Rappresentanti di etnie e culture diverse

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Rappresentanti di etnie e culture diverse
VIAGGI di CULTURA 3
R.Gallissot - M. Kilani - A. Rivera
L'imbroglio etnico
Bari, Dedalo, 2001
La colonizzazione del continente americano, l'imponente immigrazione e
la tratta degli schiavi hanno cambiato per sempre il continente, e Cuba non
fa eccezione. Tante culture, tante etnie e religioni diverse si sono incontrate
e scontrate e può essere lo spunto per una riflessione sull'Europa di oggi.
L'immigrazione, sia che la si veda come risorsa o come problema, pone una serie
di questioni che interrogano nel profondo le basi della nostra società: la laicità,
l'eguaglianza e la nostra identità culturale.
Un bellissimo libro L'imbroglio etnico, di cui riportiamo uno stralcio,
riflette su cosa si intenda per multiculturalismo, su cosa si basi la percezione
dell'identità altrui e come queste cose si riflettano sulla convivenza di tutti i
giorni ed anche sulle leggi che governano la società. Il libro compie 15 anni,
un'età importante per un saggio sulla società contemporanea, ma mai come
in questo caso quello che succede oggi ci permette di apprezzare ancora di più
quanto è stato scritto ieri.
IL MULTICULTURALISMO
Ma allora è vero che l'integrazione passa per quel multiculturalismo (come
si dice con un termine di origine statunitense apparso recentemente in Europa)
che oggi agli occhi di molti appare come la panacea dei numerosi problemi di
integrazione che conoscono le società dell'Europa occidentale? In realtà non è
affatto certo: quella nozione è un guazzabuglio invocato a vanvera, senza tenere conto delle specificità dei contesti (nazionali e storici) in cui la si vorrebbe
applicare e senza chiarire le implicazioni che comporta.
In Svizzera, ad esempio, in certi ambienti politici e culturali è invalsa l'abitudine di utilizzare il termine «multiculturalismo» in luogo di «federalismo»
per descrivere le realtà sociologiche, politiche e culturali del paese. Vi è qui
un abuso linguistico nella misura in cui le realtà in questione discendono più
dal principio di territorialità (territorialità politica, territorialità linguistica
e territorialità religiosa, riconosciute e difese dalla Costituzione a livello cantonale e federale) che non dalla
coesistenza egualitaria nel medesimo
spazio di molteplici culture, tradizioni, lingue o religioni. È così che, per
esempio, il confine linguistico nelle
città o regioni bilingue della Svizzera
- come Bienne o i cantoni di Friburgo, di Berna e del Vallese - è strettamente regolamentato dalle rispettive
costituzioni cantonali e garantito dalle autorità federali. Allo stesso modo,
la territorialità religiosa ha impedito fino agli anni più recenti che nel
cantone protestante di Ginevra si insediasse un vescovado cattolico; così
come solo molto recentemente il cantone protestante del Vaud ha nominato un magistrato di confessione cattolica come prefetto distrettuale (colui
che rappresenta il potere esecutivo a
livello cantonale).
In una manifestazione organizzata a Ginevra nel 1994 sul tema «Ginevra meticcia», i promotori magnificarono il carattere pluriculturale
della metropoli sulle sponde del lago
Léman. Orbene, a voler guardare le
cose più da vicino, ciò che si riuscì a
mettere in evidenza in quella occasione fu soprattutto il carattere internazionale della città e la sua tradizione
di apertura (nonostante gli stranieri,
anche quelli stabilitisi da lungo tempo, non godano di alcun diritto politico, né a livello comunale né a livello
cantonale). Non emerse affatto, invece, il suo preteso carattere multicultu-
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rale, che non è presente in alcuna pratica istituzionale e giuridica (non vi è
alcun riconoscimento di diritti collettivi o culturali) e che non ha riscontri
in alcuna volontà di venire a patti con
le «eterogeneità» culturali degli stranieri.
Per queste ragioni, l'affaire del
«velo islamico» che nel 1996 agitò
la piccola repubblica si concluse con
una decisione del Consiglio di Stato
(l'organo di governo cantonale) che
intimava all'istitutrice incriminata
di scegliere fra il foulard e l'insegnamento, con la motivazione esplicita del mancato rispetto della norma
della laicità della scuola pubblica e
con quella implicita della preminenza dei valori giudaico-cristiani. Nel
nuovo caso scoppiato di recente, nella
primavera del 1999, all'origine della
controversia è stato invece il divieto
fatto ad alcune studentesse di medicina di portare il velo all'interno dell'ospedale cantonale. Ancora una volta
si ha l'impressione che il divieto discenda non tanto dalla norma della
laicità, avanzata come principale argomentazione quanto piuttosto dalla
difficoltà di ammettere una diversità
culturale - nella fattispecie secondaria, tutto sommato, dato che riguarda
una scelta individuale relativa all'abbigliamento - in seno a una città ancora fortemente legata, malgrado le
apparenze, a una cultura monolitica
di matrice calvinista. Infine, sempre
a Ginevra, la maggioranza della commissione parlamentare municipale
ha rifiutato ancora una volta ad altre
comunità religiose l'autorizzazione
a seppellire i morti secondo i propri riti, paradossalmente in nome del
principio della laicità, vale a dire del
diritto a un trattamento uguale per
tutti. Dimenticando con ciò che la
regola generale che si pretende di far
valere è quella della sepoltura cristiana, rito che, per quanto maggioritario
a Ginevra e in Svizzera, è nondimeno
un costume particolare se considerato
alla luce di un concetto di laicità correttamente inteso.
Del resto questo genere di reazioni non deve stupire poiché non fa che
obbedire al modello svizzero. Questo,
essendo il prodotto di un fragile equilibrio conseguente a una lunga lotta
fra molteplici componenti linguistiche, religiose e culturali, non è in grado di tollerare un sovrappiù di diversità o di eterogeneità: ciò rischierebbe
di mettere in pericolo il modus vivendi, continuamente negoziato, fra le
diverse componenti del Paese. È questo modello, d'altronde, che spiega
la forte tendenza a rendere «invisibili» gli stranieri nel paesaggio politico,
culturale e religioso elvetico.
Negli Stati Uniti l'ideologia del
multiculturalismo fu la risposta al
crollo del mito del melting-pot, un'espressione, questa, che simboleggiava
la magica trasformazione in americano di ogni immigrante che sbarcasse
ad Ellis Island. Essa sembrò anche in
parte una soluzione al fallimento della politica dell'affirmative action («Fa-
zione positiva»), che doveva servire
a correggere le persistenti disparità e
a ridurre, per mezzo di una politica
volontarista, la distanza che separa le
varie comunità che compongono la
nazione americana, in particolare la
distanza fra la comunità «nera» e la
maggioranza «bianca». Consapevole
del divario fra l'immagine ufficiale e
la realtà, l'America dell'ultimo decennio ha abbandonato i vecchi punti di
riferimento, per promuovere invece i
valori del pluri- o multi-culturalismo,
simbolizzati da una nuova immagine
culinaria, quella del salad bowl (l'insalatiera). Dietro questa metafora sta
l'idea che gli Stati Uniti, come l'insalata, siano composti da molteplici «ingredienti» di culture. Benché
mescolate come gli ingredienti di
un'insalata, queste culture resterebbero distinte, conservando i loro sapori peculiari. In breve, ogni cultura
contribuirebbe a suo modo al «sapore generale» della nazione americana.
Di conseguenza, è oggi considerato
politicamente corretto che ogni minoranza, sia essa etnica o sociale (donne, omosessuali, handicappati, ecc.),
intervenga per denunciare gli stereotipi, per correggere l'immagine che le
è attribuita, per rivendicare posizioni
sociali ed economiche, per contestare le ineguaglianze. La comunità degli afroamericani e quella dei nativi
americani sono, per ragioni evidenti,
all'avanguardia di questa battaglia. La
loro azione si esercita soprattutto al livello dei programmi di insegnamen-
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to, laddove, per esempio, per i primi
si tratta di ricollocare l'Africa e i suoi
personaggi eminenti all'interno della storia mondiale e nordamericana e
per i secondi di sottolineare l'anteriorità storica della propria presenza nel
Paese e l'influenza del «modello irochese» sulla Costituzione americana.
Parallelamente, l'affirmative action,
promossa dal governo federale a partire dagli anni Settanta al fine di migliorare dal punto di vista strutturale
le condizioni svantaggiate dei gruppi etnici e sociali minoritari, benché
messa in discussione da certi Stati e
da alcuni esponenti politici nazionali,
è stata vista dalle minoranze come un
ulteriore punto di appoggio per realizzare i propri obiettivi.
Ma un tale modello è davvero
destinato al successo? L'offensiva attualmente in corso contro l'affirmative action e la messa sotto accusa del
multiculturalismo da parte di alcuni
intellettuali ed accademici americani
- come Richard Bemstein, autore di
un'opera intitolata significativamente
Dictatorship of Virtue: Multiculturalism and the Battle for America's Future (1994) - testimoniano della grande controversia che agita il paese in
questo momento e della crisi, già in
atto, del modello multiculturale. La
critica rivolta al multiculturalismo,
oltre a mettere in questione gli eccessi del «politicamente corretto» che lo
accompagna e che viene sempre più
percepito come un discorso egemonico, oppressivo e minaccioso per la de-
mocrazia e le libertà, sottolinea come
il culto dell'etnicità provochi la disintegrazione dell'ideale nazionale e la
ghettizzazione dei vari gruppi etnici.
Certe manifestazioni del multiculturalismo, si sostiene, producono addirittura un effetto contrario a quello
atteso, cioè una maggiore marginalizzazione dei gruppi etnici svantaggiati. Così, ad esempio, alcuni paventano che la promozione di programmi
afrocentrici e l'adozione del vernacolo afroamericano nelle scuole possano accentuare la frattura fra la comunità nera e le altre componenti della
nazione e rafforzare quelle forme di
apartheid di fatto presenti nella società americana.
Non va dimenticato infatti che il
multiculturalismo talvolta può costituire lo schermo che occulta i rapporti di potere e di dominio che esistono
fra la società maggioritaria ed i gruppi definiti in termini etnici. Il pluralismo culturale può mascherare la
struttura gerarchica della società e l'ineguaglianza nell'accesso alle risorse,
e può addirittura incoraggiare l'etnicizzazione dei rapporti sociali, com'è
in parte il caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. La categorizzazione
etnica in uso negli Stati Uniti a scopo
statistico rischia, a forza di insistere
sull'«identità» di ognuno, di chiudere
tutti in compartimenti-stagno, anche
se si è ancora molto lontani dalle «sofisticate» categorie razziali che furono costruite nel contesto del defunto
apartheid sudafricano.
Anche in Europa, i sostenitori
di una società plurale fondata sull'esistenza di comunità definite in base
alla loro «origine» e secondo un sistema di «etichette» etniche applicate a
certi gruppi sociali, come nel caso dei
blacks e dei beurs delle periferie francesi, rischiano di ricredersi. L'idea che
l'origine e l'identità siano strettamente legate fra loro e si spieghino a vicenda è notoriamente una credenza
fortemente radicata nel senso comune. Questa idea riduce abusivamente
l'identità dell'individuo alla sua presunta origine etnica, presupponendo
che essa si costruisca essenzialmente
attraverso l'appartenenza a un gruppo etnico: in realtà, l'identità non
può che essere plurale e non può che
costruirsi attraverso una molteplicità
di legami con identità collettive quali
la classe sociale, il sesso, la confessione religiosa, la cultura, la classe d'età, e così via. Infatti, come osserva De
Rudder,
la coppia identità-origine, ieri come
oggi, sta alla base del razzismo. Etichettare, fissarsi su rappresentazioni stereotipate, stigmatizzare e discriminare
equivale a cristallizzare identità predeterminate (anche se poi, per un processo di «rovesciamento», esse possono essere rivendicate), facendole discendere da
«origini» reali o supposte. Questo uso
delle origini [...] alimenta il razzismo
e, al tempo stesso, se ne nutre.
Nel caso specifico dei beurs e dei
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blacks, si assiste a una vera e propria
etnicizzazione o addirittura alla «razzizzazione» di questi gruppi, sia tramite la naturalizzazione della nazionalità, che istituisce una netta distinzione
fra i «veri» francesi (i francesi de souche) e gli altri (i figli degli «immigrati», quelli di seconda o addirittura di
terza generazione), sia attraverso la
metaforizzazione del colore: si pensi
allo slogan «black-blancs-beurs», che
pure, per un certo periodo della storia
delle banlieues e della società francese,
è stata una parola d'ordine che esprimeva la speranza nell'integrazione e la
volontà di praticare una cultura plurale.
Anche le due vittorie successive
della Nazionale di calcio francese in
occasione della Coppa del mondo e
della Coppa europea hanno suscitato un certo entusiasmo per il multiculturalismo. Alcuni vi hanno visto
il riflesso del pluralismo della società francese o addirittura del métissage della sua popolazione, al punto
di parlare di trionfo di «una grande
Francia, la Francia della madrepatria
e degli antipodi, delle periferie e dei
quartieri alti» di «una Francia che è
tale grazie a quella francesizzazione
per integrazione che ha saputo incorporare il beur-blanc-black nel biancorosso- blu». Orbene, il fatto che la
composizione della Nazionale di calcio sia pluralista, nel senso che vede
giocatori i cui genitori sono di origini
più diverse, non ha affatto riscontro
in altri settori della società, meno che
mai in quelli di spicco. E non rispecchia affatto la situazione delle periferie e dei luoghi di lavoro in cui sono
presenti gli immigrati. E neppure rispecchia l'accesso universale ai diritti civili (in Francia gli stranieri non
hanno il diritto di voto, né la libertà di stabilirsi e di circolare all'interno del paese e in Europa) e l'uguaglianza effettiva fra tutti i cittadini
(nel campo del lavoro e dell'alloggio
sono ancora numerose le discriminazioni in base all'aspetto esteriore). È
vero invece che la composizione della squadra francese richiama la filosofia politica che è alla base del modello francese di integrazione, basato sul
diritto di suolo. Da questo punto di
vista la Nazionale francese è agli antipodi rispetto a quella tedesca, che
comprende solo giocatori originari
della Germania, il che è espressione
di un modello di cittadinanza fondato sul diritto di sangue. Ma questo è
sufficiente a fare della squadra francese un modello universalista, il riflesso
di una società che avrebbe realizzato
l'integrazione egualitaria di tutte le
popolazioni che la compongono e in
particolare degli stranieri? D'altronde
l'ambiguità è tale che talvolta prevale una visione delle cose di gran lunga più «razzialista», per cui si tende a
lodare più «la vittoria della diversità
razziale» e di una «squadra multicolore», che non i meriti di una Nazionale
formata da cittadini uguali, senza alcun riferimento alla loro origine presunta o dichiarata. È proprio questa
propensione a «razzializzare» che ha
caratterizzato l'approccio di numerosi media europei, che hanno interpretato la vittoria francese come conseguenza di un efficace «dosaggio» di
razze, in tal modo formulando la questione dell'integrazione degli stranieri
in Francia in termini di gruppi razziali e di caratteristiche specifiche ad essi
legate. «Il sangue nero in maglia blu
ha conquistato un posto ancora più
importante nel cuore della Francia»,
«Battuti dal nuovo potere nero», «I
campioni d'Europa sono neri», «Siamo stati battuti dalla grande riserva
nera a cui attinge a piene mani tutto
lo sport francese»: così si sono espressi diversi editorialisti sportivi italiani, per non parlare delle testate e dei
responsabili sportivi tedeschi che si
sono subito interrogati sui vantaggi
che avrebbero se qualche straniero «di
colore» entrasse nella loro Nazionale.
In relazione a queste critiche e riserve, e soprattutto alla questione del
come i diversi gruppi, culture e minoranze possano convivere in un quadro di uguaglianza, che è la questione
centrale del dibattito sul multiculturalismo, sono stati recentemente apportati diversi contributi atti a chiarire il problema, in particolare da
Charles Taylor in Multiculturalisme.
Différence et démocratie (1994). Il
professore universitario canadese ritiene che il principio morale alla base
del multiculturalismo non possa essere quello della coesistenza di culture
reciprocamente esclusive e non rispet-
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tose le une delle altre. Secondo lui,
tutti gli individui, in quanto espressioni della natura umana universale,
hanno uguale valore e meritano lo
stesso rispetto e le stesse opportunità per realizzarsi. La dignità di esseri
uguali richiede istituzioni democratiche non repressive, non discriminatorie e aperte al dibattito. Un tale sistema politico e morale garantirebbe al
tempo stesso l'espressione dei diritti
universali e la salvaguardia dei particolarismi culturali. È questa politica
del riconoscimento che può fondare
l'educazione multiculturale, promuovere il valore della varietà culturale e
permettere con ciò di apprezzare le diversità non per se stesse, ma in quanto accrescono le possibilità e la qualità
della vita di tutti. Il principio morale
del multiculturalismo si fonda dunque sul rispetto: questo richiede da
tutte le parti buona volontà e capacità di enunciare e discutere le divergenze, e di distinguere fra divergenze ammissibili e non ammissibili (per
esempio l'espressione di posizioni razziste e antisemite), infine disponibilità a cambiare, se necessario, la propria
opinione per effetto di un'argomentazione convincente. In poche parole,
la realizzazione del multiculturalismo
dipende dal libero esercizio di queste
capacità di discussione.
In Francia, dove il solo termine
di multiculturalismo suscita abitualmente allarme, nondimeno sempre
più si incontrano persone pronte a ritenere che un tale progetto sia con-
cepibile nel contesto francese. Per
esempio, il già citato Norbert Rouland pensa che sul piano giuridico sia
possibile un'interpretazione pluralista dello Stato unitario francese. A
suo parere le differenze possano trovare espressione nella legge: a questo
proposito egli ricorda che il Consiglio
costituzionale ha ammesso che il legislatore possa trattare diversamente
gruppi o persone che hanno situazioni diverse; e che certe norme possano
non applicarsi in maniera uniforme a
tutto il territorio francese, senza peraltro mettere in discussione i principi repubblicani riguardanti l'uguaglianza dei cittadini. In ciò vicino alla
posizione filosofica di Charles Taylor,
Norbert Rouland pensa che
l'accettazione del pluralismo consiste
nel tracciare un quadro in cui maggioranza e minoranze, legate dall'adesione
ad alcuni valori comuni, entro un sistema di reciproche concessioni concordino nel considerare che le vie d'accesso a
questi valori universali e la loro espressione possano essere diverse e coesistere
in condizioni di autonomia relativa da
determinare insieme.
Tale questione è oggi ridiventata attuale grazie al dibattito sull'adozione della Carta europea delle
lingue regionali e minoritarie, dibattito che vede, sempre in Francia, il
cristallizzarsi delle posizioni intorno
ai due consueti poli dell'alternativa:
da una parte, la riaffermazione del
centralismo giacobino e del francese
come unica lingua ufficiale in quanto espressione della Repubblica una
ed indivisibile; dall'altra, il riconoscimento della pluralità linguistica come
corollario di un pluralismo culturale che, si ritiene, non attenta affatto
all'unità politica, ma anzi garantisce
le condizioni per una vera democrazia.
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