La Critica della ragion pratica La ragione serve a dirigere non solo la conoscenza, ma anche l'azione. Accanto alla ragione teoretica abbiamo quindi una ragione pratica. Kant distingue tuttavia tra una ragion pura pratica (cioè che opera indipendentemente dall'esperienza e dalla sensibilità) e una ragione empirica pratica (cioè che opera sulla base dell'esperienza e della sensibilità). E poiché la dimensione della moralità si identifica con la dimensione della ragion pura pratica, il filosofo dovrà distinguere in quali casi la ragione è pratica e, nello stesso tempo, pura (ovvero morale) e in quali casi essa è pratica senza essere pura (ovvero senza essere morale). A questo serve appunto la Critica della ragion pratica. Questa seconda Critica - si badi bene - «non sarà, però, una "critica della ragione pura pratica", come la prima Critica era una "critica della ragione pura teoretica", perché, mentre la ragione teoretica ha bisogno di essere criticata, cioè sottoposta ad esame, anche nella sua parte pura, in quanto tende a comportarsi in modo illegittimo (valicando i limiti dell'esperienza), la ragione pratica non ha bisogno di essere criticata nella sua parte pura, perché in questa essa si comporta in modo perfettamente legittimo, obbedendo ad una legge appunto universale. Invece nella sua parte non pura, cioè legata all'esperienza, la ragione pratica può darsi delle massime, cioè delle forme di azione, dipendenti appunto dall'esperienza, e perciò non legittime dal punto di vista morale. Perciò deve essere sottoposta a critica» (E. Berti). In altri termini «la situazione della Critica della Ragion pratica si presenta come esattamente capovolta rispetto alla Critica della Ragion pura: nella "ragion pratica" le pretese di andare oltre i propri limiti legittimi sono quelle della ragion pratica empirica (legata all'esperienza), che vorrebbe essa sola determinare la volontà; invece, nella "ragione teoretica" le pretese della ragione, al contrario, erano di far a meno dell'esperienza, e di raggiungere da sola (senza l'esperienza) l'oggetto. Insomma: mentre nella Critica della Ragion pura Kant ha criticato le pretese della ragione teoretica (che rappresentano un eccesso) di trascendere l'esperienza, nella Critica della Ragion pratica, egli ha criticato invece le pretese opposte della ragion pratica (che rappresentano un difetto) di restare legata sempre e solo all'esperienza. Perciò il titolo è: "Critica della Ragion pratica", e non "Critica della Ragion pura pratica"» (Reale-Antiseri). In altri termini - e a questo punto possiamo usare le parole stesse di Kant - il capolavoro morale del filosofo di Konigsberg si propone di stabilire «non solo che la ragione pura può essere pratica, ma che essa sola, e non la ragione sottostante a limiti empirici, è pratica in modo incondizionato». Il fatto che la ragion pura pratica non debba venir criticata, ma semplicemente illustrata nelle sue strutture e funzioni, non significa tuttavia - l'osservazione è importante - che essa sia priva di limiti; infatti, come vedremo, la morale, secondo Kant, risulta profondamente segnata dalla finitudine dell'uomo e necessita di essere salvaguardata dal fanatismo, ossia dalla presunzione di identificarsi con l'attività di un essere infinito (v. "Glossario"). Certo, scrive Chiodi, articolando l'interpretazione (abbagnaniana) di Kant come "filosofo del finito", «il mondo morale non ubbidisce allo stesso genere di restrizioni del mondo della conoscenza. Nel campo morale la ragione umana non è condizionata dai fenomeni come nel mondo della conoscenza; ma è un errore credere che Kant restauri nel campo morale l'assolutezza della metafisica. La ragione morale è pur sempre la ragione d'un essere pensante finito e quindi condizionato. Il condizionamento che la finitudine umana introduce nel campo morale è costituito dal fatto che la ragione vi incontra costantemente ed ineliminabilmente la resistenza della natura sensibile dell'uomo». Resistenza che obbliga la legge morale ad assumere la forma del "dovere". La realtà e l'assolutezza della legge morale II motivo che sta alla base della Critica della ragion pratica è la persuasione che esista, scolpita 1 nell'uomo, una legge morale a priori valida per tutti e per sempre. In altri termini, come nella Critica della ragion pura Kant muoveva dall'idea dell'esistenza di conoscenze scientifiche universali e necessarie, nella Critica della ragion pratica muove dall'analogo convincimento dell'esistenza di una legge etica assoluta. Legge che il filosofo non ha il compito di "dedurre", e tanto meno di "inventare", ma unicamente di "constatare", a titolo di «un fatto della ragion pura, di cui abbiamo consapevolezza a priori e di cui siamo apoditticamente certi» (Critica della ragion pratica, A. 81). Come si vede, che esista qualcosa come una legge morale assoluta o «incondizionata» come la chiama testualmente Kant) è qualcosa su cui il filosofo non ha dubbi. Dal suo punto di vista, infatti, o la morale è una chimera, in quanto l'uomo agisce in virtù delle sole inclinazioni naturali, oppure, se esiste, risulta per forza incondizionata, presupponendo una ragion pratica "pura", cioè capace di svincolarsi dalle inclinazioni sensibili e di guidare la condotta in modo stabile. Di conseguenza, la tesi dell'assolutezza o incondizionatezza della morale implica, per Kant, due concetti di fondo strettamente legati tra loro: la libertà dell'agire e la validità universale e necessaria della legge. Essendo incondizionata, infatti, la morale implica la capacità umana di autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istintuali, facendo sì che la libertà si configuri come il primo presupposto - o «postulato», come Kant dirà in seguito - della vita etica: «La libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque reciprocamente connesse» (Critica della ragion pratica, A 52). Essendo indipendente dagli impulsi del momento e da ogni condizione particolare, la legge risulterà anche, per definizione, universale e necessaria, ossia immutabilmente uguale a se stessa in ogni tempo e luogo. L’equazione "moralità = incondizionatezza = libertà = universalità e necessità" rappresenta quindi il fulcro dell'analisi etica di Kant e la chiave di volta, come vedremo, per cogliere in modo logicamente concatenato gli attributi essenziali che il filosofo riferisce alla legge morale: categoricità, formalità, disinteresse e autonomia. Però si badi bene: per Kant la morale è ab-soluta, cioè sciolta dai condizionamenti istintuali, non nel senso che possa prescinderne, ma perché è in grado di de-condizionarsi rispetto a essi. La morale si gioca infatti all'interno di una tensione bipolare tra ragione e sensibilità. Se l'uomo fosse esclusivamente sensibilità, ossia animalità e impulso, è ovvio che essa non esisterebbe, perché l'individuo agirebbe sempre per istinto. Viceversa, se l'uomo fosse pura ragione, la morale perderebbe ugualmente di senso, in quanto l'individuo sarebbe sempre in quella che Kant chiama «santità» etica, ovvero in una situazione di perfetta adeguazione alla legge. Invece la bidimensionalità dell'essere umano fa sì che per Kant l'agire morale prenda la forma severa del «dovere» e si concretizzi in una lotta permanente tra la ragione e gli impulsi egoistici. Da ciò la natura finita, ossia limitata e imperfetta, dell'uomo, che può agire secondo la legge, ma anche contro la legge. Pertanto, come nella Critica della ragion Pura circola come tema dominante la polemica contro l'arroganza della ragione, che pretende di oltrepassare i limiti della conoscenza umana, nella Critica della ragion pratica circola come tema dominante la polemica contro il fanatismo morale, che è la velleità di trasgredire i limiti della condotta umana, sostituendo alla virtù, che è l'intenzione morale in lotta, la pretesa santità di credersi in possesso della perfezione etica. La "categoricità" dell'imperativo morale Gli uomini non agiscono – normalmente – a casaccio, bensì seguono delle regole d’azione o principi pratici. Kant distingue i principi pratici che regolano la nostra volontà in «massime» e «imperativi». La massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo, cioè valida esclusivamente per l'individuo che la fa propria (ad esempio può essere una massima quella di vendicarsi di ogni offesa subita o di alzarsi presto al mattino per fare ginnastica). L'imperativo è una prescrizione di valore oggettivo, ossia che vale per chiunque. Gli imperativi si dividono a loro volta in imperativi ipotetici e imperativo categorico. Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di determinati fini e hanno la forma del "se... 2 devi" (ad esempio: "se vuoi conseguire buoni risultati scolastici, devi impegnarti in modo costante"). Questi imperativi si specificano a loro volta in regole dell'abilità, che illustrano le norme tecniche per raggiungere un certo scopo (ad esempio le varie procedure per divenire un buon medico), e in consigli della prudenza, che forniscono i mezzi per ottenere il benessere o la felicità (ad esempio i vari "manuali" della salute o del vivere felici). L'imperativo categorico, invece, ordina il dovere in modo incondizionato, ossia a prescindere da qualsiasi scopo, e non ha la forma del "se... devi", ma del "devi" puro e semplice. Ora, essendo la morale strutturalmente incondizionata, cioè indipendente dagli impulsi sensibili e dalle mutevoli circostanze, risulta evidente che essa non potrà risiedere negli imperativi ipotetici, che sono, per definizione, condizionati e variabili. Infatti, solo l'imperativo categorico, in quanto incondizionato, ha i connotati della legge, ovvero di un comando che vale in modo perentorio per tutte le persone e per tutte le circostanze. In conclusione, solo l'imperativo categorico, che ordina un 'devi" assoluto, e quindi universale e necessario, ha in se stesso i contrassegni della moralità. Posto che la legge etica assuma la forma di un «imperativo categorico», che cosa comanda quest'ultimo? Kant risponde che esso, in quanto incondizionato - ossia non richiedente altro che il rispetto della legge in generale - consiste nell'elevare a legge l'esigenza stessa di una legge. E poiché dire legge è dire universalità, esso si concretizza nella prescrizione di agire secondo una massima che può valere per tutti. Da ciò la formula-base nell'imperativo categorico: Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale. (Critica della ragion pratica, A 54) In altri termini, l'imperativo categorico - il quale si identifica con la ragione stessa, ovvero con la sua universalità elevata a legge - è quel comando che prescrive di tener sempre presenti gli altri e che ci ricorda che un comportamento risulta morale solo se, e nella misura in cui, supera il "test della generalizzabilità" ovvero se la sua massima appare universalizzabile. Ad esempio, chi mente compie un atto chiaramente immorale, poiché qualora venisse universalizzata la massima dell'inganno i rapporti umani diventerebbero impossibili. Questa è l'unica formula che Kant presenta nella Critica della ragion pratica e che ribadisce con la cosiddetta «Tipica del giudizio puro pratico» . Invece, nella Fondazione della metafisica dei costumi troviamo anche una seconda e una terza formula. La seconda afferma: agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo.(Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67-68) In altri termini, rispetta la dignità umana che è in te e negli altri, evitando di ridurre il prossimo o te medesimo a semplice mezzo del tuo egoismo e delle tue passioni. In questo contesto la parola "fine" indica quella caratteristica fondamentale della persona umana che risiede nell'essere scopo-a sestessa, facendo sì che a essa venga riconosciuta la prerogativa di essere soggetto e non oggetto. Tant'è vero che Kant sostiene che la morale istituisce un «regno dei fini», ossia una comunità ideale di libere persone, che vivono secondo le leggi della morale e si riconoscono dignità a vicenda. La terza formula prescrive di agire in modo tale che «la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice» (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 76). Questa formula ripete, in parte, la prima. Tuttavia, a differenza di quella, che puntualizza soprattutto la legge, quest'ultima sottolinea in modo particolare l'autonomia della volontà, chiarendo come il comando morale non sia un imperativo esterno e schiavizzante, ma il frutto spontaneo della volontà razionale, la quale, essendo legge a se medesima, fa sì che noi, sottomettendoci ad essa, non facciamo che obbedire a noi stessi. Tant'è vero che nel "regno dei fini", precisa Kant, ognuno è suddito e legislatore al tempo stesso. In altre parole: 3 la volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata autolegislatrice, e solo a questo patto sottosta alla legge (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 70-71) La "formalità" della legge e il dovere Un'altra caratteristica strutturale dell'etica kantiana, che emerge chiaramente da quanto si è detto finora circa l'imperativo categorico, è la formalità, in quanto la legge non ci dice che cosa dobbiamo fare, ma come dobbiamo fare ciò che facciamo. Anche ciò discende dalla riconosciuta incondizionatezza e libertà della norma etica. Infatti, se quest'ultima non fosse formale, bensì "materiale", e prescrivesse quindi dei contenuti concreti, sarebbe "vincolata" a essi, perdendo inevitabilmente in termini di libertà da un lato e di universalità dall'altro, poiché nessun contenuto o precetto particolare può possedere l'universale portata della legge. Questo significa che l'imperativo etico non può risiedere in una casistica o manualistica concreta di precetti, ma soltanto in una legge formale - universale, la quale afferma semplicemente: quando agisci tieni presenti gli altri e rispetta la dignità umana che è in te e nel prossimo. Ovviamente secondo Kant sta poi a ognuno di noi "tradurre" in concreto, nell'ambito delle varie situazioni esistenziali, sociali e storiche, la parola della legge. L'importante è non dimenticare che le norme etiche concrete in cui si incarna di volta in volta l'imperativo categorico risultano sempre fondate e mai fondanti nei suoi confronti, esistendo solo in funzione di esso, che è ciò che le suscita e le giustifica. Il carattere formale e incondizionato della legge morale fa tutt'uno con il carattere anti-utilitaristico dell'imperativo etico. Infatti, se la legge ordinasse di agire in vista di un fine o di un utile, si ridurrebbe a un insieme di imperativi ipotetici e comprometterebbe, in primo luogo, la propria libertà, in quanto non sarebbe più la volontà a dare la legge a se medesima, ma gli oggetti a dare la legge alla volontà. In secondo luogo, essa metterebbe in forse la propria universalità, poiché l'area degli scopi e degli interessi coincide con il campo della soggettività e della particolarità. Il cuore della moralità kantiana risiede invece nel dovere-per-il-dovere, ossia nello sforzo di attuare la legge della ragione solo per ossequio a essa, e non sotto la spinta di personali inclinazioni o in vista di risultati che possono scaturirne. Di conseguenza, secondo la Critica della ragion pratica, noi non dobbiamo agire per la felicità, ma solo per il dovere: Dovere! Nome sublime e grande, che non porti con te nulla di piacevole che importi lusinga; ma esigi la sottomissione; che tuttavia non minacci nulla [...] ma presenti semplicemente una legge che penetra da sé sola nell'animo e si procura venerazione (Critica della ragion pratica, A 154) Da ciò il cosiddetto "rigorismo" kantiano, che esclude dal recinto dell'etica emozioni e sentimenti, che sviano la morale, oppure, quando collaborano con essa, ne inquinano la severa purezza. Nell'etica del filosofo di Konigsberg, che risulta in polemica con ogni tipo di morale di tipo sentimentalistico, si riconosce il diritto di cittadinanza a un unico sentimento: il rispetto per la legge. Sentimento "a priori" (come la legge stessa) e dotato di una forza tale da far tacere tutti gli altri sentimenti egoistici e da disporre l'individuo all'accoglimento della legge. Il rispetto, come nota Kant, implica la condizione propria dell'uomo come essere razionale finito: siccome il rispetto è un'azione sul sentimento e perciò sulla sensibilità di un essere razionale, esso suppone questa sensibilità, quindi anche la finitezza di quegli esseri a cui la legge morale impone il rispetto. (Critica della ragion pratica, A 135) 4 II dovere-per-il-dovere nel rispetto della legge: ecco le uniche condizioni affinché vi siano moralità e virtù e non si passi dalla moralità alla semplice "legalità". Infatti, secondo Kant, non basta che un'azione sia fatta esteriormente secondo la legge, ovvero in modo conforme a essa. La morale implica una partecipazione interiore, altrimenti rischia di scadere in atti di legalità ipocrita oppure in forme più o meno mascherate di autocompiacimento (come accade ad esempio quando ci si comporta bene per il plauso degli altri). Kant sostiene dunque che non è morale ciò che si fa, ma l'intenzione con cui lo si fa (morale dell'intenzione), essendo la «volontà buona», ovvero la convinta adesione della volontà alla legge, l'unica cosa incondizionatamente buona al mondo (infatti tutti gli altri beni, ad esempio l'intelligenza o il coraggio, possono essere usati male). Il dovere e la volontà buona, secondo Kant, innalzano l'uomo al di sopra del mondo sensibile (fenomenico), in cui vige il meccanismo delle leggi naturali, e lo fanno partecipare al mondo intelligibile (noumenico), in cui vige la libertà. In altri termini, la vita morale è la costituzione di una natura sovrasensibile, nella quale la legislazione morale prende il sopravvento sulla legislazione naturale. Nel suo "inno al dovere", il filosofo, a un certo punto, scrive infatti: quale origine è degna di te? E dove si trova la radice della tua nobile stirpe, che rifiuta fieramente ogni parentela con le inclinazioni, quella radice in cui ha origine la condizione indispensabile dell'unico valore che gli uomini possono darsi da se stessi? Non può essere niente di meno di ciò che eleva l'uomo al di sopra di sé (come parte del mondo sensibile), di ciò che lo lega a un ordine di cose che il solo intelletto è in grado di pensare e che nello stesso tempo subordina a sé il mondo sensibile [...]. Non è altro che la personalità, cioè la libertà e l'indipendenza nei confronti del meccanismo dell'intera natura, considerata tuttavia contemporaneamente come facoltà di un essere sottostante a leggi speciali, cioè a leggi pure pratiche, che la sua stessa ragione gli fornisce; pertanto la persona, in quanto appartenente al mondo sensibile, è sottoposta alla propria personalità perché appartiene nello stesso tempo al mondo intelligibile. Non bisogna dunque meravigliarsi se l'uomo, appartenendo a due mondi, debba considerare il proprio essere, rispetto alla sua seconda e suprema determinazione, con venerazione e le leggi di essa col massimo rispetto (Critica della ragion pratica, A 154-155) Questa noumenicità del soggetto morale non significa tuttavia l'abbandono della sensibilità e l'eliminazione di ogni legame con il mondo sensibile. Difatti, proprio perché l'uomo partecipa strutturalmente dei due mondi, egli non può affermare il secondo (quello intelligibile o noumenico) se non nel primo e in virtù del primo (quello sensibile o fenomenico). Anzi, la noumenicità dell'uomo esiste solo in relazione alla sua fenomenicità, in quanto il mondo soprasensibile, per lui, esiste solo come forma del monde sensibile. L'autonomia della legge e la rivoluzione copernicana morale Le varie determinazioni della legge etica che abbiamo esaminato convergono in quella dell'autonomia, che tutte le implica e riassume. Il senso profondo dell'etica kantiana, e della sua sorta di "rivoluzione copernicana morale" , consiste infatti nell'aver posto nell'uomo e nella sua ragione il fondamento dell'etica, al fine di salvaguardarne la piena libertà e purezza. Se la libertà, presa in senso negativo, risiede nell'indipendenza della volontà dalle inclinazioni, in senso positivo si identifica con la sua capacità di autodeterminarsi, ossia nella prerogativa autolegislatrice della volontà, la quale fa sì che l'umanità sia norma a se stessa. Di conseguenza, Kant polemizza aspramente contro tutte le morali eteronome, cioè contro tutti quei sistemi che pongono il fondamento del dovere in forze esterne all'uomo o alla sua ragione, facendo scaturire la morale, anziché dalla pura "forma" dell'imperativo categorico, da principi "materiali". Ripensando la storia della filosofia, Kant ha racchiuso in una "tavola" apposita i diversi motivi etici teorizzati dai filosofi: 5 SOGGETTIVI ESTERNI dell'educazione (Montaigne) del governo civile (Mandeville) OGGETTIVI INTERNI del sentimento del sentimento fisico (Epicuro) morale (Hutcheson) INTERNI ESTERNI della perfezione della volontà di Dio (Wolff e gli : (Crusius e gli altri stoici) moralisti teologi) Passando in rassegna le varie posizioni (cfr. Fondazione della metafisica dei costumi, BA 88-96 e Critica della ragion pratica, A 69-71), Kant individua i limiti di ciascuna, che risiedono, in generale, nel fatto di non riuscire a preservare l'incondizionatezza della legge morale e degli attributi in cui essa si concretizza. Infatti, se i motivi della morale risiedessero nell'educazione, nella società, nel piacere fisico o nel sentimento della benevolenza, l'azione non sarebbe più libera e universale, in quanto tali realtà sarebbero fattori determinanti e mutevoli, ossia forze necessitanti e soggette al cambiamento. Inoltre, tali motivi potrebbero al più spiegare in linea di fatto la presenza della moralità in certi uomini o gruppi di uomini, ma non giustificherebbero il carattere assolutamente obbligatorio della legge morale. Se i motivi stessero invece in un generico ideale di perfezione o in Dio cadremmo negli stessi inconvenienti. Ad esempio, il concetto di perfezione (Wolff) è un'idea vuota, a meno che non lo si identifichi con quello di perfezione morale. Ma in tal caso, dire che la moralità consiste nel realizzare la perfezione è una palese tautologia, poiché equivale a dire che la moralità risiede nella moralità. Analogamente, l'idea di "volontà divina" risulta, di per sé, indeterminata. Pertanto, o viene determinata sottobanco, in virtù del concetto di perfezione etica, dicendo che Dio è la perfezione morale stessa, che l'uomo deve seguire - e allora si cade in un circolo vizioso fondato sull'asserzione che la morale consiste nel seguire la morale (personificata in Dio); oppure viene determinata in modo volontaristico, dicendo che bisogna sottomettersi alla volontà onnipotente e superiore di Dio e allora la morale cessa di essere libera e disinteressata, poiché l'obbedienza a essa riviene frutto di una costrizione o di un calcolo dettato dal timore di punizioni o dalla speranza di premi. Senza contare che le varie religioni o filosofie possono interpretare in modo diverso la volontà divina, distruggendo così l'universalità del valore morale. In sintesi, anche la morale teologica, come ogni forma di etica eteronoma, va contro quegli attributi di libertà e di universalità che costituiscono strutturalmente il mondo morale. Come si può notare, il modello etico di Kant si distingue nettamente dai precedenti sistemi morali del razionalismo e dell'empirismo. Il razionalismo, pur fondando la morale sulla ragione, l'aveva fatta dipendere dalla metafisica, fondandola ad esempio sull'ordine del mondo, su Dio ecc. L'empirismo, pur sganciando la morale dalla metafisica, l'aveva annessa al sentimento (v. la "simpatia" di Hume). Contro il razionalismo, Kant, sotto l'influenza dei moralisti inglesi e di Rousseau, afferma invece che la morale si basa unicamente sull'uomo e sulla sua dignità di essere razionale finito e non dipende da preesistenti conoscenze metafisiche. Contro l'empirismo e le varie morali sentimentalistiche, Kant sostiene invece che la morale si fonda unicamente sulla ragione, in quanto il sentimento, anche inteso nel senso migliore e più alto del termine («benevolenza del prossimo»), risulta qualcosa di troppo fragile e soggettivo per fungere da piedistallo per un robusto edificio etico. Di conseguenza, anche in sede etica, il kantismo non nasce da una "sintesi" tra razionalismo ed empirismo, ma da un continuo critico misurarsi con le più disparate espressioni della filosofia moderna, che produce una forma di pensiero originale, irriducibile a quelle precedenti. Il tema dell'autonomia morale, escludendo qualsiasi causa determinante esterna alla condotta, 6 scioglie anche quell'apparente "paradosso" della ragion pratica, secondo cui non sono i concetti di bene e di male a fondare la legge etica, bensì, al contrario, è la legge etica a fondare e a dare un senso alle nozioni di bene e di male. La rivoluzione copernicana morale di Kant, che fa dell'uomo l'unico legislatore del suo comportamento, trova in tal modo il suo ultimo e più significativo compimento. La teoria dei postulati pratici e la fede morale Se nell'Analitica della Ragion pratica, che è la parte che abbiamo esposto, Kant ha studiato il dovere, nella Dialettica prende in considerazione l'assoluto morale o sommo bene. Come sappiamo, la felicità non può mai erigersi a motivo del dovere, perché in tal caso metterebbe in forse l'incondizionatezza della legge etica - e quindi la sua categoricità, formalità, purezza e autonomia. Tuttavia la virtù, pur essendo il "bene supremo", non è ancora, secondo Kant, quel "sommo bene" cui tende irresistibilmente la nostra natura, il quale consiste, invece, nell'addizione di virtù e felicità. Si noti fin d'ora come Kant, introducendo il concetto di sommo bene, non contraddica il carattere disinteressato e autonomo della morale, in quanto egli, senza fare della felicità motivo dell'azione, asserisce unicamente che c'è in noi il bisogno di pensare che l'uomo, pur agendo per dovere, possa anche essere degno di felicità. Ma in questo mondo virtù e felicità non sono mai congiunte, poiché lo sforzo di essere virtuosi e la ricerca della felicità sono due azioni distinte e per lo più opposte, in quanto l'imperativo etico implica la sottomissione delle tendenze e l'umiliazione dell'egoismo. Di conseguenza, virtù e felicità costituiscono l'antinomia etica per eccellenza, che forma l'oggetto specifico della Dialettica della Ragion pratica. Kant rileva come i filosofi greci abbiano vanamente tentato di scioglierla, per quanto riguarda questa vita, o risolvendo la felicità nella virtù (stoici) o la virtù nella felicità (epicurei). In realtà, afferma Kant, collocandosi in una tradizione di pensiero che va da Platone al cristianesimo, l'unico modo per uscire da tale antinomia - che rischia di rendere impossibile il sommo bene e di ridurre la morale che lo prescrive a un'impresa senza senso — è di "postulare" un mondo dell'aldilà in cui possa realizzarsi ciò che nell'aldiquà risulta impossibile: l'equazione "virtù = felicità". Kant trae il termine "postulato" dal linguaggio della matematica classica. In quest'ultima, mentre si dicono "assiomi" le verità fornite di auto-evidenza, si chiamano "postulati" quei principi che, pur essendo indimostrabili, vengono accolti per rendere possibili determinate entità o verità geometriche. Analogamente, i postulati di Kant sono quelle proposizioni teoretiche non dimostrabili che ineriscono alla legge morale come condizioni della sua stessa esistenza e pensabilità, ovvero quelle esigenze interne della morale che vengono ammesse per rendere possibile la realtà della morale stessa, ma che di per se stesse non possono venir dimostrate. I postulati tipici di Kant sono l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio. Per quanto concerne il postulato dell'immortalità dell'anima, Kant afferma che: a) poiché solo la santità, cioè la conformità completa della volontà alla legge, rende degni del sommo bene e b) poiché la santità non è mai realizzabile nel nostro mondo, e) si deve per forza ammettere che l'uomo, oltre il tempo finito dell'esistenza, possa disporre, in un'altra zona del reale, di un tempo infinito grazie a cui progredire all'infinito verso la santità. Se la realizzazione della prima condizione del sommo bene, ossia la santità, implica il postulato dell'immortalità dell'anima, la realizzazione del secondo elemento del sommo bene, cioè la felicità proporzionata alla virtù, comporta il postulato dell'esistenza di Dio, ossia la credenza in una «volontà santa ed onnipotente», che faccia corrispondere la felicità al merito. Accanto ai due postulati "religiosi" dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio. Kant pone un altro postulato che ci è ben noto: la libertà. Quest'ultima è infatti la condizione stessa dell'etica, che 7 nel momento in cui prescrive il dovere, presuppone anche che si possa agire o meno in conformità di esso e che quindi si sia sostanzialmente liberi. «Devi, dunque puoi», afferma Kant: se c'è la morale deve, per forza, esserci la libertà. Si osservi come il postulato kantiano della libertà si collochi su un piano oggettivamente diverso dagli altri due, in quanto, pur non sapendo che cosa sia la libertà, possiamo almeno dire che essa esiste. Questo non avviene anche, a rigore, per gli altri due, di cui non possiamo sostenere con sicurezza, né che cosa siano, né che siano, essendo unicamente "bisogni" pratici dell'essere morale finito. In altri termini, mentre la libertà è la condizione stessa dell'etica - ed è quindi una certezza scaturente dal fatto morale - l'immortalità e Dio rappresentano soltanto delle condizioni ipotetiche (sia pure razionalmente fondate) affinché la morale trovi, in un altro mondo, quella realizzazione che in questo le è negata. Per cui, "postulati", in senso forte e caratteristicamente kantiano, sono da considerarsi soprattutto quelli religiosi. Ma perché Kant classifica come "postulato" anche la libertà? Ciò avviene perché egli, fermo alle conclusioni gnoseologiche della Critica della ragion pura, ritiene che l'idea di un'autocausalità, ossia di una fonte spontanea di atti (libero arbitrio), non possa venir scientificamente affermata, in quanto il mondo dell'esperienza, come si è visto, si regge sul principio di causa-effetto. Tuttavia, discutendo la terza antinomia, Kant ha sostenuto che «se nel mondo fenomenico vige il determinismo, nel regno della cosa in sé potrebbe trovar posto la libertà facendo capire, in tal modo, come l'ammissione filosofica della libertà non risulti contraddittoria con il punto di vista espresso nella Critica della ragion pura. Il primato della ragion pratica La teoria dei postulati mette capo a ciò che Kant definisce «primato della ragion pratica», consistente nella prevalenza dell'interesse pratico su quello teoretico e nel fatto che la ragione ammette, in quanto è pratica, proposizioni che non potrebbe ammettere nel suo uso teoretico. Tuttavia, pur aprendo uno squarcio sul transfenomenico e sul metafisico, i postulati kantiani non possono affatto valere come conoscenze. Come scrive Pietro Chiodi, il primato della ragion pratica rispetto alla ragione speculativa «non significa che essa ci può dare ciò che questa ci nega, ma semplicemente che le sue condizioni di validità comportano la ragionevole speranza dell'esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima: ma se questa ragionevole speranza fosse intesa come certezza razionale, non solo il mondo morale non ne uscirebbe rafforzato ma totalmente distrutto». Infatti le affermazioni di Kant a proposito della non-teoreticità dei postulati sono così tenaci e ripetute da farci comprendere come egli fosse ben conscio del fatto che un'eventuale ammissione della loro validità conoscitiva non solo avrebbe violato apertamente le conclusioni della Critica della ragion pura, ma avrebbe minato il suo stesso modo di intendere la morale come libertà e autonomia: Dio e l'eternità, nella loro maestà tremenda, ci starebbero continuamente dinanzi agli occhi [...]. La trasgressione della legge sarebbe senz'altro impedita, ciò che è comandato sarebbe compiuto [...]. La condotta dell'uomo, finché la sua natura restasse qual è ora, si trasformerebbe in un semplice meccanismo, in cui, come in un teatro di marionette, tutto gesticolerebbe bene, ma nelle cui figure non ci sarebbe più vita. (Critica della ragion pratica, A 265) Di conseguenza, se i postulati fossero delle verità dimostrate o delle certezze comunque intese, la morale scivolerebbe immediatamente verso l'eteronomia e sarebbe nuovamente la religione (o la metafisica) a fondare la morale, con tutti gli inconvenienti già esaminati. Rovesciando il modo tradizionale di intendere il rapporto tra morale e religione, Kant sostiene invece, a chiare lettere, che non sono le verità religiose a fondare la morale, ma è la morale, sia pure sotto forma di "postulati", a fondare le verità religiose. In altri termini, Dio, per Kant, non sta all'inizio e alla base della vita morale, ma eventualmente alla fine, come suo possibile completamento. In altre 8 parole ancora, l'uomo di Kant è colui che agisce seguendo solo il dovere-per-il-dovere, con, in più, la «ragionevole speranza nell'immortalità dell'anima e nell'esistenza di Dio. A questo proposito, i testi sono inequivocabilmente chiari. Infatti, da un lato, il filosofo scrive: La morale, essendo fondata sul concetto dell'uomo come essere libero, il quale, appuri: i perché tale, sottopone se stesso, mediante la propria ragione, a leggi incondizionate, non ha bisogno né dell'idea di un altro essere superiore all'uomo per conoscere il proprio dovere, né di un altro movente oltre la legge stessa per adempierla [...] non ha quindi bisogno sia oggettivamente, per ciò che concerne il volere, sia soggettivamente, per ciò che concerne il potere) del sostegno della religione, ma è autosufficiente grazie alla ragion pratica pura . (La religione nei limiti della semplice ragione, pref. alla 1a ed.) Ma dall'altro lato sostiene che «La morale conduce [...] inevitabilmente alla religione» perché «soltanto da una volontà moralmente perfetta (santa e buona) e nello stesso tempo onnipotente possiamo sperare quel sommo bene che la legge morale ci fa un dovere di proporci come oggetto dei nostri sforzi» (Critica della ragion pratica, A 233 ). Di conseguenza, con la teoria dei postulati Kant non ha eliminato l'autonomia dell'etica. perché l'ha solo "integrata" con una sorta di fede razionale. Tuttavia, queste considerazioni sulla coerenza interna della morale kantiana e sulle cautele critiche del filosofo circa il significato pratico e non teoretico dei postulati non escludono che la Critica della: ragion pratica finisca per delineare una sorta di dualismo platonizzante che spezza la realtà e l'uomo in due: da un lato il mondo fenomenico della scienza, dall'altro b mondo noumenico dell'etica; da un lato l'uomo fenomenico delle inclinazioni, dall'altro l'uomo noumenico della libertà e del dovere. Infatti è proprio dalla consapevolezza di questo dualismo che muove, in parte, la Critica del Giudizio. 9