dECRESCita E CoESioNE SoCialE: lE PRatiCHE - Apeiron

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Studi di Sociologia, 3-4 (2013), 345-354
DECRESCITA E COESIONE SOCIALE:
LE PRATICHE DEI CONSUMATORI
© 2013 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
I - INTRODUZIONE
All’interno di una società come quella contemporanea, in cui per decenni l’idea
del progresso ha anteposto il bene del singolo rispetto a quello della società nel suo
complesso, abbandonando quell’idea di solidarietà (Durkheim 1962) che era propria
delle società più semplici, il tema della coesione sociale e delle nuove declinazioni che
questa assume diviene di particolare importanza (Guizzardi 2008). In tale contesto
le problematiche relative allo sviluppo sostenibile, in particolare, hanno assunto una
grande rilevanza, proprio perché l’idea della rinuncia a favore del bene comune ben si
colloca all’interno del più ampio concetto di coesione sociale che implica la ridefinizione di una società moderna ed inclusiva fondata sul senso di comunità e responsabilità
dei membri verso gli altri.
E all’interno dell’ampio dibattito sulla sostenibilità espressioni come voluntary
simplicity, riduzione dei consumi, sottoconsumo ostentativo sono emerse come temi
particolarmente rilevanti sia a livello istituzionale che (a quello) mediatico. Infatti,
complice anche la crisi economica che da alcuni anni ormai è protagonista del mondo occidentale e nell’ottica di poter garantire un futuro alle generazioni che verranno
adottando comportamenti più sostenibili, il tema della decrescita si è fatto sempre più
presente, sia come oggetto di riflessione e studio, sia come tattica di sopravvivenza messa in atto più o meno consapevolmente dai consumatori.
Le emergenze che spingono ad adottare comportamenti di vita e di consumo
che implicano una qualche forma di rinuncia sono tante. È possibile citare: il degrado
ambientale prodotto dall’aver assecondato per troppo tempo il mondo della produzione industriale; il tema delle fonti di energia che non sono più in grado di sopportare
i livelli di consumo attuali; il tema del riscaldamento globale e delle sue ripercussioni
sui mutamenti climatici che possono mettere a rischio la possibilità che le generazioni
future possano ancora soddisfare i loro bisogni. A questi temi si possono aggiungere: la
disuguaglianza sociale che oramai non è più solo tipica dei paesi del terzo mondo, ma
si trova anche per le strade delle metropoli occidentali, nonché l’emergere dei paesi del
BRIC percepiti spesso come una minaccia all’ordine costituito (Fabris 2010).
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La decrescita o, come alcuni studiosi preferiscono, la post crescita (ibidem) sembra quindi un mantra che ricorre spesso sia a livello mediatico sia nelle effettive pratiche di consumo, non sempre con un’accezione negativa (Latouche 2008); si parla,
infatti, anche di decrescita felice in quanto promuovendo «la sobrietà, la sostenibilità
(ecologica e sociale), la calma e le relazioni fra le persone, valorizza[no] la convivialità,
la cooperazione e l’altruismo a scapito dell’individualismo, della competizione e dell’egoismo» (www.decrescitafelice.it).
II - SOSTENIBILITÀ PUBBLICA E PRIVATA
Il tema della sostenibilità, entrato nell’agenda pubblica fin dagli anni Settanta del
Novecento, quando è iniziata, nelle società avanzate, la riflessione sulla finitezza delle
risorse naturali, che presto non sarebbero più state in grado di soddisfare le crescenti
esigenze delle società avanzate, si è fatto sempre più pressante. È dalla crisi energetica
del 1973 che i paesi occidentali hanno la conferma dell’esauribilità delle risorse ed è
da allora che si cercano forti d’energia alternative al petrolio. Alla scarsità energetica si
sono tuttavia aggiunte nel tempo altre preoccupazioni – legate alla fragilità dell’ecosistema, all’impatto delle emissioni inquinanti e alla capacità dell’ambiente di smaltire la
quantità sempre crescente di rifiuti – che hanno contribuito a rendere la sostenibilità
l’obiettivo principale di molti programmi istituzionali e delle politiche economiche e
sociali attivate in campo nazionale e internazionale (Bologna 2005). Nonostante ciò,
molti dei paesi industrializzati sono ancora lontani dall’adozione di prassi che consentano di mirare a una condizione di sostenibilità, se si considera che «Lo Sviluppo
Sostenibile è uno sviluppo in grado di garantire il soddisfacimento dei bisogni attuali
senza compromettere la possibilità delle generazioni future di far fronte ai loro bisogni»
(Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo 1988). È evidente però che l’infinita
riproducibilità delle risorse ambientali, per ogni essere vivente sulla terra, può essere
garantita solo se le risorse disponibili vengono utilizzate in modo razionale, evitando
di compromettere «le prospettive di una eguale (e se possibile migliore) soddisfazione dei bisogni di cui saranno portatrici le future generazioni» (Tacchi 2007: 10). Il
tema dello sviluppo sostenibile si articola su tre macro aree (Angelini 2009): l’integrità
ambientale (preservare gli ecosistemi, diminuire le emissioni inquinanti, conservare le
risorse), l’efficienza economica (accantonata l’idea che sia possibile una crescita continua, diviene necessario promuovere attività economiche che puntino sull’utilizzo di
risorse rinnovabili, reperibili a livello locale, e sulla distribuzione e lo scambio basati
su criteri di equità e solidarietà) e l’equità sociale (in cui giocano un ruolo di rilievo i
modelli di consumo e il senso di una responsabilità comune e condivisa). Ed è proprio
la valorizzazione dell’idea del bene comune, della condivisione di valori, dei sentimenti
di comunanza e di solidarietà sociale tra i membri di una società uno dei principali temi
che costituiscono il discorso attorno alla coesione sociale
Sullo sviluppo sostenibile si può intervenire a diversi livelli: istituzionale (ci si riferisce alle politiche messe in atto dai diversi paesi a partire dal protocollo di Kioto),
imprenditoriale (la responsabilità sociale d’impresa (Molteni 2004) è diventata negli
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ultimi anni un’istanza imprescindibile per le imprese) e individuale. Ed è proprio l’intervento individuale, quello che si concretizza anche nelle pratiche di consumo, l’oggetto dei paragrafi successivi.
III - I CONSUMATORI E LA SOSTENIBILITÀ
Il Summit sulla Terra, tenutosi a Rio nel 1992, poneva il «consumo sostenibile»
come obiettivo dell’agenda politica internazionale (Soron 2010); da allora in poi, nei
paesi occidentali, l’interesse verso e il dibattito attorno a questo tipo di pratiche non
si sono mai sopiti, tanto che, in tempi recenti, il consumo sostenibile è diventato una
priorità a livello globale cioè uno dei capisaldi su cui si basa il più ampio obiettivo
dello sviluppo sostenibile (Robins - Roberts 2006). Le preoccupazioni relative ai livelli
di consumo delle società affluenti si sono quindi intrecciate con temi quali l’impatto
ecologico, proponendo soluzioni differenti e mettendo in luce il ruolo del consumatore
come attore sociale in grado di contribuire, attraverso le sue personali pratiche di consumo, o di anti-consumo, al benessere collettivo.
Da una ricerca abbastanza recente, condotta da Eurisko (2011) per conto del
Laboratorio PMIFiliera Sostenibile promosso da Fondazione Sodalitas, emerge in
modo evidente che il tema della sostenibilità rientra nell’agenda degli italiani; i consumatori del nostro paese, infatti, sono sempre più consapevoli del fatto che prodotti e
servizi hanno un impatto ambientale e sociale e sono quindi interessati a ricevere informazioni sui criteri di scelta di prodotti e marche che siano davvero sostenibili, richiedendo, al contempo, un maggiore impegno, anche da parte del mondo imprenditoriale,
sia nel mettere in atto dei progetti di sostenibilità, sia nel comunicare in maniera chiara
le informazioni in grado di orientarli nelle scelte di acquisto.
In particolare, la maggioranza dei consumatori intervistati (63%) ha sentito parlare di «sostenibilità», anche se solo il 19% ritiene di avere un’idea precisa del reale
significato di questo termine. Fra le tematiche rilevanti, le preoccupazioni relative al
sociale sembrano meno importanti di quelle che concernono l’ambiente (64% vs 83%);
inoltre, secondo gli intervistati, sono in primo luogo le istituzioni ad avere il compito
di promuovere uno sviluppo sostenibile; seguono il governo centrale (86%) e le amministrazioni locali (82%), ma una percentuale molto alta attribuisce tale compito anche
alle imprese (76%) e ai cittadini (73%). In particolare, fra i compiti dei cittadini sono
citati, in ordine di importanza: fare la raccolta differenziata dei rifiuti (87%), spegnere
le luci quando non servono (85%), usare lampadine a risparmio energetico (84%), usare riscaldamento e condizionatori solo quando è necessario (82%), consumare prodotti
di stagione (81%), ridurre l’uso della plastica (80%), riciclare il più possibile (79%),
acquistare prodotti con confezioni ecologiche (77%), acquistare prodotti fatti in Italia
(76%), acquistare prodotti che attestino il loro basso impatto ambientale (72%),
limitare l’uso dell’auto (65%), fare gesti di solidarietà a favore di chi è in difficoltà/
ha bisogno (64%), bere l’acqua del rubinetto invece dell’acqua minerale (59%), fare
volontariato (55%), acquistare prodotti del mercato equo e solidale (52%), acquistare
prodotti biologici (47%), fare donazioni a organizzazioni non profit (43%). Emerge
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quindi anche tra i consumatori italiani una diffusa richiesta di sostenibilità che si può
pensare influisca sulle pratiche di consumo quotidiano.
IV - I CONSUMATORI E LE PRATICHE DI DE-CONSUMO
Nel nostro paese, questi anni di crisi economica hanno portato a una riduzione dei
consumi paragonabile solo a quella del secondo dopoguerra; secondo il Centro studi
di Confindustria (Pesole 2012) la contrazione nel 2012 raggiunge -3,2% pro-capite,
un netto peggioramento rispetto al 2011 con qualche speranza di ripresa per il 2013,
quando i consumi dovrebbero attestarsi al livello del 1997. Il crollo dei consumi delle
famiglie risulta particolarmente rilevante nel campo dei beni (-6,3% dal primo trimestre 2011), mentre è meno preoccupante la riduzione della domanda di servizi (-1,2%).
L’impatto della crisi economica è senz’altro una motivazione molto rilevante per
spiegare il calo dei consumi, ma è innegabile che, da più parti e da diversi anni, si sia
sviluppato anche un trend votato alla diminuzione dei consumi, alla decrescita intesa
come ritorno a uno stile di vita semplificato che spesso viene vissuto come unica soluzione per garantire un futuro alle generazioni che verranno, nonché come un mezzo per
contrastare la perdita di solidarietà (Durkheim 1962) in atto per effetto di molti fattori
creati o accelerati dalla globalizzazione.
4.1. Il ritorno della voluntary simplicity e la scelta del downshifting
Il termine voluntary simpliciy, coniato da Richard Gregg nel 1936, viene ripreso
qualche decennio dopo per descrivere uno stile di vita in cui la crescita interiore e
quella esteriore siano perfettamente bilanciate; uno stile di vita che implica una frugalità nei consumi, il desiderio di ritornare ad ambienti privati e di lavoro che rispettino
una dimensione più umana e l’intenzione di realizzare il proprio potenziale, psicologico ed umano in uno spirito comunitario (Elgin - Mitchell 1977). Già alla fine degli
anni Settanta, quindi, i consumatori individuati, negli Stati Uniti, da Elgin e Mitchell
preferivano «prodotti funzionali, salutistici, non inquinanti, che durassero nel tempo,
che fossero riparabili, che si potessero riciclare o che impiegassero materie prime rinnovabili, che consentissero di risparmiare energia, che fossero autentici, esteticamente
piacevoli e realizzati attraverso una tecnologia semplice» (ibid.: 7), cioè beni che non
corrispondessero agli standard produttivi del mercato di massa. Gli autori, inoltre,
predicevano che la voluntary simplicity avrebbe invece favorito, fra l’altro, il crescere
di una moda che utilizzi materie prime naturali, la diffusione di attrezzature per fare
bricolage, l’attenzione per il cibo naturale, salutistico e fatto in casa, la nascita di associazioni o cooperative i cui membri siano accomunati da un’attenzione particolare al
riciclo, al risparmio energetico, alla riduzione degli sprechi.
Dalla fine degli anni Settanta in poi, il tema è stato affrontato ampiamente in
letteratura, prevalentemente attraverso studi condotti sui consumatori statunitensi
(Dobscha 1998) e inglesi (Shaw - Newholm 2002; Bekin et al. 2005) da cui emergono
pratiche comuni volte alla semplificazione dei consumi a partire dalla scelta del cibo,
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biologico e/o organico, dall’uso di mezzi di trasporto non inquinanti come la bicicletta,
dall’acquisto di abbigliamento e accessori di seconda mano e dal ricorso al riciclo di
oggetti sia per evitare l’accumulo di rifiuti che per allungarne il ciclo di vita. In diversi
studi (Szmigin - Carrigan 2003; Bekin et al. 2005) emerge che l’appartenenza ad una
comunità facilita l’adozione di uno stile di vita votato alla semplificazione (si pensi alle
pratiche di car-sharing o alle coltivazioni in proprio) e mette in luce la volontà di allontanarsi dalle logiche dominanti del mercato e dalle strategie di marketing messe in atto
dalle imprese.
In Italia, negli ultimi decenni le preoccupazioni legate a temi come la disparità
sociale, la scarsità di risorse energetiche e il senso di insicurezza legato alle minacce
terroristiche hanno contributo alla diffusione di una rinnovata voluntary simplicity
che si concretizza nella diffusione di una maggiore coscienza ecologica che spinge i
consumatori a ridurre gli sprechi energetici, a inquinare meno l’ambiente e a limitare
l’impatto dei rifiuti. Da una recente indagine esplorativa condotta su un campione non
probabilistico di 576 consumatori italiani (Mortara - Ironico 2012) è emerso infatti
che il 77,08% (somma di molto d’accordo, completamente d’accordo) degli intervistati dichiara di aderire ad uno stile di vita votato alla sostenibilità e alla riduzione dei
consumi («faccio scrupolosamente la raccolta differenziata», «compro cibo biologico»,
«cerco di contenere i consumi energetici»); l’adesione a questo stile di vita è risultato
massimo per gli uomini (87% contro 74%), e, a livello complessivo, per la fascia d’età
36-55 anni (90%), seguita dagli over 56 (88%), i 26-35enni (80%) e, con ampio distacco, i 18-25enni (37%).
Secondo alcuni autori (Etzioni 1998), il primo passo per l’adesione ad uno stile di
vita votato alla semplificazione è il downshifting, che può essere inteso come la volontà
di ridurre il proprio reddito e quindi di conseguenza i propri consumi (Schor 1998) o
ancora, contrapposto in questo senso a un’istanza di eticità, come la risposta egoriferita allo stile di vita contemporaneo, frenetico e poco soddisfacente (Shaw - Newholm
2002). Le motivazioni che spingono al downshifting sono collegate al desiderio di avere
più tempo libero, o liberato, e al tempo stesso uno stile di vita meno stressato e più
bilanciato (Di Turi 2010; Drake 2010). L’accezione mediatica del fenomeno implica lo
«scalare la marcia» in ambito lavorativo, ovvero ridurre le ore di lavoro o, addirittura,
rinunciare a un lavoro tradizionale per inventarsi una professione che consenta di realizzarsi, spesso all’interno della famiglia o di comunità. In quest’ottica chi sceglie questa
modalità di semplificazione non sfugge alle logiche del mercato, ma si impegna volontariamente in forme alternative di lavoro, di consumo e di impiego del tempo libero
proprio in virtù della gratificazione personale che ne ricava, rimanendo però all’interno
della cultura civica e di consumo (Nelson et al. 2007). Il tema in Italia è venuto alla
ribalta grazie alla «trilogia della libertà» di Simone Perrotti (Ambrosi 2012) che nei
suoi libri descrive la propria esperienza di downshifting che si conclude con l’invito a
«scollocarsi» e ad aiutare gli altri a farlo.
Anche se in maniera indiretta e meno eticamente consapevole (Shaw - Newholm
2002), il desiderio di «vivere una vita con una marcia in meno» comporta necessariamente un impegno che si traduce spesso nella messa in atto di attività di boicottaggio
di beni e servizi prodotti o erogati da imprese considerate non etiche (Elgin 2000),
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nonché nel riciclo e riuso di beni di seconda mano (Nelson et al. 2007). Tali pratiche,
invece, assumono una rilevanza e una presa di coscienza maggiore in tutti quegli atti di
consumo che hanno una chiara matrice critica, responsabile, solidale (Gesualdi 1999;
Bovone - Mora 2007; Leonini - Sassatelli 2008).
4.2. I gruppi di acquisto solidale
Il fenomeno dei GAS – gruppi di acquisto solidali – rappresenta una delle modalità più complete di impegno da parte del consumatore. Presenti in Italia dal 1994, quando il primo apre a Fidenza, i GAS si sono espansi seguendo un tasso di crescita medio
annuo pari al 55,4% (Albanese - Penco 2010) che li ha portati ad oggi a raggiungere le
900 unità (www.retegas.org).
La forma di associazionismo proposta dai GAS trova delle analogie con altre realtà
che si sono sviluppate in paesi diversi come il Giappone negli anni Settanta (il movimento Tei-Kei che si è tradotto oggi nella Japanese Organic Agricolture Association),
l’America e il Nord Europa negli anni Ottanta (Community Supported Agriculture), la
Svizzera (ConProBio) e la Spagna (Grupos Autogestionados de Consumo) negli anni
Novanta, la Francia (l’Association pour le Maintien d’une Agriculture Paysienne) all’inizio del nuovo millennio (Innocenti 2007).
I GAS aggiungono una motivazione di tipo etico, la solidarietà, a una serie di motivazioni di tipo razionale e utilitaristico che sono tipiche del gruppo d’acquisto che si
forma con l’intento di comprare all’ingrosso, e quindi ad un prezzo di favore, prodotti alimentari o di uso comune che gli associati potranno poi ridistribuire tra di loro.
La declinazione solidale si manifesta nella scelta dei prodotti che devono garantire il
rispetto dell’ambiente, e sono quindi biologici o ecologici, e dei produttori che sono
spesso piccole imprese locali, il che riduce l’impatto ambientale dovuto al trasporto e
garantisce un mercato per quei produttori che non hanno accesso alla grande distribuzione organizzata. Fondamentale risulta anche la condivisione e la dimensione collettiva (Martinengo 2007), dato che il GAS offre un contesto particolarmente adatto a
discutere e a confrontarsi su temi come l’adesione a uno stile di vita alternativo, nonché
facilita lo scambio di informazioni e fa leva sulla dimensione dell’empowerment (Shaw
et al. 2006) che si concretizza nella contrapposizione all’impresa di marca e nel sostegno ad una economia solidale.
Una recente ricerca (Albanese - Penco 2010) ha messo in luce come il fenomeno dei
GAS, definito «una nuova «presenza» dei consumatori nella società, presenza che, sebbene
ancora limitata e debole, potrebbe rappresentare un segnale della crescita della centralità
dei consumatori» (Martinengo 2007: 252), ha acquistato una posizione di rilievo. Infatti,
dalla ricerca (Albanese - Penco 2010) emerge come il numero medio di aderenti ai gruppi
di acquisto solidale abbia subito un incremento pari al 123%, passando da poco meno di
20 aderenti nel 2004, a quasi 44 nel 2008. Allo stesso tempo è aumentata la spesa media
annua di un GAS di circa il 63% (da 12.500 € del 2004 a oltre 20.300 € del 2007). Gli
acquisti si concentrano prevalentemente sui beni di largo consumo del comparto agroalimentare, anche se la dimensione etica e responsabile tende a diffondersi anche ad altri tipi
di comparto come quello della moda (Mortara - Ironico 2012).
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V - CONCLUSIONI
La difficile situazione economica in cui versa in nostro paese, e che si è tradotta in un drammatico calo dei consumi, si è innestata su un contesto sociale in cui le
istanze della sostenibilità avevano già provocato significativi cambiamenti non solo a
livello istituzionale e di sistema produttivo, ma anche a livello individuale. Il tema del
consumo sostenibile, inevitabilmente intessuto con quello del consumo responsabile e
critico, si articola in una serie di pratiche votate in qualche modo alla riduzione: riduzione della quantità di beni da comprare, riduzione dei rifiuti, ma anche riduzione della
carriera e del tempo dedicato al lavoro in senso tradizionale. Questa rinnovata spinta
alla voluntary simplicity può tradursi in pratiche che facilitano il riuso, il riciclo e quindi
anche la diminuzione dell’impatto sull’ambiente e la preservazione delle risorse per le
generazioni future. Ma può anche avere una dimensione più politica, in cui il consumare meno (e spesso meglio) implica fare delle scelte che allontanano i consumatori dalle
logiche del consumo di massa e li rendono maggiormente consapevoli del loro potere
come gruppo, associazione, collettività, ridando così nuovo vigore al tema della coesione sociale che nella società contemporanea è stato messo in discussione da più parti.
È altresì evidente che se la preoccupazione per un futuro sostenibile è una preoccupazione «di massa», la traduzione in effettive pratiche rimane un comportamento
ancora di nicchia, appannaggio di consumatori con un livello di istruzione superiore
alla media (Bovone - Mora 2007; Mortara - Ironico 2012) e in possesso di un capitale
culturale elevato (Martinengo 2007). Così come il downshifting viene prevalentemente
effettuato da coloro che partono da una posizione lavorativa privilegiata e di successo,
anche se nuove evidenze (Hamilton - Mail 2003) testimoniano come queste pratiche
stiano crescendo anche all’interno di contesti meno economicamente vantaggiosi.
ARIELA MORTARA
Università IULM di Milano
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