Belvedere con Pitti e Prospettiva vegetale Sergio Risaliti In un dipinto eseguito da Giusto Utens (Iustus van Utens) tra il 1599 e il 1609, una lunetta della serie dedicata alle ville e ai giardini medicei, si apprezza una veduta a volo d’uccello di Palazzo Pitti col giardino di Boboli e Forte di Belvedere. Il diarista fiorentino Agostino Lapi riportava in data 28 ottobre 1590: “si murò la prima pietra del fondamento primo della nuova muraglia e maravigliosa fortezza, posta sopra Porta San Giorgio… nell’Orto de’ Pitti li inventori e li architettori principali furono il signor Giovanni figlio del Granduca Cosimo e Messer Bernardo Buontalenti di ingegno elevatissimo”. Per la realizzazione quindi di questa formidabile fortezza “a guardia della città e del palazzo” il Granduca Ferdinando si appoggiò a due architetti esperti nelle fortificazioni: Bernardo Buontalenti e Don Giovanni de’ Medici, fratellastro dello stesso Granduca. Ma nella lunetta il tema difensivo si stempera in una visione paesaggistica che allontana lo spettro della guerra, il tema della difesa. La natura cinge d’assedio la città del Brunelleschi e di Masaccio, di Botticelli e Michelangelo. L’artificio umanizza l’ambiente, perfino il creato, in un linguaggio che è quello del rinascimento in cui anche la magia e l’alchimia trovarono le proprie espressione figurative. Facendo ideale riferimento a questo programma urbano dell’età aurea di Ferdinando de’ Medici (Belveder con Pitti), possiamo oggi contemplare in stretta contiguità gli spazi verdi di Boboli e quelli più severi del Belvedere tenuti assieme, non dalla veduta panoptica di Utens, quanto eccezionalmente dal logos scultoreo di Giuseppe Penone il quale, con Prospettiva vegetale, inanella un ensemble di opere in bronzo e marmo che, nel loro dispiegarsi di livello in livello, connettono e saldano il giardino con la fortezza, la reggia con la palazzina del Buontalenti. Alberi di bronzo e blocchi di marmo carrarino marcano un percorso artistico in cui esperienza del mondo naturale e forme della scultura si saldano e si richiamano a vicenda, evidenziando il vigoroso ma sensibile confronto tra i processi formativi naturali e quelli creativi dell’arte. Nella storia recente nessun artefice aveva avuto tale onore, nessuno aveva osato tale progetto, disegnato simile poetico percorso. Per la prima volta un artista ha installato le sue sculture contemporaneamente al Forte di Belvedere e nel Giardino di Boboli. Nelle sue diverse postazioni il tracciato apre a una variata molteplicità di scorci e prospettive, di panorami e visuali tra i due contesti urbano e paesaggistico, su Firenze e il suo patrimonio architettonico. E così, aggiungendosi altri “belvedere”, la Fortezza di San Giorgio cede la sua stereotipata funzione di pittoresco affaccio, o meglio di terrazza affacciata sulla città di Arnolfo e Giotto, di Brunelleschi e Alberti, di Michelangelo e Vasari. Percorrendo la Prospettiva vegetale ideata da Giuseppe Penone, il Forte di Belvedere non è più l’unico palcoscenico per l’arte moderna e contemporanea da cui poter ammirare Firenze, sul cui piano costruire il dialogo- confronto tra passato e presente. Altre soglie per lo sguardo possono essere individuate laddove Penone ha collocato alcune sue sculture: una delle due terrazze adiacenti la Kaffeehaus, lo stradone tra la Grotta del Buontalenti e l’Anfiteatro. Tuttavia l’opera di Penone non si lascia sorvolare per proiettare lo sguardo verso la meravigliosa grandiosità del passato con le sue architetture, con le sue geometrie e fantasie. Le Anatomie in marmo e i grandi alberi in bronzo, squarciati da un fulmine, dorati o con pietre di fiume depositate tra i rami, oppongono la loro presenza plastica e il pensiero che le ha forgiate. Dopo le forme antropomorfe di Henry Moore, protagonista di una storica esposizione sui bastioni di Forte di Belvedere nell’estate del 1972, e il tavolo con pietra serena e frutta di Mario Merz, realizzato per “Belvedere dell’arte” nel 2003, sempre sulle terrazze della Fortezza di San Giorgio, è sicuramente la linea di ‘alberi’ in bronzo a farsi paradigma di una inedita percezione dell’orizzonte fiorentino, che qui coincide con l’orizzonte rinascimentale. Penone organizza una linea d’attacco e non di difesa restituendo miti e sacrali percezioni all’uomo di oggi in reale dialogo con la natura e il paesaggio. Inoltre, sempre seguendo le opere installate da Penone nel giardino mediceo, la Palazzina del Belvedere in alto, ci appare piuttosto villa che fortilizio. Ad esempio, dall’Anfiteatro dove in linea con l’obelisco l’artista ha collocato un albero di bronzo con elementi in oro e granito (Luce e ombra, 2011), e pure da uno dei livelli superiori del giardino dove il visitatore arriva a scoprire Biforcazione, un tronco di bronzo con innestato il calco del braccio destro dell’artista che funge da bacino di scolo per uno zampillo d’acqua. Giuseppe Penone rivela la sua poetica nella seconda metà degli anni Sessanta, e sin dal suo esordio artistico fonda la sua ricerca attorno al rapporto uomo-natura, scultura-mondo vegetale. Giovanissimo ottiene riconoscimenti nazionali e internazionali e dal 1969 è tra i protagonisti dell’Arte Povera. La sua opera ha varcato le porte dei più prestigiosi musei del mondo: il Guggenheim e il MOMA di New York, la Tate Gallery di Londra, la Kunstalle di Basilea, lo Stedelijk Museum di Amsterdam, il Castello di Rivoli, il Centre Pompidou di Parigi, il Toyota Municipal Art Museum in Giappone. Recentemente, la Reggia Reale di Venaria in Piemonte e quella di Versailles in Francia hanno celebrato la sua scultura monumentale. Come altri artisti della sua epoca, Penone ha optato inizialmente per materiali e tecniche non tradizionali, utilizzando anche il proprio corpo in azioni che trasformavano la performance in nuova invenzione scultorea. Mai come oggi sembra attuale, anzi cogente la sua lezione tutta incentrata in una relazione poetica con la Madre Terra. La materia sia essa legno, marmo, bronzo, terracotta o altro viene ad essere vivificata dal gesto dell’artefice in una costante relazione tra corpo e forme vegetali, tra bios e poiesis, tra luce e materia. Una serie di opere sono ormai entrate a far parte della storia contemporanea dell’arte. Tra queste, ricordiamo il Soffio in terracotta, oltre a Nero assoluto d’Africa, Albero di 12 metri, Cedro di Versailles; oppure, Anatomia e i Verdi del bosco su tela. Infine Idee di pietra o In bilico, dove grandi macigni si trovano posati come un nido di pietra tra i rami di un grande albero, come fossero resti di una azione naturale imprevedibile, impressionanti e misteriose come meteore cadute dal cielo. Nelle sue opere riconosciamo il corpo, gli arti, materiali naturali come la terra, le foglie, il legno, spine di acacia, e anche pietre di fiume, oltre a tronchi, rami, fusti e cortecce. In un certo senso ha pure plasmato l’aria che respiriamo e l’acqua di un ruscello fissando sul marmo o nella terracotta il flusso della corrente, il lavorio prolungato e lento del fiume sulla materia, gemellandolo a quello della mano dell’artefice. In tutti questi anni, Penone ha compiuto esperimenti e ricerche plastiche al limite di alchimia e scientificità, tra antropologia e mitologia. Sovente i dati sono bloccati nel bronzo e nel marmo attraverso gesti semplicissimi eseguiti a diretto contatto con tronchi, foglie, fronde; calchi e impronte che conservano quasi inalterate le informazioni originali. Così solo alla fine del processo, il dato di partenza può rivelare altre immagini e racconti, altri significati, altri scambi simbolici. Penone scrive a questo proposito: “Catturare il verde del bosco. Percorrere con il gesto il verde del bosco. Strofinare il verde del bosco. Immaginare lo spessore del verde del bosco. Lavorare con lo splendore, la consistenza del verde del bosco. Consumare il verde del bosco contro il bosco. Ripetere il bosco con i verdi del bosco”(1984). Un transitare dal linguaggio dell’arte alla vitalità feconda del bosco e viceversa, in un contatto che è come quello dell’edera col cipresso, o dell’acqua del fiume con la pietra rotolata nell’alveo corrusco. Fin da subito si avverte in ogni azione transitiva (aderire, toccare, affondare, strofinare, scavare, immergersi etc.) quella componente performativa necessaria all’avanguardia per accorciare le distanze tra arte e vita, tra linguaggio artistico e spazio fisico, tra mondi e tempi non più separati o separabili idealisticamente. Si tratta di un doppio gesto che attraverso un processo di immedesimazione a contatto con la natura (un bosco, un mucchio di foglie, l’acqua che scorre, l’albero che cresce, le foglie che cadono e si adagiano secondo l’ordine complesso dell’evento naturale sul terreno, la luce e l’ossigeno che circolano nei corpi) ritorna poi a generare figure, immagini, forme visibili e apprezzabili. Tutto questo accade perché le opere di Penone si rovesciano sempre scambiando una forma con l’altra, l’origine di una cosa con l’altra, verità e significati, esperienza e metodo tra natura e corpo umano, tra segni vegetali e linguaggio artistico, in una ricerca costante di realtà. Uno dei suoi lavori più celebri è Soffio, ispirato a un disegno di Leonardo da Vinci. Già l’artefice rinascimentale aveva tentato di dare forma al pneuma che riempie i polmoni di un uomo. Mettendo in evidenza la massa d’aria, ma anche l’interno della bocca, dell’esofago, dei polmoni. Per Penone si tratta anche di dar forma, attraverso l’impronta dell’aria emessa e il calco dei muscoli interni, al soffio di vita che anima il corpo umano. Il soffio, bloccato in espirazione prima che si dissolva nell’aria circostante, crea una sorta di figura-diaframma: figura che solidificata in terracotta restituisce alla vista una rappresentazione antropomorfa. Riconosciamo in esso la massa eterea del respiro, quella sostanza invisibile che ci riempie i polmoni ogni giorno della nostra esistenza permettendoci di crescere, di camminare, di amare. Un soffio che anima il corpo e che dall’impronta e dal calco ci è restituito nel materiale artistico quasi come pelle che avvolge e protegge il nostro corpo. “La pelle, come l’occhio, è un elemento di confine, è il punto estremo in grado di dividerci e di separarci da ciò che ci circonda… è l’estrema parte del nostro essere, è l’elemento divisorio del nostro corpo, che a sua volta protegge e contiene, in un certo senso, tutte le cose che ci circondano” nelle parole dell’artista. Di questa adesione alla realtà, vero e proprio contatto tra la pelle del mondo e quella dell’uomo, tra la terra e il corpo, parla da sempre il lavoro di Penone. Dai primi del Novecento la scultura assume forme imprevedibili, si attua attraverso processi, strumenti, gesti che non appartengono alla tradizione. L’artista esercita la sua autonomia e superiorità sia sulla natura sia sulla riproducibilità tecnica inventando forme non riconoscibili, fuori dell’uso comune, associando materiali e sagome eterogenee, stravolgendo significati e contesti. Penone pur avendo sperimentato materiali e sistemi lavorativi differenti, resta uno scultore antico che lavora togliendo materia (sia nel marmo sia nel legno) oppure aggiungendola nelle opere in bronzo o terracotta. Alberi scortecciati scavati e traforati, all’interno dei quali ricompaiono alberi più giovani, alberi in bronzo che crescono in senso contrario abbarbicando i rami a nuovi virgulti; e poi stanze di alloro e oro, calchi di orecchi, di nasi, di labbra nascosti tra i tuberi, cumuli di foglie su cui l’artista ha lasciato l’impronta del proprio corpo, tronchi di cristallo sull’ingrandimento in gesso di un cranio, figure corporee nate toccando con dolcezza zolle di terra, pavimenti di marmo tratteggiati come una corteccia, blocchi giganteschi la cui superficie appare come un intricato nodo di vene e radici. Anche quando sembra voler far rivivere il mito di Arcadia, le ninfe di un concerto campestre come in Gesti vegetali, Penone non rappresenta la natura, piuttosto ne fa parte ; egli intende ripetere il bosco intenzionato a risalire alla zona di contatto sensibile tra soggetto e oggetto. Per far questo è disposto a ribaltare se necessario la prospettiva d’indagine e il processo di percezione-riproduzione artistica. Ad esempio rovesciando i propri occhi che diventano due specchi rivolti al mondo esterno. Oppure agguantando il fusto di un albero in crescita Continuerà a crescere tranne che in quel punto. Infine rovesciando la pelle del proprio volto e del proprio corpo per riprodurne l’impronta, la cui morfologia in fin dei conti somiglia a quella della scorza di un tronco. Dunque non ci si faccia ingannare dall’apparenza. Sebbene la natura sia il tema della sua ricerca e delle sue rappresentazioni, quella che si ha davanti non è l’opera di un artista figurativo tradizionale, di un artefice che vorrebbe mantenere una relazione idealistica o nostalgica con la natura. Gli alberi di Penone sono scolpiti per levare fino a trovare il virgulto fossilizzato all’interno del tronco, evidenziando a questo modo l’armatura dei rami conservati nella polpa. È un percorso a ritroso nella crescita del tronco, dall’età puerile dell’albero al momento della sua esposizione. Penone dichiara: “Per me, a priori, non esiste il problema dell’arte. Esiste semplicemente il problema di aderire alla realtà”. Penone opera con un linguaggio che nasce dall’adesione e dal contatto con la realtà e di questa avvenuta adesione, la scultura o la pittura, recano l’impronta, la traccia. Cercare e scavare – in termini quasi archeologici e da geologo – per rimontare attraverso gli anelli del passato al centro dell’albero, significa per Penone andare a ritrovare un preciso istante dell’evoluzione dell’albero, lo stato di fatto di una cosa che è accaduta tempo addietro e che ancora vive con l’albero. Un processo antiretorico e vitalistico con cui Penone riporta alla luce l’infanzia dell’albero per mostrarla nella sua integrità, anche quando si conserva fossilizzata nel tronco senescente. In altre parole, si tratta di entrare in contatto col processo evolutivo attraverso l’uso di materiali naturali lavorati con un metodo d’arte adeguato alla nuova relazione fenomenologica. Una relazione poetica che induce tuttavia a riattivare una presa di coscienza gnoseologica della natura. Infine, la relazione soggetto-oggetto, uomonatura vive anche di momenti magici e alchemici, intuitivi e poetici: “Animali, vegetali, minerali sono insorti nel mondo dell’arte. L’artista si sente attratto dalle loro possibilità fisiche, chimiche e biologiche, e riinizia a sentire il volgersi delle cose del mondo, non solo come essere animato, ma come produttore di fatti magici e meraviglianti”. Così scriveva Germano Celant nel 1969, e questa meraviglia, questo stupore magico ritroviamo ancora oggi tra gli spalti di Forte di Belvedere e i giardini di Pitti.