Forni da ferro o fürni
Il più antico sistema di fusione dovette essere quello del forno a cumulo, ottenuto
accatastando il minerali in pezzi e il carbone di legna, ricoprendo di terra e di argilla il
tronco di cono così ottenuto, aperto in cima e con fori di tiraggio in basso. Questi forni
rudimentali, distrutti dopo la fusione, non raggiungevano mai temperature superiori ai
900°. A questi livelli termici il ferro non fonde, ma si presenta come una massa pastosa e
spugnosa (blumo) che raffreddata produce ferro dolce, tenero e con una bassa resistenza
alla trazione, quindi non adatto alla forgiatura di attrezzi. Il massello di ferro così ottenuto,
pari al 10% del metallo contenuto nel minerale, doveva essere battuto nelle fucine, sia per
eliminare le scorie, sia per essere reso compatto. Questo perché la lavorazione all'incudine
porta alla diffusione del carbonio negli strati superficiali rendendo il ferro acciaioso, cioè
elastico e resistente.
L'aumento della produttività dell'attività siderurgica era strettamente connessa con
l'evoluzione delle tecniche di fusione. Così i forni sono diventati nel medioevo strutture
stabili in muratura con ventilazione (l'aria forzata era necessaria per elevare le
temperature) ottenuta da mantici sempre più potenti e successivamente con le trombe
eoliche o can de l’òre: impianti per la produzione di aria compressa. L'acqua, cadendo con
violenza all’interno di un grosso tamburo circolare in legno o pietra e battendo sul fondo,
costituito pure da una pietra bombata, generava forti correnti d’aria che, attraverso ‘l oràal
ed ingegnose condutture, una volta fatte con tronchetti di resinose, erano indirizzate per
ravvivare la combustione di forni e fucine.
Questi miglioramenti aumentano la resa fino al recupero quasi totale del metallo contenuto
nel minerale.
I forni, che crescono di numero, vengono spostati nelle valli, presso i torrenti, le cui acque
servivano non solo per ravvivare la combustione nei forni ma anche per azionare i grossi
magli, necessari per la battitura e forgiatura.
Con l'uso delle trombe eoliche era possibile raggiungere temperature più elevate, dai forni
usciva ferro fuso contenente percentuali sempre più elevate di carbonio per cui non si
otteneva più ferro dolce ma ghisa. I forni diventano strutture complesse e costose
(raggiungevano anche i sei metri di altezza) ed erano utilizzati anche da più imprenditori
che portavano al forno il proprio materiale e il proprio carbone. Questi forni cosiddetti alla
bergamasca funzionavano ininterrottamente anche per sei e più mesi all'anno.
Nel 1600 quelli presenti in Valsassina erano sei.
In Val Varrone è testimoniata la presenza, in tempi differenti, di diversi forni fusori tra i
quali: i forno della Soglia presso l'Alpe Forni (documentato fin dal 1253); quello a Giabio,
chiamato "Forno di San Giorgio" attivo dal Cinquecento, uno al ponte di Premana rinnovato
all’inizio del Settecento, uno a monte del ponte di Bonomo (dove parte l’itinerario di
“Premana rivive l’antico”), costruito a metà Settecento unitamente ad un completo e
razionale centro siderurgico assolutamente all’avanguardia per quei tempi. Uno era situato
all'imbocco della Val Marcia e uno, cinquecentesco, a "Cremogn", lungo il torrente in
Comune Casargo.
Nel 1719 l’illuminato regime asburgico ordinò il Catasto dello Stato: fu redatta la nuova
mappatura del territorio e furono disposti incentivi alla ricerca di nuovi filoni metalliferi ed
all’innovazione tecnologica della fusione e lavorazione, nella vana speranza di rivitalizzare il
complesso: forni fusori vennero via via perfezionati per aumentarne la produttività; furono
stabiliti premi per la scoperta di nuovi filoni metalliferi, aboliti i dazi interni e potenziate come abbiamo visto - le vie di comunicazione; furono decretati contributi per l'impianto di
nuovi forni e officine e si incoraggiò anche la ricerca di carbon fossile, ormai necessario per
ottenere nei forni temperature sempre più elevate. Ma nonostante questi illuminati
interventi, l'attività mineraria conobbe un irreversibile declino. A fine ‘700 Carlo Giuseppe
Bellati provò ad attivare alcune miniere, ma l’estrazione si rivelò sempre più antieconomica.
Ci si rese presto conto che le numerose ricerche non avevano messo in luce nuovi
giacimenti di reale valore industriale, e il carbone, pur con i provvedimenti forestali
introdotti, si faceva ogni giorno più scarso.
Nel 1800 si documenta l'ultima fumata del forno di Cortenova, nel 1822 si demolisce fucina
grossa di Barzio, poi si spegne il forno della Troggia e del 1846 viene fatta l’ultima fumata
del forno di Premana.
L'insufficienza del materiale estratto, la mancanza di carbon fossile, la concorrenza interna
e internazionale portarono all'abbandono graduale delle attività in questa area. Dalle
miniere dell'alta Val Varrone, intorno al 1870, grazie alla attività della ditta Rubini e Scalini
di Dongo, ancora veniva estratto materiale che era però portato a Bellano e da qui a
Dongo, dove era sorto un polo siderurgico.