p. 209.
IADECOLA G., Il medico e la legge penale, Padova, 1993.
IADECOLA G., Il valore dell’opinione dell’ordine professionale e delle società scientifiche nel contenzioso penale, in Riv. it. med. leg., 2001, p. 11.
IADECOLA G., La responsabilità medica nei più recenti orientamenti della Corte di
Cassazione, in Riv. dir. prof. san., 2003, p. 18.
BIBLIOGRAFIA
229
IADECOLA G., La causalità dell’omissione nella responsabilità medica prima e dopo
le Sezioni Unite «Franzese», in Riv. it. med. leg., 2005, p. 699.
IADECOLA G., La responsabilità medica nell’attività in équipe alla luce della rinnovata disciplina della dirigenza sanitaria ospedaliera, in Cass. pen., 2007,
p. 151.
INSOLERA G., voce Concorso di persone nel reato, in Dig. disc. pen., II, Torino,
1988, p. 437.
INSOLERA G., Nozione di responsabilità individuale e collettiva, in Indice pen.,
1996, p. 259.
INTRONA F., Un paradosso: con il progresso della medicina aumentano i processi
contro i medici, in Riv. it. med. leg., 2001, p. 879.
INTRONA F., Responsabilità professionale medica e gestione del rischio, in Riv. it.
med. leg., 2007, p. 641.
LATAGLIATA A.R., Cooperazione nel delitto colposo, in Enc. dir., X, Milano, 1962.
LAUDATI A., LAUDATI A., La responsabilità penale dell’anestesista-rianimatore per
fatti legati a colpa professionale, in Giust. pen., 1986, p. 211.
LEONCINI I., Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza,
Torino, 1999.
LORÉ C., MARTINI P., Sulla responsabilità penale degli amministratori di strutture
sanitarie, in Riv. it. med. leg., 1998, p. 403.
LOTTINI R., Responsabilità delle persone giuridiche, in F.C. PALAZZO, C.E. PALIERO (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, 2007, p. 2285.
MACCHIARELLI L., FEOLA T., Medicina legale, Torino, 1995.
MACRÌ M.C., Responsabilità medica dell’assistente nell’ambito dell’autonomia vincolata alla direttive ricevute dal primario, in Resp. civ. e prev., 2000, p. 621.
MAGGIORE G., Principi di diritto penale, parte generale, 5ª ed., Bologna, 1949.
MAIELLO V., La natura (formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale)
della responsabilità degli enti nel d.lgs. n. 231 del 2001: una «truffa delle etichette» davvero innocua?, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 879.
MANCINI S., Probabilità logica e probabilità statistica nell’accertamento del nesso
causale in materia penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2004, p. 265.
MANNA A., voce Trattamento medico-chirugico, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992,
p. 1280.
MANTOVANI F., I trapianti e la sperimentazione umana, Padova, 1974.
MANTOVANI F., La responsabilità del medico, in Riv. it. med. leg., 1980, p. 16.
MANTOVANI F., L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di
solidarietà, di libertà e di responsabilità personale, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2001, p. 337.
MANTOVANI F., La responsabilità nella partecipazione degli specializzandi negli
interventi medico chirurgici, in F. MANTOVANI (a cura di), Umanità e razionalità del diritto penale, Padova, 2008, p. 1512.
MANTOVANI M., Alcune puntualizzazioni sul principio di affidamento, in Riv. it.
dir. proc. pen., 1997, p. 1051.
230
BIBLIOGRAFIA
MANTOVANI M., Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano,
1997.
MANTOVANI M., Sui limiti del principio di affidamento, in Indice pen., 1999, p.
1195.
MARCHETTI D., BOSCO D., ZAPPALÀ A., Il medico legale e la deposizione orale nel
processo penale. Strumenti per ragionare e per comunicare, Milano, 2005.
MARINUCCI G., La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965.
MARINUCCI G., MARRUBINI G., Profili penalistici del lavoro medico-chirurgico in
équipe, in Temi, 1968, p. 217.
MARINUCCI G., Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di
adeguamento delle regole di diligenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 29.
MARINUCCI G., Causalità reale e causalità ipotetica nell’omissione impropria, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 523.
MARTINO A., Il nesso causale attivato da condotte omissive tra probabilità, certezza
e accertamento, in Dir. pen. proc., 2003, p. 58.
MASSARO A., La colpa nei reati omissivi impropri, Roma, 2011.
MASSARO A., Principio di affidamento e “obbligo di vigilanza” sull’operato altrui:
riflessioni in materia di attività medico-chirurgica in équipe, in Cass. pen.,
2011, p. 3857.
MAZZACUVA N., Il disvalore di evento nell’illecito penale. L’illecito commissivo doloso e colposo, Milano, 1983.
MICHELETTI D., La normatività della colpa medica nella giurisprudenza, in S. CANESTRARI, F. GIUNTA, R. GUERRINI, T. PADOVANI, Medicina e diritto penale,
Pisa, 2009, p. 247.
MICHELETTI D., La colpa del medico. Prima lettura di una recente ricerca “sul
campo”, in Criminalia, 2009, p. 171.
MILITELLO V., Rischio e responsabilità, Milano, 1988.
MILITELLO V., La colpevolezza nell’omissione: il dolo e la colpa del fatto omissivo,
in Cass. pen., 1998, p. 979.
PADOVANI T., Il grado della colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, p. 836.
PALAZZO F., Responsabilità medica, “disagio” professionale e riforme penali, in Dir.
pen. proc., 2009, p. 1061.
PALIERO C.E., La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 850.
PALIERO C.E., Dieci anni di “corporate liability” nel sistema penale italiano: il paradigma imputativo ell’evoluzione della legislazione e della prassi, in Le Società, Gli Speciali: d.lgs. 231: dieci anni di esperienze nella legislazione e
nella prassi, 2011, p. 5.
PALIERO C. E, Dieci anni di “corporate liability” nel sistema italiano: il paradigma
imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi, in AA.VV., D.lgs.
231: dieci anni di esperienze nella legislazione e nella prassi, in Soc., 2011, n.
spec., p. 12.
PALMIERE C., PICCHIONI D.M., MOLINELLI A., CELESTI R., Carenza delle strutture
sanitarie: a chi la responsabilità, in Difesa soc., 2004, p. 99.
BIBLIOGRAFIA
231
PAONESSA C., Obbligo di impedire l’evento e fisiognomica del potere impeditivo,
in Criminalia, 2012, p. 641.
PARODI C., NIZZA V., La responsabilità penale del medico e paramedico, in Giur.
sist. dir. pen., BRICOLA F., ZAGREBELSKY V., Torino, 1996.
C. PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale d’impresa, in Riv. trim. dir.
pen. econ., 1998, p. 125.
PETRONE M., La costruzione della fattispecie penale mediante rinvio, in Studi in
onore di Marcello Gallo, Scritti degli allievi, Torino, 2004, p. 151.
PEZZELLA V., Carichi esigibili e produttività, ma anche qualità del decidere e rispetto del codice, in Cass. pen., 2009, p. 2247 ss.
PIERGALLINI C., Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di «diritto penale del rischio», in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1447.
PIERGALLINI C., Il paradigma della colpa nell’età del rischio: prove di resistenza del
tipo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 1670.
PIQUÈ F., La funzione estensiva della punibilità dell’art. 113 c.p., in Cass. pen.,
2014, p. 882.
PIRAS P., LUBINU G.P., L’attività medica plurisoggettiva fra affidamento e controllo
reciproco, in S. CANESTRARI, F. GIUNTA, R. GUERRINI, T. PADOVANI (a cura
di), Medicina e diritto penale, Pisa, 2009, p. 301.
P. PIRAS, A. CARBONI, Linee guida e colpa specifica del medico, in S. CANESTRARI,
F. GIUNTA, R. GUERRINI, T. PADOVANI (a cura di), Medicina e diritto penale,
Pisa, 2009, p. 285.
PIRAS P., In culpa sine culpa, in www.penalecontemporaneo.it.
PISA P., LONGO G., La responsabilità penale per carenze strutturali e organizzative, in Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa,
Atti del Convegno di Firenze del 7-8 maggio 2009, Firenze, 2010, p. 7.
POLI P.F., Legge Balduzzi tra problemi aperti e possibili soluzioni interpretative:
alcune considerazioni, in www penalecontemporaneo.it.
PORTIGLIATTI BARBOS M., Le linee-guida nell’esercizio della pratica clinica, in Dir.
pen. proc., 1996, p. 891.
POTETTI D., Individuazione del soggetto penalmente responsabile all’interno delle
strutture complesse, con particolare considerazione per le strutture sanitarie,
in Cass. pen., 2004, p. 2403.
PULITANÒ D., Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale nel diritto
penale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1978, IV, p. 180.
PULITANÒ D., voce Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, in Dig.
disc. pen., IV, Torino, 1990, p. 327.
PULITANÒ D., La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri di imputazione, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 415.
PULITANÒ D., Colpa ed evoluzione del sapere scientifico, in Dir. pen. proc., 2008,
p. 647.
PULITANÒ D., Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum
legislativo, in www.penalecontemporaneo.it.
REGINA A., voce Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, in Enc. giur.,
vol. XIII, Roma, 1989, p.
232
BIBLIOGRAFIA
RISICATO L., La partecipazione mediante omissione a reato commissivo, in Riv. it.
dir. proc. pen., 1995, p. 1267 ss.
RISICATO L., Il concorso colposo tra vecchie e nuove incertezze, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1998, p. 132.
RISICATO L., Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato,
Milano, 2001.
RISICATO L., Cooperazione in eccesso colposo: concorso “improprio” o compartecipazione in colpa “impropria”, in Dir. pen. proc., 2009, p. 578.
RISICATO L., L’attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo
reciproco. L’obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013.
RIVERDITI M., Responsabilità dell’assistente medico per gli errori terapeutici del
primario: la mancata manifestazione del dissenso dà (sempre) luogo a un’ipotesi di responsabilità per «mancato impedimento dell’evento»?, in Cass.
pen., 2001, p. 157.
RIZ R., Colpa penale per imperizia del medico: nuovi orientamenti, in Indice pen.,
1985, p. 267.
ROIATI A., Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale. Tra
teoria e prassi giurisprudenziale, Milano, 2012.
ROIATI A., Il ruolo del sapere scientifico e l’individuazione della colpa lieve nel
cono d’ombra della prescrizione, in Dir. pen. cont., 2013, p. 4.
ROMANO M., Commentario sistematico del codice penale, I, Milano,
ROSSI A., Responsabilità “penale amministrativa” delle persone giuridiche (Profili
sostanziali), in A. ROSSI (a cura di), Reati societari, Torino, 2005.
ROTOLO G., Guidelines e leges artis in ambito medico, in Riv. it. med. leg., 2013,
p. 277.
ROXIN C., Täterschaft und Tatherrschaft, Hamburg, 1963.
ROXIN C., Antigiuridicità e cause di giustificazione. Problemi di teoria dell’illecito
penale, a cura di S. MOCCIA, Napoli, 1996.
SANTORIELLO C., Violazioni delle norme antinfortunistiche e reati commessi nell’interesse o a vantaggio della società, in Resp. amm. soc. enti, 2008, n. 1,
p. 165.
SBORRA E., La posizione di garanzia del medico, in Medicina e diritto penale, Pisa,
2009, p. 115 ss.
SPASARI M., Profili di teoria generale del reato in relazione al concorso di persone
nel reato colposo, Milano, 1957.
STELLA F., Causalità e probabilità: il giudizio corpuscolariano, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2005, p. 60.
STELLA F., Causalità omissiva, probabilità, giudizi controfattuali l’attività medico
chirurgica, in Cass. pen., 2005, p. 1062.
TASSINARI D., Rischio penale e responsabilità professionale in medicina, in S. CANESTRARI, M.P. FANTINI (a cura di), La gestione del rischio in medicina. Profili di responsabilità nell’attività medico-chirugica, Trento, 2006, p. 1.
TORRE V., Riflessioni sul diritto britannico in tema di responsabilità degli enti: il
corporate killing, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2009, p. 273.
BIBLIOGRAFIA
233
TRAMONTANO L., Causalità attiva e omissiva, obblighi divisi e congiunti di garanzia: tre sentenze a confronto, in Foro it., 1997, II, c. 417.
VALBONESI C., Linee guida e protocolli per una nuova tipicità dell’illecito colposo,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 250.
VALLINI A., Gerarchia in ambito ospedaliero ed omissione colposa di trattamento
terapeutico, in Dir. pen. proc., 2000, p. 1629.
VALLINI A., Cooperazione e concause in ipotesi di trattamento sanitario “diacronicamente plurisoggettivo”, in Dir. pen. proc., 2001, p. 477.
VALLINI A., L’art. 3 del “decreto Balduzzi” tra retaggi dottrinali, esigenze concrete,
approsimazioni testuali, dubbi di costituzionalità, in Riv. it. med. leg., 2013,
p. 735.
VENEZIANI P., I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, in Trattato di diritto penale - Parte speciale, diretto da MARINUCCI G., DOLCINI E., vol. II,
Padova, 2003.
VENEZIANI P., Regole cautelari “proprie” ed “improprie” nella prospettiva delle fattispecie colpose causalmente orientate, Padova, 2003.
VERGINE L., BUZZI F., A proposito di una singolare ipotesi di colpa professionale,
in Cass. pen., 1983, p. 1545 ss.
VERRICO A., Le insidie al rispetto di legalità e colpevolezza nella causalità e nella
colpa: incertezze dogmatiche, deviazioni applicative, possibili confusioni e sovrapposizioni, in Cass. pen., 2011, p. 101.
VIGANÒ F., Linee guida, sapere scientifico e responsabilità in una importante sentenza della Cassazione, in www.penalecotnemporaneo.it.
VIGANÒ F., Stato di necessità e conflitti di doveri, Milano, 2000.
VITARELLI T., Infortuni sul lavoro e responsabilità degli enti: un difficile equilibrio
normativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 695.
ZANETTA G.P., La colpevolezza coinvolge anche il primario che non «conosce» lo
stato di salute dei pazienti, in Guida al dir., 2000, p. 28.
ZANONE A., Inidoneità delle strutture sanitarie e responsabilità professionale del
medico, in Riv. it. med. leg., 1981, p. 3.
ZANGANI P., Sul rapporto di subordinazione tra primario e assistente ospedaliero:
concorso nella responsabilità professionale, in Giust. pen., 1962, II, p. 470.
ZINCANI M., La cooperazione nel delitto colposo. La portata incriminatrice dell’art.
113 c.p. nei reati a forma libera, in Cass. pen., 2014, p. 163.
Scarica