ANATOMIA
DI
UN
SOGNO
(
La
Repubblica
Romana
)
PRESENTAZIONE
Il letterato e saggista Claudio Prili, presenta “LA REPUBBLICA ROMANA” inquadrata
magnificamente nel suo periodo storico e con questo lavoro, condotto con competenza
fluida e piacevole, offre ai lettori uno scorcio del suo nobile animo, con i diversi aspetti
caratteriali e personali.
Nel testo vengono descritte con perizia le vicende in passaggi di ore, fino al momento
della totale resa della Repubblica; un tipico saggio dove le pagine brillantemente scritte
danno brio allo sfondo di una Roma sottomessa alla dittatura papale e di conseguenza
francese.
Una vigoria attiva, appassionante e didascalica comanda su tutta la registrazione storica,
quest’ultima altamente realistica, dove figure infelici precipitano nell’abiezione del nemico.
La lettura è espressiva, umana e piacevole: piccoli eroi, che purtroppo non hanno trovato
nella Storia giusta collocazione, in noi si immergono grazie al metodo brillante ben
prefissato dell’autore.
Questa narrazione di Claudio Prili è assai articolata, ma soprattutto utile ed interessante; è
possibile identificarla come una guida efficace e sicuramente corretta per la didattica
odierna, infatti con saggezza vengono intrecciati errori, debolezze e deficienze storiche,
nonché consensi e plausi sfrondati, sempre con distacco obiettivo.
“LA REPUBBLICA ROMANA” è senza dubbio un elaborato pregevole, la cui suggestione è
accresciuta dal contatto fisico/morale dell’autore con la città natia, quella città che, in
quell’obsoleto periodo, fu assoggettata al patrizio snobismo conservatore.
Dal primo capitolo, all’ultimo, questo diario è indiscutibilmente un atto d’amore non solo
per l’amata città natia, ma soprattutto è generato dall’interesse dell’autore per quello
specifico arco storico-temporale, reso in primis famoso e poi, forse, volutamente
dimenticato.
Con spigliata semplicità stilistica e venature ironiche, lo scrittore si assume l’incarico di
presentare nitidi acquarelli, cari ed apprezzati dai veri amatori degli eventi romani
risorgimentali, non privi di impressionismo romantico, che rende affascinante la
rievocazione letteraria di veri e propri eventi bellici.
Una serie di scene vivissime ed ispirate, dunque, mostrano la qualità principale di Claudio
Prili: essere un arguto indagatore satirico e, al tempo stesso psicologico, dello spirito
umano, capace di registrare le impressioni e i comportamenti della popolazione, in fasi
predominanti dell’intera vicenda, dalla lotta, all’annunzio di un regime liberatorio.
Dell’intero operato letterario di Prili, la “Repubblica” costituisce senz’altro la relazione più
sentita dall’autore che, nella stesura, intesse un vero e proprio colloquio coi “fratelli
romani” morti, permettendo al lettore di conoscere il palcoscenico su cui si recita il
racconto, nonché la chiara verità circa le gesta che hanno reso possibile la vittoria
sull’ingiustizia e la prepotenza sociale.
Dunque queste pagine, e l’aedo stesso, si offrono come una sterile espiazione, in
rievocazione della barbara sconfitta e innescano il pensiero del fruitore verso una specifica
chiave di meditazione ed educazione sentimentale.
Il titolo esprime chiaramente il contenuto del romanzo/cronaca, intensamente antropico,
protetto dalla sintesi del sogno/desiderio, in cui le vicende riportate toccano il cuore in
maniera indimenticabile, anche grazie alla presenza di figure di alto rilievo, quali quelle
della giovane Colomba Antonietti e del dodicenne Righetto.
Non di meno sono presentati, con adeguata tramatura, gli artefici di questo splendido
rinnovamento romano.
Lo scrivente apre il racconto con la descrizione del passaggio del potere papale tra le
Santità Gregorio XVI e Pio IX, intensificando la copiosa e palpitante narrazione con
compendi tratti da notevoli bibliografie; il tutto viene affrontato con filantropia (“e quanno
me perdonerebbe Iddio ?”) e versi poetici romaneschi, sempre in grado di polverizzare le
angherie, e le malinconie, a discapito della povera plebe.
E’ questo un racconto sagace, che offre l’amara visione di un periodo bellicoso ma
romantico, dove la conclusione dell’opera riaccende la luce della fiducia e della speranza
sugli alti valori umani.
dott.ssa Pasqualina Genovese D’Orazio
Questa
è
una
storia
che
i
tesA
scolasAci
hanno
da
sempre
liquidato
in
pochissime
righe.
La
storia di
una
straordinaria
esperienza,
di
aH
di
eroismo,
di
patrioA
che
hanno
donato
la
vita
per
difendere
la
conquistata
libertà
di
un
popolo
asfissiato
dal
giogo
Papalino.
Le
ragioni
di
chi
orgogliosamente
ha
alzato
la
testa per
resAtuire
una
nuova dignità
alla CiOà
Eterna
dopo
secoli
di
oOusità e
di
immobilismo
dello
Stato
più
conservatore
d’Europa.
Una
storia
scriOa
come
sempre
dalla
gente
:
uomini,
donne,
bambini
romani
che
combaOono
fianco
a
fianco,
strada
per
strada.
Garibaldini
e
bersaglieri,
scienziaA
e
analfabeA,
volontari
accorsi
da
tuOa
Italia
e
dall’Europa
in
difesa
della Repubblica.
Una
storia
di
speranze
tradite,
di
voltafaccia,
di
ideali
che
sono
sopravvissuA
a
chi
decise
di
spegnerli
nel
sangue,
la
storia
di
un
seme
che
ha
generato
l’aOuale
CosAtuzione
Italiana.
L’Autore
CAPITOLO
I
Il
primo
Giugno
1846
morì
Papa
Gregorio
XVI
lasciando
lo
Stato
PonAficio
in
una
condizione
di
arretratezza
sociale,
di
conservazione
di
privilegi,
di
miseria
diffusa
nelle
classi
più
deboli,
che
non
trovava
eguali
nel
resto
della
Penisola.
In
questo
pessimo
clima
sociale,
il
Cardinale
Giovanni
Mastai
FerreH
da
Senigallia
divenne
Papa
assumendo
il
nome
di
Pio
IX
.
Il
conclave
si
aprì
il
14.6.1846
alla
presenza
di
49
cardinali
su
79
e
soltanto
dopo
quaOro
scruAni
venne
eleOo
il
nuovo
Pontefice.
Tanta
freOa
era
giusAficata dall’intenzione
di
impedire
che
il
Cardinale
austriaco
Gaysruch
arrivasse
a
Roma
in
tempo
per
imporre
la
volontà
del
suo
Imperatore
a
cui
avrebbe
diplomaAcamente
faOo
molto
comodo
un
connazionale
a
San
Pietro.
L’Europa
intera
viveva
un’atmosfera
complessivamente
instabile
ed
incerta,
dopo
che
aveva
cercato
di
rimediare
nel
modo
peggiore
a
quel
ciclone
di
nome
Napoleone,
con
il
Congresso
di
Vienna
che
aveva
prodoOo
una
linea
di
condoOa
generale
riassumibile
nel
termine
“restaurazione”,
termine
assai
difficile
da
ingoiare
per
chiunque
anelasse
ideali
di
democrazia
.
Pio
IX,
cosciente
di
questa situazione,
opportunamente
decise
di
dare
alla sua
poliAca
una
pronunciata
impronta
riformista
e
tuOo
questo
mise
involontariamente
in
moto
un
meccanismo
che
avrebbe
portato
a
quella
esperienza
formidabile
quanto
effimera,
chiamata
Repubblica
Romana.
L’inizio
del
suo
Papato
venne
caraOerizzato
dall’amnisAa per
tuH
i
prigionieri
poliAci,
concessa
soltanto
un
mese
dopo
il
suo
insediamento
e
da
un
pensiero
che
rafforzò
non
poco
le
speranze
di
chi
desiderava
l’unità
d’Italia,
l’idea
di
un
unico
Stato
che
coagulasse
l’intera
penisola
soOo
la
guida
del
Papa
stesso.
SoOo
il
ponAficato
di
Pio
IX
si
diede
inizio
alla
costruzione
di
ferrovie,
ad
una
serie
di
opere
pubbliche
con
lo
scopo
di
ridurre
la
disoccupazione
che
cosAtuiva una delle
principali
ragioni
di
una
criminalità
diffusissima.
Nelle
classi
più
deboli
nacque
l’illusione
di
risolvere
in
tuOa
freOa
problemi
che
si
trascinavano
da
secoli
e
quindi
proprio
queste
classi
sociali
furono
le
prime
ad
essere
deluse
e
tradite
da
una poliAca
economica
che,
pur
lungimirante,
si
rivelò
comunque
insufficiente
a
fermare
una
crisi
che
maturava
da
anni.
TuOavia
a Roma
si
respirava
in
quel
periodo
un’aria diversa,
più
leggera,
il
fermento
che
solitamente
si
accompagna
al
preludio
di
cambiamenA
epocali.
In
questo
caso
aveva
un
nome
che
gonfiava
i
cuori
di
tuH
i
patrioA:
l’Indipendenza
dell’Italia.
Quando
poi
Pio
IX
decise
nel
marzo
1847
di
inviare
truppe
PonAficie
al
comando
del
generale
Ferrari
per
sostenere
Carlo
Alberto
che
aveva in
quei
giorni
dichiarato
guerra all’Austria,
sembrò
che
finalmente
il
momento
tanto
aOeso
fosse
giunto.
Di
lì
a
poco,
tuH
invece
si
resero
conto
che
proprio
in
quei
giorni
si
sarebbe
verificata la
spaccatura insanabile
tra
il
Papa
ed
il
popolo
romano.
Una
spaccatura che
sarebbe
sfociata
qualche
mese
dopo
negli
evenA
splendidi
e
sanguinosi
della
Repubblica
Romana.
Realizzato
che
le
truppe
ponAficie
erano
state
inviate
contro
l’esercito
di
uno
Stato
caOolico
e,
parAcolare
non
trascurabile,
estremamente
potente,
Pio
IX
fece
un
passo
indietro
che
storicamente
segnò
il
suo
cocente
tradimento
alla
causa
dell’unità
nazionale.
Il
29
Aprile
1848,
nella
sua
forse
più
famosa
allocuzione,
Papa
Mastai‐FerreH
fece
ufficialmente
marcia
indietro,
rifiutando
qualunque
partecipazione
alla
guerra
contro
l’Austria.
“
Ai
nostri
solda,,
manda,
ai
confini
del
dominio
pon,ficio,
non
volemmo
che
s’imponesse
altro,
sennonché
difendessero
l’integrità
e
la
sicurezza
dello
Stato
pon,ficio.
Ma
conciossiacosachè
ora
alcuni
desiderino,
che
Noi
altresì
con
altri
popoli
e
principi
d’Italia
prendiamo
guerra
contro
gli
Austriaci,
giudicammo
conveniente
di
palesar
chiaro…che
ciò
si
dilunga
del
tuEo
dai
nostri
consigli,
essendochè
Noi…abbracciamo
tuEe
le
gen,,
popoli
e
nazioni
con
pari
studio
e
paternale
amore”.
Informato
dell’allocuzione
del
29
aprile,
l’esercito
ponAficio
decise
di
non
ubbidire
al
Papa
e
rimase
a
svolgere
l’incarico
affidatogli
:
coprire
le
ciOà
libere
del
Veneto,
appoggiandosi
alla solida
roccaforte
di
Venezia,
governata
da
Manin.
Daniele
Manin
Daniele
Manin,
nato
a
Venezia
il
13
maggio
1804,
era
il
terzogenito
di
Pietro
e
Anna
Maria
BelloEo.
La
famiglia
Manin
aveva
ascendenze
israeli,che.
Fu
infaS
il
nonno
Samuele
Medina,
di
origini
veronesi,
a
conver,rsi
con
la
moglie
Allegra
Moravia,
assumendo
nome
e
cognome
del
padrino
di
baEesimo,
il
noto
Ludovico
Manin,
ul,mo
doge
della
Repubblica
di
Venezia.
OEenuta
la
laurea
in
Giurisprudenza
a
Padova
nel
1821,
si
dedicò
all’aSvità
forense
nella
ciEà
na,a.
Nel
1824
sposò
Teresa
PerissinoS,
appartenente
ad
una
famiglia
aristocra,ca
veneziana
con
ampie
proprietà
terriere
a
Venezia
e
nel
trevisano.
Imprigionato
nelle
carceri
austriache
per
la
sua
aSvità
patrioSca,
fu
liberato
a
furor
di
popolo
il
17.3.1848
assieme
all’altro
patriota
Nicolò
Tommaseo.
Alla
successiva
proclamazione
della
Repubblica
di
San
Marco
ne
fu
eleEo
Presidente
e,
durante
l’assedio
della
ciEà
nel
1848‐1849,
diede
grande
prova
di
intelligenza,
coraggio
e
fermezza.
Contribuì
inoltre
a
fondare
la
Società
Nazionale
Italiana.
CostreEo
all’esilio
dal
ritorno
degli
austriaci,
visse
poi
a
Parigi
dando
lezioni
di
lingua
italiana
e
conservando
intaEo
l’amore
per
la
patria
veneta.
Morì
esule
a
Parigi
il
22
seEembre
1857.
“Er
sordato
pon,ficio”
Ciò
‘na
fame
che
propio
nun
ce
vedo
e
li
piedi
gonfi
come
du’
zzampogne,
so’
venuto
‘n
Veneto
perché
ce
credo
che
è
ora
de
scalà
‘ste
du’
montaggne.
L’austriaci
se
ne
deveno
annà
a
casa,
‘sta
nazzione
mia
dovrà
nasce
prima
o
poi,
co’
‘st’idea
che
soEo
soEo
nu’
riposa
perché
l’Itaija
la
dovemo
guidà
noi.
E
‘nvece
poi
me
dicheno
de
bboEo
che
abbisogna
fa’
finta
de
ggnente,
che
puro
‘n
austriaco
cià
Gesù
ner
peEo
e
che
‘n
ze
po’
ammazza’
‘sta
bruEa
ggente.
Sarebbe
mejo
e
‘n
domani
ancor
più
bello
arivortasse
contro
er
sangue
mio
?
,
tajà
la
gola
puro
a
mi
fratello…
e
quanno
me
perdonerebbe
Iddio
?
Perciò
sai
che
te
dico
Papa
bbono?,
te
dico
che
diserto
e
bbonasera,
dovrei
infirzà
la
panza
de
‘n
romano?
vorà
ddì
che
inizzio
‘n’artra
guera!.
Quella
che
sarebbe
meno
strana
de
questa
che
me
sembra
‘na
pazzia,
loEerò
pe’
la
Repubblica
Romana,
morirò
pe’
difenne
casa
mia!.
TuOavia,
l’esercito
ponAficio
non
poté
mai
contare
sui
notevoli
rinforzi
(
16.000
uomini
)
inviaA
dal
Regno
delle
Due
Sicilie
che
pure
avevano
già
raggiunto
il
Po
ed
erano
in
procinto
di
entrare
in
Veneto.
Proprio
al
passaggio
del
fiume,
a
quel
massiccio
corpo
di
spedizione
venne
noAficato
l’ordine
di
Ferdinando
II
di
Borbone
di
rientrare
a
Napoli.
Rifiutò
l’ordine
solo
il
generale
Guglielmo
Pepe,
grande
patriota,
che
riuscì
a
raggiungere
Venezia
ove
gli
venne
affidato
il
comando
supremo
delle
truppe
e,
pur
offrendo
uno
splendido
contributo
lungo
l’intero
assedio
della
ciOà,
di
faOo
non
riuscì
mai
ad
affiancare
le
truppe
ponAficie
guidate
da
Giovanni
Durando.
Giovanni
Durando
Nasce
a
Mondovì
il
23.6.1804.
Fratello
del
patriota
Giacomo
Durando
e
del
beato
Marcantonio
Durando.
Suddito
sardo,
l’11
aprile
1822
entrò
tra
le
guardie
del
corpo
di
ViEorio
Emanuele
I
di
Savoia,
diventando
soEotenente
nel
1826.
Di
orientamento
liberale
moderato,
partecipò
ai
mo,
rivoluzionari
in
Piemonte
del
1831,
in
seguito
ai
quali
fu
costreEo
a
rifugiarsi
all’estero
assieme
al
fratello
Giacomo.
Prestò
servizio
nella
legione
straniera
belga
in
qualità
di
soEotenente
(1832),
combaEé
in
Portogallo
al
servizio
di
don
Pedro,
in
qualità
di
capitano
dei
Cacciatori
di
Oporto(
1833‐1838)
e
infine
in
Spagna
nella
guerra
contro
i
carlis,
nel
corso
della
quale
oEenne
il
grado
di
Generale.
Rimpatriato
ai
primi
del
1842,
dal
24.3.1848
assunse
il
comando
delle
truppe
pon,ficie
ed
estere
al
servizio
di
Pio
IX,
partecipando
alla
sfortunata
prima
guerra
d’Indipendenza
Italiana.
Impossibilitato
a
contrastare
l’avanzata
delle
truppe
austriache
di
Laval
Nugent,
fu
bloccato
a
Vicenza
e,
sconfessato
da
Pio
IX,
costreEo
alla
resa
in
data
10.6.1848.
Passato
al
servizio
del
Piemonte
e
nominato
aiutante
di
campo
di
Carlo
Alberto,
partecipò
alla
baEaglia
di
Novara
nel
1849
al
comando
di
una
divisione.
Fu
eleEo
deputato
nelle
elezioni
del
1848
e
del
1849.
Giovanni
Durando
morì
a
Firenze
il
29
febbraio
1860.
Il
piccolo
esercito
di
Pio
IX,
dopo
aver
dato
grande
prova
di
coraggio
nel
respingere
a
Vicenza
l’assalto
degli
austriaci
il
cui
esercito
contava
il
doppio
degli
uomini,
inevitabilmente
capitolò
quando
Radetzky
rovesciò
l’intero
fronte
dell’esercito
austriaco
proprio
sul
Veneto.
Il
9
agosto
dello
stesso
anno,
con
l’armisAzio
firmato
a
Milano
dal
generale
Carlo
Canera
di
Salasco
e
dal
generale
H.
Von
Hess,
cessarono
temporaneamente
le
osAlità
tra
piemontesi
ed
austriaci.
Tra
i
patrioA
la
delusione
per
quesA
avvenimenA
fu
enorme,
superata
soltanto
dal
rancore
nei
confronA
di
un
Papa
che
sembrava
voler
addiriOura
incarnare
la
volontà generale
di
unificazione
dell’Italia
e
che,
alla
luce
dei
faH,
si
era
invece
dimostrato
inaffidabile
e
voltafaccia.
Il
15
novembre
1848,
Pellegrino
Rossi,
sessantunenne
di
Carrara
e
Ministro
dell’Interno
dello
Stato
ponAficio,
mentre
saliva
le
scale
del
Palazzo
della
Cancelleria
venne
assassinato
da
un
gruppo
di
popolani
di
cui
faceva
parte
anche
Luigi
BruneH
,
figlio
di
Angelo
deOo
“Ciceruacchio”,
patriota
romano
e
ormai
acceso
rivale
di
quel
Papa
che
l’aveva prima illuso,
per
poi
fargli
ingoiare
la
peggiore
delusione
per
un
patriota che
in
cuor
suo
desiderava
un’Italia
libera
e
indipendente
.
Scoppiò
immediatamente
una
disordinata rivolta
inscenata soOo
il
Palazzo
del
Quirinale.
Pio
IX
si
asserragliò
nel
Palazzo
,
assediato
dal
popolo
romano
che
addiriOura
puntò
un
cannone
in
direzione
della
Sede
Papale.
ViolenA
furono
gli
scontri
con
la
guardia
svizzera ponAficia in
cui
trovò
addiriOura
la
morte
un
Monsignore
addeOo
ai
Sacri
Palazzi.
Convocato
il
corpo
diplomaAco,
Pio
IX
affermò
“
AcceEare
le
loro
condizioni,
sarebbe
per
me
abdicare
ed
io
non
ne
ho
il
diriEo”.
Due
giorni
dopo
convocò
gli
ambasciatori
esteri
ed
a
loro
dichiarò
di
essere
stato
costreOo
a
cedere
alla
violenza
e
che
da
quel
momento
i
suoi
aH
sarebbero
staA
da
considerare
invalidi
a
tuH
gli
effeH.
Indignato,
quasi
incredulo
di
fronte
ad
una
ribellione
che
mai
avrebbe
immaginato
potesse
divampare
così
in
freOa
e
virulenta
in
una
ciOà
da
secoli
rassegnata
e
sonnacchiosa,
il
Papa non
trovò
di
meglio
che
fuggire
vigliaccamente
da
Roma
la
sera
del
24
novembre,
travesAto
da
semplice
sacerdote,
in
una
carrozza
chiusa
ed
accompagnato
da
un
suo
collaboratore
segreto.
Raggiunse
il
conte
Spaur,
ambasciatore
di
Baviera
e,
la
sera
del
25,
giunse
nella
fortezza
di
Gaeta.
Si
pose
soOo
la
protezione
del
Regno
delle
Due
Sicilie,
chiedendo
dopo
alcuni
giorni
l’intervento
delle
potenze
caOoliche
per
ristabilire
l’ordine
a
Roma.
Ormai
al
sicuro,
Pio
IX
rifiutò
fermamente
l’invito
di
due
DeputaA
a rientrare
a
Roma.
Non
concesse
loro
neanche
la
possibilità
di
varcare
il
confine
napoletano,
facendoli
bloccare
a
Portello
dalle
truppe
borboniche.
Involontariamente,
questo
aOeggiamento
fomentò
ancora di
più
gli
animi
dei
mazziniani
che
ormai
ritenevano
matura
la
convocazione
di
un’Assemblea
CosAtuente
dato
che
il
Papa si
era
volontariamente
riArato,
e
con
lui
la
sua
autorità,
in
un
altro
Stato.
Il
21
Gennaio
1849
si
svolsero
a
Roma
le
prime
elezioni
a
suffragio
universale
e,
nonostante
Pio
IX
avesse
vietato
a
tuH
i
“bravi
cris,ani”
di
partecipare
alle
elezioni
minacciando
nei
loro
confronA
addiriOura
la
scomunica,
alle
urne
si
recò
invece
gran
parte
della
popolazione
dello
Stato
PonAficio.
La
CosAtuente
divenne
di
faOo
un’assemblea
rivoluzionaria.
Il
9.2.1849,
a
Palazzo
della
Cancelleria
la
CosAtuente
proclamò
la
nascita
della
Repubblica
Romana
“Il
Papato
è
decaduto
di
faEo
e
di
diriEo
dal
governo
temporale
dello
Stato
Romano.
Il
Pontefice
avrà
tuEe
le
guaren,gie
necessarie
per
l’indipendenza
nell’esercizio
della
sua
potestà
spirituale.
La
forma
del
governo
dello
Stato
Romano
sarà
la
democrazia
pura,
e
prenderà
il
glorioso
nome
di
Repubblica
Romana.
La
Repubblica
Romana
avrà
col
resto
d’Italia
le
relazioni
che
esige
la
nazionalità
comune”.
La gente
si
riversò
nelle
strade
festeggiando
col
tricolore
la
nascita
di
un
sogno
che
durò
soltanto
sino
al
4.7.1849,
lasciando
tuOavia
un’indelebile
impronta
sugli
avvenimenA
che
dodici
anni
più
tardi
avrebbero
faOo
dell’Italia
una
nazione
finalmente
unita.
Il
decreto
portava le
firme
del
presidente
dell’Assemblea
cosAtuente
Giuseppe
GalleH
e
dei
segretari
Giovanni
Pennacchi,
Ariodante
FabreH,
Antonio
Zambianchi
e
Quirico
FilopanA
.
Da
un
manifesAno
stampato
dai
democraAci
con
molta
concitazione,
(
come
si
deduce
dagli
errori
nel
resoconto
della
seduta
)
e
distribuito
in
ciOà
nella
noOe
tra l’8
ed
il
9
febbraio
1849,
subito
dopo
la
proclamazione
della
Repubblica
Romana
:
W
LA
REPUBBLICA
ROMANA
E’
l’una
dopo
la
mezzanoEe,
e
usciamo
in
questo
momento
dalla
sala,
ove
è
stata
adunata
la
Cos,tuente
dalle
undici
an,meridiane.
Chi
potrebbe
descrivere
la
commozione
da
cui
e
noi
tuS
sono
sta,
commossi
!
La
gran
parola
è
stata
pronunciata.
La
Democrazia
ha
vinto.
Dopo
una
discussione
grave,
animata
ma
libera,
coscanziosa,
alle
ore
undici
e
un
quarto
pomeridiane
tra
gli
applausi
del
popolo
affollato
nelle
tribune,
si
è
proclamata
la
Repubblica
Romana,
dopo
d’essersi
dichiarato
la
decadenza
del
potere
temporale
dei
papi.
Di
centoquaranta
Rappresentan,
e
più,
solamente
una
ven,na
è
stata
contraria
alle
ammesse
proposizioni.
(…)
Riserbandoci
dare
a
domani
esteso
ragguaglio
dell’importan,
faS
di
oggi,
terminiamo
come
abbiam
cominciato
col
grido
di
VIVA
LA
REPUBBLICA
ROMANA!.
Il
palazzo
della
Cancelleria
Il
Palazzo
della
Cancelleria
a
Roma
è
situato
tra
Corso
ViEorio
Emanuele
II
e
Campo
De’
Fiori.
Edificato
tra
il
1485
ed
il
1513,
è
uno
dei
primi
esempi
di
palazzi
costrui,
in
s,le
rinascimentale.
Il
Cardinal
Riario,
nipote
di
Papa
Sisto
IV,
lo
commissionò
con
i
proven,
di
una
vincita
al
gioco.
Nel
1517
gli
fu
requisito
da
papa
Leone
X
in
quanto
il
Riario
aveva
preso
parte
aSva
alla
congiura
de’
pazzi.
Nella
noEe
tra
l’8
ed
il
9
Febbraio
1849
in
questo
edificio
fu
proclamata
ufficialmente
la
seconda
Repubblica
Romana
e
successivamente
fu
sede
della
Corte
Imperiale
Napoleonica.
AEualmente
ospita
il
Tribunale
della
Sacra
Rota,
essendo
tuEora
territorio
dello
Stato
Va,cano
in
quanto
gode
del
diriEo
di
extraterritorialità
riconosciuto
con
i
paS
lateranensi.
“Er
Palazzo
de
la
Cancelleria”
Tra
Corzo
ViEorio
e
Campo
de’
Fiori
Ce
sta
‘n
palazzo
costruito
pe’
scommessa,
Vinto
a
carte
dar
Cardinal
Riario
a
picche
e
fiori
Pe’
‘na
bboEa
de
culo
principesca.
Quanno
zì
Papa
je
disse
ch’era
troppo
Quer
che
aveva
‘ntascato
co’
le
carte,
Je
rispose
“A
zì,
sai
che
nova
c’è?
Io
me
ne
foEo!
E
m’apro
‘sto
palazzo
co’
li
sordi
de
la
sorte”.
Lo
,rò
su
cor
marmo
bbianco
der
Coliseo
E
quello
rosato
d’origgine
più
oscura,
Ma
Leone
Decimo
je
disse
“Poro
babbeo…”
E
je
lo
requisì
pe’
via
de
‘na
conggiura.
‘Nzomma,
tra
Papi,Cardinali
e
‘Mperatori
Er
palazzo
de
la
Cancelleria
Più
che
artro
fu
‘n
coacervo
d’affaris,
e
truffatori
Frequentato
guasi
più
de
‘na
bbona
pizzeria.
Penzà
che
a
febbraro
der
quarantanove
Proprio
qua
nacque
la
Repubblica
Romana,
esempio
raro
de
‘n’Itaija
che
se
move
senza
chiede
aiuto
all’ur,mo
vortagabbana!.
Soltanto
tre
giorni
dopo,
il
Papa
convocò
di
nuovo
gli
ambasciatori
di
Austria,
Francia,
Spagna
e
Regno
delle
due
Sicilie
per
chiedere
il
loro
sostegno
nel
ristabilire
il
potere
PonAficio
ormai
ufficialmente
desAtuito.
La Repubblica
Romana,
pur
in
un
clima
di
grande
euforia
popolare,
doveOe
tuOavia
fare
immediatamente
i
conA
con
la
peggiore
delle
eredità
dello
Stato
PonAficio
:
il
disastro
delle
finanze
pubbliche.
Così,
con
una
decisione
che
suscitò
grande
clamore,
il
21
febbraio
l’Assemblea
votò
l’incameramento
dei
beni
ecclesiasAci
che
complessivamente
poteva
essere
calcolato
aOorno
ai
120
milioni
di
scudi.
Una
somma
enorme
che
tuOavia
non
venne
ritenuta
sufficiente
per
raddrizzare
le
finanze
del
Governo.
Governo
che
fu
quindi
costreOo
a
dover
aOuare
altre
misure,
la
prima
delle
quali
fu
un
presAto
forzoso
che
obbligò
tuH
coloro
che
disponevano
di
una
rendita
superiore
ai
2000
scudi
l’anno
a
cederne
una
percentuale
allo
Stato,
seppur
soOo
forma
di
presAto.
TuOa
questa
frenesia
nel
recupero
di
ingenA
imporA,
queste
misure
eccezionali,
furono
comunque
rese
necessarie
non
soltanto
dalla
situazione
finanziaria al
collasso
in
cui
versava
Roma,
ma
anche
dall’addensarsi
delle
minacce
che
aOentavano
già
alla
neonata
Repubblica
Romana
:
da
Gaeta
Pio
IX
aveva
invocato
con
lodevole
tempes,vità
l’aiuto
delle
grandi
potenze
caOoliche
e
la
Repubblica
fu
quindi
costreOa
a
prevedere
un
aumento
delle
spese
militari
al
fine
di
tutelare
sé
stessa
contro
l’imminente
aOacco
dall’esterno
che
ormai
era
certo.
la Storia
spesso
insegna
come
le
situazioni
peggiori
siano
quelle
in
cui
il
vento
delle
nuove
idee
spesso
va
ad
infrangersi
contro
le
porte
chiuse
di
un’eredità
poliAca
ed
economica
ingovernabile.
Il
verAce
della
Repubblica
Romana
si
trovò
strangolato
sin
dall’inizio
in
una
situazione
ingesAbile
che
neanche
Mazzini
e
Saffi,
che
affiancarono
Armellini
subentrando
a
Montecchi
e
SaliceA
nel
triumvirato,
riuscirono
a
gesAre.
La forma di
democrazia
immaginata
inizialmente,
era quella
di
un
governo
liberale
moderato,
ma
lo
stesso
Papa,
fuggito
a Gaeta,
contribuì
a
dare
respiro
ai
massimalisA
che
diedero
forse
alla Repubblica
Romana
il
caraOere
più
nobile
e
romanAco
a
questa
esperienza,
quello
utopisAco
che,
specie
Mazzini
allora
quarantaquaOrenne
e
giunto
a
Roma
il
5
marzo,
cavalcò
con
passione
e
capacità
perché
non
andasse
perduto
il
sacrificio
di
tanA
patrioA
e
per
lasciare
ai
posteri
forse
la
pagina
più
alta
del
suo
impegno
nel
Risorgimento
italiano.
La piccola
Repubblica
Romana
appena
proclamata,
si
doveOe
quindi
apprestare
alla
guerra
contro
l’Austria
che
il
23
marzo
sconfisse
Carlo
Alberto
di
Savoia,
decidendo
il
giorno
successivo
di
intervenire
pesantemente
per
restaurare
l’ordine
nello
Stato
PonAficio.
Contemporaneamente,
anche
i
francesi
intervennero
in
Italia
dietro
la
specifica
sollecitazione
in
tal
senso
da
parte
di
Pio
IX
.
Anziché
organizzare
immediatamente
la
resistenza
militare
alle
preponderanA
forze
caOoliche,
il
governo
romano
ritenne
invece
più
opportuno
emanare
una
serie
di
disposizioni
quali
l’abolizione
della censura,
l’isAtuzione
del
matrimonio
civile,
fissò
a
21
anni
la
maggiore
età
per
uomini
e
donne,
abrogò
nei
procedimenA
di
successione
la
norma
che
escludeva le
donne
ed
i
loro
discendenA,
abolì
la
tassa
sul
sale,
abrogò
la leva
obbligatoria,
isAtuì
la
riforma
agraria,
il
diriOo
alla
casa,
la
laicità
dello
Stato,
stabilì
l’abolizione
della
pena
di
morte
e
della
tortura.
Venne
deciso
di
suddividere
il
patrimonio
fondiario
ecclesiasAco
in
loH
da
consegnare
alle
famiglie
povere
:
Art.
1
Ogni
famiglia,
composta
da
un
numero
di
almeno
tre
individui,
avrà
da
col,vare
una
quan,tà
di
terra
capace
ai
lavori
di
un
paio
di
buoi,
corrispondente
ad
un
buon
rubbio
romano,
cioè
due
quadra,
censuari,
pari
a
metri
quadra,
ven,mila.
Art.2
I
vigne,
saranno
da,
a
coltura
all’individui
senza
che
sia
richiesta
famiglia
e
verranno
divisi
in
ragione
della
metà
della
misura
indicata.
Il
patrimonio
immobiliare
ecclesiasAco
venne
uAlizzato
per
dare
una casa ai
più
poveri,
la
tassa
patenA
che
i
commercianA
e
gli
arAgiani
dovevano
pagare
per
esercitare
il
loro
mesAere,
fu
abolita.
La grandezza di
pensiero
di
Mazzini
si
esprime
proprio
in
questo
frangente,
in
cui
apparentemente
sembra
invece
maturare
il
grossolano
errore
di
anteporre
le
riforme
civili
alla
difesa
della
patria
minacciata.
E’
credibile
che
Mazzini
sperasse
realmente
nell’affermazione
militare
della
Repubblica
Romana?
Sarebbe
riuscita
veramente
a
difendersi
dai
suoi
nemici
esterni?
Appare
invece
più
plausibile
immaginare
che,
pur
cosciente
dell’imminente
ed
inevitabile
tracollo,
intendesse
quanto
meno
salvare
il
valore
morale
dell’esperienza.
La Repubblica
Romana
fu
il
primo
Stato
Europeo,
seppur
non
riconosciuto,
a proclamare
che
la
credenza
religiosa
era
libera,
né
poteva
rappresentare
una
discriminante
per
l’esercizio
dei
diriH
civili
e
poliAci.
TuH
gli
altri
StaA
riconoscevano
la
religione
caOolica come
culto
dello
Stato
e
comunque
lo
stesso
Statuto
concesso
da
Pio
IX
stabiliva
che
le
pubbliche
carriere
erano
consenAte
solo
ai
ciOadini
di
fede
caOolica.
Quindi,
pur
essendo
impellente
l’urgenza di
predisporre
misure
militari
a
difesa
del
nuovo
Stato,
Mazzini
reputò
ancora
più
importante
salvare
i
valori
morali
che
lo
contraddisAnguevano.
Questa
la
scommessa
vinta da
Mazzini
:
lasciare
un
segno
indelebile
nella
Storia
,
rendere
moralmente
eterno
il
valore
dei
cinque
mesi
della
Repubblica
Romana.
Afferma
infaH
Mazzini
“
La
Repubblica
Romana
è
anzituEo
principio
d’amore,
di
maggior
incivilimento,
di
progresso
fraterno
con
tuS
e
per
tuS,
di
miglioramento
morale,
intelleEuale,
economico
per
l’università
dei
ciEadini…è
il
principio
del
bene
su
quello
del
male,
del
diriEo
comune
sull’arbitrio
di
pochi,
della
Santa
Eguaglianza
sul
Privilegio
ed
il
Dispo,smo…”.
La guerra
era
ormai
alle
porte.
Per
le
uniformi,
bastò
sosAtuire
il
simbolo
papale
delle
chiavi
incrociate
con
una semplice
coccarda
tricolore.
Garibaldi,
Bixio
e
Mameli
vennero
eleH
tra
i
Senatori.
L’esercito
ponAficio,
tranne
le
forze
mercenarie
ed
estere,
passò
in
blocco
dalla
parte
degli
insorA.
A
questo
primo
nucleo,
si
aggiunsero
poi
i
vari
Corpi
di
volontari.
Roma,
insidiata
da ogni
parte,
si
considerava
ormai
alla
vigilia della
guerra
e
si
preparava
come
poteva
a
difendersi
contro
tuH,
accogliendo
allo
stesso
tempo
tuH
coloro
che
arrivavano
per
offrirle
il
proprio
aiuto.
Abbracciò
gli
esuli
lombardi
di
Luciano
Manara,
i
genovesi
di
Goffredo
Mameli,
i
legionari
di
Garibaldi.
“V’aspeEamo
fratelli!”
V’aspeEamo
fratelli
itaijani,
voi
che
ciavete
la
Patria
ner
core,
che
se
farà
coll’
unghie
e
le
mani
pe’
difenne
‘sta
storia,
‘st’amore.
Roma
sarà
pe’voi
tuS
‘na
casa
dove
fragole
e
vino
nun
mancheranno,
a
ogni
angolo
ce
sarà
‘na
rosa
e
porcheEa
profumata
tuEo
l’anno.
Sarete
‘n
tan,
a
rimeEece
le
penne,
ma
co
‘n
pizzico
de
fegato
e
fortuna
potrete
meEe
propio
qui
le
tende
e
cantà
d’amore
sera
e
ma,na.
Lacrime
e
sangue
v’accompagneranno,
ma
sarà
l’avventura
de
la
vita,
‘s,
francesi
ancora
nu
lo
sanno
che
pe’
loro
è
qui
che
’ncomincia
la
salita…
Capo
di
tuOe
le
forze
armate
venne
nominato
il
generale
Pietro
Roselli,
con
Carlo
Pisacane
in
veste
di
Capo
di
Stato
Maggiore
:
comandava
venAmila
uomini
(
quanto
di
più
eterogeneo
si
potesse
immaginare
)
e
circa
un
cenAnaio
di
pezzi
d’arAglieria.
Nonostante
fosse
stata
l’Austria
a
decidere
per
prima
l’intervento
a
favore
del
Papa,
fu
però
la
Francia
a
muoversi
sulla base
di
un
decreto
urgente
firmato
da
Napoleone
III
per
controbilanciare
il
peso
poliAco
di
Vienna,
ingraziarsi
i
caOolici
di
Francia
e
sopraOuOo
i
loro
voA.
Il
24
Aprile
la
floOa
francese,
formata
da
sei
fregate
a
vapore,
due
corveOe
e
due
baOelli
con
circa
15.000
uomini
agli
ordini
del
generale
Oudinot,
arrivò
di
fronte
a
Civitavecchia
e
poco
dopo
il
generale
iniziò
le
traOaAve
con
le
autorità locali
per
lo
sbarco.
Da
Roma
l’ordine
era
di
resistere,
la
Repubblica
non
poteva
e
non
voleva
credere
alla
“amicizia”
millantata
da Oudinot
che
infaH
il
giorno
successivo
occupò
Civitavecchia
senza
sparare
un
colpo,
essendo
impossibile
per
il
colonnello
Pietramellara
opporre
la
minima
resistenza
con
i
suoi
duecento
bersaglieri.
Il
26
Aprile,
una
delegazione
francese
chiese
al
triumvirato
di
accogliere
le
truppe
francesi
come
alleaA,
ma
Mazzini
non
cadde
nella trappola
e
decise,
con
il
beneplacito
dell’Assemblea,
di
rispondere
con
forza
alla
forza.
Garibaldi
venne
richiamato
a
Roma
assieme
ai
suoi
uomini
che
erano
acquarAeraA
a
RieA.
Il
giorno
dopo
giunsero
in
porto
a Civitavecchia
due
baOelli,
il
“Colombo”
ed
il
“Giulio
II”,
salpaA
da
Chiavari.
Trasportavano
600
bersaglieri
della
disciolta
“Divisione
Lombarda”
dell’esercito
sardo
:
questa
divisione
era
stata
cosAtuita
nel
corso
della campagna del
1848
con
reclute
e
volontari
provenienA
dalle
provincie
liberate
del
Lombardo‐Veneto.
Colomba
Antonie8
“
‘Nnamo
Giggi,
se
parte
pe’
Roma,
er
sesto
baEajone
de
li
bberzajeri
dev’annà
a
trovà
er
Papa”.
“Ma
perché,
che
me
vòi
seguì
ancora?
Nun
t’è
abbastata
la
guera
‘n
Lombardia,
‘n
Veneto?….e
daje,
staEene
a
casa
‘na
vorta
tanto…”
“A
Giggi,
fàmose
a
capì,
ma
che
ggnente
ggnente
me
devi
da
meEe
le
corna?”
“
E
come
no?,
magara
co’
quarche
francese
o
co’
quarche
prete.
No
amò,
è
che
si
me
venissi
a
mancà,
nu
je
la
farei
a
annà
avan,…”
“Anvedi
questo….’n
ufficiale
che
se
ne
more
pe’
‘n
bberzaijere!”.
“E
vabbè,
con,nua
a
scherzà.
Ma
nun
potevi
esse
‘na
moje
come
tuEe
l’artre?
Quelle
che
penzano
solo
a
fa’
minestre
e
fiji?”
“
E
no!,
io
so’
de
quelle
che
stanno
ar
fianco
der
marito.
Sempre.
A
proposito,
t’ho
s,rato
la
divisa
e
‘n
valiggia
ciò
messo
quaEro
camicie
pulite.
Cerca
de
nun
inzozzalle
de
sangue
che
poi
nun
viè
più
via….”
“
A
Colò,
Manara
ha
deEo
che
dovemo
arivà
fino
a
San
Pancrazzio
e
che
si
ce
arivamo
vivi
è
ggià
tanto”.
“
A
Giggi,
nun
esse
funesto…daje,
cantame
la
canzone
de
li
fratelli
dell’Itaija
che
me
piace
‘n
sacco”.
“Colomba
mia,
me
dighi
come
farei
senza
de
te?”
”A
Giggè,
sta’
tranquillo
che
io
nun
t’ammollo
e
mò
da
‘n
bacio
co’
lo
scrocchio
ar
berzaijere
tuo!”.
Il
13
Giugno
1849
Colomba
AntonieS
morì
a
San
Pancrazio,
nella
eroica
difesa
della
postazione
assegnata
ai
bersaglieri
di
Luciano
Manara.
Per
seguire
il
marito
Luigi
Porzi,
Colomba
aveva
deciso
di
tagliarsi
i
capelli
e
di
ves,rsi
da
soldato
per
combaEere
al
suo
fianco
in
Lombardia,
in
Veneto
e
a
Roma.
Dalle
memorie
di
Giuseppe
Garibaldi
“
La
palla
di
cannone
era
andata
a
baEere
contro
il
muro
e
ricacciata
indietro
aveva
spezzato
le
reni
di
un
giovane
soldato.
Il
giovane
soldato
posto
nella
barella
aveva
incrociato
le
mani,
alzato
gli
occhi
al
cielo
e
reso
l’ul,mo
respiro.
Stavano
per
recarlo
all’ambulanza
quando
un
ufficiale
si
era
geEato
sul
cadavere
e
l’aveva
coperto
di
baci.
Quell’ufficiale
era
Porzi.
Il
giovane
soldato
era
Colomba
AntonieS,
sua
moglie,
che
lo
aveva
seguito
a
Velletri
e
combaEuto
al
suo
fianco”.
Colomba
AntonieS
morì
compianta
nei
giornali
dell’epoca
e
dalle
parole
di
storici
e
poli,ci,
ma
la
manifestazione
più
alta
l’ebbe
dal
popolo
romano
che
accompagnò
il
feretro
coprendolo
di
rose
bianche
e
seguendolo
lungo
le
vie
di
Roma
fino
alla
cappella
di
Santa
Cecilia
dell’Accademia
Musicale,
dove
la
salma
fu
tumulata.
Colomba
nacque
a
Bas,a
Umbra
il
19
oEobre
1826.
Figlia
di
fornai,
si
trasferì
giovanissima
a
Foligno
dove
conobbe
Luigi
Porzi
di
Imola,
cadeEo
del
Corpo
di
Guardia
della
Guarnigione
Pon,ficia.
Si
innamorarono
perdutamente,
ma
l’enorme
differenza
sociale
tra
loro,
convinse
le
rispeSve
famiglie
che
questo
matrimonio
“non
s’aveva
da
fare”.
I
due
ragazzi,
per
niente
turba,
dai
rispeSvi
ve,
familiari,
lo
contrassero
in
gran
segreto,
senza
richiedere
come
da
prassi
l’autorizzazione
alle
superiori
autorità
militari.
Scoperto
l’inganno,
venne
rinchiuso
a
Castel
Sant’Angelo
per
scontare
un
periodo
di
prigione.
Dover
subire
questa
ingius,zia,
sviluppò
nei
due
giovani
l’odio
per
l’oppressione
e
sen,men,
che
poco
alla
volta
li
avvicinò
alla
causa
dell’indipendenza
nazionale.
Luigi,
abbandonando
l’esercito
pon,ficio,
parp
volontario
allo
scoppio
della
prima
guerra
d’Indipendenza
e
lei,
pur
di
stargli
accanto,
tagliò
i
suoi
bellissimi
capelli
neri
e
si
arruolò
a
sua
volta
travestendosi
da
soldato
semplice.
Il
gruppo
di
volontari
di
cui
facevano
parte,
divenne
una
formazione
regolare
dell’esercito
Sardo‐Piemontese,
assumendo
la
numerazione
di
VI
baEaglione
Bersaglieri,
baEaglione
che
venne
inviato
a
Roma
al
comando
di
Luciano
Manara
per
difendere
la
Repubblica.
Una
pagina
d’amore
come
tante
altre
che
crebbe
incurante
della
guerra
ed
alla
quale
pagò
inesorabilmente
pegno.
Lei
morì
nell’adempimento
del
proprio
dovere
e
lui,
disperato,
riparò
in
Uruguay
facendo
perdere
per
sempre
le
sue
tracce.
I
600
bersaglieri
appena
sbarcaA
a
Civitavecchia,
rappresentavano
una
forza
significaAva
ed
estremamente
organizzata,
probabilmente
grazie
alla grande
personalità
e
capacità militare
del
loro
comandante,
Luciano
Manara.
GiunA
al
porto,
rimasero
non
poco
sorpresi
dalla presenza
delle
truppe
francesi
di
Oudinot
che
cercò
di
impedirne
lo
sbarco
“Voi
siete
lombardi,
perché
vi
immischiate
negli
affari
di
Roma?”
e
Manara
di
rimando
“E
voi
generale,
che
siete
di
Parigi,
di
Lione,
di
Bordeaux,
di
Marsiglia,
cosa
c’entrate
?”.
“Manara,
vi
permeEo
di
sbarcare
ad
Anzio
purchè
mi
promeSate
di
non
combaEere
prima
del
4
Maggio”.
Allora,
la
parola
tra
due
genAluomini
era
sacra.
Almeno
così
credeva
Manara….
TuOavia,
già
dal
27
Aprile
De
Rayneval,
il
rappresentante
del
governo
francese,
rivelava al
Cardinale
Antonelli
le
vere
istruzioni
date
a
Oudinot
:
riportare
il
Papa
a
Roma
e
desAtuire
la
Repubblica
Romana.
Di
rimando,
il
Cardinale
Antonelli
comunicava
a
De
Rayneval
che
Ferdinando
II,
re
delle
Due
Sicilie,
si
apprestava
ad
invadere
lo
Stato
PonAficio
per
lo
stesso
moAvo.
Il
giorno
dopo,
oOomila
francesi
marciarono
verso
Roma
al
comando
di
Oudinot
che
decise
di
stabilire
il
quarAer
generale
a
Castel
di
Guido
in
aOesa
di
sferrare
l’aOacco
due
giorni
dopo.
Roma
sente
che
stanno
arrivando,
Roma
vuole
resistere,
Roma
è
orgogliosa della
sua Repubblica,
Roma
vuole
proteggere
i
suoi
figli,
vuole
godere
nella
pace
la
sua
prima estate
di
libertà
dopo
tanto
tempo.
Le
acque
limpide
delle
fontane,
le
statue
dei
grandi
arAsA
del
passato,
i
palazzi
degli
architeH
più
raffinaA
sembrano
stringersi
idealmente
tra
loro
in
un’unica
voce
accorata
e
fiera
“
Romani,
noi
vi
abbiamo
donato
la
casa
più
bella,
a voi
il
compito
di
chiudere
la porta
in
faccia
a
chi
vuole
rubarvela.
E’
casa
vostra.
Non
dimenAcatelo
mai,
neanche
quando
la
maledirete
per
le
sofferenze
che
dovrete
paAre
per
difenderla”.
Vennero
formate
quaOro
brigate.
La
prima
agli
ordini
di
Giuseppe
Garibaldi
che
ha
42
anni,
alla
difesa
del
seOore
tra
Porta
Portese
e
Porta
San
Pancrazio.
E’
formata
dalla
legione
garibaldina,
dal
baOaglione
dei
giovani
reduci,
dal
baOaglione
universitario,
dalla legione
degli
emigraA,
dai
finanzieri,
per
un
totale
di
2.700
uomini.
La seconda
brigata,
comandata
dal
trentaseOenne
colonnello
Luigi
Masi,
doveva
difendere
la zona
tra Porta
Cavalleggeri
e
Porta
Angelica.
La terza
brigata,
agli
ordini
del
colonnello
Savini,
a
difesa
delle
mura sulla
sinistra
del
Tevere.
Era
cosAtuita
da
circa
400
uomini.
La quarta
brigata,
comandata dal
colonnello
Bartolomeo
GalleH,
cosAtuiva la
riserva,
pronta ad
intervenire
dove
poteva
esserci
bisogno.
Facevano
parte
della
quarta
brigata
la
legione
romana,
gli
zappatori
del
Genio,
i
carabinieri,
per
un
totale
di
3.000
uomini.
Una
ci:à
non
for=ficata
Roma
non
si
presentava
come
una
ciOà
forAficata
:
possedeva
una cinta
muraria,
le
mura
Aureliane,
che
non
offrivano
una
protezione
adeguata
ed
erano
state
rinforzate
solo
per
brevi
traH
con
basAoni
posA
nelle
adiacenze
della
porta
San
Paolo.
L’unico
traOo
che
era
stato
realizzato
con
un
criterio
più
moderno
era
quello
che
comprendeva
la
zona
trasteverina
fino
al
suo
congiungimento
alle
mura
vaAcane.
L’opera
faOa
realizzare
da
Papa
Urbano
VIII
nel
XVII
secolo,
aveva previsto
la
revisione
del
tracciato
delle
mura preesistenA
con
l’avanzamento
di
Porta
San
Pancrazio
e
l’arretramento
della
Porta
Portese,
la
realizzazione
ad
intervalli
regolari
di
basAoni
e
l’inserimento
all’interno
della
nuova
cinta
dell’intero
colle
Gianicolense.
Tale
inclusione
rispondeva ad
una
ben
precisa
esigenza strategica
che
prevedeva
il
controllo
del
Gianicolo,
meOendo
così
in
condizione
un
eventuale
aOaccante
di
bombardare
a
suo
pieno
agio
la
ciOà
soOostante.
Non
a
caso
Oudinot,
sbarcato
col
corpo
di
spedizione
francese
a
Civitavecchia,
decise
di
aOaccare
proprio
questa
zona,
ponendo
le
sue
retrovie,
accampamenA
e
deposiA
a Monteverde
e
non
predispose
altro
che
manovre
diversive
su
altre
direOrici.
Il
problema
difensivo
della
zona
era
aggravato
dal
faOo
che
il
terreno
anAstante
si
trovava
allo
stesso
livello
delle
mura,
alcune
ville
extraurbane
(
ad
esempio
il
casino
dei
QuaOro
VenA
)
superavano
addiriOura
in
altezza
la
porta
San
Pancrazio.
Sebbene
taHcamente
più
praAcabile,
un
aOacco
ad
uno
dei
traH
di
mura
situaA
sulla
riva
sinistra
del
Tevere
avrebbe
invece
posto
ai
francesi
il
grave
problema
strategico
di
avanzare
in
combaHmenA
che
si
sarebbero
svolA
strada
per
strada
senza
poter
contare
su
un
efficace
appoggio
delle
arAglierie,
a
parte
poi
le
conseguenze
psicologiche
che
un
pesante
danneggiamento
della
ciOà,
nei
suoi
monumenA
come
nei
suoi
luoghi
di
culto,
avrebbe
comportato
sulla
“intellighenzia”
europea,
ma
anche
e
sopraOuOo
su
quella
componente
conservatrice
e
caOolica
sul
cui
incondizionato
appoggio
alla spedizione
Luigi
Napoleone
contava
per
preparare
la
via
alle
sue
più
alte
ambizioni
poliAche.
La Repubblica
decise
di
concentrare
la difesa
sulla
riva
destra,
mentre
tuOe
le
porte
di
accesso
alla
ciOà e
Ponte
Milvio
vennero
presidiaA
e
posA
in
asseOo
di
difesa.
Le
postazioni
elevate
limitrofe
alle
mura,
quali
il
basAone
della
Colonnella
sull’AvenAno
e
Monte
Testaccio,
vennero
munite
di
baOerie
d’arAglieria.
Il
Ba:aglione
della
Speranza
Nel
Novembre
del
1847,
un
ex
ufficiale
piemontese,
tale
Pan,er,
raccolse
alcuni
adolescen,
romani
e
cominciò
ad
addestrarli
militarmente
:
nasceva
così
il
baEaglione
della
Speranza.
Nel
1849
il
baEaglione,
forte
di
33
elemen,,
partecipò
alla
strenua
difesa
della
Repubblica
Romana
nata
soltanto
poco
tempo
prima,
dis,nguendosi
sopraEuEo
alla
breccia
dell’oEavo
bas,one
presso
Porta
San
Pancrazio
che
cadde
comunque
in
mano
ai
francesi
accorsi
in
aiuto
dello
Stato
Pon,ficio
per
ripris,nare
“l’ordine”
messo
seriamente
a
rischio
da
alcune
migliaia
di
patrio,
che
pagarono
con
la
vita
il
tenta,vo
di
rovesciare
la
diEatura
del
Papa
e
regalare
a
Roma
la
libertà.
Gli
“speranzini”,
con
l’incoscienza
ed
il
coraggio
della
loro
età,
scrissero
pagine
su
pagine
di
coraggio
e
diedero
almeno
quaEro
mor,
alla
nobile
causa
per
cui
stavano
combaEendo.
Gli
stessi
francesi,
una
volta
caduta
la
ciEà,
vollero
rendere
solenne
omaggio
a
tanto
valore.
“
Er
baEajone
de
la
Speranza”
Ereno
‘n
trentatre
ma
no
tren,ni,
parlaveno
‘n’antra
lingua,
quella
dei
romani,
te
faceveno
tenerezza,
sbarba,
e
regazzini,
ma
pron,
a
difenne
Roma
co’
li
den,
e
co’
le
mani.
Su
la
breccia
ormai
sbracata
de
l’oEavo
bas,one,
proprio
addosso
a
Porta
San
Pancrazzio,
s’era
appostato
l’imberbe
baEajone,
sapenno
che
a
sora
morte
bbisognava
pagà
dazzio.
E
puntuale
venne
a
riscote
cor
soriso
e
co’
la
farce,
ggnente
scon,
pe’
chi
s’era
già
immolato
così
giovane
e
soEo
‘n
cumulo
de
carce,
senza
gloria
e
senza
cassa
seppellito.
La
speranza
però
nun
s’ammazza
cor
cannone
e,
senza
sapello,
chi
ha
premuto
quer
grilleEo
ha
rigalato
l’eternità
a
quer
baEajone
che
m’ha
gguidato
a
scrive
‘sto
soneEo.
Quanno
d’estate
a
Roma
c’è
meno
confusione
e
li
rumori
se
senteno
de
meno,
s’appizzi
le
recchie
tra
er
Gianicolo
e
Parione,
riesci
a
senp
dis,nto
‘n
canto
giovane
e
sereno…
Quello
der
baEajone
de
la
Speranza
che
ogni
noEe
ancora
fa
la
ronda
su
‘na
stella
e
dice
“Romani,
nun
graEateve
la
panza,
difennete
sempre
come
noi
‘sta
Roma
bbella!”.
Il
30
aprile
1849,
la ciOà
intera
traOenne
il
respiro.
Nell’aria
immobile
di
quella
tenera
maHnata di
aprile
che
più
si
addiceva
all’amore
che
non
alla
guerra,
Roma
si
preparò
ad
affrontare
quella che
sarebbe
stata
una delle
pagine
più
dolorose
e
gloriose
della
sua
pur
millenaria
storia.
Nei
volA
dei
combaOenA
la
paura
di
chi
sapeva
che
la
morte
sarebbe
stata
al
suo
fianco
ogni
minuto
e
nello
stesso
tempo
la
sicurezza
di
chi
era
ben
cosciente
di
quanto
alto
e
nobile
fosse
l’ideale
che
si
apprestava
a
difendere.
Alle
ore
11,30
Oudinot
sferrò
il
suo
aOacco
lungo
due
direOrici
:
Porta
Cavalleggeri
e
Porta Angelica
gli
obieHvi
che
5.000
soldaA
francesi
dovevano
raggiungere
.
Garibaldi
e
la
sua
brigata
si
trovava
fuori
le
mura,
nei
pressi
di
villa
Pamphili.
Con
lui,
anche
il
baOaglione
universitario
romano
.
Il
Generale
aOese
pazientemente
i
francesi
per
poi
coglierli
di
sorpresa
di
fianco.
Il
conAngente
di
Oudinot
venne
preso
a
cannonate
e
fucilate
ed
ignominiosamente
respinto
dai
miliA
della
Guardia
Civica
mobilizzata,
comandata
da
Ignazio
Palazzi
e
denominata
anche
Guardia Nazionale
per
l’aggiunta
dei
Corpi
Civici
provenienA
da
altre
ciOà
degli
StaA
Romani.
GalleH
uscì
da
Porta
San
Pancrazio
e
con
lui
l’entusiasmo
della
Legione
Romana
che,
coadiuvata dalle
truppe
del
colonnello
Masi,
costrinse
i
transalpini
a
riArarsi
lungo
la via
Aurelia
AnAca.
Erano
le
ore
17
di
quel
Aepido
pomeriggio
di
aprile.
Garibaldi
li
inseguì
sino
a MalagroOa
per
disperderli
ed
il
maHno
del
giorno
dopo
chiese
i
rinforzi
necessari
per
distruggere
il
conAngente
francese
in
fuga
che
aveva
lasciato
dietro
di
sé
500
morA
e
365
prigionieri.
Non
fu
accontentato.
Mazzini
sperava ancora
di
poter
traOare
con
i
francesi
ed
un’umiliazione
del
genere
avrebbe
reso
di
certo
più
difficili
le
eventuali
traOaAve.
Si
rivelò
un
imperdonabile
errore,
considerando
il
successivo
indurirsi
della
posizione
francese.
TuOavia,
l’immagine
della
Repubblica
Romana
ne
uscì
assai
rafforzata,
come
anche
la
causa
italiana
in
Europa.
Un
altro
importante
e
sopraOuOo
confortante
elemento
di
quesA
primi
scontri,
si
rivelò
indubbiamente
il
provato
aOaccamento
della
popolazione
e
dell’esercito
alla
causa.
Oudinot
rimase
sorpreso
da
tanta veemenza
da
parte
dei
difensori
di
Roma.
Cosa
stava
succedendo
a
quella
gente
che
per
secoli
non
aveva
mai
osato
ribellarsi
all’ordine
cosAtuito,
cosa
stava spingendo
il
popolo
a
costruire
barricate,
a
meOere
in
gioco
la
propria
vita
per
rovesciare
un
potere
mai
discusso
per
tanto
tempo
?
non
poteva
comprenderlo.
Lui
era soltanto
un
soldato
dell’esercito
regolare
francese
che
stava eseguendo
un
ordine
come
tanA
altri
ricevuA
in
precedenza
dai
suoi
superiori.
Una
cosa tuOavia
aveva
ben
capito
:
ora
sapeva
che
con
le
truppe
a
disposizione
non
avrebbe
mai
vinto
questa
guerra
ed
allora
chiese
a
Parigi
adeguaA
rinforzi
che
gli
vennero
accordaA
da
Luigi
Napoleone
il
7
di
maggio.
Intanto
gli
austriaci
avevano
occupato
Ferrara
e
contemporaneamente
l’esercito
borbonico
con
16.000
uomini
guidaA
dallo
stesso
re
Ferdinando
II,
stava
entrando
nel
territorio
della
Repubblica
Romana,
invadendo
il
Lazio
meridionale.
Mazzini
spedì
Garibaldi
a fermarli
o
quantomeno
a
resistere
a
quell’
ennesimo
aOacco
al
territorio
repubblicano.
Al
suo
fianco
i
bersaglieri
Manara,
Morosini
e
i
fratelli
Dandolo
che
già
avevano
dato
prova
del
loro
valore
durante
le
cinque
giornate
di
Milano
nel
marzo
del
1848.
CAPITOLO
II
Spesso
sono
le
diverse
moAvazioni
a
decidere
le
sorA
di
una
contesa
e
Garibaldi
riuscì
infaH
a
sconfiggere
7.000
napoletani
a
Palestrina.
Alla
testa di
2.300
uomini
si
scontrò
con
le
avanguardie
napoletane
del
generale
Ferdinando
Lanza
che
avanzava sicuro
della
viOoria
sulla
ciOadina.
Garibaldi
che,
come
deOo,
tra
le
sue
forze
contava
anche
il
baOaglione
bersaglieri
lombardi
al
comando
di
Luciano
Manara,
contraOaccò
furiosamente
e
costrinse
Lanza
alla
riArata.
La
viOoria
fu
in
ogni
caso
parziale,
perché
il
grosso
dell’esercito
borbonico
non
partecipò
alla
baOaglia.
Anche
gli
spagnoli
aOaccarono
il
Lazio
meridionale.
A
Gaeta,
rifugio
dorato
di
Pio
IX,
sbarcò
un
Corpo
di
spedizione
spagnolo
di
9.000
uomini
che
prese
però
ad
avanzare
sulla
direOrice
Terracina‐Priverno
dietro
precise
indicazioni
della
Francia.
Anche
da
questa
decisione
si
può
capire
quanto
Oudinot
tenesse
a
condurre
da
solo
questa
campagna
.
La
viOoria
doveva
essere
esclusivamente
francese!.
Ferdinand
Lesseps,
diplomaAco
plenipotenziario
del
governo
francese
venne
inviato
da
Luigi
Napoleone
a
Roma
con
un
mandato
volutamente
equivoco
per
prendere
tempo.
Lui
probabilmente
non
era
al
corrente
di
questo
bieco
disegno
ed
iniziò
a
traOare
con
Mazzini
una
tregua
di
venA
giorni
che
venne
sancita
dall’accordo
del
16
maggio.
In
quella
stessa
data
Roselli,
comandante
di
tuOe
le
forze
militari
romane,
con
10.000
uomini
usciva
da
Roma
e
si
dirigeva
su
Albano
per
fronteggiare
Ferdinando
II
e
le
sue
truppe.
TuOavia
Ferdinando,
venuto
a
conoscenza
della
tregua
firmata
dai
romani
con
i
francesi,
decise
di
evitare
lo
scontro
e
si
riArò
a
Velletri.
Garibaldi,
con
le
sue
innate
virtù
di
stratega,
decise
allora di
tagliare
la
strada ai
napoletani
nel
momento
in
cui
sarebbe
scaduta
la
tregua
stabilita,
ma
Roselli
gli
ordinò
di
aOendere
il
suo
arrivo.
Il
Generale
sapeva
che
aOendere,
sarebbe
potuto
risultare
fatale
ed
allora
ignorò
l’ordine
e
aOaccò
alla
testa
dei
suoi
soldaA
meOendo
in
fuga
le
truppe
borboniche
che
si
riArarono
nuovamente
a
Velletri.
Roselli
mancò
l’appuntamento
con
la
gloria,
arrivando
a
Velletri
quando
i
napoletani
si
stavano
già
riArando
entro
i
loro
confini
ancora
inseguiA
da
Garibaldi.
Soltanto
un
preciso
ordine
del
triumvirato
fermò
garibaldini
e
bersaglieri
già
in
territorio
Borbone.
Gli
austriaci
invece
conAnuavano
inesorabilmente
la
loro
marcia
verso
Roma.
Conquistarono
Bologna
e
vi
insediarono
nuovamente
un
Governatore
nominato
dal
Papa.
Pochi
giorni
dopo
caddero
anche
Imola,
Forlì,
Cesena
e
Rimini.
In
breve
tuOa l’Emilia
Romagna
ritornò
soOo
il
dominio
del
Papa
che,
dalla
sua
comoda
Gaeta,
già
pregustava
il
suo
ritorno
trionfale
a
Roma
.
Nubi
sempre
più
nere
e
gravide
di
pioggia
stavano
minacciando
il
cielo
della
Repubblica Romana
che,
osAnatamente,
conAnuava
ad
affermare
i
princìpi
che
l’avevano
vista
nascere.
Il
29
Maggio
il
Ministro
degli
Esteri
francese
scrisse
a
Lesseps
“Il
governo
della
Repubblica
francese
ha
posto
fine
alla
vostra
missione.
Vogliate
ripar,re
appena
ricevuto
questo
dispaccio”.
Lo
stesso
giorno,
a Oudinot
scrisse
invece
il
Ministro
della
Guerra
francese
per
avverArlo
che
i
rinforzi
erano
parAA
da
Tolone
e
che
doveva affreOare
le
operazioni
per
risolvere
la
fasAdiosa
quesAone
romana
nei
tempi
più
brevi
possibili.
Ebbe
a
sua
disposizione
un
conAngente
ben
più
corposo
:
36.000
uomini.
La
comunicazione
arrivò
a
Oudinot
il
31
maggio,
proprio
lo
stesso
giorno
in
cui
Lesseps
e
Mazzini
raggiunsero
un
accordo
sul
seguente
testo,
ricco
di
principi
falsi
ed
ipocriA
ma
che
Mazzini,
conscio
del
potenziale
dell’esercito
francese,
decise
comunque
di
soOoscrivere
:
Art.
1
‐
L’appoggio
della
Francia
è
assicurato
alle
popolazioni
degli
Sta,
romani.
Esse
considerano
l’armata
francese
come
un’armata
amica
che
viene
a
concorrere
alla
difesa
del
loro
territorio
.
Art.
2
–
D’accordo
col
governo
romano
e
senza
immischiarsi
affaEo
nell’amministrazione
del
paese,
l’armata
francese
prenderà
gli
accantonamen,
esterni,
convenevoli
per
la
difesa
del
paese
che
per
la
salubrità
delle
truppe.
Le
comunicazioni
saranno
libere.
Art.
3
–
La
Repubblica
francese
garan,sce
contro
ogni
invasione
straniera
il
territorio
occupato
dalle
sue
truppe.
Art.4
–
Resta
inteso
che
la
presente
convenzione
dovrà
essere
soEomessa
alla
ra,fica
del
governo
della
Repubblica
francese.
Art.
5
–
In
nessun
caso
gli
effeS
della
presente
convenzione
potranno
cessare
che
15
giorni
dopo
la
comunicazione
ufficiale
della
non
ra,fica.
Se
il
governo
della
Repubblica
francese
avesse
rispeOato
anche
un
solo
arAcolo
dei
cinque
soOoscriH,
per
la
Repubblica
Romana
si
sarebbe
comunque
traOato
di
un
insperato
successo
diplomaAco,
ma
non
andò
così.
L’inarrestabile
avanzata
degli
austriaci
convinse
il
triumvirato
a
richiamare
Garibaldi
a
Roma,
ma
non
part
mai
contro
di
loro
perché
i
francesi
il
primo
giugno
ripresero
le
osAlità.
Roma
stessa
stava
per
essere
accerchiata
dalle
più
potenA
forze
caOoliche
del
momento.
I
tamburini
della
Repubblica
Romana
Tamburini
della
Repubblica
Romana
cadu,
durante
la
difesa
di
Roma
:
ASlio
Zampini
–
anni
14
di
Roma
–
Tamburino
baEaglione
della
Speranza
Giovanni
Gionchini
–
anni
16
di
Rimini,
contadino
–
Tamburino
6°
Rgt.
fanteria
Domenico
Subiaco
–
anni
16
di
Ripi
–
Tamburino
10°
Rgt
fanteria
Ignoto
–
anni
9
–
Tamburino
10°
Rgt
fanteria
Felice
Carlini
–
anni
12
di
Roma
–
Milite
Civico
–
Armaiolo
Giuseppe
Celli
–
anni
16
di
Roma
–
Calzolaio
Ambrogio
Fra,celli
–
anni
15
di
Spoleto
–
volontario
Vincenzo
MaEeucci
–
anni
12
romagnolo
–
borghese
Francesco
Michelini
–
anni
12
di
Roma
–
lavorante
alle
barricate
Lorenzo
BruneS
–
anni
13
di
Roma
–
popolano
“Er
tamburino
de
la
Repubblica
Romana”
Quanno
sòno
‘sto
tamburo
all’artri
je
ribbolle
er
sangue
ne
le
vene,
quarcuno
se
commove,
so’
sicuro,
quarcun
artro
punta
lo
schioppo
pe’
,rà
bbene.
Stamo
chiusi
qua
ar
Vascello
da
più
de
‘n
mese
a
sputà
su
li
francesi,
maggnamo
puro
le
radici
e
sur
più
bbello
ariva
‘na
palla
e
rimanemo
stesi.
Io
so’
de
Roma
e
questa
è
la
tera
mia,
cio’
dodici
anni
e
mi
madre
a
casa
ancora
piaggne
da
quanno
j’ho
deEo
che
venivo
via
co’
li
garibbardini
p’arivortà
er
papato
e
le
sue
magaggne.
A
giugno
der
‘quarantanove
è
arivata
l’ora
de
scrollasse
de
dosso
‘sta
diEatura,
de
fa’
sventolà
‘n’artra
bandiera
e
ripijasse
‘sta
ciEà
e
le
sue
mura.
L’artri
so’
venu,
tuS
pe’
combaEe
come
leoni
‘n
gabbia
pe’
la
libbertà,
“Repubblica
Romana”,
che
devo
diEe,
è
‘na
parola
che
nun
po’
più
aspeEà.
Porta
San
Pancrazzio
è
già
caduta,
l’odore
der
sangue
ariva
fino
qua,
po’
esse
che
l’ora
mia
sia
già
arivata,
ma
io
nun
tremo
e
l’aspeEo
qua.
Ce
stanno
a
bbombardà
da
seSmane
e
nun
finischeno
mai
le
munizzioni
a
ques,
co’
l’ere
moscia
e
fiji
de
‘n
cane
che
de
Pio
Nono
so’
li
pecoroni.
Sento
callo
propio
su
la
panza,
sarà
che
l’estate
ha
ggià
steso
le
mani
su
‘s,
quaEro
straccioni
e
su
‘na
stanza
piena
de
milanesi,
de
romani,
de
itaijani!
No,
nun
me
la
so’
faEa
addosso,
puro
si
so’
baggnato
su
‘sto
leEo,
‘sto
colore
de
‘sta
camicia
mo’
è
più
rosso,
è
de
quer
sangue
‘nnocente
che
ciò
‘n
peEo.
“Stanno
a
arivà!”
sento
da
lontano
e
tuS
coreno
ancora
sopra
er
muro,
s’aspeEeno
che
puro
stavorta
do
‘na
mano
sonanno
senza
requie
‘sto
tamburo.
Ma
nun
ce
riesco,
nu
je
ja
faccio
a
arzamme,
chissà
che
m’è
preso
proprio
oggi,
er
giorno
c’hanno
smesso
de
curamme
p’annassene
via
tuS
moggi
moggi.
Dateme
‘n
tamburo
che
puro
dar
leEo
devo
sonà
la
carica
ai
romani,
fosse
l’ur,ma
cosa
solo
pe’
dispeEo,
puro
si
nun
ariverò
a
domani.
E’
la
tera
mia,
qui
so’
cresciuto,
m’hanno
messo
addosso
er
tricolore,
quarcuno
dirà
che
‘n
artro
eroe
è
caduto,
ma
chi
po’
esse
felice
si
un
regazzino
more…
Oudinot,
il
primo
giugno
annunciò
la
ripresa
del
confliOo
per
il
giorno
4
dello
stesso
mese,
secondo
gli
accordi
che
da
genAluomo
presunto
aveva
sancito
con
Manara.
La
Storia
tuOavia gronda
di
episodi
in
cui
è
la furbizia
a
prevalere
sull’onore
e
così
il
“genAluomo”
francese,
venendo
meno
alla
sua parola,
aOaccò
all’improvviso
alle
tre
della noOe
del
3
giugno
con
20.000
uomini,
trentasei
cannoni
da
campagna
e
quaranta
da assedio.
L’aOacco
dei
francesi
colse
i
romani
di
sorpresa,
ma
i
difensori
avevano
già
provveduto,
almeno
parzialmente,
a
demolire
ponte
Milvio
che
rappresentava
una
delle
più
comode
vie
d’accesso
per
entrare
a
Roma.
Dopo
il
combaHmento,
i
francesi
riprisAnarono
la
piena transitabilità del
ponte
con
travi
e
tavole
di
legno,
aOestandosi
anche
sulla
sponda
sinistra
del
Tevere.
A
sud
di
Roma,
a
Santa
Passera,
vicino
alla
Basilica
di
San
Paolo,
il
fiume
era
stato
sbarrato
dai
francesi
con
un
ponte
di
barche,
per
impedire
i
rifornimenA
alla
ciOà.
Con
l’occupazione
di
ponte
Milvio,
restarono
tagliaA
fuori
i
rifornimenA
alla ciOà
per
via
fluviale,
anche
da
nord.
Il
cerchio
si
strinse
sempre
di
più.
Immediatamente
dopo,
vennero
occupate
Villa
Pamphili,
Villa
Corsini
e
il
Casino
dei
QuaOro
VenA.
Da
“La
Repubblica
Romana
raccontata
da
Cesare
Pascarella”
“Eppure,
come
daveno
er
segnale
(mentre
da
le
finestre
e
le
ferrate
veniva
giù
l’inferno!),
dar
viale
se
rimontava
su
le
scalinate;
S’entrava
ner
portone,
pe’
le
scale,
pe’
le
camere,
fra
le
baricate
de
sedie
e
tavolini,
pe’
le
sale,
a
mozzichi,
a
spintoni,
a
sciabolate,
Co’
qualunqu’arma,
come
se
poteva,
fra
fiamme,
foco,
strilli,
sangue,
morte,
se
cacciaveno
via;
se
rivinceva;
Se
rivinceva;
ma
nun
ce
fu
verso
de
spuntalla.
Fu
preso
pe’
tre
vorte
de
fila
e
pe’
tre
vorte
fu
riperso.
Cesare
Pascarella
(
Roma
28.4.1858
–
Roma
8.5.1940
)
Cesare
Pascarella
è
uno
dei
poe,
dialeEali
romani
di
maggior
livello.
Il
suo
nome,
tuEavia,
è
assai
meno
famoso
di
quelli
di
Belli
e
Trilussa,
persino
nella
stessa
Roma.
A
questo
ha
forse
contribuito
in
parte
il
faEo
che
il
numero
delle
sue
opere
è
senz’altro
minore
rispeEo
al
patrimonio
leEerario
lasciato
dagli
altri
due
grandi
poe,.
I
soggeS
preferi,
da
Pascarella
per
i
suoi
soneS
erano
sopraEuEo
la
storia
italiana
e
il
vissuto
quo,diano
di
Roma.
Il
poeta
nacque
durante
anni
cruciali
per
la
storia
d’Italia.
Dopo
tre
guerre
d’Indipendenza,
l’unificazione
delle
molte
regioni,
da
nord
a
sud,
stava
gradualmente
avvenendo.
Roma,
ancora
soEo
il
governo
del
Papa,
sarebbe
stata
conquistata
dalle
truppe
italiane
non
prima
del
1870,
quando
il
poeta
aveva
dodici
anni.
Tra
gli
altri
scriS,
si
occupa
anche
di
descrivere
le
vicende
della
Repubblica
Romana
e
tale
descrizione
in
deEaglio
è
così
realis,ca
e
dramma,ca
che,
benché
in
dialeEo,
quest’opera
andrebbe
considerata
un
piccolo
poema
epico.
Il
colonnello
Pietro
Pietramellara
ed
i
suoi
uomini
difesero
strenuamente
Villa
Pamphili.
Pietro
Pietramellara
“Sor
colonnello,
‘s,
fiji
de
‘na
miggnoEa
nun
hanno
rispeEato
li
paS,
ce
stanno
pe’
sartà
addosso,
‘nnamo
sor
colonne’,
che
si
se
pijeno
villa
Pamphili
semo
friS
!!”
“
MeEete
le
baioneEe
‘n
canna
fiji
de
Roma,
damo
‘n’artra
lezzione
a
‘s,
francesi.”
“Sete
pron,?”
“
Sì,
sor
colonne’,
semo
pron,.”
“Allora
aEaccateli!,
annateje
addosso
come
le
cavalleEe,
nu
je
date
requie
a
‘s,
farzi
senza
onore!”.
Pietramellara,
alla
testa
delle
sue
truppe,
riesce
a
contenere
l’aEacco
nemico,
coprendo
la
ri,rata
delle
tre
compagnie
ai
suoi
ordini.
“Anvedi
er
colonnello!,
cià
tre
bbuchi
su
la
giacca
e
la
sciabbola
spezzata,
ma
come
cazzo
fa
a
sta’
ancora
‘n
piedi?”.
Due
giorni
dopo
il
colonnello
Pietramellara
viene
colpito
alla
spalla
a
villa
Savorelli
e
muore
il
5
luglio
mentre
i
francesi,
ormai
vinta
qualunque
resistenza,
stavano
entrando
in
ciEà.
Il
suo
funerale
nella
chiesa
di
San
Vincenzo
Anastasio,
viene
interroEo
dall’ingresso
nell’edificio
delle
truppe
transalpine
con
le
baioneEe
in
canna.
“Ma
che
stanno
a
fa’?,
lo
vonno
ammazzà
‘n’artra
vorta?”
“
Guarda
mejo
compà,
l’offesa
a
quer
poro
disgrazziato
è
puro
peggio
de
‘na
seconna
morte.
Je
stanno
a
staccà
la
coccarda
bianca,
rossa
e
verde
dar
peEo.
“Ma
l’anima
de
li
mortacci
loro!,
mò
je
lo
fo’
vede
io
a
‘s,
quaEro
zozzi….”
“
StaEe
bbono,
tu
nu’
je
fai
vedè
propio
ggnente.
Pija
esempio
da
Roma
:
porta
pazzienza
e
aspeEa….”.
Dopo
aver
iniziato
gli
studi
nel
collegio
militare
di
Venezia,
Pietro
Pietramellara
torna
a
Bologna
dove
consegue
la
laurea
in
Giurisprudenza.
Quindi
lascia
la
ciEà
per
andare
al
servizio
di
Carlo
Alberto
come
ufficiale
dei
Grana,eri.
Durante
questo
servizio
a
Genova,
diventa
membro
della
Giovine
Italia,
finendo
per
essere
coinvolto
nei
falli,
mo,
del
1833
durante
i
quali,
alla
guida
di
una
Compagnia
di
Grana,eri,
avrebbe
dovuto
occupare
il
forte
dello
Sprone,
innalzando
la
bandiera
tricolore.
Sfuggito
all’arresto,
torna
a
Bologna
oEenendo
di
conver,re
la
condanna
a
morte
con
l’esilio
dagli
sta,
sardi.
Riprende
l’aSvità
cospira,va
fino
a
quando,
scoperto
dalle
Autorità
Pon,ficie,
fugge
in
Francia.
Ritorna
nel
1847
a
Bologna
ove
contribuisce
alla
organizzazione
della
Guardia
Civica
e
diventa,
con
il
grado
di
colonnello,
il
comandante
del
baEaglione
VI
fucilieri,
dis,ntosi
nella
difesa
di
Vicenza
durante
la
prima
guerra
d’Indipendenza.
Dopo
la
controffensiva
austriaca
che
obbliga
Carlo
Alberto
a
chiedere
l’armis,zio,
Pietramellara
si
dirige
a
Roma
come
tan,
altri
patrio,
per
difendere
Roma
dalle
truppe
francesi.
Muore
il
5
luglio
per
le
ferite
riportate
nelle
innumerevoli
baEaglie
a
cui
partecipa.
Il
suo
sacrificio
verrà
ricompensato,
ma
soltanto
21
anni
dopo,
quando
il
2
oEobre
1870
sarà
sancita
l’annessione
di
Roma
all’Italia.
Due
ore
dopo
il
vile
aOacco
dei
francesi,
iniziato
contravvenendo
alla
tregua stabilita
di
comune
accordo
,
Garibaldi,
con
pochi
uomini
decisi
a
far
pagare
l’offesa
perpetrata dai
transalpini
nei
confronA
di
Roma,
intervenne
per
bloccare
i
francesi
e
riprendere
le
postazioni
perdute
fuori
San
Pancrazio.
Tra
gli
altri,
anche
Nino
Bixio
venne
ferito
ad
un
fianco
mentre
stava
guidando
l’ennesima
carica
contro
i
francesi.
Alle
9
del
maHno
arrivarono
a
dar
manforte
a Garibaldi
i
bersaglieri
di
Manara
e
l’arAglieria
comandata
da
Alessandro
Calandrelli,
fino
a
quel
momento
osAnatamente
e
inopinatamente
bloccaA
a
Piazza
del
Popolo
da
Roselli
che
intendeva tenerli
di
riserva.
Decisione
incomprensibile
se
si
considera
l’enorme
disparità
di
forze
con
la
quale
le
camicie
rosse
stavano
tenendo
testa
al
generale
Oudinot.
I
romani,
perché
ciOadino
romano
a
tuH
gli
effeH
deve
essere
considerato
chiunque
abbia
difeso
in
quei
giorni
la
CiOà
Eterna,
contavano
6.000
uomini
contro
16.000
francesi.
Dovevano
difendere
almeno
la
zona
compresa
tra
Porta
Portese
e
Castel
Sant’Angelo.
Il
Castello
di
Roma
La
storia
di
Castel
Sant’Angelo
coincide
sostanzialmente
con
quella
di
Roma
ed
è
pra,camente
impossibile
scindere
queste
due
realtà
così
profondamente
compenetrate
:
i
mutamen,,
i
rivolgimen,,
le
miserie
e
le
glorie
dell’an,ca
Urbe
sembrano
rifleEersi
puntualmente
nella
massiccia
mole
che
da
quasi
duemila
anni
si
specchia
nelle
acque
del
Tevere.
Nasce
come
sepolcro
voluto
dall’Imperatore
Adriano
in
un’area
periferica
dell’an,ca
Roma
ed
assolve
questa
sua
funzione
originaria
fino
al
403
d.c.
circa,
quando
viene
incluso
nelle
mura
aureliane
per
volere
dell’Imperatore
occidentale
Onorio.
Da
questo
momento
inizia
una
“seconda
vita”
nelle
ves,
di
castellum,
baluardo
avanzato
oltre
i
Tevere
a
protezione
della
ciEà.
Numerose
famiglie
romane
se
ne
contendono
il
possesso,
visto
che
sembra
garan,re
una
posizione
di
preminenza
nell’ambito
del
confusionario
ordinamento
dell’Urbe.
Sarà
roccaforte
del
senatore
TeofilaEo,
dei
Crescenzi,
dei
Pierleoni
e
degli
Orsini.
E’
proprio
un
Papa
Orsini
–
Niccolò
III
–
a
far
realizzare
il
“passeEo
di
Borgo”,
che
collega
il
Va,cano
a
Castel
Sant’Angelo,
in
una
sorta
di
con,nuità
fisica
ed
ideale.
Nel
1367
le
chiavi
dell’edificio
vengono
consegnate
a
Papa
Urbano
V
per
sollecitare
il
rientro
della
Curia
a
Roma
dall’esilio
avignonese.
Da
questo
momento
in
poi,
Castel
Sant’Angelo
lega
inscindibilmente
le
sue
sor,
a
quelle
dei
Pontefici
che
lo
adaEano
a
residenza
in
cui
rifugiarsi
nei
momen,
di
pericolo.
Grazie
alla
sua
struEura
solida
e
for,ficata
ed
alla
sua
fama
di
imprendibilità,
il
Castello
ospita
l’Archivio
ed
il
Tesoro
Va,cano,
ma
viene
adaEato
anche
a
Tribunale
e
prigione.
Con
il
cambiamento
di
funzione,
l’aspeEo
e
l’impianto
del
castello
vengono
rimodella,
aEraverso
una
lunghissima
serie
di
interven,
che
si
snodano
nel
corso
di
quaEro
secoli.
Nuove
struEure
si
assommano
a
quelle
preesisten,,
alterandole,
modificandone
la
funzione,
talvolta
cancellandole,
in
un
processo
di
trasformazioni
ininterroEe
che
sembrano
scivolare
l’una
nell’altra
senza
soluzione
di
con,nuità.
La
storia
lunghissima
e
variegata
dell’edificio,
con
le
sue
mille
metamorfosi,
sembra
essersi
sedimentata
nel
complicato
intrico
di
soEerranei,
ambien,,
logge,
scale
e
cor,li
che
cos,tuiscono
l’aEuale
asseEo
del
castello.
La
struEura
originaria
e
le
successive
modifiche
si
compenetrano,
sovrapponendosi
e
fondendosi
l’una
con
le
altre
e
dando
vita
ad
un
organismo
sfacceEato
e
complesso,
carico
di
valenze
simboliche
e
stra,ficazioni
storiche.
“Caster
Sant’Angelo”
Caster
Sant’Angelo
è
‘n
simbbolo,
quello
de
la
Roma
papalina
che
co’
‘na
mano
te
chiedeva
l’obbolo
e
co’
quell’artra
faceva
funzionà
la
ghijoSna.
Era
‘na
priggione
che
faceva
effeEo,
Ancora
Garibbardi
Roma
nu
l’aveva
presa,
penzarono
li
Papi
puro
ar
“passeEo”
pe’
dassela
a
gambe
‘n
nome
de
Santa
Madre
Chiesa.
Pasquino
a
quer
tempo
ciaveva
sì
da
scrive
Più
de
chi
deEò
la
Sacra
Bbibbia,
er
popolo
ziEo
come
‘n
sorcio
vive
pe’
paura
de
quer
posto
peggio
de
Rebbibbia.
Er
Papa
chiamava
a
sé
le
pecorelle,
ma
si
eri
ggiudio
c’era
er
coprifoco,
le
messe
eri
costreEo
a
sen,nne
mille
si
nun
volevi
proprio
campà
poco.
Mò
rimane
solo
quarche
scriEa
a
ricordà
chi
sollevò
er
popolo
romano
p’esse
gius,zziato
da
mastro
TiEa
in
nome
der
popolo
sovrano.
La baOaglia fu
cruenta
e
senza
pause.
Mentre
i
francesi
conducevano
un’azione
diversiva su
Ponte
Milvio,
cadde
a
soli
venAdue
anni
Enrico
Dandolo,
varesino
e
amico
fraterno
di
Emilio
Morosini
col
quale
era
parAto
per
difendere
la
Repubblica
Romana
agli
ordini
di
Luciano
Manara.
Alle
18
ancora
si
combaOeva.
Era
ormai
sera
quando
anche
il
genovese
Goffredo
Mameli,
il
poeta‐patriota
che
ci
ha
lasciato
in
eredità
il
nostro
fiero
e
bistraOato
inno
nazionale
che
ulAmamente
qualcuno
ha
sacrilegamente
proposto
di
sosAtuire
con
un
altro
canto,
venne
ferito
gravemente
ad
una
gamba.
Era
stato
già
colpito
nella
baOaglia
di
Porta
Cavalleggeri
il
30
aprile.
La
gamba
gli
venne
amputata
per
evitare
la
cancrena,
ma
il
tentaAvo
risultò
purtroppo
inuAle
e
morì
per
le
conseguenze
il
6
luglio,
due
soli
giorni
dopo
la
morte
della
Repubblica
che
stava
difendendo.
L’inno
d’Italia
‐
il
ricordo
di
Carlo
Alberto
Barrili
A
proposito
del
nostro
inno
nazionale,
la
tesAmonianza
più
nota
è
quella
resa,
seppure
molA
anni
più
tardi,
da
Carlo
Alberto
Barrili,
patriota
e
poeta,
amico
e
biografo
di
Mameli.
Torino,
casa
di
Lorenzo
Valerio
“
Colà,
in
una
sera
di
mezzo
seEembre,
in
casa
di
Lorenzo
Valerio,
fior
di
patriota
e
scriEore
di
buon
nome,
si
faceva
musica
e
poli,ca
insieme.
InfaS,
per
mandarle
d’accordo,
si
leggevano
al
pianoforte
parecchi
inni
sboccia,
appunto
in
quell’anno
per
ogni
terra
d’Italia.
In
quel
mezzo
entra
nel
saloEo
un
nuovo
ospite,
Ulisse
Borzino,
l’egregio
piEore
che
tuS
miei
genovesi
rammentano.
Giungeva
egli
appunto
da
Genova
e,
voltosi
al
musicista
Novaro
con
un
foglieEo
cavato
di
tasca
in
quel
punto
–
Tò
–
gli
disse
–
te
lo
manda
Goffredo.
Il
Novaro
apre
il
foglieEo,
legge,
si
commuove.
Gli
chiedono
tuS
cos’è;
gli
fan
ressa
d’aEorno.
–
Una
cosa
stupenda!
–
esclama
il
maestro
e
legge
ad
alta
voce
e
solleva
d’entusiasmo
tuEo
il
suo
uditorio.
–
Lo
sen,i
–
mi
diceva
il
maestro
nell’aprile
del
1875,
avendogli
io
chiesto
no,zie
dell’inno,
per
una
commemorazione
che
dovevo
tenere
del
Mameli.
–
Sen,i
dentro
di
me
qualche
cosa
di
straordinario,
che
non
saprei
definire
adesso,
con
tuS
i
ven,seEe
anni
trascorsi.
So
che
piansi,
che
ero
agitato
e
non
potevo
stare
fermo.
Mi
posi
al
cembalo,
coi
versi
di
Goffredo
sul
leggio,
e
strimpellavo,
assassinavo
con
le
dita
convulse
quel
povero
strumento,
sempre
cogli
occhi
all’inno,meEendo
giù
frasi
melodiche,
l’un
sull’altra,
ma
lungi
le
mille
miglia
dall’idea
che
potessero
adaEarsi
a
quelle
parole.
Mi
alzai
scontento
di
me,
mi
traEenni
ancora
un
po’
in
casa
Valerio,
ma
sempre
con
quei
versi
davan,
agli
occhi
della
mente.
Vidi
che
non
c’era
rimedio,
presi
congedo
e
corsi
a
casa.
Là,
senza
neppure
levarmi
il
cappello,
mi
buEai
al
pianoforte.
Mi
tornò
alla
memoria
il
mo,vo
strimpellato
in
casa
Valerio
:
lo
scrissi
su
di
un
foglio
di
carta,
il
primo
che
mi
venne
alle
mani,
nella
mia
agitazione
rovescio
la
lucerna
sul
cembalo
e,
per
conseguenza,
anche
sul
povero
foglio
:
fu
questo
l’originale
dell’inno
Fratelli
d’Italia”.
Ancora
a
proposito
del
nostro
inno
nazionale….
Da
“La
Repubblica
Romana
raccontata
da
Cesare
Pascarella”
“E
come
risen,vi
dì
:
Fratelli
D’Italia…,
rivedevi
tuS
quan,
co’
l’acceEe,
li
sassi,
li
cortelli,
corre
a
le
mura
e
ribuEasse
avan,.
TuS
li
rivedevi!...perfino
quelli
chiusi
ne
l’ospedali,
agonizzan,,
li
rivedevi
pallidi,
treman,
scenne
da
leEo
e
uscì
da
li
cancelli;
Rivedevi
li
mor,
insanguina,
che
riapriveno
l’occhi,
se
riarzaveno
da
per
tera
dov’ereno
casca,,
E
senza
sen,’
più
li
pa,men,
de
le
ferite,
se
ristracinaveno
su
le
mura
e
moriveno
conten,.
Era
ormai
giunta
noOe,
in
soccorso
delle
truppe
romane
intervenne
anche
il
reggimento
Unione,
ma
il
casino
dei
QuaOro
VenA
rimase
in
mano
ai
francesi.
La
resistenza
dei
romani
permise
alle
truppe
di
avere
ancora
soOo
controllo
il
“Vascello”.
La baOaglia era
durata
sedici
ore,
Garibaldi
aveva perso
500
uomini
e
Manara
contava
tra i
suoi
bersaglieri
200
morA.
Dal
canto
loro,
i
francesi
di
Oudinot
lamentavano
la
perdita
di
250
uomini
e
14
ufficiali.
A
Garibaldi
erano
rimasA
soltanto
due
ufficiali
di
Stato
Maggiore.
Il
4
Giugno
i
francesi
posero
l’assedio
a
Roma forA
di
circa
30.000
uomini
:
iniziò
così
l’agonia
della
Repubblica
Romana che
chiamò
alle
armi
“sino
all’ulAmo
uomo”.
A
tal
proposito,
mi
è
d’obbligo
citare
il
grande
Nino
Manfredi
che,
vestendo
i
panni
di
Ciceruacchio
nel
film
di
Gigi
Magni
“In
nome
del
popolo
sovrano”,
mentre
incita
il
popolo
a
combaOere
sino
all’ulAmo
uomo,
ad
un
prete
casualmente
presente
che
aveva
appena
affermato
“Non
contate
su
di
me!”,
risponde
con
tuOa
l’amara
ironia
dei
romani
“
Guarda
che
mica
ce
l’avevo
co’
te.
Ho
deOo
fino
all’urAmo
omo,
mica
fino
all’urAmo
prete….”.
Implacabili
le
ore
erano
scandite
dai
bombardamenA
programmaA
e
direH
da
Oudinot
che
non
aveva
certo
scrupoli
a distruggere
Roma,
a
radere
al
suolo
le
inarrivabili
opere
d’arte
che
fanno
della
Capitale
ancora
oggi
un
museo
a
cielo
aperto.
Viene
da
chiedersi
quant’altro
avrebbe
potuto
offrire
questa
ciOà
al
mondo
se
nel
susseguirsi
dei
secoli
non
fosse
stata
conAnuamente
saccheggiata,
ferita,
violentata
dal
barbaro
isAnto
di
distruzione
degli
uomini.
I
rappresentanA
consolari
di
StaA
UniA,
Inghilterra,
Russia,
Prussia,
Danimarca,
Svizzera,
Paesi
Bassi,
Piemonte,
San
Salvador
e
Portogallo
inviarono
una
formale
protesta
a
Oudinot,
scongiurandolo
di
porre
fine
al
tremendo
bombardamento
che
stava
distruggendo
tante
opere
d’arte.
TuOo
risultò
inuAle.
All’interno
delle
mura,
la difesa
venne
affidata
a
circa
16.000
soldaA
o
volontari
della
Repubblica
Romana,
a
2.000
volontari
di
altre
regioni
italiane
e
a
300
volontari
provenienA
da altri
paesi
europei
:
uomini
di
Scienza,
ufficiali,
semplici
amanA
della
libertà,
delle
meraviglie
di
Roma,
uomini
che
intendevano
preservare
questo
patrimonio
arAsAco
dell’intera
Umanità.
Il
10
di
giugno
i
francesi
interruppero
l’acquedoOo
Paolo
che
riforniva
Trastevere
e
San
Pietro.
La
morte
stese
lentamente
il
suo
manto
nero
sulla
ciOà
anche
a
causa
delle
malaHe
infeHve
che
si
propagavano
senza
controllo
nelle
strade,
nei
vicoli,
nelle
povere
case
di
Roma,
diventando
così
il
maggiore
alleato
dei
francesi
che
instancabilmente
conAnuavano
i
bombardamenA.
Righe:o
“A
Righè,
‘nnamo
che
puro
oggi
dovemo
speggne
le
bbombe
de
quei
fiji
de
‘na
miggnoEa.
Ce
ll’hai
li
stracci
baggna,?
Ahò,
che
cazzo
stai
a
fa
ancora
llà
soEo
co’
Sgrullarella?
Noi
stamo
tuS
qua
sopra
a
Ponte
Sisto,
daEe
‘na
mossa.
Semo
sorda,,
mica
regazzini!.
Aricordete
quello
che
cià
deEo
er
Generale…”.
“
A
regà,
che
palle
che
sete!!
Me
so’
appena
sveijato
e
già
state
qua?
StanoEe
nun
ho
chiuso
occhio,
‘tacci
loro
e
de
chi
ce
l’ha
faS
venì
‘s,
francesi.
Daje
Sgrullarè,
famose
‘n
ber
baggno
tuE’e
due
qua
soEo
a
Tevere…’nnamo
cacasoEo
che
nun
zei
artro!,
guarda
che
nun
è
pe’
ggnente
fredda.
Anvedi
ahò!
Guardate
qua….mò
le
bbombe
ce
cascheno
‘n
mano,
senza
dovelle
annà
a
riccoje,
Guardate
regà,
guard……”.
RigheEo
ha
12
anni
quando
una
maSna
del
giugno
1849,
sulla
spiaggeEa
della
Renella
soEo
ponte
Sisto,
una
bomba
gli
cade
sulle
mani
stroncando
la
sua
giovane
vita
e
facendo
a
pezzi
Sgrullarella,
l’affeEuosissima
cagnolina
che
rappresentava
tuEa
la
sua
famiglia.
In
Trastevere,
uno
dei
quar,eri
più
bombarda,,
si
fa
fronte
come
si
può
all’aEacco
delle
truppe
francesi.
TuS.
Si
dis,ngue
tra
gli
altri
un
insolito
gruppo
di
combaEen,
:
“
li
regazzini”.
Un
gruppo
che
escogita
un
sistema
di
protezione
infallibile,
seppure
ad
al,ssimo
rischio.
Quando
le
bombe
finiscono
sul
suolo,
per
disinnescarle
basta
premere
sulle
loro
micce
con
uno
straccio
bagnato.
RigheEo
è
il
capo
di
questa
banda
di
piccoli
eroi
incoscien,
della
Repubblica
Romana.
Senza
padre
né
madre,
lavora
come
garzone
presso
un
fornaio
per
guadagnarsi
un
pezzo
di
pane.
La
sua
famiglia
è
rappresentata
soltanto
da
Sgrullarella.Come
casa
la
strada.
Fino
a
quella
maSna
di
giugno.
La noOe
stessa
del
10
giugno,
i
romani
tentarono
una sorAta con
circa
8.000
uomini
per
rompere
l’assedio
che
ormai
durava
da
sei
giorni,
ma
vennero
ricacciaA
nelle
loro
posizioni
senza
grandi
difficoltà.
Era
ardua
impresa per
soldaA
provaA
dalla
stanchezza,
dalla fame
e
dalla
mancanza
pressoché
assoluta
di
approvvigionamenA,
riuscire
a
ribaltare
una
situazione
che
giorno
dopo
giorno
volgeva
sempre
più
a
favore
di
un
esercito
che
possedeva
risorse
enormemente
superiori
alle
loro.
Eppure
quelle
truppe,
armate
più
di
determinazione
che
di
altro,
non
cedevano.
SpinA
da
un
ideale
che
da
solo
azzerava l’enorme
disparità
di
forze
in
campo,
i
soldaA
della
Repubblica
stavano
resistendo
contro
qualunque
logica militare
.
Ogni
angolo
era un
nascondiglio,
un
possibile
agguato
da
tendere
ai
francesi.
Si
combaOeva
strenuamente
nelle
zone
della
via
Flaminia,
ai
Parioli,
a
villa
Borghese.
Cris=na
Trivulzio
Di
Belgioioso
Sin
dal
20
aprile,
a CrisAna
Trivulzio
di
Belgioioso
venne
dato
l’incarico
di
formare
un
comitato
di
soccorso
ai
feriA.
Ecco
che
le
donne
entravano
in
scena
nella
fase
decisiva
di
una
guerra
senza
speranza.
Le
barelle
andavano
e
venivano
senza
interruzione
dagli
ospedali
e
le
donne
romane,
incuranA
della
faAca
e
dei
pericoli
che
ora
incombevano
anche
su
di
loro,
svolgevano
senza
sosta
la
loro
preziosa
aHvità per
salvare
tante
vite
umane.
Da
San
Pietro
in
Montorio
ai
vicoli
di
Trastevere,
il
sangue
dei
feriA
formava mille
geometrici
rigagnoli
rossi,
formando
come
un’unica
ed
enorme
ragnatela
di
quel
colore
cupo
in
tuOo
il
quarAere,
suscitando
orrore
e
commozione
nel
cuore
di
ogni
romano
ma,
contemporaneamente,
alimentando
in
maniera
feroce
la
voglia
di
resistenza
di
un
popolo
allo
stremo
ed
allo
stesso
tempo
senza
la
minima voglia
di
cedere
allo
straniero
la
propria
Patria.
Nella
tradizione
popolare,
ancora
oggi
questa
strada
(
l’aOuale
Via
Garibaldi
)
è
chiamata “la
strada
del
sangue”
e
purtroppo
in
questa
definizione
non
c’è
alcuna
romanAca
enfasi,
ma
soltanto
cruda
realtà.
CrisAna
assunse
l’incarico
di
direOrice
delle
ambulanze.
Al
suo
fianco
Giulia
Modena,
moglie
dell’aOore
mazziniano,
del
comitato
di
soccorso
della
Repubblica
Romana
fecero
parte
anche
Margherita
Fuller,
la
scriOrice
americana
che
aveva
sposato
in
segreto
il
marchese
Ossoli
ed
EnricheOa
Di
Lorenzo,
compagna
di
Carlo
Pisacane.
TuOavia,
nonostante
l’impegno
di
queste
magnifiche
donne,
la
mancanza
di
mezzi
sanitari
idonei,
permise
soltanto
parzialmente
di
fornire
ai
feriA
anche
gravi
gli
intervenA
necessari.
Se
a
questo
si
aggiungeva,
come
diceva
CrisAna
che
“Il
Consiglio
di
sanità
è
composto
di
neri
(pre,)
e
di
asini
e
l’intendenza
di
ladri”,
si
poteva
capire
come
i
risultaA
tardassero
a venire.
Poiché
qualunque
iniziaAva
doveva
essere
decisa
collegialmente,
il
Consiglio
passava
più
tempo
in
seduta
che
sui
malaA.
La proposta
di
CrisAna Trivulzio
di
Belgioioso
di
aprire
una
scuola per
infermiere,
stante
la
precaria
situazione,
cadde
nel
vuoto.
Sugli
ospedali
decise
di
stendere
un
drappo
nero,
sperando
che
la
pietà
dei
francesi
potesse
risparmiare
almeno
i
ragazzi
feriA
o
morenA,
ma
anche
questa
iniziaAva
non
sort
alcun
effeOo.
La sua
febbrile
aHvità
umanitaria e
patrioHca,
venne
oltretuOo
ignobilmente
infangata
da
una
cocente
offesa
a
lei
indirizzata
da
Pio
IX
che
la
insultò
volgarmente
con
l’incipit
dell’Enciclica papale
“NosciAs
et
nobiscum”
emessa
a
Napoli,
dal
sobborgo
di
PorAci,
l’
8
dicembre
del
1849
:
“Voi
conoscete
e
vedete
con
Noi,
o
Venerabili
Fratelli,
con
quanta
malvagità
siano
invalsi
e
abbiano
preso
animo
cer,
dichiara,
nemici
della
verità,
della
gius,zia
e
di
ogni
onestà,
i
quali
sia
con
frode
e
con
insidie
di
ogni
faEa,
sia
all’aperto
e
come
fluS
del
mare
inferito
che
spumano
le
proprie
turpitudini,
si
studiano
di
propagare
da
per
tuEo
tra
i
popoli
della
caEolica
Italia
una
sfrenata
licenza
di
pensare,
di
favellare
e
di
osare
ogni
cosa,
e
si
sforzano
di
indebolire
nella
stessa
Italia
la
religione
caEolica,
e
di
aEerrarla,
se
fosse
possibile
mai,
fino
alle
fondamenta.
La
trama
di
questo
infernale
divisamento
si
diede
a
conoscere
in
parecchi
luoghi,
ma
sopraEuEo
nell’alma
Nostra
ciEà,
sede
del
Nostro
supremo
Pon,ficato,
nella
quale,
poiché
fummo
costreS
a
par,rne,
imperversarono
più
liberamente,
sia
pure
per
pochi
mesi,
e
ove,
messa
li
con
sacrilego
aEentato
soEosopra
ogni
cosa
divina
e
umana,
il
loro
furore
giunse
a
tal
segno,
che
conculcata
l’autorità
e
impedita
l’opera
dello
specchia,ssimo
clero
romano
e
delle
Autorità
che
per
Nostro
comando
sopraEende
vano
ivi
alle
cose
sacre,
più
d’una
volta
gli
stessi
miseri
infermi
già
presso
a
morire,
sprovvedu,
di
ogni
conforto
della
Religione,
furono
costreS
ad
esalare
lo
spirito
fra
le
lusinghe
di
sfacciata
meretrice”.
La Belgioioso
replicò
fieramente
“Non
sosterrò
che
tra
la
mol,tudine
di
donne
che,
durante
il
maggio
e
giugno
del
1849,
si
dedicarono
alla
cura
dei
feri,
non
ve
ne
fosse
neppure
una
di
costumi
reprensibili
:
Vostra
San,tà
si
degnerà
sicuramente
di
considerare
che
non
disponevo
della
Polizia
Sacerdotale
per
indagare
nei
segre,
delle
loro
famiglie,
o
meglio
ancora
dei
loro
cuori.
TuEavia,
di
una
sola
cosa
si
poteva
esser
cer,,
che
esse
erano
state
per
giorni
e
giorni
al
capezzale
dei
feri,;
non
si
ritraevano
davan,
alle
fa,che
più
estenuan,,
né
agli
speEacoli
o
alle
funzioni
più
ripugnan,,
né
dinnanzi
al
pericolo,
dato
che
gli
ospedali
erano
bersagli,
proprio
per
con,nuo
criminale
incitamento
papale,
delle
bombe
francesi.”.
I
romani,
in
special
modo
gli
abitanA
di
Trastevere,
non
dimenAcarono
mai
l’ignobile
aOeggiamento
di
Pio
IX
che,
proprio
lui,
rappresentante
di
Dio
sulla Terra,
stava
incitando
la
Francia
al
massacro
della
popolazione
della
ciOà
sede
del
Papato.
Il
7
febbraio
1878,
durante
i
funerali
di
questo
Papa
ineOo
e
senza
alcun
fremito
umanitario,
la
polizia
e
i
bersaglieri
riuscirono
a
stento
a
traOenere
la
folla
inferocita.
Il
carro
venne
spinto
verso
il
parapeOo
di
ponte
Sant’Angelo
al
grido
di
“A
fiume
il
Papa
porco”,
mentre
il
popolo
intonava
canA
patrioHci.
I
Cardinali
del
seguito
sfuggirono
a stento
ad
una
lunga
sassaiola
e
la
salma
del
Papa
giunse
al
cimitero
del
Verano
soltanto
a
tarda
noOe.
A
proposito
di
meretrici,
cito
infine,
non
senza
un
filo
di
amara
ironia,
un
avviso
pubblicato
in
data 27
luglio
1849,
dopo
che
la
Repubblica
Romana
era
già
decaduta
da
quasi
un
mese
“
Avviso
per
i
Signori
Ufficiali
Francesi
–
La
signora
Luisa
Phiffer,
Luigia
Ravaglini
e
Clelia
Belli,
di
pubblica
e
conosciuta
fama,
e
specialmente
per
la
carriera
che
fin
dalla
loro
prima
gioventù
percorsero
in
servizio
dei
pre,
e
degli
stranieri,
si
recano
a
dovere
di
prevenire
i
signori
ufficiali
francesi
che
a
rendere
più
gradito
il
soggiorno
di
Roma,
si
sono
determinate
di
aprire
nelle
loro
rispeSve
abitazioni
casini
di
piacere
esclusivamente
dedica,
all’uso
dei
francesi
e
del
clero
soEo
la
protezione
speciale
della
mai
abbastanza
encomiata
commissione
municipale
:
ques,
casini
saranno
monta,
con
ogni
eleganza
e
pulizia
soEo
la
garanzia
sanitaria
dell’egregio
e
chiarissimo
signor
DoE.
Achille
Lupi,
spontaneo
in
tuEo.
In
essi
si
promeEe
varietà
di
persone
e
varietà
di
piacere.
TuEe
le
figlie,
tuEe
le
nipo,,
l’affine
del
parentado
in
genere,
dalla
più
giovane
alla
più
matura,
si
presteranno
(
ciascuna
nelle
opportune
e
convenien,
par,
)
a
soddisfare
con
impegno
ed
affeEo,
e
sopraEuEo
con
quel
disinteresse
che
per
le
suddeEe
famiglie
è
ormai
tradizione
in
Roma
ai
desideri
tuS
,
dei
signori
uffiziali
francesi.
Tra
le
gen,li
signore,
così
sarcas,camente
villipese,
troviamo
Luigia
Ravaglini
deEa
“l’an,camera
del
Paradiso”,
sorella
di
Carolina
Morici,
altra
romana
di
razza.”.
A
proposito
di
meretrici….
Durante
i
bombardamenA,
nelle
noH
di
tregua,
CrisAna
Trivulzio
Di
Belgioioso
leggeva
Dickens e
assisteOe
Mameli
nella
sua
lunga
agonia.
Lasciata Roma
dopo
la
caduta
della Repubblica,
vagò
per
diversi
anni
nel
Mediterraneo,
prima
da
Malta
ad
Atene,
poi
da
Scutari
a
Gerusalemme.
Nel
1857
le
vennero
resAtuiA
i
beni
di
famiglia
confiscaA
e
poté
ritornare
a casa,
in
Lombardia.
Rimasta
sola
dopo
il
matrimonio
della
figlia,
scrisse
“Della
presente
condizione
delle
donne
e
del
loro
avvenire”
e
riceveOe
nel
suo
saloOo
tuH
i
reduci
del
Risorgimento
italiano.
Il
5
luglio
del
1871
morì
a
Milano,
all’età
di
63
anni.
Seguirono
giorni
e
giorni
di
bombardamenA
ininterroH.
Oltre
Trastevere,
venne
colpito
l’allora
centro
della
ciOà;
ormai
le
bombe
stavano
arrivando
fino
a
Largo
ArgenAna
ed
al
Campidoglio.
Roma
era come
una
vecchia
signora
che
senAva
via
via venir
meno
le
forze,
si
stava
aggrappando
alla
vita
con
ogni
mezzo,
respirava
l’aria
acre
della
polvere
da
sparo
che
entrava senza
rispeOo
in
ogni
casa,
eppure
ancora
indossava
il
suo
vesAto
più
bello,
quello
di
tuH
i
giorni.
Nella
Cappella
del
Sacramento
della
chiesa
di
San
Bartolomeo
all’Isola,
nel
punto
in
cui
cadde,
è
rimasta
incastrata
una
grossa
palla
di
cannone
che
durante
l’assedio
di
Roma
del
giugno
1849
colpì
il
sacro
edificio
in
quel
momento
gremito
di
gente
miracolosamente
rimasta
illesa.
La
palla
deEa
“del
miracolo”
fu
lasciata
sul
muro
a
ricordo
dell’avvenimento.
“La
palla
der
miracolo”
Ner
‘quarantanove
a
Roma
era
bbufera,
la
Repubblica,
nata
ieri,
guasi
morta,
assediata
dai
francesi
mane
e
sera
pe’
riconsegnalla
ar
papa
‘n’artra
vorta.
La
ggente
ne
le
chiese
radunata
pregava
pe
‘n
miracolo
‘mprovviso,
“Signore
Iddio,
fa
sonà
la
ri,rata
da
tuS
l’angioleS
in
Paradiso.
Scaccia
via
‘sta
monnezza
da
le
mura
de
la
ciEà
eterna
e
ridalla
a
li
romani,
senza
papa
e
senza
diEatura,
Signore
Iddio,
fa
che
sia
domani!”.
‘Na
palla
de
cannone
‘n
quer
momento
arivò
driEa
driEa
a
San
Bartolomeo,
tra
li
fedeli
ce
fu
vero
sgomento,
ma
a
li
francesi
‘sta
chiesa
fece
marameo!
La
boccia
rimase
appiccicata
ar
muro
e
a
ggnente
e
nisuno
lì
dentro
fece
male,
er
boEo
fu
grosso,
de
questo
so’
sicuro,
ma
nun
fece
danni,
risurtò
ufficiale!
“Miracolo!,
miracolo!”
gridò
er
popolino
guardanno
la
palla
tra
i
lampadari
appesi,
“Peccato!”
esclamò
‘nvece
un
regazzino,
“Preferivo
ce
fosse
la
capoccia
dei
francesi!”.
CAPITOLO
III
Alcune
parole
è
giusto
spenderle
sull’accusa
di
anAclericalismo
della
Repubblica
Romana
:
è
vero
che
lo
stesso
Mazzini
forse
esagerò
dichiarando
che
Pio
IX
stava
scavando
un
abisso
incolmabile
tra la
Chiesa
e
i
credenA,
ma
è
anche
vero
che
la
poliAca
della
Repubblica
non
fu
mai
anAclericale
o
anAreligiosa,
né
mai,
nei
brevi
mesi
della
sua
esistenza,
ostacolò
in
alcun
modo
la professione
della
religione.
Fu
una
poliAca
rivoluzionaria
in
uno
stato
in
cui
l’autorità
era
rappresentata
da
uomini
di
Chiesa,
in
cui
la
ricchezza
era
detenuta
dalla
Chiesa.
L’anomalia
dello
Stato
PonAficio,
Monarchia
non
dinasAca
in
cui
si
mescolavano
inevitabilmente
religione
e
poliAca,
spiritualità
ed
interessi
materiali,
rendeva inevitabili
cerA
evenA
ed
oggi
la
stessa
Chiesa riconosce
come
provvidenziale
il
faOo
di
aver
perso
la
potestà
temporale.
La noOe
del
20
giugno,
i
francesi
si
impossessarono
di
un
traOo
dei
basAoni
di
Trastevere
dopo
una
loOa
che
vide
nuovamente
l’esercito
romano
resistere
oltre
i
limiA
umani
e
forse
anche
questa
ulteriore
conferma
di
fedeltà,
indusse
Mazzini
ancora
una
volta
a
rifiutare
di
arrendersi.
Oudinot,
esasperato
da
questa
rinnovata
e
osAnata
resistenza,
riprese
con
ancor
più
veemenza
il
bombardamento
e
stavolta
i
cannoni
li
puntò
direOamente
sulla
ciOà,
al
fine
di
indurre
Roma
alla
resa
definiAva.
Il
giorno
seguente,
tre
baOerie
francesi
iniziarono
a
sparare
da
distanza ravvicinata
contro
i
basAoni
di
San
Pancrazio
fino
ad
aprire
tre
brecce
e
poco
prima di
mezzanoOe
gli
uomini
di
Oudinot
aOaccarono
nuovamente,
occupandole
tuOe,
dopo
aver
promosso
un
paio
di
azioni
diversive
a
San
Paolo
e
villa
Borghese.
Garibaldi
organizzò
una
seconda
linea
difensiva
riArandosi
sulla
vecchia
cinta delle
mura
Aureliane,
ma
ormai
serviva
a
poco.
Le
sorA
della guerra,
peraltro
già
segnate
sin
dall’inizio
delle
osAlità,
ora
avevano
contorni
sempre
più
chiari
e
irreversibili.
Alle
nazioni
straniere
che
scongiurarono
di
nuovo
Oudinot
di
salvare
i
monumenA
di
Roma,
il
generale
francese
rispose
che
era obbligato
a
conAnuare
nelle
operazioni
militari.
Nella Francia
stessa,
il
parAto
favorevole
alla
pace
con
la
Repubblica
Romana,
dopo
aver
inuAlmente
protestato
in
Parlamento
e
sulla
stampa,
diede
inizio
a
sommosse
prontamente
e
brutalmente
soffocate
dal
regime
autoritario
di
Luigi
Napoleone
Bonaparte
“Il
Generale
Changarnier
fa
aEaccare
i
ridoS,
arresta
i
Deputa,
e
pone
Parigi
in
stato
di
assedio,
mentre
la
Milizia
Civile
invade
gli
uffici
dei
giornali
contrari
all’azione
liber,cida
della
Francia
in
Italia,
e
distrugge
ogni
cosa.
A
Lione
avvennero
le
stesse
scene,
gli
stessi
tumul,,
con
questo
di
più
grave,
che
degli
ammu,na,
fu
faEa
un’ecatombe”.
La villa
del
Vascello
ancora
resisteva,
nonostante
un
nuovo
assalto
al
caposaldo
dei
difensori
sul
Gianicolo.
I
volontari
di
Giacomo
Medici
chiamarono
a raccolta
le
ulAme
forze
e
riuscirono
una
volta
ancora
a
respingere
i
francesi.
Risultò
allora
necessario
un
aOacco
generale,
un
aOacco
che
nemmeno
il
più
pessimista
rappresentante
del
Governo
francese
immaginava
sarebbe
mai
stato
necessario
per
vincere
la
resistenza
di
quella
piccola
Repubblica
che
aveva
osato
ribellarsi
al
Papa
e
alle
maggiori
potenze
caOoliche.
L’esercito
francese
riuscì
ad
oltrepassare
il
Tevere
presso
ponte
Milvio,
nonostante
la
commovente
resistenza
del
BaOaglione
Universitario
Romano.
Si
racconta
che
gli
universitari,
rimasA
ormai
senza
munizioni,
presero
a
scagliare
contro
il
nemico
tuOo
ciò
che
gli
capitava
tra
le
mani,
compresi
i
loro
libri.
I
loro
libri.
Le
pagine
alle
quali
avevano
affidato
le
loro
speranze,
il
loro
futuro,
i
loro
progeH,
intonando
tra
lacrime
di
rabbia
e
paura
il
loro
inno,
l’inno
degli
studenA
“
Quanta
schiera
di
gagliardi,
quanto
riso
ne’
sembian,,
quanta
gioia
negli
sguardi
vedi
in
tuS
scin,llar!
D’impugnar
moscheEo
e
spada,
primi
a
offrire
il
nostro
peEo,
di
salvar
questa
contrada
giuriam
tuS
nel
Signor!”.
MolA
furono
gli
studenA
romani
caduA
nelle
giornate
di
giugno,
proprio
mentre
il
sole
dell’estate
invitava
alla
vita.
Roma
era
ormai
rassegnata
a
rinunciare
al
suo
sogno,
eppure
nessuno
osava
pronunciare
la
parola “resa”
.
All’una
di
noOe
tra
il
29
ed
il
30
giugno,
nel
buio
più
fiOo,
soOo
l’imperversare
di
una
vera
e
propria
bufera,
iniziarono
nuovamente
i
bombardamenA
per
poi
arrestarsi
improvvisamente
alle
tre.
Un
silenzio
irreale
ed
angosciante
si
impadronì
della
ciOà,
negli
occhi
dei
difensori
di
Roma
si
leggeva
l’aOesa
del
diluvio
di
fuoco
che
si
stava
per
abbaOere
su
di
loro.
Nessuno
per
strada.
I
pochi
bambini
che
curiosi
aprivano
l’uscio
di
casa
per
capire
cosa
stesse
succedendo,
venivano
rimbroOaA
dai
genitori
che
in
tuOa
freOa sprangavano
le
porte
e
le
finestre,
solo
qualche
cane
randagio
conAnuava
ad
abbaiare
nei
vicoli
o
nelle
piazze
deserte.
“Ninna
nanna”
Ninna
nanna
regazzini
belli
che
sete
na,
sani
‘n
braccio
a
Dio
ce
so’
a
Roma
mo’
mille
cancelli
che
ve
leveno
l’aria,
pori
fiji….
Ninna
nanna
a
tuS
li
romani
che
stasera
‘n
ponno
chiude
‘n
occhio,
schioppo
‘n
spalla
a
aspeEà
domani
e
‘s,
francesi
fiori
de
finocchio.
Ninna
nanna
ar
soriso
de’
‘na
donna
che
accarezza
la
paura
der
pischello
pronto
a
ficcasse
soEo
quella
gonna
pe’
nun
morì
a
vent’anni
sur
più
bello.
Ninna
nanna
ar
Papa
giù
a
Gaeta
che
riposa
‘n
pace,
bbeato
lui,
tra
ricami
e
pizzi
blu
de
seta,
a
gozzovijà
in
casa
artrui.
Ninna
nanna
a
quer
baro
de
Oudinot
che
nun
ce
dorme
pe’
rubbà
‘sto
sogno
a
me
che
pe’
‘na
vorta
ho
deEo
no
e
si
mme
tocchi
Roma,
me
te
magno!.
Ninna
nanna
ar
medesimo
cannone
che
dar
bas,one
spara
tuEo
er
giorno,
guasi
fosse
l’ur,ma
canzone
de
‘na
baEaja
ormai
senza
ritorno.
Eppure,
nonostante
la
situazione
disperata
e
nelle
precarie
condizioni
in
cui
versava,
il
governo
della
Repubblica
Romana
decise
di
mantenere
la
tradizione
della
luminaria sulla
cupola
dei
SanA
Pietro
e
Paolo
nella
ricorrenza
religiosa
del
29
giugno.
C’era
in
ciOà
un
disperato
bisogno
di
normalità.
Le
colonne
francesi,
dopo
una
micidiale
preparazione
d’arAglieria,
mossero
in
massa alla
volta
delle
mura
di
San
Pancrazio.
Emilio
Morosini,
al
comando
di
una
paOuglia colta
di
sorpresa dai
transalpini,
fu
tra
i
primi
ad
essere
ferito
mortalmente.
Emilio
Morosini
“Lassateme
qua,
devo
difenne
er
bas,one,
che
je
vado
a
dì
a
Manara,
che
s’è
sbaijato
a
fidasse
de
me?,
lassateme
qua….è
‘n
ordine!!”
“A
sor
Tenè,
voi
state
più
de
llà
che
de
qua,
datece
reEa
state
bbono.
Mò
ve
portamo
a
villa
Spada
che
lì
ve
cureno
e
v’arimeEete
presto.
Nun
parlate,
che
co’
tuEo
‘sto
casino
finisce
che
riuscimo
a
passà
puro
‘n
mezzo
a
li
francesi
senza
fasse
accorge,
ma
voi
stateve
ziEo
sor
Tenè
che
sinnò
svagheno
che
nun
zemo
servi
der
papa
come
loro”.
“Alt!
Chi
va
là!
Fatevi
riconoscere!”
“
Priggionieri,
semo
priggionieri….lassatece
passà
si
sete
gen,lommini
e…nun
me
fate
parlà
ancora
che
nun
me
reggo
‘n
piedi”
“Non
vi
crediamo,
voi
italiani
siete
infingardi
e
contafroEole….avan,,
circondiamoli!”
“A
sor
Tenè,
noi
dovemo
scappà,
ques,
ce
fanno
fori
a
tuS…fateve
rispeEà,
diteje
che
v’arennete,
che
state
a
schiaEà,
‘nzomma
fate
‘n
po’
voi,
ma
cercate
de
capicce…stavorta
so’
propio
troppi!”
“Annate,
corete
giovinò,
io
nun
servo
più
a
ggnente
aridoEo
così
e
‘nvece
voi
dovete
difenne
er
bas,one
a
costo
de
favve
squartà.
E
forza
voi,
venite
avan,,
dimostrateme
quello
che
sapete
fa’,
dateme
solo
er
tempo
de
meEe
mano
alla
spada
e,
puro
che
nu
je
la
faccio
a
arzamme,
ve
fò
vede
come
combaEe
la
Repubblica
Romana,
come
more
‘n
itaijano!”.
“MaledeS,
m’hanno
‘nfirzato
‘n’artra
vorta.
Certo
che
annassene
a
vent’anni
te
ce
rode…”.
E
a
questo
punto
ricorro
ancora
una
volta
ad
una
frase
di
Nino
Manfredi
rivolta
a
suo
figlio
nel
film
“In
nome
del
Papa
Re”.
Manfredi
interpreta
il
ruolo
di
un
alto
prelato
che
scopre
di
avere
un
figlio
di
vent’anni,
nato
da
una
breve
relazione
giovanile
con
una
contessa.
Il
ragazzo,
patriota
italiano,
viene
colpito
mortalmente,
per
un
equivoco,
dal
marito
di
colei
che
riteneva
fosse
la
sua
amante,
ma
che
in
realtà
era
la
madre
segreta
del
giovane.
“Fijo
mio
daEe
pace.
Li
ribbelli
moreno
sempre
a
vent’anni,
puro
quanno
nun
moreno….”.
Figlio
del
nobile
Gian
BaSsta
Morosini
e
di
donna
Emilia
Zeltner,
nacque
a
Varese
dove
la
famiglia
si
era
trasferita
dal
Canto
Ticino.
Unico
maschio,
con
cinque
sorelle,
crebbe
soEo
l’influsso
dell’educatore
e
patriota
Angelo
Fava
e
studiò
a
Milano
nel
ginnasio
di
Brera
e
al
liceo
di
Porta
Nuova.
Qui
conobbe
e
strinse
una
grande
amicizia
con
altri
due
eroici
patrio,
italiani
:
Enrico
ed
Emilio
Dandolo,
oltre
che
con
Luciano
Manara.
Insieme
salirono
sulle
barricate
nelle
cinque
giornate
di
Milano
del
marzo
1848
e,
nelle
seSmane
successive,
combaEerono
più
volte
contro
gli
austriaci
come
ufficiali
del
1°
baEaglione
dei
bersaglieri
lombardi
comanda,
da
Manara.
TuS
e
quaEro
si
rifiutarono
di
riparare
in
Svizzera
per
accorrere
nel
1849
a
difendere
la
Repubblica
Romana.
Durante
gli
scontri
con
le
truppe
francesi
che
assediavano
il
Gianicolo,
Emilio
Morosini
fu
gravemente
ferito
il
29
giugno
e
morì
due
giorni
dopo
per
le
ferite
riportate.
Dal
racconto
di
Emilio
Dandolo
“…favori,
dalla
confusione,
si
avviarono
correndo
verso
villa
Spada
per
salvare
Morosini
che
era
stato
ferito
da
una
palla
al
ventre
e
da
un
colpo
di
baioneEa.
Villa
Spada
era
però
già
circondata
dai
francesi.
S’imbaEerono
quindi
nei
solda,
di
parte
avversa
che
da
lontano
gridarono
“Chi
vive?”
“Prigionieri”
rispose
Morosini
con
voce
fioca,
ma
i
nemici,
temendo
forse
un
inganno,
si
avventarono
su
di
loro
con
la
baioneEa
spianata.
Raccontò
poi
uno
dei
bersaglieri
che
portavano
il
ferito
che,
trovandosi
circonda,
e
minaccia,
nella
vita
dal
nemico
inferocito
dalla
baEaglia,
avevano
deposto
la
barella
e
tentato
di
salvarsi
fuggendo.
Fu
visto
quel
povero
giovineEo
di
tenente,
alzarsi
riEo
sulla
barella
insanguinata
e,
messo
mano
alla
spada
che
gli
giaceva
a
lato,
con,nuare,
lui
che
era
già
morente,
a
difendere
la
propria
vita
,
finchè,
colpito
una
seconda
volta
nel
ventre,
si
accasciò
di
nuovo
sulla
stessa
barella
a
versare
dell’altro
sangue.
Commossi
a
così
tanto
e
sventurato
coraggio,
i
francesi
lo
raccolsero
e
lo
portarono
all’ambulanza
di
trincea.
Molte
narrazioni
furono
faEe
sulla
morte
di
questo
giovane
tenente.
Questo
solo
io
posso
dire
di
sicuro
:
che
visse
altre
30
ore,
rassegnato,
pregando,
parlando
della
sua
famiglia
e
strappando
le
lacrime
ai
nemici
stessi
che
accorrevano
a
froEe
per
vederlo
come
fosse
una
meraviglia.
Il
maSno
del
1°
luglio
spirò
serenamente,
senza
soffrire”.
Garibaldi,
ormai
soffocato
nella
morsa
delle
truppe
francesi,
organizzò
una
terza
linea
difensiva
da
villa
Spada
a
villa
Savorelli.
Villa
Spada
era
difesa
da
Luciano
Manara,
mentre
villa Savorelli
da
Giacomo
Medici.
Verso
le
10,
colpito
da una
palla
allo
stomaco,
a
25
anni
morì
Luciano
Manara.
Nei
giorni
precedenA
al
suo
sacrificio,
Manara
ebbe
modo
di
scrivere
una leOera
ad
una
sua amica,
Francesca
“Fanny”
Bonacina
Spina.
Una
leOera
che
conteneva
queste
parole
“
Noi
dobbiamo
morire,
per
chiudere
con
serietà
il
QuarantoEo.
Affinchè
il
nostro
esempio
sia
efficace,
dobbiamo
morire.”
Garibaldi
prese
il
suo
posto
al
comando
delle
forze
aOestate
a
Villa
Spada,
mentre
Oudinot
si
impossessò
di
tuH
i
capisaldi
fuori
le
mura
Aureliane.
Da
“
L’assedio
di
Roma”
di
Francesco
Domenico
Guerrazzi
:
“
Chiudo
la
narrazione
della
baEaglia
del
ven,nove
giugno
rammentando
il
caporale
Perocco,
del
quale
non
poterono
impadronirsi
i
francesi
se
prima
non
lo
ebbero
sternato
con
ben
ven,tre
colpi
di
baioneEa.
Scacciani,
Spiavanelli
ed
altri
mol,ssimi
perirono,
ma
prima
si
cacciarono
soEo
i
nemici
adagiandoci
il
capo
come
sopra
un
guanciale
di
riposo;
un
fanciulleEo
tamburino,
vis,
mor,
gli
uomini
della
compagnia,
buEato
da
parte
il
tamburo,
raccolse
gli
schioppi,
e
quelli
sparò
contro
i
nemici,
finché
percosso
in
fronte,
anch’egli
li
seguitava
nella
morte.
Sorge
il
giorno
del
30
giugno,
ul,mo
della
difesa;
chi
stava
sul
Gianicolo
vedeva
la
grande
cupola
va,cana
in
qua,
ed
in
là
rischiarata
dalle
faci
che
avevano
resis,to
all’imperversare
della
bufera,
e
che
ora
andavano
una
dopo
l’altra
es,nguendosi.
Immagine
dolorosa
degli
sforzi
dura,
per
difendere
Roma”.
Si
arrivò
così
all’epilogo,
sul
Gianicolo
la
Repubblica
Romana
diede
vita
alla
sua
ulAma
baOaglia.
Il
Generale
Garibaldi
difese
caparbiamente
il
Vascello
ed
i
volontari
che
erano
con
lui,
senza
più
munizioni,
aOaccarono
per
l’ulAma
volta
i
francesi
alla
baioneOa,
con
la
disperazione
di
chi
era
ormai
cosciente
del
desAno
che
lo
stava
aOendendo,
senza
alcuna
possibilità
di
viOoria,
ma
era
il
loro
grande
cuore
che
chiedeva
di
aOaccare.
Ci
furono
3.000
italiani
fra
morA
e
feriA,
mentre
ben
2.000
i
francesi
che
rimasero
sul
campo.
La
baOaglia
e
la
Repubblica
Romana
finirono
qui,
tra
le
macerie
del
Vascello,
sul
colle
sacro
del
Gianicolo
dove
ora
un
ossario
è
stato
innalzato
ad
eterna
memoria
di
quesA
splendidi
ragazzi.
Il
leone
della
Montagnola
Dalla
“GazeEe
Mèdical
de
Paris”
del
2
Gennaio
1850
“…un
ufficiale
dell’ar,glieria
romana
fu
portato
a
Villa
Pamphili
col
cranio
spaccato
da
dodici
colpi
di
sciabola,
una
coscia
forata
da
dodici
baioneEate,
una
doppia
fraEura
del
braccio
e
dell’avambraccio.
Egli
aveva
difeso
la
sua
baEeria
come
un
leone
difende
la
sua
prole,
ed
aveva
allora
soltanto
ceduto
quando
il
suo
braccio
non
poté
più
obbedire
alla
sua
volontà”.
L’ufficiale
di
cui
si
parlava
era
il
tenente
Filippo
Casini,
che
comandava
la
BaOeria
della Montagnola
insieme
al
tenente
Oreste
Tiburzi,
anch’egli
caduto
stoicamente
accanto
ai
suoi
cannoni.
Casini,
nato
a
Roma
il
13
Gennaio
1822,
si
laureò
in
Ingegneria.
Conosceva
seOe
lingue
e
si
meritò
l’alto
grado
di
Ufficiale
Onorario
di
arAglieria.
Nella
terribile
noOe
tra
il
29
e
il
30
giugno
1849,
si
offrì
volontario
“senza soldo
e
senza ascenzo”
per
il
comando
dell’ulAma
baOeria
della
difesa,
quella della
Montagnola,
presso
San
Pietro
in
Montorio.
Venne
accontentato.
Intorno
a
lui
vide
cadere
tuH
i
suoi
soldaA.
Rimasto
solo,
Casini,
a
cavalcioni
di
un
cannone,
conAnuò
a
Arare
terribili
fendenA
con
la
sciabola,
finché
non
cadde
a
terra
coperto
di
sangue.
I
francesi
lo
ritennero
morto.
Solo
il
maHno
dopo,
nel
corso
di
una
perlustrazione,
si
accorsero
che
era
ancora
vivo
e
lo
trasportarono
in
un’ambulanza.
Il
coraggio
di
Casini
aveva
toccato
il
cuore
dei
francesi.
Lo
stesso
generale
Oudinot
volle
andare
a
trovarlo
per
elogiarne
la
condoOa
e
per
specificare
che
lo
riteneva non
un
prigioniero
ma
un
ospite.
Fu
accompagnato
a
casa
della
madre,
in
via
Paola,
su
una
barella
scortata
dal
piccheOo
d’onore
francese.
Purtroppo
il
suo
fisico
non
riuscì
a superare
le
conseguenze
delle
numerose
ferite
subite
e
morì
un
anno
dopo,
il
15
agosto
1850.
Semplicemente
uno
degli
innumerevoli
esempi
di
eroismo
di
quel
giorno,
dell’ulAma
resistenza
della
Repubblica
Romana.
A
sera
di
quella
fatale
giornata,
Garibaldi
si
recò
all’Assemblea CosAtuente
e
propose
di
abbandonare
Roma,
ormai
indifendibile,
per
conAnuare
la
loOa
altrove
ma,
parole
sue,
“Dovunque
saremo,
colà
sarà
Roma”.
La
stessa
proposta
era
già stata
avanzata
da
Mazzini
che
poteva
ormai
scegliere
soltanto
tra
la capitolazione
totale
e
la
baOaglia
in
ciOà
che
avrebbe
provocato
ancora
morte,
distruzioni
e
saccheggi.
Dal
“Giornale
delle
Operazioni”
del
Generale
francese
Vaillant
:
“
Verso
mezzogiorno
del
primo
di
luglio,
i
difensori
romani
cessarono
il
fuoco.
Un
loro
parlamentare
venne
a
chiedere
una
tregua
per
raccogliere
i
mor,
e
i
feri,
dissemina,
sul
campo
di
baEaglia.
La
richiesta
venne
accolta
dal
generale
comandante
la
trincea.
Allora
da
parte
loro
e
da
parte
nostra
si
iniziò
quest’opera
di
pietà,
guidandoci
reciprocamente
nelle
ricerche,
e
spesso
scambiandoci
i
corpi
dei
cadu,.
I
feri,
che
ancora
giacevano
sul
campo,
francesi
e
romani,
riceveEero
le
cure
indis,ntamente
dai
sanitari
dell’una
o
dell’altra
parte,
lì
sullo
stesso
terreno
degli
scontri,
ancora
coperto
dalle
lance
con
la
bandierina
rossa
della
Compagnia
della
Guardia
di
Garibaldi,
che
durante
l’assalto
difendevano
la
baEeria
e
lì
erano
in
massima
parte
cadu,.
La
scena
destava
commozione.
Ne
furono
tes,moni
il
generale
comandante
in
capo
e
gran
parte
dello
Stato
Maggiore
dell’esercito
francese”.
Era
arrivato
il
momento
di
valutare
se
esistevano
alternaAve
alla
pura
e
semplice
capitolazione,
tenendo
sopraOuOo
conto
che
anche
Oudinot
aveva
subito
pesanA
perdite
e
che
quindi
un
qualche
prezzo
poteva
forse
essere
richiesto
ai
francesi.
Si
traOava
di
discutere
un’onorevole
“uscita
dalla
ciOà”
con
le
forze
ancora
combaOenA
disposte
a
seguire
Garibaldi
verso
quelle
zone
degli
StaA
della
Chiesa non
occupaA
dalle
truppe
francesi
per
portare
“l’insurrezione
nelle
provincie”.
Tra
le
richieste
di
Oudinot
per
la resa,
non
era
compresa
la
rinuncia
da
parte
della
Assemblea
CosAtuente
alla
avvenuta
proclamazione
della
Repubblica.
Di
faOo,
ciò
ne
salvaguardava
la
dignità
e
la
personalità
giuridica.
Pio
IX,
d’altronde,
non
l’aveva
mai
riconosciuta
ufficialmente
e
quindi
i
romani
erano
nella
condizione
di
doversi
sì
arrendere,
ma
senza
rinunciare
formalmente
alla
loro
Repubblica.
Raggiunto
almeno
questo
scopo,
l’Assemblea
CosAtuente
approvò
il
decreto
di
resa
che,
tuOavia,
ribadì
chiaramente
che
la
Repubblica Romana
non
era
desAtuita
“
L’Assemblea
Cos,tuente
romana
cessa
da
una
difesa
ritenuta
impossibile,
e
sta
al
suo
posto.
Il
triumvirato
è
incaricato
dell’esecuzione
del
presente
decreto”.
Mazzini,
Armellini
e
Saffi,
tuOavia,
si
rifiutarono
categoricamente
di
decretare
la
resa della
Repubblica,
di
incontrare
da
vinA
Oudinot,
quindi
presentarono
formali
dimissioni
all’Assemblea
che
fu
pertanto
costreOa
a
sosAtuirli
con
un
altro
comitato
esecuAvo
formato
da
Aurelio
SaliceA,
Alessandro
Calandrelli
e
Livio
Mariani
che
invece
raAficarono
formalmente
la
resa.
Giuseppe
Garibaldi,
come
un
leone
ferito
ma
non
vinto,
perseguendo
l’obieHvo
stabilito
di
portare
l’insurrezione
nelle
provincie,
nella
maHnata
del
2
luglio
tenne
a
piazza
S.Pietro
il
famoso
discorso
“Io
esco
da
Roma,
chi
vuole
con,nuare
la
guerra
contro
lo
straniero
venga
con
me.
Non
promeEo
paghe,
non
ozi
molli.
Acqua
e
pane
quando
se
ne
avrà.”.
L’appuntamento
era
fissato
per
le
18
a
San
Giovanni
e
quando
il
Generale
entrò
nella
piazza,
trovò
ad
aOenderlo
4.000
uomini
armaA,
800
cavalli
ed
un
cannone.
Non
riuscì
mai
a
raggiungere
Venezia,
unica
libera Repubblica
supersAte.
Francesi,
borbonici,
spagnoli
e
austriaci
rappresentarono
un
ostacolo
insormontabile
anche
per
lui
ed
i
suoi
fedelissimi,
fino
ad
indurlo
a scioglierne
le
fila
al
fine
di
permeOere
ai
pochi
supersAA
di
porsi
in
salvo.
Lungo
il
viaggio
vennero
caOuraA
e
fucilaA
Ugo
Bassi,
barnabita
e
cappellano
dei
garibaldini,
il
capitano
Giovanni
Livraghi,
Ciceruacchio
ed
i
suoi
due
figli
adolescenA
Luigi
e
Lorenzo.
La
fucilazione
di
Ugo
Bassi
(
Cento
12.8.1801
–
Bologna
8.8.1849
)
“Voi
che
siete
un
prete,
voi,
un
prete….vergognatevi!
Tradire
la
vostra
Fede
e
l’abito
che
portate!.
Nessuna
giuria
al
mondo
potrebbe
assolvervi.”
“Sì,
io
che
so’
‘n
prete,
che
so’
ito
‘n
giro
pe’
l’Italia
a
portà
la
parola
de
Cristo,
che
ho
dato
l’ur,mo
sacramento
a
mille
amici
mor,
‘n
baEaja
e
puro
a
quelli
dell’artra
parocchia.
Nun
ve
sete
mai
chiesto,
voi
che
ce
sete
venuto
dall’Austria,
er
perché
sto
qui,
davan,
ar
plotone
d’esecuzzione
e
ve
guardo
driEo
nell’occhi
come
si
a
morì
doveste
esse
voi
e
no
io?”.
“
Caro
Padre
Bassi,
io
credo,
e
chi
crede
ha
la
coscienza
a
posto,
più
di
un
brigante
che
si
nasconde
dietro
il
saio,
più
di
un
prete
rivoluzionario,
capace
di
combaEere
addiriEura
contro
il
Rappresentante
di
Dio
in
terra.
Caricate!,
puntate!......”.
“Io
pure
credo,
credo
nell’inzegnamento
de
Cristo,
che
nun
me
pare
che
ha
mai
deEo
che
‘n
Papa
po’
fa’
ammazza’
li
cris,ani
de
Roma
p‘arimeEese
a
sede
sur
trono.
Nun
ha
mai
deEo
che
la
Chiesa
deve
soffocà
ner
sangue
la
voce
de
chi
vo’
campà
libbero
a
casa
sua.
Che
razza
de
Chiesa
è
quella
che
nun
cià
argomen,
pe’
convince
er
popolo
caEolico
e
je
deve
‘nvece
‘mpone
a
forza
la
miseria,
l’anarfabbe,smo,
le
tasse
che
lo
strozzeno,
mentre
er
Papa
galleggia
‘n
mezzo
all’ori,
allo
sfarzo,
maggna
e
beve
a
la
faccia
de
chi
ce
ce
crede
sur
serio
a
quer
Paradiso
che
‘nvece
la
Chiesa
se
sta
a
gode’
qua,
tanto
pe’
nu’
sbajasse...
A
me
nun
me
potete
ammazzà,
me
dispiace
pe’
voi.
Io
so’
ggià
morto
ammazzato
da
la
Fede
mia
tradita,
carpestata,
derisa
da
chi
anzi
la
doveva
difenne.
Ve
chiedo
solo
artri
cinque
minu,
de
respiro
pe’
famme
armeno
recità
l’ur,ma
Ave
Maria.”.
La
maSna
del
giorno
8
agosto
1849,
due
sacerdo,
ebbero
il
compito
di
assistere
i
condanna,
prima
della
fucilazione.
Un
ufficiale
lesse
loro
il
decreto
di
condanna
a
morte.
Ugo
Bassi
era
preparato.
Conosceva
la
legge
marziale
e
non
si
aspeEava
clemenza
dal
Generale
austriaco
Gorzkowski.
TuEavia
protestò
fieramente
la
propria
innocenza
“Ho
assis,to
i
moren,
sul
campo,
non
ho
mai
negato
il
soccorso
neppure
ai
nemici,
non
ero
armato,
come
non
lo
era
il
mio
compagno,
non
ero
reo…”.
Incatena,
ai
polsi,
furono
faS
salire
coi
due
sacerdo,
su
un
carro
militare
e
condoS
in
Via
della
Certosa.
Ugo
Bassi
salutò
il
compagno
che
doveva
essere
fucilato
per
primo
:
“Fra
poco
saremo
congiun,”,
disse.
Chiese
che
fosse
un
sacerdote
a
bendarlo.
Prese
a
recitare
l’Ave
Maria,
ma
una
fucilata
troncò
l’ul,ma
parola.
Fu
sepolto
senza
bara,
in
una
fossa
assieme
al
Capitano
Livraghi.
Nei
giorni
successivi
gruppi
di
bolognesi
si
recarono
sulla
tomba,
la
coprirono
di
fiori
e
ne
tolsero
zolle
di
terra
per
ricordo.
Per
impedire
ai
bolognesi
di
manifestare
i
loro
sen,men,
di
amore
e
devozione
al
mar,re,
nella
noEe
tra
il
18
ed
il
19
i
due
corpi
vennero
esuma,
e
occulta,
all’interno
del
cimitero
della
Certosa.
Soltanto
nell’agosto
del
1859
i
paren,
oEennero
che
le
ossa
di
Ugo
Bassi
venissero
collocate
nella
tomba
di
famiglia
accanto
ai
genitori.
Restarono
con
Garibaldi
soltanto
la
moglie
Anita
ed
il
tenente
Giovan
BaHsta
Coliolo.
Quando
il
4
agosto
raggiunsero
la
località
delle
“
Mandriole”,
sull’argine
sinistro
del
Po,
Anita
morì
tra
le
sue
braccia,
vinta
dagli
stenA
e
dalle
malaHe.
Lui
fu
costreOo
a
lasciarla insepolta,
braccato
com’era
dagli
austriaci.
Soltanto
il
5
seOembre,
dopo
mille
peripezie,
Garibaldi
riuscì
a
meOersi
in
salvo
assieme
al
tenente
Coliolo,
imbarcandosi
da
Follonica
e
raggiungendo
finalmente
la
Liguria,
nel
Regno
di
Sardegna.
Il
3
luglio
1849,
lo
stesso
giorno
in
cui
venne
decretata
la
resa,
fu
approvata
la
CosAtuzione
come
ulAmo
aOo
formale
della Repubblica Romana.
Dal
balcone
del
palazzo
Senatorio
del
Campidoglio,
il
Generale
GalleH
la
lesse
al
popolo
romano
mentre
i
soldaA
francesi,
increduli
di
fronte
a
questa ennesima
prova
di
orgoglio,
erano
schieraA
compaH
sulla scalinata dell’Ara
Coeli
dopo
aver
già
occupato
Trastevere,
Castel
Sant’Angelo,
il
Pincio
e
Porta
del
Popolo.
QuesA
i
principi
fondamentali
:
1
–
La
sovranità
è
per
diriEo
eterno
del
popolo.
Il
popolo
dello
Stato
Romano
è
cos,tuito
in
Repubblica
Democra,ca.
2
–
Il
regime
democra,co
ha
per
regola
l’eguaglianza,
la
libertà,
la
fraternità.
Non
riconosce
,toli
di
nobiltà,
né
privilegi
di
nascita
o
casta.
3
–
La
Repubblica
colle
leggi
e
colle
is,tuzioni
promuove
il
miglioramento
delle
condizioni
morali
e
materiali
di
tuS
i
ciEadini.
4
–
La
Repubblica
riguarda
tuS
i
popoli
come
fratelli
:
rispeEa
ogni
nazionalità,
propugna
l’italiana.
5
–
I
Municipi
hanno
tuS
eguali
diriS,
la
loro
indipendenza
non
è
limitata
che
dalle
leggi
di
u,lità
generale
dello
Stato.
6
–
La
più
equa
distribuzione
possibile
degli
interessi
locali,
in
armonia
coll’interesse
poli,co
dello
Stato
è
la
norma
del
riparto
territoriale
della
Repubblica.
7
–
Dalla
credenza
religiosa
non
dipende
l’esercizio
dei
diriS
civili
e
poli,ci.
8
–
Il
Capo
della
Chiesa
CaEolica
avrà
dalla
Repubblica
tuEe
le
guaren,gie
necessarie
per
l’esercizio
Indipendente
del
potere
spirituale.
Bisognerà
aOendere
più
di
un
secolo
perché
queste
riforme,
cancellate
poi
dalla
reazione
PonAficia,
divengano
realtà
in
tuOa
Europa.
La
CosAtuzione
della
Repubblica
Italiana si
richiama
in
tuOo
e
per
tuOo
alla
CosAtuzione
della Repubblica
Romana
e
c’è
da
aggiungere
che
la
maggior
parte
delle
stesse
CosAtuzioni
moderne
degli
StaA
Occidentali
si
sono
tuOe
ispirate
a
questo
Statuto
per
redigere
il
proprio.
Proclama
del
triumvirato
al
popolo
romano
“La
Repubblica
Romana
del
1849
visse
per
5
mesi,
il
popolo
romano
la
fece
nascere,
Mazzini
ne
fu
l’anima
poli,ca,
Garibaldi
il
difensore.
Mameli,
Manara,
Dandolo
e
tan,
altri
gli
eroi
che
morirono
per
essa,
gli
eserci,
di
Austria,
Francia,
Spagna
e
Regno
delle
Due
Sicilie,
per
volontà
di
Pio
IX,
ne
decretarono
la
morte.
Mentre
l’invasore
entrava
in
Roma
per
distruggere
la
nuova
Repubblica
Romana,
in
Campidoglio
si
dava
leEura
al
popolo
della
Cos,tuzione
che
non
sarebbe
mai
entrata
in
vigore.
Un
comportamento
degno
dell’an,ca
Repubblica
Romana.
Fede
in
Dio,
nel
diriEo
e
in
noi.
W
la
Repubblica
Romana!.”
Oudinot,
entrò
a
Roma
soltanto
in
serata alla
testa
di
12.000
uomini,
proclamando
la
legge
marziale
ed
eleggendo
governatore
di
Roma
Rostolan,
Generale
di
Divisione,
coadiuvato
da
Sauvan,
Generale
di
Brigata.
L’Assemblea
CosAtuente,
ancora
legiHmata
dagli
accordi
di
resa sApulaA
dal
nuovo
triumvirato
con
la
Francia,
era in
seduta
permanente
e
presieduta,
ironia
della
sorte,
da
Carlo
Luciano
Bonaparte,
cugino
di
Napoleone
III
e
fervido
sostenitore
della
Repubblica
Romana.
Alle
18
del
4
luglio,
i
francesi
decisero
di
interrompere
anche
quest’ulAma
forma
di
democrazia
concessa
a
Roma
,
sciogliendo
con
la
forza
la
seduta.
Quirico
FilipanA,
a
nome
di
tuOa
l’Assemblea,
consegnò
questo
documento
contenente
tuOo
lo
sdegno
per
l’ennesimo
aOo
di
violenza
compiuto
dal
governo
francese
:
“In
nome
di
Dio
e
del
popolo
degli
Sta,
Romani,
in
conformità
all’ar,colo
V
della
Cos,tuzione
francese,
l’Assemblea
Cos,tuente
romana
protesta
in
faccia
all’Italia,
in
faccia
alla
Francia,
in
faccia
al
mondo
incivilito,
contro
la
violenta
invasione
della
sua
sede,
operata
dalle
armi
francesi
alle
sei
pomeridiane
del
giorno
4
di
Luglio
1849”.
L’ar,colo
V
della
Cos,tuzione
repubblicana
francese
del
4
novembre
1848,
così
recitava
:
“…la
Repubblica
Francese
rispeEa
le
nazionalità
estere,
come
intende
far
rispeEare
la
propria;
non
imprende
alcuna
guerra
ai
fini
di
conquista
e
non
adopera
mai
le
sue
forze
contro
la
libertà
d’alcun
popolo”.
Mazzini
rimase
ancora alcuni
giorni
a
Roma.
I
francesi,
sprezzanA,
vollero
ignorarlo
completamente
e
decisero
quindi
di
non
procedere
al
suo
arresto
.
Il
13
luglio
lasciò
la
ciOà,
imbarcandosi
tre
giorni
dopo
da
Civitavecchia
per
Marsiglia
soOo
il
falso
nome
di
George
Moore,
generalità riportate
sul
passaporto
consegnatogli
dal
Console
degli
StaA
UniA
per
favorire
il
suo
espatrio.
Non
tornò
in
Italia
che
rare
volte,
lui
che
della
patria
era
stato
uno
dei
Grandi
Padri.
Il
suo
amaro
desAno
di
esule
lo
vide
in
carcere
a
Gaeta
quando
il
20
seOembre
1870
i
bersaglieri,
aOraverso
la
breccia
di
Porta
Pia,
conquistarono
finalmente
Roma
e
lo
vide
morire
nel
1872
a
Pisa,
soOo
il
falso
nome
di
George
Brown,
le
generalità
di
uno
straniero….
Prima
di
parAre
dalla
CiOà
Eterna,
lasciò
ai
romani
la
sua
eredità
morale
aOraverso
una
leOera
scriOa
il
5
luglio
con
la
quale
esortò
tuH
a conAnuare
la
loOa
contro
l’invasore
per
una Italia
libera
e
unita
e
di
cui
doveva
essere
Roma
la
Capitale
:
Romani!,
La
forza
brutale
ha
soEomesso
la
vostra
ciEà;
ma
non
mutato
o
scemato
i
vostri
diriS.
La
Repubblica
Romana
vive
eterna,
inviolabile
nel
suffragio
dei
liberi
che
la
proclamarono,
nella
adesione
spontanea
di
tuS
gli
elemen,
dello
Stato,
nella
fede
dei
popoli
che
hanno
ammirato
la
lunga
nostra
difesa,
nel
sangue
dei
mar,ri
che
caddero
soEo
le
nostre
mura
per
essa.
Tradiscano
a
posta
loro
gl’invasori
le
loro
solenni
promesse.
Dio
non
tradisce
le
sue.
Durate
costan,
e
fedeli
al
voto
dell’anima
vostra,
nella
prova
alla
quale
Ei
vuole
che
per
poco
voi
soggiacciate
e
non
diffidate
dell’avvenire.
Brevi
sono
i
sogni
della
violenza,
e
infallibile
il
trionfo
di
un
popolo
che
spera,
combaEe
e
soffre
per
la
Gius,zia
e
per
la
san,ssima
Libertà.
Voi
deste
luminosa
tes,monianza
di
coraggio
militare;
sappiate
darla
di
coraggio
civile.
Dai
Municipii
esca
ripetuta
con
fermezza
tranquilla
d’accento
la
dichiarazione
ch’essi
aderiscono
volontari
alla
forma
repubblicana
e
all’abolizione
del
governo
temporale
del
Papa
e
che
riterranno
illegale
qualunque
Governo
s’impian,
senza
l’approvazione
liberamente
data
dal
popolo;
poi
occorrendo
si
sciolgano.
Per
le
vie,
nei
teatri,
in
ogni
luogo
di
convegno,
sorga
un
grido
:
fuori
il
governo
dei
pre,
!
Libero
voto!
I
vostri
Padri,
o
romani,
furon
grandi
non
tanto
perché
sapevano
vincere,
quanto
perché
non
disperavano
nei
rovesci.
In
nome
di
Dio
e
del
popolo
siate
grandi
come
i
vostri
Padri.
Oggi
come
allora,
e
più
che
allora,
avete
un
mondo,
il
mondo
italiano
in
custodia.
La
vostra
Assemblea
non
è
spenta,
è
dispersa.
I
vostri
triumviri,
sospesa
per
forza
di
cose
la
loro
pubblica
azione,
vegliano
a
scegliere
a
norma
della
vostra
condoEa,
il
momento
opportuno
per
riconvocarla.”.
Ma
nun
finisce
qua…..
“
Guarda
qua
Rosè,
‘ggni
ggiorno
c’è
‘n
manifesto
novo
appeso
ar
muro….si
sapessi
legge
ce
sarebbe
propio
da
diver,sse,
guasi
più
che
soEo
le
zampe
de
Pasquino.”
“
Embè,
si
te
‘nteressa
così
tanto
te
lo
leggo
io….”
“Ah
già,
m’ero
scordato
che
anna’
a
servizzio
da
li
siggnori
una
se
‘mpara
le
bbone
maniere
e
pure
a
legge.
Che
per
caso
la
Signoria
Vostra
ciavrebbe
la
disponibbilità
de
tempo
e
de
modo
de
dimme
che
ce
sta
scriEo
su
‘sto
manifesto?”
“A
Romolo,
quanno
decidi
de
fa’
l’imbecille
te
viè
propio
bbene,
così
naturale
che
me
sa’
che
sei
davero
imbecille…me
dovevi
fa’
puro
l’inchino
pe’
pijamme
mejo
per
culo?”
“
E
vabbè,
daje,
era
solo
‘no
scherzo...ahò,
guarda
piuEosto
su
a
Caster
Sant’Angelo.
Ammazza
come
se
so’
sbriga,
a
rimeEe
la
banniera
bianca
e
gialla
de
Pio
IX…a
guardalla
bbene,
cià
lo
stesso
colore
de
‘na
minestrina
de
gallina”.
“Mò
te
ne
sei
accorto?
È
da
quanno
che
sei
nato
che
sta
llà
sopra!,
nun
me
dì
che
te
so’
basta,
‘s,
cinque
mesi
pe’
scordaEela!”
“
Sai
che
c’è
Rosè?,
c’e
che
si
maggni
pe’
tuEa
la
vita
la
stessa
minestrina
de
gallina,
l’artri
sapori
manco
lo
sai
come
so’.
Allora
te
ce
abbitui
e
nun
te
chiedi
nimmanco
più
si
è
bbona
o
caSva,
te
la
maggni
e
basta.
Armeno
la
banniera
de
la
Repubblica
Romana
me
ricordava
er
basilico,
la
mozzarella,
er
pommidoro!!
Voi
meEe?
TuEo
‘n
arto
sapore,
‘n
artro
gusto,
ma
nun
penzà
che
all’improvviso
me
so’
sveijato
patriota
puro
io,
a
me
nun
me
ne
frega
ggnente
de
chi
comanna,
era
‘na
semplice
conziderazzione
de
panza.
De
Romolo
je
ne
frega
assai
a
quelli
che
stanno
ar
Quirinale,
ar
Campidoijo,
ar
Castello.
Io
si
nun
baEo
er
fero
da
ma,na
a
sera
nun
maggno
e
nun
maggni
manco
te
e
manco
NineEo
nostro.
Allora?
Hai
finito
de
chiacchierà?
Me
lo
voi
dì
che
c’è
scriEo
su
‘sto
fojo?”
“Ma
si
stai
a
fa’
tuEo
da
solo!…
te
la
can,
e
te
la
soni
da
‘n
quarto
d’ora
e
io
nun
ho
nimmanco
fiatato.
Stamme
a
senp:
intanto
er
proclama
è
de
li
francesi,
ma
è
scriEo
in
itaijano”
“
E
meno
male,
sinnò
quanno
lo
capivo….”
“
E
sì
perché
te
‘nvece
l’itaijano
lo
capisci…
,dice
“
AbitanA
di
Roma,
l’Armata
inviata
dalla
Repubblica
Francese
sul
vostro
territorio
ha
per
scopo
di
ristabilire
l’ordine
e
la
sicurezza.
Una
minorità
faziosa,
o
traviata
ci
ha
costreH
di
dare
l’assalto
alle
vostre
mura.
Siamo
padroni
della
piazza
:
adempiremo
la
nostra
missione.
“E
già
qui
ce
starebbe
bbene
‘n
ber
pernacchione,
‘n
te
pare
Rosè?”
“StaEe
ziEo
che
de
‘s,
tempi
pure
li
muri
cianno
le
recchie,
la
ggente
pe’
‘ngrazziasse
‘n’artra
vorta
li
pre,,
sarebbe
capace
puro
d’ammazzà
la
madre!”
“
Che
esaggerazione…,
daje,
va
avan,”
“In
mezzo
alle
prove
di
simpaAa,
che
ci
hanno
accolA,
alcune
vociferazioni
osAli
si
sono
scoppiate,
e
ci
hanno
forzaA
ad
una
immediata
repressione.
I
ciOadini
dabbene,
ed
i
veri
amici
della
libertà
ripiglino
fiducia.
I
nemici
dell’ordine
e
della
società
siano
bene
informaA,
che
se
delle
manifestazioni
oppressive
provocate
da
una
fazione
straniera si
rinnovassero,
sarebbero
puniA
con
tuOo
rigore”.
“Seconno
me
‘s,
francesi
nun
cianno
le
idee
pe’
ggnente
chiare,
anzi
so’
proprio
rincoijoni,
:
je
semo
tarmente
simpa,ci
che
ce
reprimeno,
l’aman,
de
la
libbertà
hanno
da
ripijà
fiducia,
ma
si
quarcuno
s’azzarda
a
dì
‘na
parola
lo
fanno
fori.
E
poi
Rosè,
la
mejo
de
tuEe
è
quanno
dicheno
che
le
fazzioni
straniere
saremmo
noi
che
semo
romani
e
loro
invece
sarebbero
li
romani
veri
che
difenneno
la
ciEà!
Cianno
proprio
la
faccia
come
er
culo!”
“Posso
annà
avan,
Romolè?”
“
E
come
no?
Anzi,
più
vai
avan,
a
legge
e
più
me
viè
da
ride…”
“
Per
dare
alla
sicurezza
pubblica
delle
posiAve
garanzie
prendo
le
seguenA
disposizioni
:
Provvisoriamente
tuH
i
poteri
sono
concentraA
nelle
mani
dell’autorità
militare.
Questa
domanderà
subito
il
concorso
del
municipio.
L’Assemblea
ed
il
Governo,
il
di
cui
regno
violento
ed
oppressivo
ha cominciato
con
l’ingraAtudine,
e
finito
con
un
grido
all’armi
contro
una
nazione
amica
delle
popolazioni
Romane
NON
ESISTONO
PIU’.
I
Circoli
poliAci,
e
associazioni
poliAche
sono
vietaA.
Ogni
individuo
non
militare
arrestato
portatore
di
armi
visibili
o
nascoste,
sarà
immediatamente
tradoOo
davanA
al
consiglio
di
guerra.
Sarà
lo
stesso
per
ogni
individuo
militare
che
facesse
uso
delle
sue
armi.
Ogni
pubblicazione
col
mezzo
della
stampa,
ogni
affisso
non
permesso
dall’Autorità
Militare
sono
provvisoriamente
vietaA.
I
deliH
contro
le
persone
e
le
proprietà,
saranno
giusAziabili
dai
Tribunali
Militari”.
“Ch’hai
faEo
Romolè
,
nun
te
viè
più
da
ride?”
“No,
da
ride
ce
sarebbe,
eccome….te
risurta
Rosè
che
uno
pe’
sen,sse
libbero
ce
deve
avè
li
cannoni
drento
casa?
Te
risurta
che
uno
pe’
ggirà
tranquillo
pe’
Roma
je
deve
capità
d’esse
perquisito
‘ggni
cinque
minu,?
Te
risurta
che
uno
pe’
sta’
‘n
democrazzia
nun
deve
manco
scrive
‘na
riga
su
un
fojo?
Te
lo
ripeto
che
a
me
nun
me
ne
frega
ggnente
de
quello
che
succede
fori
de
casa
nostra,
ma
stavo
a
penzà
a
nostro
fijo
NineEo.
Bella
figura
che
ce
faccio
quanno
me
guarderà
‘n
faccia
e
me
dirà
“A
papà,
ma
li
romani
so’
propio
tuS
così
menefreghis,
come
te?
Ma
è
possibbile
che
dovemo
maggnà
sempre
la
solita
minestra
riscallata
e
che
nun
za’
de
ggnente,
come
tan,
pecoroni?”.
Hai
capito
Rosè?,
si
me
dicesse
‘ste
parole
me
farebbe
male
a
ripenzà
a
quanno
ho
assaggiato
er
pommidoro,
er
basilico,
la
mozzarella…..e
allora
sai
che
nova
c’è?,
c’è
che
te
mò
passi
da
la
sora
Lucia
a
pijà
er
laEe
pe’
NineEo
e
io
me
ne
vado
all’osteria
coll’amichi
che
già
me
stanno
a
aspeEà.
Se
vedemo
più
tardi
a
casa.
Viè
qua
Rosè,
da
‘n
baceEo
a
RomoleEo
tuo…”
“Ah,
te
serve
pure
er
baceEo….ma
va
a
morì
ammazzato!,
ber
padre
‘mbriacone
che
j’ho
dato
a
mi
fijo….”
“E
no!
Qua
te
stai
a
sbaijà.
J’hai
dato
‘n
padre
che
da
stasera
ha
deciso
de
maggnà
pommidoro,
basilico
e
mozzarella
tuS
li
san,
ggiorni,
puro
si
solamente
de
niscosto,
‘nzieme
a
tuS
quelli
che
la
penzeno
come
lui,
‘n
modo
da
permeEe
a
NineEo,
,
quanno
sarà
diventato
granne,
de
maggnà
quello
che
je
pare,
co
chi
je
pare
e
tuEe
le
vorte
che
je
pare.
Puro
‘n
prete
arosto
co’
du’
patate
de
contorno!”
“
A
Romolè,
pure
sacrilego
me
sei
diventato….”
“
Ah!,
ah!,
ma
che
ancora
me
piji
sur
serio?
Se
vedemo
Rosè,
aspeEeme
sveja
che
stanoEe
te
fo’
vede
io
che
ber
pezzo
de
marito
t’aritrovi
soEo
le
lenzola!”
“Cerca
piuEosto
d’aritornà
tuEo
‘ntero
‘nvece
de
dì
tuEe
‘ste
frescacce!”.
Romolo
s’arivorta
all’improvviso
verso
la
moje
e
pe’
‘n
aSmo
se
fa
serio
“
RoseEa,
guardame
bbene
‘n
faccia,
io
so’
romano
e
sai
come
so’
faS
li
romani
Rosè?,
come
li
gaS
der
Foro
so’
faS
:
je
piace
de
sta’
senza
fa
ggnente,
de
pijasse
er
sole
spaparanza,
da
quarche
parte,
de
godesse
er
ponen,no
e
de
maggnà
e
bbeve
a
la
faccia
de
chi
je
vo’
male.
Però……nu
l’annate
a
stuzzicà,
nu
j’annate
a
rompe
li
cojoni,
nu
je
dite
che
cianno
er
core
de
laEa
e
er
culo
de
piombo
perché
sinno’
graffieno
e
quanno
graffieno
fanno
male!
A
Rosè,
guarda
che
prima
nun
scherzavo
mica.
StanoEe
me
devi
di’
de
sì
perché
vojo
‘n
artro
fijo
e
lo
vojo
chiamà
Libbero”
Lei
se
lo
guarda
tuEa
‘nnammorata
e
poi
fa’
finta
de
‘ncavolasse
“
E
certo,
decidi
sempre
tuEo
da
solo,
no?
StanoEe
famo
l’amore,
sicuramente
arimango
‘ngravidata,
ce
se
pò
ggiurà
che
nasce
maschio,
lo
chiamamo
Libbero…..e
si
‘nvece
nasce
femmina,
come
la
dovessimo
da
chiamà
?”
“
A
Rosè,
ma
te
devo
‘nzegnà
proprio
tuEo?
La
chiamamo
Libbertà!”.
Nota
dell’autore
:
Colomba
AntonieH
era
nata
a
Nocera
Umbra,
Luigi
Porzi
a
Imola,
Pietro
Pietramellara
a
Bologna,
CrisAna
Trivulzio
Di
Belgioioso
a
Milano,
Emilio
Morosini
a
Varese,
Ugo
Bassi
a
Cento,
ma
in
questo
mio
scriOo
ognuno
di
loro
si
esprime
soltanto
in
dialeOo
romanesco
perché
di
Roma
sono
staA
figli
nel
1849.
La
memoria
dei
luoghi
della
Repubblica
Romana
VILLA
PAMPHILI
In
questa
villa fu
combaOuta
la
più
cruenta
baOaglia
per
la
difesa
di
Roma,
il
3
giugno
1849.
Nella noOe
precedente,
i
francesi
con
un
aOacco
a
sorpresa
avevano
occupato
villa
Corsini,
caposaldo
della
difesa
romana.
Per
tuOa
la
giornata
le
truppe
garibaldine
tentarono
con
accanimento
di
riconquistare
la
posizione
con
una
serie
di
assalA
alla
baioneOa,
soOo
il
grandinare
delle
palloOole.
La villa
fu
ripresa,
poi
persa,
ancora
ripresa
e
infine
persa
definiAvamente.
Alla
fine
della
giornata
le
truppe
di
Garibaldi
avevano
subito
gravissime
perdite.
E
villa
Corsini
era
rimasta
ai
francesi…
Immaginando
la
baOaglia
vista
da
Porta
San
Pancrazio,
sulla
sinistra
si
poteva
vedere
in
posizione
dominante
Villa
Corsini,
deOa
il
Casino
dei
QuaOro
VenA.
Sulla
destra
villa
Giraud,
deOa
“Il
Vascello”,
splendida
costruzione
a
forma
di
nave
su
uno
scoglio,
presidiata
dalla
legione
di
Giacomo
Medici.
Per
tre
seHmane
il
Vascello
resisteOe
caparbiamente
a bombardamenA
e
assalA,
anche
quando
fu
ridoOo
ad
un
cumulo
di
macerie.
Venne
abbandonato
per
ordine
di
Garibaldi
quando
si
doveOe
arretrare
tuOa
la
linea
del
fronte.
Nel
corso
dei
combaHmenA
le
due
ville
andarono
irrimediabilmente
distruOe.
Sui
ruderi
di
Villa Corsini
è
stato
edificato
l’arco
dei
quaOro
venA
(
ArchiteOo
Andrea
Busiri
Vici
–
1859
).
Del
Vascello
resta
soltanto
il
piano
terreno
col
finto
scoglio,
visibile
dalla
strada.
Il
viale
di
raccordo,
è
quello
sul
quale
i
soldaA
di
Garibaldi
caddero
a
cenAnaia,
andando
all’assalto
di
Villa
Corsini.
La
colonna
crucifera
a
San
Pancrazio
E’
nei
pressi
di
questa
colonnina
che
i
soldaA
francesi
nella
noOe
tra
il
4
e
il
5
giugno
1849
scavarono
la
prima
trincea
presso
la
Basilica
di
San
Pancrazio.
Venne
così
dato
inizio
ad
un
complesso
sistema di
trincee
che,
partendo
appunto
da
San
Pancrazio,
nel
giro
di
due
seHmane
portò
i
francesi
fin
soOo
le
mura
gianicolensi
per
l’aOacco
finale.
La colonnina,
che
ora
viene
a
trovarsi
al
centro
di
piazza
San
Pancrazio,
in
una
zona
di
intenso
traffico
ed
abitazioni,
all’epoca
era in
aperta
campagna.
Il
muro
di
cinta di
Villa
Pamphili,
adiacente
al
luogo
descriOo,
rappresenta
l’unica
tesAmonianza
rimasta
pressoché
intaOa
di
quei
giorni.
Le
brecce
Mano
a
mano
che
le
trincee
francesi
si
avvicinavano
alla
ciOà,
venivano
portaA
avanA
anche
i
cannoni.
Quando
furono
a
portata
uAle,
le
arAglierie
francesi
cominciarono
a
martellare
le
mura,
aprendo
numerose
brecce.
Dopo
la
fine
dei
combaHmenA,
l’amministrazione
ponAficia
restaurò
le
mura,
ricostruendo
le
parA
abbaOute.
La
nuova
muratura
corrispondente
alle
brecce,
venne
circoscriOa
da
una
serie
di
piccole
lastre
in
pietra
bianca,
tuOora
ben
visibili.
Al
centro
di
ogni
breccia
venne
apposta
una
lapide
con
lo
stemma
ponAficio,
la
sigla
S.P.Q.R.
e
la
data
1849
in
cifre
romane
:
MDCCCXXXXIX.
Porta
San
Pancrazio
Le
mura
gianicolensi
furono
costruite
nel
1643
da
papa
Urbano
VIII
Barberini,
come
aOestato
dalle
numerose
lapidi
poste
sulle
mura
che
recano
lo
stemma
ponAficio
con
le
api,
emblema
della
famiglia
Barberini.
Le
mura
iniziano
a
Porta
Portese,
risalgono
il
Gianicolo
e
si
collegano
alle
mura
vaAcane
nei
pressi
di
Porta
Cavalleggeri.
Sono
munite
di
dodici
basAoni,
numeraA
a
parAre
da
Porta
Portese.
In
sommità
del
tracciato
si
apre
la
porta
San
Pancrazio.
Queste
mura
erano
ancora
efficienA
nel
1849
e
cosAtuirono
la
principale
difesa
durante
l’assedio
da
parte
dei
francesi.
Porta
San
Pancrazio
venne
difesa
tenacemente
fino
all’ulAmo.
Dopo
un
furioso
bombardamento,
la
parte
alta
della porta
crollò
seppellendo
i
difensori
soOo
le
macerie.
La
porta
venne
ricostruita
nella
forma
aOuale
nel
1854
(
ArchiteOo
V.
Vespignani
).
In
anni
più
recenA
sono
staA
aperA
i
varchi
laterali,
per
consenAre
il
traffico
stradale.
Villa
Savorelli
–
Aurelia
Per
la
sua
posizione
dominante,
che
consenAva
un’ampia
visione
dei
campi
di
baOaglia,
Villa
Savorelli
fu
adibita
a quarAer
generale
di
Garibaldi.
SoOo
l’infuriare
del
bombardamento
francese,
il
20
giugno
1849
crollò
gran
parte
della
costruzione.
Garibaldi
spostò
quindi
il
suo
quarAer
generale
prima a
Villa
Spada
e
poi
a
San
Pietro
in
Montorio.
Una
splendida
litografia
dell’epoca,
mostra un
quadro
della zona
dopo
i
combaHmenA.
DavanA
ai
ruderi
di
Villa
Savorelli
vi
sono
i
resA
della
baOeria
romana
della
montagnola,
così
deOa
perché
piazzata
su
una
piccola
altura
ora
scomparsa.
Nella
noOe
tra
il
29
ed
il
30
giugno,
la
baOeria
della
montagnola
oppose
una
eroica
resistenza
all’assalto
di
soverchianA
forze
francesi.
Dopo
un’accanita
loOa
all’arma
bianca,
gli
arAglieri
furono
tuH
uccisi
accanto
ai
loro
cannoni.
Villa
Savorelli,
oggi
Villa
Aurelia,
dopo
i
combaHmenA
venne
ricostruita
e
ristruOurata.
Dal
1911
Villa
Aurelia
è
sede
di
rappresentanza
dell’Accademia
Americana.
Villa
Spada
PerduA
due
basAoni
delle
mura
Gianicolensi,
oggi
corrispondenA
alle
mura
di
Villa
Sciarra,
Garibaldi
riuscì
a
realizzare
una
nuova
linea
di
difesa,
più
arretrata,
che
comprendeva
Porta
San
Pancrazio,
l’oOavo
ed
il
nono
basAone
(
a
sinistra
e
destra
della
porta
),
un
traOo
delle
mura
aureliane
allora
esistenA
e
Villa
Spada,
divenuta
sede
del
quarAer
generale.
Su
questa
nuova
linea
l’esercito
repubblicano
tenne
testa
ai
francesi
per
altri
oOo
giorni
di
conAnui
combaHmenA.
Villa
Spada
era
tenuta
dal
baOaglione
dei
bersaglieri
lombardi,
comandaA
dal
colonnello
Luciano
Manara,
24
anni,
eroe
delle
cinque
giornate
di
Milano
e
ora
Capo
di
Stato
Maggiore
di
Garibaldi.
Nella noOe
tra
il
29
ed
il
30
giugno,
i
francesi
sferrarono
l’aOacco
decisivo.
L’oOavo
basAone,
dove
ora
si
trova
l’Accademia
Americana,
venne
travolto
dopo
una
sanguinosa
loOa
corpo
a
corpo.
Poi
fu
la
volta
di
Villa
Spada.
I
francesi
furono
da
prima
respinA
da
un
contraOacco
guidato
da
Garibaldi
e
Manara,
ma
tornarono
all’assalto
con
forze
preponderanA.
La
villa
fu
squassata
dalle
cannonate
e
crivellata
dal
violento
fuoco
di
fucileria.
Manara
venne
ucciso
da
un
colpo
di
carabina,
ma
i
suoi
bersaglieri
conAnuarono
a
resistere.
Era
il
30
giugno
1849.
La
sera
stessa
l’Assemblea
CosAtuente
della
Repubblica
decretò
la cessazione
della
resistenza.
San
Pietro
in
Montorio
Nel
giorno
della
baOaglia
finale,
San
Pietro
in
Montorio
venne
a
trovarsi
a poche
decine
di
metri
dai
luoghi
dei
combaHmenA.
Qui
vennero
portaA
i
feriA.
Qui
fu
stabilito
l’ulAmo
quarAer
generale
di
Garibaldi.
TuOo
il
complesso
conventuale
fu
pesantemente
bombardato
dall’arAglieria
francese
che,
dai
basAoni
conquistaA,
teneva
soOo
Aro
l’intera
ciOà.
Gravissimi
i
danni
subiA
dalla
chiesa,
dal
convento
e
dal
campanile,
mentre
rimase
miracolosamente
illeso
il
tempieOo
del
Bramante
situato
in
un
chiostro.
Sul
fianco
della
chiesa,
in
via Garibaldi
(
deOa allora
“la
via
del
sangue”
),
è
stata
apposta
una
lapide
con
una
palla
di
cannone
francese
rinvenuta
durante
i
lavori
di
restauro
eseguiA
nel
1995.
Il
Gianicolo
–
Mausoleo
Ossario
Gianicolense
Sul
Gianicolo
ebbero
luogo
gli
ulAmi
scontri
della
baOaglia
finale,
il
30
giugno
1849.
Alle
ore
12,
quando
le
truppe
francesi
sfondarono
l’ulAma linea
di
difesa,
fu
stabilita
una
tregua per
raccogliere
i
morA
e
i
feriA
mentre
Garibaldi
riuniva
gli
uomini
rimasA
per
l’estrema difesa
della
CiOà
Eterna.
La
gente
corse
ancora
una
volta
alle
barricate
per
difendere
sino
all’ulAmo
respiro
la
Repubblica
Romana
,
ma
l’Assemblea
CosAtuente,
per
non
soOoporre
la
ciOà
ad
ulteriori
ed
inuAli
distruzioni,
decretò
il
giorno
stesso
la
fine
della
difesa
di
Roma.
Garibaldi
non
acceOò
la
resa
e
uscì
da
Roma
con
Anita,
guidando
circa
4.000
uomini
tra
soldaA
e
patrioA,
Mazzini
doveOe
riprendere
la
via
dell’esilio.
Qui
sul
Gianicolo
diedero
la
vita
per
la
Repubblica
gli
ulAmi
ragazzi
provenienA
da
ogni
parte
d’Italia e
d’Europa,
le
ulAme
baOerie
dell’esercito
romano.
Per
questo,
dopo
che
Roma
divenne
Capitale
dell’Italia
unita,
il
colle
del
Gianicolo
venne
considerato
il
simbolo
dell’idenAtà
nazionale.
Qui
ora
sorge
il
parco
Gianicolense
con
monumenA,
busA
e
cippi
che
ricordano
le
più
alte
personalità
del
nostro
Risorgimento.
Su
questo
stesso
colle,
si
erge
il
mausoleo
ossario
Gianicolense
(
ArchiteOo
G.Jacobucci
1941
)
che
raccoglie
nella
soOostante
cripta
i
resA
di
tuH
coloro
che
morirono
per
Roma.
Nell’elenco
dei
caduA
per
la Repubblica
Romana
troviamo
incisi
nel
marmo
i
nomi
di
tanA
eroi,
uomini
e
donne,
conosciuA
e
sconosciuA,
dagli
ufficiali
di
Stato
Maggiore
ai
tamburini
morA
ancora
bambini.
In
fondo
alla
cripta
vi
è
la
tomba
di
Goffredo
Mameli,
il
poeta
aiutante
di
campo
di
Garibaldi,
morto
di
cancrena
il
6
luglio
1849
all’età
di
21
anni
per
la ferita
riportata
nella
baOaglia
del
3
giugno
1849.
Dal
12
oOobre
1946
il
suo
inno
diventa
l’inno
nazionale
della
Repubblica
Italiana.