GIORGIO PAGLIARI Professore associato confermato di diritto amministrativo Università degli Studi di Parma Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati* Sommario: 1. Inquadramento del tema. 2. I principi generali in tema di accordi urbanistici tra P.A. e Privati desumibili dalla legislazione statale: cenni su “ratio”, natura e funzioni dei modelli convenzionali contemplati dalla legislazione nazionale (dalla convenzione di lottizzazione alla programmazione negoziata). 3. La partecipazione dei Privati nei procedimenti pianificatori territoriali o di coordinamento: le linee di disciplina della legislazione statale. 4. La partecipazione dei Privati nei procedimenti pianificatori comunali: le linee di disciplina della legislazione statale. 5. Considerazioni di sintesi sull’analisi della legislazione statale urbanistica in materia di convenzioni e di partecipazione del Privato ai relativi procedimenti pianificatori. 6. Cenni sulla disciplina degli accordi tra P.A. e privati nella L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.. 7. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione regionale. La disciplina vigente nella Regione Veneto. 7.1. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione regionale. La regolamentazione in vigore nella Regione Emilia Romagna. 7.2. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione regionale. La disciplina vigente nella Regione Umbria. 1 8. Riflessioni conclusive e/o “de iure condendo” (eccezionalità dello strumento; accessorietà delle condizioni di natura patrimoniale; particolare rilevanza della obbligatorietà della motivazione; imprescindibilità del “vincolo di scopo (pubblico)”; disciplina del c.d. ius variandi). 1. Inquadramento del tema. La fattispecie di riferimento è costituita, con tutta evidenza, dagli accordi tra P.A. e Privati, contemplati dall’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., che notoriamente ammette accordi – procedimentali o sostitutivi di provvedimento1 – tra P.A. e privati relativamente al contenuto discrezionale dei provvedimenti amministrativi. * Ringrazio il prof. Paolo Stella Richter e il Consiglio Direttivo dell’AIDU per l’opportunità offertami con l’affidamento di questa relazione. Sul piano personale e scientifico, desidero ringraziare i proff.ri Franco Scoca, Maria Alessandra Sandulli, Annamaria Angiuli, Fabrizio Fracchia e Mauro Renna per l’attenzione prestatami tramite la lettura della bozza della relazione e per i preziosi suggerimenti. 1 Sugli accordi dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., la letteratura è amplissima. Senza pretesa di esaustività: F.G. Scoca, “Gli accordi” cit., in F.G. Scoca (a cura di), “Diritto amministrativo”, Torino 2008, 411 ss.; G. Greco, “Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto”, Torino, 2003; F.G. Scoca, “Autorità e consenso”, in Dir. Proc. Amm. 2002, p. 442; G. Barbagallo-E. Follieri-G. Vettori (a cura di), “Gli accordi fra privati e p.a. e la disciplina generale del contratto”, Napoli, 1995; F. Cangelli, “Riflessioni sul potere discrezionale della p.a. negli accordi con i privati”, in Dir. Amm., 2000; Id., “Potere discrezionale e fattispecie consensuali”, Milano, 2004; B. Cavallo, “Accordi e procedimento amministrativo”, in “Procedimento amministrativo e diritto di accesso”, Napoli 1993, p. 69 ss.; Id., “Procedimento amministrativo e attività pattizia”, in B. Cavallo (a cura di), “Il procedimento amministrativo tra semplificazione partecipata e pubblica trasparenza”, Torino, 2000, p. 119 ss.; A. Contieri, “La programmazione negoziata. La consensualità per lo sviluppo. I principi”, Napoli, 2000; M. Dugato, “Atipicità e funzionalizzazione nell’attività amministrativa per contratti”, Milano, 1996; R. Ferrara, “La p.a. tra autorità e consenso: dalla “specialità” amministrativa a un diritto amministrativo di garanzia”, in Dir. Amm., 1997, p. 225; F. Fracchia, “L’accordo sostitutivo. Studio sul consenso disciplinato dal diritto amministrativo in funzione sostitutiva rispetto agli strumenti unilaterali di esercizio del potere”, Padova, 1998; M. Immordino, “Legge sul procedimento amministrativo, accordi e contratti di diritto pubblico”, in Dir. Amm. 1996, p. 391; F. Ledda, “Dell’autorità e del consenso nel diritto dell’amministrazione pubblica”, in Foro Amm. 1997, p. 1273; G. Manfredi, “Accordi e azione amministrativa”, Torino, 2001; E. Sticchi Damiani, “Attività amministrativa consensuale e accordi di programma”, Milano, 1992; F. Trimarchi Banfi, “L’accordo come forma dell’azione amministrativa”, in Pol. Dir. 1993, p. 237; F. Tuccari, “Recesso ed inadempimento negli accordi amministrativi”, Bari, 1993; W. Giulietti, “Attività consensuale della p.a. e vincoli giuridici: tutela del pubblico interesse e affidamento del privato”, in Cons. Stato, 2001, p. 1617 ss.; Id., “La conclusione di accordi tra amministrazioni e privati dopo la legge n. 15/2005: ambito applicativo e profili sistematici”, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. 2 La relazione ha la finalità di valutare l’ammissibilità di tali accordi in materia urbanistica e di individuare i tratti dell’eventuale disciplina degli stessi, nella prospettiva della competenza legislativa concorrente ai sensi dell’art. 117, III comma, Cost.. In questa sede, le problematiche, pur importantissime (e note), relative alla natura giuridica degli accordi tra P.A. e privati, non possono essere toccate, se non a rischio di … cambiare oggetto della relazione, troppo articolato e complesso essendo il relativo dibattito2. Nel contesto dato, non può non evidenziarsi, in via pregiudiziale, che l’articolazione del sistema pianificatorio urbanistico (piani territoriali, piani di coordinamento, piani urbanistici generali e piani attuativi) comporta, inevitabilmente, la teorica possibilità di accordi in ordine agli strumenti di pianificazione generale e in ordine a quelli attuativi. Si tratta, con assoluta evidenza, di fattispecie, appartenenti allo stesso genere, ma tra loro divise da un radicale tratto di specialità (in senso tecnico-giuridico), tanto per contenuti ed effetti diversi, quanto per la collocazione in fasi diverse del procedimento di pianificazione urbanistica. L’indagine, pertanto, non potrà inizialmente che avere cura di entrambe le specie, pur essendo evidente, fin d’ora, che l’ipotesi più nuova (e più problematica) è la prima (quella degli strumenti urbanistici generali) per una serie di ragioni, che lo sviluppo dell’analisi renderà, auspicabilmente, evidenti. E ciò ferma 2 Sia consentito di rinviare a: G. Greco, “Accordi amministrativi cit.”, 10 ss.; Filippo Satta-F. Cardarelli, “Il contratto amministrativo”, in Dir. Amm. 2007, 221 ss.; L.R. Perfetti, “Manuale di diritto amministrativo”, Padova 2008, 461 ss.. 3 restando la necessità di evidenziare, fin d’ora, il motivo principale e decisivo: l’incidenza dell’accordo “de quo” sulla pianificazione generale (cioè quella cui è affidata, nell’interesse generale e a tutela – quanto meno – del bene collettivo “territorio”, la definizione delle regole dell’uso di quest’ultimo) pone, infatti, esigenze costituzionalmente “sensibili” ai sensi degli artt. 3, 9, 42 e 97 Cost.. In dottrina, questa distinzione è efficacemente descritta parlando di “accordi a monte” e di “accordi a valle”, riferendo i primi alle eventuali intese riguardanti il contenuto delle prescrizioni pianificatorie ed i secondi alle convenzioni attuative, a quelle del Testo unico dell’edilizia, a quelle relative a perequazioni e/o compensazioni3. In una visione sistematica, possono comunque assumersi fin d’ora – in specie, nell’eventualità che gli accordi “a monte” risultino ammissibili nell’ambito urbanistico – in termini problematici i seguenti elementi di riflessione: - l’accordo “de quo” può incidere sull’ordine della decisione e su quello dell’imputazione delle competenze e degli atti pianificatori urbanistici?; 3 P. Urbani, “Pianificare per accordi”, in Riv. Giur. Ed. 2005, 177 ss.. Questo Autore, nel merito, sostiene che gli accordi “a valle” non sono problematici dal punto di vista giuridico, poiché essi non mettono in discussione la cura dell’interesse pubblico in quanto “le scelte sono già state prese dall’Amministrazione attraverso la fissazione unilaterale delle prescrizioni urbanistiche”. Al contrario, per gli “accordi a monte”, parla di “mancanza di regole preventive per determinare l’oggetto degli accordi”, sottolineando, in specie, che “gli accordi non sono in alternativa al potere amministrativo, ma anzi le condizioni della loro ammissibilità vanno definite alla stregua delle norme dettate per l’esercizio del potere”. 4 - l’accordo dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. può essere uno strumento alternativo o solo complementare per l’esercizio della funzione pianificatoria urbanistica?; - l’accordo medesimo, quindi, non può che avere natura procedimentale o preliminare, mai sostitutiva4, chè questo vorrebbe dire incidere sulla titolarità della funzione urbanistica, sulla imparzialità della stessa e sulla garanzia dei terzi?; - l’accordo del citato art. 11 può avere ad oggetto solo disposizioni (normative e/o cartografiche) di portata limitata?; - l’accordo “de quo” può avere uno spazio, semprechè non vi siano altre ragioni ostative, distinto e non sovrapponibile e non fungibile rispetto all’accordo di programma?; - l’accordo medesimo potrà trovare un limite nel caso del concorso di strumenti pianificatori concorrenti (ad es., paesaggistici) con efficacia di sostituzione o di prevalenza “ope legis” delle previsioni urbanistiche ovvero comportanti l’obbligo di adeguamento di queste ultime? Or dunque, nel contesto di una riflessione riguardante la disciplina urbanistica tra legislazione statale e legislazione regionale, il tema degli accordi urbanistici pubblico-privati non può che muovere dalla verifica del rispetto della disciplina della legislazione concorrente tra Stato e Regioni a statuto ordinario. 4 Sugli accordi sostitutivi, si rinvia a F. Fracchia, “L’accordo sostitutivo” cit.. 5 Come notorio, l’ultimo capoverso del III comma dell’art. 117 Cost. sancisce: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni determinazione la potestà dei legislativa, principi salvo fondamentali, che per riservata la alla legislazione dello Stato”. Come è parimenti notorio, in assenza di una legge-cornice, i principi generali debbono essere evinti dalla legislazione statale in materia5. Un’ultima annotazione è necessaria. Il termine “accordo” ha assunto particolare rilievo nel linguaggio pubblicistico proprio con le leggi del 1990: da un lato la c.d. 142, meglio nota come “riforma delle autonomie locali” e che, all’art. 27, ha introdotto l’“accordo di programma”; dall’altro, la c.d. 241, altrimenti “legge sul procedimento” o “legge sulla trasparenza”, che ha istituito gli “accordi tra P.A. e Privati” (art. 11) e gli “accordi tra Enti Pubblici” (art. 15). Anteriormente, la terminologia era più diversificata e, in materia urbanistica, era particolarmente usata la parola “convenzione”6. 5 P. Stella Richter, “I rapporti tra legislazione statale e legislazione regionale”, Convegno A.I.D.U. 2008; S. Musolino, “I rapporti Stato-Regioni nel nuovo titolo V parte II alla luce dell’interpretazione della Corte Costituzionale”, Milano 2007, in specie 62 ss.; P. Stella Richter, “I principi del diritto urbanistico”, II ed., Milano 2006; S. Amorosino, “Il governo dei sistemi territoriali”, Padova 2008, 14 ss.; F. Salvia, “Manuale di diritto urbanistico”, Padova 2008, 17 ss.. 6 Sul tema, vedansi M. Nigro “Convenzioni urbanistiche e rapporti tra privati. Problemi generali”, in M. Nigro, “Scritti giuridici”, vol. II, Milano 1996 e l’ancora attuale libro di V. Mazzarelli, “Le convenzioni urbanistiche”, Bologna 1979 con la notissima Prefazione di M.S. Giannini. Più in generale, tra gli altri, si rinvia a: C. Marzuoli, “Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione”, Milano 1982; G.D. Falcon, “Le convenzioni pubblicistiche. Ammissibilità e caratteri”, Milano 1984; R. Ferrara, “Gli accordi tra i privati e le pubbliche amministrazioni”, Milano 1985. 6 L’indagine seguente, naturalmente, non si fermerà al dato formale, al c.d. “nomen iuris”, ma si incentrerà sul fenomeno sostanziale, cioè su tutte le ipotesi, che si caratterizzano per un’intesa tra parte pubblica e parte privata relativamente al contenuto di un provvedimento amministrativo (in senso ampio) in materia urbanistico-edilizia. 2. I principi generali in tema di accordi urbanistici pubblico-privati desumibili dalla legislazione nazionale: cenni su “ratio”, natura e funzione dei modelli convenzionali contemplati dalla legislazione nazionale (dalla convenzione di lottizzazione alla programmazione negoziata). Su queste premesse, è necessario ripercorrere – senza pretesa di esaustività – la legislazione urbanistica statale in materia di convenzioni, per verificare quali principi generali si possano – eventualmente – dedurre. A seguito della novella contenuta nella L. 6 agosto 1967 n. 7657, la L. 17 agosto 1942 n. 1150 o L.U., all’art. 28, disciplina la lottizzazione, divenuta strumento attuativo del piano 7 N. Assini-P. Mantini (“Manuale di diritto urbanistico”, III ed., Milano 2008, 547 ss.) ricordano che “Prima dell’approvazione della legge ponte 6 agosto 1967, n. 765 – che ha elevato il piano di lottizzazione a dignità di strumento urbanistico attuativo del piano regolatore generale, con funzione alternativa rispetto al piano particolareggiato di esecuzione – la lottizzazione, secondo il significato offerto dall’art. 13 della legge urbanistica generale 17 agosto 1942, n. 1150, si atteggiava a mera attività materiale, contestuale o successiva alla elaborazione del P.p.e, preliminare e preordinata all’attività edificatoria, consistente nella “suddivisione degli isolati in lotti fabbricabili secondo la tipologia indicata dal piano”. È pur vero che l’art. 28 della legge 1150/1942 ammetteva la possibilità per il comune di autorizzare la lottizzazione prima dell’approvazione del piano particolareggiato, tuttavia una corretta applicazione della normativa urbanistica, allora vigente, imponeva che l’assetto del territorio fosse definito attraverso l’impiego del P.r.g., quale strumento di programmazione e di pianificazione ai fini di una razionale utilizzazione dei beni, nonché del P.p.e. quale strumento di attuazione della disciplina conferita con lo strumento urbanistico generale: in siffatto contesto la lottizzazione non avrebbe potuto configurarsi diversamente da una semplice suddivisione in lotti catastali”. 7 regolatore generale, sancendo che l’autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, relativa alla cessione delle urbanizzazioni primarie, all’assunzione dell’onere della realizzazione di queste ultime e di una quota-parte di quelle secondarie, ai termini di esecuzione delle opere medesime e alla prestazione delle congrue garanzie per gli obblighi convenzionali. Questa convenzione, pur in un contesto che conosceva già le convenzioni in urbanistica8, materia ha certamente rappresentato una rilevante novità, fino ad essere definita l’archetipo delle diverse convenzioni urbanistiche, ma anche un’entità giuridica di difficile inquadramento: è notissima l’etichetta di “centauresse”, affibiata da M.S. Giannini alle convenzioni urbanistiche proprio in considerazione della loro sfuggente natura giuridica9. Come noto, l’art. 28 L. 17 agosto 1942 n. 1150 s.m.i., infatti, indica come atto centrale del procedimento lottizzatorio l’autorizzazione comunale, la cui emanazione è subordinata alla sottoscrizione premesse, inquadrata della la convenzione convenzione come atto di medesima. lottizzazione accessorio del Su queste può essere provvedimento autorizzatorio, con il quale si precisano e si definiscono gli 8 V. Mazzarelli, “Le convenzioni urbanistiche”, cit.; E. Dalfino, “L’interesse pubblico nelle lottizzazioni edilizie”, Milano 1979. 9 M.S. Giannini, “Prefazione” al volume di V. Mazzarelli, “Le convenzioni” cit.; V. Mazzarelli, “Convenzioni e accordi amministrativi. Convenzioni urbanistiche” in EdD., vol. IX, Roma 1988, 1 ss.; Id., “Convenzioni urbanistiche” in EdD, Aggiornamento V, Milano 2000, 294 ss.; M.C. Spena, “Esercizio del potere in forma consensuale in materia urbanistica e ius poenitendi della P.A.” (commento a Cons. St. – sez. IV – 31 gennaio 2005 n. 222), in Riv. Giur. Ed. 2006, parte I, 1258. 8 obblighi connessi all’autorizzazione rilasciata con specifico riferimento alla cessione gratuita delle aree di urbanizzazione, all’assunzione e all’adempimento degli oneri urbanizzativi, nonché alla relativa garanzia (art. 28, IV comma, L. cit.). La natura della previsione e, prima, la sua collocazione nell’ambito della mera pianificazione attuativa di livello comunale, non sembrano consentire – quindi – di desumere un principio generale di ammissione dello strumento convenzionale nel processo di definizione delle decisioni urbanistiche in senso stretto e caratterizzante (e non di quelle meramente attuative). Non può tuttavia tacersi che vi è un autorevole filone dottrinale10, che sostiene la “totale immedesimazione tra piano di lottizzazione e relativa convenzione”, da ciò desumendo che “il nucleo dell’accordo verte … sull’assetto territoriale – che definisce indici volumetrici, altezze, tipologie edilizie, spazi di uso pubblico, tracciato delle strade – proposto dai privati ed accettato dall’amministrazione”11. Per vero, la tesi lascia (rispettosamente) perplessi, posto che l’impianto legislativo individua, certamente, nel privato- proprietario il soggetto proponente del piano di lottizzazione, ma non lascia alcuno spazio, sul piano giuridico-formale, alla “negoziazione” delle scelte urbanistiche, comunque attuative12, 10 G. Pericu, “Le convenzioni di lottizzazione” in L. Mazzarolli-G. Pericu-A. Romano-F. Roversi Monaco-F.G. Scoca (a cura di) “Diritto amministrativo”, vol. II, Bologna 1993, 1340. 11 P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico” cit., 199. 12 P. Urbani-S. Civitarese Matteucci (“Diritto urbanistico” cit., 199) sostengono, però, che “… i tratti pubblicistici della procedura trovano ora il loro punto di riferimento normativo negli artt. 24 e 25 L. 47/1985 con la conseguenza, tra l’altro, che la scelta di assetto territoriale 9 tra proponente e P.A. anche attraverso l’indicazione del contenuto essenziale della convenzione. In altri termini, il legislatore del 1942 si è mosso secondo le linee dell’azione amministrativa unilaterale e imperativa, cosicchè, quanto meno sul piano del c.d. ordine dell’imputazione, la fattispecie convenzionale lottizzatoria non pare rappresentare un primo indizio della tendenza della legislazione statale verso la “negoziazione” delle scelte urbanistiche13. Il che – sia consentito di ribadirlo – non è in contrasto con l’inquadramento di queste convenzioni nella fattispecie del citato art. 11, che comprende – come anticipato – ipotesi diverse. La legge 18 aprile 1962 n. 167, relativa ai piani di zona per l’edilizia economica e popolare14, prevede le convenzioni con i soggetti cessionari delle aree tanto in diritto di superficie, quanto in diritto di proprietà. Queste convenzioni15, pur se contengono la previsione dei caratteri tipologici degli edifici, hanno una funzione meramente accessoria al provvedimento di assegnazione e sembrano riconducibili allo schema della concessione-contratto16. Ciò che può anche risultare in contrasto con le prescrizioni del piano regolatore (con effetti abrogativi di queste)”. 13 Sul dibattito complessivo, vedasi la sintesi proposta da A. Fiale, “Diritto urbanistico”, XI Ed., Napoli 2006, 422 ss.. 14 La letteratura giuridica in materia è notoriamente molto vasta: vedasi, per tutti, M. Pallottino, “Piano per l’edilizia economica e popolare”, in EdD, vol. XXXIII, Milano 1983, 634 ss.. La sintesi più recente della materia è in N. Assini-P. Mantini, “Diritto urbanistico” cit., 619 ss.. 15 Per un esame più analitico mi permetto di rinviare, tra gli altri, a G. Pagliari, “Corso di diritto urbanistico”, III ed., Milano 2002, 178 ss.. 16 P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti”, III ed., Torino 2004, 218 ss.; F. Salvia, “Manuale cit.”, 138. In giurisprudenza, vedansi, tra le altre, Cons. St. – sez. IV – 13 maggio 1999 n. 835 (in Cons. St. 1999, I, 799) e Cass. – sez. III – 6 agosto 2001 n. 10841. 10 è importante sottolineare è che si tratta di atti e condizioni stabiliti unilateralmente dal Comune, nei quali l’aspetto della concertazione, quale delineato dall’art. 11 L. sul procedimento, è, se al limite sussistente, del tutto marginale. Con l’art. 27 L. 22 ottobre 1971 n. 865 s.m.i. vengono introdotti i piani per gli insediamenti produttivi17. Anche in questo caso vengono previste le convenzioni tra gli assegnatari ed il Comune assegnante, per le quali valgono le considerazioni or ora svolte con riferimento alle convenzioni p.e.e.p.. Gli artt. 7 e 8 L. 28 gennaio 1977 n. 10 hanno introdotto la c.d. edilizia convenzionata, oggi normata dagli artt. 17 e 18 D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 s.m.i.. Nel caso, la convenzione riguarda esclusivamente i prezzi di vendita ed i canoni di locazione degli immobili considerati e ha come effetto – notoriamente – la riduzione del contributo di costruzione alla sola quota relativa agli oneri di urbanizzazione. È evidente, pertanto, l’irrilevanza della fattispecie, nel contesto della presente riflessione. Nel 1978, con la L. 5 agosto 1978 n. 457, viene introdotto il Piano di recupero per il patrimonio edilizio esistente18. L’art. 28 di detta legge prevede – tanto nel caso di piano comunale attuato tramite i privati, quanto in quello di piano di 17 Vedansi, tra gli altri, P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico” cit., 175 ss. e 215 ss. e G. Pagliari, “Corso di diritto urbanistico”, III ed., Milano 2002, 181. 18 E. Sticchi Damiani, “Recupero delle abitazioni e organizzazione del territorio”, Milano 1980; A. Crosetti, “Piano di recupero”, Nov. Dig. Disc. Pubbl., App. V, Torino 1984, 939 ss. Si rinvia per una disamina approfondita a N. Assini-P. Mantini, “Manuale cit.”, in specie 597 ss.. 11 iniziativa privata – la stipulazione di una convenzione. Nella prima ipotesi, la natura della convenzione, direttamente prevista dalla legge, non presenta elementi differenziali rispetto a quelli propri delle convenzioni p.e.e.p. o p.i.p.19; nella seconda, nella quale la convenzione non è prevista dalla legge, epperò è strumento nella prassi assai usato per dare maggiore certezza, in specie in ordine agli obblighi dei soggetti attuatori, oltre che per introdurre sanzioni pattizie “contrattate”, la convenzione può contenere anche patti in materia urbanistico-edilizia. P.A. e Privati, infatti, possono definire, (anche) in tale sede, le caratteristiche dell’intervento, con ciò concordando profili strutturali e architettonici attinenti alla pianificazione urbanistica attuativa20. convenzione La rilevanza muteranno, e la portata naturalmente, sostanziale a seconda della della tipologia degli interventi di recupero (risultando massime nel caso della ristrutturazione urbanistica); non di meno, appare indiscutibile che queste convenzioni possano contenere accordi sui profili discrezionali dell’intervento urbanistico di recupero attuato attraverso il relativo piano. Queste considerazioni non sono sminuite dal fatto che il Comune, in sede di approvazione del piano, possa modificare il testo convenzionale21. 19 P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico” cit., 213. P. Urbani-S. Civitarese Matteucci (“Diritto urbanistico” cit., 214) rilevano testualmente: “La vicenda giuridica successiva alla proposta pianificatoria dei privati viene a coincidere totalmente con quella propria delle convenzioni di lottizzazione …”. 21 A. Fiale (“Diritto urbanistico” cit., 367) evidenzia questo aspetto per sottolineare che il piano di recupero ha sempre “la stessa natura di efficacia giuridica, indipendentemente dalle modalità di esercizio del potere di iniziativa”. 20 12 L’art. 16 L. 17 febbraio 1992 n. 179 introduce i programmi integrati di intervento, che rappresentano la prima fattispecie di urbanistica consensuale22. La loro funzione è quella di riqualificare il tessuto urbano, edilizio ed ambientale, coinvolgendo aree edificate e inedificate e non richiedendo la (preventiva) zonizzazione caratteristica, unitamente comunale alla “ad possibilità hoc”. Questa di incidere sull’ambiente e sul complessivo tessuto urbanistico, costituisce l’elemento di distinzione di questi piani da quelli di recupero del patrimonio edilizio esistente (che richiedono, peraltro, l’individuazione delle zone di recupero) e dai programmi di recupero urbano. È notorio, per quanto più direttamente interessa in questa sede, che questi programmi (la cui disciplina di dettaglio è di competenza regionale: Corte Cost. 19 ottobre 1992, n. 393) sono stati introdotti dal legislatore per consentire la collaborazione pubblico-privato23 nella forma più ampia, onde raggiungere lo scopo di riorganizzare e riconvertire il territorio interessato. Per quanto la Corte Costituzionale, con la predetta 22 P. Urbani, “Urbanistica consensuale”, Torino 2000. P. Urbani-S. Civitarese Matteucci (“Diritto urbanistico” cit., 187 ss.) sostengono espressamente: “L’iniziativa richiede il concorso di più soggetti … sembra evidente che interventi di tali dimensioni richiedono la partecipazione – anche nella fase dell’elaborazione delle scelte urbanistiche – di altri soggetti pubblici o privati, anche riuniti in consorzio o associati tra loro (enti pubblici, imprese, singoli proprietari), legittimati a presentare direttamente al Comune un’ipotesi di intervento … Sembra potersi osservare che, al di là del profilo formale dell’imputazione della decisione, la norma tratteggi implicitamente una fattispecie di formulazione concordata o patteggiata delle prescrizioni urbanistiche e non a caso il programma integrato di intervento, nella prima prassi applicativa, è apparso come modello per la cosiddetta “urbanistica consensuale”. 23 13 sentenza 393 del 199224, abbia fortemente limitato la portata dello strumento25, soprattutto in ordine alla possibilità di introdurre fattispecie derogatorie del vigente sistema di strumentazione urbanistica e di assetto delle competenze amministrative del settore26, non appare dubbio il rilievo di questo istituto, anche in ordine all’ammissibilità di accordi tra P.A. e Privati; e ciò non solo da un punto di vista pratico, ma pure nell’ottica dell’evoluzione dei principi generali dell’ordinamento settoriale urbanistico. Con l’art. 2 della stessa legge 179 (cui vanno ricollegati i decreti del Ministro dei Lavori Pubblici 21 dicembre 1994 e 29 novembre 1995), sono stati introdotti i programmi di riqualificazione urbana27. Essi sono deputati ad avviare il recupero edilizio e funzionale di ambiti urbani specificatamente identificati attraverso interventi su parti significative delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, su edilizia non residenziale (al fine di migliorare la qualità della vita possibile nell’ambito considerato) e su ambiti residenziali (onde riqualificare fisicamente l’ambiente). Questi programmi, da definirsi con accordo di programma se “in variante agli strumenti urbanistici generali”, sono normalmente attuati mediante convenzioni, in quanto devono consistere in un insieme sistematico e coordinato di opere pubbliche e private. È “in re 24 Corte Cost. 19 ottobre 1992 n. 393, in Const. St. 1992, II, 1413. N. Assini-P. Mantini, “Manuale cit.”, 604. 26 N. Assini-P. Mantini, “Manuale cit.”, 604. 27 Per la disamina più analitica dell’istituto vedasi A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 392 ss.. 25 14 ipsa” che la stessa definizione di questi piani avvenga con il coinvolgimento preventivo di soggetti privati28, cioè che la definizione dello strumento sia consensuale. Si tratta, pertanto, di un istituto che, come il precedente, testimonia la volontà del legislatore di incidere sulla configurazione classica della pianificazione urbanistica attuativa in termini di competenza unilaterale ed indisponibile (“rectius”: non negoziabile), con la conseguente legittimazione della consensualità nella definizione della strumentazione urbanistica29 del livello citato. E ciò semprechè non si condivida la tesi, secondo cui il programma di riqualificazione urbana non è uno strumento urbanistico, ma un “particolare programma di finanziamenti pubblici”30. L’art. 11 D.L. 05.10.1993 n. 398, convertito nella L. 04.12.1993 n. 493, ha regolamentato i programmi di recupero urbano31, aventi come scopi specifici sia la realizzazione, la manutenzione e l’ammodernamento secondarie, sia delle l’edificazione urbanizzazioni di primarie completamento e e di integrazione dei complessi urbanistici esistenti; sia, infine, l’inserimento di elementi di arredo urbano e il recupero del patrimonio edilizio esistente. I due successivi decreti ministeriali 28 A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 392 ss.. Il D.M. 8 ottobre 1998 a firma del Ministro dei Lavori Pubblici ha esteso il finanziamento previsto per i precitati piani anche ai programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile: vedasi A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 397-398. 30 P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico” cit., 189. 31 N. Assini-P. Mantini, “Manuale cit.”, 607. 29 15 del 1° dicembre 1994 32 hanno indicato, come prevalente ambito di applicazione del programma di recupero urbano, gli interventi di completamento e di integrazione degli insediamenti di edilizia residenziale pubblica. Si tratta di uno strumento “pubblico-privato”, che può costituire variante agli strumenti urbanistici vigenti e che, in tal caso, deve essere approvato con accordo di programma. Il che comporta una chiara delimitazione degli accordi, riconducibili analogicamente all’art. 11 c.d. L. sul procedimento, in senso restrittivo, cioè legato al solo profilo attuativo. Con il decreto del Ministro dei Lavori Pubblici 22.10.199733, sono stati previsti i contratti di quartiere34, come interventi sperimentali nel settore dell’edilizia residenziale pubblica sovvenzionata (art. 2, comma 63, lett. b), L. 23.12.1996 n. 662) da includere nei programmi di recupero urbano. L’ambito di operatività è costituito dai quartieri segnati da un diffuso degrado delle costruzioni o dell’ambiente urbano e da carenze di servizi, in un contesto di scarsa coesione sociale e di marcato disagio abitativo. I citati contratti devono riguardare aree di edilizia economica e popolare, ovvero aree assoggettate a recupero urbanistico ai sensi dell’art. 29 L. 28 febbraio 1985 n. 47; essi hanno la funzione di recuperare i caratteri edilizi dei fabbricati e la 32 Rispettivamente in G.U. 12.12.1994 n. 289 e G.U. 13.12.1994 n. 290. G.U. 30.01.1998 n. 24. 34 Sui contratti di quartiere, vedansi M. Breganze, “Contratti di quartiere: strumenti utili per il recupero urbano?” in Riv. Amm. 1997, 1139; A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 403 ss.; G. Pagliari, “Corso cit.”, 229 ss.. 33 16 funzionalità del contesto urbano, di accrescere le dotazioni di servizio del quartiere e di migliorare la qualità abitativa ed insediativa, raggiungendo più elevati standards, anche di tipo ambientale. Per l’attuazione dei contratti di quartiere sono previsti sia la stipulazione di accordi tra Amministrazioni pubbliche, tesi ad incrementare l’occupazione e a favorire l’integrazione sociale (promozione della formazione professionale giovanile, recupero dell’evasione scolastica, assistenza agli anziani e realizzazione di strutture di accoglienza), sia accordi tra P.A. e volontariato, ONLUS e privati per il settore dei servizi. Con tutta evidenza, non si tratta solo di accordi, dal punto di vista urbanistico, di mera attuazione, ma soprattutto di patti che riguardano profili di natura sociale, cioè relativi alla funzione più importante di quest’istituto: funzionalizzare l’attività di recupero urbanistico-edilizio alle esigenze di superamento del degrado sociale, di cui quello urbanistico è solo lo specchio. Figura ancora dagli incerti confini è costituita dai programmi di riabilitazione urbana previsti dall’art. 27 L. 01.08.2002 n. 166, comunque deputati anch’essi al recupero di zone degradate non solo sotto il profilo della vetustà o della fatiscenza delle costruzioni35. Si tratta, in ogni caso, di uno strumento introdotto per la riqualificazione di porzione del territorio degradato dal punto di vista fisico, economico e sociale. 35 A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 404 ss.; P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico” cit., 190 ss.. 17 L’iniziativa è del Comune competente; le opere possono essere cofinanziate dai Privati; ai proprietari rappresentanti la maggioranza assoluta del valore degli immobili ricompresi nel piano attuativo, calcolato in base all’imponibile catastale, riuniti in consorzio, può essere affidato l’intervento se il Comune approva progetto e (relativa) convenzione presentati dai consorziati. Le analogie con la lottizzazione e con il piano di recupero del patrimonio edilizio esistente sono evidenti, cosicchè è chiara la funzione, che assume la convenzione precitata36. In questa sede, non possono non essere ricordati (anche se non analiticamente esaminati) i diversi strumenti di programmazione negoziata previsti dall’art. 2, comma 203, L. 23 dicembre 1996 n. 66237. 36 Il consorzio può assumere la funzione di soggetto espropriante; l’indennità è pari al valore venale, dedotte le opere di urbanizzazione. 37 Sulla programmazione negoziata si segnalano, senza pretesa di esaustività: P. De Vivo, “Sviluppo locale e Mezzogiorno: piccola impresa, territorio ed azione pubblica”, Milano 1997; A. Police, “I patti territoriali: un nuovo modello convenzionale per le amministrazioni locali”, in AA.VV., “Procedimenti e accordi nell’Amministrazione locale”, Atti del XLII Convegno di studi di scienza dell’Amministrazione (Tremezzo, 19-21 settembre 1996), Milano, 1997; G.P. Manzella, “Patti territoriali: vicende di un istituto di programmazione negoziata”, ivi, 1997, 789 ss.; G. D’Auria, “Interventi per l’occupazione e programmazione negoziata”, in Riv. Giur. Lav. e Prev. Soc., 1998, 82 ss.; M. Zoccatelli, “I patti territoriali e i contratti d’area: genesi, realizzazioni e questioni irrisolte”, in “Le Istituzioni del Federalismo”, 1998, 261 ss.; F. Cocozza, “La Programmazione negoziata e il nuovo impulso al regionalismo economico”, ivi, 1999, 259 ss.; E. Pellizer, L. Zanetti, “La programmazione negoziata nell’ambito della pianificazione urbanistica e dei lavori pubblici”, ivi, 1999, 283 ss.; R. Ferrara, “La Programmazione “negoziata” fra pubblico e privato”, in Dir. Amm. 1999, 429 ss.; G.M. Esposito, “Amministrazione per accordi e programmazione negoziata”, Napoli, 1999; M. Russo, “Città, territorio e programmazione negoziata. Un modello di sviluppo locale”, Napoli, 1999; A. Contieri, “La programmazione negoziata. La consensualità per lo sviluppo. I principi”, Napoli, 2000; P. Urbani, “Urbanistica consensuale. La disciplina degli usi del territorio tra liberalizzazione, programmazione negoziata e tutele differenziate”, Torino, 2000; F. Sprovieri, “Il nuovo quadro normativo di riferimento e le risorse per gli strumenti della programmazione negoziata”, in Riv. Giur. Mezz., 2003, 583 ss.; M. Centorrino, G.F. Lo Presti, “Strumenti di sviluppo locale: la programmazione negoziata. Dalla nascita alle recenti evoluzioni”, Bari, 2005. 18 Con le diverse fattispecie ivi contemplate, si persegue lo scopo di una regolamentazione concordata tra soggetti pubblici e privati per l’attuazione di interventi diversi, ma riferiti ad un unico obiettivo di sviluppo e richiedenti una valutazione complessiva delle attività di competenza38. Con tutti questi istituti, riconducibili nell’ambito della programmazione negoziata39, possono essere introdotte varianti agli strumenti urbanistici generali. Questi accordi, cui possono partecipare anche i privati (con la sola eccezione dell’intesa istituzionale di programma40), sono quelli potenzialmente più rilevanti sotto il profilo dell’incidenza sulla pianificazione urbanistica e, pertanto, quelli che introducono l’elemento più significativo in ordine al “favor” del legislatore statale per gli accordi in materia urbanistica. Questa conclusione non ha come conseguenza la riconduzione (o la riconducibilità) dei moduli negoziali propri della programmazione negoziata agli accordi dell’art. 11 L. 7 agosto 38 G. Ruberto (“Profili urbanistici della programmazione negoziata” in Giust. Amm. 2007, sez. Edilizia ed Urbanistica, 1003 ss.) parla di “… modello generalizzato di promozione dello sviluppo locale (che) trae origine dalla crisi europea del capitalismo urbano territoriale e dal conseguente rovesciamento delle politiche di programmazione dell’economia che individuano, quale nuovo fattore trainante della crescita produttiva e occupazionale, un’idea di sviluppo economico non più centralizzato e dirigistico ma basato sulla cooperazione delle forze che operano nel territorio: amministrazioni locali, imprese, banche e associazioni di categoria”. E aggiunge (pg. 1004): “Nei moduli della programmazione negoziata è tuttavia rinvenibile una visione nuova, dinamica della sussidiarietà, non più intesa nel senso tradizionale di criterio rigido di allocazione delle funzioni amministrative, ma in un’accezione procedimentale e consensuale, in cui il ruolo centrale degli enti locali è assicurato dalla partecipazione, insieme alle forze locali e alle parti sociali, al “tavolo di concertazione” in cui sono assunte le scelte programmatorie”. 39 Come noto, nell’ambito della programmazione negoziata, rientrano l’intesa istituzionale di programma, l’accordo di programma quadro, il patto territoriale, il contratto di programma e il contratto di area. Per il quadro analitico della definizione si rinvia ad A. Fiale, “Diritto urbanistico cit.”, 405 ss.. 40 G. Ruberto, “Profili urbanistici” cit., 1007. 19 1990 n. 241 s.m.i.41, ma indica, più semplicemente, la presenza nella legislazione nazionale di disposizioni, che consentono la “contrattazione” tra P.A. e Privati delle scelte pubbliche anche urbanistiche, quali componenti o quali strumenti per l’attuazione delle scelte programmatorie economiche42; e ciò non solo per gli strumenti di pianificazione generale di livello comunale, ma anche sovracomunale43-44. È, comunque, innegabile 41 G. Ruberto (“Profili urbanistici” cit., 1007) nega l’assimilabilità agli accordi della legge sul procedimento, sottolineando che, in questi ultimi, “… l’interesse facente capo all’Amministrazione prevale su quello del privato, potendo la stessa recedere unilateralmente dall’accordo “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse”. Nei moduli consensuali della programmazione negoziata, invece, il soggetto pubblico non gode del potere di recesso, atteso che l’interesse allo sviluppo economico, perseguito attraverso lo strumento negoziale, non rientra nella titolarità esclusiva né dell’Amministrazione né dei privati, trattandosi di un interesse generale, alla cui realizzazione le parti contribuiscono in maniera tendenzialmente paritaria, giocando ciascuna un ruolo specifico e insopprimibile … La preordinazione dell’interesse dell’Amministrazione a quello dei privati fa sì che i moduli consensuali della programmazione negoziata siano assimilabili, quanto a regime giuridico, al contratto di diritto privato … Pertanto, in siffatti accordi negoziali, il recesso unilaterale dell’Amministrazione potrebbe ammettersi solo in virtù di un’espressa previsione contrattuale, ai sensi dell’art. 1373 cod. civ.”. 42 G. Ruberto (“Profili urbanistici” cit., 1008) rileva: “Non è raro, invero, il caso in cui la prescrizioni urbanistiche contrastino con i programmi di sviluppo concordati: si pensi all’ampliamento o alla realizzazione “ex novo” di impianti produttivi in aree non aventi tale destinazione o a interventi infrastrutturali a servizio del progetto di sviluppo, non previsti ma necessari per la realizzazione del programma. In tal caso, il legislatore ha previsto che l’accordo di programmazione negoziata possa operare in variante alla strumentazione urbanistica, che così risulta recessiva rispetto all’interesse allo sviluppo locale e all’incremento dei livelli occupazionali”. E ciò pur se – ricorda l’Autore – i Privati sono esclusi dalla sottoscrizione dell’accordo modificativo del piano urbanistico (pg. 1010). 43 Sulla questione vedasi, da un lato, Cons. St. – sez. VI – 5 gennaio 2001 n. 25 (in Riv. Giur. Amb. 2001, 476 con nota di S. Civitarese Matteucci), e, dall’altro, G. Ruberto (“Profili urbanistici” cit., 1012 ss.). 44 Rientra tra le figure di collaborazione P.A.-Privati anche la Società di trasformazione urbana, introdotta dall’art. 17, comma 59, L. 15 febbraio 1997 n. 127 e oggi disciplinata dal T.U. degli Enti Locali (sull’istituto vedansi, tra agli altri, P. Mantini, “Le società di trasformazione urbana. Profili giuridici ed organizzativi”, in Riv. Giur. App. 1997, 519 ss.; M. Breganze, “Le società di trasformazione urbana: prime note”, in Riv. Giur. Urb. 1997, 169 ss.; G. Pagliari, “Le società di trasformazione urbana”, in Riv. Giur. Urb. 1998, 87 ss.; M. Dugato, “Oggetto e regime delle società di trasformazione urbana”, in Dir. Amm. 1999, 511; P. Urbani, “Trasformazione urbana e società di trasformazione urbana”, in Riv. Giur. Urb. 2000, 623). Si tratta – come noto – di uno strumento contrattuale, nel senso che la società è promossa dall’ente pubblico, ma deve avere un azionariato anche privato, da scegliersi con gara ad evidenza pubblica. La sua funzione è quella di progettare e realizzare interventi di trasformazione urbana in attuazione degli strumenti urbanistici vigenti. Essa, pertanto, costituisce, un mezzo per rendere effettiva la pianificazione urbanistica generale, ma non si caratterizza per la possibilità di concorrere alla definizione dell’assetto 20 l’importanza che la programmazione negoziata ha avuto nell’evoluzione della disciplina pianificatoria determinata da alcune Regioni. Queste ultime (per prima, la Toscana), pur in assenza della legge quadro statale, hanno modificato, in particolare, la strumentazione generale di livello comunale, “dividendo” il P.R.G. in “piano strutturale” (altrimenti definito “piano delle regole”) e in “piano operativo”. In base a questo modello, il cui principale teorico è stato Paolo Stella Richter45, il piano strutturale ha la funzione di fissare le regole e il secondo quella di creare le condizioni per la loro attuazione. Ed è indubbio che il piano operativo sta rappresentando il luogo di realizzazione di una sempre più accentuata sinergia tra pubblico e privato. Il che, per rimanere nell’ambito della riflessione strettamente giuridica, ha determinato non poche perplessità46 in linea con il monito, manifestato già dal 1992 dalla Corte Costituzionale47, in ordine all’esigenza di evitare ogni tipo di incontrollata “deregulation” urbanistica, cioè di una flessibilità non funzionale all’efficienza di un sistema intelligente di regole e alla sua effettività, ma costituente la “chiave” per destrutturare la pianificazione urbanistica. urbanistico. In ogni caso, non può dimenticarsi che il soggetto che si relaziona con la P.A. è la società, peraltro di natura pubblica, e non i privati soci della medesima, cosicchè non sembra che la previsione della S.T.U. abbia un rilevante significato ai fini presenti. 45 Tra gli altri, vedasi lo scritto: “Riforma urbanistica: da dove cominciare” in Riv. Giur. Urb. 1996, 442 ss.. 46 P. Urbani, “Territorio e poteri emergenti”, Torino 2007, 112 ss.. 47 Corte Cost. 19 ottobre 1992 n. 393 cit.. Sul tema, vedasi anche A. Chierichetti, “Moduli consensuali nella concertazione urbanistica”, in Riv. Giur. Ed. 2002, 281 ss.. 21 Dall’analisi ora conclusa emerge, certamente, un crescente favore per le convenzioni urbanistiche48, ovverossia per accordi – in specie – tra P.A. e Privati per disciplinare i rapporti relativi all’attuazione degli strumenti urbanistici esecutivi49. Soprattutto fino alla metà degli anni novanta del secolo scorso, si tratta di convenzioni, tutte riconducibili sostanzialmente al modello della convenzione di lottizzazione (art. 28 L.U. s.m.i.), che, però, non si caratterizzano per la definizione consensuale di contenuti pianificatori, almeno “generali”. Il contenuto essenziale è, di norma, delineato dalla legge e concerne profili, come dire, operativi: dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione, alla cessione delle aree di urbanizzazione, alle garanzie patrimoniali (fideiussioni o quali altre) a tutela degli impegni assunti dal privato e, talvolta, alle tipologie costruttive e ai relativi materiali. L’ambito, anche se si è visto che taluno riconosce una funzione maggiore50, di questi strumenti convenzionali non attiene, neanche parzialmente (né indirettamente), ai profili tipici della pianificazione urbanistica generale. Di conseguenza, il fatto che sia ormai pacifica la loro riconducibilità alla fattispecie dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., non attribuisce alcun rilievo a queste fattispecie come 48 Su questa figura complessa, nella prospettiva dell’adempimento degli obblighi dalle stesse nascenti, vedasi M. Sollini, “Spunti di riflessione in punto all’adempimento di obblighi nascenti da convenzioni urbanistiche” in Riv. Giur. Ed. 2007, 2, 753-768. 49 Un altro fattore di “contrattualizzazione” in materia urbanistica è rappresentato dalla perequazione e dalla compensazione: al riguardo, non può che rinviarsi ai numerosi contributi di E. Boscolo, a partire da “Dalla zonizzazione alla perequazione urbanistica”, in Riv. Giur. Urb. 2000, 21 ss.. 50 P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico cit.”, 199. 22 espressioni di un principio generale di ammissibilità di accordi tra P.A. e Privati in ordine alla determinazione consensuale di disposizioni di strumenti urbanistici generali51. Il che non è in contrasto, ma in linea, con l’atipicità o generalità della fattispecie degli accordi dell’art. 1152, strumento utilizzabile per esercitare, con modalità alternativa rispetto a quella tradizionale, le competenze di amministrazione attiva53. La legislazione (o la normativa) successiva (in specie, quella sulla programmazione negoziata), quella che può essere definita dei “procedimenti complessi”54, contiene certamente indicazioni più significative nel senso dell’orientamento ad ammettere la definizione consensuale dell’assetto del territorio, con una contrattazione convenzionamento che attuativo non delle si riferisce scelte al solo esclusivamente pubbliche, ma si espande fino all’elaborazione delle scelte urbanistiche medesime. Il contesto tipico, peraltro, rimane quello degli strumenti urbanistici di attuazione, cosicchè l’eventuale modificazione degli strumenti urbanistici generali, 51 B. Cavallo, “Sussidiarietà orizzontale cit.”, 401 ss.. F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 414. 53 F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 419) scrive: “Il vincolo per l’amministrazione del perseguimento dell’interesse pubblico, espressamente richiamato … dimostra come la scelta dello strumento consensuale corrisponda all’esercizio di un potere discrezionale, e più precisamente dello stesso potere che avrebbe permesso la definizione unilaterale del procedimento”. Vedasi anche F. Cangelli, “Potere discrezionale e fattispecie consensuali”, Milano 2004, 183. 54 Sul tema, il contributo più noto rimane quello di P. Urbani, “Urbanistica consensuale”, Torino 2000. A. Fiale (“Diritto urbanistico” cit., 374) sostiene che la complessità è data, da un lato, “dal possibile coinvolgimento di una pluralità di soggetti pubblici e privati e di un’ampia gamma di risorse finanziarie su interventi che presentano una pluralità di destinazioni d’uso” e, dall’altro, “nel perseguimento sostanziale ed operativo di politiche urbane di riqualificazione non più attraverso interventi singoli o disarticolati tra loro, bensì nel contesto di un sistema complessivo di azioni, accostamento orientato, che consente pure più agevoli variazioni della pianificazione comunale generale vigente”. 52 23 necessaria per la realizzazione degli accordi “de quibus”, è formalmente rimessa ad accordi di programma. Con questo, non può negarsi l’importanza dei “programmi complessi” per l’evoluzione dei modelli pianificatori: in particolare, per l’introduzione – già prima ricordata – della fattispecie del piano strutturale e del piano operativo a livello comunale55: “l’erompere della pianificazione urbanistica dei “programmi complessi”, in definitiva, ha disvelato una decisa propensione degli attori della pianificazione (soprattutto degli operatori economici, ma anche delle amministrazioni) a spostare l’asse delle politiche urbanistiche verso questo tipo di strumenti, più consoni a coniugare una serie di esigenze … Il che rende inevitabile una sorta di “self restraint” del piano generale, che per non subire la sorte di essere contraddetto dalla pianificazione integrata e operativa, deve assumere una veste più leggera, di indicazione di strategie e non di regole di conformazione e comunque una maggiore flessibilità”56. Da ciò appare, però, eccessivo giungere a sostenere che, grazie agli istituti considerati, emerge dalla legislazione statale vigente un principio generale di ammissibilità degli accordi tra P.A. e Privati relativamente al contenuto discrezionale degli strumenti urbanistici generali. 55 P. Urbani-S. Civitarese Matteucci, “Diritto urbanistico cit.”, 190-191. P. Stella Richter, “I principi del diritto urbanistico”, II ed., Milano 2006, 69 ss.; P. Urbani, “La riforma regionale del P.R.G.: un primo bilancio. Efficacia, contenuto ed effetti del piano strutturale. Il piano operativo tra discrezionalità nel provvedere e garanzia del contenuto minimo della proprietà”, in Riv. Giur. Urb. 2007, 262 ss.. 56 24 I “minimi comun denominatori” di tutte queste fattispecie restano, comunque, la pendenza di un procedimento pianificatorio, al quale il Privato o interviene o viene invitato a partecipare, e la rispondenza a finalità puramente attuative di strumenti urbanistici generali. Questo non esclude – come è stato ricordato – la possibilità di dover variare gli strumenti urbanistici generali, ma l’oggetto dell’intesa non è il contenuto delle variazioni, bensì la caratterizzazione dell’intervento, cosicchè l’eventuale intesa per la modificazione del piano urbanistico generale è un effetto, una “clausola accessoria”, non l’elemento qualificante dell’accordo. La prospettiva, da cui muove (invece) la presente riflessione, è l’intesa sul contenuto discrezionale degli strumenti urbanistici generali come contenuto qualificante ed essenziale dell’accordo e non in funzione di attuare, al meglio, le scelte urbanistiche già compiute. In ogni caso, tutte le fattispecie convenzionali considerate sono ricondotte al legislativamente rispetto del definito e procedimento assumono, pianificatorio quindi, una caratterizzazione procedimentale. Il che significa che la partecipazione del privato al procedimento è il presupposto di legge della stipulabilità dell’accordo57. 3. La partecipazione dei Privati nei procedimenti pianificatori territoriali o di coordinamento. 57 L’esigenza del contesto procedimentale, peraltro, è riconosciuta unanimemente dalla dottrina. 25 L’analisi della legislazione statale evidenzia, in primo luogo, che nulla è mutato, nel quadro dell’ordinamento settoriale dell’urbanistica, per quanto concerne la partecipazione dei privati in ordine alla pianificazione territoriale e, comunque, al piano regionale, ovvero al piano territoriale di coordinamento provinciale58, cioè a quella che viene definita anche “pianificazione di area vasta”59. Il privato, infatti, può partecipare esclusivamente tramite il tradizionale strumento delle osservazioni60. Queste ultime – come notorio – sono considerate (pressoché unanimemente da dottrina e giurisprudenza) come forme di collaborazione del privato all’attività pianificatoria61, espressione ed attuazione del principio del giusto procedimento62; forme di mera collaborazione, in quanto non generano nel Comune l’obbligo di controdedurre63. 58 G. Morbidelli, “Piano territoriale di coordinamento” in EdD, vol. XXXIII, Milano 1983, 705 ss.; L. Mazzarolli, “Urbanistica e piani provinciali” in G. Caia (a cura di) “Il piano territoriale di coordinamento e la pianificazione di settore”, Rimini 2001; P. Urbani, “Governi metropolitani e interessi nazionali”, Padova 1988; G. Sciullo, “La provincia e la pianificazione territoriale”, in M. Barone-V. Ottaviano (a cura di), “L’avvio della nuova provincia regionale in Sicilia”, Milano 1989; M. Breganze, “Piano territoriale di coordinamento” in Nov. Dig. Disc. Pubbl., Torino 1996, 242 ss.. 59 Assai interessante è la sintesi della problematica presente in A. Crosetti-A. Police-M.R. Spasiano, “Diritto urbanistico e lavori pubblici”, Torino 2007, 67. 60 R. Leonardi, “Le osservazioni del privato nell’attività di pianificazione del territorio: quando la trasparenza dell’azione amministrativa si “opacizza”” in Riv. Giur. Ed. 2002, 6, 1277. 61 G. Pagliari, “Corso cit.”, 110 ss.; A. Fiale, “Diritto urbanistico” cit., 299; N. Assini-P.L. Mantini, “Manuale cit.”, 457 ss.. 62 M. Bellavista, “I procedimenti” in L.R. Perfetti (a cura di), “Manuale di diritto amministrativo”, Padova 2007, 390, ricorda che “In sintesi il principio del giusto procedimento è il garante del contraddittorio procedimentale; per questo lo stesso è pervasivo di tutti gli strumenti partecipativi previsti dalla legge sul procedimento. Tale principio, come si è detto, è funzionalizzato al contraddittorio, sicchè trova applicazione affievolita in tutti quei procedimenti ove alla previsione della partecipazione non corrisponde un vero e proprio contraddittorio, come nel caso di quelli di pianificazione”. 63 La valenza giuridica delle osservazioni ha spinto la Corte Costituzionale ad affermare che il principio del giusto procedimento, nel procedimento di formazione del p.r.g., non è stato 26 A questo proposito, si potrebbe “liquidare” la circostanza, sottolineando che la pianificazione territoriale e/o quella sovracomunale di indirizzo e di coordinamento, per la loro valenza e per la loro funzione, non lasciano intravvedere spazi per possibili accordi pubblico-privati. Si tratta, infatti, come noto, almeno in linea tendenziale64, di una pianificazione di indirizzo e di coordinamento, avente come destinatarie le istituzioni competenti in materia urbanistica chiamate ad elaborare i piani c.d. conformativi o precettivi. Conseguentemente, le prescrizioni immediatamente vincolanti dei piani d’area vasta sono rare e non sono destinate a condizionare, in modo rigido, la pianificazione comunale. L’efficacia di indirizzo o di direttiva, propria delle disposizioni dei piani di area vasta, infatti, non obbliga (quasi) mai ad un recepimento vincolato negli strumenti urbanistici comunali, con la conseguenza che lo spazio concreto di tutelare l’interesse pubblico con un accordo tra P.A. e Privati sul contenuto discrezionale di un piano di area appare di difficile focalizzazione. Peraltro, per le regole che riguardano i rapporti tra i piani territoriali e di coordinamento ed i piani comunali, un eventuale accordo, quand’anche recepito, appare difficilmente compiutamente attuato. E ciò in base alla considerazione che le risultanze della prassi e della giurisprudenza amministrativa evidenziano che i soggetti privati “… non partecipano al procedimento formativo dei piani regolatori nella veste di vere e proprie parti …, ma svolgono attività puramente collaborative in veste di una più compiuta valutazione degli interessi pubblici in gioco”. 64 S. Amorosino (“Il governo cit.”, 34 ss.) analizza la realtà del diritto positivo, sottolineando che “… la “determinante d’apice” è la scelta tra un piano regionale leggero (Provincia di Bolzano) – d’inquadramento territoriale – o “pesante” (Veneto), nel quale per disposto legislativo tutti gli elementi del territorio, paesaggio, ambiente, debbono essere considerati e disciplinati”. 27 in grado di avere effetti adeguati ai fini di una certa configurazione dello strumento urbanistico generale comunale, tenuto conto che indirizzi e direttive non sono destinati a generare un dovere di mero recepimento, cosicchè, per certo verso, non può negarsi che l’efficacia del “vincolo negoziale” non possa che essere decisamente affievolita65. In altri termini, l’accordo sul contenuto discrezionale, di cui parla l’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., risulta, sul piano logicogiuridico, più ammissibile, quando si tratti di concordare la disciplina direttamente incidente sul diritto di proprietà e sulla facoltà di edificare, che non quando si fissano i principi, dei quali dovrà tenersi conto (epperò non in termini di acritico recepimento) in sede di formazione degli strumenti urbanistici generali. Il divieto dell’art. 13 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. appare, in questo ambito, più che giustificato (e insuperabile sul piano sistematico e di principio, prima che su quello del diritto positivo) perché l’indisponibilità (“rectius”: la non negoziabilità) dell’interesse pubblico di questo livello di pianificazione appare un dato, per così dire, strutturale ed essenziale. 65 S. Amorosino (“Il governo cit.”, 36) sviluppa una riflessione, che non solo appare condivisibile, ma anche utile a chiarire le considerazioni sviluppate nel testo: “… la “civiltà della conversazione … tra gli enti compartecipi della potestà di disciplina del territorio è tanto più agevolata, quanto più – nel modello normativo – le prescrizioni immediatamente vincolanti dei piani di area vasta: I) sono, in linea di principio, limitate ad oggetti specifici e sono poste in funzione di tutela anticipata (ad esempio: delle zone umide); II) formano oggetto obbligato di specifica discussione preventiva nelle conferenze di pianificazione (in modo che i comuni sappiano in anticipo “cosa aspettarsi” e possano negoziarne l’impatto); III) hanno – “ex lege” – un’efficacia temporalmente limitata e sono, quindi, munite di una sorta di “clausola di dissolvenza” (dopo che la regione avrà accertato l’integrale recepimento di esse nelle discipline urbanistiche locali)”. 28 Le regole del governo “complessivo (= di insieme)” del territorio, infatti, non possono non essere ritenute come nettamente caratterizzate da un forte grado di oggettivazione, che rende l’interesse pubblico primario, se non l’unico interesse in campo (chè l’art. 97 Cost. non consente ciò), certamente l’interesse di gran lunga (per così dire) dominante (e non meramente prevalente). E questo anche in considerazione del fatto che la pianificazione di area vasta è l’unica, in cui tale interesse riceve reale considerazione. Non può, infine, non evidenziarsi che, quando sia stato adottato il “modello binario della pianificazione comunale” (e cioè lo sdoppiamento del P.R.G. in piano strutturale o come altrimenti definito e piano operativo o come diversamente rubricato), la pianificazione di area vasta è destinata ad incidere più sul piano strutturale66. Per la verità, in un quadro di interrelazione giuridicamente rilevante (pur se, forse, non secondo logiche tipicamente gerarchiche) tra i diversi livelli di pianificazione, non si può escludere - a priori e sul piano teorico - che possano esservi utili spazi di intesa pubblico-privato anche relativamente ai citati livelli di pianificazione. Ciò che, piuttosto, sembra emergere, è l’indirizzo legislativo statale favorevole a mantenere, per questa funzione pianificatoria, la caratterizzazione tradizionale. Questa, peraltro, è certamente più congeniale ad una funzione 66 S. Amorosino, “Il governo cit.”, 36. 29 pianificatoria relativa agli indirizzi e alle direttive, ai principi e ai criteri di elaborazione di altri strumenti pianificatori. Per definizione, un simile livello pianificatorio, infatti, ha per oggetto la tutela dell’interesse pubblico nella sua dimensione più oggettiva e, per di più, non ha diretta incidenza sulle situazioni giuridiche soggettive, cosicchè riesce più difficile individuare l’interesse del Privato per un accordo sui contenuti pianificatori. 4. La partecipazione dei Privati nei procedimenti pianificatori comunali. La stessa analisi porta – con specifico riferimento alla pianificazione urbanistica di livello comunale – a constatare che risulta confermata l’impostazione della competenza pianificatoria nei termini (per così dire) tipici e classici della funzione amministrativa. Da un lato, infatti, anche in questo ambito lo strumento principale di “dialogo” tra Comune e privati è quello delle osservazioni, la cui disciplina giuridica tutto consente di sostenere, tranne che, tramite le stesse, i destinatari della pianificazione si accordino con l’Autorità pianificatoria. Dall’altro, le molte convenzioni previste pure dalla legislazione più recente non si allontanano – come si è visto – in modo significativo dal modello delle convenzioni di lottizzazione, la cui “ratio” e la cui funzione sono notoriamente quelle di formalizzare gli obblighi del soggetto attuatore nei confronti del Comune per 30 quanto concerne, primariamente, le opere di urbanizzazione, le relative cessioni, le tipologie costruttive e le sanzioni convenzionali. L’ambito è quello dell’attuazione della pianificazione urbanistica generale, la quale, di norma, costituisce un riferimento vincolante e non derogabile, all’interno del quale lo spazio di definizione dei profili pianificatori è limitato alla specificazione degli elementi tipologici e quali-quantitativi lasciati indeterminati dalla strumentazione pianificatoria generale. Questa ricostruzione è confermata dalla constatazione del ricorso all’accordo di programma (art. 34 T.U.EE.LL.), allorché sia necessaria una variante agli strumenti urbanistici67. In altre parole, il legislatore statale ha accentuato significativamente, negli anni, il “favor” per la collaborazione “pubblico-privato” in ordine all’esecuzione dei piani urbanistici generali, ma riserva – e, pur sempre, parzialmente – alla consensualità il (solo) livello attuativo delle scelte urbanistiche generali, relativamente alle quali non si scosta dalla concezione tradizionale e, per certo verso, dalla preservazione della medesima. La legislazione urbanistica statale, pertanto, non contiene indicazione per l’esistenza di un principio generale o fondamentale (art. 117, III comma, Cost.), dal quale si possa 67 E. Casetta, “Manuale di diritto amministrativo”, X ed., Milano 2008, 562; F. Bassi, “Lezioni di diritto amministrativo”, VIII ed., Milano 2008, 108; D. Sorace, “Diritto delle amministrazioni pubbliche. Una introduzione”, IV ed., Bologna 2007, 342 ss.; R. Damonte, “L’accordo di programma in generale e suoi effetti sui procedimenti urbanistici”, in Riv. Giur. Ed. 2002, 1, 41 ss.. 31 desumere che il contenuto degli strumenti urbanistici generali possa essere definito anche attraverso un’intesa negoziale tra P.A. e Privati riconducibile alla fattispecie contemplata dall’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.. Le peculiarità della funzione urbanistica generale comportano, per il legislatore urbanistico, che la modalità tradizionale di esercizio della funzione urbanistica generale rimanga – allo stato – l’unica. Questa impostazione, del resto, è, in qualche misura, determinata (e rafforzata) dalla c.d. legislazione settoriale in materia ambientale, paesaggistica, di salvaguardia delle acque e delle aree naturalistiche. Da un lato, infatti, le leggi settoriali accentuano la unilateralità e l’autoritatività dell’azione pubblica in ragione degli interessi protetti, indisponibili e non negoziabili; dall’altro, la sempre più forte interrelazione tra il livello di pianificazione settoriale e quello urbanistico e la previsione della “prevalenza” o della “sostituzione” automatiche dei piani settoriali a quelli urbanistici, ovvero dell’obbligo di adeguamento di questi ultimi ai primi, riduce – comunque - il margine, anche teorico, di una negoziabilità dell’azione pubblica in materia urbanistica. Il che, peraltro, non deve stupire più di tanto68. 68 S. Civitarese Matteucci (“Governo del territorio e ambiente”, in G. Rossi (a cura di), “Diritto dell’ambiente”, Torino 2008, 220) sostiene perentoriamente: “… le modifiche preordinate alla tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici rappresentano una tipologia di modifica d’ufficio particolarmente incisiva sui poteri comunali: nell’apportare queste modifiche il Ministero non incontra infatti alcun limite, potendo addirittura mutare le caratteristiche essenziali e i criteri di impostazione del 32 Del resto, se ed in quanto la distinzione tra interessi pubblici (o generali, o della collettività) ed interessi privati o particolari non è caduta “in desuetudine”; se ed in quanto resiste la visione della funzione amministrativa come deputata al perseguimento – imparziale (art. 97 Cost.) – dell’interesse pubblico, infatti, non può non considerarsi logica e conseguente la “preoccupazione” di ribadire la concezione “autoritaria” della funzione urbanistica, in particolare di quella riguardante le decisioni di principio o di livello primario e normativo generale. A questo punto, è opportuno precisare che, su un piano più generale, si condivide la tesi secondo la quale gli accordi dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. rappresentano una modalità alternativa di esercizio delle competenze amministrative, con la conseguenza che “il perseguimento dell’interesse pubblico, dunque, non solo caratterizza la disciplina, ma costituisce la causa stessa dell’accordo”69. Questa concezione non comporta, però, che la “via dell’accordo” possa essere, per definizione, sempre fungibile rispetto alla “via tradizionale”. A ciò può ostare la natura dell’interesse pubblico da perseguire o il livello di tutela dell’interesse pubblico. Un esempio può aiutare a rendere il concetto espresso. piano adottato dal Consiglio Comunale. In altri termini, la rilevanza dell’interesse ambientale fa sì che l’Ente approvante sia legittimato pure a stravolgere il piano licenziato dagli uffici comunali”. In giurisprudenza, vedasi, tra le altre, Cons. St. – sez. IV – 30 settembre 2002 n. 4984 in Foro Amm. CDS 2002, 2026. 69 F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 412. 33 Notoriamente, la L. 6 dicembre 1991 n. 394 (“Legge quadro sulle aree protette”) è preordinata alla conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale70. Or bene, lo strumento programmatorio è costituito dal piano del parco, che deve contenere quattro zone: la zona di riserva integrale, quella di riserva generale orientata, l’area di protezione e l’area di promozione economico-sociale. È evidente, al di là di altre considerazioni, che un accordo del tipo qui ipotizzato può essere ammesso per l’“area di promozione economico-sociale”, la cui funzione è quella di integrare la tutela del patrimonio culturale con gli interessi residenziali e produttivi dell’uomo, ma non per la “zona di riserva integrale”, la cui funzione è la tutela del patrimonio naturale in termini di conservazione del medesimo e del suo “habitat”. Ma vi è di più! La tutela ed il perseguimento di un interesse pubblico possono essere perseguiti attraverso progressive forme legate a competenze di diversa natura e a differenti livelli di tutela. Così è certamente nell’ordinamento urbanistico italiano, essendo sufficiente, a tal fine, richiamare, da un lato, il piano territoriale di coordinamento provinciale e, dall’altro, il piano regolatore generale. È evidente, infatti, che, sul piano logicogiuridico e su quello sistematico (non sempre attentamente 70 Ai fini presenti, è sufficiente il rinvio a G. Pagliari, “Corso cit.”, 376. 34 considerato dal legislatore), lo spazio per la praticabilità della “via dell’accordo” è, in linea di principio, ipotizzabile per il secondo strumento urbanistico, sia per la sua valenza ed efficacia, sia per l’individuabilità (teorica e, comunque, non sempre sicura) di un Privato interessato nell’accezione dell’art. 7 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.; condizione, quest’ultima, essenziale per la configurabilità di uno spazio per l’esercizio della potestà amministrativa, anche mediante accordi, almeno fino a quando si riflette nell’attuale quadro di diritto positivo: “La contraddizione insita nella fusione tra potere amministrativo e autonomia privata è apparente, laddove essa si inserisca nell’ambito della partecipazione al procedimento. Quella degli accordi, infatti, non è solo un istituto del procedimento amministrativo, ma è un istituto di partecipazione al procedimento”71. Su queste premesse, il risultato dell’analisi condotta assume una sua chiara plausibilità, evidenziando un problema – in termini sia “de iure condito”, che “de iure condendo” – di valutazione sistematica della introduzione eventuale degli accordi tra P.A. e Privati nel diritto urbanistico, che trova un segno di consapevolezza da parte del legislatore, come si vedrà, nell’art. 13 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.. 71 F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 418), che aggiunge: “E’ ormai noto, infatti, che il potere si esercita attraverso una sorta di confronto e cooperazione dinamici con gli interessi privati e ciò rappresenta la “ratio” della partecipazione al procedimento amministrativo. Gli accordi, quale massima espressione partecipativa del privato al procedimento, consentono all’interesse privato di svolgere un ruolo ancor più incisivo nella realizzazione di tale confronto, definendo un assetto di interessi – compatibili con il perseguimento dell’interesse pubblico – condiviso e vincolante per le parti”. 35 5. Considerazioni di sintesi sull’analisi della legislazione statale urbanistica in materia di convenzioni e di partecipazione del Privato ai relativi procedimenti pianificatori. In conclusione, non pare che la legislazione urbanistica abbia introdotto, nella sua evoluzione, un principio generale per il quale sia ammissibile una pianificazione consensuale riguardante gli strumenti urbanistici generali e derivante dalla contrattazione tra P.A. e privati. Certamente, ma è profilo del tutto differente, il legislatore statale ha ampliato l’ambito applicativo e la portata decisionale degli strumenti convenzionali per quanto concerne la fase attuativa della pianificazione. Questa circostanza non è, di per sé, sufficiente a trarre, sul piano del diritto positivo, conclusioni diverse, anche se non si può non constatare che, nella prassi, il condizionamento delle pressioni di privati in materia urbanistica è evidente e preoccupante, nel momento stesso in cui emerge la scarsa tenuta (se non la debolezza) delle istituzioni territoriali e la costante regressione del principio di legalità (anche nella prospettiva dell’amministrazione per risultati). Fin ultroneo appare aggiungere che la conclusione ora esposta non dimentica il ruolo assunto dagli accordi di programma anche nel campo urbanistico, ma nega la possibilità che dalla legislazione relativa si possa trarre qualche elemento utile a sostenere l’emergere di un principio generale favorevole alla 36 consensualità “pubblico-privata” (nella prospettiva consacrata dall’art. 11 L. sul procedimento) in materia di pianificazione urbanistica generale. Basta, a questo proposito, considerare la natura e la funzione dell’accordo di programma medesimo (art. 34 T.U.EE.LL.): “… mero strumento di coordinamento delle attività di più enti pubblici interessati al raggiungimento di un obiettivo comune”72. 6. Considerazioni sulla disciplina degli accordi tra P.A. e Privati nella L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.. Su queste premesse, rimane da verificare se, sul piano della legislazione statale generale (cioè non settoriale), si possano rinvenire principi generali richiamabili anche ai fini dell’esercizio della competenza concorrente in materia di governo del territorio ai sensi dell’art. 117, III comma, Cost.. Il rinvio “ipso facto” è all’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.; rinvio che, “ope legis”, sembrerebbe, però, improponibile, in virtù della precisa e chiara previsione del successivo art. 13, I comma, della stessa legge: “Le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti dell’attività della pubblica normativi, amministrazione amministrativi diretta generali, all’emanazione di pianificazione di atti e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne riguardano la formazione”. 72 Così F. Bassi, “Lezioni cit.”, 169. Vedansi: E. Sticchi Damiani, “Attività amministrativa consensuale e accordi di programma”, Milano 1992; G. Mengoli, “Manuale cit.”, 385; G. Cugurra, “Accordi e pianificazione territoriale e ambientale”, in Riv. Giur. Urb. 2000, 143 ss.. 37 L’esclusione legislativa appare, sul piano letterale, chiara ed inequivoca73. Senonchè l’art. 29 della stessa legge, al II comma, sancisce che “Le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’attività amministrativa, così come definita dai principi fissati dalla presente legge”. Questa disposizione, letta alla luce del I comma dell’art. 117 Cost., ha indotto una parte della dottrina a sostenere che l’art. 13 non è norma di principio vincolante la potestà legislativa concorrente delle Regioni e che, di conseguenza, è lecito “attendere ed auspicare limitazioni a tale deroga generale da parte del legislatore regionale”74. Né può dimenticarsi l’autorevole opinione75, secondo la quale: “… anche ammesso che l’art. 13 l. n. 241 del 1990 incida sull’ambito di applicazione della disciplina degli accordi pubblici, 73 Sul punto, in giurisprudenza, Cass. – Sez. Un. – 11 agosto 1997 n. 7452, in Riv. Giur. Ed. 1998, I, 54; Cass. – Sez. Un. – 25 novembre 1998 n. 11934, in Foro It. Rep. 1998, voce Edil. Ed. Urb. n. 297. In dottrina, F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 416-417), che fa salve le discipline di settore, portando l’esempio delle convenzioni di lottizzazione; F. Satta-F. Cardarelli, “Il contratto amministrativo”, in Dir. Amm. 2007, 221. 74 N. Assini-P. Mantini (“Manuale cit.”, 177): “Gli enti locali possono concludere accordi con i soggetti privati, nel rispetto del principio di pari opportunità e di partecipazione al procedimento per le intese preliminari o preparatorie dell’atto amministrativo e attraverso procedure di confronto concorrenziale per gli accordi sostitutivi degli atti amministrativi, al fine di recepire negli atti di pianificazione proposte di interventi, in attuazione coerente degli obiettivi strategici contenuti negli atti di pianificazione e delle dotazioni minime previste dalla legge, la cui localizzazione è di competenza pubblica. L’accordo è soggetto alle medesime forme di pubblicità e di partecipazione dell’atto di pianificazione che lo recepisce. I procedimenti di negoziazione urbanistica sono retti dai principi di trasparenza e di pari opportunità concorsuale. Nei piani strutturali sono indicati i criteri e i metodi per l’individuazione dei corrispettivi richiesti nella negoziazione urbanistica. Per quanto non disciplinato dal disegno di legge trovano applicazione le disposizioni in materia di partecipazione al procedimento amministrativo, di accordi con i privati e di tutela giurisdizionale, di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni”. 75 A. Travi, “Accordi tra proprietari e comune per modifiche al piano regolatore ed oneri esorbitanti”, in Foro It. 2002, V, 277-278. 38 tale disposizione non vieta per nulla all’amministrazione di procedere ad accordi pubblici rispetto ad atti di pianificazione, come i piani regolatori generali. La norma, tutt’al più, esclude l’obbligo per l’amministrazione di prendere in considerazione la proposta di accordo di un privato, ma non la facoltà per l’amministrazione, che lo ritenga opportuno, di procedere a un accordo. Alla luce dell’art. 13 l’accordo “preparatorio” rispetto ai contenuti di un piano regolatore (o di una sua variante) non può ritenersi né vietato, né illegittimo: infatti l’art. 13 non pone alcun divieto”. Al riguardo, sembra necessario svolgere alcune considerazioni, le quali devono essere precedute da una “questione pregiudiziale”. Qualunque sia la tesi in ordine al portato del citato art. 13, infatti, resta indispensabile che la materia degli accordi tra P.A. e Privati sia disciplinata dalle leggi regionali. Da un lato, infatti, non può che essere prevalente la riserva di competenza legislativa regionale (per quanto nell’ambito “concorrente”) nella materia del governo del territorio; dall’altro, in difetto di una legge regionale, non può certamente eludersi il divieto dell’art. 13 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.. Ciò premesso, la prima osservazione concerne il delicatissimo tema del rapporto tra le leggi generali e le leggi di settore 39 rispetto alla legislazione regionale concorrente, soprattutto in mancanza della legge-cornice76. Or bene, da un lato appare indubbio che la legislazione di settore non lasci spazio per individuare principi fondamentali in tema di ammissibilità di accordi tra P.A. e privati (nell’accezione prima definita) in ordine agli strumenti di pianificazione generale e, dall’altro, è evidente che non è necessario invocare l’art. 11 L. sul procedimento per ammettere atti consensuali relativamente alla pianificazione urbanistica attuativa; e ciò, anche con (positivo) riferimento alla definizione contrattata – pur se nel rispetto delle prescrizioni del piano regolatore generale – degli indici urbanistico-edilizi concretamente applicati e delle caratteristiche costruttive, ovverossia con attenzione a contenuti, tendenzialmente minori e di dettaglio, riguardanti la pianificazione urbanistico-edilizia. In questo quadro, può l’art. 11 citato essere idoneo a ritenere sancito un principio fondamentale tale da consentire la codificazione, nelle leggi urbanistiche delle Regioni a statuto ordinario, degli accordi in materia urbanistica tra privati e pubblica amministrazione, con particolare riferimento alla pianificazione urbanistica generale? La risposta pare dover essere negativa per l’assorbente rilievo che il principio, in materia di accordi tra privati e P.A. nel campo 76 In questo senso, si esprimono anche N. Assini-P. Mantini (“Manuale cit.”, 130), i quali sottolineano l’esigenza che gli accordi siano conclusi “nel rispetto del principio di pari opportunità e di partecipazione al procedimento per le intese preliminari o preparatorie dell’atto amministrativo e attraverso procedure di confronto concorrenziale per gli accordi sostitutivi degli atti amministrativi”. 40 dell’urbanistica, si evince dalla lettura combinata dei menzionati art. 11 e 13 L. cit. ed è un principio di esclusione, di non ammissibilità77. E, se a questa contestazione non si accedesse, non si supererebbe comunque il rilievo che l’accordo presuppone l’intervento nel procedimento, così come statuisce chiaramente il precitato art. 1178. Il che comporterebbe che gli accordi non potrebbero determinare l’avvio del procedimento pianificatorio, ma dovrebbero presupporre che quest’ultimo sia iniziato e che il privato intervenga nel procedimento stesso o mediante l’esercizio del diritto di accesso, o tramite la presentazione di osservazioni. L’osservazione sembra tutto tranne che formalistica. Il legislatore statale, infatti, ha introdotto il modulo consensuale, come “via alternativa” rispetto all’azione unilaterale della P.A., su un presupposto chiaro (e, peraltro, indefettibile): l’esistenza di un rapporto tra P.A. e Privato speciale e specifico, determinato dalla potenziale incidenza dell’emanando provvedimento sulla sfera giuridica soggettiva di quest’ultimo. Ed è solo questa circostanza che determina la legittimazione ad intervenire nel procedimento amministrativo, così come è esclusivamente questa circostanza che rende legittima 77 B. Cavallo (“Sussidiarietà orizzontale e l. n. 241/1990 nel governo del territorio” in Riv. Giur. Urb. 2006, 399-400), nel ritenere insuperabile il dato normativo (“In claris non fit interpretatio”), sottolinea: “Sono evidenti le ragioni che portano ad escludere la partecipazione pattizia a questi procedimenti e provvedimenti amministrativi, dal momento che l’accordo endoprocedimentale identicamente a quello sostitutivo, presuppone un rapporto bilaterale preciso tra soggetti non rinvenibile nell’atto amministrativo generale, che s’indirizza ad una pluralità non definibile di destinatari”. 78 F. Cangelli (“Potere discrezionale cit.”, 345) sottolinea testualmente: “L’ipotesi di una fattispecie generale per l’attività amministrativa consensuale va, dunque, costruita in termini procedimentali”. 41 l’instaurazione di un confronto con il singolo. Epperò è ancor più chiaro che l’attività consensuale è ammessa solo per la miglior soddisfazione dell’interesse pubblico, la cui cura la P.A. ha già promosso – sua sponte – con l’avvio del procedimento amministrativo. Se così non fosse, se l’accordo determinasse l’avvio del procedimento non saremmo di fronte ad un accordo sul contenuto del provvedimento, ma sul provvedimento, cioè sulla sua emanazione, con contrasto evidente con gli artt. 3 e 97 Cost.: “L’accordo si colloca esclusivamente in seno all’esercizio di un’attività che l’amministrazione svolge in veste di autorità e che, salvo appunto una definizione consensuale, ha quale esito l’emanazione di un provvedimento, ovvero la produzione unilaterale di effetti giuridici nella sfera altrui a prescindere dal consenso del destinatario degli effetti medesimi”79. Peraltro, è proprio il contesto procedimentale, con la sua valenza giuridica e con le coessenziali garanzie costituzionali e non, a rendere plausibile non il mero confronto, ma il confronto negoziale tra P.A. e Privati, nel rispetto dei principi costituzionali (“in primis”, art. 97 Cost.) e non, che reggono l’azione dei pubblici poteri amministrativi80. La tesi dell’accordo “preparatorio”, infine, non sfugge al problema di inquadramento della figura ipotizzata. 79 80 F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 413. Cons. St. – sez. VI – 15 maggio 2002 n. 2636 in Cons. St. 2002, I, 1411. 42 Se non è un accordo procedimentale per il divieto dell’art. 13, può essere una mera richiesta del privato che il Comune può ritenere, unilateralmente, di assumere, senza, però, poter autolimitare, obbligandosi preventivamente a recepirlo nell’emanando provvedimento pianificatorio81. Pertanto, anche accedendo alla tesi non condivisa, risulta di poter constatare che i principi evincibili dalla legislazione nazionale di settore e generale (gli artt. 11 e 13 citati) richiedono: a) la pendenza di un procedimento pianificatorio82; b) le condizioni giuridiche di partecipazione di chiunque sia interessato (artt. 7 e 9 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.) nel singolo (e concreto) procedimento pianificatorio83; c) l’esercizio del diritto di intervento (art. 10 L. cit.) come “condicio iuris” dell’accordo (art. 11, I comma, L. cit.)84. La recente introduzione del comma 4 bis dell’art. 11 L. citata sottolinea ancora di più l’essenzialità che, per il legislatore statale, hanno il contesto procedimentale e la qualità di 81 A. Travi, “Accordi tra proprietari cit.”, 277. F. Bassi, “Lezioni cit.”, 170; F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 412) afferma con nettezza: “Per quanto riguarda i profili funzionali, un dato sembra pacifico. Gli accordi costituiscono una modalità di esercizio del potere amministrativo. Essi sono disciplinati dalla legge sul procedimento e possono essere conclusi, per espressa previsione normativa, esclusivamente nell’ambito di un procedimento amministrativo avviato, ovvero nell’ambito del concreto esercizio del potere autoritativo dell’amministrazione … Da ciò deriva che senza un procedimento ed un presupposto potere autoritativo attribuito dall’ordinamento all’amministrazione non può esservi alcun accordo ex art. 11. La tipicità degli accordi è, quindi, legata alla tipicità del potere di provvedere”. 83 F. Satta-F. Cardarelli, “Il contratto amministrativo” cit., 219-220. 84 F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 418) sottolinea testualmente: “Quello degli accordi, infatti, non è solo un istituto del procedimento amministrativo, ma è un istituto di partecipazione al procedimento”. 82 43 interveniente della parte privata per la legittimità degli accordi. Al riguardo, basta considerare che l’approvazione dell’art. 4 bis non ha la valenza di recepimento del contenuto dell’accordo nell’emanando provvedimento, ma ha la funzione e l’efficacia giuridica di un’autorizzazione alla stipulazione, cioè di un vero controllo preventivo85. La decisione del recepimento o meno sarà successiva, ma – per rispetto del principio di imparzialità e di buona amministrazione (art. 97 Cost.), nonché di quello di trasparenza – la legge impone che l’accordo sia (per così dire) acquisito ufficialmente agli atti per chiarire la responsabilità della P.A., per tutelare la controparte e per consentire ai controinteressati di interloquire già nel contesto procedimentale86. Del resto, se la via dell’accordo è un’alternativa all’esercizio nelle forme tradizionali della competenza amministrativa, non può che essere sottoposta alle stesse regole “in quanto compatibili”, fermo restando che, di fronte alle garanzie costituzionalmente imposte o comunque dalla Carta costituzionale discendenti, la compatibilità dovrà essere 85 F. Bassi, “Lezioni cit.”, 28. D. Sorace (“Diritto delle amministrazioni pubbliche cit.”, 335) osserva sul punto: “Con l’atto in questione (la “determinazione”) si intende realizzare la “evidenza pubblica”, rendendolo (n.d.r.: l’accordo) conoscibile e valutabile da chiunque, circostanza questa che, ponendosi come applicazione del principio di trasparenza, rende più improbabile che, attraverso contrattazioni ed accordi, una amministrazione si sottragga più facilmente all’obbligo del rispetto di quei principi”. 86 44 assicurata con l’adeguamento della disciplina degli accordi ai principi pubblicistici e non a quelli privatistici. Su queste premesse, non può non condividersi la tesi, secondo la quale “la significativa rilevanza giuridica che ha, dunque, l’ambientazione degli accordi nel procedimento sembra giustificare la deduzione che una loro conclusione al di fuori del procedimento potrebbe avere conseguenze sulla validità dell’accordo e quindi sulla legittimità del provvedimento che dovesse eventualmente seguire”87; d) la restrizione delle fattispecie (eventualmente) ammissibili ai soli accordi procedimentali o integrativi, con esclusione degli accordi sostitutivi di provvedimento88. Le ragioni sono molteplici, ma una pare avere efficacia assorbente: non può ammettersi lo stravolgimento del procedimento pianificatorio attraverso l’ammissibilità di accordi sostitutivi in materia urbanistica. Peraltro, l’accordo tra P.A. e Privati in materia urbanistica non può avere, per le ragioni che saranno più avanti precisate, un contenuto tale da poter sostituire la determinazione finale dell’Amministrazione competente. Né può dimenticarsi, anche volendo superare il divieto dell’art. 13 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., che, in ogni caso, 87 D. Sorace, “Diritto delle amministrazioni pubbliche cit.”, 335. E. Casetta (“Profili della evoluzione dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione”, in Dir. Amm. 1993, 12) sottolinea che l’accordo procedimentale o integrativo di provvedimento “accede” al provvedimento finale, ma non lo sostituisce. M. Magri (“Gli accordi con i privati nella formazione dei piani urbanistici strutturali” in Riv. Giur. Urb. 2004, 555. 88 45 gli strumenti urbanistici sono atti generali e normativi, cosicchè non potrà mai prescindersi da un procedimento che garantisca la massima partecipazione, il più ampio contraddittorio e l’imparzialità, anche sotto il profilo della garanzia di concorso nella determinazione delle decisioni89. Per questo, non potrebbe ammettersi un accordo sostitutivo neanche con valenza di mera adozione dello strumento urbanistico, posto che le condizioni di partecipazione e di contraddittorio sarebbero alterate, potendo i controinteressati ed i terzi, sul piano procedimentale, esclusivamente presentare osservazioni, la cui portata non ha bisogno di essere descritta. Le considerazioni ora svolte evidenziano, altresì, la necessità che la disciplina legislativa degli accordi provveda anche a dettare le norme procedimentali. A questo proposito, è evidente che il procedimento pianificatorio urbanistico dovrà prevedere, puntualmente, tanto il momento della approvazione dell’accordo prima della stipulazione (art. 11, comma 4 bis, L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.), quanto quello della decisione sul recepimento del medesimo nell’atto pianificatorio, regolandone, per entrambi i passaggi, anche le norme sulla pubblicità, sulla trasparenza e sul diritto di contraddittorio dei terzi. 89 F. Fracchia, “L’accordo cit.”, 203 ss.. 46 Dovrà essere opportunamente indicato anche l’organo competente, pur se riesce difficile non ritenere – naturalmente ed inevitabilmente – competente l’organo, cui spetta l’approvazione dello strumento pianificatorio urbanistico; e) la chiara finalizzazione dell’accordo “in ogni caso al perseguimento dell’interesse pubblico” (art. 11, I comma, L. cit.). Il che, nella prospettiva tanto del principio di imparzialità90, quanto di quello di proporzionalità, significa che l’accordo deve servire a bilanciare o contemperare – al meglio – l’interesse pubblico primario con l’interesse privato del “contraente” (ovviamente senza dimenticare la necessità di valutazione e tutela degli altri interessi coinvolti), attraverso l’individuazione pattizia delle condizioni per raggiungere tale scopo (queste essendo la “ratio” e la “funzione” della figura stessa). Epperò significa anche che l’accordo non può essere determinato né modulato sulla soddisfazione dell’interesse privato dello stipulante, al quale venga, in qualche modo, formalmente affiancato o giustapposto un interesse pubblico pianificatorio dai confini (abbastanza) sfumati. 90 F. Cangelli (“Potere discrezionale cit.”, 232) osserva: “… lungi dal ritenere l’amministrazione svincolata dal requisito dell’imparzialità nell’attività consensuale, va individuato il “quid pluris” che la caratterizzi e la renda compatibile con la struttura delle fattispecie consensuali … in altri termini, se la soluzione apprestata per il concreto episodio di azione amministrativa rappresenta la cura ottimale dell’interesse pubblico esso considerato come oggettivamente imparziale per definizione”. 47 L’interesse pubblico deve essere dimostrato, deve essere prevalente e trovare, nel vincolo che il privato assume con l’accordo, la soddisfazione “migliore”, cioè quella che non sarebbe consentita dall’esercizio della funzione pianificatoria secondo il modello classico91. A tale proposito, per tutte le considerazioni già svolte, è evidente che l’interesse pubblico di cui parla l’art. 11, I comma, L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. (che è l’“interesse pubblico primario” di M.S. Giannini), nell’ipotesi degli accordi urbanistici (se “specie” degli accordi del citato art. 11), non potrà identificarsi nel mero corrispettivo economico (in denaro o in opere pubbliche) che il privato si impegni a realizzare. Quest’ultimo rafforzamento può dell’opportunità aggiungersi ad amministrativa ulteriore della stipulazione dell’accordo, ma non può rendere legittimo e conforme al merito il provvedimento di recepimento dell’accordo, se quest’ultimo non determina – prima (e pregiudizialmente) – il raggiungimento (quanto meno) di migliori (e soddisfazione non altrimenti dell’interesse ottenibili) urbanistico condizioni di generale92, foss’anche attraverso l’adesione del privato ad una o più 91 Cons. St. – sez. VI – 15 maggio 2002 n. 2636 in Cons. St. 2002, I, 1411 e, con testo integrale, in www.giustiziaamministrativa.it. In dottrina, M. Magri, “Gli accordi cit.”, 556. 92 Sul punto, vedasi M. Magri (“Gli accordi cit.”, 557), il quale sostiene che: “… l’ammissibilità dell’accordo c.d. integrativo deriva da un giudizio prognostico, “ex ante”, sulla essenzialità del negozio al fine di costituire il risultato da questo discendente, da effettuarsi con il criterio della eliminazione ipotetica dell’accordo, per verificare se, senza quest’ultimo, il risultato di cui sopra avrebbe potuto ugualmente essere ottenuto dalla pubblica amministrazione mediante l’adozione unilaterale del provvedimento”. 48 clausole provvedimentali non imponibili al privato medesimo senza la sua acquiescenza93. Come si è già più volte sottolineato, infatti, gli accordi tra P.A. e Privati dell’art. 11 predetto hanno la propria causa (in senso tecnico-giuridico), senza nessuna distinzione rispetto al provvedimento amministrativo (nel quale, del resto, se integrativi, sono destinati a trasfondersi), nella necessità di agire per curare, nel singolo caso, l’interesse pubblico primario e nel costituire gli accordi stessi un’opportunità per soddisfare, quanto mai efficientemente, lo stesso interesse pubblico. In altre parole, l’accordo dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241, ove ammesso nell’ambito urbanistico, sarebbe uno strumento non di depotenziamento, ma di rafforzamento della competenza pianificatoria, consentendo di rendere più complementare l’interesse privato a quello pubblico e non viceversa94. E così, ad esempio, la modificazione migliorativa (ad esempio, dal punto di vista della sicurezza stradale) del tracciato di una strada comunale, che per il privato porti alla liberazione di un proprio terreno e all’utilizzabilità dello stesso per l’ampliamento di un insediamento produttivo e della quale (strada) il privato si accolli la realizzazione, risponderà certamente all’interesse 93 E. Casetta, “Profili cit.”, 12; M. Dugato, “Atipicità e funzionalizzazione nell’attività amministrativa per contratti”, Milano 1996, 198; N. Aicardi, “La disciplina generale e i principi degli accordi amministrativi: fondamento e caratteri”, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1997, 29. 94 A. Police, “La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell’esercizio del potere discrezionale”, Napoli 1997; passim, P.L. Portaluri, “Potere amministrativo e procedimenti consensuali. Studi sui rapporti e collaborazione necessaria”, Milano 1998; passim, F. Cangelli, “Potere discrezionale cit.”, 258 ss.. 49 pubblico. Non sarebbe così allorché l’accordo urbanistico si dovesse ridurre ad un mero scambio tra modificazione della previsione urbanistica e impegno a realizzare una data opera pubblica. In un simile caso, infatti, la tutela e la prevalenza dell’interesse pubblico non sarebbero garantite, ma sostanzialmente verrebbe soddisfatto (solo) un interesse privato, secondo la mera logica contrattuale privatistica. Il che realizzerebbe un effetto sicuramente contrario al principio costituzionale di uguaglianza e a quello di imparzialità: l’interesse privato verrebbe premiato non come risultato del bilanciamento degli interessi richiesto dall’art. 97 Cost., ma come conseguenza della capacità economica del privato95. In altri termini, l’accordo urbanistico, pur potendo contenere obbligazioni anche pecuniarie, deve rimanere un “accordo ufficioso”96 e non può mai diventare (né avvicinarsi – per funzione, struttura e disciplina giuridica – ad) un 95 La codificazione degli accordi è stata accolta da taluni come misura opportuna per eliminare la prassi penalmente rilevante delle intese tra Comuni e privati in materia urbanistica, che riducevano il problema ad una questione meramente economica. 96 L’espressione è di M.S. Giannini, “Diritto amministrativo”, II ed., vol. II, 587, il quale precisa testualmente: “Questi atti sono chiamati dalla pratica accordi ufficiosi. Ma il nome non deve trarre in inganno, perché qui “accordo” ha un significato molto particolare. L’accordo ufficioso non vincola, né l’amministrazione né il privato; la prima può adottare una decisione diversa da quella stabilita nell’accordo ufficioso, se si convince che l’interesse pubblico è in senso diverso: il solo rischio che corre è che il provvedimento divenga attaccabile per eccesso di potere, ma è un rischio superabile se i motivi vi sono e la motivazione è adeguata. Il privato similmente può, con una dichiarazione contraria, disvolere, e non è neppure tenuto a motivare. Tuttavia non sarebbe neppure esatto ritenere l’accordo ufficioso un fatto giuridicamente irrilevante. A prescindere da tale profilo, ha rilevanza come decisione sostanziale: si è detto dianzi che se l’amministrazione va in diverso opinamento, deve motivare; ma anche se si attiene all’accordo ufficioso, questo conserva sempre un suo valore motivazionale della decisione quale si sarà formalizzata nel provvedimento”. 50 contratto a prestazioni corrispettive97, ché questo significherebbe la privatizzazione della funzione urbanistica, costituzionalmente inconcepibile e comunque non consentita neanche dalla legislazione ordinaria98. E, “in primis”, vietata dallo stesso art. 11 c.d. L. sul procedimento, che – come già evidenziato – consente l’accordo “nel perseguimento dell’interesse pubblico” primario. Il che significa che il ricorso all’accordo è (lecito e) legittimo solo se giustificato dalla cura di quest’ultimo e non del più generico ed indifferenziato interesse della P.A. ad ottenere utilità99-100; f) la coerenza del contenuto degli accordi con le linee di impostazione tecnica e giuridica dello strumento urbanistico 97 F.G. Scoca (“La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento” in Dir. Amm. 1995, 1 ss.) parla di “area totalmente diversa da quella propria dei contratti”. 98 G. Greco (“Accordi amministrativi” cit., 128-129) sottolinea, tra l’altro: “… il passaggio dall’esercizio unilaterale del potere all’esercizio consensuale dello stesso non comporta alcuna “deregulation” normativa: sicchè permangono nel secondo caso tutti i parametri normativi (e con i presupposti e i requisiti di fatto e di diritto) che presiedono allo svolgimento del primo. Inoltre, trattandosi di accordo sul contenuto discrezionale, non può esorbitare da detto ambito, almeno per quel che concerne l’esercizio del potere. E così come non può (validamente) violare (o derogare) i parametri normativi dell’esercizio del potere, non può, d’altra parte, comportare rinuncia all’esercizio di ulteriori poteri, previsti dalla legge e conferiti alla stessa Amministrazione, che questa volta compare in veste di contraente. …Sicché, in conclusione, l’espresso riferimento legislativo al contenuto discrezionale del provvedimento è di per sé in grado di fornire ogni esauriente indicazione anche in ordine al regime della manifestazione di volontà dell’Amministrazione nell’accordo. Perché l’osservanza dei canoni della scelta discrezionale non può certo essere soddisfatta e garantita dalla disciplina codicistica e tanto basta – come espressamente riconosciuto dalla dottrina, sia pure su di un piano più generale – per precludere ogni inquadramento privatistico della vicenda”. 99 P. Urbani (“Pianificare cit.”, 181) afferma che la “ratio” della “pianificazione per accordi” è la ricerca del consenso del privato per ottenere il migliore assetto del territorio nell’interesse della collettività e soprattutto la sua contemporanea attuazione. 100 M. Magri (“Gli accordi cit.”, 562), sulla scia della sentenza del Consiglio di Stato – sez. VI – 15 maggio 2002 n. 2636 cit., giunge a sostenere: “Dal che sembrerebbe possibile dedurre che lo stesso ius aedificandi, nella logica di un accordo, non viene in considerazione nella sua veste di attributo originario del diritto di proprietà – secondo la ricostruzione ancora molto in auge in dottrina e nella giurisprudenza (anche costituzionale) – ma diventa piuttosto la remunerazione di vantaggi pubblici o di prestazioni del privato di interesse sociale “comunitario” (il “rilevante interesse per la comunità locale”), che rappresentano il vero risultato pratico o, se si preferisce, la “causa” dell’accordo medesimo; ed in favore dei quali, anzi, il beneficio della edificabilità ben potrebbe richiedere un previo “contingentamento”. 51 generale, cui si riferisce. A questo riguardo, è evidente che l’accordo può avere maggiore ampiezza e superiore incidenza nel caso in cui riguardi un nuovo piano regolatore, mentre il contenuto discrezionale che potrà essere oggetto di accordo sarà minore, allorché si opererà nell’ambito di un procedimento di variante – foss’anche generale – ad uno strumento urbanistico vigente. In ogni caso, però, non potrà mai riguardare né le linee di indirizzo, né le scelte di fondo, né la disciplina generale di piano (ad esempio, le norme generali di singole zone omogenee), ma dovrà concernere aspetti circoscritti e funzionali alla fattispecie di riferimento, cioè a quella che spinge a ricercare l’accordo. Del resto, il limite dell’accordo “de quo” è sancito anche dalla sussistenza dell’interesse ad intervenire nel procedimento pianificatorio ai sensi dell’art. 7 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. e dalla salvezza dei diritti dei terzi. Da un lato, è evidente che l’accordo può essere uno strumento legittimo per contemperare, al meglio, l’interesse pubblico con un determinato interesse giuridicamente rilevante; dall’altro, il rispetto dei diritti dei terzi risulta, nel caso, la disciplina espressa del “perimetro” dell’accordo, che non può avere ad oggetto la soluzione del potenziale conflitto (e, comunque, delle potenziali criticità del rapporto) tra interesse pubblico primario e interesse della controparte. Il che, naturalmente, non può escludere il pregiudizio – indiretto, anche se, per 52 questo, non giuridicamente irrilevante – di posizioni giuridiche soggettive di terzi101. E tra questi terzi, a ben riflettere, potrebbe ritrovarsi anche il titolare del diritto di proprietà di un fondo, qualora l’accordo – ad esempio – intervenisse con il titolare del diritto di superficie102. Se così non fosse, se cioè l’accordo concernesse la disciplina generale dello strumento urbanistico, si trasformerebbe l’accordo medesimo in un nuovo modello di co-pianificazione, chiaramente incompatibile – quanto meno – con gli artt. 3 e 97 Cost.. L’accordo stesso assumerebbe una portata diversa da quella ammessa dalla legge, ovverossia quella di atto di pianificazione e non di intesa su taluni profili discrezionali di questo. Ed è solo quest’ultima fattispecie, a ben riflettere e a tutto concedere, che può rendere ammissibili gli accordi urbanistici pubblico-privati sulla scia dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., ché solo in questo limitato ambito non viene incisa la natura autoritativa della pianificatoria urbanistica e l’indisponibilità e negoziabilità la non resta competenza salvaguardata dell’interesse urbanistico. In altri e più radicali termini, non può essere negoziato l’“an”, né il “quid”, ma il “quomodo”. Ad esempio, operata dall’Amministrazione Comunale la scelta di introdurre una 101 102 Sul tema, vedasi F. Fracchia, “L’accordo sostitutivo cit.”, 184 ss.. Sul punto, vedasi M. Magri (“Gli accordi cit.”, 562-563). 53 zona agricola speciale (che significa che unilateralmente sono stati definiti l’“an”, cioè la soggezione di determinati fondi a detta zona omogenea speciale, e il “quid”, cioè l’introduzione di una disciplina differenziata nell’ambito delle zone agricole), può essere concordata la disciplina edificatoria per le aree ivi ricomprese, naturalmente nei limiti generali caratterizzanti le zone agricole in quanto tali. Il che è come dire qual è il portato, il (quo)modo, della sottoposizione a tale zona omogenea, e non la scelta zonizzativa in sé e per sé considerata; g) il rispetto del principio di pari opportunità concorsuale (art. 11, comma 1-bis, L. 7 agosto 1990 n. 241)103. In questa prospettiva, il Comune deve farsi parte attiva – giusta anche i principi di trasparenza e di pubblicità – per consentire la partecipazione alla definizione dell’accordo (che avviene nell’ambito di un procedimento connesso a quello pianificatorio e secondario rispetto al medesimo) di chi sia controinteressato (in quanto (com)proprietario o delle aree interessate, o di quelle coinvolte dalle scelte pianificatorie, ovvero perchè intervenuto nel procedimento pianificatorio occupandosi delle medesime aree o zone). “A priori”, peraltro, non può nemmeno escludersi una situazione di potenziale concorrenza tra aspiranti ad un determinato accordo. È evidente che la P.A., in tale eventualità, 103 N. Assini-P. Mantini, “Manuale” cit., 190-191. 54 dovrebbe garantire la “par condicio” tipica delle procedure di evidenza pubblica104; h) l’esigenza che l’accordo rispetti le garanzie del cittadino (“ex multis” art. 29, II comma, L. sul procedimento). Non può (né deve), infatti, mai dimenticarsi che i provvedimenti urbanistici, per definizione finalizzati al perseguimento dell’interesse al corretto uso del territorio, hanno due destinatari: i cittadini, tutti indistintamente, portatori dell’interesse superindividuale a che le decisioni vadano nel senso della salvaguardia del territorio come bene collettivo, e i proprietari dei singoli terreni. È evidente che l’interesse superindividuale105 non può non avere considerazione prioritaria ed è chiaro che l’interesse del singolo proprietario dovrà essere bilanciato anche rispetto a questo interesse; epperò sembra doversi sottolineare che la presenza di interessi superindividuali106 impone alla P.A. il dovere di essere garante, in sede di accordo urbanistico ex art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., 104 F. Fracchia (“L’accordo cit.”, 204) osserva: “L’ambito dei soggetti che, in quanto legittimati alla partecipazione, hanno la facoltà di proporre la conclusione dell’accordo è peraltro molto ampio. Esso ricomprende ad esempio i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati e i portatori di interessi pubblici: l’accenno disvela l’erroneità di una prospettiva che pretendesse di configurare l’accordo come uno strumento di determinazione concordata relativa ai tradizionali rapporti tra amministrazioni e singoli privati, atteso che lo spettro degli interessi ai quali l’atto in esame può dare assetto è ben più esteso”. 105 E. Casetta, “Manuale cit.”, 108 ss., ricorda, con attenzione al problema della tutela: “… ogni giudice ha offerto una interpretazione del fenomeno degli interessi superindividuali strettamente legata alla propria esperienza. Quello amministrativo si è preoccupato di tradurli in interessi legittimi; quello ordinario … diritti soggettivi fondati su norme costituzionali in capo ai titolari di interessi diffusi …; il giudice contabile, infine, aveva in passato identificato gli interessi diffusi con gli interessi pubblici, ritenendosi di conseguenza giudice naturale degli stessi”. 106 R. Lombardi, “La tutela delle posizioni giuridiche meta-individuali nel processo amministrativo”, Torino 2008, 111 ss.. 55 della salvaguardia dell’interesse superindividuale medesimo, a nulla rilevando la legittimazione all’intervento delle associazioni e dei comitati riconosciuti ai sensi dell’art. 9 L. sul procedimento e il mancato intervento di questi ultimi nel singolo procedimento pianificatorio. Il che restringe i margini della discrezione dell’Amministrazione contraente tanto in ordine al contenuto, quanto in ordine alla stipulazione dell’accordo medesimo. D’altra parte e (con tutta probabilità) pregiudizialmente, non può non tenersi conto della rilevanza generale del bene “territorio”, del bene “paesaggio”, del bene “ambiente” e del diritto alla salute e all’ambiente salubre, cioè dei c.d. diritti resistenti o non degradabili107, nonché delle interrelazioni tra gli stessi, che determinano il condizionamento, prima sostanziale che giuridico-formale, delle scelte urbanistiche sulla cura degli altri beni e diritti or ora citati. In altri termini, sul piano sistematico, se sono condivise le considerazioni appena svolte, non può non ritenersi che gli eventuali accordi urbanistici non potranno non avere una portata disciplinatrice meno ampia, nel senso che l’assetto degli interessi non potrà non tener conto del quadro particolarmente complesso degli interessi in gioco, con la conseguenza che il vincolo del perseguimento dell’interesse 107 Da ultimo, Cass. – SS.UU. – 21 marzo 2006 n. 6218 in Giust. Civ. Mass. 2006, 3. Sulla problematica, si rinvia, da ultimi, a: F.G. Scoca, “Le situazioni giuridiche soggettive dei privati” in F.G. Scoca (a cura di), “Diritto amministrativo” cit., 159-160; D. Sorace, “Diritto delle amministrazioni” cit., 405 ss.. 56 pubblico non potrà dirsi rispettato se non sarà realizzato il bilanciamento anche (e prioritariamente) con l’interesse superindividuale, che non può farsi coincidere – sia chiaro – con l’interesse pubblico primario. Nel suo nucleo peculiare l’interesse urbanistico primario, quindi, non può non essere considerato indisponibile. L’asserita indisponibilità non significa, ovviamente (una volta ammessi gli accordi in materia), assoluta non negoziabilità, ma comporta che lo strumento pattizio – come già detto – non possa “privatizzare” l’interesse pubblico urbanistico, cosicchè l’accordo dovrà sempre risultare strumento – formale e, soprattutto, sostanziale – di soddisfacimento del citato interesse pubblico. Il che, come è notorio, giusta i principi di imparzialità e di proporzionalità, non si tradurrà nella penalizzazione pregiudiziale e immotivata dell’interesse privato, ma nell’individuazione del giusto mezzo di perseguimento dell’interesse pubblico e, quindi, di minore penalizzazione possibile di quello privato108; i) l’accordo “de quo”, peraltro, potrà concernere esclusivamente il contenuto discrezionale del provvedimento amministrativo. Come notorio, questo limite è sancito espressamente dall’art. 11 c.d. legge sul procedimento, ma, a ben riflettere, 108 F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 419) sottolinea che “il vincolo per l’amministrazione del perseguimento dell’interesse pubblico … dimostra come la scelta dello strumento consensuale corrisponda all’esercizio di un potere discrezionale, e più precisamente dello stesso potere che avrebbe permesso la definizione unilaterale del procedimento”. 57 è un limite prima logico-giuridico e di sistema e, poi, di diritto positivo. L’accordo tra P.A. e Privato non può, infatti, concernere materie o profili disciplinari, di cui la stessa Amministrazione pubblica non può, in alcuna misura, “disporre”, essendo titolare di un potere vincolato109. Questo esclude, ovviamente, che l’accordo possa consentire di modificare le decisioni vincolate contenute negli strumenti urbanistici (si pensi, ad esempio, al recepimento delle fasce di rispetto stradale). Accedendo alla tesi favorevole agli accordi urbanistici tra Comune e privati in applicazione dell’istituto disciplinato dal più volte richiamato art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., questi sembrano i principi fondamentali evincibili, in assenza della legge-cornice, dalla legislazione statale, peraltro – ripetesi – generale e non settoriale. 7. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione regionale. La disciplina della Regione Veneto. Con attenzione al quadro descritto nei precedenti paragrafi, verrà svolta l’analisi della legislazione urbanistica delle Regioni a statuto ordinario, per individuare ed esaminare le fattispecie di accordi tra P.A. e privati eventualmente contemplati. L’esame della legislazione urbanistica delle Regioni a statuto ordinario porta a constatare che sono (ancora) poche quelle che 109 F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 416. Contra, sul piano generale, F. Satta-F. Cardarelli, “Il contratto cit.”, 219, sia pure limitatamente agli accordi procedimentali. 58 hanno legiferato in materia di accordi tra privati e P.A.: Veneto, Emilia-Romagna (la prima a introdurre la fattispecie degli accordi “de quibus” nella propria legislazione urbanistica) e Umbria. La Regione Veneto, all’art. 6 L.R. 23 aprile 2004 n. 31, disciplina gli accordi tra soggetti pubblici e privati, stabilendo sia che tutti gli enti territoriali possono stipulare accordi con soggetti privati “per assumere nella pianificazione proposte di progetti o di iniziative di rilevante interesse pubblico”, sia che gli accordi sono finalizzati alla “determinazione di alcune previsioni del contenuto discrezionale degli atti di pianificazione territoriale ed urbanistica, nel rispetto della legislazione e della pianificazione sovraordinata, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, che vengono recepiti con l’adozione dello strumento di pianificazione”. È previsto, infine, per quanto non espressamente disciplinato, il rinvio all’art. 11, commi II e seguenti, L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.110. La formulazione inevitabilmente della connesse norma soffre all’adattamento delle incertezze della fattispecie dell’art. 11 L. sul procedimento al contesto dell’azione 110 La novella è stata commentata da M. Breganze (“La nuova pianificazione urbanistica territoriale in Veneto e gli accordi con i privati” in Riv. Giur. Urb. 2005, 210 ss.) che, sulla portata generale della stessa, così si è testualmente espresso: “La legge veneta fa, quindi, uscire dalla semiclandestinità gli accordi che di fatto già esistevano – per lo più proprio per poter dare concreta attuazione al piano – ma che assai spesso dovevano esprimersi in forme camuffate di apparentemente spontanei atti unilaterali d’obbligo ad alcunché, laddove il piano avesse avuto ad essere modificato in un certo modo”. 59 pianificatoria territoriale ed urbanistica111. Con tutto questo, la disposizione sembra limitare l’ambito di questi accordi alle sole ipotesi, nelle quali la determinazione concordata di previsioni urbanistiche sia finalizzata a rendere concretamente realizzabili progetti o iniziative private, che siano caratterizzate dalla rispondenza anche ad un “rilevante interesse pubblico”. Questa finalizzazione è la ragione dell’eccezione ai principi dell’azione pianificatoria e non può, pertanto, non essere intesa, sul piano interpretativo e sistematico, come necessariamente caratterizzata dall’indispensabilità (= non fungibilità con gli strumenti pianificatori ordinari) e dalla diretta rilevanza dell’accordo per la realizzabilità dell’opera di “rilevante interesse pubblico”112. In altri termini, il legislatore veneto preconizza che il ricorso all’accordo sia possibile (solo) allorché lo stesso costituisca lo strumento indispensabile per creare le condizioni per la realizzazione dell’opera medesima, altrimenti non realizzabile. Sempre sul piano interpretativo e sistematico, l’accordo, per il contenuto convenzionale relativo allo stipulante privato, deve apparire l’unico mezzo per far assumere a quest’ultimo obblighi (in senso lato), che non sarebbero imponibili tramite le prescrizioni legittimamente introducibili autoritativamente dalla 111 M. Breganze (“La nuova pianificazione” cit., 220) sottolinea che gli accordi “de quibus” sono ammessi dalla L.R. Veneto “contrariamente al divieto posto per gli atti pianificatori dall’art. 13 della legge 241 del 1990”. 112 M. Breganze (“La nuova pianificazione” cit., 221), con una considerazione più di sintesi che non strettamente esegetica, sottolinea: “Quel che è certo, peraltro, è che delle potenzialità operative della nuova disposizione le amministrazioni dovranno – è di tutta evidenza – far uso “cum grano salis”. 60 P.A. in sede pianificatoria. In differenti parole (e nella consapevolezza che il diritto vivente o materiale va in altro senso), l’accordo deve consentire alla P.A. di raggiungere obiettivi non perseguibili tramite la normale azione pianificatoria e costituire, quindi, il mezzo per un’azione amministrativa che meglio risponda al requisito del merito amministrativo. Peraltro, se le parole contenute nelle leggi – sia scusata la sottolineatura – hanno ancora un significato ed un peso, il legislatore veneto pone un’altra “condicio iuris”, non meno importante e restrittiva: il progetto o l’iniziativa del privato deve assumere una connotazione di “rilevante interesse pubblico”. Or bene, l’espressione non può essere interpretata come riferita ai soli interessi pubblici primari o costituzionalmente garantiti (salute, ambiente, paesaggio ed altri), essendo chiaro che il legislatore ha inteso riferire il “rilevante” all’utilità pubblica che, nel singolo contesto, l’opera privata assume. In questo quadro, per esemplificare, la costruzione di una clinica privata in un comune privo di strutture sanitarie può far ritenere rilevante l’interesse a dotare il territorio comunale dell’opera medesima, soprattutto se destinata ad operare in regime convenzionale; in un comune già dotato dal punto di vista sanitario, al contrario, la costruzione di un nuovo ospedale privato può non rivestire alcun interesse o, in ogni caso, rende improbabile la sussistenza di un “rilevante” interesse pubblico. È chiaro, infatti, che la costruzione di un nuovo insediamento 61 sanitario risponde – sempre e comunque – all’interesse pubblico (se non altro sotto il profilo occupazionale e del potenziale flusso di persone), ma è altrettanto palese che non è questo l’interesse pubblico, cui si è riferito il legislatore veneto. Questi, infatti, ha individuato, al contrario, un interesse pubblico quali-quantitativamente specifico e speciale e, per questo, rilevante. Il riferimento del legislatore regionale comporta anche un precipuo obbligo di motivazione dell’accordo e, comunque, del suo recepimento: la sussistenza dell’interesse pubblico e, soprattutto, la sua rilevanza vanno dimostrati con puntualità. In altre parole, il ricorso alle formule stereotipate o alle clausole di stile è “contra legem” ed è destinato a inficiare la deliberazione per “difetto di motivazione”. Questa conclusione non sembra cozzare con le regole sulla motivazione delle scelte urbanistiche: al di là del fatto che nella legislazione statale si cominciano a rinvenire significativi ripensamenti in tema di motivazione delle scelte urbanistiche (si pensi al IV comma dell’art. 9 T.U. Espropriazione per pubblica utilità in tema di reiterazione dei vincoli urbanistici)113, infatti, l’esigenza di una motivazione in senso tecnico è imposta dal legislatore regionale (implicitamente, epperò non meno chiaramente) sia quando ha richiesto che l’opera privata risponda ad un “rilevante” interesse pubblico, sia allorché ha 113 F. Salvia (“Manuale cit.”, 81) significativamente dedica un paragrafo a “Il doppio regime della motivazione”. 62 designato l’accordo “ de quo” come uno strumento speciale, se non eccezionale, nei termini sopra descritti. La finalizzazione dell’accordo ad un’opera privata, che rivesta (però) “rilevante interesse pubblico”, spiega la precisazione dei limiti contenutistici dell’accordo medesimo (art. 6, II comma, L.R. cit.: “determinazione di alcune previsioni del contenuto discrezionale degli atti di pianificazione territoriale ed urbanistica”), che vanno individuati nella stretta inerenza con l’intervento considerato e nella conseguente limitazione dell’efficacia delle previsioni definite consensualmente all’opera, che giustifica l’accordo114. Ovvio e conseguente, ma non ultroneo, appare il richiamo espresso del principio di legalità sia con riferimento alla legislazione (nazionale e regionale), che alla pianificazione sovraordinata. Quest’ultimo “paletto” conferma, infatti, la portata circoscritta dell’accordo medesimo. La norma in esame pone un ulteriore quesito, sempre in tema di rapporti tra strumenti pianificatori. L’articolo considerato consente che gli accordi riguardino anche i livelli di pianificazione territoriale e urbanistica di competenza della Regione o delle Province. È necessario chiedersi quali riflessi possa avere l’accordo riguardante, ad esempio, il piano territoriale di coordinamento provinciale, sulle previsioni, eventualmente contrastanti, di livello comunale. 114 M. Breganze, “La nuova pianificazione” cit., 220-221. 63 Forse, in verità, è più giusto chiedersi se una simile ipotesi sia realistica, quanto meno nel contesto della L.R. in esame. E la risposta sembra dover essere negativa. Da un lato, infatti, tanto la configurazione del piano territoriale di coordinamento regionale (art. 24 L.R. citata), quanto quella del piano territoriale di coordinamento provinciale (art. 22 L.R. cit.), paiono escludere la configurabilità di un accordo ai sensi dell’art. 6 L.R. in esame. Dall’altro, qualora si ponesse l’esigenza di un accordo che riguardasse, primariamente, il livello pianificatorio regionale e/o quello provinciale, con inevitabili riflessi sugli strumenti urbanistici comunali, non potrebbe che ricorrersi all’accordo di programma, o ai sensi dell’art. 26 della medesima legge regionale, o ai sensi dell’art. 34 D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267115. La disciplina dell’art. 6 L.R. Veneto 23 aprile 2004 n. 11, peraltro, non chiarisce due profili, avendone affidato la disciplina a disposizioni troppo laconiche, se non criptiche. In primo luogo, non è chiaro se l’accordo sia ammissibile “in accoglimento di osservazioni”, cioè nell’ambito di un procedimento pendente e in presenza di un precedente intervento nel medesimo da parte del privato stipulante l’accordo, ovvero se l’accordo stesso possa precedere – e, 115 Sul punto è meno perplessa la valutazione di M. Breganze (“La nuova pianificazione” cit., 220), che parla “di notevole passo avanti sulla strada dell’effettiva attuabilità dei piani: grazie a veri e propri accordi endoprocedimentali con i privati, con cui l’art. 6 … fa rientrare nell’assoluta normalità la negoziazione del contenuto discrezionale degli strumenti urbanistici e – addirittura – territoriali”. 64 quindi, in una qualche misura determinare – l’avvio del procedimento di variante dello strumento urbanistico, cui si riferiscono le statuizioni dell’accordo “de quo”. Il legislatore veneto sembra, per vero, più teso ad indicare il “tempo finale”, che non il momento iniziale, nel quale l’accordo può avere rilievo (ossia essere introdotto) nel procedimento pianificatorio. Allorché il III comma del medesimo art. 6, infatti, sancisce che l’accordo deve essere recepito con il provvedimento di adozione, è chiaro che, se il modello procedimentale pianificatorio (e nella L.R. in esame così risulta) è quello classico, l’accordo difficilmente può scaturire dall’intervento del privato nel procedimento medesimo e dalla presentazione di osservazioni positivamente recepite dal Comune. Or bene, esaminando la legge veneta, è certamente così per tutti i soggetti privati, con la (potenziale) esclusione delle “associazioni economiche e sociali portatrici di rilevanti interessi sul territorio e di interessi diffusi” e dei “gestori di servizi pubblici e di uso pubblico”. Questi sono ammessi alla fase concertativa prevista dall’art. 5 della stessa legge, da collocarsi nella sottofase istruttoria del procedimento pianificatorio, e per gli stessi è ipotizzabile che l’accordo costituisca espressione della partecipazione e dell’intervento nel procedimento. In secondo luogo, non è espressamente sancito quale sia l’effetto del recepimento, in sede di adozione, dell’accordo in 65 questione agli effetti del diritto all’indennizzo sancito dal IV comma dell’art. 11, II comma, L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. nel caso (contemplato dal III comma dell’art. 6 L.R. in esame), in cui l’accordo non venga confermato in sede di approvazione dello strumento urbanistico, cui si riferisce. La risposta non sembra difficile da rinvenire sul piano interpretativo: da un lato, infatti, la formulazione del citato III comma dell’art. 6 L.R. “de qua” non lascia dubbi sulla natura procedimentale dell’accordo disposizione116; dall’altro, il disciplinato recepimento dalla medesima viene definito “condizionato” e, per quanto non sia precisato se si tratti di condizione sospensiva o di condizione risolutiva, non pare dubbio, sul piano sistematico, che si tratti di condizione sospensiva117. Conseguentemente, il diritto all’indennizzo non si configura qualora le prescrizioni, contenute nell’accordo e recepite con la deliberazione di adozione, non siano mantenute in sede di approvazione. Nel caso di stralcio delle prescrizioni previste dall’accordo in sede di approvazione, infatti, non si configura il recesso dall’accordo proprio perché il recepimento dello stesso diviene efficace solo con la deliberazione di approvazione e, quindi, solo successivamente a quest’ultima possono crearsi i presupposti indicati dal IV comma dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.. 116 117 Così anche M. Breganze, “La nuova pianificazione” cit., 220. Concorda M. Breganze, “La nuova pianificazione” cit., 221. 66 La costruzione del recepimento condizionato sospensivamente in sede di deliberazione di adozione, con la conseguente possibilità dell’Amministrazione procedente di stralciare le prescrizioni introdotte nello strumento urbanistico di riferimento in sede di approvazione di quest’ultimo, può portare a ritenere che il legislatore caratterizzazione veneto della abbia funzione inteso riaffermare urbanistica in la termini tradizionali, cioè recuperandone l’indisponibilità e la non negoziabilità118. In altre parole e particolarmente, la disciplina esaminata può indurre a sostenere che l’accordo non limiti (almeno sul piano giuridico-sostanziale) la discrezionalità pianificatoria. Or bene, come si è detto, il legislatore veneto delinea un accordo procedimentale119 e il recepimento condizionato, se induce ad escludere il diritto all’indennizzo ai sensi del IV comma dell’art. 11 L. sul procedimento amministrativo, non può portare ad escludere in assoluto una limitazione della discrezionalità pianificatoria. 118 Del resto, il Consiglio di Stato, nella nota (e già citata) sentenza 15 maggio 2002 n. 2636, sottolinea che la mancanza di una finalità anticipatoria dell’accordo procedimentale non rappresenta soltanto un elemento utile ai fini dell’interpretazione degli atti e dei fatti dedotti nel processo amministrativo, ma costituisce un vero e proprio requisito di legittimità. Al riguardo, nella sentenza si legge testualmente: “… Se fosse possibile, al di fuori di un’espressa previsione di legge, concludere accordi integrativi che abbiano solo lo scopo di garantire un certo esito dell’istanza del privato e non di determinare concretamente il contenuto del provvedimento (e non vi è determinazione concreta al di fuori di ogni effettiva negoziazione del contenuto del provvedimento) la norma che consente la conclusione di accordi sostitutivi solo in casi tassativi sarebbe facilmente elusa mediante la stipula di accordi preliminari (o procedimentali) aventi la sola finalità di anticipare il provvedimento finale”. 119 E l’accordo procedimentale esaurisce la propria efficacia nell’ambito del procedimento amministrativo, che prosegue e che deve esaurirsi con l’emanazione del provvedimento, che potrà anche non essere frutto del recepimento dell’accordo medesimo: F. Bassi, “Lezioni cit.”, 172-173; F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 414. 67 A ben riflettere, infatti, il recepimento dell’accordo comporta, “ipso facto” e a prescindere dalla presenza della condizione sospensiva120, il consolidarsi dell’aspettativa giuridicamente tutelata esistente in capo al privato e il suo costituirsi in interesse legittimo alla definitiva consacrazione nello strumento urbanistico di pertinenza in sede di approvazione di quest’ultimo. Di conseguenza, l’Amministrazione competente non potrà dell’accordo, godere, in punto dell’“amplissima al recepimento discrezionalità”, definitivo che la giurisprudenza riconosce come propria dell’ente pianificatore (per vero con un orientamento ormai bisognoso di revisione critica, ben oltre le prime timide novelle legislative)121, ma dovrà, in caso di stralcio, motivare specificamente e puntualmente122. Sia concesso un inciso. Questa conclusione potrebbe far pensare che la delibera di adozione, in quanto recepente l’accordo, sia immediatamente lesiva e vada immediatamente impugnata da chi vi abbia interesse. 120 Sul problema in generale, vedansi G. Greco, “Accordi cit.”, 239 ss.; F. Cangelli, “Potere discrezionale cit.”, 279 ss.. 121 F. Salvia, “Manuale cit.”, 81. 122 Di opinione diversa, pare M. Magri (“Gli accordi con i privati nella formazione dei piani urbanistici strutturali” in Riv. Giur. Urb. 2004, 558-559) il quale, a proposito dell’art. 18 L.R. Em. Rom. 20 marzo 2000 n. 20 s.m.i., sostiene: “L’accento posto dalla norma sul carattere di “iniziativa” dell’atto del privato recepito nella deliberazione di adozione del piano unita alle scansioni procedimentali entro cui soltanto può “maturare” l’accettazione dell’ente locale, possono anzi spostare nuovamente il baricentro della decisione verso moduli di stampo autoritativo; basti pensare alla possibile ricostruzione in termini di valutazione “riservata” della decisione dell’amministrazione circa il “rilevante interesse per la comunità locale” della proposta, per comprendere quanto siano lontane dall’art. 18 le visioni della contrattualità come modulo di azione pattizio ed alternativo a quello unilaterale”. 68 Questa tesi non pare condivisibile, in quanto l’accordo diviene efficace solo con la deliberazione di approvazione dello strumento urbanistico, cui pertiene (si può parlare di atto a complessità eguale). In quel momento si configurerà la lesività dell’accordo e la sua impugnabilità, che dovrà comportare l’impugnazione della deliberazione di adozione come atto presupposto, se ed in quanto si ricorra contro la decisione di recepire l’accordo urbanistico pubblico-privato. La riflessione ora svolta evidenzia un altro problema di taglio strettamente processuale: l’accordo previsto dall’art. 6 della legge in esame è autonomamente impugnabile, ovvero è impugnabile solo in una con le deliberazioni “urbanistiche”? La questione è assai delicata. La risposta sembra, però, dover essere favorevole all’autonoma impugnabilità dell’accordo. Il che significa che le deliberazioni di adozione e di approvazione del piano urbanistico potranno essere impugnate anche esclusivamente “in parte qua”, cioè in punto alla decisione di recepire l’accordo medesimo123. Da un lato, infatti, l’autonomia del provvedimento di recepimento, pur nella contestualità documentale, appare evidente sia sul piano logico-giuridico (il recepimento è il 123 Sul problema in generale, F.G. Scoca (“Gli accordi cit.”, 428-429), dopo aver ammesso l’impugnabilità degli accordi da parte dei terzi e dei controinteressati, rileva testualmente: “L’accordo preliminare, producendo effetti obbligatori tra le parti, non potrà avere rilevanza esterna, se non nei limiti e dal momento in cui l’amministrazione adempie l’emanazione del provvedimento. Solo tale atto produrrà effetti esterni ed attiverà l’interesse a ricorrere del terzo. Quanto all’impugnazione dell’atto di adesione, non bisogna dimenticare che gli effetti non si potrebbero produrre senza la conclusione effettiva o l’esecuzione dell’accordo. Sarebbe così da escludere l’autonoma impugnabilità dell’atto di adesione all’accordo essendo, anche sul piano sistematico più coerente, la tesi dell’impugnazione dell’accordo laddove questo diventi efficace”. 69 presupposto della disciplina urbanistica, che viene inserita in virtù dell’accordo), sia sul piano del diritto positivo, posto che l’apposizione della condizione sospensiva è compatibile e legittima se riferita al provvedimento di recepimento medesimo, mentre sarebbe “contra legem” se apposta alla delibera di adozione dello strumento urbanistico. Dall’altro, non si può escludere che il recepimento di quell’accordo abbia leso l’interesse legittimo di altri a veder recepita una propria ipotesi di accordo o, prima, a essere presi in considerazione in concorso con lo stipulante. Ed è evidente che può configurarsi un interesse al ricorso con riferimento alla deliberazione come provvedimento di recepimento dell’accordo e non necessariamente – almeno in capo al medesimo soggetto – con attenzione alla stessa come strumento pianificatorio. In questa prospettiva, va considerata anche la posizione del proprietario, allorché l’accordo sia stipulato – ad esempio – dal titolare del diritto di superficie124. Quanto all’Autorità Giudiziaria titolare della giurisdizione, il rinvio all’art. 11, comma II e seguenti, L. sul procedimento amministrativo sembra eliminare ogni dubbio e consentire di individuare nel Giudice Amministrativo il titolare della “iurisdictio”, nella forma della giurisdizione esclusiva così come sancito dal V comma del medesimo art. 11. 124 M. Magri (“Gli accordi cit.”, 562-563) sostiene: disponibilità delle aree possa rivelarsi necessaria per concorso di persone diverse dal proprietario, anche nondimeno, determinante ai fini della individuazione meritevolezza) dell’accordo stesso”. “Di conseguenza, quantunque la la esecuzione delle prestazioni, il sul piano giuridico, può essere, della funzione (e del giudizio di 70 7.1. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione regionale. La regolamentazione vigente nella Regione EmiliaRomagna. La L.R. dell’Emilia-Romagna 24 marzo 2000 n. 20 s.m.i. contiene una disciplina degli accordi urbanistici pubblico-privati del tutto simile, nella sua portata giuridica (trattasi pacificamente di accordi procedimentali125), a quella della Regione Veneto, che, peraltro, sul piano cronologico, precede126. Le differenze sembrano essere sostanzialmente terminologiche, con l’unica eccezione dell’esplicito richiamo, contenuto nel II comma dell’art. 18 della legge emiliano-romagnola, all’obbligo di motivazione della scelta di pianificazione, là dove “definita con l’accordo”. Con tutta evidenza, si tratta di una sanzione solenne opportuna, per quanto ultronea sul piano logico-giuridico. Sul punto, appare pienamente condivisibile la sottolineatura operata da chi parla di “esito negoziale del procedimento di pianificazione necessariamente parziale e specializzato”, in quanto non teso ad una “generica integrazione della pianificazione”, ma ad uno specifico – e limitato – obiettivo pianificatorio127. Peraltro, nell’art. 18 citato, al I comma, si parla di “proposte di progetti e iniziative di rilevante interesse per la comunità locale”, mentre l’art. 6 L.R. Veneto si riferisce a “progetti e iniziative di 125 M. Magri, “Gli accordi cit.”, 339 ss.. M. Magri, “Gli accordi cit.”, 558. 127 M. Magri, “Gli accordi cit.”, 559. 126 71 rilevante interesse pubblico per la comunità locale”. Il portato giuridico sembra (del tutto) identico, ma così, forse, non è. Per la precisione, la postulare che l’unico legge emiliano-romagnola sembra interesse pubblico giustificativo dell’accordo ai sensi del citato art. 18 sia quello pubblico rilevante per la comunità locale e non in generale. Questa precisazione pare opportuna sul piano sistematico anche per delineare (o ribadire) il discrimine con gli accordi di programma, ma non può non osservarsi che può risultare ultronea. “Locale”, infatti, non significa solo “comunale”, posto lo spettro degli accordi ipotizzati dal medesimo art. 18, cosicchè può ritenersi, più semplicemente, che la legge emiliano-romagnola espliciti ciò che la legge veneta afferma in via implicita. In ogni caso, non può non condividersi l’opinione di chi individua nel “rilevante interesse pubblico per la collettività” un “requisito di meritevolezza” della funzione economico-sociale dell’accordo, discendente dalla previsione imputazione collettiva di legge dell’interesse sulla necessaria pubblico perseguito, sottolineando, altresì, che, attraverso la motivazione, va dimostrato “un collegamento tra l’accordo e uno scopo “strategico”, espressamente riferito al raggiungimento degli obiettivi che sono attribuiti al piano cui l’accordo si riferisce”128. 128 Così M. Magri (“Gli accordi cit.”, 569), che sottolinea testualmente: “In termini di utilità dell’accordo, questo “vincolo di scopo” testimonia i vantaggi pubblici conseguiti dall’amministrazione per mezzo dell’attività del soggetto privato, può giustificare la già citata ricostruzione in termini di onerosità (in senso ampio) dell’accordo e determinare, in capo al privato, la creazione “ex novo” del diritto di edificare”. 72 Ciò chiarito, appare opportuno ricordare la riflessione dottrinale relativa alla compatibilità degli accordi “de quibus” con il primo livello della pianificazione urbanistica generale comunale. In Emilia-Romagna, infatti, proprio la L.R. richiamata, ha introdotto la fattispecie del Piano Strutturale Comunale (in sigla: P.S.C.) e del Piano Operativo Comunale (in sigla: P.O.C.), scindendo il P.R.G. nella c.d. parte strategica e in quella operativa. Al riguardo, si deve tuttavia sottolineare che la rara dottrina sul tema, nel prendere atto che il citato art. 18 ha introdotto una “figura speciale di accordo c.d. integrativo di procedimento, modellata sulla disciplina generale di cui all’art. 11 della legge 7 agosto 1990, n. 241, estesa a tutti i procedimenti di pianificazione territoriale ed urbanistica”, solleva dubbi sull’applicabilità al piano strutturale comunale, “a causa della generalità che caratterizza le scelte di pianificazione sottese all’adozione di strumenti urbanistici”129 soprattutto alla luce del divieto posto dall’art. 13 della citata L. 241. “In limine”, è però opportuno ricordare che la Giunta Regionale dell’Emilia-Romagna ha presentato un progetto di legge per la modifica della L.R. 24 marzo 2000 n. 20130. La novella, ove approvata, introdurrebbe elementi di sicura importanza e di rilevante significato: - la necessità della pendenza del procedimento pianificatorio; 129 M. Magri, “Gli accordi cit.”, 540. Supplemento speciale del Bollettino Ufficiale della Regione Emilia Romagna n. 172 del 6 agosto 2007. 130 73 - il rispetto dei principi di imparzialità amministrativa, trasparenza, concorrenzialità e pubblicità; - la necessità di garantire la partecipazione al procedimento di tutti i soggetti interessati; - l’esigenza della coerenza del contenuto dell’accordo con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione; - l’obbligo di dimostrare, attraverso la motivazione, così “le ragioni di rilevante interesse che giustificano il ricorso allo strumento negoziale”, come la compatibilità delle scelte di pianificazione concordate; - la disciplina procedimentale dell’accordo, che identifica l’autorizzazione alla stipulazione da parte dell’Organo esecutivo dell’Ente contraente, la sottoscrizione dell’accordo condizionato sospensivamente all’introduzione del contenuto dell’accordo medesimo nel piano urbanistico, il recepimento in sede di adozione dello strumento pianificatorio e la conferma in sede di approvazione. A quest’ultimo proposito, si deve rilevare la suddivisione di competenza tra Organo esecutivo, cioè Giunta, e Consiglio, in contrasto con il comma 4 bis dell’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.. E’ una suddivisione che, però, appare logica, perché la responsabilità amministrativa della stipulazione dell’accordo, nel contesto organizzativo degli enti territoriali, non può che essere riservata alla Giunta, mentre la decisione finale rimessa al Consiglio è rispettosa delle competenze pianificatorie di 74 quest’ultimo ed è anche un rafforzativo della natura procedimentale dell’accordo. Complessivamente, l’ipotesi di novella sembra andare nel senso, postulato dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativa131, della sottolineatura dei caratteri pubblicistici non per togliere spazi di praticabilità agli accordi stessi, ma per renderli effettivamente (ed esclusivamente) funzionali all’ottimizzazione dell’attività pianificatoria. 7.2. Gli accordi urbanistici tra P.A. e Privati nella legislazione regionale. La disciplina vigente nella Regione Umbria. La L.R. Umbria (“Partecipazione 22 dei febbraio privati”), 2005 n. 11, contempla una all’art. 12 fattispecie espressamente ricondotta, giusta il II comma dell’art. 12, agli accordi dell’art. 11 L. sul procedimento. L’ambito è limitato espressamente al “P.R.G., parte operativa” (art. 4 L.R. cit.). L’accordo è ammesso “durante le fasi di deposito e di pubblicazione del P.R.G.”, cioè nella fase procedimentale nella quale è consentita ai soggetti interessati la presentazione di osservazioni (art. 17, I comma, e art. 13, III comma, L.R. cit.), e lo stesso ha come oggetto i piani attuativi (art. 20 L.R. cit.)132 o i programmi urbanistici relativi alla riqualificazione urbana (art. 28 L.R. cit.). 131 Il riferimento è, in specie, a Cons. St. – sez. VI – 15 maggio 2002 n. 2636 cit.. Il I comma dell’art. 20 L.R. Umbria 22 febbraio 2005 n. 11 contempla i piani attuativi di iniziativa pubblica, di iniziativa privata e di iniziativa mista, cioè promossi insieme da soggetti pubblici e privati. 132 75 Il privato, singolo o associato, deve presentare la proposta con i contenuti richiesti per detti piani o programmi, accompagnata da atti d’obbligo unilaterale relativi agli impegni (anche economici) in materia di infrastrutture, di dotazioni territoriali e funzionali minime (art. 12, I comma, L.R. cit.). L’accordo si intende recepito se il Comune competente accoglie la proposta del privato in sede di esame delle osservazioni. La delibera di accoglimento (che sembra da individuarsi in quella di “controdeduzione”) ha valore anche di adozione del piano attuativo o del programma urbanistico, ferma restando la previsione dell’XI comma dell’art. 24 L.R. cit., che sancisce che i piani attuativi possano essere approvati solo “previo parere vincolante della provincia, da rendersi entro il termine perentorio di trenta giorni dalla richiesta, limitatamente alle zone sottoposte ai vincoli di cui al d.lgs. 42/2004 ed alle aree o immobili di cui all’art. 4, comma 2, della l.r. 1/2004”. L’analisi della regolamentazione umbra porta a porsi un interrogativo, per così dire, pregiudiziale: si tratta, nella sostanza (giuridica), di una fattispecie riconducibile agli accordi contemplati dall’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i.? La risposta sembra negativa, nel senso che l’essenza giuridica della fattispecie è data, da un lato, dalla proposta di un privato relativa alla realizzazione di uno strumento attuativo, e, dall’altro, da una semplificazione procedimentale (certamente importante sul piano pratico), in virtù della quale l’adozione del 76 P.R.G.-parte operativa ha la valenza anche di provvedimento di adozione del piano attuativo o del programma urbanistico. Trattasi, con tutta evidenza, di una fattispecie che va più puntualmente ricondotta allo schema tipico dell’iniziativa privata finalizzata alla realizzazione degli strumenti urbanistici attuativi. Della tipologia di accordo ex art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i., quale posta ad oggetto della presente riflessione, c’è, per così dire, ben poco o niente di più di quanto è stato rinvenuto nella convenzione lottizzativa o urbanistica attuative. In questa prospettiva, il richiamo dell’art. 11 L. sul procedimento amministrativo sembra essere giustificato più sul piano dell’analogia (legis), che non su quello dell’identità delle fattispecie, quanto meno nell’ottica del rapporto tra “genus” e “species”. In ogni caso, la regolamentazione della legge umbra, una volta che si ammetta la possibilità che il legislatore “urbanistico” possa introdurre gli accordi “de quibus” nell’ordinamento regionale e una volta che si ritenga che l’art. 12 L.R. 22 febbraio 2005 n. 11 contempli un’ipotesi di accordo, non sembra essere suscettibile di censure sotto il profilo del rispetto dei principi fondamentali contenuti nella legislazione nazionale (art. 117, III comma, Cost.). Da un lato, infatti, l’accordo è ammesso in un contesto ricalcante puntualmente quello dell’art. 11 L. sul procedimento amministrativo; dall’altro, il patto può essere stipulato, in buona 77 sostanza, ai limitati effetti dell’attuazione dello strumento urbanistico generale, per di più solo operativo (art. 12, I comma, L.R. cit.). E’ esclusa, pertanto, anche la possibilità che la disciplina pattizia possa incidere sul profilo fondamentale e più direttamente destinato a tutelare l’interesse urbanistico generale, ovverossia sulla disciplina strutturale (art. 3 L.R. cit.), che determina le regole di utilizzazione urbanistica del territorio, definendone le vocazioni urbanistiche, e che stabilisce le conseguenti regole (“rectius”: principi regolativi) di utilizzo del territorio, rimettendo al P.R.G.-parte operativa e agli strumenti attuativi la specificazione delle regole medesime, necessaria per consentire, in concreto, l’attuazione del piano (art. 4 L.R. cit.). L’indisponibilità e la non-negoziabilità dell’interesse urbanistico primario, in un simile contesto, appaiono salvaguardate, posto che le scelte decisive e qualificanti sono contenute nel P.R.G. strutturale e che il medesimo non può essere modificato in recepimento di un accordo tra P.A. e privati. 8. Riflessioni conclusive e/o “de iure condendo” (eccezionalità dello strumento; accessorietà delle condizioni di natura patrimoniale; particolare rilevanza della obbligatorietà della motivazione; imprescindibilità del “vincolo di scopo (pubblico)”; disciplina del c.d. ius variandi). Il quadro che emerge dall’analisi della legislazione regionale evidenzia che l’ambito di applicazione dell’accordo dell’art. 11 L. 78 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. è sostanzialmente limitato, al momento, a due Regioni: Emilia-Romagna e Veneto. Questo dato non muta se si analizza (sempre avendo presente la peculiarità della competenza legislativa di queste ultime) la legislazione delle Regioni a statuto speciale. Or bene, tutto questo non esclude che la situazione possa modificarsi. Sotto questo profilo, sembra utile una breve riflessione conclusiva, che può risultare, per certo verso, ripetitiva di considerazioni prima svolte ad altro fine, ma che pare rientrare, sia pure in una prospettiva “de iure condendo”, nel compito del giurista e nel campo di riflessione della relazione affidatami. Fino a quando “rivoluzionarie” non (nel intervengano senso l’ordinamento giuridico pianificatoria urbanistica modifiche tecnico-giuridico italiano generale delinea legislative del la termine), competenza tendenzialmente come indisponibile e non negoziabile: Regioni, Province e Comuni devono aprire alla partecipazione nelle forme più ampie, ma non possono limitare la propria autonomia decisionale di tipo discrezionale, obbligandosi nei confronti dei privati. In altri termini, a tacere di altri profili prima ricordati, tali accordi non possono tradursi in patti sul contenuto del piano regolatore generale, così come disegnato dall’art. 7 L. 17 agosto 1942 n. 1150 s.m.i., o su quello del piano strutturale (o come altrimenti definito dalle singole leggi regionali), cioè dello strumento 79 pianificatorio principale (si potrebbe dire della “fonte primaria” della disciplina urbanistica comunale). Al contrario, possono riguardare la pianificazione attuativa o, nel sistema binario, il Piano Operativo Comunale133. A maggior ragione, gli accordi dell’art. 11 L. sul procedimento amministrativo non dovrebbero riguardare i piani territoriali e di coordinamento, per la ancora più evidente indisponibilità dell’interesse urbanistico tutelato dai citati strumenti pianificatori; ciò a prescindere dalle difficoltà tecniche nei rapporti tra i diversi livelli pianificatori, che un accordo sul contenuto di tali piani porrebbe per le conseguenti modifiche degli strumenti sottordinati. L’indisponibilità e la non negoziabilità dell’interesse pubblico urbanistico è, ovviamente, un ostacolo ancor più evidente, allorché l’interesse medesimo risulti in inscindibile relazione con quello paesaggistico o con altro interesse settoriale, tutelato da una disciplina legislativa che preveda, nelle diverse notorie forme (“sostituzione”, “adeguamento”, “prevalenza”), la 133 P. Urbani (“Pianificare cit.”, 181) sottolinea testualmente: “Premesso che gli accordi pubblico-privato sono propri della pianificazione operativa poiché nello strutturale non vi sono operatori, ritengo che nel piano direttore – e quindi nei suoi diversi ambiti territoriali di trasformazione – debbano essere preventivamente fissate le regole generali della trasformabilità in funzione della soddisfazione del fabbisogno di opere e servizi ... Se torniamo allora alla distinzione prima richiamata tra accordi “attuativi” delle prescrizioni e accordi “sulle” prescrizioni, vediamo che nel nuovo sistema di pianificazione comunale la seconda tipologia di accordi si riduce ai soli casi in cui la pianificazione operativa richieda la variazione dei contenuti dello strutturale, poiché anche quegli accordi che determinano il contenuto effettivo dei piani attuativi possono considerarsi appunto “attuativi” delle scelte poiché le regole fissate negli ambiti territoriali di trasformazione costituiscono già secondo la dottrina “prescrizioni conformative del territorio” considerato. È questo il solo modo per riportare nell’ambito dell’ordinamento urbanistico e delle regole del potere amministrativo l’urbanistica consensuale …”. 80 subordinazione della tutela puramente urbanistica a quella paesaggistica o, comunque, peculiare. La disciplina urbanistica per accordi pubblico-privati non può non rappresentare uno strumento eccezionale134, il ricorso al quale deve essere giustificato dalla sua utilità – “rectius”: infungibilità – per l’ottimale perseguimento dell’interesse pubblico. Il che significa, sostanzialmente, che l’accordo è strumento che deve consentire di far assumere al Privato obbligazioni che autoritativamente la P.A. non potrebbe imporgli in base alle competenze alla stessa attribuite (in specie) dalla legislazione urbanistica135. Il che non esclude – è “in re ipsa” – che il Privato possa ottenere delle utilità dall’accordo anche nella forma di diritti soggettivi o di riconoscimento di “ius aedificandi”136. Questa considerazione introduce, con evidenza, l’eventualità che il privato assuma impegni di portata patrimoniale nei confronti della Regione, della Provincia o del Comune, ma non 134 A. Amorth, già nel 1938 in “Osservazioni sui limiti dell’attività amministrativa di diritto privato” (in Arch. giur. dir. pubbl. 1938, in specie 512), ha sottolineato che, allorché la “norma di diritto pubblico amministrativo” è posta a tutela del pubblico interesse, la sostituzione del provvedimento con un accordo non può mai essere (né divenire) un principio generale, chè quest’ultimo resta l’esatto contrario, e cioè l’indisponibilità della funzione, la tipicità dei poteri amministrativi e delle norme di diritto pubblico come precetti “cogenti” ed indisponibili per la P.A.. 135 Cons. St. – sez. VI – 15 maggio 2002 n. 2636 cit.; M. Magri (“Gli accordi cit.”, 556), commentando la sentenza predetta sottolinea testualmente: “Per essere legittimo, dunque, l’accordo integrativo di provvedimento non può essere stipulato per provocare effetti giuridici meramente confermativi di quelli del provvedimento finale, ma deve essere stipulato “al fine di raggiungere un equilibrio nell’assetto degli interessi altrimenti non raggiungibile per via autoritativa”. La sua validità dipende quindi da un giudizio di meritevolezza della sua funzione economico-sociale, che non può mai essere quella di garantire all’amministrazione una posizione soggettiva di vantaggio di cui essa sia già titolare per legge”. 136 G. Sala, “Accordi sul contenuto discrezionale del provvedimento e tutela delle situazioni soggettive” in Dir. Proc. Amm. 1992, 230; S. Giacchetti, “Gli accordi dell’art. 11 della legge 241 del 1990 tra realtà reale e realtà virtuale” in Dir. Amm. 1997, 518 ss.; F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 417. 81 consente di ritenere che l’“interesse pubblico” si possa identificare con (o risolvere nel) la dazione in denaro o in natura (= realizzazione di opere pubbliche). Gli accordi dell’art. 11 L. sul procedimento amministrativo e, comunque, quelli urbanistici, che si dovessero ispirare quanto meno alla stessa “ratio”, dovrebbero rimanere patti137 e, in ogni caso, non potrebbero diventare – anche solo nella sostanzialità del fenomeno – “contratti a prestazioni corrispettive” (il Comune si impegna ad una variazione della disciplina urbanistica e il privato, a fronte dell’approvazione di questa, si obbliga a versare denaro o realizzare opere)138. Il vantaggio economico-patrimoniale del Comune, che non è elemento essenziale dell’accordo, può (e deve) essere un fattore ulteriore, che può anche contribuire a determinare la rilevanza dell’interesse pubblico, giustificativo dell’accordo, ma 137 Non priva di suggestione è anche la tesi dell’accordo “de quo” come “atto complesso” nell’accezione proposta da A.M. Sandulli (“Manuale cit.”, 659), cioè come atto nel quale “convergono e si uniscono interessi coordinati in atteggiamento di cooperazione” (là dove, nel contratto, si incontrano “interessi oggettivamente contrapposti”. 138 Contra M. Magri (“Gli accordi cit.”, 574-575) parla di “struttura corrispettiva”, così esprimendosi: “Il vantaggio attribuito al privato con l’accordo non va confuso con i diritti e le facoltà originariamente spettanti al proprietario, verso cui la funzione dell’ente locale si potrebbe esercitare con l’apposizione di un limite di diritto pubblico. Si tratta invero della semplice remunerazione della controprestazione di attività di interesse pubblico appena descritte e che si perfeziona con l’atto di consenso alla proposta del privato, da parte dell’amministrazione”. Se è consentita un’obiezione, lascia più che perplessi la distinzione tra situazioni giuridiche soggettive soggette a limiti di diritto pubblico e “attività di interesse pubblico svolte dal privato” e oggetto dell’accordo in questione. Quest’ultimo, infatti, può ben riguardare i diritti del privato assoggettabili a limiti di diritto pubblico e non si traduce, come sembra prefigurare l’Autore in questione, nella creazione di un nesso sinallagmatico tra utilità del privato e prestazione da parte di questi di attività di interesse pubblico. La funzione dell’accordo urbanistico previsto dall’art. 18 della legge regionale in commento è quello di poter rendere realizzabili “progetti ed iniziative di rilevante interesse per la collettività locale”, cosicchè l’accordo medesimo ha una causa illecita (art. 1418 c.c.) se non è funzionale a tale interesse pubblico. Fermo questo, l’equilibrato contemperamento tra l’interesse pubblico e quello privato non ha una logica corrispettiva, ma assolutamente funzionale. Il che impedisce il “contratto di scambio”, mentre consente l’intesa “consortile”, cioè quell’intesa, che giustifichi la sinergia volontariamente definita e codificata. 82 non può costituirlo “ex se” e in via esclusiva. È necessario che l’Ente pubblico abbia interesse all’accordo perché il medesimo consenta di realizzare una previsione urbanistica altrimenti non concretizzabile139, quali, ad esempio, vincoli di inedificabilità a tempo indeterminato, imposizioni di oneri di fare per la manutenzione di spazi verdi o destinati ad uso pubblico, realizzazione di un fabbisogno di standard in eccesso rispetto al singolo intervento e, più in generale, prestazioni lecite (art. 1418 cod. civ.), ma non imponibili in via autoritativa, mediante il loro inserimento in uno strumento urbanistico140. Al contrario, non si potrebbe ricorrere all’accordo urbanistico privato-pubblico “de quo” per il solo fatto che in tal modo il privato contraente si obbligherebbe a versare una somma rilevante o a costruire un impianto pubblico. Un simile accordo, infatti, contrattualizzerebbe “tout court” l’interesse pubblico-urbanistico e sarebbe nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c.. 139 Sempre sulla scia e a commento della già menzionata decisione della sez. VI del Consiglio di Stato n. 2636 del 15 maggio 2002, M. Magri (“Gli accordi cit.”, 556) annota: “… il contenuto del provvedimento finale deve avere … un ulteriore requisito: essere “controverso o controvertibile”, o contenere “clausole che, in difetto di accordo, non sarebbero facilmente accettate dal privato” … La “prevenzione del contenzioso” diviene così un elemento costitutivo della contrattualità amministrativa: l’accordo integrativo di provvedimento ha la sostanza di un negozio sostitutivo di clausole che, in difetto di accettazione, sarebbero illegittime o inefficaci nei confronti del privato contraente. Non si tratta quindi di un atto costituente esercizio del potere amministrativo discrezionale, ma di un atto con cui l’amministrazione mette in gioco quel potere per costituire a proprio vantaggio (a vantaggio della collettività) posizioni soggettive ulteriori, che altrimenti l’amministrazione stessa non riuscirebbe mai a far valere attraverso l’attuazione (ancorché politica o discrezionale) della norma di diritto pubblico”. 140 Così anche M. Magri (“Gli accordi cit.”, 562), che, altresì, afferma: “… lo stesso ius aedificandi, nella logica di un accordo, non viene in considerazione nella sua veste di attributo originario del diritto di proprietà …, ma diventa piuttosto la remunerazione di vantaggi pubblici o di prestazioni del privato di interesse sociale “comunitario” (“il rilevante interesse per la comunità locale”), che rappresentano il vero risultato pratico o, se si preferisce, la “causa” dell’accordo medesimo …”. 83 Le considerazioni svolte, se condivise, evidenziano un’ulteriore esigenza, cui il legislatore regionale dovrebbe dare risposta: l’obbligo di motivazione in ordine all’esistenza del (rilevante) interesse pubblico dovrebbe essere sancito in termini analitici, indicando gli elementi su cui può fondarsi l’accordo ed imponendo la specifica illustrazione degli stessi; e tra questi non potrebbe mancare – come prima precisato – anche l’illustrazione dell’indispensabilità del ricorso all’accordo – in alternativa (per certo verso, obbligata) agli ordinari procedimenti pianificatori – per la soddisfazione dell’interesse pubblico141. Prima ancora e pregiudizialmente, il legislatore regionale dovrebbe farsi carico di definire tassativamente non solo gli strumenti urbanistici, il cui contenuto può essere oggetto degli accordi “de quibus”, ma anche quali materie trattate dagli strumenti medesimi siano suscettibili di definizione consensuale142. È, questa, un’esigenza fondamentale, se si vuole valorizzare la consensualità nell’ambito urbanistico e non consentire che la stessa divenga un (ulteriore) “cavallo di Troia” nella deregolamentazione di fatto, da più parti lamentata. 141 Del resto, è noto che l’A.P. del Consiglio di Stato (22 dicembre 1999 n. 24 in C. St. 1999, I, 2909) ha riconosciuto l’obbligo di motivazione degli atti normativi e generali, allorché la decisione implichi una ponderazione di interessi non più “indifferente” rispetto a specifiche posizioni soggettive. 142 P. Urbani (“Pianificare cit.”, 181) ricorda che “la dottrina ha puntato il dito proprio sulla mancanza di regole preventive nel determinare l’oggetto degli accordi di scambio: gli accordi – si dice – non sono in alternativa al potere amministrativo, ma anzi le condizioni della loro ammissibilità vanno definite alla stregua delle norme dettate per l’esercizio del potere”. 84 D’altra parte, se vorrà superare le ragioni costituzionali (artt. 3, 9, 32, 97 Cost.) e la “ratio” del divieto sancito dall’art. 13 L. 7 agosto 1990 n. 241, il legislatore regionale non potrà omettere né una disciplina specifica dell’accesso all’accordo, della sua pubblicità con particolare riferimento ai controinteressati (se individuabili), del contraddittorio specifico sull’accordo medesimo, né una precisa regolamentazione procedimentale143. Tutto questo è, peraltro, imposto pure dalla funzione dell’accordo “de quo”, che è (e deve essere) uno strumento di perseguimento dell’interesse pubblico, cioè di esercizio dell’attività di amministrazione attiva e che, per questo, non può essere sottratto alla disciplina di quest’ultima. Come sostiene un’autorevole dottrina144, infatti, il solo fatto della contrattazione tra il privato e l’amministrazione non contrasta con il principio della doverosità per la parte pubblica di perseguire la finalità pubblica, mentre il contrasto può emergere fino al limite dell’illiceità (e non della mera illegittimità), allorché non sia rispettato il c.d. vincolo di scopo o l’imparzialità delle scelte amministrative. Sotto questo profilo, riemerge l’importanza del momento del recepimento definitivo dell’accordo e della motivazione del 143 Sul punto, sia consentito di richiamare Cons. St. – sez. VI – 15 maggio 2002 n. 2636 cit.. Nella motivazione si afferma testualmente che l’esito negoziale “… è un possibile epilogo di una vicenda partecipativa e comunque di un procedimento già iniziato … per cui può senz’altro dirsi che non possono concludersi accordi al di fuori e prima dell’avvio del procedimento e che non siano espressione della partecipazione procedimentale tesa a stabilire nel caso concreto quale sia l’interesse pubblico”. M. Magri (“Gli accordi cit.”, 557) sottolinea: “L’interesse del privato e quello dell’amministrazione, perseguito con l’accordo, non preesistono al procedimento ma trovano nella partecipazione il loro momento di composizione e di emersione, quali interessi giuridicamente protetti e meritevoli di tutela”. 144 F.G. Scoca, “Gli accordi cit.”, 414. 85 recepimento medesimo, nel senso che non potrà dirsi rispettato il c.d. vincolo di scopo se la scelta provvedimentale, a causa del condizionamento dell’accordo, si tradurrà in una decisione provvedimentale non bilanciata anche, ad esempio, rispetto agli interessi superindividuali e agli altri interessi coinvolti nella fattispecie, per quanto eventualmente non tutelati attraverso l’intervento nel procedimento o come meglio145. Un’ultima annotazione appare, quanto meno, opportuna. La disciplina legislativa regionale degli accordi urbanistici in esame dovrà comprendere anche la regolamentazione del c.d. “ius variandi”. Questa esigenza vale per tutte le ipotesi di accordi relativi al contenuto di strumenti urbanistici, ma è peculiarmente evidente per le previsioni di strumenti urbanistici generali, il cui recepimento sia stata conseguenza di accordi, “pubblico-privati” (nell’accezione qui considerata), (ovviamente semprechè l’ipotesi convenzionale relativa agli strumenti generali venga introdotta dal singolo legislatore regionale). Più che mai nella fattispecie or ora richiamata, infatti, il recepimento del contenuto dell’accordo e la sua trasfusione in uno dei predetti strumenti pianificatori generali non possono, all’evidenza, comportare l’immodificabilità di questi ultimi “in parte qua”. Ed in effetti: da un lato, la competenza pubblica non 145 Diversa è, tra gli altri, la posizione di C. Maviglia (“Accordi con l’amministrazione pubblica e disciplina del rapporto”, Milano 2002, 72 ss.), che, nella prospettiva della concezione privatistica degli accordi disciplinati dal più volte menzionato art. 11, sostiene, in particolare (pg. 85), che “… l’interesse pubblico rileva nei termini di una corrispondenza alle astratte finalità istituzionali e dunque in termini pienamente compatibili con una struttura contrattualprivatistica degli accordi”. 86 viene – in virtù dell’accordo medesimo – né rinunciata, né estinta; dall’altro, l’evoluzione delle situazioni può comportare che il perseguimento dell’interesse primario urbanistico comporti la modificazione della statuizione pianificatoria generale recepita in base all’accordo. Non di meno, “prima facie”, la particolare “fonte” della norma urbanistica “de qua”, anche in considerazione degli obblighi che possono gravare sul contraente privato, sembra attribuire una peculiare configurazione giuridica della previsione medesima. Di conseguenza non è dato – “a priori” – di escludere che tale configurazione abbia riflessi (almeno) sull’ampiezza del potere di variazione unilaterale della stessa previsione da parte della P.A.. Al riguardo, sembra possibile evidenziare, senza perplessità, che “la peculiare configurazione giuridica della previsione medesima”, di cui si è or ora fatto cenno, non è da ricollegare alla disciplina dettata dall’art. 11 L. 7 agosto 1990 n. 241 s.m.i. per il recesso dagli accordi tra privati e P.A.. Con il recepimento del contenuto e con la trasfusione di quest’ultimo nello strumento urbanistico, l’accordo urbanistico esaurisce i propri effetti, almeno per quanto riguarda la P.A., con la conseguenza che eventuali successive decisioni, che avessero a modificare le norme frutto dell’accordo, non configurerebbero un recesso ai sensi del IV comma dell’art. 11 or ora citato. 87 Il recesso normato da quest’ultima disposizione legislativa, infatti, è riferibile solo all’avvenuta mancata “provvedimentalizzazione” del contenuto dell’accordo e non può riguardare l’eventuale, successiva, “de- provvedimentalizzazione”146. Quest’ultima sarebbe il frutto di un nuovo, distinto, autonomo e discrezionale esercizio della competenza pubblica urbanistica, che proprio per questo non può essere considerata un’ipotesi di recesso dall’accordo, riguardante – sempre e solo – (una parte di) un provvedimento, cioè un singolo esercizio di una “potestas publica”, né, tanto meno, di inadempimento rispetto agli “obblighi” assunti con l’accordo medesimo. Diversamente, l’accordo “de quo” assumerebbe un’efficacia – e, quindi, una portata giuridica – abnorme, tale da renderlo costituzionalmente non ammissibile, non foss’altro per l’incidenza che avrebbe sui caratteri peculiari della funzione amministrativa e urbanistica e sulla sua autonoma e discrezionale esercitabilità da parte della P.A.. Con tutto questo, però, rimane innegabile che il recepimento dell’accordo e la sua trasfusione nel provvedimento urbanistico non può non comportare il determinarsi, in capo al soggetto privato (parte “contraente” dell’accordo), di un’aspettativa giuridicamente tutelata alla vigenza della previsione urbanistica, originata dall’accordo urbanistico, per il tempo di legge e, 146 La variante di uno strumento urbanistico, infatti, non è un atto di secondo grado o di autotutela, ma è esercizio “ex novo” della competenza urbanistica. 88 comunque, per un lasso temporale utile per il suo utilizzo ad opera della predetta parte privata. Come si è visto, infatti, gli accordi in questione si giustificano – peculiarmente – per l’assunzione, ad opera dei “contraenti” terzi rispetto alla P.A., titolari della esercitanda competenza amministrativa provvedimentale, di oneri (in senso lato) agli stessi non imponibili unilateralmente dalle Amministrazioni Pubbliche. Or bene, è di tutta evidenza che il privato si sacrifica per il vantaggio che ritiene di poter ottenere dalla disciplina urbanistica concordata, cosicchè in buona fede (il privato medesimo) si aspetta di poter approfittare di quest’ultima. Da questa premessa deriva, con chiarezza, l’aspettativa giuridicamente tutelata alla vigenza della disposizione frutto dell’accordo; aspettativa di cui, per quanto or ora accennato, non può ritenersi titolare la parte inadempiente rispetto alle obbligazioni assunte con l’accordo stesso. L’inadempimento del privato, infatti, ferme le azioni civili, toglie ogni dignità giuridica alla suddescritta aspettativa ed elimina ogni elemento discretivo delle statuizioni, frutto dell’accordo urbanistico rispetto alle altre statuizioni. Or bene, su queste basi, esclusa la tesi dell’immodificabilità delle prescrizioni urbanistiche “concordatarie”, ci si deve chiedere se la soluzione legislativa per il c.d. “ius variandi” possa essere rappresentata dall’applicazione del noto principio giurisprudenziale relativo all’obbligo della motivazione, specifica 89 e puntuale, che consente di comprendere (e sindacare) le ragioni poste a base delle modificazioni di preesistenti previsioni urbanistiche riguardanti aree interessate da piani urbanistici attuativi convenzionati. In linea di principio, la risposta sembra dover essere positiva (subito sottolineandosi – sia pure incidentalmente – come questa soluzione rappresenti un’oggettiva novità, recandomi estensione del principio (dell’obbligo) della motivazione, che, in campo urbanistico, ha ancora spazi più che angusti). Non di meno, deve evidenziarsi che il futuro legislatore dovrà tener conto del diverso rilievo e della differente prevalenza che l’interesse pubblico primario riveste nell’ambito della pianificazione urbanistica generale rispetto a quello suo proprio nel contesto pianificatorio attuativo. È evidente, infatti, che la perseguibilità dell’interesse pubblico primario urbanistico, nell’esercizio del c.d. “ius variandi” di scelte pianificatorie generali, giustificherà la modificazione delle scelte pianificatorie, frutto dell’accordo “pubblico-privato”, (solo) quando verrà dimostrato che la nuova disciplina consente la migliore soddisfazione dell’interesse urbanistico147. In altre parole, come già più volte ribadito, l’accordo “de quo” non può rendere più difficoltoso il successivo esercizio della competenza pianificatoria e la tutela della parte “contraente” non può che essere data dalla necessità che la P.A. dimostri 147 Foss’anche in ragione di una diversa analisi del contesto di riferimento, magari per la (ri-) valutazione di un concorrente interesse ambientale o paesaggistico, pur già esistente. 90 l’attualità della misura modificativa per il miglior perseguimento dell’interesse pubblico urbanistico. In differente ipotesi, l’accordo avrebbe l’effetto “contra ius” di creare disequilibrio rispetto alla variazione delle scelte urbanistiche generali tra le posizioni di chi ha sottoscritto l’accordo e degli altri soggetti dell’ordinamento. Il che non può ammettersi, mentre l’affidamento creato dalla decisione della P.A. di trasfondere l’accordo nello strumento urbanistico generale non può assumere una consistenza tale da costringere ad una valutazione di prevalenza tra interesse pubblico ed interesse privato. Può solamente, come è richiesto per le varianti urbanistiche relative ad aree interessate da piani convenzionati148, escludere la “latissima discrezionalità”, tipica della competenza pianificatoria urbanistica anche “in variante”, in ragione della quale non viene sancito – di norma – l’obbligo di puntuale motivazione delle varianti agli strumenti urbanistici generali. L’obbligo di motivazione, pertanto, costituisce la giusta “sanzione” (“rectius”: il giusto mezzo). Nel contesto dato, sulla base delle premesse illustrate, la motivazione dovrà dell’interesse strumento essere incentrata sulla sussistenza pubblico primario alla modificazione dello urbanistico generale con superamento delle prescrizioni frutto dell’accordo, non già sulla prevalenza di 148 Cons. St. – sez. IV – 29.09.1997 n. 1024 in F.A. 1997, 2292. 91 questo rispetto all’interesse privato al mantenimento della disciplina previgente. Nel caso di specie, infatti, la relativa aspettativa del privato può e deve trovare tutela, alla luce del principio di imparzialità (art. 97 Cost.), solo in subordine alla peculiare congruità ed attualità dell’interesse pubblico primario che giustifica la variante “abrogativa”. Diversamente, con attenzione alle modificazioni indotte dalla cura di interessi paesaggistici e/o ambientali, sembra necessario distinguere tra l’ipotesi di decisione assunta dal titolare della competenza urbanistica e quella di determinazione di altra Autorità, che prevalga automaticamente o che obblighi all’adeguamento “vincolato” degli strumenti urbanistici. Nel primo caso, l’obbligo motivazionale, come sopra specificato, resta sussistente nei termini suindicati; nel secondo caso no, perché il provvedimento è di competenza di distinta Autorità e riguarda un ambito di cura degli interessi pubblici, i quali non possono, separatamente considerati, essere ritenuti “condizionati” dalla predetta aspettativa giuridicamente tutelata. Quest’ultima, infatti, è sorta e ha rilievo solo in riferimento ad altra competenza e ad altro ambito. Di converso, per le modificazioni di previsioni urbanistiche attuative frutto dell’accordo urbanistico, non sembrano sussistere motivi per non ritenere recepibile legislativamente (ed anche applicabile in via analogica) il più volte richiamato 92 principio giurisprudenziale della “specifica motivazione” volta ad evidenziare sia le ragioni di pubblico interesse alla base del mutamento della disciplina urbanistica, sia i motivi di prevalenza dell’interesse pubblico rispetto alle aspettative dei privati sorte dal precedente strumento urbanistico149. Fin ultroneo, peraltro, osservare che la disciplina del c.d. “ius variandi”, così come, più generalmente, la regolamentazione degli accordi “pubblico-privati” in materia urbanistica cadranno “in desuetudine” sul piano del diritto vivente, qualora l’orientamento giurisprudenziale non avesse a caratterizzarsi per un sindacato intrinseco, sia pure nei limiti della giurisdizione di legittimità, della motivazione degli atti di “provvedimentalizzazione” o di “deprovvedimentalizzazione” (nel senso prima descritto) degli accordi urbanistici stessi. Un sindacato meramente formalistico, infatti, o il prevalere di un orientamento favorevole alla sufficienza di una motivazione “di stile” consentiranno prassi contrarie allo spirito dell’introduzione degli accordi pubblico-privato nell’ordinamento settoriale urbanistico, così come attualmente strutturato normativamente. E l’effetto finirà per essere la riduzione del sistema pianificatorio ad un simulacro di pianificazione: un contesto privo di chiarezza, che il giurista non può condividere. 149 Cons. St. – sez. IV – 29 settembre 1997 n. 1024 cit.. 93