F ran ces co B ottu ri C ondizi oni dell a conviven za interculturale I. Universalismo e multiculturalismo in questione Il multiculturalismo, inteso come problema della convivenza di diverse componenti etniche e culturali, è questione tipica delle società occidentali. Infatti è grazie alla tradizione politica e religiosa di queste che prende rilievo e interesse l’idea che culture e/o popoli diversi possano utilmente convivere. Solo in virtù di una certa cultura universalistica del diritto prende corpo l’ideale di una “libera” convivenza delle differenze, come accade nelle grandi forme della coscienza eticogiuridica occidentale, non a caso dialetticamente connesse tra loro: la tradizione latina dello ius gentium, quella medievale del “Sacro Romano Impero”, la concezione illuministico-liberale dei diritti soggettivi. È facile constatare che fuori dalla grande tradizione occidentale il problema del multiculturalismo neppure si pone1. Questa osservazione va subito premessa, per evitare il pensiero che la questione del multiculturalismo sopravvenga dall’esterno della cultura occidentale, come una sua contestazione che di principio ne mette a repentaglio la sopravvivenza. Ciò significa che un atteggiamento critico nei confronti del problema multiculturale è affrontabile solo all’interno della prospettiva della cultura universalistica occidentale, essendo illusorio andare alla ricerca di un principio di convivenza alternativo ad esso. La questione centrale è, dunque, se si dia la possibilità di un universalismo attivo ed efficiente all’interno dell’attuale situazione storica determinata. 1 R. Girard ha messo in evidenza la tipicità distintiva occidentale di sapersi rappresentare in modo autocritico attraverso la messa in scena di un “altro”, una sorta di doppio oppositivo, come avvenne ad esempio con la dottrina-mito del “buon selvaggio” nel XVIII secolo. «Gli occidentali, insomma, - scrive Girard - hanno inventato un nuovo modo di concepire il rapporto tra la loro cultura e le culture straniere, un modo contrario all’autoesaltazione che è tipica di ogni civiltà». Si può dire infatti che «al di fuori dell’Occidente l’autocritica culturale […] non esista o rimanga allo stato embrionale» (R. Girard, L’Altro. Occidentali contro l’Occidente, in “Il Sole 24 Ore”, 30.XII.2001, p. 29). Anche R. Spaemann parla dell’«autorelativizzazione» come capacità autoriflessiva, caratteristica della cultura ccidentale (cfr. Das Naturliche und das Vernunftige, München 1987, p. 8). 1 La difficoltà di maggiori proporzioni è costituita dal fatto che il problema multiculturale si presenta nel contesto di un’inedita forma di globalizzazione. Benché immediatamente antitetici, i due fenomeni - quello multiculturale e quello del globale - si richiamano e si sostengono l’un l’altro. «Legato a logiche identitarie il primo - scrive ad esempio E. Pariotti -, descrivibile sulla base del modello dell’agire strategico il secondo; rinviante al passato e alla tradizione il primo, tutto centrato sul presente il secondo; mirante a costruirsi delle differenze il primo, tendenzialmente omogeneizzante il secondo» 2. L’attuale globalizzazione è un fatto storico “inedito”, per la sua stessa natura costituita da fattori eminentemente tecnici (tecnologia informatica, tecnologia militare, mercato economico e finanziario, ecc.), cioè fondata su generalità pratico-operative, che di per sé non veicolano universalità ideali. Tale globalizzazione non è portatrice di una cultura universale, ma solo di pratiche generalizzabili, che come tali non possono assurgere al ruolo vero e proprio di cultura. Le tecnologie infatti hanno certamente una loro universalità settoriale, ma non sono in grado di costituire principio di unificazione di un’intera forma di vita. Di conseguenza, una cultura integralmente tecnologica è possibile solo come ideologia tecnocratica, cioè come universalizzazione (essenzialmente violenta) del potere tecnologico. Ma una globalizzazione senza universalità culturale non è in grado di unificare le differenti tradizioni antropologiche che incontra sul suo cammino e che essa stessa toglie dall’isolamento e mette a contatto; di conseguenza all’unificazione tecnico-pratica del mondo rischia di accompagnarsi una frammentazione culturale inedita, che secondo i momenti e le circostanze può viversi con rassegnata passività o con rabbiosa rivendicazione. In queste condizioni quale configurazione potrebbe trovare la situazione multiculturale che in modo sempre più diffuso caratterizza il mondo contemporaneo presente e futuro? Da questo punto di vista la situazione multiculturale - nonostante la sua specifica complicazione etnica - non presenta un problema politico diverso da quello tradizionale del pluralismo culturale intrasocietario, ovvero la possibilità di una convivenza regolata di una pluralità di concezioni sostantive del bene, nessuna delle quali può rivendicare un primato istituzionale. Abbiamo parlato finora di “problema” o di “situazione” multiculturale, perché non sembra che il multiculturalismo sia in se stesso una soluzione, bensì solo il nome di un problema. 1) Ipotesi del pluralismo 2 E. Pariotti, Multiculturalismo, globalizzazione e universalità dei diritti umani, in “Ragion pratica”, 16 (2001), p. 63. 2 multiculturale. Il progetto della coesistenza di diverse tradizioni etniche, religiose e culturali, sulla base del solo riconoscimento del loro diritto all’esistenza non è risposta adeguata al problema della convivenza. Una società fondata su una pluralità di culture, senza un livello di unità più fondamentale è impossibile di principio, tanto quanto una società fondata solo su una globalizzazione su base tecnologica. A conferma si può osservare che le politiche multiculturali così intese conducono al risultato - sociologicamente già attestato - non dell’integrazione, ma della giustapposizione delle comunità, ad una convivenza senza rapporti, meglio ad una coesistenza passiva, che scivola verso l’estraneità tra le comunità, l’emarginazione della comunità più deboli, la segregazione di quelle più coese, l’esaltazione del potere autoritario di capi-comunità, la costituzione di poteri occulti incontrollabili, forme di illegalità protetta, ecc. (cfr. la coesistenza di comunità etnico-linguistiche senza contatto come risultato controeffettuale del melting pot statunitense) 3. 2) Ipotesi integrazionista. D’altra parte, non è alternativa valida al progetto multiculturalista un modello di convivenza secondo il principio della massima assimilazione possibile ad una delle tradizioni in gioco, principalmente a quella del paese di immigrazione. 3) Ipotesi della laicità di Stato. Ma neppure lo è un progetto di massima neutralizzazione possibile del rilievo pubblico delle specificità culturali in rapporto ad una cittadinanza “laica”, secondo il paradigma francese4. Questo modello suppone una riducibilità delle differenze che non sembra né realistico, in relazione all’aspettativa pubblica delle culture, né giustificato teoricamente, per quanto diremo. 4) Ipotesi dell’ interculturalità neoliberale. Si tratta perciò di pensare ancora una volta il rapporto tra identità e differenze, secondo una prospettiva costruttiva che possiamo definire piuttosto di interculturalità , per indicare il processo di interazione e di sinergia, in cui le differenze trovino la forma efficace della loro unità. Con l’avvertenza, per noi importante, di distinguere due piani di considerazione connessi, ma irriducibili. La questione dell’interculturalità, infatti, si definisce anzitutto come fondazione e cura dello spazio (politico) delle relazioni interculturali, da tener distinta dalla partecipazione e dal protagonismo di identità (culturali) specifiche entro uno spazio interculturale comune. È chiaro, infatti, che lo spazio politico dell’intesa interculturale è di natura operativa e non sostantiva; mentre un’identità culturale implica l’impegno 3 cfr. E. Colombo, Le società multiculturali, Carocci, Milano 2002. 4 Cfr. in proposito il rapporto della Commissione Stasi, su cui si è modellata la legge francese sul comportamento religioso pubblico. 3 di una concezione “comprensiva” (secondo la terminologia di J. Rawls) fortemente caratterizzata. Tra i due piani d’altra parte vi è una relazione forte, costituita dal fatto che né è possibile prefigurare efficacemente la forma dalla convivenza politica secondo un progetto aprioristico indipendente da uno scambio reale tra le culture, né è pensabile che vi sia un passaggio a livello socio-culturale un passaggio dalla coesistenza di fatto alla convivenza interculturale senza una forma politica regolatrice degli scambi. L’elaborazione critica dell’ipotesi interculturale richiede, dunque, un duplice piano di considerazione: uno antropologico fondamentale, su cui giustificare l’idea dell’identità relazionale umana ed un secondo su cui costruire la figura della relazione politica delle diverse identità coesistenti. II. Condizioni antropologiche dell’identità relazionale: narrazione, riconoscimento, potere, interpretazione Il paradigma moderno della relazione umana e politica come conflitto, solidale con il modello della concorrenza mercantile dell’homo oeconomicus e con quello dello Stato pacificatore e controllore, si scontra con la nuova configurazione mondiale della globalizzazione, in cui la potenza tecnologica e l’universale interrelazione rendono il conflitto una realtà sempre più catastrofica. La nuova situazione richiede una profonda revisione antropologica ed etica, che il pensiero contemporaneo ha avviato da tempo. Non mancano i tentativi di concepire l’alterità come pura differenza, in cui la misura della relazione sia omessa o subordinata. Pensiamo alle posizioni che esaltano come tale la differenza (come in certe autorappresentazioni della marginalità metropolitana), oppure alle proposte di riconoscimento culturale e giuridico delle culture immigrate secondo l’esclusivo criterio della loro esistenza di fatto (come nella prospettiva multculturalista dei cd “diritti delle culture”). Il superamento della logica tautologica o monologica dell’identità non consiste però nel suo rovesciamento nel primato della differenza, ma in un rinnovato pensiero dell’identità relazionale o della differenza identitaria, cioè dell’insuperabile relazione di identità e differenza. Il dibattito tra identità e differenza, tra medesimezza e alterità è sterile, finché non si concilia nel primato della loro relazione, che implica sicuramente una certa sintesi (unità dell’identità e della differenza), che tuttavia non è a disposizione dell’identico o del differente, bensì rimane 4 aperta al processo della loro mediazione5. Il pensiero e la prassi della modernità, infatti, hanno fallito (anche tragicamente), quando hanno cercato di compiere una totalizzazione a partire dal lato dell’identità separata. Tuttavia la rinuncia postmoderna ad ogni totalizzazione a favore dell’affermazione della pura differenza non è risposta adeguata, perché si risolve contraddittoriamente in una forma ancora moderna di totalizzazione a partire dalla sola differenza: il sistema concentrazionario e quello della dispersione sono sistemi simmetrici. Il mondo della pacificazione totalitaria non è più problematico di quello della pluralità senza centro delle differenze nomadi o passive, in cui ogni singolarità funziona come un intero senza relazioni. La linea costruttiva sta invece nella elaborazione del tema della soggettività relazionale. L’idea più feconda sembra, infatti, quella di ripensare la figura dell’altro in termini di relazione, in cui identità e differenza possano trovare conciliazione. Questo compito si può eseguire attraverso l’analisi di quattro categorie antropologiche fondamentali per la costruzione e l’esercizio di un’antropologia relazionale. 1) Identità e relazione narrative. Un modo per rappresentare concretamente l’identità relazionale dei soggetti (sia individuali, sia sociali) è di considerarla come costruzione narrativa, in cui la funzione dell’identità fondante e dell’alterità differenziante hanno entrambe un ruolo capitale. Il narrarsi, infatti, è sempre espressione di un’identità peculiare, che fa anche riferimento ad una tradizione narrativa, in cui da sempre si è narrati da altri. Narrarsi ed essere narrati da altri sono, perciò indissolubilmente legati e sono condizioni indispensabili per essere in grado di narrare sé ed altro da sé. Inoltre, il narrarsi richiede, oltre ad una capacità di autorappresentazione, anche una capacità di autotrascendenza, cioè di relazionamento ad una rappresentazione altra di sé. Il tal modo il circolo dell’interpretazione narrativa include sé e l’altro come momenti di un unico avvenimento sempre in atto. 2) relazione di riconoscimento. Se la soggettività (analogicamente individuale e sociale) ha tale struttura relazionale e narrativa, è possibile comprendere che essa si dia costitutivamente nella forma del riconoscimento. La relazione, infatti, non è un atto “disinteressato”, ma è mossa dal bisogno dell’essere riconosciuti e dal bene del riconoscere. Non perché il riconoscimento conferisca come tale l’identità, ma perché 5 L’unica totalizzazione coerente può essere pensata solo in termini di totalità autenticamente trascendente, cioè in grado di contenere, anzi di porre, sia l’identità sia la differenza dell’ente. Questa è la radice per cui la compossibilità degli identici-differenti, come anche nel caso della convivenza delle culture, ha in un’autentica religiosità la sua massima possibilità. 5 (nella sua normalità) la attiva e la verifica in continuazione. Infatti, l’identità che si sottrae alla legge del riconoscimento (attivo e passivo) finisce necessariamente o nella tautologia universalista integralista o nella chiusura comunitaria localistica convenzionale-procedurale con o altri nel rapporto oppure in solo qualche pattizio, confusa combinazione di tutto ciò. Invece, la relazione di riconoscimento è un atto che impegna come tale una soggettività e la sua libertà e che si rivolge ad altra libertà. Essa è dunque suscitata da un bisogno elementare, a cui si risponde però solo in termini di libertà. Da questo punto di vista il fatto (antropologico e politico) del multiculturalismo pone di principio l’esigenza di relazione tra narrative (culture) che hanno bisogno di riconoscersi reciprocamente nella loro identità-diversità e nella loro libertà. L’esigenza diventa problema quando le narrative non trovano in se stesse ragioni sufficienti per una relazione di libero riconoscimento e quindi si pongono solo o come racconti esclusivi o come racconti inclusivi dell’altro. 3) Relazione di potere. Il pregio della riflessione moderna è stato di evidenziare quanto radicalmente la relazione di riconoscimento sia un fatto di potere nell’esistenza umana; anzi, che essa costituisce l’evento stesso del potere nell’esistenza. Se nelle relazioni ci si attende una conferma ed una rivelazione di sé, una propria significativa interpretazione, una crescita della propria storia narrativa; se, in breve, il riconoscere significa in qualche misura ricevere identità da altri e assegnarla ad altri, esso è necessariamente un esercizio di potere di altri e su altri. Potere efficacissimo, che possiede in qualche modo l’altro dall’interno. Come scriveva M. Foucault in pagine divenute famose e oggi forse troppo dimenticate, il potere, quello reale, non è attributo delle istituzioni, ma «transita» nei rapporti umani6. Si comprende la ragione per cui il potere del riconoscimento possa costituire hegelianamente campo di lotta mortale tra gli uomini. È attraverso il riconoscimento infatti che si diventa “altri” per qualcuno, 6 «Il potere - dice Foucault - […] non è qualcosa che si divide tra coloro che lo posseggono e lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno e lo subiscono. Il potere […] non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare. E nelle sue maglie gli individui non solo circolano, ma sono sempre in posizione di subire e di esercitare questo potere, non sono mai il bersaglio inerte o consenziente del potere, ne sono sempre gli elementi di raccordo. In altri termini, il potere transita attraverso, non si applica agli individui» e le stesse istituzioni hanno presa sui soggetti in quanto sono veicolo e vincolo di questa sostanza del potere (Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, 184). Ciò che Foucault afferma in chiave nettamente impersonalistica, credo che possa essere trascritto con maggior fondamento in una teoria del riconoscimento personale. 6 essendo in tal modo confermati e ammessi nella propria identità. Per questo la figura etica e sociale positiva del riconoscimento è quella, antica e sacra, dell’“ospitalità”7. Ma nella misura in cui il potere del riconoscimento non viene esercitato oppure è esercitato come dominio, da ospitalità si trasforma in espropriazione o in appropriazione. Non sorprende allora che dopo Hegel la questione del riconoscimento sia tornata al centro di teorie politiche come quelle di J. Habermas8, di Ch. Taylor9 e di A. Honneth10, attente anche al problema del multiculturalismo. Più di altri Honneth elabora la figura del riconoscimento, ripresa dalla filosofia hegeliana dello spirito jenese, come categoria in grado di connettere il vissuto soggettivo e la condizione sociale, in termini descrittivi ed assiologici insieme. Come categoria, cioè, in grado di unificare la formazione dell’identità soggettiva (di cui il riconoscimento intersoggettivo è condizione indispensabile) e l’interrelazione sociale, superando in radice la dicotomia di etica privata ed etica pubblica ed una concezione della libertà solo negativa: l’autonomia soggettiva non coincide affatto con un’assenza di condizionamenti, bensì è raggiungibile solo attraverso il buon condizionamento della relazione positiva con altri. In tal modo - osserva in proposito L. Cortella - un’etica del riconoscimento come quella prospettata da Honneth si salda in modo interessante con un’etica universalistica dei diritti e diventa una base credibile di regolazione delle relazioni sociali11. 4) Relazione ermeneutica. Il potere del riconoscimento si esercita come interpretazione da altri e di altri. L’alterità infatti non si dà mai in una neutra oggettività, perché l’essenziale relazionalità dell’identico e del differente implica il reciproco condizionamento e questo pone i due in una situazione di insuperabile reciproca particolarità. Inevitabilmente ciascuno percepisce l’altro all’interno della sua prospettiva e non può stabilire alcun riconoscimento se non interpretandone il senso anche in rapporto a se stesso. Da ciò è scorretto trarre una conseguenza relativistica, perché la prospetticità ermeneutica della relazione non esclude di principio la 7 Cfr. J. Derrida-A Dufourmantelle, Sull'ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2000. 8 J. Habermas, “Lotte per il riconoscimento” nello stato democratico di diritto, in “Ragion pratica”, 3 (1994), pp. 132-165. 9 Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, tr. it. Anabasi, Milano 1993. 10 A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, tr. it. Il Saggiatore, Milano 2002 e Idem, Riconoscimento e disprezzo. Sul fondamento di un’etica post-tradizionale, Rubettino, Catanzaro-Messina 1993. 11 L. Cortella, Etica dl discorso ed etica del riconoscimento, in AA.VV., a cura di C. Vigna, Libertà giustizia e bene in una società plurale, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 239 sgg. 7 capacità di cogliere verità e valori autenticamente universali. Anzi, si deve legittimamente sostenere che l’universale e l’assoluto possono essere colti solo attraverso la mediazione della prospettiva particolare e che dunque non c’è alternativa, ma reciprocità tra interpretazione e verità12. Questo non contrasta con il fatto che la verità dell’uno appare e non può non apparire all’altro nelle forme e nella misura della sua interpretazione di parte, e quindi in prospettiva particolaristica, sia dal punto di vista cognitivo, sia da quello pratico dell’interesse al proprio riconoscimento con cui ciascuno sta nella relazione. Perciò la “situazione ermeneutica” di ogni cultura nulla toglie al possibile valore della convinzione che ciascuna ha d’essere portatrice di universali, al possibile valore delle argomentazioni con cui ciascuna intende sostenere e difendere i propri universali, a quello ancora dei giudizi assiologici con cui ciascuna misura le altre culture (accettandone ed escludendone aspetti e dimensioni), al possibile valore della legittima persuasione della propria relativa superiorità, ecc. La consapevolezza della “situazione ermeneutica” semplicemente impedisce di dimenticare che non basta l’autoconvincimento della propria universalità per farla valere. Piuttosto la dimensione ermeneutica dell’interazione rende manifesta l’indispensabile componente etica della relazione. È evidente infatti che la giusta disponibilità all’interazione interpretativa non è affidabile ad istituzioni e procedure, ma queste esigono al contrario la buona volontà del confronto, più precisamente una certa virtù civile. In definitiva, ciò che è sicuramente universale e da tutti immediatamente riscontrabile è la stessa situazione ermeneutica dei soggetti e delle loro comunità, con ciò che essa comporta di relazione di riconoscimento e di potere. Di conseguenza è acritica ed autoritaria, oltre che tendenzialmente fondamentalista, una cultura che non abbia raggiunto la coscienza della universale “situazione ermeneutica”, in cui anch’essa comunque si trova; che non abbia riconosciuto che la condizione comunicativa basilare (anche tra le culture) è la libertà e il suo rispetto; che in un rapporto interpretativo l’assenza di libertà è violenza; che perciò la legittima pretesa di verità di ogni cultura può proporsi anzitutto nella forma della testimonianza di sé e delle proprie ragioni. L’universale ermeneutico , infatti, lungi dall’essere separazione e ostacolo, è invece massimamente accomunante; e perciò di per sé richiede e sollecita il passaggio dalla testimonianza al dialogo, alla discussione critica, all’accettazione o al rifiuto delle argomentazioni e all’approvazione 12 o disapprovazione dei costumi altrui, alla È questa la tesi fondamentale di L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971. 8 fusione/contaminazione oppure alla separazione delle forme culturali, ecc. In tal modo la comune accettazione della condizione di rapporto interpretativo (secondo libertà e testimonianza) conduce all’interesse vitale per un processo interattivo, per un dialogo, ad esito sempre aperto. In breve, è la comune situazione ermeneutica che rende possibile e necessario stabilire un processo interattivo, essenziale per la vita delle diverse identità culturali, che A. MacIntyre chiama “dialettica delle tradizioni”. III. Condizioni politiche dell’identità relazionale: società civile e comunicazione politica All’interno della tradizione liberale bisogna ricavare a questo punto un duplice spazio, quello della presenza sociale delle etnie multiculturali e quello della loro comunicazione politica. La prima questione coincide con l’inedito rilievo che la situazione multiculturale dà alla “società civile”, una volta chiarito che non si può pensare la soluzione del multiculturalismo semplicisticamente in termini di assimilazione delle differenze ad un soggetto pubblico dominante. Lo schema classico nella modernità incentrato sulla polarità di Stato (pubblico e universale) e società mercantile (privato e particolare) deve lasciare il posto alla tripolarità incentrata sulla società civile, composta dalle molte soggettività reali in costante riorganizzazione pluralistica e da oggi augurabilmente - impegnate in un’ordinata e produttiva interculturalità. La questione multiculturale infatti non riceve risposta adeguata né in termini di solo inserimento lavorativo dello straniero nel ciclo del libero mercato (anche perché l’immigrato contemporaneo non è semplice forza lavoro straniero in cerca di impiego, ma si presenta e si mantiene per lo più come soggetto appartenente a particolari comunità etniche e culturali13), né come pura cittadinanza statuale formale, bensì trova prospettiva innanzitutto a livello di reale dialettica civile. Questa però è davvero possibile nella misura in cui matura una coscienza civile che non accetta la partizione tradizionale del pubblico statuale e del privato mercantile, ma rivendica attraverso il proprio protagonismo sociale la consistenza, anzi il primato del pubblico civile non statale come primario ambito storico e politico. 13 Come osserva B. Amodeo, Immigrazione e cittadinanza: tra integrazione e politica delle differenze, in AA.VV., a cura di G.L. Brena, Multiculturalismo dialogico?, cit., p.145. 9 Questo significa anche ripensare il ruolo pubblico civile delle religioni14 - fortemente implicate nel fenomeno multiculturale - in direzione del superamento della divaricazione moderna di religione e politica (obsoleta dopo la crisi delle ideologie, cioè delle religioni politiche sostitutive), non in senso integralistico, ma come agenti culturali della dialettica civile fondamentale. La seconda questione conduce alla comunicazione sociale come fatto fondamentale e patrimonio comune, attivo e significativo prima di ogni pattuizione e regolamentazione riflessa. Il punto di partenza è un evento complesso che precede ogni decisione e che costituisce un bene già da sempre condiviso, il fatto cioè di essere inseriti in una in una complessa rete di azione comune, di interlocuzione, in breve di comunicazione sociale. Si potrebbe obiettare che nella situazione multiculturale collaborazione e cooperazione sono piuttosto circostanza da raggiungere piuttosto che punto di partenza. Ma questo è vero per i modi auspicati della comunicazione, piuttosto che per il fatto del comunicare, che esiste necessariamente già nel contatto tra appartenenti a tradizioni etnicoculturali differenti. Per quanto occasionale, frammentario, sospettoso, insicuro esso sia, un minimo di scambio comunicativo tra i diversi già esiste; salvo che la situazione sia già degenerata in emarginazione o conflitto. In altri termini, vi deve essere una positiva scelta di non comunicazione, perché il presupposto fondamentale e fattuale venga tolto e dunque non sia più possibile alcuna operazione ulteriore15. Ma l’evento sociale fondamentale diventa politico nella misura in cui lo si assume consapevolmente e volontariamente come “bene comune”. La comunicazione tra le tradizioni, i gruppi (ma anche gli individui che volessero considerarsi unicamente come tali) è l’interfaccia tra il sociale e il politico. Essa, infatti, è il fatto sociale originario che diventa anche il fatto politico primario, nel momento in cui viene riconosciuto come evento che comunque accomuna e che è bene (al limite anche come minor male) che venga assunto e promosso volontariamente. Il passaggio al politico non comporta se non la presa d’atto condivisa di ciò che già accomuna, cioè di quel comune che è l’essere in rapporto comunicativo, assunto come patrimonio che vale la pena (cioè anche la fatica e l’impegno) di preservare e di incrementare. Si veda in particolare P.P. Donati, Pensare la società civile come sfera pubblica religiosamente qualificata, in AA.VV., a cura di C. Vigna - S. Zamagni, Multiculturalismo e 14 identità, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 51-106. 15 Resta aperta invece la questione socia le e politica della capacità di rea le ed efficace “comunicazione” da parte di soggetti (singoli e comunitari) immigrati, che sono grava t i dai problemi dell’elementare sopravvivenza, in crisi di identità culturale, senza appartenenza rea le oppure con appartenenza culturale primitiva, ecc. e quindi non in grado d’essere interlocutori rea li. 10 In sintesi, il corpo politico nasce, quando si assume il “fatto relazionale” di cui si è parte, come “bene comune”; quando, assumendo in modo consapevole e strumentato la comunicazione sociale spontanea o storicamente determinatasi, si istituisce come fine comune il perseguimento della comunicazione sociale stessa. In tal senso il politico sorge come autofinalizzazione consapevole della società umana. Vi è dunque un senso primario del bene comune, che sta a fondamento del politico, che si adatta pienamente ad ogni tipo di società anche quella del pluralismo postmoderno e del multiculturalismo etnicoculturale, perché non chiede nessun preventivo accordo su contenuti di valore, che non siano il valore stesso dell’essere in società. Il politico coincide a questo livello con l’istituzione permanente dello spazio della comunicazione, cioè del confronto tra i diversi, della cooperazione e del conflitto stesso in quanto riconosciuto e regolato. La normatività del politico gli è intrinseca, scaturendo appunto dalla volontarietà dell’assunzione del fatto accomunante della comunicazione. È l’elemento della volontarietà che fonda il vincolo e crea l’obbligazione ad attenersi a tutto ciò che è funzionale alla finalità assunta e condivisa. Ciò che “accomuna” diventa regolativo delle relazioni: in quanto “bene”, esso va perseguito come finalità razionale sottratta alla precarietà dei rapporti spontanei e come tale va sancito, affinché le norme di una comunicazione vengono assunte come regole direttive del patto politico fondamentale. Ciò significa anzitutto che il bene della comunicazione traccia il confine della partecipazione politica, distinguendo quanti ne riconoscono il vincolo da quanti invece, non riconoscendolo, se ne escludono. In tal senso risulta subito l’inconsistenza politica di una società multiculturale come convivenza di qualunque componente culturale (fondamentalismo, anarchismo, terrorismo, separatismo, settarismo occulto, ecc. sono immediatamente esclusi, perché contraddittori con il criterio fondamentale della convivenza politica). Il bene della comunicazione ha poi in sé ulteriori condizioni, che vengono a costituire altrettanti vincoli normativi. Esso è per sua natura illimitatamente aperto e dunque include di principio ogni possibile partecipante, senza discriminazione preventiva; di conseguenza, esige che siano garantite tutte le forme di libertà di partecipazione; quindi, che sia garantita le giustizia nell’accesso e la distribuzione dei mezzi necessari all’esercizio dello scambio, della collaborazione, del confronto; similmente, vanno preservate e difese le condizioni per la realizzazione della comunicazione, contro le sue violazioni violente e le sue contraffazioni subdole; ecc. 11 Questa prospettiva di istituzione pratica minima del politico non si conclude con il suo profilo costituzionale formale, perché essa è internamente aperta ad accogliere tutti quei contenuti valoriali che le diverse tradizioni, secondo la concreta storia comune, si trovassero a condividere. Se, infatti, la condivisione del vincolo comunicativo come tale è l’assoluto istitutivo della convivenza politica, l’incontro-scontro delle diverse tradizioni e concezioni comprensive delimita un campo relativo di condivisioni e di esclusioni che si definisce e si ridefinisce su base di negoziazione storica. A questo livello il bene comune non è più solo formalmente la comunicazione sociale, ma si riempie di contenuti (beni economici, istituzioni, pratiche sociali, patrimoni valoriali, morali, spirituali) diversamente individuati secondo i differenti contesti culturali, le mutevoli circostanze storiche e le specifiche contrattazioni politiche. In tal modo sul canovaccio stabile del progetto condiviso e regolato di comunicazione il pluralismo può trovare lo spazio delle sue innumerevoli variazioni, senza subire la coazione di impossibili omogeneità, ma anche senza distruggere pericolosamente lo spazio della sua esistenza politica. I vantaggi di questa prospettiva teorica applicata al problema del multiculturalismo sono molteplici. Innanzitutto, risponde al problema principale che muove la riflessione sull’argomento, cioè la questione di un criterio unificante che non po’ essere meramente procedurale (per non essere inefficiente) e che non può essere neppure una concezione “comprensiva” o un’identità “sostantiva” dell’esistenza, che dovrebbe essere imposta come condizione di appartenenza alla società politica. La comunicazione sociale come “bene comune” è “interesse” concreto delle parti in causa e non mera procedura; d’altra parte, pur essendo un bene riassuntivo di tutti gli altri beni sociali, non implica qualche particolare concezione del mondo, né piani di vita specifici (e neppure determinate giustificazioni teoriche del ”bene comune” stesso). Piuttosto la comunanza nel bene della comunicazione è di per sé un atto di ragion pratica pubblica, suscettibile di molte giustificazioni teoretiche, ciascuna delle quali resterebbe interna alle prospettive delle diverse “tradizioni” culturali o “concezioni comprensive”. La comunanza nel bene formale e normativo del comunicare sociale sta a fondamento della convivenza come un atto di ragion pratica politica, che non si sostituisce alle sue plurime (e conflittuali) legittimazioni speculative. La società politica di cui si è detto può essere definita con F. Viola «il luogo della comunicazione delle diversità al fine di raggiungere un’intesa 12 sul giusto e sull’ingiusto» 16. Una tale definizione del politico permette di giustificare pienamente la distinzione habermasiana tra «integrazione politica» o «assimilazione come approvazione dei princìpi costituzionali» e «integrazione etica» o «assimilazione come […] acculturazione» delle diverse appartenenze culturali17. L’unità delle differenze nella nostra prospettiva è cercata solo a livello politico sulla base della comune partecipazione alla società politica, mentre le differenze culturali sono lasciate a livello sociale al libero gioco della loro diversità, del loro confronto, del loro conflitto regolato, della loro negoziazioni. In tal modo il luogo politico della comunicazione non pretende di assorbire in sé ogni forma relazionale, ma ambisce piuttosto ad essere garanzia degli scambi storici delle culture e del loro ordinato svolgimento. Questo permette di risolvere anche il problema dei cosiddetti “diritti culturali” delle tradizioni, evitando l’eccesso di intenderli come diritto apriori alla sopravvivenza (si direbbe secondo il modello della conservazione delle specie naturali tipico della “deep ecology”). Le culture sono storiche e quindi hanno cicli vitali, non predeterminati, né predeterminabili (quanto al loro declino, ma anche quanto alla loro sopravvivenza ed al loro sviluppo). L’appartenenza ad una società politica garantisce l’equo diritto all’organizzazione, all’espressione, alla difesa. Ma lascia anche la libertà del gioco delle forze e delle prevalenze, Compresa la prevalenza della componente culturalmente maggioritaria di una società, che normalmente è anche la protagonista della storia di una società e del suo stato nazionale e che, quindi, ha il dovere di ammettere alla comunicazione politica quanti lo chiedono e si trovano nelle condizioni di farlo, ma ha anche il diritto di proteggere e proporre il proprio patrimonio di storia, di cultura, di tradizioni, di costumi, ecc. in un leale confronto e con una schietta negoziazione con i sopravvenuti. Sarà la dialettica sociale e culturale - in condizioni di equità di interlocuzione - a decidere le prevalenze e/o le mescolanze nella lunga durata. In generale non si tratta dunque di preservare o di promuovere le differenze perché tali, bensì di porre le condizioni politiche affinché queste possano preservarsi e autopromuoversi e confrontarsi, secondo le loro reali capacità. In sintesi, impostare il problema del multiculturalismo secondo il criterio della “comunicazione politica” interculturale permette di salvare 16 F. Viola, Crisi della politica come comunità di vita, in “Dialoghi”, 1 (2001), p. 45; cfr. più ampiamente F. Viola, Identità e comunità. Il senso morale della politica, Vita e Pensiero, Milano 1999. 17 J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. Habermas- Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 93 e 98-99. 13 sia il valore della differenza, sia il principio della pari dignità, secondo una formula del tipo: garanzia dei diritti e dei vincoli delle differenze culturali nella pari dignità della loro partecipazione politica. Per questo probabilmente non si tratta di scegliere tra una società pluralista ispirata al criterio limitativo della tolleranza passiva e una società multiculturalista ispirata al criterio della valorizzazione apriori delle differenze culturali, ma di garantire una partecipazione politica alla comunicazione sociale, in cui possa svolgersi liberamente un processo interculturale. Infine, il fatto che l’ampliamento dello spazio pubblico alla società civile e il conseguente protagonismo dei soggetti sociali, dotati delle loro identità e differenze, non implica l’“alleggerimento” della funzione statale a sola gestione amministrativa della cosa pubblica. Al contrario, le attribuisce anche un compito di politica culturale conseguente ai criteri implicati nella sua specifica funzione di garante dello “spazio pubblico”. Superata infatti la finzione della neutralità assoluta delle procedure, il potere pubblico statuale si ritrova a doversi far carico dei valori implicati nella stessa metodologia democratica, oltre a quelli più prossimi e condivisi dalla maggioranza della tradizione nazionale. In concreto, il fenomeno storico dell’interculturalità - come forma multiculturale di una “politica dell’alterità” - risulta dalla sinergia di due fattori: la libera dialettica civile tra i reali soggetti sociali, culturali e religiosi e l’intervento pubblico statuale, che deve prendere decisioni in ordine alla convivenza delle differenze, facendo riferimento al patrimonio di valori di cui è espressione. Da questo punto di vista sembra giustificato - secondo il suggerimento di S. Zamagni18 - che l’istituzione pubblica, in relazione agli interventi giuridici ed economici che le competono, discerna con un giudizio in costante aggiornamento ciò che di una data identità culturale è solo «tollerabile», ciò che è anche «rispettabile» e ciò che invece è pienamente «condivisibile». 18 S. Zamagni, Migrazioni, multiculturalità e politiche dell’identità, in AA.VV., a cura di C. Vigna e S. Zamagni, Multiculturalismo e identità, cit., pp. 247 sgg. 14