RELAZIONE pagliari

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GIORGIO PAGLIARI
Professore associato confermato di diritto amministrativo
Università degli Studi di Parma
Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati*
Sommario:
1. Inquadramento del tema.
2. I principi generali in tema di accordi urbanistici tra P.A. e Privati desumibili
dalla legislazione statale: cenni su “ratio”, natura e funzioni dei modelli
convenzionali contemplati dalla legislazione nazionale (dalla convenzione di
lottizzazione alla programmazione negoziata).
3. La partecipazione dei Privati nei procedimenti pianificatori territoriali o di
coordinamento: le linee di disciplina della legislazione statale.
4. La partecipazione dei Privati nei procedimenti pianificatori comunali: le
linee di disciplina della legislazione statale.
5. Considerazioni di sintesi sull’analisi della legislazione statale urbanistica in
materia di convenzioni e di partecipazione del Privato ai relativi procedimenti
pianificatori.
6. Cenni sulla disciplina degli accordi tra P.A. e privati nella L. 7 agosto 1990
n. 241 s.m.i..
7. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione regionale. La
disciplina vigente nella Regione Veneto.
7.1. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione regionale. La
regolamentazione in vigore nella Regione Emilia Romagna.
7.2. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione regionale. La
disciplina vigente nella Regione Umbria.
1
8. Riflessioni conclusive e/o “de iure condendo” (eccezionalità dello
strumento; accessorietà delle condizioni di natura patrimoniale; particolare
rilevanza della obbligatorietà della motivazione; imprescindibilità del “vincolo
di scopo (pubblico)”; disciplina del c.d. ius variandi).
1. Inquadramento del tema.
La fattispecie di riferimento è costituita, con tutta evidenza, dagli
accordi tra P.A. e Privati, contemplati dall’art. 11 L. 7 agosto
1990 n. 241 s.m.i., che notoriamente ammette accordi –
procedimentali o sostitutivi di provvedimento1 – tra P.A. e privati
relativamente al contenuto discrezionale dei provvedimenti
amministrativi.
*
Ringrazio il prof. Paolo Stella Richter e il Consiglio Direttivo dell’AIDU per l’opportunità
offertami con l’affidamento di questa relazione.
Sul piano personale e scientifico, desidero ringraziare i proff.ri Franco Scoca, Maria
Alessandra Sandulli, Annamaria Angiuli, Fabrizio Fracchia e Mauro Renna per l’attenzione
prestatami tramite la lettura della bozza della relazione e per i preziosi suggerimenti.
1
Sugli accordi dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., la letteratura è amplissima. Senza
pretesa di esaustività: F.G. Scoca, “Gli accordi” cit., in F.G. Scoca (a cura di), “Diritto
amministrativo”, Torino 2008, 411 ss.; G. Greco, “Accordi amministrativi tra provvedimento
e contratto”, Torino, 2003; F.G. Scoca, “Autorità e consenso”, in Dir. Proc. Amm. 2002, p.
442; G. Barbagallo-E. Follieri-G. Vettori (a cura di), “Gli accordi fra privati e p.a. e la
disciplina generale del contratto”, Napoli, 1995; F. Cangelli, “Riflessioni sul potere
discrezionale della p.a. negli accordi con i privati”, in Dir. Amm., 2000; Id., “Potere
discrezionale e fattispecie consensuali”, Milano, 2004; B. Cavallo, “Accordi e procedimento
amministrativo”, in “Procedimento amministrativo e diritto di accesso”, Napoli 1993, p. 69
ss.; Id., “Procedimento amministrativo e attività pattizia”, in B. Cavallo (a cura di), “Il
procedimento amministrativo tra semplificazione partecipata e pubblica trasparenza”, Torino,
2000, p. 119 ss.; A. Contieri, “La programmazione negoziata. La consensualità per lo
sviluppo. I principi”, Napoli, 2000; M. Dugato, “Atipicità e funzionalizzazione nell’attività
amministrativa per contratti”, Milano, 1996; R. Ferrara, “La p.a. tra autorità e consenso: dalla
“specialità” amministrativa a un diritto amministrativo di garanzia”, in Dir. Amm., 1997, p.
225; F. Fracchia, “L’accordo sostitutivo. Studio sul consenso disciplinato dal diritto
amministrativo in funzione sostitutiva rispetto agli strumenti unilaterali di esercizio del
potere”, Padova, 1998; M. Immordino, “Legge sul procedimento amministrativo, accordi e
contratti di diritto pubblico”, in Dir. Amm. 1996, p. 391; F. Ledda, “Dell’autorità e del
consenso nel diritto dell’amministrazione pubblica”, in Foro Amm. 1997, p. 1273; G.
Manfredi, “Accordi e azione amministrativa”, Torino, 2001; E. Sticchi Damiani, “Attività
amministrativa consensuale e accordi di programma”, Milano, 1992; F. Trimarchi Banfi,
“L’accordo come forma dell’azione amministrativa”, in Pol. Dir. 1993, p. 237; F. Tuccari,
“Recesso ed inadempimento negli accordi amministrativi”, Bari, 1993; W. Giulietti, “Attività
consensuale della p.a. e vincoli giuridici: tutela del pubblico interesse e affidamento del
privato”, in Cons. Stato, 2001, p. 1617 ss.; Id., “La conclusione di accordi tra amministrazioni
e privati dopo la legge n. 15/2005: ambito applicativo e profili sistematici”, in
www.associazionedeicostituzionalisti.it.
2
La relazione ha la finalità di valutare l’ammissibilità di tali accordi
in materia urbanistica e di individuare i tratti dell’eventuale
disciplina degli stessi, nella prospettiva della competenza
legislativa concorrente ai sensi dell’art. 117, III comma, Cost..
In questa sede, le problematiche, pur importantissime (e note),
relative alla natura giuridica degli accordi tra P.A. e privati, non
possono essere toccate, se non a rischio di … cambiare oggetto
della relazione, troppo articolato e complesso essendo il relativo
dibattito2.
Nel contesto dato, non può non evidenziarsi, in via pregiudiziale,
che l’articolazione del sistema pianificatorio urbanistico (piani
territoriali, piani di coordinamento, piani urbanistici generali e
piani attuativi) comporta, inevitabilmente, la teorica possibilità di
accordi in ordine agli strumenti di pianificazione generale e in
ordine a quelli attuativi. Si tratta, con assoluta evidenza, di
fattispecie, appartenenti allo stesso genere, ma tra loro divise
da un radicale tratto di specialità (in senso tecnico-giuridico),
tanto per contenuti ed effetti diversi, quanto per la collocazione
in fasi diverse del procedimento di pianificazione urbanistica.
L’indagine, pertanto, non potrà inizialmente che avere cura di
entrambe le specie, pur essendo evidente, fin d’ora, che l’ipotesi
più nuova (e più problematica) è la prima (quella degli strumenti
urbanistici generali) per una serie di ragioni, che lo sviluppo
dell’analisi renderà, auspicabilmente, evidenti. E ciò ferma
2
Sia consentito di rinviare a: G. Greco, “Accordi amministrativi cit.”, 10 ss.; Filippo Satta-F.
Cardarelli, “Il contratto amministrativo”, in Dir. Amm. 2007, 221 ss.; L.R. Perfetti, “Manuale
di diritto amministrativo”, Padova 2008, 461 ss..
3
restando la necessità di evidenziare, fin d’ora, il motivo
principale e decisivo: l’incidenza dell’accordo “de quo” sulla
pianificazione generale (cioè quella cui è affidata, nell’interesse
generale e a tutela – quanto meno – del bene collettivo
“territorio”, la definizione delle regole dell’uso di quest’ultimo)
pone, infatti, esigenze costituzionalmente “sensibili” ai sensi
degli artt. 3, 9, 42 e 97 Cost..
In dottrina, questa distinzione è efficacemente descritta
parlando di “accordi a monte” e di “accordi a valle”, riferendo i
primi alle eventuali intese riguardanti il contenuto delle
prescrizioni pianificatorie ed i secondi alle convenzioni attuative,
a quelle del Testo unico dell’edilizia, a quelle relative a
perequazioni e/o compensazioni3.
In una visione sistematica, possono comunque assumersi fin
d’ora – in specie, nell’eventualità che gli accordi “a monte”
risultino
ammissibili
nell’ambito
urbanistico
–
in
termini
problematici i seguenti elementi di riflessione:
-
l’accordo “de quo” può incidere sull’ordine della decisione e
su quello dell’imputazione delle competenze e degli atti
pianificatori urbanistici?;
3
P. Urbani, “Pianificare per accordi”, in Riv. Giur. Ed. 2005, 177 ss.. Questo Autore, nel
merito, sostiene che gli accordi “a valle” non sono problematici dal punto di vista giuridico,
poiché essi non mettono in discussione la cura dell’interesse pubblico in quanto “le scelte
sono già state prese dall’Amministrazione attraverso la fissazione unilaterale delle
prescrizioni urbanistiche”. Al contrario, per gli “accordi a monte”, parla di “mancanza di
regole preventive per determinare l’oggetto degli accordi”, sottolineando, in specie, che “gli
accordi non sono in alternativa al potere amministrativo, ma anzi le condizioni della loro
ammissibilità vanno definite alla stregua delle norme dettate per l’esercizio del potere”.
4
-
l’accordo dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. può
essere uno strumento alternativo o solo complementare per
l’esercizio della funzione pianificatoria urbanistica?;
-
l’accordo medesimo, quindi, non può che avere natura
procedimentale o preliminare, mai sostitutiva4, chè questo
vorrebbe
dire
incidere
sulla
titolarità
della
funzione
urbanistica, sulla imparzialità della stessa e sulla garanzia
dei terzi?;
-
l’accordo del citato art. 11 può avere ad oggetto solo
disposizioni (normative e/o cartografiche) di portata limitata?;
-
l’accordo “de quo” può avere uno spazio, semprechè non vi
siano altre ragioni ostative, distinto e non sovrapponibile e
non fungibile rispetto all’accordo di programma?;
-
l’accordo medesimo potrà trovare un limite nel caso del
concorso di strumenti pianificatori concorrenti (ad es.,
paesaggistici) con efficacia di sostituzione o di prevalenza
“ope legis” delle previsioni urbanistiche ovvero comportanti
l’obbligo di adeguamento di queste ultime?
Or dunque, nel contesto di una riflessione riguardante la
disciplina urbanistica tra legislazione statale e legislazione
regionale, il tema degli accordi urbanistici pubblico-privati non
può che muovere dalla verifica del rispetto della disciplina della
legislazione concorrente tra Stato e Regioni a statuto ordinario.
4
Sugli accordi sostitutivi, si rinvia a F. Fracchia, “L’accordo sostitutivo” cit..
5
Come notorio, l’ultimo capoverso del III comma dell’art. 117
Cost. sancisce: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta
alle
Regioni
determinazione
la
potestà
dei
legislativa,
principi
salvo
fondamentali,
che
per
riservata
la
alla
legislazione dello Stato”.
Come è parimenti notorio, in assenza di una legge-cornice, i
principi generali debbono essere evinti dalla legislazione statale
in materia5.
Un’ultima annotazione è necessaria.
Il termine “accordo” ha assunto particolare rilievo nel linguaggio
pubblicistico proprio con le leggi del 1990: da un lato la c.d. 142,
meglio nota come “riforma delle autonomie locali” e che, all’art.
27, ha introdotto l’“accordo di programma”; dall’altro, la c.d. 241,
altrimenti “legge sul procedimento” o “legge sulla trasparenza”,
che ha istituito gli “accordi tra P.A. e Privati” (art. 11) e gli
“accordi tra Enti Pubblici” (art. 15).
Anteriormente, la terminologia era più diversificata e, in materia
urbanistica, era particolarmente usata la parola “convenzione”6.
5
P. Stella Richter, “I rapporti tra legislazione statale e legislazione regionale”, Convegno
A.I.D.U. 2008; S. Musolino, “I rapporti Stato-Regioni nel nuovo titolo V parte II alla luce
dell’interpretazione della Corte Costituzionale”, Milano 2007, in specie 62 ss.; P. Stella
Richter, “I principi del diritto urbanistico”, II ed., Milano 2006; S. Amorosino, “Il governo
dei sistemi territoriali”, Padova 2008, 14 ss.; F. Salvia, “Manuale di diritto urbanistico”,
Padova 2008, 17 ss..
6
Sul tema, vedansi M. Nigro “Convenzioni urbanistiche e rapporti tra privati. Problemi
generali”, in M. Nigro, “Scritti giuridici”, vol. II, Milano 1996 e l’ancora attuale libro di V.
Mazzarelli, “Le convenzioni urbanistiche”, Bologna 1979 con la notissima Prefazione di M.S.
Giannini. Più in generale, tra gli altri, si rinvia a: C. Marzuoli, “Principio di legalità e attività
di diritto privato della pubblica amministrazione”, Milano 1982; G.D. Falcon, “Le
convenzioni pubblicistiche. Ammissibilità e caratteri”, Milano 1984; R. Ferrara, “Gli accordi
tra i privati e le pubbliche amministrazioni”, Milano 1985.
6
L’indagine seguente, naturalmente, non si fermerà al dato
formale, al c.d. “nomen iuris”, ma si incentrerà sul fenomeno
sostanziale, cioè su tutte le ipotesi, che si caratterizzano per
un’intesa tra parte pubblica e parte privata relativamente al
contenuto di un provvedimento amministrativo (in senso ampio)
in materia urbanistico-edilizia.
2. I principi generali in tema di accordi urbanistici pubblico-privati
desumibili dalla legislazione nazionale: cenni su “ratio”, natura e
funzione dei modelli convenzionali contemplati dalla legislazione
nazionale
(dalla
convenzione
di
lottizzazione
alla
programmazione negoziata).
Su queste premesse, è necessario ripercorrere – senza pretesa
di esaustività – la legislazione urbanistica statale in materia di
convenzioni, per verificare quali principi generali si possano –
eventualmente – dedurre.
A seguito della novella contenuta nella L. 6 agosto 1967 n.
7657, la L. 17 agosto 1942 n. 1150 o L.U., all’art. 28, disciplina
la
lottizzazione,
divenuta
strumento
attuativo
del
piano
7
N. Assini-P. Mantini (“Manuale di diritto urbanistico”, III ed., Milano 2008, 547 ss.)
ricordano che “Prima dell’approvazione della legge ponte 6 agosto 1967, n. 765 – che ha
elevato il piano di lottizzazione a dignità di strumento urbanistico attuativo del piano
regolatore generale, con funzione alternativa rispetto al piano particolareggiato di
esecuzione – la lottizzazione, secondo il significato offerto dall’art. 13 della legge urbanistica
generale 17 agosto 1942, n. 1150, si atteggiava a mera attività materiale, contestuale o
successiva alla elaborazione del P.p.e, preliminare e preordinata all’attività edificatoria,
consistente nella “suddivisione degli isolati in lotti fabbricabili secondo la tipologia indicata
dal piano”.
È pur vero che l’art. 28 della legge 1150/1942 ammetteva la possibilità per il comune di
autorizzare la lottizzazione prima dell’approvazione del piano particolareggiato, tuttavia una
corretta applicazione della normativa urbanistica, allora vigente, imponeva che l’assetto del
territorio fosse definito attraverso l’impiego del P.r.g., quale strumento di programmazione e
di pianificazione ai fini di una razionale utilizzazione dei beni, nonché del P.p.e. quale
strumento di attuazione della disciplina conferita con lo strumento urbanistico generale: in
siffatto contesto la lottizzazione non avrebbe potuto configurarsi diversamente da una
semplice suddivisione in lotti catastali”.
7
regolatore generale, sancendo che l’autorizzazione comunale è
subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a
cura del proprietario, relativa alla cessione delle urbanizzazioni
primarie, all’assunzione dell’onere della realizzazione di queste
ultime e di una quota-parte di quelle secondarie, ai termini di
esecuzione delle opere medesime e alla prestazione delle
congrue garanzie per gli obblighi convenzionali.
Questa convenzione, pur in un contesto che conosceva già le
convenzioni
in
urbanistica8,
materia
ha
certamente
rappresentato una rilevante novità, fino ad essere definita
l’archetipo delle diverse convenzioni urbanistiche, ma anche
un’entità giuridica di difficile inquadramento: è notissima
l’etichetta di “centauresse”, affibiata da M.S. Giannini alle
convenzioni urbanistiche proprio in considerazione della loro
sfuggente natura giuridica9.
Come noto, l’art. 28 L. 17 agosto 1942 n. 1150 s.m.i., infatti,
indica come atto centrale del procedimento lottizzatorio
l’autorizzazione comunale, la cui emanazione è subordinata alla
sottoscrizione
premesse,
inquadrata
della
la
convenzione
convenzione
come
atto
di
medesima.
lottizzazione
accessorio
del
Su
queste
può
essere
provvedimento
autorizzatorio, con il quale si precisano e si definiscono gli
8
V. Mazzarelli, “Le convenzioni urbanistiche”, cit.; E. Dalfino, “L’interesse pubblico nelle
lottizzazioni edilizie”, Milano 1979.
9
M.S. Giannini, “Prefazione” al volume di V. Mazzarelli, “Le convenzioni” cit.; V.
Mazzarelli, “Convenzioni e accordi amministrativi. Convenzioni urbanistiche” in EdD., vol.
IX, Roma 1988, 1 ss.; Id., “Convenzioni urbanistiche” in EdD, Aggiornamento V, Milano
2000, 294 ss.; M.C. Spena, “Esercizio del potere in forma consensuale in materia urbanistica
e ius poenitendi della P.A.” (commento a Cons. St. – sez. IV – 31 gennaio 2005 n. 222), in
Riv. Giur. Ed. 2006, parte I, 1258.
8
obblighi connessi all’autorizzazione rilasciata con specifico
riferimento alla cessione gratuita delle aree di urbanizzazione,
all’assunzione e all’adempimento degli oneri urbanizzativi,
nonché alla relativa garanzia (art. 28, IV comma, L. cit.).
La natura della previsione e, prima, la sua collocazione
nell’ambito
della
mera
pianificazione
attuativa
di
livello
comunale, non sembrano consentire – quindi – di desumere un
principio generale di ammissione dello strumento convenzionale
nel processo di definizione delle decisioni urbanistiche in senso
stretto e caratterizzante (e non di quelle meramente attuative).
Non può tuttavia tacersi che vi è un autorevole filone
dottrinale10, che sostiene la “totale immedesimazione tra piano
di lottizzazione e relativa convenzione”, da ciò desumendo che
“il nucleo dell’accordo verte … sull’assetto territoriale – che
definisce indici volumetrici, altezze, tipologie edilizie, spazi di
uso pubblico, tracciato delle strade – proposto dai privati ed
accettato dall’amministrazione”11.
Per vero, la tesi lascia (rispettosamente) perplessi, posto che
l’impianto
legislativo
individua,
certamente,
nel
privato-
proprietario il soggetto proponente del piano di lottizzazione, ma
non lascia alcuno spazio, sul piano giuridico-formale, alla
“negoziazione” delle scelte urbanistiche, comunque attuative12,
10
G. Pericu, “Le convenzioni di lottizzazione” in L. Mazzarolli-G. Pericu-A. Romano-F.
Roversi Monaco-F.G. Scoca (a cura di) “Diritto amministrativo”, vol. II, Bologna 1993, 1340.
11
P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico” cit., 199.
12
P. Urbani-S. Civitarese Matteucci (“Diritto urbanistico” cit., 199) sostengono, però, che “…
i tratti pubblicistici della procedura trovano ora il loro punto di riferimento normativo negli
artt. 24 e 25 L. 47/1985 con la conseguenza, tra l’altro, che la scelta di assetto territoriale
9
tra proponente e P.A. anche attraverso l’indicazione del
contenuto essenziale della convenzione. In altri termini, il
legislatore del 1942 si è mosso secondo le linee dell’azione
amministrativa unilaterale e imperativa, cosicchè, quanto meno
sul piano del c.d. ordine dell’imputazione, la fattispecie
convenzionale lottizzatoria non pare rappresentare un primo
indizio della tendenza della legislazione statale verso la
“negoziazione” delle scelte urbanistiche13. Il che – sia consentito
di ribadirlo – non è in contrasto con l’inquadramento di queste
convenzioni nella fattispecie del citato art. 11, che comprende –
come anticipato – ipotesi diverse.
La legge 18 aprile 1962 n. 167, relativa ai piani di zona per
l’edilizia economica e popolare14, prevede le convenzioni con i
soggetti cessionari delle aree tanto in diritto di superficie, quanto
in diritto di proprietà.
Queste convenzioni15, pur se contengono la previsione dei
caratteri tipologici degli edifici, hanno una funzione meramente
accessoria al provvedimento di assegnazione e sembrano
riconducibili allo schema della concessione-contratto16. Ciò che
può anche risultare in contrasto con le prescrizioni del piano regolatore (con effetti
abrogativi di queste)”.
13
Sul dibattito complessivo, vedasi la sintesi proposta da A. Fiale, “Diritto urbanistico”, XI
Ed., Napoli 2006, 422 ss..
14
La letteratura giuridica in materia è notoriamente molto vasta: vedasi, per tutti, M.
Pallottino, “Piano per l’edilizia economica e popolare”, in EdD, vol. XXXIII, Milano 1983,
634 ss.. La sintesi più recente della materia è in N. Assini-P. Mantini, “Diritto urbanistico”
cit., 619 ss..
15
Per un esame più analitico mi permetto di rinviare, tra gli altri, a G. Pagliari, “Corso di
diritto urbanistico”, III ed., Milano 2002, 178 ss..
16
P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti”, III ed.,
Torino 2004, 218 ss.; F. Salvia, “Manuale cit.”, 138. In giurisprudenza, vedansi, tra le altre,
Cons. St. – sez. IV – 13 maggio 1999 n. 835 (in Cons. St. 1999, I, 799) e Cass. – sez. III – 6
agosto 2001 n. 10841.
10
è importante sottolineare è che si tratta di atti e condizioni
stabiliti unilateralmente dal Comune, nei quali l’aspetto della
concertazione, quale delineato dall’art. 11 L. sul procedimento,
è, se al limite sussistente, del tutto marginale.
Con l’art. 27 L. 22 ottobre 1971 n. 865 s.m.i. vengono introdotti i
piani per gli insediamenti produttivi17. Anche in questo caso
vengono previste le convenzioni tra gli assegnatari ed il
Comune assegnante, per le quali valgono le considerazioni or
ora svolte con riferimento alle convenzioni p.e.e.p..
Gli artt. 7 e 8 L. 28 gennaio 1977 n. 10 hanno introdotto la c.d.
edilizia convenzionata, oggi normata dagli artt. 17 e 18 D.P.R. 6
giugno 2001 n. 380 s.m.i.. Nel caso, la convenzione riguarda
esclusivamente i prezzi di vendita ed i canoni di locazione degli
immobili considerati e ha come effetto – notoriamente – la
riduzione del contributo di costruzione alla sola quota relativa
agli oneri di urbanizzazione.
È evidente, pertanto, l’irrilevanza della fattispecie, nel contesto
della presente riflessione.
Nel 1978, con la L. 5 agosto 1978 n. 457, viene introdotto il
Piano di recupero per il patrimonio edilizio esistente18.
L’art. 28 di detta legge prevede – tanto nel caso di piano
comunale attuato tramite i privati, quanto in quello di piano di
17
Vedansi, tra gli altri, P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico” cit., 175 ss. e
215 ss. e G. Pagliari, “Corso di diritto urbanistico”, III ed., Milano 2002, 181.
18
E. Sticchi Damiani, “Recupero delle abitazioni e organizzazione del territorio”, Milano
1980; A. Crosetti, “Piano di recupero”, Nov. Dig. Disc. Pubbl., App. V, Torino 1984, 939 ss.
Si rinvia per una disamina approfondita a N. Assini-P. Mantini, “Manuale cit.”, in specie 597
ss..
11
iniziativa privata – la stipulazione di una convenzione. Nella
prima ipotesi, la natura della convenzione, direttamente prevista
dalla legge, non presenta elementi differenziali rispetto a quelli
propri delle convenzioni p.e.e.p. o p.i.p.19; nella seconda, nella
quale la convenzione non è prevista dalla legge, epperò è
strumento nella prassi assai usato per dare maggiore certezza,
in specie in ordine agli obblighi dei soggetti attuatori, oltre che
per introdurre sanzioni pattizie “contrattate”, la convenzione può
contenere anche patti in materia urbanistico-edilizia. P.A. e
Privati, infatti, possono definire, (anche) in tale sede, le
caratteristiche dell’intervento, con ciò concordando profili
strutturali e architettonici attinenti alla pianificazione urbanistica
attuativa20.
convenzione
La
rilevanza
muteranno,
e
la
portata
naturalmente,
sostanziale
a
seconda
della
della
tipologia degli interventi di recupero (risultando massime nel
caso della ristrutturazione urbanistica); non di meno, appare
indiscutibile che queste convenzioni possano contenere accordi
sui profili discrezionali dell’intervento urbanistico di recupero
attuato attraverso il relativo piano. Queste considerazioni non
sono sminuite dal fatto che il Comune, in sede di approvazione
del piano, possa modificare il testo convenzionale21.
19
P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico” cit., 213.
P. Urbani-S. Civitarese Matteucci (“Diritto urbanistico” cit., 214) rilevano testualmente:
“La vicenda giuridica successiva alla proposta pianificatoria dei privati viene a coincidere
totalmente con quella propria delle convenzioni di lottizzazione …”.
21
A. Fiale (“Diritto urbanistico” cit., 367) evidenzia questo aspetto per sottolineare che il
piano di recupero ha sempre “la stessa natura di efficacia giuridica, indipendentemente dalle
modalità di esercizio del potere di iniziativa”.
20
12
L’art. 16 L. 17 febbraio 1992 n. 179 introduce i programmi
integrati di intervento, che rappresentano la prima fattispecie di
urbanistica consensuale22. La loro funzione è quella di
riqualificare
il
tessuto
urbano,
edilizio
ed
ambientale,
coinvolgendo aree edificate e inedificate e non richiedendo la
(preventiva)
zonizzazione
caratteristica,
unitamente
comunale
alla
“ad
possibilità
hoc”.
Questa
di
incidere
sull’ambiente e sul complessivo tessuto urbanistico, costituisce
l’elemento di distinzione di questi piani da quelli di recupero del
patrimonio
edilizio
esistente
(che
richiedono,
peraltro,
l’individuazione delle zone di recupero) e dai programmi di
recupero urbano.
È notorio, per quanto più direttamente interessa in questa sede,
che questi programmi (la cui disciplina di dettaglio è di
competenza regionale: Corte Cost. 19 ottobre 1992, n. 393)
sono
stati
introdotti
dal
legislatore
per
consentire
la
collaborazione pubblico-privato23 nella forma più ampia, onde
raggiungere lo scopo di riorganizzare e riconvertire il territorio
interessato. Per quanto la Corte Costituzionale, con la predetta
22
P. Urbani, “Urbanistica consensuale”, Torino 2000.
P. Urbani-S. Civitarese Matteucci (“Diritto urbanistico” cit., 187 ss.) sostengono
espressamente: “L’iniziativa richiede il concorso di più soggetti … sembra evidente che
interventi di tali dimensioni richiedono la partecipazione – anche nella fase dell’elaborazione
delle scelte urbanistiche – di altri soggetti pubblici o privati, anche riuniti in consorzio o
associati tra loro (enti pubblici, imprese, singoli proprietari), legittimati a presentare
direttamente al Comune un’ipotesi di intervento … Sembra potersi osservare che, al di là del
profilo formale dell’imputazione della decisione, la norma tratteggi implicitamente una
fattispecie di formulazione concordata o patteggiata delle prescrizioni urbanistiche e non a
caso il programma integrato di intervento, nella prima prassi applicativa, è apparso come
modello per la cosiddetta “urbanistica consensuale”.
23
13
sentenza 393 del 199224, abbia fortemente limitato la portata
dello strumento25, soprattutto in ordine alla possibilità di
introdurre fattispecie derogatorie del vigente sistema di
strumentazione urbanistica e di assetto delle competenze
amministrative del settore26, non appare dubbio il rilievo di
questo istituto, anche in ordine all’ammissibilità di accordi tra
P.A. e Privati; e ciò non solo da un punto di vista pratico, ma
pure
nell’ottica
dell’evoluzione
dei
principi
generali
dell’ordinamento settoriale urbanistico.
Con l’art. 2 della stessa legge 179 (cui vanno ricollegati i decreti
del Ministro dei Lavori Pubblici 21 dicembre 1994 e 29
novembre
1995),
sono
stati
introdotti
i
programmi
di
riqualificazione urbana27. Essi sono deputati ad avviare il
recupero edilizio e funzionale di ambiti urbani specificatamente
identificati attraverso interventi su parti significative delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria, su edilizia non
residenziale (al fine di migliorare la qualità della vita possibile
nell’ambito
considerato)
e
su
ambiti
residenziali
(onde
riqualificare fisicamente l’ambiente). Questi programmi, da
definirsi con accordo di programma se “in variante agli strumenti
urbanistici generali”,
sono normalmente attuati mediante
convenzioni, in quanto devono consistere in un insieme
sistematico e coordinato di opere pubbliche e private. È “in re
24
Corte Cost. 19 ottobre 1992 n. 393, in Const. St. 1992, II, 1413.
N. Assini-P. Mantini, “Manuale cit.”, 604.
26
N. Assini-P. Mantini, “Manuale cit.”, 604.
27
Per la disamina più analitica dell’istituto vedasi A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 392 ss..
25
14
ipsa” che la stessa definizione di questi piani avvenga con il
coinvolgimento preventivo di soggetti privati28, cioè che la
definizione dello strumento sia consensuale.
Si tratta, pertanto, di un istituto che, come il precedente,
testimonia
la
volontà
del
legislatore
di
incidere
sulla
configurazione classica della pianificazione urbanistica attuativa
in termini di competenza unilaterale ed indisponibile (“rectius”:
non negoziabile), con la conseguente legittimazione della
consensualità
nella
definizione
della
strumentazione
urbanistica29 del livello citato. E ciò semprechè non si condivida
la tesi, secondo cui il programma di riqualificazione urbana non
è uno strumento urbanistico, ma un “particolare programma di
finanziamenti pubblici”30.
L’art. 11 D.L. 05.10.1993 n. 398, convertito nella L. 04.12.1993
n. 493, ha regolamentato i programmi di recupero urbano31,
aventi come scopi specifici sia la realizzazione, la manutenzione
e
l’ammodernamento
secondarie,
sia
delle
l’edificazione
urbanizzazioni
di
primarie
completamento
e
e
di
integrazione dei complessi urbanistici esistenti; sia, infine,
l’inserimento di elementi di arredo urbano e il recupero del
patrimonio edilizio esistente. I due successivi decreti ministeriali
28
A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 392 ss..
Il D.M. 8 ottobre 1998 a firma del Ministro dei Lavori Pubblici ha esteso il finanziamento
previsto per i precitati piani anche ai programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo
sostenibile: vedasi A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 397-398.
30
P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico” cit., 189.
31
N. Assini-P. Mantini, “Manuale cit.”, 607.
29
15
del 1° dicembre 1994 32 hanno indicato, come prevalente ambito
di applicazione del programma di recupero urbano, gli interventi
di completamento e di integrazione degli insediamenti di edilizia
residenziale pubblica.
Si tratta di uno strumento “pubblico-privato”, che può costituire
variante agli strumenti urbanistici vigenti e che, in tal caso, deve
essere approvato con accordo di programma. Il che comporta
una
chiara
delimitazione
degli
accordi,
riconducibili
analogicamente all’art. 11 c.d. L. sul procedimento, in senso
restrittivo, cioè legato al solo profilo attuativo.
Con il decreto del Ministro dei Lavori Pubblici 22.10.199733,
sono stati previsti i contratti di quartiere34, come interventi
sperimentali nel settore dell’edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata (art. 2, comma 63, lett. b), L. 23.12.1996 n. 662)
da includere nei programmi di recupero urbano. L’ambito di
operatività è costituito dai quartieri segnati da un diffuso
degrado delle costruzioni o dell’ambiente urbano e da carenze
di servizi, in un contesto di scarsa coesione sociale e di marcato
disagio abitativo.
I citati contratti devono riguardare aree di edilizia economica e
popolare, ovvero aree assoggettate a recupero urbanistico ai
sensi dell’art. 29 L. 28 febbraio 1985 n. 47; essi hanno la
funzione di recuperare i caratteri edilizi dei fabbricati e la
32
Rispettivamente in G.U. 12.12.1994 n. 289 e G.U. 13.12.1994 n. 290.
G.U. 30.01.1998 n. 24.
34
Sui contratti di quartiere, vedansi M. Breganze, “Contratti di quartiere: strumenti utili per il
recupero urbano?” in Riv. Amm. 1997, 1139; A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 403 ss.; G.
Pagliari, “Corso cit.”, 229 ss..
33
16
funzionalità del contesto urbano, di accrescere le dotazioni di
servizio del quartiere e di migliorare la qualità abitativa ed
insediativa, raggiungendo più elevati standards, anche di tipo
ambientale.
Per l’attuazione dei contratti di quartiere sono previsti sia la
stipulazione di accordi tra Amministrazioni pubbliche, tesi ad
incrementare l’occupazione e a favorire l’integrazione sociale
(promozione della formazione professionale giovanile, recupero
dell’evasione scolastica, assistenza agli anziani e realizzazione
di strutture di accoglienza), sia accordi tra P.A. e volontariato,
ONLUS e privati per il settore dei servizi.
Con tutta evidenza, non si tratta solo di accordi, dal punto di
vista urbanistico, di mera attuazione, ma soprattutto di patti che
riguardano profili di natura sociale, cioè relativi alla funzione più
importante di quest’istituto: funzionalizzare l’attività di recupero
urbanistico-edilizio alle esigenze di superamento del degrado
sociale, di cui quello urbanistico è solo lo specchio.
Figura ancora dagli incerti confini è costituita dai programmi di
riabilitazione urbana previsti dall’art. 27 L. 01.08.2002 n. 166,
comunque deputati anch’essi al recupero di zone degradate non
solo sotto il profilo della vetustà o della fatiscenza delle
costruzioni35. Si tratta, in ogni caso, di uno strumento introdotto
per la riqualificazione di porzione del territorio degradato dal
punto di vista fisico, economico e sociale.
35
A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 404 ss.; P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto
urbanistico” cit., 190 ss..
17
L’iniziativa è del Comune competente; le opere possono essere
cofinanziate
dai
Privati;
ai
proprietari
rappresentanti
la
maggioranza assoluta del valore degli immobili ricompresi nel
piano attuativo, calcolato in base all’imponibile catastale, riuniti
in consorzio, può essere affidato l’intervento se il Comune
approva progetto e (relativa) convenzione presentati dai
consorziati. Le analogie con la lottizzazione e con il piano di
recupero del patrimonio edilizio esistente sono evidenti,
cosicchè è chiara la funzione, che assume la convenzione
precitata36.
In questa sede, non possono non essere ricordati (anche se
non
analiticamente
esaminati)
i
diversi
strumenti
di
programmazione negoziata previsti dall’art. 2, comma 203, L. 23
dicembre 1996 n. 66237.
36
Il consorzio può assumere la funzione di soggetto espropriante; l’indennità è pari al valore
venale, dedotte le opere di urbanizzazione.
37
Sulla programmazione negoziata si segnalano, senza pretesa di esaustività: P. De Vivo,
“Sviluppo locale e Mezzogiorno: piccola impresa, territorio ed azione pubblica”, Milano
1997; A. Police, “I patti territoriali: un nuovo modello convenzionale per le amministrazioni
locali”, in AA.VV., “Procedimenti e accordi nell’Amministrazione locale”, Atti del XLII
Convegno di studi di scienza dell’Amministrazione (Tremezzo, 19-21 settembre 1996),
Milano, 1997; G.P. Manzella, “Patti territoriali: vicende di un istituto di programmazione
negoziata”, ivi, 1997, 789 ss.; G. D’Auria, “Interventi per l’occupazione e programmazione
negoziata”, in Riv. Giur. Lav. e Prev. Soc., 1998, 82 ss.; M. Zoccatelli, “I patti territoriali e i
contratti d’area: genesi, realizzazioni e questioni irrisolte”, in “Le Istituzioni del
Federalismo”, 1998, 261 ss.; F. Cocozza, “La Programmazione negoziata e il nuovo impulso
al regionalismo economico”, ivi, 1999, 259 ss.; E. Pellizer, L. Zanetti, “La programmazione
negoziata nell’ambito della pianificazione urbanistica e dei lavori pubblici”, ivi, 1999, 283
ss.; R. Ferrara, “La Programmazione “negoziata” fra pubblico e privato”, in Dir. Amm. 1999,
429 ss.; G.M. Esposito, “Amministrazione per accordi e programmazione negoziata”, Napoli,
1999; M. Russo, “Città, territorio e programmazione negoziata. Un modello di sviluppo
locale”, Napoli, 1999; A. Contieri, “La programmazione negoziata. La consensualità per lo
sviluppo. I principi”, Napoli, 2000; P. Urbani, “Urbanistica consensuale. La disciplina degli
usi del territorio tra liberalizzazione, programmazione negoziata e tutele differenziate”,
Torino, 2000; F. Sprovieri, “Il nuovo quadro normativo di riferimento e le risorse per gli
strumenti della programmazione negoziata”, in Riv. Giur. Mezz., 2003, 583 ss.; M.
Centorrino, G.F. Lo Presti, “Strumenti di sviluppo locale: la programmazione negoziata.
Dalla nascita alle recenti evoluzioni”, Bari, 2005.
18
Con le diverse fattispecie ivi contemplate, si persegue lo scopo
di una regolamentazione concordata tra soggetti pubblici e
privati per l’attuazione di interventi diversi, ma riferiti ad un unico
obiettivo di sviluppo e richiedenti una valutazione complessiva
delle
attività
di
competenza38.
Con
tutti
questi
istituti,
riconducibili nell’ambito della programmazione negoziata39,
possono essere introdotte varianti agli strumenti urbanistici
generali. Questi accordi, cui possono partecipare anche i privati
(con la sola eccezione dell’intesa istituzionale di programma40),
sono
quelli
potenzialmente
più
rilevanti
sotto
il
profilo
dell’incidenza sulla pianificazione urbanistica e, pertanto, quelli
che introducono l’elemento più significativo in ordine al “favor”
del legislatore statale per gli accordi in materia urbanistica.
Questa conclusione non ha come conseguenza la riconduzione
(o
la
riconducibilità)
dei
moduli
negoziali
propri
della
programmazione negoziata agli accordi dell’art. 11 L. 7 agosto
38
G. Ruberto (“Profili urbanistici della programmazione negoziata” in Giust. Amm. 2007,
sez. Edilizia ed Urbanistica, 1003 ss.) parla di “… modello generalizzato di promozione dello
sviluppo locale (che) trae origine dalla crisi europea del capitalismo urbano territoriale e dal
conseguente rovesciamento delle politiche di programmazione dell’economia che
individuano, quale nuovo fattore trainante della crescita produttiva e occupazionale, un’idea
di sviluppo economico non più centralizzato e dirigistico ma basato sulla cooperazione delle
forze che operano nel territorio: amministrazioni locali, imprese, banche e associazioni di
categoria”. E aggiunge (pg. 1004): “Nei moduli della programmazione negoziata è tuttavia
rinvenibile una visione nuova, dinamica della sussidiarietà, non più intesa nel senso
tradizionale di criterio rigido di allocazione delle funzioni amministrative, ma in
un’accezione procedimentale e consensuale, in cui il ruolo centrale degli enti locali è
assicurato dalla partecipazione, insieme alle forze locali e alle parti sociali, al “tavolo di
concertazione” in cui sono assunte le scelte programmatorie”.
39
Come noto, nell’ambito della programmazione negoziata, rientrano l’intesa istituzionale di
programma, l’accordo di programma quadro, il patto territoriale, il contratto di programma e
il contratto di area. Per il quadro analitico della definizione si rinvia ad A. Fiale, “Diritto
urbanistico cit.”, 405 ss..
40
G. Ruberto, “Profili urbanistici” cit., 1007.
19
1990 n. 241 s.m.i.41, ma indica, più semplicemente, la presenza
nella legislazione nazionale di disposizioni, che consentono la
“contrattazione” tra P.A. e Privati delle scelte pubbliche anche
urbanistiche, quali componenti o quali strumenti per l’attuazione
delle scelte programmatorie economiche42; e ciò non solo per gli
strumenti di pianificazione generale di livello comunale, ma
anche
sovracomunale43-44.
È,
comunque,
innegabile
41
G. Ruberto (“Profili urbanistici” cit., 1007) nega l’assimilabilità agli accordi della legge sul
procedimento, sottolineando che, in questi ultimi, “… l’interesse facente capo
all’Amministrazione prevale su quello del privato, potendo la stessa recedere unilateralmente
dall’accordo “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse”. Nei moduli consensuali della
programmazione negoziata, invece, il soggetto pubblico non gode del potere di recesso,
atteso che l’interesse allo sviluppo economico, perseguito attraverso lo strumento negoziale,
non rientra nella titolarità esclusiva né dell’Amministrazione né dei privati, trattandosi di un
interesse generale, alla cui realizzazione le parti contribuiscono in maniera tendenzialmente
paritaria, giocando ciascuna un ruolo specifico e insopprimibile … La preordinazione
dell’interesse dell’Amministrazione a quello dei privati fa sì che i moduli consensuali della
programmazione negoziata siano assimilabili, quanto a regime giuridico, al contratto di
diritto privato … Pertanto, in siffatti accordi negoziali, il recesso unilaterale
dell’Amministrazione potrebbe ammettersi solo in virtù di un’espressa previsione
contrattuale, ai sensi dell’art. 1373 cod. civ.”.
42
G. Ruberto (“Profili urbanistici” cit., 1008) rileva: “Non è raro, invero, il caso in cui la
prescrizioni urbanistiche contrastino con i programmi di sviluppo concordati: si pensi
all’ampliamento o alla realizzazione “ex novo” di impianti produttivi in aree non aventi tale
destinazione o a interventi infrastrutturali a servizio del progetto di sviluppo, non previsti ma
necessari per la realizzazione del programma. In tal caso, il legislatore ha previsto che
l’accordo di programmazione negoziata possa operare in variante alla strumentazione
urbanistica, che così risulta recessiva rispetto all’interesse allo sviluppo locale e
all’incremento dei livelli occupazionali”. E ciò pur se – ricorda l’Autore – i Privati sono
esclusi dalla sottoscrizione dell’accordo modificativo del piano urbanistico (pg. 1010).
43
Sulla questione vedasi, da un lato, Cons. St. – sez. VI – 5 gennaio 2001 n. 25 (in Riv. Giur.
Amb. 2001, 476 con nota di S. Civitarese Matteucci), e, dall’altro, G. Ruberto (“Profili
urbanistici” cit., 1012 ss.).
44
Rientra tra le figure di collaborazione P.A.-Privati anche la Società di trasformazione
urbana, introdotta dall’art. 17, comma 59, L. 15 febbraio 1997 n. 127 e oggi disciplinata dal
T.U. degli Enti Locali (sull’istituto vedansi, tra agli altri, P. Mantini, “Le società di
trasformazione urbana. Profili giuridici ed organizzativi”, in Riv. Giur. App. 1997, 519 ss.;
M. Breganze, “Le società di trasformazione urbana: prime note”, in Riv. Giur. Urb. 1997, 169
ss.; G. Pagliari, “Le società di trasformazione urbana”, in Riv. Giur. Urb. 1998, 87 ss.; M.
Dugato, “Oggetto e regime delle società di trasformazione urbana”, in Dir. Amm. 1999, 511;
P. Urbani, “Trasformazione urbana e società di trasformazione urbana”, in Riv. Giur. Urb.
2000, 623).
Si tratta – come noto – di uno strumento contrattuale, nel senso che la società è promossa
dall’ente pubblico, ma deve avere un azionariato anche privato, da scegliersi con gara ad
evidenza pubblica.
La sua funzione è quella di progettare e realizzare interventi di trasformazione urbana in
attuazione degli strumenti urbanistici vigenti.
Essa, pertanto, costituisce, un mezzo per rendere effettiva la pianificazione urbanistica
generale, ma non si caratterizza per la possibilità di concorrere alla definizione dell’assetto
20
l’importanza che la programmazione negoziata ha avuto
nell’evoluzione della disciplina pianificatoria determinata da
alcune Regioni.
Queste ultime (per prima, la Toscana), pur in assenza della
legge quadro statale, hanno modificato, in particolare, la
strumentazione generale di livello comunale, “dividendo” il
P.R.G. in “piano strutturale” (altrimenti definito “piano delle
regole”) e in “piano operativo”.
In base a questo modello, il cui principale teorico è stato Paolo
Stella Richter45, il piano strutturale ha la funzione di fissare le
regole e il secondo quella di creare le condizioni per la loro
attuazione.
Ed
è
indubbio
che
il
piano
operativo
sta
rappresentando il luogo di realizzazione di una sempre più
accentuata sinergia tra pubblico e privato. Il che, per rimanere
nell’ambito
della
riflessione
strettamente
giuridica,
ha
determinato non poche perplessità46 in linea con il monito,
manifestato già dal 1992 dalla Corte Costituzionale47, in ordine
all’esigenza di evitare ogni tipo di incontrollata “deregulation”
urbanistica, cioè di una flessibilità non funzionale all’efficienza di
un sistema intelligente di regole e alla sua effettività, ma
costituente la “chiave” per destrutturare la pianificazione
urbanistica.
urbanistico. In ogni caso, non può dimenticarsi che il soggetto che si relaziona con la P.A. è la
società, peraltro di natura pubblica, e non i privati soci della medesima, cosicchè non sembra
che la previsione della S.T.U. abbia un rilevante significato ai fini presenti.
45
Tra gli altri, vedasi lo scritto: “Riforma urbanistica: da dove cominciare” in Riv. Giur. Urb.
1996, 442 ss..
46
P. Urbani, “Territorio e poteri emergenti”, Torino 2007, 112 ss..
47
Corte Cost. 19 ottobre 1992 n. 393 cit.. Sul tema, vedasi anche A. Chierichetti, “Moduli
consensuali nella concertazione urbanistica”, in Riv. Giur. Ed. 2002, 281 ss..
21
Dall’analisi ora conclusa emerge, certamente, un crescente
favore per le convenzioni urbanistiche48, ovverossia per accordi
– in specie – tra P.A. e Privati per disciplinare i rapporti relativi
all’attuazione degli strumenti urbanistici esecutivi49.
Soprattutto fino alla metà degli anni novanta del secolo scorso,
si tratta di convenzioni, tutte riconducibili sostanzialmente al
modello della convenzione di lottizzazione (art. 28 L.U. s.m.i.),
che, però, non si caratterizzano per la definizione consensuale
di contenuti pianificatori, almeno “generali”.
Il contenuto essenziale è, di norma, delineato dalla legge e
concerne profili, come dire, operativi: dalla realizzazione delle
opere
di
urbanizzazione,
alla
cessione
delle
aree
di
urbanizzazione, alle garanzie patrimoniali (fideiussioni o quali
altre) a tutela degli impegni assunti dal privato e, talvolta, alle
tipologie costruttive e ai relativi materiali. L’ambito, anche se si è
visto che taluno riconosce una funzione maggiore50, di questi
strumenti convenzionali non attiene, neanche parzialmente (né
indirettamente), ai profili tipici della pianificazione urbanistica
generale.
Di conseguenza, il fatto che sia ormai pacifica la loro
riconducibilità alla fattispecie dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241
s.m.i., non attribuisce alcun rilievo a queste fattispecie come
48
Su questa figura complessa, nella prospettiva dell’adempimento degli obblighi dalle stesse
nascenti, vedasi M. Sollini, “Spunti di riflessione in punto all’adempimento di obblighi
nascenti da convenzioni urbanistiche” in Riv. Giur. Ed. 2007, 2, 753-768.
49
Un altro fattore di “contrattualizzazione” in materia urbanistica è rappresentato dalla
perequazione e dalla compensazione: al riguardo, non può che rinviarsi ai numerosi contributi
di E. Boscolo, a partire da “Dalla zonizzazione alla perequazione urbanistica”, in Riv. Giur.
Urb. 2000, 21 ss..
50
P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico cit.”, 199.
22
espressioni di un principio generale di ammissibilità di accordi
tra P.A. e Privati in ordine alla determinazione consensuale di
disposizioni di strumenti urbanistici generali51. Il che non è in
contrasto, ma in linea, con l’atipicità o generalità della fattispecie
degli accordi dell’art. 1152, strumento utilizzabile per esercitare,
con modalità alternativa rispetto a quella tradizionale, le
competenze di amministrazione attiva53.
La legislazione (o la normativa) successiva (in specie, quella
sulla programmazione negoziata), quella che può essere
definita dei “procedimenti complessi”54, contiene certamente
indicazioni più significative nel senso dell’orientamento ad
ammettere la definizione consensuale dell’assetto del territorio,
con
una
contrattazione
convenzionamento
che
attuativo
non
delle
si
riferisce
scelte
al
solo
esclusivamente
pubbliche, ma si espande fino all’elaborazione delle scelte
urbanistiche medesime. Il contesto tipico, peraltro, rimane
quello degli strumenti urbanistici di attuazione, cosicchè
l’eventuale modificazione degli strumenti urbanistici generali,
51
B. Cavallo, “Sussidiarietà orizzontale cit.”, 401 ss..
F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 414.
53
F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 419) scrive: “Il vincolo per l’amministrazione del
perseguimento dell’interesse pubblico, espressamente richiamato … dimostra come la scelta
dello strumento consensuale corrisponda all’esercizio di un potere discrezionale, e più
precisamente dello stesso potere che avrebbe permesso la definizione unilaterale del
procedimento”. Vedasi anche F. Cangelli, “Potere discrezionale e fattispecie consensuali”,
Milano 2004, 183.
54
Sul tema, il contributo più noto rimane quello di P. Urbani, “Urbanistica consensuale”,
Torino 2000. A. Fiale (“Diritto urbanistico” cit., 374) sostiene che la complessità è data, da
un lato, “dal possibile coinvolgimento di una pluralità di soggetti pubblici e privati e di
un’ampia gamma di risorse finanziarie su interventi che presentano una pluralità di
destinazioni d’uso” e, dall’altro, “nel perseguimento sostanziale ed operativo di politiche
urbane di riqualificazione non più attraverso interventi singoli o disarticolati tra loro, bensì
nel contesto di un sistema complessivo di azioni, accostamento orientato, che consente pure
più agevoli variazioni della pianificazione comunale generale vigente”.
52
23
necessaria per la realizzazione degli accordi “de quibus”, è
formalmente rimessa ad accordi di programma. Con questo,
non può negarsi l’importanza dei “programmi complessi” per
l’evoluzione
dei
modelli
pianificatori:
in
particolare,
per
l’introduzione – già prima ricordata – della fattispecie del piano
strutturale
e
del
piano
operativo
a
livello
comunale55:
“l’erompere della pianificazione urbanistica dei “programmi
complessi”, in definitiva, ha disvelato una decisa propensione
degli attori della pianificazione (soprattutto degli operatori
economici, ma anche delle amministrazioni) a spostare l’asse
delle politiche urbanistiche verso questo tipo di strumenti, più
consoni a coniugare una serie di esigenze … Il che rende
inevitabile una sorta di “self restraint” del piano generale, che
per
non
subire
la
sorte
di
essere
contraddetto
dalla
pianificazione integrata e operativa, deve assumere una veste
più leggera, di indicazione di strategie e non di regole di
conformazione e comunque una maggiore flessibilità”56. Da ciò
appare, però, eccessivo giungere a sostenere che, grazie agli
istituti considerati, emerge dalla legislazione statale vigente un
principio generale di ammissibilità degli accordi tra P.A. e Privati
relativamente
al
contenuto
discrezionale
degli
strumenti
urbanistici generali.
55
P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico cit.”, 190-191.
P. Stella Richter, “I principi del diritto urbanistico”, II ed., Milano 2006, 69 ss.; P. Urbani,
“La riforma regionale del P.R.G.: un primo bilancio. Efficacia, contenuto ed effetti del piano
strutturale. Il piano operativo tra discrezionalità nel provvedere e garanzia del contenuto
minimo della proprietà”, in Riv. Giur. Urb. 2007, 262 ss..
56
24
I “minimi comun denominatori” di tutte queste fattispecie
restano,
comunque,
la
pendenza
di
un
procedimento
pianificatorio, al quale il Privato o interviene o viene invitato a
partecipare, e la rispondenza a finalità puramente attuative di
strumenti urbanistici generali. Questo non esclude – come è
stato ricordato – la possibilità di dover variare gli strumenti
urbanistici generali, ma l’oggetto dell’intesa non è il contenuto
delle variazioni, bensì la caratterizzazione dell’intervento,
cosicchè l’eventuale intesa per la modificazione del piano
urbanistico generale è un effetto, una “clausola accessoria”, non
l’elemento qualificante dell’accordo.
La prospettiva, da cui muove (invece) la presente riflessione, è
l’intesa sul contenuto discrezionale degli strumenti urbanistici
generali come contenuto qualificante ed essenziale dell’accordo
e non in funzione di attuare, al meglio, le scelte urbanistiche già
compiute.
In ogni caso, tutte le fattispecie convenzionali considerate sono
ricondotte
al
legislativamente
rispetto
del
definito
e
procedimento
assumono,
pianificatorio
quindi,
una
caratterizzazione procedimentale. Il che significa che la
partecipazione del privato al procedimento è il presupposto di
legge della stipulabilità dell’accordo57.
3. La partecipazione dei Privati nei procedimenti pianificatori
territoriali o di coordinamento.
57
L’esigenza del contesto procedimentale, peraltro, è riconosciuta unanimemente dalla
dottrina.
25
L’analisi della legislazione statale evidenzia, in primo luogo, che
nulla
è
mutato,
nel
quadro
dell’ordinamento
settoriale
dell’urbanistica, per quanto concerne la partecipazione dei
privati in ordine alla pianificazione territoriale e, comunque, al
piano regionale, ovvero al piano territoriale di coordinamento
provinciale58,
cioè
a
quella
che
viene
definita
anche
“pianificazione di area vasta”59.
Il privato, infatti, può partecipare esclusivamente tramite il
tradizionale strumento delle osservazioni60.
Queste ultime – come notorio – sono considerate (pressoché
unanimemente da dottrina e giurisprudenza) come forme di
collaborazione del privato all’attività pianificatoria61, espressione
ed attuazione del principio del giusto procedimento62; forme di
mera collaborazione, in quanto non generano nel Comune
l’obbligo di controdedurre63.
58
G. Morbidelli, “Piano territoriale di coordinamento” in EdD, vol. XXXIII, Milano 1983,
705 ss.; L. Mazzarolli, “Urbanistica e piani provinciali” in G. Caia (a cura di) “Il piano
territoriale di coordinamento e la pianificazione di settore”, Rimini 2001; P. Urbani, “Governi
metropolitani e interessi nazionali”, Padova 1988; G. Sciullo, “La provincia e la
pianificazione territoriale”, in M. Barone-V. Ottaviano (a cura di), “L’avvio della nuova
provincia regionale in Sicilia”, Milano 1989; M. Breganze, “Piano territoriale di
coordinamento” in Nov. Dig. Disc. Pubbl., Torino 1996, 242 ss..
59
Assai interessante è la sintesi della problematica presente in A. Crosetti-A. Police-M.R.
Spasiano, “Diritto urbanistico e lavori pubblici”, Torino 2007, 67.
60
R. Leonardi, “Le osservazioni del privato nell’attività di pianificazione del territorio:
quando la trasparenza dell’azione amministrativa si “opacizza”” in Riv. Giur. Ed. 2002, 6,
1277.
61
G. Pagliari, “Corso cit.”, 110 ss.; A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 299; N. Assini-P.L.
Mantini, “Manuale cit.”, 457 ss..
62
M. Bellavista, “I procedimenti” in L.R. Perfetti (a cura di), “Manuale di diritto
amministrativo”, Padova 2007, 390, ricorda che “In sintesi il principio del giusto
procedimento è il garante del contraddittorio procedimentale; per questo lo stesso è
pervasivo di tutti gli strumenti partecipativi previsti dalla legge sul procedimento. Tale
principio, come si è detto, è funzionalizzato al contraddittorio, sicchè trova applicazione
affievolita in tutti quei procedimenti ove alla previsione della partecipazione non corrisponde
un vero e proprio contraddittorio, come nel caso di quelli di pianificazione”.
63
La valenza giuridica delle osservazioni ha spinto la Corte Costituzionale ad affermare che il
principio del giusto procedimento, nel procedimento di formazione del p.r.g., non è stato
26
A questo proposito, si potrebbe “liquidare” la circostanza,
sottolineando che la pianificazione territoriale e/o quella
sovracomunale di indirizzo e di coordinamento, per la loro
valenza e per la loro funzione, non lasciano intravvedere spazi
per possibili accordi pubblico-privati.
Si tratta, infatti, come noto, almeno in linea tendenziale64, di una
pianificazione di indirizzo e di coordinamento, avente come
destinatarie le istituzioni competenti in materia urbanistica
chiamate ad elaborare i piani c.d. conformativi o precettivi.
Conseguentemente, le prescrizioni immediatamente vincolanti
dei piani d’area vasta sono rare e non sono destinate a
condizionare, in modo rigido, la pianificazione comunale.
L’efficacia di indirizzo o di direttiva, propria delle disposizioni dei
piani di area vasta, infatti, non obbliga (quasi) mai ad un
recepimento vincolato negli strumenti urbanistici comunali, con
la conseguenza che lo spazio concreto di tutelare l’interesse
pubblico con un accordo tra P.A. e Privati sul contenuto
discrezionale
di
un
piano
di
area
appare
di
difficile
focalizzazione. Peraltro, per le regole che riguardano i rapporti
tra i piani territoriali e di coordinamento ed i piani comunali, un
eventuale accordo, quand’anche recepito, appare difficilmente
compiutamente attuato. E ciò in base alla considerazione che le risultanze della prassi e della
giurisprudenza amministrativa evidenziano che i soggetti privati “… non partecipano al
procedimento formativo dei piani regolatori nella veste di vere e proprie parti …, ma
svolgono attività puramente collaborative in veste di una più compiuta valutazione degli
interessi pubblici in gioco”.
64
S. Amorosino (“Il governo cit.”, 34 ss.) analizza la realtà del diritto positivo, sottolineando
che “… la “determinante d’apice” è la scelta tra un piano regionale leggero (Provincia di
Bolzano) – d’inquadramento territoriale – o “pesante” (Veneto), nel quale per disposto
legislativo tutti gli elementi del territorio, paesaggio, ambiente, debbono essere considerati e
disciplinati”.
27
in grado di avere effetti adeguati ai fini di una certa
configurazione dello strumento urbanistico generale comunale,
tenuto conto che indirizzi e direttive non sono destinati a
generare un dovere di mero recepimento, cosicchè, per certo
verso, non può negarsi che l’efficacia del “vincolo negoziale”
non possa che essere decisamente affievolita65.
In altri termini, l’accordo sul contenuto discrezionale, di cui parla
l’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., risulta, sul piano logicogiuridico, più ammissibile, quando si tratti di concordare la
disciplina direttamente incidente sul diritto di proprietà e sulla
facoltà di edificare, che non quando si fissano i principi, dei quali
dovrà tenersi conto (epperò non in termini di acritico
recepimento) in sede di formazione degli strumenti urbanistici
generali.
Il divieto dell’art. 13 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. appare, in
questo ambito, più che giustificato (e insuperabile sul piano
sistematico e di principio, prima che su quello del diritto positivo)
perché
l’indisponibilità
(“rectius”:
la
non
negoziabilità)
dell’interesse pubblico di questo livello di pianificazione appare
un dato, per così dire, strutturale ed essenziale.
65
S. Amorosino (“Il governo cit.”, 36) sviluppa una riflessione, che non solo appare
condivisibile, ma anche utile a chiarire le considerazioni sviluppate nel testo: “… la “civiltà
della conversazione … tra gli enti compartecipi della potestà di disciplina del territorio è
tanto più agevolata, quanto più – nel modello normativo – le prescrizioni immediatamente
vincolanti dei piani di area vasta: I) sono, in linea di principio, limitate ad oggetti specifici e
sono poste in funzione di tutela anticipata (ad esempio: delle zone umide); II) formano
oggetto obbligato di specifica discussione preventiva nelle conferenze di pianificazione (in
modo che i comuni sappiano in anticipo “cosa aspettarsi” e possano negoziarne l’impatto);
III) hanno – “ex lege” – un’efficacia temporalmente limitata e sono, quindi, munite di una
sorta di “clausola di dissolvenza” (dopo che la regione avrà accertato l’integrale
recepimento di esse nelle discipline urbanistiche locali)”.
28
Le regole del governo “complessivo (= di insieme)” del territorio,
infatti, non possono non essere ritenute come nettamente
caratterizzate da un forte grado di oggettivazione, che rende
l’interesse pubblico primario, se non l’unico interesse in campo
(chè l’art. 97 Cost. non consente ciò), certamente l’interesse di
gran lunga (per così dire) dominante (e non meramente
prevalente). E questo anche in considerazione del fatto che la
pianificazione di area vasta è l’unica, in cui tale interesse riceve
reale considerazione.
Non può, infine, non evidenziarsi che, quando sia stato adottato
il “modello binario della pianificazione comunale” (e cioè lo
sdoppiamento del P.R.G. in piano strutturale o come altrimenti
definito e piano operativo o come diversamente rubricato), la
pianificazione di area vasta è destinata ad incidere più sul piano
strutturale66.
Per la verità, in un quadro di interrelazione giuridicamente
rilevante (pur se, forse, non secondo logiche tipicamente
gerarchiche) tra i diversi livelli di pianificazione, non si può
escludere - a priori e sul piano teorico - che possano esservi utili
spazi di intesa pubblico-privato anche relativamente ai citati
livelli di pianificazione. Ciò che, piuttosto, sembra emergere, è
l’indirizzo legislativo statale favorevole a mantenere, per questa
funzione pianificatoria, la caratterizzazione tradizionale. Questa,
peraltro, è certamente più congeniale ad una funzione
66
S. Amorosino, “Il governo cit.”, 36.
29
pianificatoria relativa agli indirizzi e alle direttive, ai principi e ai
criteri di elaborazione di altri strumenti pianificatori.
Per definizione, un simile livello pianificatorio, infatti, ha per
oggetto la tutela dell’interesse pubblico nella sua dimensione
più oggettiva e, per di più, non ha diretta incidenza sulle
situazioni giuridiche soggettive, cosicchè riesce più difficile
individuare l’interesse del Privato per un accordo sui contenuti
pianificatori.
4. La partecipazione dei Privati nei procedimenti pianificatori
comunali.
La stessa analisi porta – con specifico riferimento alla
pianificazione urbanistica di livello comunale – a constatare che
risulta
confermata
l’impostazione
della
competenza
pianificatoria nei termini (per così dire) tipici e classici della
funzione amministrativa.
Da un lato, infatti, anche in questo ambito lo strumento
principale di “dialogo” tra Comune e privati è quello delle
osservazioni, la cui disciplina giuridica tutto consente di
sostenere, tranne che, tramite le stesse, i destinatari della
pianificazione si accordino con l’Autorità pianificatoria.
Dall’altro, le molte convenzioni previste pure dalla legislazione
più recente non si allontanano – come si è visto – in modo
significativo dal modello delle convenzioni di lottizzazione, la cui
“ratio” e la cui funzione sono notoriamente quelle di formalizzare
gli obblighi del soggetto attuatore nei confronti del Comune per
30
quanto concerne, primariamente, le opere di urbanizzazione, le
relative
cessioni,
le
tipologie
costruttive
e
le
sanzioni
convenzionali.
L’ambito è quello dell’attuazione della pianificazione urbanistica
generale, la quale, di norma, costituisce un riferimento
vincolante e non derogabile, all’interno del quale lo spazio di
definizione dei profili pianificatori è limitato alla specificazione
degli elementi tipologici e quali-quantitativi lasciati indeterminati
dalla strumentazione pianificatoria generale.
Questa ricostruzione è confermata dalla constatazione del
ricorso all’accordo di programma (art. 34 T.U.EE.LL.), allorché
sia necessaria una variante agli strumenti urbanistici67.
In
altre
parole,
il
legislatore
statale
ha
accentuato
significativamente, negli anni, il “favor” per la collaborazione
“pubblico-privato” in ordine all’esecuzione dei piani urbanistici
generali, ma riserva – e, pur sempre, parzialmente – alla
consensualità il (solo) livello attuativo delle scelte urbanistiche
generali, relativamente alle quali non si scosta dalla concezione
tradizionale e, per certo verso, dalla preservazione della
medesima.
La legislazione urbanistica statale, pertanto, non contiene
indicazione
per
l’esistenza
di
un
principio
generale
o
fondamentale (art. 117, III comma, Cost.), dal quale si possa
67
E. Casetta, “Manuale di diritto amministrativo”, X ed., Milano 2008, 562; F. Bassi,
“Lezioni di diritto amministrativo”, VIII ed., Milano 2008, 108; D. Sorace, “Diritto delle
amministrazioni pubbliche. Una introduzione”, IV ed., Bologna 2007, 342 ss.; R. Damonte,
“L’accordo di programma in generale e suoi effetti sui procedimenti urbanistici”, in Riv.
Giur. Ed. 2002, 1, 41 ss..
31
desumere che il contenuto degli strumenti urbanistici generali
possa essere definito anche attraverso un’intesa negoziale tra
P.A. e Privati riconducibile alla fattispecie contemplata dall’art.
11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i..
Le peculiarità della funzione urbanistica generale comportano,
per il legislatore urbanistico, che la modalità tradizionale di
esercizio della funzione urbanistica generale rimanga – allo
stato – l’unica.
Questa impostazione, del resto, è, in qualche misura,
determinata (e rafforzata) dalla c.d. legislazione settoriale in
materia ambientale, paesaggistica, di salvaguardia delle acque
e delle aree naturalistiche.
Da un lato, infatti, le leggi settoriali accentuano la unilateralità e
l’autoritatività dell’azione pubblica in ragione degli interessi
protetti, indisponibili e non negoziabili; dall’altro, la sempre più
forte interrelazione tra il livello di pianificazione settoriale e
quello urbanistico e la previsione della “prevalenza” o della
“sostituzione” automatiche dei piani settoriali a quelli urbanistici,
ovvero dell’obbligo di adeguamento di questi ultimi ai primi,
riduce – comunque - il margine, anche teorico, di una
negoziabilità dell’azione pubblica in materia urbanistica. Il che,
peraltro, non deve stupire più di tanto68.
68
S. Civitarese Matteucci (“Governo del territorio e ambiente”, in G. Rossi (a cura di),
“Diritto dell’ambiente”, Torino 2008, 220) sostiene perentoriamente: “… le modifiche
preordinate alla tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e
archeologici rappresentano una tipologia di modifica d’ufficio particolarmente incisiva sui
poteri comunali: nell’apportare queste modifiche il Ministero non incontra infatti alcun
limite, potendo addirittura mutare le caratteristiche essenziali e i criteri di impostazione del
32
Del resto, se ed in quanto la distinzione tra interessi pubblici (o
generali, o della collettività) ed interessi privati o particolari non
è caduta “in desuetudine”; se ed in quanto resiste la visione
della funzione amministrativa come deputata al perseguimento
– imparziale (art. 97 Cost.) – dell’interesse pubblico, infatti, non
può non considerarsi logica e conseguente la “preoccupazione”
di ribadire la concezione “autoritaria” della funzione urbanistica,
in particolare di quella riguardante le decisioni di principio o di
livello primario e normativo generale.
A questo punto, è opportuno precisare che, su un piano più
generale, si condivide la tesi secondo la quale gli accordi
dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. rappresentano una
modalità
alternativa
di
esercizio
delle
competenze
amministrative, con la conseguenza che “il perseguimento
dell’interesse pubblico, dunque, non solo caratterizza la
disciplina, ma costituisce la causa stessa dell’accordo”69.
Questa
concezione
non
comporta,
però,
che
la
“via
dell’accordo” possa essere, per definizione, sempre fungibile
rispetto alla “via tradizionale”. A ciò può ostare la natura
dell’interesse pubblico da perseguire o il livello di tutela
dell’interesse pubblico.
Un esempio può aiutare a rendere il concetto espresso.
piano adottato dal Consiglio Comunale. In altri termini, la rilevanza dell’interesse
ambientale fa sì che l’Ente approvante sia legittimato pure a stravolgere il piano licenziato
dagli uffici comunali”.
In giurisprudenza, vedasi, tra le altre, Cons. St. – sez. IV – 30 settembre 2002 n. 4984 in Foro
Amm. CDS 2002, 2026.
69
F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 412.
33
Notoriamente, la L. 6 dicembre 1991 n. 394 (“Legge quadro
sulle aree protette”) è preordinata alla conservazione e
valorizzazione del patrimonio naturale70.
Or bene, lo strumento programmatorio è costituito dal piano del
parco, che deve contenere quattro zone: la zona di riserva
integrale, quella di riserva generale orientata, l’area di
protezione e l’area di promozione economico-sociale.
È evidente, al di là di altre considerazioni, che un accordo del
tipo qui ipotizzato può essere ammesso per l’“area di
promozione economico-sociale”, la cui funzione è quella di
integrare la tutela del patrimonio culturale con gli interessi
residenziali e produttivi dell’uomo, ma non per la “zona di
riserva integrale”, la cui funzione è la tutela del patrimonio
naturale in termini di conservazione del medesimo e del suo
“habitat”.
Ma vi è di più!
La tutela ed il perseguimento di un interesse pubblico possono
essere perseguiti attraverso progressive forme legate a
competenze di diversa natura e a differenti livelli di tutela.
Così
è
certamente
nell’ordinamento
urbanistico
italiano,
essendo sufficiente, a tal fine, richiamare, da un lato, il piano
territoriale di coordinamento provinciale e, dall’altro, il piano
regolatore generale. È evidente, infatti, che, sul piano logicogiuridico e su quello sistematico (non sempre attentamente
70
Ai fini presenti, è sufficiente il rinvio a G. Pagliari, “Corso cit.”, 376.
34
considerato dal legislatore), lo spazio per la praticabilità della
“via dell’accordo” è, in linea di principio, ipotizzabile per il
secondo strumento urbanistico, sia per la sua valenza ed
efficacia, sia per l’individuabilità (teorica e, comunque, non
sempre sicura) di un Privato interessato nell’accezione dell’art.
7 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.; condizione, quest’ultima,
essenziale per la configurabilità di uno spazio per l’esercizio
della potestà amministrativa, anche mediante accordi, almeno
fino a quando si riflette nell’attuale quadro di diritto positivo: “La
contraddizione insita nella fusione tra potere amministrativo e
autonomia privata è apparente, laddove essa si inserisca
nell’ambito della partecipazione al procedimento. Quella degli
accordi, infatti, non è solo un istituto del procedimento
amministrativo,
ma
è
un
istituto
di
partecipazione
al
procedimento”71.
Su queste premesse, il risultato dell’analisi condotta assume
una sua chiara plausibilità, evidenziando un problema – in
termini sia “de iure condito”, che “de iure condendo” – di
valutazione sistematica della introduzione eventuale degli
accordi tra P.A. e Privati nel diritto urbanistico, che trova un
segno di consapevolezza da parte del legislatore, come si
vedrà, nell’art. 13 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i..
71
F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 418), che aggiunge: “E’ ormai noto, infatti, che il potere si
esercita attraverso una sorta di confronto e cooperazione dinamici con gli interessi privati e
ciò rappresenta la “ratio” della partecipazione al procedimento amministrativo. Gli accordi,
quale massima espressione partecipativa del privato al procedimento, consentono
all’interesse privato di svolgere un ruolo ancor più incisivo nella realizzazione di tale
confronto, definendo un assetto di interessi – compatibili con il perseguimento dell’interesse
pubblico – condiviso e vincolante per le parti”.
35
5. Considerazioni di sintesi sull’analisi della legislazione statale
urbanistica in materia di convenzioni e di partecipazione del
Privato ai relativi procedimenti pianificatori.
In conclusione, non pare che la legislazione urbanistica abbia
introdotto, nella sua evoluzione, un principio generale per il
quale
sia
ammissibile
una
pianificazione
consensuale
riguardante gli strumenti urbanistici generali e derivante dalla
contrattazione tra P.A. e privati.
Certamente, ma è profilo del tutto differente, il legislatore statale
ha ampliato l’ambito applicativo e la portata decisionale degli
strumenti convenzionali per quanto concerne la fase attuativa
della pianificazione.
Questa circostanza non è, di per sé, sufficiente a trarre, sul
piano del diritto positivo, conclusioni diverse, anche se non si
può non constatare che, nella prassi, il condizionamento delle
pressioni di privati in materia urbanistica è evidente e
preoccupante, nel momento stesso in cui emerge la scarsa
tenuta (se non la debolezza) delle istituzioni territoriali e la
costante regressione del principio di legalità (anche nella
prospettiva dell’amministrazione per risultati).
Fin ultroneo appare aggiungere che la conclusione ora esposta
non dimentica il ruolo assunto dagli accordi di programma
anche nel campo urbanistico, ma nega la possibilità che dalla
legislazione relativa si possa trarre qualche elemento utile a
sostenere l’emergere di un principio generale favorevole alla
36
consensualità “pubblico-privata” (nella prospettiva consacrata
dall’art. 11 L. sul procedimento) in materia di pianificazione
urbanistica generale. Basta, a questo proposito, considerare la
natura e la funzione dell’accordo di programma medesimo (art.
34 T.U.EE.LL.): “… mero strumento di coordinamento delle
attività di più enti pubblici interessati al raggiungimento di un
obiettivo comune”72.
6. Considerazioni sulla disciplina degli accordi tra P.A. e Privati
nella L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i..
Su queste premesse, rimane da verificare se, sul piano della
legislazione statale generale (cioè non settoriale), si possano
rinvenire principi generali richiamabili anche ai fini dell’esercizio
della competenza concorrente in materia di governo del
territorio ai sensi dell’art. 117, III comma, Cost..
Il rinvio “ipso facto” è all’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.;
rinvio che, “ope legis”, sembrerebbe, però, improponibile, in
virtù della precisa e chiara previsione del successivo art. 13, I
comma, della stessa legge: “Le disposizioni contenute nel
presente capo non si applicano nei confronti dell’attività della
pubblica
normativi,
amministrazione
amministrativi
diretta
generali,
all’emanazione
di
pianificazione
di
atti
e
di
programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme
che ne riguardano la formazione”.
72
Così F. Bassi, “Lezioni cit.”, 169. Vedansi: E. Sticchi Damiani, “Attività amministrativa
consensuale e accordi di programma”, Milano 1992; G. Mengoli, “Manuale cit.”, 385; G.
Cugurra, “Accordi e pianificazione territoriale e ambientale”, in Riv. Giur. Urb. 2000, 143 ss..
37
L’esclusione legislativa appare, sul piano letterale, chiara ed
inequivoca73. Senonchè l’art. 29 della stessa legge, al II comma,
sancisce che “Le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle
rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla
presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle
garanzie del cittadino nei riguardi dell’attività amministrativa,
così come definita dai principi fissati dalla presente legge”.
Questa disposizione, letta alla luce del I comma dell’art. 117
Cost., ha indotto una parte della dottrina a sostenere che l’art.
13 non è norma di principio vincolante la potestà legislativa
concorrente delle Regioni e che, di conseguenza, è lecito
“attendere ed auspicare limitazioni a tale deroga generale da
parte del legislatore regionale”74.
Né può dimenticarsi l’autorevole opinione75, secondo la quale:
“… anche ammesso che l’art. 13 l. n. 241 del 1990 incida
sull’ambito di applicazione della disciplina degli accordi pubblici,
73
Sul punto, in giurisprudenza, Cass. – Sez. Un. – 11 agosto 1997 n. 7452, in Riv. Giur. Ed.
1998, I, 54; Cass. – Sez. Un. – 25 novembre 1998 n. 11934, in Foro It. Rep. 1998, voce Edil.
Ed. Urb. n. 297. In dottrina, F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 416-417), che fa salve le
discipline di settore, portando l’esempio delle convenzioni di lottizzazione; F. Satta-F.
Cardarelli, “Il contratto amministrativo”, in Dir. Amm. 2007, 221.
74
N. Assini-P. Mantini (“Manuale cit.”, 177): “Gli enti locali possono concludere accordi
con i soggetti privati, nel rispetto del principio di pari opportunità e di partecipazione al
procedimento per le intese preliminari o preparatorie dell’atto amministrativo e attraverso
procedure di confronto concorrenziale per gli accordi sostitutivi degli atti amministrativi, al
fine di recepire negli atti di pianificazione proposte di interventi, in attuazione coerente degli
obiettivi strategici contenuti negli atti di pianificazione e delle dotazioni minime previste
dalla legge, la cui localizzazione è di competenza pubblica. L’accordo è soggetto alle
medesime forme di pubblicità e di partecipazione dell’atto di pianificazione che lo recepisce.
I procedimenti di negoziazione urbanistica sono retti dai principi di trasparenza e di pari
opportunità concorsuale. Nei piani strutturali sono indicati i criteri e i metodi per
l’individuazione dei corrispettivi richiesti nella negoziazione urbanistica. Per quanto non
disciplinato dal disegno di legge trovano applicazione le disposizioni in materia di
partecipazione al procedimento amministrativo, di accordi con i privati e di tutela
giurisdizionale, di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni”.
75
A. Travi, “Accordi tra proprietari e comune per modifiche al piano regolatore ed oneri
esorbitanti”, in Foro It. 2002, V, 277-278.
38
tale disposizione non vieta per nulla all’amministrazione di
procedere ad accordi pubblici rispetto ad atti di pianificazione,
come i piani regolatori generali. La norma, tutt’al più, esclude
l’obbligo per l’amministrazione di prendere in considerazione la
proposta di accordo di un privato, ma non la facoltà per
l’amministrazione, che lo ritenga opportuno, di procedere a un
accordo. Alla luce dell’art. 13 l’accordo “preparatorio” rispetto ai
contenuti di un piano regolatore (o di una sua variante) non può
ritenersi né vietato, né illegittimo: infatti l’art. 13 non pone alcun
divieto”.
Al riguardo, sembra necessario svolgere alcune considerazioni,
le
quali
devono
essere
precedute
da
una
“questione
pregiudiziale”.
Qualunque sia la tesi in ordine al portato del citato art. 13,
infatti, resta indispensabile che la materia degli accordi tra P.A.
e Privati sia disciplinata dalle leggi regionali. Da un lato, infatti,
non può che essere prevalente la riserva di competenza
legislativa regionale (per quanto nell’ambito “concorrente”) nella
materia del governo del territorio; dall’altro, in difetto di una
legge regionale, non può certamente eludersi il divieto dell’art.
13 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i..
Ciò premesso, la prima osservazione concerne il delicatissimo
tema del rapporto tra le leggi generali e le leggi di settore
39
rispetto alla legislazione regionale concorrente, soprattutto in
mancanza della legge-cornice76.
Or bene, da un lato appare indubbio che la legislazione di
settore non lasci spazio per individuare principi fondamentali in
tema di ammissibilità di accordi tra P.A. e privati (nell’accezione
prima definita) in ordine agli strumenti di pianificazione generale
e, dall’altro, è evidente che non è necessario invocare l’art. 11
L.
sul
procedimento
per
ammettere
atti
consensuali
relativamente alla pianificazione urbanistica attuativa; e ciò,
anche con (positivo) riferimento alla definizione contrattata – pur
se nel rispetto delle prescrizioni del piano regolatore generale –
degli indici urbanistico-edilizi concretamente applicati e delle
caratteristiche
costruttive,
ovverossia
con
attenzione
a
contenuti, tendenzialmente minori e di dettaglio, riguardanti la
pianificazione urbanistico-edilizia.
In questo quadro, può l’art. 11 citato essere idoneo a ritenere
sancito un principio fondamentale tale da consentire la
codificazione, nelle leggi urbanistiche delle Regioni a statuto
ordinario, degli accordi in materia urbanistica tra privati e
pubblica amministrazione, con particolare riferimento alla
pianificazione urbanistica generale?
La risposta pare dover essere negativa per l’assorbente rilievo
che il principio, in materia di accordi tra privati e P.A. nel campo
76
In questo senso, si esprimono anche N. Assini-P. Mantini (“Manuale cit.”, 130), i quali
sottolineano l’esigenza che gli accordi siano conclusi “nel rispetto del principio di pari
opportunità e di partecipazione al procedimento per le intese preliminari o preparatorie
dell’atto amministrativo e attraverso procedure di confronto concorrenziale per gli accordi
sostitutivi degli atti amministrativi”.
40
dell’urbanistica, si evince dalla lettura combinata dei menzionati
art. 11 e 13 L. cit. ed è un principio di esclusione, di non
ammissibilità77. E, se a questa contestazione non si accedesse,
non
si
supererebbe
comunque
il
rilievo
che
l’accordo
presuppone l’intervento nel procedimento, così come statuisce
chiaramente il precitato art. 1178. Il che comporterebbe che gli
accordi non potrebbero determinare l’avvio del procedimento
pianificatorio, ma dovrebbero presupporre che quest’ultimo sia
iniziato e che il privato intervenga nel procedimento stesso o
mediante l’esercizio del diritto di accesso, o tramite la
presentazione di osservazioni.
L’osservazione sembra tutto tranne che formalistica.
Il legislatore statale, infatti, ha introdotto il modulo consensuale,
come “via alternativa” rispetto all’azione unilaterale della P.A.,
su un presupposto chiaro (e, peraltro, indefettibile): l’esistenza
di un rapporto tra P.A. e Privato speciale e specifico,
determinato
dalla
potenziale
incidenza
dell’emanando
provvedimento sulla sfera giuridica soggettiva di quest’ultimo.
Ed è solo questa circostanza che determina la legittimazione ad
intervenire nel procedimento amministrativo, così come è
esclusivamente
questa
circostanza
che
rende
legittima
77
B. Cavallo (“Sussidiarietà orizzontale e l. n. 241/1990 nel governo del territorio” in Riv.
Giur. Urb. 2006, 399-400), nel ritenere insuperabile il dato normativo (“In claris non fit
interpretatio”), sottolinea: “Sono evidenti le ragioni che portano ad escludere la
partecipazione pattizia a questi procedimenti e provvedimenti amministrativi, dal momento
che l’accordo endoprocedimentale identicamente a quello sostitutivo, presuppone un
rapporto bilaterale preciso tra soggetti non rinvenibile nell’atto amministrativo generale, che
s’indirizza ad una pluralità non definibile di destinatari”.
78
F. Cangelli (“Potere discrezionale cit.”, 345) sottolinea testualmente: “L’ipotesi di una
fattispecie generale per l’attività amministrativa consensuale va, dunque, costruita in termini
procedimentali”.
41
l’instaurazione di un confronto con il singolo. Epperò è ancor più
chiaro che l’attività consensuale è ammessa solo per la miglior
soddisfazione dell’interesse pubblico, la cui cura la P.A. ha già
promosso – sua sponte – con l’avvio del procedimento
amministrativo. Se così non fosse, se l’accordo determinasse
l’avvio del procedimento non saremmo di fronte ad un accordo
sul contenuto del provvedimento, ma sul provvedimento, cioè
sulla sua emanazione, con contrasto evidente con gli artt. 3 e
97 Cost.: “L’accordo si colloca esclusivamente in seno
all’esercizio di un’attività che l’amministrazione svolge in veste
di autorità e che, salvo appunto una definizione consensuale, ha
quale esito l’emanazione di un provvedimento, ovvero la
produzione unilaterale di effetti giuridici nella sfera altrui a
prescindere
dal
consenso
del
destinatario
degli
effetti
medesimi”79.
Peraltro, è proprio il contesto procedimentale, con la sua
valenza giuridica e con le coessenziali garanzie costituzionali e
non, a rendere plausibile non il mero confronto, ma il confronto
negoziale tra P.A. e Privati, nel rispetto dei principi costituzionali
(“in primis”, art. 97 Cost.) e non, che reggono l’azione dei
pubblici poteri amministrativi80.
La tesi dell’accordo “preparatorio”, infine, non sfugge al
problema di inquadramento della figura ipotizzata.
79
80
F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 413.
Cons. St. – sez. VI – 15 maggio 2002 n. 2636 in Cons. St. 2002, I, 1411.
42
Se non è un accordo procedimentale per il divieto dell’art. 13,
può essere una mera richiesta del privato che il Comune può
ritenere, unilateralmente, di assumere, senza, però, poter
autolimitare,
obbligandosi
preventivamente
a
recepirlo
nell’emanando provvedimento pianificatorio81.
Pertanto, anche accedendo alla tesi non condivisa, risulta di
poter constatare che i principi evincibili dalla legislazione
nazionale di settore e generale (gli artt. 11 e 13 citati)
richiedono:
a) la pendenza di un procedimento pianificatorio82;
b) le condizioni giuridiche di partecipazione di chiunque sia
interessato (artt. 7 e 9 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.) nel
singolo (e concreto) procedimento pianificatorio83;
c) l’esercizio del diritto di intervento (art. 10 L. cit.) come
“condicio iuris” dell’accordo (art. 11, I comma, L. cit.)84.
La recente introduzione del comma 4 bis dell’art. 11 L. citata
sottolinea ancora di più l’essenzialità che, per il legislatore
statale, hanno il contesto procedimentale e la qualità di
81
A. Travi, “Accordi tra proprietari cit.”, 277.
F. Bassi, “Lezioni cit.”, 170; F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 412) afferma con nettezza:
“Per quanto riguarda i profili funzionali, un dato sembra pacifico. Gli accordi costituiscono
una modalità di esercizio del potere amministrativo. Essi sono disciplinati dalla legge sul
procedimento e possono essere conclusi, per espressa previsione normativa, esclusivamente
nell’ambito di un procedimento amministrativo avviato, ovvero nell’ambito del concreto
esercizio del potere autoritativo dell’amministrazione … Da ciò deriva che senza un
procedimento ed un presupposto potere autoritativo attribuito dall’ordinamento
all’amministrazione non può esservi alcun accordo ex art. 11. La tipicità degli accordi è,
quindi, legata alla tipicità del potere di provvedere”.
83
F. Satta-F. Cardarelli, “Il contratto amministrativo” cit., 219-220.
84
F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 418) sottolinea testualmente: “Quello degli accordi, infatti,
non è solo un istituto del procedimento amministrativo, ma è un istituto di partecipazione al
procedimento”.
82
43
interveniente della parte privata per la legittimità degli
accordi.
Al riguardo, basta considerare che l’approvazione dell’art. 4
bis non ha la valenza di recepimento del contenuto
dell’accordo
nell’emanando
provvedimento,
ma
ha
la
funzione e l’efficacia giuridica di un’autorizzazione alla
stipulazione, cioè di un vero controllo preventivo85.
La decisione del recepimento o meno sarà successiva, ma –
per rispetto del principio di imparzialità e di buona
amministrazione (art. 97 Cost.), nonché di quello di
trasparenza – la legge impone che l’accordo sia (per così
dire)
acquisito
ufficialmente
agli
atti per
chiarire
la
responsabilità della P.A., per tutelare la controparte e per
consentire ai controinteressati di interloquire già nel contesto
procedimentale86.
Del resto, se la via dell’accordo è un’alternativa all’esercizio
nelle forme tradizionali della competenza amministrativa,
non può che essere sottoposta alle stesse regole “in quanto
compatibili”, fermo restando che, di fronte alle garanzie
costituzionalmente
imposte
o
comunque
dalla
Carta
costituzionale discendenti, la compatibilità dovrà essere
85
F. Bassi, “Lezioni cit.”, 28.
D. Sorace (“Diritto delle amministrazioni pubbliche cit.”, 335) osserva sul punto: “Con
l’atto in questione (la “determinazione”) si intende realizzare la “evidenza pubblica”,
rendendolo (n.d.r.: l’accordo) conoscibile e valutabile da chiunque, circostanza questa che,
ponendosi come applicazione del principio di trasparenza, rende più improbabile che,
attraverso contrattazioni ed accordi, una amministrazione si sottragga più facilmente
all’obbligo del rispetto di quei principi”.
86
44
assicurata con l’adeguamento della disciplina degli accordi
ai principi pubblicistici e non a quelli privatistici.
Su queste premesse, non può non condividersi la tesi,
secondo la quale “la significativa rilevanza giuridica che ha,
dunque, l’ambientazione degli accordi nel procedimento
sembra giustificare la deduzione che una loro conclusione al
di fuori del procedimento potrebbe avere conseguenze sulla
validità
dell’accordo
e
quindi
sulla
legittimità
del
provvedimento che dovesse eventualmente seguire”87;
d) la restrizione delle fattispecie (eventualmente) ammissibili ai
soli accordi procedimentali o integrativi, con esclusione degli
accordi sostitutivi di provvedimento88.
Le ragioni sono molteplici, ma una pare avere efficacia
assorbente: non può ammettersi lo stravolgimento del
procedimento pianificatorio attraverso l’ammissibilità di
accordi sostitutivi in materia urbanistica.
Peraltro, l’accordo tra P.A. e Privati in materia urbanistica
non può avere, per le ragioni che saranno più avanti
precisate,
un
contenuto
tale
da
poter
sostituire
la
determinazione finale dell’Amministrazione competente.
Né può dimenticarsi, anche volendo superare il divieto
dell’art. 13 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., che, in ogni caso,
87
D. Sorace, “Diritto delle amministrazioni pubbliche cit.”, 335.
E. Casetta (“Profili della evoluzione dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione”,
in Dir. Amm. 1993, 12) sottolinea che l’accordo procedimentale o integrativo di
provvedimento “accede” al provvedimento finale, ma non lo sostituisce. M. Magri (“Gli
accordi con i privati nella formazione dei piani urbanistici strutturali” in Riv. Giur. Urb. 2004,
555.
88
45
gli strumenti urbanistici sono atti generali e normativi,
cosicchè non potrà mai prescindersi da un procedimento che
garantisca
la
massima
partecipazione,
il
più
ampio
contraddittorio e l’imparzialità, anche sotto il profilo della
garanzia di concorso nella determinazione delle decisioni89.
Per questo, non potrebbe ammettersi un accordo sostitutivo
neanche con valenza di mera adozione dello strumento
urbanistico, posto che le condizioni di partecipazione e di
contraddittorio
sarebbero
alterate,
potendo
i
controinteressati ed i terzi, sul piano procedimentale,
esclusivamente presentare osservazioni, la cui portata non
ha bisogno di essere descritta.
Le
considerazioni
ora
svolte
evidenziano,
altresì,
la
necessità che la disciplina legislativa degli accordi provveda
anche a dettare le norme procedimentali.
A questo proposito, è evidente che il procedimento
pianificatorio urbanistico dovrà prevedere, puntualmente,
tanto il momento della approvazione dell’accordo prima della
stipulazione (art. 11, comma 4 bis, L. 7 agosto 1990 n. 241
s.m.i.), quanto quello della decisione sul recepimento del
medesimo nell’atto pianificatorio, regolandone, per entrambi
i passaggi, anche le norme sulla pubblicità, sulla trasparenza
e sul diritto di contraddittorio dei terzi.
89
F. Fracchia, “L’accordo cit.”, 203 ss..
46
Dovrà essere opportunamente indicato anche l’organo
competente,
pur
se
riesce
difficile
non
ritenere
–
naturalmente ed inevitabilmente – competente l’organo, cui
spetta
l’approvazione
dello
strumento
pianificatorio
urbanistico;
e) la chiara finalizzazione dell’accordo “in ogni caso al
perseguimento dell’interesse pubblico” (art. 11, I comma, L.
cit.). Il che, nella prospettiva tanto del principio di
imparzialità90, quanto di quello di proporzionalità, significa
che l’accordo deve servire a bilanciare o contemperare – al
meglio – l’interesse pubblico primario con l’interesse privato
del “contraente” (ovviamente senza dimenticare la necessità
di valutazione e tutela degli altri interessi coinvolti),
attraverso l’individuazione pattizia delle condizioni per
raggiungere tale scopo (queste essendo la “ratio” e la
“funzione” della figura stessa). Epperò significa anche che
l’accordo non può essere determinato né modulato sulla
soddisfazione dell’interesse privato dello stipulante, al quale
venga,
in
qualche
modo,
formalmente
affiancato
o
giustapposto un interesse pubblico pianificatorio dai confini
(abbastanza) sfumati.
90
F. Cangelli (“Potere discrezionale cit.”, 232) osserva: “… lungi dal ritenere
l’amministrazione svincolata dal requisito dell’imparzialità nell’attività consensuale, va
individuato il “quid pluris” che la caratterizzi e la renda compatibile con la struttura delle
fattispecie consensuali … in altri termini, se la soluzione apprestata per il concreto episodio
di azione amministrativa rappresenta la cura ottimale dell’interesse pubblico esso
considerato come oggettivamente imparziale per definizione”.
47
L’interesse pubblico deve essere dimostrato, deve essere
prevalente e trovare, nel vincolo che il privato assume con
l’accordo, la soddisfazione “migliore”, cioè quella che non
sarebbe consentita dall’esercizio della funzione pianificatoria
secondo il modello classico91.
A tale proposito, per tutte le considerazioni già svolte, è
evidente che l’interesse pubblico di cui parla l’art. 11, I
comma, L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. (che è l’“interesse
pubblico primario” di M.S. Giannini), nell’ipotesi degli accordi
urbanistici (se “specie” degli accordi del citato art. 11), non
potrà identificarsi nel mero corrispettivo economico (in
denaro o in opere pubbliche) che il privato si impegni a
realizzare.
Quest’ultimo
rafforzamento
può
dell’opportunità
aggiungersi
ad
amministrativa
ulteriore
della
stipulazione dell’accordo, ma non può rendere legittimo e
conforme al merito il provvedimento di recepimento
dell’accordo, se quest’ultimo non determina – prima (e
pregiudizialmente) – il raggiungimento (quanto meno) di
migliori
(e
soddisfazione
non
altrimenti
dell’interesse
ottenibili)
urbanistico
condizioni
di
generale92,
foss’anche attraverso l’adesione del privato ad una o più
91
Cons. St. – sez. VI – 15 maggio 2002 n. 2636 in Cons. St. 2002, I, 1411 e, con testo
integrale, in www.giustiziaamministrativa.it. In dottrina, M. Magri, “Gli accordi cit.”, 556.
92
Sul punto, vedasi M. Magri (“Gli accordi cit.”, 557), il quale sostiene che: “…
l’ammissibilità dell’accordo c.d. integrativo deriva da un giudizio prognostico, “ex ante”,
sulla essenzialità del negozio al fine di costituire il risultato da questo discendente, da
effettuarsi con il criterio della eliminazione ipotetica dell’accordo, per verificare se, senza
quest’ultimo, il risultato di cui sopra avrebbe potuto ugualmente essere ottenuto dalla
pubblica amministrazione mediante l’adozione unilaterale del provvedimento”.
48
clausole provvedimentali non imponibili al privato medesimo
senza la sua acquiescenza93.
Come si è già più volte sottolineato, infatti, gli accordi tra
P.A. e Privati dell’art. 11 predetto hanno la propria causa (in
senso tecnico-giuridico), senza nessuna distinzione rispetto
al provvedimento amministrativo (nel quale, del resto, se
integrativi, sono destinati a trasfondersi), nella necessità di
agire per curare, nel singolo caso, l’interesse pubblico
primario e nel costituire gli accordi stessi un’opportunità per
soddisfare, quanto mai efficientemente, lo stesso interesse
pubblico. In altre parole, l’accordo dell’art. 11 L. 7 agosto
1990 n. 241, ove ammesso nell’ambito urbanistico, sarebbe
uno strumento non di depotenziamento, ma di rafforzamento
della competenza pianificatoria, consentendo di rendere più
complementare l’interesse privato a quello pubblico e non
viceversa94.
E
così,
ad
esempio,
la
modificazione
migliorativa (ad esempio, dal punto di vista della sicurezza
stradale) del tracciato di una strada comunale, che per il
privato porti alla liberazione di un proprio terreno e
all’utilizzabilità
dello
stesso
per
l’ampliamento
di
un
insediamento produttivo e della quale (strada) il privato si
accolli la realizzazione, risponderà certamente all’interesse
93
E. Casetta, “Profili cit.”, 12; M. Dugato, “Atipicità e funzionalizzazione nell’attività
amministrativa per contratti”, Milano 1996, 198; N. Aicardi, “La disciplina generale e i
principi degli accordi amministrativi: fondamento e caratteri”, in Riv. Trim. Dir. Pubbl.,
1997, 29.
94
A. Police, “La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza
nell’esercizio del potere discrezionale”, Napoli 1997; passim, P.L. Portaluri, “Potere
amministrativo e procedimenti consensuali. Studi sui rapporti e collaborazione necessaria”,
Milano 1998; passim, F. Cangelli, “Potere discrezionale cit.”, 258 ss..
49
pubblico. Non sarebbe così allorché l’accordo urbanistico si
dovesse ridurre ad un mero scambio tra modificazione della
previsione urbanistica e impegno a realizzare una data
opera pubblica. In un simile caso, infatti, la tutela e la
prevalenza dell’interesse pubblico non sarebbero garantite,
ma sostanzialmente verrebbe soddisfatto (solo) un interesse
privato, secondo la mera logica contrattuale privatistica. Il
che realizzerebbe un effetto sicuramente contrario al
principio costituzionale di uguaglianza e a quello di
imparzialità: l’interesse privato verrebbe premiato non come
risultato del bilanciamento degli interessi richiesto dall’art. 97
Cost., ma come conseguenza della capacità economica del
privato95. In altri termini, l’accordo urbanistico, pur potendo
contenere obbligazioni anche pecuniarie, deve rimanere un
“accordo ufficioso”96 e non può mai diventare (né avvicinarsi
– per funzione, struttura e disciplina giuridica – ad) un
95
La codificazione degli accordi è stata accolta da taluni come misura opportuna per
eliminare la prassi penalmente rilevante delle intese tra Comuni e privati in materia
urbanistica, che riducevano il problema ad una questione meramente economica.
96
L’espressione è di M.S. Giannini, “Diritto amministrativo”, II ed., vol. II, 587, il quale
precisa testualmente: “Questi atti sono chiamati dalla pratica accordi ufficiosi. Ma il nome
non deve trarre in inganno, perché qui “accordo” ha un significato molto particolare.
L’accordo ufficioso non vincola, né l’amministrazione né il privato; la prima può adottare
una decisione diversa da quella stabilita nell’accordo ufficioso, se si convince che l’interesse
pubblico è in senso diverso: il solo rischio che corre è che il provvedimento divenga
attaccabile per eccesso di potere, ma è un rischio superabile se i motivi vi sono e la
motivazione è adeguata. Il privato similmente può, con una dichiarazione contraria,
disvolere, e non è neppure tenuto a motivare.
Tuttavia non sarebbe neppure esatto ritenere l’accordo ufficioso un fatto giuridicamente
irrilevante. A prescindere da tale profilo, ha rilevanza come decisione sostanziale: si è detto
dianzi che se l’amministrazione va in diverso opinamento, deve motivare; ma anche se si
attiene all’accordo ufficioso, questo conserva sempre un suo valore motivazionale della
decisione quale si sarà formalizzata nel provvedimento”.
50
contratto
a
prestazioni
corrispettive97,
ché
questo
significherebbe la privatizzazione della funzione urbanistica,
costituzionalmente inconcepibile e comunque non consentita
neanche dalla legislazione ordinaria98. E, “in primis”, vietata
dallo stesso art. 11 c.d. L. sul procedimento, che – come già
evidenziato
–
consente
l’accordo
“nel perseguimento
dell’interesse pubblico” primario. Il che significa che il ricorso
all’accordo è (lecito e) legittimo solo se giustificato dalla cura
di quest’ultimo e non del più generico ed indifferenziato
interesse della P.A. ad ottenere utilità99-100;
f) la coerenza del contenuto degli accordi con le linee di
impostazione tecnica e giuridica dello strumento urbanistico
97
F.G. Scoca (“La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul
procedimento” in Dir. Amm. 1995, 1 ss.) parla di “area totalmente diversa da quella propria
dei contratti”.
98
G. Greco (“Accordi amministrativi” cit., 128-129) sottolinea, tra l’altro: “… il passaggio
dall’esercizio unilaterale del potere all’esercizio consensuale dello stesso non comporta
alcuna “deregulation” normativa: sicchè permangono nel secondo caso tutti i parametri
normativi (e con i presupposti e i requisiti di fatto e di diritto) che presiedono allo
svolgimento del primo. Inoltre, trattandosi di accordo sul contenuto discrezionale, non può
esorbitare da detto ambito, almeno per quel che concerne l’esercizio del potere. E così come
non può (validamente) violare (o derogare) i parametri normativi dell’esercizio del potere,
non può, d’altra parte, comportare rinuncia all’esercizio di ulteriori poteri, previsti dalla
legge e conferiti alla stessa Amministrazione, che questa volta compare in veste di
contraente. …Sicché, in conclusione, l’espresso riferimento legislativo al contenuto
discrezionale del provvedimento è di per sé in grado di fornire ogni esauriente indicazione
anche in ordine al regime della manifestazione di volontà dell’Amministrazione nell’accordo.
Perché l’osservanza dei canoni della scelta discrezionale non può certo essere soddisfatta e
garantita dalla disciplina codicistica e tanto basta – come espressamente riconosciuto dalla
dottrina, sia pure su di un piano più generale – per precludere ogni inquadramento
privatistico della vicenda”.
99
P. Urbani (“Pianificare cit.”, 181) afferma che la “ratio” della “pianificazione per accordi”
è la ricerca del consenso del privato per ottenere il migliore assetto del territorio nell’interesse
della collettività e soprattutto la sua contemporanea attuazione.
100
M. Magri (“Gli accordi cit.”, 562), sulla scia della sentenza del Consiglio di Stato – sez. VI
– 15 maggio 2002 n. 2636 cit., giunge a sostenere: “Dal che sembrerebbe possibile dedurre
che lo stesso ius aedificandi, nella logica di un accordo, non viene in considerazione nella
sua veste di attributo originario del diritto di proprietà – secondo la ricostruzione ancora
molto in auge in dottrina e nella giurisprudenza (anche costituzionale) – ma diventa piuttosto
la remunerazione di vantaggi pubblici o di prestazioni del privato di interesse sociale
“comunitario” (il “rilevante interesse per la comunità locale”), che rappresentano il vero
risultato pratico o, se si preferisce, la “causa” dell’accordo medesimo; ed in favore dei
quali, anzi, il beneficio della edificabilità ben potrebbe richiedere un previo
“contingentamento”.
51
generale, cui si riferisce. A questo riguardo, è evidente che
l’accordo può avere maggiore ampiezza e superiore
incidenza nel caso in cui riguardi un nuovo piano regolatore,
mentre il contenuto discrezionale che potrà essere oggetto
di accordo sarà minore, allorché si opererà nell’ambito di un
procedimento di variante – foss’anche generale – ad uno
strumento urbanistico vigente. In ogni caso, però, non potrà
mai riguardare né le linee di indirizzo, né le scelte di fondo,
né la disciplina generale di piano (ad esempio, le norme
generali di singole zone omogenee), ma dovrà concernere
aspetti circoscritti e funzionali alla fattispecie di riferimento,
cioè a quella che spinge a ricercare l’accordo.
Del resto, il limite dell’accordo “de quo” è sancito anche dalla
sussistenza dell’interesse ad intervenire nel procedimento
pianificatorio ai sensi dell’art. 7 L. 7 agosto 1990 n. 241
s.m.i. e dalla salvezza dei diritti dei terzi. Da un lato, è
evidente che l’accordo può essere uno strumento legittimo
per contemperare, al meglio, l’interesse pubblico con un
determinato interesse giuridicamente rilevante; dall’altro, il
rispetto dei diritti dei terzi risulta, nel caso, la disciplina
espressa del “perimetro” dell’accordo, che non può avere ad
oggetto la soluzione del potenziale conflitto (e, comunque,
delle potenziali criticità del rapporto) tra interesse pubblico
primario e interesse della controparte. Il che, naturalmente,
non può escludere il pregiudizio – indiretto, anche se, per
52
questo, non
giuridicamente irrilevante
– di posizioni
giuridiche soggettive di terzi101. E tra questi terzi, a ben
riflettere, potrebbe ritrovarsi anche il titolare del diritto di
proprietà di un fondo, qualora l’accordo – ad esempio –
intervenisse con il titolare del diritto di superficie102.
Se così non fosse, se cioè l’accordo concernesse la
disciplina
generale
dello
strumento
urbanistico,
si
trasformerebbe l’accordo medesimo in un nuovo modello di
co-pianificazione, chiaramente incompatibile – quanto meno
– con gli artt. 3 e 97 Cost..
L’accordo stesso assumerebbe una portata diversa da
quella ammessa dalla legge, ovverossia quella di atto di
pianificazione e non di intesa su taluni profili discrezionali di
questo. Ed è solo quest’ultima fattispecie, a ben riflettere e a
tutto concedere, che può rendere ammissibili gli accordi
urbanistici pubblico-privati sulla scia dell’art. 11 L. 7 agosto
1990 n. 241 s.m.i., ché solo in questo limitato ambito non
viene
incisa
la
natura
autoritativa
della
pianificatoria
urbanistica
e
l’indisponibilità
e
negoziabilità
la
non
resta
competenza
salvaguardata
dell’interesse
urbanistico.
In altri e più radicali termini, non può essere negoziato l’“an”,
né il “quid”, ma il “quomodo”. Ad esempio, operata
dall’Amministrazione Comunale la scelta di introdurre una
101
102
Sul tema, vedasi F. Fracchia, “L’accordo sostitutivo cit.”, 184 ss..
Sul punto, vedasi M. Magri (“Gli accordi cit.”, 562-563).
53
zona agricola speciale (che significa che unilateralmente
sono stati definiti l’“an”, cioè la soggezione di determinati
fondi a detta zona omogenea speciale, e il “quid”, cioè
l’introduzione di una disciplina differenziata nell’ambito delle
zone
agricole),
può
essere
concordata
la
disciplina
edificatoria per le aree ivi ricomprese, naturalmente nei limiti
generali caratterizzanti le zone agricole in quanto tali. Il che
è come dire qual è il portato, il (quo)modo, della
sottoposizione a tale zona omogenea, e non la scelta
zonizzativa in sé e per sé considerata;
g) il rispetto del principio di pari opportunità concorsuale (art.
11, comma 1-bis, L. 7 agosto 1990 n. 241)103. In questa
prospettiva, il Comune deve farsi parte attiva – giusta anche
i principi di trasparenza e di pubblicità – per consentire la
partecipazione alla definizione dell’accordo (che avviene
nell’ambito
di
un
procedimento
connesso
a
quello
pianificatorio e secondario rispetto al medesimo) di chi sia
controinteressato (in quanto (com)proprietario o delle aree
interessate, o di quelle coinvolte dalle scelte pianificatorie,
ovvero perchè intervenuto nel procedimento pianificatorio
occupandosi delle medesime aree o zone). “A priori”,
peraltro, non può nemmeno escludersi una situazione di
potenziale concorrenza tra aspiranti ad un determinato
accordo. È evidente che la P.A., in tale eventualità,
103
N. Assini-P. Mantini, “Manuale” cit., 190-191.
54
dovrebbe garantire la “par condicio” tipica delle procedure di
evidenza pubblica104;
h) l’esigenza che l’accordo rispetti le garanzie del cittadino (“ex
multis” art. 29, II comma, L. sul procedimento). Non può (né
deve),
infatti,
mai
dimenticarsi
che
i
provvedimenti
urbanistici, per definizione finalizzati al perseguimento
dell’interesse al corretto uso del territorio, hanno due
destinatari:
i
cittadini,
tutti
indistintamente,
portatori
dell’interesse superindividuale a che le decisioni vadano nel
senso della salvaguardia del territorio come bene collettivo,
e i proprietari dei singoli terreni.
È evidente che l’interesse superindividuale105 non può non
avere considerazione prioritaria ed è chiaro che l’interesse
del singolo proprietario dovrà essere bilanciato anche
rispetto
a
questo
interesse;
epperò
sembra
doversi
sottolineare che la presenza di interessi superindividuali106
impone alla P.A. il dovere di essere garante, in sede di
accordo urbanistico ex art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.,
104
F. Fracchia (“L’accordo cit.”, 204) osserva: “L’ambito dei soggetti che, in quanto
legittimati alla partecipazione, hanno la facoltà di proporre la conclusione dell’accordo è
peraltro molto ampio. Esso ricomprende ad esempio i portatori di interessi diffusi costituiti in
associazioni o comitati e i portatori di interessi pubblici: l’accenno disvela l’erroneità di una
prospettiva che pretendesse di configurare l’accordo come uno strumento di determinazione
concordata relativa ai tradizionali rapporti tra amministrazioni e singoli privati, atteso che
lo spettro degli interessi ai quali l’atto in esame può dare assetto è ben più esteso”.
105
E. Casetta, “Manuale cit.”, 108 ss., ricorda, con attenzione al problema della tutela: “…
ogni giudice ha offerto una interpretazione del fenomeno degli interessi superindividuali
strettamente legata alla propria esperienza. Quello amministrativo si è preoccupato di
tradurli in interessi legittimi; quello ordinario … diritti soggettivi fondati su norme
costituzionali in capo ai titolari di interessi diffusi …; il giudice contabile, infine, aveva in
passato identificato gli interessi diffusi con gli interessi pubblici, ritenendosi di conseguenza
giudice naturale degli stessi”.
106
R. Lombardi, “La tutela delle posizioni giuridiche meta-individuali nel processo
amministrativo”, Torino 2008, 111 ss..
55
della salvaguardia dell’interesse superindividuale medesimo,
a nulla rilevando la legittimazione all’intervento delle
associazioni e dei comitati riconosciuti ai sensi dell’art. 9 L.
sul procedimento e il mancato intervento di questi ultimi nel
singolo procedimento pianificatorio. Il che restringe i margini
della discrezione dell’Amministrazione contraente tanto in
ordine al contenuto, quanto in ordine alla stipulazione
dell’accordo medesimo.
D’altra parte e (con tutta probabilità) pregiudizialmente, non
può non tenersi conto della rilevanza generale del bene
“territorio”, del bene “paesaggio”, del bene “ambiente” e del
diritto alla salute e all’ambiente salubre, cioè dei c.d. diritti
resistenti o non degradabili107, nonché delle interrelazioni tra
gli stessi, che determinano il condizionamento, prima
sostanziale che giuridico-formale, delle scelte urbanistiche
sulla cura degli altri beni e diritti or ora citati.
In altri termini, sul piano sistematico, se sono condivise le
considerazioni appena svolte, non può non ritenersi che gli
eventuali accordi urbanistici non potranno non avere una
portata disciplinatrice meno ampia, nel senso che l’assetto
degli interessi non potrà non tener conto del quadro
particolarmente complesso degli interessi in gioco, con la
conseguenza che il vincolo del perseguimento dell’interesse
107
Da ultimo, Cass. – SS.UU. – 21 marzo 2006 n. 6218 in Giust. Civ. Mass. 2006, 3. Sulla
problematica, si rinvia, da ultimi, a: F.G. Scoca, “Le situazioni giuridiche soggettive dei
privati” in F.G. Scoca (a cura di), “Diritto amministrativo” cit., 159-160; D. Sorace, “Diritto
delle amministrazioni” cit., 405 ss..
56
pubblico non potrà dirsi rispettato se non sarà realizzato il
bilanciamento anche (e prioritariamente) con l’interesse
superindividuale, che non può farsi coincidere – sia chiaro –
con l’interesse pubblico primario.
Nel suo nucleo peculiare l’interesse urbanistico primario,
quindi, non può non essere considerato indisponibile.
L’asserita indisponibilità non significa, ovviamente (una volta
ammessi gli accordi in materia), assoluta non negoziabilità,
ma comporta che lo strumento pattizio – come già detto –
non possa “privatizzare” l’interesse pubblico urbanistico,
cosicchè l’accordo dovrà sempre risultare strumento –
formale e, soprattutto, sostanziale – di soddisfacimento del
citato interesse pubblico. Il che, come è notorio, giusta i
principi di imparzialità e di proporzionalità, non si tradurrà
nella penalizzazione pregiudiziale e immotivata dell’interesse
privato,
ma
nell’individuazione
del
giusto
mezzo
di
perseguimento dell’interesse pubblico e, quindi, di minore
penalizzazione possibile di quello privato108;
i) l’accordo
“de
quo”,
peraltro,
potrà
concernere
esclusivamente il contenuto discrezionale del provvedimento
amministrativo.
Come notorio, questo limite è sancito espressamente
dall’art. 11 c.d. legge sul procedimento, ma, a ben riflettere,
108
F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 419) sottolinea che “il vincolo per l’amministrazione del
perseguimento dell’interesse pubblico … dimostra come la scelta dello strumento
consensuale corrisponda all’esercizio di un potere discrezionale, e più precisamente dello
stesso potere che avrebbe permesso la definizione unilaterale del procedimento”.
57
è un limite prima logico-giuridico e di sistema e, poi, di diritto
positivo.
L’accordo tra P.A. e Privato non può, infatti, concernere
materie o profili disciplinari, di cui la stessa Amministrazione
pubblica non può, in alcuna misura, “disporre”, essendo
titolare di un potere vincolato109.
Questo esclude, ovviamente, che l’accordo possa consentire
di modificare le decisioni vincolate contenute negli strumenti
urbanistici (si pensi, ad esempio, al recepimento delle fasce
di rispetto stradale).
Accedendo alla tesi favorevole agli accordi urbanistici tra
Comune e privati in applicazione dell’istituto disciplinato dal
più volte richiamato art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.,
questi sembrano i principi fondamentali evincibili, in assenza
della legge-cornice, dalla legislazione statale, peraltro –
ripetesi – generale e non settoriale.
7. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione
regionale. La disciplina della Regione Veneto.
Con attenzione al quadro descritto nei precedenti paragrafi,
verrà svolta l’analisi della legislazione urbanistica delle Regioni
a statuto ordinario, per individuare ed esaminare le fattispecie di
accordi tra P.A. e privati eventualmente contemplati.
L’esame della legislazione urbanistica delle Regioni a statuto
ordinario porta a constatare che sono (ancora) poche quelle che
109
F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 416. Contra, sul piano generale, F. Satta-F. Cardarelli, “Il
contratto cit.”, 219, sia pure limitatamente agli accordi procedimentali.
58
hanno legiferato in materia di accordi tra privati e P.A.: Veneto,
Emilia-Romagna (la prima a introdurre la fattispecie degli
accordi “de quibus” nella propria legislazione urbanistica) e
Umbria.
La Regione Veneto, all’art. 6 L.R. 23 aprile 2004 n. 31,
disciplina gli accordi tra soggetti pubblici e privati, stabilendo sia
che tutti gli enti territoriali possono stipulare accordi con soggetti
privati “per assumere nella pianificazione proposte di progetti o
di iniziative di rilevante interesse pubblico”, sia che gli accordi
sono finalizzati alla “determinazione di alcune previsioni del
contenuto discrezionale degli atti di pianificazione territoriale ed
urbanistica, nel rispetto della legislazione e della pianificazione
sovraordinata, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, che vengono
recepiti con l’adozione dello strumento di pianificazione”. È
previsto, infine, per quanto non espressamente disciplinato, il
rinvio all’art. 11, commi II e seguenti, L. 7 agosto 1990 n. 241
s.m.i.110.
La
formulazione
inevitabilmente
della
connesse
norma
soffre
all’adattamento
delle
incertezze
della
fattispecie
dell’art. 11 L. sul procedimento al contesto dell’azione
110
La novella è stata commentata da M. Breganze (“La nuova pianificazione urbanistica
territoriale in Veneto e gli accordi con i privati” in Riv. Giur. Urb. 2005, 210 ss.) che, sulla
portata generale della stessa, così si è testualmente espresso: “La legge veneta fa, quindi,
uscire dalla semiclandestinità gli accordi che di fatto già esistevano – per lo più proprio per
poter dare concreta attuazione al piano – ma che assai spesso dovevano esprimersi in forme
camuffate di apparentemente spontanei atti unilaterali d’obbligo ad alcunché, laddove il
piano avesse avuto ad essere modificato in un certo modo”.
59
pianificatoria territoriale ed urbanistica111. Con tutto questo, la
disposizione sembra limitare l’ambito di questi accordi alle sole
ipotesi, nelle quali la determinazione concordata di previsioni
urbanistiche sia finalizzata a rendere concretamente realizzabili
progetti o iniziative private, che siano caratterizzate dalla
rispondenza anche ad un “rilevante interesse pubblico”. Questa
finalizzazione è la ragione dell’eccezione ai principi dell’azione
pianificatoria e non può, pertanto, non essere intesa, sul piano
interpretativo
e
sistematico,
come
necessariamente
caratterizzata dall’indispensabilità (= non fungibilità con gli
strumenti
pianificatori
ordinari)
e
dalla
diretta
rilevanza
dell’accordo per la realizzabilità dell’opera di “rilevante interesse
pubblico”112.
In altri termini, il legislatore veneto preconizza che il ricorso
all’accordo sia possibile (solo) allorché lo stesso costituisca lo
strumento indispensabile per creare le condizioni per la
realizzazione dell’opera medesima, altrimenti non realizzabile.
Sempre sul piano interpretativo e sistematico, l’accordo, per il
contenuto convenzionale relativo allo stipulante privato, deve
apparire l’unico mezzo per far assumere a quest’ultimo obblighi
(in senso lato), che non sarebbero imponibili tramite le
prescrizioni legittimamente introducibili autoritativamente dalla
111
M. Breganze (“La nuova pianificazione” cit., 220) sottolinea che gli accordi “de quibus”
sono ammessi dalla L.R. Veneto “contrariamente al divieto posto per gli atti pianificatori
dall’art. 13 della legge 241 del 1990”.
112
M. Breganze (“La nuova pianificazione” cit., 221), con una considerazione più di sintesi
che non strettamente esegetica, sottolinea: “Quel che è certo, peraltro, è che delle
potenzialità operative della nuova disposizione le amministrazioni dovranno – è di tutta
evidenza – far uso “cum grano salis”.
60
P.A. in sede pianificatoria. In differenti parole (e nella
consapevolezza che il diritto vivente o materiale va in altro
senso), l’accordo deve consentire alla P.A. di raggiungere
obiettivi non perseguibili tramite la normale azione pianificatoria
e costituire, quindi, il mezzo per un’azione amministrativa che
meglio risponda al requisito del merito amministrativo.
Peraltro, se le parole contenute nelle leggi – sia scusata la
sottolineatura – hanno ancora un significato ed un peso, il
legislatore veneto pone un’altra “condicio iuris”, non meno
importante e restrittiva: il progetto o l’iniziativa del privato deve
assumere una connotazione di “rilevante interesse pubblico”.
Or bene, l’espressione non può essere interpretata come riferita
ai soli interessi pubblici primari o costituzionalmente garantiti
(salute, ambiente, paesaggio ed altri), essendo chiaro che il
legislatore ha inteso riferire il “rilevante” all’utilità pubblica che,
nel singolo contesto, l’opera privata assume.
In questo quadro, per esemplificare, la costruzione di una clinica
privata in un comune privo di strutture sanitarie può far ritenere
rilevante l’interesse a dotare il territorio comunale dell’opera
medesima, soprattutto se destinata ad operare in regime
convenzionale; in un comune già dotato dal punto di vista
sanitario, al contrario, la costruzione di un nuovo ospedale
privato può non rivestire alcun interesse o, in ogni caso, rende
improbabile la sussistenza di un “rilevante” interesse pubblico. È
chiaro, infatti, che la costruzione di un nuovo insediamento
61
sanitario risponde – sempre e comunque – all’interesse
pubblico (se non altro sotto il profilo occupazionale e del
potenziale flusso di persone), ma è altrettanto palese che non è
questo l’interesse pubblico, cui si è riferito il legislatore veneto.
Questi, infatti, ha individuato, al contrario, un interesse pubblico
quali-quantitativamente specifico e speciale e, per questo,
rilevante.
Il riferimento del legislatore regionale comporta anche un
precipuo obbligo di motivazione dell’accordo e, comunque, del
suo recepimento: la sussistenza dell’interesse pubblico e,
soprattutto, la sua rilevanza vanno dimostrati con puntualità.
In altre parole, il ricorso alle formule stereotipate o alle clausole
di stile è “contra legem” ed è destinato a inficiare la
deliberazione per “difetto di motivazione”.
Questa conclusione non sembra cozzare con le regole sulla
motivazione delle scelte urbanistiche: al di là del fatto che nella
legislazione statale si cominciano a rinvenire significativi
ripensamenti in tema di motivazione delle scelte urbanistiche (si
pensi al IV comma dell’art. 9 T.U. Espropriazione per pubblica
utilità in tema di reiterazione dei vincoli urbanistici)113, infatti,
l’esigenza di una motivazione in senso tecnico è imposta dal
legislatore
regionale
(implicitamente,
epperò
non
meno
chiaramente) sia quando ha richiesto che l’opera privata
risponda ad un “rilevante” interesse pubblico, sia allorché ha
113
F. Salvia (“Manuale cit.”, 81) significativamente dedica un paragrafo a “Il doppio regime
della motivazione”.
62
designato l’accordo “ de quo” come uno strumento speciale, se
non eccezionale, nei termini sopra descritti.
La finalizzazione dell’accordo ad un’opera privata, che rivesta
(però) “rilevante interesse pubblico”, spiega la precisazione dei
limiti contenutistici dell’accordo medesimo (art. 6, II comma,
L.R. cit.: “determinazione di alcune previsioni del contenuto
discrezionale
degli
atti
di
pianificazione
territoriale
ed
urbanistica”), che vanno individuati nella stretta inerenza con
l’intervento
considerato
e
nella
conseguente
limitazione
dell’efficacia delle previsioni definite consensualmente all’opera,
che giustifica l’accordo114. Ovvio e conseguente, ma non
ultroneo, appare il richiamo espresso del principio di legalità sia
con riferimento alla legislazione (nazionale e regionale), che alla
pianificazione sovraordinata. Quest’ultimo “paletto” conferma,
infatti, la portata circoscritta dell’accordo medesimo.
La norma in esame pone un ulteriore quesito, sempre in tema di
rapporti tra strumenti pianificatori.
L’articolo considerato consente che gli accordi riguardino anche
i livelli di pianificazione territoriale e urbanistica di competenza
della Regione o delle Province. È necessario chiedersi quali
riflessi possa avere l’accordo riguardante, ad esempio, il piano
territoriale
di
coordinamento
provinciale,
sulle
previsioni,
eventualmente contrastanti, di livello comunale.
114
M. Breganze, “La nuova pianificazione” cit., 220-221.
63
Forse, in verità, è più giusto chiedersi se una simile ipotesi sia
realistica, quanto meno nel contesto della L.R. in esame. E la
risposta sembra dover essere negativa.
Da un lato, infatti, tanto la configurazione del piano territoriale di
coordinamento regionale (art. 24 L.R. citata), quanto quella del
piano territoriale di coordinamento provinciale (art. 22 L.R. cit.),
paiono escludere la configurabilità di un accordo ai sensi
dell’art. 6 L.R. in esame.
Dall’altro, qualora si ponesse l’esigenza di un accordo che
riguardasse, primariamente, il livello pianificatorio regionale e/o
quello
provinciale,
con
inevitabili
riflessi
sugli
strumenti
urbanistici comunali, non potrebbe che ricorrersi all’accordo di
programma, o ai sensi dell’art. 26 della medesima legge
regionale, o ai sensi dell’art. 34 D.Lgs. 18 agosto 2000 n.
267115.
La disciplina dell’art. 6 L.R. Veneto 23 aprile 2004 n. 11,
peraltro, non chiarisce due profili, avendone affidato la disciplina
a disposizioni troppo laconiche, se non criptiche.
In primo luogo, non è chiaro se l’accordo sia ammissibile “in
accoglimento
di
osservazioni”,
cioè
nell’ambito
di
un
procedimento pendente e in presenza di un precedente
intervento nel medesimo da parte del privato stipulante
l’accordo, ovvero se l’accordo stesso possa precedere – e,
115
Sul punto è meno perplessa la valutazione di M. Breganze (“La nuova pianificazione” cit.,
220), che parla “di notevole passo avanti sulla strada dell’effettiva attuabilità dei piani:
grazie a veri e propri accordi endoprocedimentali con i privati, con cui l’art. 6 … fa
rientrare nell’assoluta normalità la negoziazione del contenuto discrezionale degli strumenti
urbanistici e – addirittura – territoriali”.
64
quindi, in una qualche misura determinare – l’avvio del
procedimento di variante dello strumento urbanistico, cui si
riferiscono le statuizioni dell’accordo “de quo”.
Il legislatore veneto sembra, per vero, più teso ad indicare il
“tempo finale”, che non il momento iniziale, nel quale l’accordo
può avere rilievo (ossia essere introdotto) nel procedimento
pianificatorio. Allorché il III comma del medesimo art. 6, infatti,
sancisce
che
l’accordo
deve
essere
recepito
con
il
provvedimento di adozione, è chiaro che, se il modello
procedimentale pianificatorio (e nella L.R. in esame così risulta)
è
quello
classico,
l’accordo
difficilmente
può
scaturire
dall’intervento del privato nel procedimento medesimo e dalla
presentazione di osservazioni positivamente recepite dal
Comune. Or bene, esaminando la legge veneta, è certamente
così per tutti i soggetti privati, con la (potenziale) esclusione
delle “associazioni economiche e sociali portatrici di rilevanti
interessi sul territorio e di interessi diffusi” e dei “gestori di
servizi pubblici e di uso pubblico”.
Questi sono ammessi alla fase concertativa prevista dall’art. 5
della stessa legge, da collocarsi nella sottofase istruttoria del
procedimento pianificatorio, e per gli stessi è ipotizzabile che
l’accordo
costituisca
espressione
della
partecipazione
e
dell’intervento nel procedimento.
In secondo luogo, non è espressamente sancito quale sia
l’effetto del recepimento, in sede di adozione, dell’accordo in
65
questione agli effetti del diritto all’indennizzo sancito dal IV
comma dell’art. 11, II comma, L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. nel
caso (contemplato dal III comma dell’art. 6 L.R. in esame), in cui
l’accordo non venga confermato in sede di approvazione dello
strumento urbanistico, cui si riferisce.
La risposta non sembra difficile da rinvenire sul piano
interpretativo: da un lato, infatti, la formulazione del citato III
comma dell’art. 6 L.R. “de qua” non lascia dubbi sulla natura
procedimentale
dell’accordo
disposizione116;
dall’altro,
il
disciplinato
recepimento
dalla
medesima
viene
definito
“condizionato” e, per quanto non sia precisato se si tratti di
condizione sospensiva o di condizione risolutiva, non pare
dubbio, sul piano sistematico, che si tratti di condizione
sospensiva117. Conseguentemente, il diritto all’indennizzo non si
configura qualora le prescrizioni, contenute nell’accordo e
recepite con la deliberazione di adozione, non siano mantenute
in sede di approvazione. Nel caso di stralcio delle prescrizioni
previste dall’accordo in sede di approvazione, infatti, non si
configura il recesso dall’accordo proprio perché il recepimento
dello stesso diviene efficace solo con la deliberazione di
approvazione e, quindi, solo successivamente a quest’ultima
possono crearsi i presupposti indicati dal IV comma dell’art. 11
L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i..
116
117
Così anche M. Breganze, “La nuova pianificazione” cit., 220.
Concorda M. Breganze, “La nuova pianificazione” cit., 221.
66
La costruzione del recepimento condizionato sospensivamente
in sede di deliberazione di adozione, con la conseguente
possibilità dell’Amministrazione procedente di stralciare le
prescrizioni introdotte nello strumento urbanistico di riferimento
in sede di approvazione di quest’ultimo, può portare a ritenere
che
il
legislatore
caratterizzazione
veneto
della
abbia
funzione
inteso
riaffermare
urbanistica
in
la
termini
tradizionali, cioè recuperandone l’indisponibilità e la non
negoziabilità118.
In altre parole e particolarmente, la disciplina esaminata può
indurre a sostenere che l’accordo non limiti (almeno sul piano
giuridico-sostanziale) la discrezionalità pianificatoria.
Or bene, come si è detto, il legislatore veneto delinea un
accordo procedimentale119 e il recepimento condizionato, se
induce ad escludere il diritto all’indennizzo ai sensi del IV
comma dell’art. 11 L. sul procedimento amministrativo, non può
portare ad escludere in assoluto una limitazione della
discrezionalità pianificatoria.
118
Del resto, il Consiglio di Stato, nella nota (e già citata) sentenza 15 maggio 2002 n. 2636,
sottolinea che la mancanza di una finalità anticipatoria dell’accordo procedimentale non
rappresenta soltanto un elemento utile ai fini dell’interpretazione degli atti e dei fatti dedotti
nel processo amministrativo, ma costituisce un vero e proprio requisito di legittimità. Al
riguardo, nella sentenza si legge testualmente: “… Se fosse possibile, al di fuori di
un’espressa previsione di legge, concludere accordi integrativi che abbiano solo lo scopo di
garantire un certo esito dell’istanza del privato e non di determinare concretamente il
contenuto del provvedimento (e non vi è determinazione concreta al di fuori di ogni effettiva
negoziazione del contenuto del provvedimento) la norma che consente la conclusione di
accordi sostitutivi solo in casi tassativi sarebbe facilmente elusa mediante la stipula di
accordi preliminari (o procedimentali) aventi la sola finalità di anticipare il provvedimento
finale”.
119
E l’accordo procedimentale esaurisce la propria efficacia nell’ambito del procedimento
amministrativo, che prosegue e che deve esaurirsi con l’emanazione del provvedimento, che
potrà anche non essere frutto del recepimento dell’accordo medesimo: F. Bassi, “Lezioni
cit.”, 172-173; F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 414.
67
A ben riflettere, infatti, il recepimento dell’accordo comporta,
“ipso facto” e a prescindere dalla presenza della condizione
sospensiva120, il consolidarsi dell’aspettativa giuridicamente
tutelata esistente in capo al privato e il suo costituirsi in
interesse legittimo alla definitiva consacrazione nello strumento
urbanistico
di
pertinenza
in
sede
di
approvazione
di
quest’ultimo. Di conseguenza, l’Amministrazione competente
non
potrà
dell’accordo,
godere,
in
punto
dell’“amplissima
al
recepimento
discrezionalità”,
definitivo
che
la
giurisprudenza riconosce come propria dell’ente pianificatore
(per vero con un orientamento ormai bisognoso di revisione
critica, ben oltre le prime timide novelle legislative)121, ma dovrà,
in caso di stralcio, motivare specificamente e puntualmente122.
Sia concesso un inciso.
Questa conclusione potrebbe far pensare che la delibera di
adozione, in quanto recepente l’accordo, sia immediatamente
lesiva e vada immediatamente impugnata da chi vi abbia
interesse.
120
Sul problema in generale, vedansi G. Greco, “Accordi cit.”, 239 ss.; F. Cangelli, “Potere
discrezionale cit.”, 279 ss..
121
F. Salvia, “Manuale cit.”, 81.
122
Di opinione diversa, pare M. Magri (“Gli accordi con i privati nella formazione dei piani
urbanistici strutturali” in Riv. Giur. Urb. 2004, 558-559) il quale, a proposito dell’art. 18 L.R.
Em. Rom. 20 marzo 2000 n. 20 s.m.i., sostiene: “L’accento posto dalla norma sul carattere
di “iniziativa” dell’atto del privato recepito nella deliberazione di adozione del piano unita
alle scansioni procedimentali entro cui soltanto può “maturare” l’accettazione dell’ente
locale, possono anzi spostare nuovamente il baricentro della decisione verso moduli di
stampo autoritativo; basti pensare alla possibile ricostruzione in termini di valutazione
“riservata” della decisione dell’amministrazione circa il “rilevante interesse per la comunità
locale” della proposta, per comprendere quanto siano lontane dall’art. 18 le visioni della
contrattualità come modulo di azione pattizio ed alternativo a quello unilaterale”.
68
Questa tesi non pare condivisibile, in quanto l’accordo diviene
efficace solo con la deliberazione di approvazione dello
strumento urbanistico, cui pertiene (si può parlare di atto a
complessità eguale). In quel momento si configurerà la lesività
dell’accordo e la sua impugnabilità, che dovrà comportare
l’impugnazione della deliberazione di adozione come atto
presupposto, se ed in quanto si ricorra contro la decisione di
recepire l’accordo urbanistico pubblico-privato.
La riflessione ora svolta evidenzia un altro problema di taglio
strettamente processuale: l’accordo previsto dall’art. 6 della
legge in esame è autonomamente impugnabile, ovvero è
impugnabile solo in una con le deliberazioni “urbanistiche”?
La questione è assai delicata.
La risposta sembra, però, dover essere favorevole all’autonoma
impugnabilità dell’accordo. Il che significa che le deliberazioni di
adozione e di approvazione del piano urbanistico potranno
essere impugnate anche esclusivamente “in parte qua”, cioè in
punto alla decisione di recepire l’accordo medesimo123.
Da
un
lato,
infatti,
l’autonomia
del
provvedimento
di
recepimento, pur nella contestualità documentale, appare
evidente sia sul piano logico-giuridico (il recepimento è il
123
Sul problema in generale, F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 428-429), dopo aver ammesso
l’impugnabilità degli accordi da parte dei terzi e dei controinteressati, rileva testualmente:
“L’accordo preliminare, producendo effetti obbligatori tra le parti, non potrà avere rilevanza
esterna, se non nei limiti e dal momento in cui l’amministrazione adempie l’emanazione del
provvedimento. Solo tale atto produrrà effetti esterni ed attiverà l’interesse a ricorrere del
terzo. Quanto all’impugnazione dell’atto di adesione, non bisogna dimenticare che gli effetti
non si potrebbero produrre senza la conclusione effettiva o l’esecuzione dell’accordo.
Sarebbe così da escludere l’autonoma impugnabilità dell’atto di adesione all’accordo
essendo, anche sul piano sistematico più coerente, la tesi dell’impugnazione dell’accordo
laddove questo diventi efficace”.
69
presupposto della disciplina urbanistica, che viene inserita in
virtù dell’accordo), sia sul piano del diritto positivo, posto che
l’apposizione della condizione sospensiva è compatibile e
legittima se riferita al provvedimento di recepimento medesimo,
mentre sarebbe “contra legem” se apposta alla delibera di
adozione dello strumento urbanistico. Dall’altro, non si può
escludere che il recepimento di quell’accordo abbia leso
l’interesse legittimo di altri a veder recepita una propria ipotesi di
accordo o, prima, a essere presi in considerazione in concorso
con lo stipulante. Ed è evidente che può configurarsi un
interesse al ricorso con riferimento alla deliberazione come
provvedimento
di
recepimento
dell’accordo
e
non
necessariamente – almeno in capo al medesimo soggetto – con
attenzione alla stessa come strumento pianificatorio. In questa
prospettiva, va considerata anche la posizione del proprietario,
allorché l’accordo sia stipulato – ad esempio – dal titolare del
diritto di superficie124.
Quanto all’Autorità Giudiziaria titolare della giurisdizione, il rinvio
all’art. 11, comma II e seguenti, L. sul procedimento
amministrativo sembra eliminare ogni dubbio e consentire di
individuare
nel
Giudice
Amministrativo
il
titolare
della
“iurisdictio”, nella forma della giurisdizione esclusiva così come
sancito dal V comma del medesimo art. 11.
124
M. Magri (“Gli accordi cit.”, 562-563) sostiene:
disponibilità delle aree possa rivelarsi necessaria per
concorso di persone diverse dal proprietario, anche
nondimeno, determinante ai fini della individuazione
meritevolezza) dell’accordo stesso”.
“Di conseguenza, quantunque la
la esecuzione delle prestazioni, il
sul piano giuridico, può essere,
della funzione (e del giudizio di
70
7.1. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione
regionale. La regolamentazione vigente nella Regione EmiliaRomagna.
La L.R. dell’Emilia-Romagna 24 marzo 2000 n. 20 s.m.i.
contiene una disciplina degli accordi urbanistici pubblico-privati
del tutto simile, nella sua portata giuridica (trattasi pacificamente
di accordi procedimentali125), a quella della Regione Veneto,
che, peraltro, sul piano cronologico, precede126.
Le differenze sembrano essere sostanzialmente terminologiche,
con l’unica eccezione dell’esplicito richiamo, contenuto nel II
comma dell’art. 18 della legge emiliano-romagnola, all’obbligo di
motivazione della scelta di pianificazione, là dove “definita con
l’accordo”.
Con tutta evidenza, si tratta di una sanzione solenne opportuna,
per quanto ultronea sul piano logico-giuridico.
Sul punto, appare pienamente condivisibile la sottolineatura
operata da chi parla di “esito negoziale del procedimento di
pianificazione necessariamente parziale e specializzato”, in
quanto
non
teso
ad
una
“generica
integrazione
della
pianificazione”, ma ad uno specifico – e limitato – obiettivo
pianificatorio127.
Peraltro, nell’art. 18 citato, al I comma, si parla di “proposte di
progetti e iniziative di rilevante interesse per la comunità locale”,
mentre l’art. 6 L.R. Veneto si riferisce a “progetti e iniziative di
125
M. Magri, “Gli accordi cit.”, 339 ss..
M. Magri, “Gli accordi cit.”, 558.
127
M. Magri, “Gli accordi cit.”, 559.
126
71
rilevante interesse pubblico per la comunità locale”. Il portato
giuridico sembra (del tutto) identico, ma così, forse, non è.
Per la
precisione, la
postulare
che
l’unico
legge
emiliano-romagnola sembra
interesse
pubblico
giustificativo
dell’accordo ai sensi del citato art. 18 sia quello pubblico
rilevante per la comunità locale e non in generale. Questa
precisazione pare opportuna sul piano sistematico anche per
delineare (o ribadire) il discrimine con gli accordi di programma,
ma non può non osservarsi che può risultare ultronea. “Locale”,
infatti, non significa solo “comunale”, posto lo spettro degli
accordi ipotizzati dal medesimo art. 18, cosicchè può ritenersi,
più semplicemente, che la legge emiliano-romagnola espliciti ciò
che la legge veneta afferma in via implicita.
In ogni caso, non può non condividersi l’opinione di chi individua
nel “rilevante interesse pubblico per la collettività” un “requisito
di meritevolezza” della funzione economico-sociale dell’accordo,
discendente
dalla
previsione
imputazione
collettiva
di
legge
dell’interesse
sulla
necessaria
pubblico
perseguito,
sottolineando, altresì, che, attraverso la motivazione, va
dimostrato “un collegamento tra l’accordo e uno scopo
“strategico”, espressamente riferito al raggiungimento degli
obiettivi che sono attribuiti al piano cui l’accordo si riferisce”128.
128
Così M. Magri (“Gli accordi cit.”, 569), che sottolinea testualmente: “In termini di utilità
dell’accordo, questo “vincolo di scopo” testimonia i vantaggi pubblici conseguiti
dall’amministrazione per mezzo dell’attività del soggetto privato, può giustificare la già
citata ricostruzione in termini di onerosità (in senso ampio) dell’accordo e determinare, in
capo al privato, la creazione “ex novo” del diritto di edificare”.
72
Ciò chiarito, appare opportuno ricordare la riflessione dottrinale
relativa alla compatibilità degli accordi “de quibus” con il primo
livello della pianificazione urbanistica generale comunale.
In Emilia-Romagna, infatti, proprio la L.R. richiamata, ha
introdotto la fattispecie del Piano Strutturale Comunale (in sigla:
P.S.C.) e del Piano Operativo Comunale (in sigla: P.O.C.),
scindendo il P.R.G. nella c.d. parte strategica e in quella
operativa.
Al riguardo, si deve tuttavia sottolineare che la rara dottrina sul
tema, nel prendere atto che il citato art. 18 ha introdotto una
“figura speciale di accordo c.d. integrativo di procedimento,
modellata sulla disciplina generale di cui all’art. 11 della legge 7
agosto 1990, n. 241, estesa a tutti i procedimenti di
pianificazione
territoriale
ed
urbanistica”,
solleva
dubbi
sull’applicabilità al piano strutturale comunale, “a causa della
generalità che caratterizza le scelte di pianificazione sottese
all’adozione di strumenti urbanistici”129 soprattutto alla luce del
divieto posto dall’art. 13 della citata L. 241.
“In limine”, è però opportuno ricordare che la Giunta Regionale
dell’Emilia-Romagna ha presentato un progetto di legge per la
modifica della L.R. 24 marzo 2000 n. 20130.
La novella, ove approvata, introdurrebbe elementi di sicura
importanza e di rilevante significato:
- la necessità della pendenza del procedimento pianificatorio;
129
M. Magri, “Gli accordi cit.”, 540.
Supplemento speciale del Bollettino Ufficiale della Regione Emilia Romagna n. 172 del 6
agosto 2007.
130
73
-
il
rispetto
dei
principi
di
imparzialità
amministrativa,
trasparenza, concorrenzialità e pubblicità;
- la necessità di garantire la partecipazione al procedimento di
tutti i soggetti interessati;
- l’esigenza della coerenza del contenuto dell’accordo con gli
obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione;
- l’obbligo di dimostrare, attraverso la motivazione, così “le
ragioni di rilevante interesse che giustificano il ricorso allo
strumento negoziale”, come la compatibilità delle scelte di
pianificazione concordate;
- la disciplina procedimentale dell’accordo, che identifica
l’autorizzazione alla stipulazione da parte dell’Organo esecutivo
dell’Ente contraente, la sottoscrizione dell’accordo condizionato
sospensivamente all’introduzione del contenuto dell’accordo
medesimo nel piano urbanistico, il recepimento in sede di
adozione dello strumento pianificatorio e la conferma in sede di
approvazione.
A quest’ultimo proposito, si deve rilevare la suddivisione di
competenza tra Organo esecutivo, cioè Giunta, e Consiglio, in
contrasto con il comma 4 bis dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241
s.m.i.. E’ una suddivisione che, però, appare logica, perché la
responsabilità amministrativa della stipulazione dell’accordo, nel
contesto organizzativo degli enti territoriali, non può che essere
riservata alla Giunta, mentre la decisione finale rimessa al
Consiglio è rispettosa delle competenze pianificatorie di
74
quest’ultimo
ed
è
anche
un
rafforzativo
della
natura
procedimentale dell’accordo.
Complessivamente, l’ipotesi di novella sembra andare nel
senso,
postulato
dalla
dottrina
e
dalla
giurisprudenza
amministrativa131, della sottolineatura dei caratteri pubblicistici
non per togliere spazi di praticabilità agli accordi stessi, ma per
renderli
effettivamente
(ed
esclusivamente)
funzionali
all’ottimizzazione dell’attività pianificatoria.
7.2. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione
regionale. La disciplina vigente nella Regione Umbria.
La
L.R.
Umbria
(“Partecipazione
22
dei
febbraio
privati”),
2005
n.
11,
contempla
una
all’art.
12
fattispecie
espressamente ricondotta, giusta il II comma dell’art. 12, agli
accordi dell’art. 11 L. sul procedimento.
L’ambito è limitato espressamente al “P.R.G., parte operativa”
(art. 4 L.R. cit.).
L’accordo è ammesso “durante le fasi di deposito e di
pubblicazione del P.R.G.”, cioè nella fase procedimentale nella
quale è consentita ai soggetti interessati la presentazione di
osservazioni (art. 17, I comma, e art. 13, III comma, L.R. cit.), e
lo stesso ha come oggetto i piani attuativi (art. 20 L.R. cit.)132 o i
programmi urbanistici relativi alla riqualificazione urbana (art. 28
L.R. cit.).
131
Il riferimento è, in specie, a Cons. St. – sez. VI – 15 maggio 2002 n. 2636 cit..
Il I comma dell’art. 20 L.R. Umbria 22 febbraio 2005 n. 11 contempla i piani attuativi di
iniziativa pubblica, di iniziativa privata e di iniziativa mista, cioè promossi insieme da
soggetti pubblici e privati.
132
75
Il privato, singolo o associato, deve presentare la proposta con i
contenuti richiesti per detti piani o programmi, accompagnata da
atti d’obbligo unilaterale relativi agli impegni (anche economici)
in materia di infrastrutture, di dotazioni territoriali e funzionali
minime (art. 12, I comma, L.R. cit.).
L’accordo si intende recepito se il Comune competente accoglie
la proposta del privato in sede di esame delle osservazioni.
La delibera di accoglimento (che sembra da individuarsi in
quella di “controdeduzione”) ha valore anche di adozione del
piano attuativo o del programma urbanistico, ferma restando la
previsione dell’XI comma dell’art. 24 L.R. cit., che sancisce che i
piani attuativi possano essere approvati solo “previo parere
vincolante della provincia, da rendersi entro il termine perentorio
di trenta giorni dalla richiesta, limitatamente alle zone sottoposte
ai vincoli di cui al d.lgs. 42/2004 ed alle aree o immobili di cui
all’art. 4, comma 2, della l.r. 1/2004”.
L’analisi della regolamentazione umbra porta a porsi un
interrogativo, per così dire, pregiudiziale: si tratta, nella
sostanza (giuridica), di una fattispecie riconducibile agli accordi
contemplati dall’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.?
La risposta sembra negativa, nel senso che l’essenza giuridica
della fattispecie è data, da un lato, dalla proposta di un privato
relativa alla realizzazione di uno strumento attuativo, e,
dall’altro, da una semplificazione procedimentale (certamente
importante sul piano pratico), in virtù della quale l’adozione del
76
P.R.G.-parte operativa ha la valenza anche di provvedimento di
adozione del piano attuativo o del programma urbanistico.
Trattasi, con tutta evidenza, di una fattispecie che va più
puntualmente ricondotta allo schema tipico dell’iniziativa privata
finalizzata alla realizzazione degli strumenti urbanistici attuativi.
Della tipologia di accordo ex art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241
s.m.i., quale posta ad oggetto della presente riflessione, c’è, per
così dire, ben poco o niente di più di quanto è stato rinvenuto
nella convenzione lottizzativa o urbanistica attuative. In questa
prospettiva, il richiamo dell’art. 11 L. sul procedimento
amministrativo sembra essere giustificato più sul piano
dell’analogia (legis), che non su quello dell’identità delle
fattispecie, quanto meno nell’ottica del rapporto tra “genus” e
“species”.
In ogni caso, la regolamentazione della legge umbra, una volta
che si ammetta la possibilità che il legislatore “urbanistico”
possa introdurre gli accordi “de quibus” nell’ordinamento
regionale e una volta che si ritenga che l’art. 12 L.R. 22 febbraio
2005 n. 11 contempli un’ipotesi di accordo, non sembra essere
suscettibile di censure sotto il profilo del rispetto dei principi
fondamentali contenuti nella legislazione nazionale (art. 117, III
comma, Cost.).
Da un lato, infatti, l’accordo è ammesso in un contesto
ricalcante puntualmente quello dell’art. 11 L. sul procedimento
amministrativo; dall’altro, il patto può essere stipulato, in buona
77
sostanza, ai limitati effetti dell’attuazione dello strumento
urbanistico generale, per di più solo operativo (art. 12, I comma,
L.R. cit.). E’ esclusa, pertanto, anche la possibilità che la
disciplina pattizia possa incidere sul profilo fondamentale e più
direttamente
destinato
a
tutelare
l’interesse
urbanistico
generale, ovverossia sulla disciplina strutturale (art. 3 L.R. cit.),
che determina le regole di utilizzazione urbanistica del territorio,
definendone le vocazioni urbanistiche, e che stabilisce le
conseguenti regole (“rectius”: principi regolativi) di utilizzo del
territorio, rimettendo al P.R.G.-parte operativa e agli strumenti
attuativi la specificazione delle regole medesime, necessaria
per consentire, in concreto, l’attuazione del piano (art. 4 L.R.
cit.).
L’indisponibilità e la non-negoziabilità dell’interesse urbanistico
primario, in un simile contesto, appaiono salvaguardate, posto
che le scelte decisive e qualificanti sono contenute nel P.R.G.
strutturale e che il medesimo non può essere modificato in
recepimento di un accordo tra P.A. e privati.
8. Riflessioni conclusive e/o “de iure condendo” (eccezionalità
dello strumento; accessorietà delle condizioni di natura
patrimoniale; particolare rilevanza della obbligatorietà della
motivazione; imprescindibilità del “vincolo di scopo (pubblico)”;
disciplina del c.d. ius variandi).
Il quadro che emerge dall’analisi della legislazione regionale
evidenzia che l’ambito di applicazione dell’accordo dell’art. 11 L.
78
7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. è sostanzialmente limitato, al
momento, a due Regioni: Emilia-Romagna e Veneto. Questo
dato non muta se si analizza (sempre avendo presente la
peculiarità della competenza legislativa di queste ultime) la
legislazione delle Regioni a statuto speciale.
Or bene, tutto questo non esclude che la situazione possa
modificarsi.
Sotto questo profilo, sembra utile una breve riflessione
conclusiva, che può risultare, per certo verso, ripetitiva di
considerazioni prima svolte ad altro fine, ma che pare rientrare,
sia pure in una prospettiva “de iure condendo”, nel compito del
giurista e nel campo di riflessione della relazione affidatami.
Fino
a
quando
“rivoluzionarie”
non
(nel
intervengano
senso
l’ordinamento
giuridico
pianificatoria
urbanistica
modifiche
tecnico-giuridico
italiano
generale
delinea
legislative
del
la
termine),
competenza
tendenzialmente
come
indisponibile e non negoziabile: Regioni, Province e Comuni
devono aprire alla partecipazione nelle forme più ampie, ma non
possono limitare la propria autonomia decisionale di tipo
discrezionale, obbligandosi nei confronti dei privati.
In altri termini, a tacere di altri profili prima ricordati, tali accordi
non possono tradursi in patti sul contenuto del piano regolatore
generale, così come disegnato dall’art. 7 L. 17 agosto 1942 n.
1150 s.m.i., o su quello del piano strutturale (o come altrimenti
definito dalle singole leggi regionali), cioè dello strumento
79
pianificatorio principale (si potrebbe dire della “fonte primaria”
della disciplina urbanistica comunale). Al contrario, possono
riguardare la pianificazione attuativa o, nel sistema binario, il
Piano Operativo Comunale133.
A maggior ragione, gli accordi dell’art. 11 L. sul procedimento
amministrativo non dovrebbero riguardare i piani territoriali e di
coordinamento, per la ancora più evidente indisponibilità
dell’interesse urbanistico tutelato dai citati strumenti pianificatori;
ciò a prescindere dalle difficoltà tecniche nei rapporti tra i diversi
livelli pianificatori, che un accordo sul contenuto di tali piani
porrebbe
per
le
conseguenti
modifiche
degli
strumenti
sottordinati.
L’indisponibilità e la non negoziabilità dell’interesse pubblico
urbanistico è, ovviamente, un ostacolo ancor più evidente,
allorché l’interesse medesimo risulti in inscindibile relazione con
quello paesaggistico o con altro interesse settoriale, tutelato da
una disciplina legislativa che preveda, nelle diverse notorie
forme
(“sostituzione”,
“adeguamento”,
“prevalenza”),
la
133
P. Urbani (“Pianificare cit.”, 181) sottolinea testualmente: “Premesso che gli accordi
pubblico-privato sono propri della pianificazione operativa poiché nello strutturale non vi
sono operatori, ritengo che nel piano direttore – e quindi nei suoi diversi ambiti territoriali di
trasformazione – debbano essere preventivamente fissate le regole generali della
trasformabilità in funzione della soddisfazione del fabbisogno di opere e servizi ... Se
torniamo allora alla distinzione prima richiamata tra accordi “attuativi” delle prescrizioni e
accordi “sulle” prescrizioni, vediamo che nel nuovo sistema di pianificazione comunale la
seconda tipologia di accordi si riduce ai soli casi in cui la pianificazione operativa richieda
la variazione dei contenuti dello strutturale, poiché anche quegli accordi che determinano il
contenuto effettivo dei piani attuativi possono considerarsi appunto “attuativi” delle scelte
poiché le regole fissate negli ambiti territoriali di trasformazione costituiscono già secondo
la dottrina “prescrizioni conformative del territorio” considerato. È questo il solo modo per
riportare nell’ambito dell’ordinamento urbanistico e delle regole del potere amministrativo
l’urbanistica consensuale …”.
80
subordinazione della tutela puramente urbanistica a quella
paesaggistica o, comunque, peculiare.
La disciplina urbanistica per accordi pubblico-privati non può
non rappresentare uno strumento eccezionale134, il ricorso al
quale deve essere giustificato dalla sua utilità – “rectius”:
infungibilità
–
per
l’ottimale
perseguimento
dell’interesse
pubblico. Il che significa, sostanzialmente, che l’accordo è
strumento che deve consentire di far assumere al Privato
obbligazioni che autoritativamente la P.A. non potrebbe imporgli
in base alle competenze alla stessa attribuite (in specie) dalla
legislazione urbanistica135. Il che non esclude – è “in re ipsa” –
che il Privato possa ottenere delle utilità dall’accordo anche
nella forma di diritti soggettivi o di riconoscimento di “ius
aedificandi”136.
Questa considerazione introduce, con evidenza, l’eventualità
che il privato assuma impegni di portata patrimoniale nei
confronti della Regione, della Provincia o del Comune, ma non
134
A. Amorth, già nel 1938 in “Osservazioni sui limiti dell’attività amministrativa di diritto
privato” (in Arch. giur. dir. pubbl. 1938, in specie 512), ha sottolineato che, allorché la
“norma di diritto pubblico amministrativo” è posta a tutela del pubblico interesse, la
sostituzione del provvedimento con un accordo non può mai essere (né divenire) un principio
generale, chè quest’ultimo resta l’esatto contrario, e cioè l’indisponibilità della funzione, la
tipicità dei poteri amministrativi e delle norme di diritto pubblico come precetti “cogenti” ed
indisponibili per la P.A..
135
Cons. St. – sez. VI – 15 maggio 2002 n. 2636 cit.; M. Magri (“Gli accordi cit.”, 556),
commentando la sentenza predetta sottolinea testualmente: “Per essere legittimo, dunque,
l’accordo integrativo di provvedimento non può essere stipulato per provocare effetti
giuridici meramente confermativi di quelli del provvedimento finale, ma deve essere stipulato
“al fine di raggiungere un equilibrio nell’assetto degli interessi altrimenti non raggiungibile
per via autoritativa”. La sua validità dipende quindi da un giudizio di meritevolezza della sua
funzione economico-sociale, che non può mai essere quella di garantire all’amministrazione
una posizione soggettiva di vantaggio di cui essa sia già titolare per legge”.
136
G. Sala, “Accordi sul contenuto discrezionale del provvedimento e tutela delle situazioni
soggettive” in Dir. Proc. Amm. 1992, 230; S. Giacchetti, “Gli accordi dell’art. 11 della legge
241 del 1990 tra realtà reale e realtà virtuale” in Dir. Amm. 1997, 518 ss.; F.G. Scoca, “Gli
accordi cit.”, 417.
81
consente di ritenere che l’“interesse pubblico” si possa
identificare con (o risolvere nel) la dazione in denaro o in natura
(= realizzazione di opere pubbliche). Gli accordi dell’art. 11 L.
sul procedimento amministrativo e, comunque, quelli urbanistici,
che si dovessero ispirare quanto meno alla stessa “ratio”,
dovrebbero rimanere patti137 e, in ogni caso, non potrebbero
diventare – anche solo nella sostanzialità del fenomeno –
“contratti a prestazioni corrispettive” (il Comune si impegna ad
una variazione della disciplina urbanistica e il privato, a fronte
dell’approvazione di questa, si obbliga a versare denaro o
realizzare opere)138.
Il vantaggio economico-patrimoniale del Comune, che non è
elemento essenziale dell’accordo, può (e deve) essere un
fattore ulteriore, che può anche contribuire a determinare la
rilevanza dell’interesse pubblico, giustificativo dell’accordo, ma
137
Non priva di suggestione è anche la tesi dell’accordo “de quo” come “atto complesso”
nell’accezione proposta da A.M. Sandulli (“Manuale cit.”, 659), cioè come atto nel quale
“convergono e si uniscono interessi coordinati in atteggiamento di cooperazione” (là dove,
nel contratto, si incontrano “interessi oggettivamente contrapposti”.
138
Contra M. Magri (“Gli accordi cit.”, 574-575) parla di “struttura corrispettiva”, così
esprimendosi: “Il vantaggio attribuito al privato con l’accordo non va confuso con i diritti e
le facoltà originariamente spettanti al proprietario, verso cui la funzione dell’ente locale si
potrebbe esercitare con l’apposizione di un limite di diritto pubblico. Si tratta invero della
semplice remunerazione della controprestazione di attività di interesse pubblico appena
descritte e che si perfeziona con l’atto di consenso alla proposta del privato, da parte
dell’amministrazione”.
Se è consentita un’obiezione, lascia più che perplessi la distinzione tra situazioni giuridiche
soggettive soggette a limiti di diritto pubblico e “attività di interesse pubblico svolte dal
privato” e oggetto dell’accordo in questione.
Quest’ultimo, infatti, può ben riguardare i diritti del privato assoggettabili a limiti di diritto
pubblico e non si traduce, come sembra prefigurare l’Autore in questione, nella creazione di
un nesso sinallagmatico tra utilità del privato e prestazione da parte di questi di attività di
interesse pubblico. La funzione dell’accordo urbanistico previsto dall’art. 18 della legge
regionale in commento è quello di poter rendere realizzabili “progetti ed iniziative di rilevante
interesse per la collettività locale”, cosicchè l’accordo medesimo ha una causa illecita (art.
1418 c.c.) se non è funzionale a tale interesse pubblico. Fermo questo, l’equilibrato
contemperamento tra l’interesse pubblico e quello privato non ha una logica corrispettiva, ma
assolutamente funzionale. Il che impedisce il “contratto di scambio”, mentre consente l’intesa
“consortile”, cioè quell’intesa, che giustifichi la sinergia volontariamente definita e codificata.
82
non può costituirlo “ex se” e in via esclusiva. È necessario che
l’Ente pubblico abbia interesse all’accordo perché il medesimo
consenta di realizzare una previsione urbanistica altrimenti non
concretizzabile139, quali, ad esempio, vincoli di inedificabilità a
tempo indeterminato, imposizioni di oneri di fare per la
manutenzione di spazi verdi o destinati ad uso pubblico,
realizzazione di un fabbisogno di standard in eccesso rispetto al
singolo intervento e, più in generale, prestazioni lecite (art. 1418
cod. civ.), ma non imponibili in via autoritativa, mediante il loro
inserimento in uno strumento urbanistico140.
Al contrario, non si potrebbe ricorrere all’accordo urbanistico
privato-pubblico “de quo” per il solo fatto che in tal modo il
privato contraente si obbligherebbe a versare una somma
rilevante o a costruire un impianto pubblico.
Un simile accordo, infatti, contrattualizzerebbe “tout court”
l’interesse pubblico-urbanistico e sarebbe nullo ai sensi dell’art.
1418 c.c..
139
Sempre sulla scia e a commento della già menzionata decisione della sez. VI del Consiglio
di Stato n. 2636 del 15 maggio 2002, M. Magri (“Gli accordi cit.”, 556) annota: “… il
contenuto del provvedimento finale deve avere … un ulteriore requisito: essere “controverso
o controvertibile”, o contenere “clausole che, in difetto di accordo, non sarebbero facilmente
accettate dal privato” … La “prevenzione del contenzioso” diviene così un elemento
costitutivo della contrattualità amministrativa: l’accordo integrativo di provvedimento ha la
sostanza di un negozio sostitutivo di clausole che, in difetto di accettazione, sarebbero
illegittime o inefficaci nei confronti del privato contraente. Non si tratta quindi di un atto
costituente esercizio del potere amministrativo discrezionale, ma di un atto con cui
l’amministrazione mette in gioco quel potere per costituire a proprio vantaggio (a vantaggio
della collettività) posizioni soggettive ulteriori, che altrimenti l’amministrazione stessa non
riuscirebbe mai a far valere attraverso l’attuazione (ancorché politica o discrezionale) della
norma di diritto pubblico”.
140
Così anche M. Magri (“Gli accordi cit.”, 562), che, altresì, afferma: “… lo stesso ius
aedificandi, nella logica di un accordo, non viene in considerazione nella sua veste di
attributo originario del diritto di proprietà …, ma diventa piuttosto la remunerazione di
vantaggi pubblici o di prestazioni del privato di interesse sociale “comunitario” (“il
rilevante interesse per la comunità locale”), che rappresentano il vero risultato pratico o, se
si preferisce, la “causa” dell’accordo medesimo …”.
83
Le considerazioni svolte, se condivise, evidenziano un’ulteriore
esigenza, cui il legislatore regionale dovrebbe dare risposta:
l’obbligo di motivazione in ordine all’esistenza del (rilevante)
interesse pubblico dovrebbe essere sancito in termini analitici,
indicando gli elementi su cui può fondarsi l’accordo ed
imponendo la specifica illustrazione degli stessi; e tra questi non
potrebbe
mancare
–
come
prima
precisato
–
anche
l’illustrazione dell’indispensabilità del ricorso all’accordo – in
alternativa (per certo verso, obbligata) agli ordinari procedimenti
pianificatori – per la soddisfazione dell’interesse pubblico141.
Prima ancora e pregiudizialmente, il legislatore regionale
dovrebbe farsi carico di definire tassativamente non solo gli
strumenti urbanistici, il cui contenuto può essere oggetto degli
accordi “de quibus”, ma anche quali materie trattate dagli
strumenti
medesimi
siano
suscettibili
di
definizione
consensuale142.
È, questa, un’esigenza fondamentale, se si vuole valorizzare la
consensualità nell’ambito urbanistico e non consentire che la
stessa
divenga
un
(ulteriore)
“cavallo
di
Troia”
nella
deregolamentazione di fatto, da più parti lamentata.
141
Del resto, è noto che l’A.P. del Consiglio di Stato (22 dicembre 1999 n. 24 in C. St. 1999,
I, 2909) ha riconosciuto l’obbligo di motivazione degli atti normativi e generali, allorché la
decisione implichi una ponderazione di interessi non più “indifferente” rispetto a specifiche
posizioni soggettive.
142
P. Urbani (“Pianificare cit.”, 181) ricorda che “la dottrina ha puntato il dito proprio sulla
mancanza di regole preventive nel determinare l’oggetto degli accordi di scambio: gli
accordi – si dice – non sono in alternativa al potere amministrativo, ma anzi le condizioni
della loro ammissibilità vanno definite alla stregua delle norme dettate per l’esercizio del
potere”.
84
D’altra parte, se vorrà superare le ragioni costituzionali (artt. 3,
9, 32, 97 Cost.) e la “ratio” del divieto sancito dall’art. 13 L. 7
agosto 1990 n. 241, il legislatore regionale non potrà omettere
né una disciplina specifica dell’accesso all’accordo, della sua
pubblicità con particolare riferimento ai controinteressati (se
individuabili),
del
contraddittorio
specifico
sull’accordo
medesimo, né una precisa regolamentazione procedimentale143.
Tutto
questo
è,
peraltro,
imposto
pure
dalla
funzione
dell’accordo “de quo”, che è (e deve essere) uno strumento di
perseguimento
dell’interesse
pubblico,
cioè
di
esercizio
dell’attività di amministrazione attiva e che, per questo, non può
essere sottratto alla disciplina di quest’ultima.
Come sostiene un’autorevole dottrina144, infatti, il solo fatto della
contrattazione tra il privato e l’amministrazione non contrasta
con il principio della doverosità per la parte pubblica di
perseguire la finalità pubblica, mentre il contrasto può emergere
fino al limite dell’illiceità (e non della mera illegittimità), allorché
non sia rispettato il c.d. vincolo di scopo o l’imparzialità delle
scelte amministrative.
Sotto questo profilo, riemerge l’importanza del momento del
recepimento definitivo dell’accordo e della motivazione del
143
Sul punto, sia consentito di richiamare Cons. St. – sez. VI – 15 maggio 2002 n. 2636 cit..
Nella motivazione si afferma testualmente che l’esito negoziale “… è un possibile epilogo di
una vicenda partecipativa e comunque di un procedimento già iniziato … per cui può
senz’altro dirsi che non possono concludersi accordi al di fuori e prima dell’avvio del
procedimento e che non siano espressione della partecipazione procedimentale tesa a
stabilire nel caso concreto quale sia l’interesse pubblico”. M. Magri (“Gli accordi cit.”, 557)
sottolinea: “L’interesse del privato e quello dell’amministrazione, perseguito con l’accordo,
non preesistono al procedimento ma trovano nella partecipazione il loro momento di
composizione e di emersione, quali interessi giuridicamente protetti e meritevoli di tutela”.
144
F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 414.
85
recepimento medesimo, nel senso che non potrà dirsi rispettato
il c.d. vincolo di scopo se la scelta provvedimentale, a causa del
condizionamento dell’accordo, si tradurrà in una decisione
provvedimentale non bilanciata anche, ad esempio, rispetto agli
interessi superindividuali e agli altri interessi coinvolti nella
fattispecie, per quanto eventualmente non tutelati attraverso
l’intervento nel procedimento o come meglio145.
Un’ultima annotazione appare, quanto meno, opportuna.
La disciplina legislativa regionale degli accordi urbanistici in
esame dovrà comprendere anche la regolamentazione del c.d.
“ius variandi”. Questa esigenza vale per tutte le ipotesi di
accordi relativi al contenuto di strumenti urbanistici, ma è
peculiarmente evidente per le previsioni di strumenti urbanistici
generali, il cui recepimento sia stata conseguenza di accordi,
“pubblico-privati” (nell’accezione qui considerata), (ovviamente
semprechè l’ipotesi convenzionale relativa agli strumenti
generali venga introdotta dal singolo legislatore regionale).
Più che mai nella fattispecie or ora richiamata, infatti, il
recepimento del contenuto dell’accordo e la sua trasfusione in
uno dei predetti strumenti pianificatori generali non possono,
all’evidenza, comportare l’immodificabilità di questi ultimi “in
parte qua”. Ed in effetti: da un lato, la competenza pubblica non
145
Diversa è, tra gli altri, la posizione di C. Maviglia (“Accordi con l’amministrazione
pubblica e disciplina del rapporto”, Milano 2002, 72 ss.), che, nella prospettiva della
concezione privatistica degli accordi disciplinati dal più volte menzionato art. 11, sostiene, in
particolare (pg. 85), che “… l’interesse pubblico rileva nei termini di una corrispondenza alle
astratte finalità istituzionali e dunque in termini pienamente compatibili con una struttura
contrattualprivatistica degli accordi”.
86
viene – in virtù dell’accordo
medesimo – né rinunciata, né
estinta; dall’altro, l’evoluzione delle situazioni può comportare
che il perseguimento dell’interesse primario urbanistico comporti
la
modificazione
della
statuizione
pianificatoria
generale
recepita in base all’accordo.
Non di meno, “prima facie”, la particolare “fonte” della norma
urbanistica “de qua”, anche in considerazione degli obblighi che
possono gravare sul contraente privato, sembra attribuire una
peculiare configurazione giuridica della previsione medesima. Di
conseguenza non è dato – “a priori” – di escludere che tale
configurazione abbia riflessi (almeno) sull’ampiezza del potere
di variazione unilaterale della stessa previsione da parte della
P.A..
Al riguardo, sembra possibile evidenziare, senza perplessità,
che “la peculiare configurazione giuridica della previsione
medesima”, di cui si è or ora fatto cenno, non è da ricollegare
alla disciplina dettata dall’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.
per il recesso dagli accordi tra privati e P.A..
Con il recepimento del contenuto e con la trasfusione di
quest’ultimo nello strumento urbanistico, l’accordo urbanistico
esaurisce i propri effetti, almeno per quanto riguarda la P.A.,
con la conseguenza che eventuali successive decisioni, che
avessero a modificare le norme frutto dell’accordo, non
configurerebbero un recesso ai sensi del IV comma dell’art. 11
or ora citato.
87
Il recesso normato da quest’ultima disposizione legislativa,
infatti,
è
riferibile
solo
all’avvenuta
mancata
“provvedimentalizzazione” del contenuto dell’accordo e non può
riguardare
l’eventuale,
successiva,
“de-
provvedimentalizzazione”146. Quest’ultima sarebbe il frutto di un
nuovo, distinto, autonomo e discrezionale esercizio della
competenza pubblica urbanistica, che proprio per questo non
può essere considerata un’ipotesi di recesso dall’accordo,
riguardante – sempre e solo – (una parte di) un provvedimento,
cioè un singolo esercizio di una “potestas publica”, né, tanto
meno, di inadempimento rispetto agli “obblighi” assunti con
l’accordo
medesimo.
Diversamente,
l’accordo
“de
quo”
assumerebbe un’efficacia – e, quindi, una portata giuridica –
abnorme, tale da renderlo costituzionalmente non ammissibile,
non foss’altro per l’incidenza che avrebbe sui caratteri peculiari
della funzione amministrativa e urbanistica e sulla sua
autonoma e discrezionale esercitabilità da parte della P.A..
Con tutto questo, però, rimane innegabile che il recepimento
dell’accordo e la sua trasfusione nel provvedimento urbanistico
non può non comportare il determinarsi, in capo al soggetto
privato (parte “contraente” dell’accordo), di un’aspettativa
giuridicamente tutelata alla vigenza della previsione urbanistica,
originata dall’accordo urbanistico, per il tempo di legge e,
146
La variante di uno strumento urbanistico, infatti, non è un atto di secondo grado o di
autotutela, ma è esercizio “ex novo” della competenza urbanistica.
88
comunque, per un lasso temporale utile per il suo utilizzo ad
opera della predetta parte privata.
Come si è visto, infatti, gli accordi in questione si giustificano –
peculiarmente – per l’assunzione, ad opera dei “contraenti” terzi
rispetto
alla
P.A.,
titolari
della
esercitanda
competenza
amministrativa provvedimentale, di oneri (in senso lato) agli
stessi non imponibili unilateralmente dalle Amministrazioni
Pubbliche. Or bene, è di tutta evidenza che il privato si sacrifica
per il vantaggio che ritiene di poter ottenere dalla disciplina
urbanistica concordata, cosicchè in buona fede (il privato
medesimo) si aspetta di poter approfittare di quest’ultima.
Da questa premessa deriva, con chiarezza, l’aspettativa
giuridicamente tutelata alla vigenza della disposizione frutto
dell’accordo; aspettativa di cui, per quanto or ora accennato,
non può ritenersi titolare la parte inadempiente rispetto alle
obbligazioni assunte con l’accordo stesso.
L’inadempimento del privato, infatti, ferme le azioni civili, toglie
ogni dignità giuridica alla suddescritta aspettativa ed elimina
ogni elemento discretivo delle statuizioni, frutto dell’accordo
urbanistico rispetto alle altre statuizioni.
Or bene, su queste basi, esclusa la tesi dell’immodificabilità
delle prescrizioni urbanistiche “concordatarie”, ci si deve
chiedere se la soluzione legislativa per il c.d. “ius variandi”
possa essere rappresentata dall’applicazione del noto principio
giurisprudenziale relativo all’obbligo della motivazione, specifica
89
e puntuale, che consente di comprendere (e sindacare) le
ragioni poste a base delle modificazioni di preesistenti previsioni
urbanistiche riguardanti aree interessate da piani urbanistici
attuativi convenzionati.
In linea di principio, la risposta sembra dover essere positiva
(subito sottolineandosi – sia pure incidentalmente – come
questa soluzione rappresenti un’oggettiva novità, recandomi
estensione del principio (dell’obbligo) della motivazione, che, in
campo urbanistico, ha ancora spazi più che angusti).
Non di meno, deve evidenziarsi che il futuro legislatore dovrà
tener conto del diverso rilievo e della differente prevalenza che
l’interesse
pubblico
primario
riveste
nell’ambito
della
pianificazione urbanistica generale rispetto a quello suo proprio
nel contesto pianificatorio attuativo.
È evidente, infatti, che la perseguibilità dell’interesse pubblico
primario urbanistico, nell’esercizio del c.d. “ius variandi” di scelte
pianificatorie generali, giustificherà la modificazione delle scelte
pianificatorie,
frutto
dell’accordo
“pubblico-privato”,
(solo)
quando verrà dimostrato che la nuova disciplina consente la
migliore soddisfazione dell’interesse urbanistico147.
In altre parole, come già più volte ribadito, l’accordo “de quo”
non può rendere più difficoltoso il successivo esercizio della
competenza pianificatoria e la tutela della parte “contraente”
non può che essere data dalla necessità che la P.A. dimostri
147
Foss’anche in ragione di una diversa analisi del contesto di riferimento, magari per la (ri-)
valutazione di un concorrente interesse ambientale o paesaggistico, pur già esistente.
90
l’attualità della misura modificativa per il miglior perseguimento
dell’interesse
pubblico
urbanistico.
In
differente
ipotesi,
l’accordo avrebbe l’effetto “contra ius” di creare disequilibrio
rispetto alla variazione delle scelte urbanistiche generali tra le
posizioni di chi ha sottoscritto l’accordo e degli altri soggetti
dell’ordinamento.
Il
che
non
può
ammettersi,
mentre
l’affidamento creato dalla decisione della P.A. di trasfondere
l’accordo nello strumento urbanistico generale non può
assumere una consistenza tale da costringere ad una
valutazione di prevalenza tra interesse pubblico ed interesse
privato.
Può solamente, come è richiesto per le varianti urbanistiche
relative ad aree interessate da piani convenzionati148, escludere
la
“latissima
discrezionalità”,
tipica
della
competenza
pianificatoria urbanistica anche “in variante”, in ragione della
quale non viene sancito – di norma – l’obbligo di puntuale
motivazione delle varianti agli strumenti urbanistici generali.
L’obbligo
di motivazione,
pertanto,
costituisce
la
giusta
“sanzione” (“rectius”: il giusto mezzo).
Nel contesto dato, sulla base delle premesse illustrate, la
motivazione
dovrà
dell’interesse
strumento
essere
incentrata
sulla
sussistenza
pubblico
primario
alla
modificazione
dello
urbanistico
generale
con
superamento
delle
prescrizioni frutto dell’accordo, non già sulla prevalenza di
148
Cons. St. – sez. IV – 29.09.1997 n. 1024 in F.A. 1997, 2292.
91
questo rispetto all’interesse privato al mantenimento della
disciplina previgente.
Nel caso di specie, infatti, la relativa aspettativa del privato può
e deve trovare tutela, alla luce del principio di imparzialità (art.
97 Cost.), solo in subordine alla peculiare congruità ed attualità
dell’interesse pubblico primario che giustifica la variante
“abrogativa”.
Diversamente, con attenzione alle modificazioni indotte dalla
cura
di
interessi
paesaggistici
e/o
ambientali,
sembra
necessario distinguere tra l’ipotesi di decisione assunta dal
titolare della competenza urbanistica e quella di determinazione
di altra Autorità, che prevalga automaticamente o che obblighi
all’adeguamento “vincolato” degli strumenti urbanistici.
Nel primo caso, l’obbligo motivazionale, come sopra specificato,
resta sussistente nei termini suindicati; nel secondo caso no,
perché il provvedimento è di competenza di distinta Autorità e
riguarda un ambito di cura degli interessi pubblici, i quali non
possono,
separatamente
considerati,
essere
ritenuti
“condizionati” dalla predetta aspettativa giuridicamente tutelata.
Quest’ultima, infatti, è sorta e ha rilievo solo in riferimento ad
altra competenza e ad altro ambito.
Di converso, per le modificazioni di previsioni urbanistiche
attuative
frutto
dell’accordo
urbanistico,
non
sembrano
sussistere motivi per non ritenere recepibile legislativamente (ed
anche applicabile in via analogica) il più volte richiamato
92
principio giurisprudenziale della “specifica motivazione” volta ad
evidenziare sia le ragioni di pubblico interesse alla base del
mutamento della disciplina urbanistica, sia i motivi di prevalenza
dell’interesse pubblico rispetto alle aspettative dei privati sorte
dal precedente strumento urbanistico149.
Fin ultroneo, peraltro, osservare che la disciplina del c.d. “ius
variandi”, così come, più generalmente, la regolamentazione
degli accordi “pubblico-privati” in materia urbanistica cadranno
“in
desuetudine”
sul
piano
del
diritto
vivente,
qualora
l’orientamento giurisprudenziale non avesse a caratterizzarsi
per un sindacato intrinseco, sia pure nei limiti della giurisdizione
di
legittimità,
della
motivazione
degli
atti
di
“provvedimentalizzazione” o di “deprovvedimentalizzazione” (nel
senso prima descritto) degli accordi urbanistici stessi. Un
sindacato meramente formalistico, infatti, o il prevalere di un
orientamento favorevole alla sufficienza di una motivazione “di
stile” consentiranno prassi contrarie allo spirito dell’introduzione
degli
accordi
pubblico-privato
nell’ordinamento
settoriale
urbanistico, così come attualmente strutturato normativamente.
E l’effetto finirà per essere la riduzione del sistema pianificatorio
ad un simulacro di pianificazione: un contesto privo di
chiarezza, che il giurista non può condividere.
149
Cons. St. – sez. IV – 29 settembre 1997 n. 1024 cit..
93
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