Intervento Giovanni Cominelli - Comitato Esecutivo Compagnia delle Opere Cerco di esplicitare il punto di vista dal quale traguardare la situazione e gli scenari del sistema educativo nazionale. Un punto di vista è quello vostro, che andate in classe tutte le mattine e la prima domanda che vi fate è: “abbiamo visto la riforma Berlinguer, la riforma Moratti, la riforma o pseudo anti-riforma Fioroni, a noi cosa importa?”. In effetti pare che tutto il decennio precedente non abbia prodotto grandi trasformazioni nelle scuole. un punto di vista autentico, ma non è l’unico che l’insegnante deve assumere, se, come ha detto Formigoni prima di me, "voi siete la speranza dell’Italia". Veramente Formigoni ha detto che i giovani sono la speranza dell’Italia, ma aggiungiamo noi - solo se hanno dei buoni insegnanti: dunque voi siete la speranza dell’Italia. Occorre intrecciare lo sguardo dell’insegnante che tutte le mattine si trova in classe con il punto di vista sul Paese, sul bene comune del Paese. Io richiamo brevemente l'attenzione sui quattro eventi fondamentali di questo periodo: le Indicazioni nazionali, l’elevazione dell’obbligo di istruzione a 16 anni, la questione del debito formativo e il Quaderno Bianco, che è stato presentato ieri mattina a Roma. Con una premessa: bisogna che leggiamo personalmente i documenti che si riferiscono alle questioni sopra dette. Non potete fidarvi dei giudizi altrui, né del mio né di quelli di nessun altro. Dovete leggere voi questi documenti: questo è il primo lavoro di formazione – gratuita, s’intende – di autoformazione che voi dovete fare, non potete andare nelle scuole a parlare di cose che non avete letto. Spero che non vi offendiate se ve lo dico? La battaglia culturale da fare è non è quella dell'affermazione filosofica che esiste la verità contro il relativismo e il nichilismo: essa consiste, in primo luogo, nel dire cose vere e cercare di praticarle. Qui possiamo trovare tanta gente disponibile. Benché noi sappiamo quanto siamo animati da passione educativa, dobbiamo partire dalla constatazione che la passione educativa non è monopolio nostro, non è il monopolio di chi ha letto “Il rischio educativo”, non è il monopolio dei credenti: la passione educativa è caratteristica di molti vostri colleghi – ditemi se sbaglio – che non sono credenti. Incontrare questa passione educativa è possibile, se noi non andiamo a fare dell’ideologia, ma a dire cose vere e a praticarle. Donde la necessità di leggere i documenti ministeriali. Le Indicazioni nazionali. Esse partono da una premessa filosofica che contiene due presupposti reciprocamente contraddittori: c’è l’antropologia del Rischio educativo – che prevede il peccato originale vi ricordo - e c’è l’antropologia di Morin, che non lo prevede per niente. C’è una retorica della persona, che ha entusiasmato più d'uno di noi. Ma se andate a leggere le ultime grandi leggi di riforma, la Malfatti-Pedini del 1978, la Berlinguer e la Moratti, la persona non manca mai. Ma l'allusione alla 7 persona ha senso, se dopo viene la personalizzazione dei percorsi. Questa personalizzazione nelle Indicazioni Nazionali io non riesco a vederla. Quando si mantiene intatto il numero di ore, di materie, di programmi, di cattedre, quando il vero principio organizzativo della scuola italiana sono le classi di concorso – in una tavola rotonda che troverete su “Tempi” di settimana prossima, lo riconoscevano persino Panini della FLC (Federazione dei lavoratori della conoscenza) e Ranieri, Responsabile Scuola del Partito Democratico - allora, noi dobbiamo fare ogni sforzo per sperimentare, visto che le Indicazioni sono sperimentali, ma occorre partire con il piede giusto di un'interpretazione corretta. Non basta la retorica della persona, occorre la personalizzazione dei percorsi. E questa richiede una maggiore libertà di curriculum da parte delle scuole, una maggiore libertà da parte delle scuole di organizzare gli orari, gli insegnamenti, di spingere le discipline verso le competenze chiave. Se questo non accade, come faranno le scuole a sperimentare? Il rischio è che la sperimentazione sia fatta da pochi e finisca nel nulla – non sarebbe la prima volta nella storia della scuola italiana, ovviamente. Mi scuso per essere così tranchant sulla questione delle indicazioni, dico solo che se scompare il PECUP - il profilo educativo, culturale e professionale - la personalizzazione non c’è. Vi invito a leggere il rapporto OCSE/CERI che è del 2006 che è intitolato “Schooling for Tomorrow: personalizing education”, che afferma essere la personalizzazione "la sfida storica dei sistemi educativi dell’Occidente". E’ da lì che dobbiamo partire. Io, francamente, nelle indicazioni di Fioroni questa cosa non riesco a vedercela. Sul nuovo obbligo di istruzione. Il documento Allulli, licenziato in aprile, metteva in primo piano le competenze come obbiettivo da raggiungere e dietro si intravedevano le discipline. La versione che è arrivata la Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione e che è stata approvata è l’opposto: di nuovo davanti le discipline e le competenze dietro o, se si preferisce un'altra immagine, molto davanti, fino a sfumare in un orizzonte indefinito. Dopodiché c'è del positivo, si intende. L'Unione europea continua a parlare di competenze e finalmente esse stanno entrando anche nel lessico buro-pedagogico e amministrativo italiano. Forse si incomincia a capire che le competenze non consistono nel piegare i ragazzi alle compatibilità capitalistiche, all’addestramento degli schiavi della macchina, ma sono la capacità di incarnare e di usare conoscenze nel mondo reale - la definizione che ha letto prima Formigoni. Se le competenze sono queste, se in questo continente di 482 milioni di abitanti, se da Lisbona 2000 si va in questa direzione, allora noi non possiamo stare al palo delle discipline e stop. Questo implica anche per noi una riflessione e un lavoro, perché questa è stata la cultura egemone in questo Paese, per 80-100 anni l’abbiamo respirata come l’aria tutti quanti. E quindi è necessario un lavoro di autoriflessione che non è contro nessuno, ma è innanzitutto tra di noi per operare questa transizione storica che i Ministri possono spingere, ma che non riusciranno a fare, se gli 8 insegnanti non costruiscono la transizione dal curriculum per apprendimenti disciplinari al curriculum per competenze. E questa è la questione fondamentale. Sui debiti formativi. Vedo che c’è in giro un po’ di entusiasmo tra gli insegnanti, perché sono convinti a questo punto che la loro professione si nobilita se possono dire “bocciato” o “promosso”, cioè se torna la scuola seria e severa di una volta. Ricordo solo che quando D’Onofrio nel 1995 abolì gli esami di settembre, lo fece per due ragioni non contingenti e che sono ancora valide. La prima era ed è che il paradigma della valutazione interna della scuola italiana è saltato per aria già negli anni ’70 , piaccia o non piaccia. Quando la scuola è diventata di massa, quando si è incominciato a fare gli insegnanti "a macchina", quando gli insegnanti hanno avuto accesso all'insegnamento, prima con l’abilitazione, poi senza l'abilitazione - ma oggi si assumono 60.000 precari senza nessuna verifica preventiva - allora il paradigma condiviso comune nazionale si è dissolto. Piaccia o no. E’ stato fatto l’esperimento di sovrapporre i risultati degli esami in Lombardia e al Sud con i corrispondenti risultati OCSE/PISA 2003 ed è emerso che quando a Milano si dà 5 per una prestazione a Reggio Calabria si dà 7. Si tratta di un fenomeno generale. Quando in questa classe si dà 5 e in quell’altra si dà 8 alla stessa prestazione, questa non è la controprova che il sistema di certificazione interna è saltato? La seconda ragione era molto contingente, ma seria: si scopriva che a settembre ne sapevano meno che a giugno. Allora D’Onofrio che fece? Buttò via il termometro, siccome segnalava febbre, e non ha risolto il problema. Gli IDEI (Interventi Didattici Educativi Integrativi) non hanno risolto il problema, a quanto pare. Allora ha senso tornare in maniera più o meno mascherata agli esami di settembre, ricorrendo all'escamotage di mantenere aperti i consigli di classe fino ai primi di settembre e poi, magari, bocciare? Qui noi, su questo tema, dobbiamo fare con forza la battaglia che passa alla certificazione delle competenze, non di un curriculum astratto. La scuola è severa e rigorosa, se certifica che cosa ha il ragazzo nello zaino a 13, a 15 anni, a 16, a 18. E se non ha tutto quello che il curriculum nazionale ed europeo prevedono, non perciò lo blocca fino 16 anni in terza media o in prima superiore o seconda superiore. Ho tra le mani un libro intitolato "Peut-on lutter contre l'échec scolaire?" di Marcel Crahay. Dopo aver fatto ricerche su diecine di esperimenti e di ricerche su scala mondiale – Stati Uniti e Europa – sui risultati della bocciatura, alla domanda: “La bocciatura serve?” risponde: “No, la bocciatura aumenta la dispersione, la bocciatura vìola in profondità il principio di educabilità”. E credo che per noi, data la nostra cultura, non dovrebbe essere difficile capirlo. Questo apre il problema, ovviamente, di come si danno le competenze, apre il problema della personalizzazione: quello di seguire i ragazzi insieme alle famiglie per dar loro tutto quello di cui hanno bisogno. 9 Sul “Quaderno Bianco”. E’ molto interessante, perché in sede di proposta esso riprende tutta la vecchia legge Moratti. Soltanto che il Ministero dell’Istruzione non avendo il coraggio e mancando anche di altro, fa fare la proposta al Ministero dell’Economia. E' un'abitudine, ormai, dei Ministeri dell’Istruzione che, quando non ce la fanno da soli, si fanno aiutare dall’Economia. E' già accaduto con Berlinguer, con la Moratti, ora con Fioroni. Qual è il problema? Che il Ministero dell’Economia, per quanto ragioni in termini di capitale umano, non può che farlo se non in termini di compatibilità finanziaria, non di visione educativa. Ma vanno comunque benissimo queste proposte che vi invito a leggere e che chiediate ai vostri Collegi, ai vostri Dirigenti che ne parlino. In questo Quaderno Bianco si fanno affermazioni che noi condividiamo da anni: che ci sono troppi insegnanti, che l’istruzione in Italia è ben finanziata, ma i soldi sono spesi in modo inefficiente e inefficace, che le carriere degli insegnanti non esistono, che occorre portare un’autonomia radicale nel sistema scolastico, che occorre la personalizzazione. Tutto ciò detto da Tommaso Padoa-Schioppa, ministro di un Governo che sta per tramontare, forse! ovviamente è interessante per noi, anche se non mi ‘illumina d’immenso’. Che cosa dobbiamo andare a fare da domani nelle scuole? Due cose. Primo, quello che ho detto all’inizio: una battaglia culturale frontale contro il sistema di potere burocratico, ideologico, amministrativo, che sta dentro la scuola italiana e che altre volte ho chiamato, con lessico gramsciano, il ‘blocco storico’ conservatore. Bisogna che noi andiamo contro blocco, e non con l’ideologia, ma con contro-analisi su temi, su fatti, su documenti. Dimostrare che si può fare in un altro modo. Secondo, non pensiamo di fare gli eroi solitari. Occorre mettersi con altri che, condividendo la nostra passione educativa, magari provenendo da altre storie e culture, ma essendo d’accordo su questo, a questa battaglia possono dare un contributo. Io credo che noi dobbiamo dissotterrare i talenti che spesso teniamo sotto terra. Siamo poco consapevoli del giacimento che abbiamo a disposizione, delle idee e delle esperienze che abbiamo accumulato: dobbiamo avere il coraggio di buttarle fuori, di combattere, di stare dentro le cose. Dobbiamo cioè essere un soggetto rivoluzionario dentro la scuola, rivoluzionario nelle idee, che poi produce magari anche qualche riforma. Non ci illudiamo che le riforme si facciano solo dal basso, se la politica non fa alcuna innovazione di sistema, ma l’unica cosa che noi chiediamo alla politica – e lo diceva prima Formigoni: lo Stato non può fare lo Stato pedagogo, adesso con Edgar Morin anche epistemologo, lo stato didattologo – è di fare un’innovazione radicale di sistema. Essa 10 consiste nel de-statalizzare l’istruzione e mettere l’istruzione a disposizione delle famiglie e dei loro ragazzi. E quello, badate, non è una cosa scritta nel “Rischio Educativo” di Giussani, bensì è la riforma Blair di quest’ultimo anno. Le Fondazioni, le scuole che trasformate in Fondazioni, non in autonomie con il controllo del Grande Fratello dell’Agenzia Nazionale, ma le autonomie che siano in grado di assumere il personale, di fare i programmi alla luce del curriculum, e soprattutto di seguire personalmente ciascun ragazzo. E’ una cosa troppo ambiziosa? Dobbiamo scegliere. Se ci piace il presente, stiamo fermi; se non ci piace, facciamo la battaglia.