SENTIREASCOLTARE digital magazine febbraio 2009 N.52 Mimes Of Wine immagini in movimento Nuovi Corrieri Cosmici, Lo Spazio del Suono The Smiths, Raccoo-oo-oon, Zomby, Harmonic313 Jem Cohen, Action Beat, Hjaltalìn, Dälek, Circlesquare Flaming Lips ERATLOCSAERITNES 2 5 . N 9002 oiarbbef enizagam latigid nuovi corrieri cosmici expo‘70 emeralds j o n a s re i n h a rd t News p. 4-5 Turn On p. 6-13 Raccoo-oo-oon, Zomby, Harmonic 313, Jem Cohen, Action Beat, Hjaltalìn Tune In p. 14-25 Dälek, Mimes of Wine, Circlesquare Drop Out p. 26-43 Nuovi Corrieri Cosmici (Expo’70, Emeralds, Reinhart...) Lo Spazio del Suono (Ralph Steinbruchel) recensioni p. 46-101 Svarte Greiner, Andrew Bird, zZz, Mi Ami..... We are Demo p. 102-103 Rearview Mirror p. 104-121 The Smiths - New Order... la sera della prima p. 122-128 Christmas on Mars, Tony Manero, Milk a night at the opera p. 130-131 I Puritani i “cosiddetti contemporanei” p. 132-135 Shostakovich Direttore: Edoardo Bridda Coordinamento: Teresa Greco Consulenti alla redazione: Daniele Follero, Stefano Solventi Staff: Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Antonello Comunale Hanno collaborato: Leonardo Amico, Gianni Avella, Sara Bracco, Marco Braggion, Luca Collepiccolo, Alessandro Grassi, Andrea Napoli, Francesca Marongiu, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Stefano Pifferi, Andrea Provinciali, Antonio Puglia, Costanza Salvi, Vincenzo Santarcangelo, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi. Guida spirituale: Grafica In e Adriano Trauber (1966-2004) Impaginazione: Nicolas Campagnari copertina: Mimes of Wine SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2008 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare Sommario / 3 Necrologio cumulativo questo mese: il 22 gennaio è scomparso Charlie Wesley Cooper metà dei Telefon Tel Aviv a pochissimo dall’uscita dell’album Immolate Yourself; se n’è andato anche Bill Powell, tastierista dei Lynard Skynard; Powell e Gary Rossington erano gli unici sopravvissuti dell’incidente aereo del 1977 in cui erano morti gli altri componenti Ronnie Van Zant, Steve Gaines e la corista Cassie Gaines. E ancora se ne va a 60 anni Ron Asheton, chitarrista degli Stooges; il musicista è stato trovato morto il 6 gennaio scorso nella sua casa in Michigan. A 76 anni muore il 27 gennaio per un cancro al polmone lo scrittore americano John Updike. E per ultimo il 29 gennaio ci lascia a 60 anni il folk singer scozzese John Martyn. Ancora una scomparsa: il 4 febbraio muore in California a 62 anni per problemi cardiaci Lux Interior (Erick Purkhiser) dei Cramps, fondati insieme alla moglie Poison Ivy nel 1975 a New York, dove entrarono a far parte della scena punk rock gravitante intorno al CBGB. Nuovo album per Bill Callahan, a due anni da Woke On A Whaleheart. Sometimes I Wish We Were An Eagle uscirà come i precedenti su Drag City, in aprile… Tornano i gallesi Super Furry Animals con un’uscita ancora senza titolo, che appare prima in forma digitale sul loro sito ufficiale superfurry. com dal 16 marzo e poi dal 21 aprile fisicamente su Rough Trade; l’album vede titoli quali The Very 4 / News a cura di Teresa Greco Best of Neil Diamond e Crazy Naked Girls… Franz Ferdinand, Kings of Leon, Oasis e Paul Weller sono i primi headliner dell’edizione 2009 del FIB Heineken 09 che si terrà a Benicàssim (Spagna) il 16, 17, 18 e 19 luglio 2009. Il resto della programmazione sara’ svelato non appena gli artisti confermeranno le proprie apparizioni. Maggiori informazioni su fiberfib.com… Nuovi dischi in arrivo tra febbraio e marzo per Odawas, Julie Doiron e Swan Lake, tutti su Jagjaguwar; gli Odawas sono al terzo album, The Blue Depths previsto per fine febbraio, la Doiron torna a marzo con Can Wonder What You Did With Your Day, così come Swan Lake, con Enemy Mine. Quest’ultimo progetto di Daniel Bejar (già con Destroyer e New Pornographers), Spencer Krug (di Sunset Rubdown e Wolf Parade) e Carey Mercer (di Frog Eyes e Blackout Beach)… Dopo cinque anni tornano i chicagoani Tortoise con un disco ancora senza titolo che uscirà il prossimo aprile… Ristampe in vista per i Monks e il loro garage rock su Light In the Attic: The Early Years e Black Monk Time in arrivo a marzo con distribuzione Goodfellas. Nel 1967 il gruppo si scioglie lasciando un album – Black Monk Time – oggetto di culto, causa la sua irreperibilità. Nel 1994 il bassista Eddie Shaw pubblica l’autobiografia Black Monk Time; il gruppo si riunisce nel 1999 durante il festival americano Cavestomp e poi in Spagna nel 2004 ed in occasione del tour in Germania ed Austria del 2007… Dopo ben quindici anni dall’ultima uscita con la sua band, That’s The Way It Should Be, Booker T pubblicherà su Anti il 20 aprile il nuovo album Potato Hole, L’artista leader dei Booker T & the MG’s (session band della Stax Records di Memphis), ha collaborato con Neil Young, chitarrista in nove canzoni, e con i Drive By Truckers come turnisti. Nel disco sono presenti tre cover, Hey Ya degli Outkast, Get Behind the Mule di Tom Waits e Space City dei Drive By Truckers… sulla tedesca Kompakt. Axel Willner è stato affiancato in fase di composizione di alcuni ritocchi sonori dal batterista dei Battles John Stainer… I Depeche Mode tornano con un nuovo disco, Sounds Of The Universe, previsto per il 20 aprile su Mute, anticipato dal singolo Wrong e prodotto da Ben Hillier (già in Playing the Angel del 2005). Secondo quanto da loro dichiarato, prevede l’uso di synth analogici e drum machine che bilanciano il sound retro futurista dell’allbum; come già annunciato saranno nel nostro paese per due date, il 16 giugno a Roma e il 18 a Milano… Frank Black torna con l’incarnazione Grand Duchy, insieme alla moglie Violet Clark: il debutto del duo si chiama Petit Fours e sarà pubblicato in aprile su Cooking Vinyl… Sarà pubblicato il 14 aprile Fantasies, quarto album dei Metric, il primo ad essere venduto direttamente dalla band canadese, acquistabile dal sito ufficiale Ilovemetric.com. Sarà preordinabile dal 2 marzo. In Canada e Messico sarà anche distribuito regolarmente dalla Arts & Crafts… I Black Dice pubblicheranno Repo, il loro quinto disco, il 7 aprile su Paw Tracks… Novità per gli electroloopers svedesi The Field. Il nuovo album - che segue il successo del 2007 Here We Go Sublime - verrà pubblicato probabilmente intorno al 16 maggio prossimo sempre News / 5 Raccoo-oo-oon Il canto del procione Dei defunti, almeno in Italia, si tende a parlare sempre bene. Anche se la cosa solitamente non corrisponde alla realtà della vita vissuta, nel caso dei Raccoo-oo-oon è inevitabile. Così come inevitabilmente la memoria ritorna alla famosa frase di Steve Albini, secondo il quale l’idea di sciogliersi è venuta troppo spesso ai gruppi sbagliati. Il (fu) quartetto di Iowa City rientra appieno in questa categoria, come dimostra il canto del cigno appena uscito col benemerito placet del logo Release The Bats, eclettica etichetta svedese nel cui catalogo confluiscono weirdità a profusione, Robedoor e Warmer Milks giusto per fare due nomi. In tono col ruolo sommesso giocato dal quartetto nel corso della sua esistenza, anche lo split è passato sotto silenzio. Cosa privata era e tale è rimasta, come conferma Shawn Reed: Si, Raccoo-oo-oon ha chiuso i battenti l’anno scorso ma non l’abbiamo mai annunciato; è semplicemente successo, abbiamo vissuto la band intensamente per più di 4 anni ed era tempo che ognuno seguisse la propria via, le proprie cose…è stato naturale, come se avessimo inconsciamente realizzato che avevamo fatto tutto quello che dovevamo fare e che fosse saggio così. Così mentre la diaspora del procione è in atto spingendo i 4 membri ai quattro angoli degli States 6 / Turn On come in una dispersione così fortemente a stelle e strisce (Andy è ora a Los Angeles, impegnato a tempo pieno nella scena artistica cittadina; Daren voleva trasferirsi a NY e ora l’ha fatto; io e Ryan Garbes viviamo ancora a Iowa City) non resta che ascoltare i 74 minuti pieni del personale swansong e da lì intraprendere un percorso a ritroso alla ricerca delle uscite precedenti e soprattutto minori del gruppo, come i 5 volumi della serie Mythos Folkways. Suddivisi equamente tra vinili e cassette mostrano il lato più selvaggio e sperimentale dei quattro; in alcuni casi con registrazioni in sede live devastanti – il Vol. IV, sottotitolato Future Visions – in altri in condivisione con spiriti affini, come nel caso del Vol. II – Pre-American Lands, pubblicato in vinile per Not Not Fun e splittato coi Woods. Oppure non resta che attendere le pubblicazioni del nuovo progetto di Shawn, da poco raggiunto da Garbes, a nome Wet Hair – più ossessivamente synth-drone-oriented – di cui testimonianze sono uscite (il 12” one-sided, la cassetta Irifi) e usciranno per Night People, etichetta di casa Reed con un catalogo che più strambo non si può. I Raccoo-oo-oon non esistono più. Lunga vita ai Raccoo-oo-oon. stefano pifferi Nel giro dubstep c’è una spia che parla il verbo più tamarro troveranno qualcosa, dato che ci ascolti gli Orbital e rinnegato della storia degli ultimi anni, l’ardekore. You e i Nightmares On Wax laser verdi annessi, e gli know the score? Era l’anticristo di ogni afrofuturista techLFO in gara per il basso più sismico come l’umidino che si rispetti e ora rivive in un album che punta dritto tà colata dagli specchi mescolata alle deformazioni alla scienza del breakbeat… ma attenzione, in camuffa. La della cassa al girar di manopola. Quelle voci brekscorza è anche italo house e technotronik. kate prese dall’hip-hop che credevamo trashy nelPrendete uno del giro dubla poco esclusiva accezione step e fatelo andare in fissa Snap! Technotronik e l’irricon l’ardkore primi Novanta. tantissima balbuzie messa Esatto. Proprio l’hardcore talì, da bambini cerebrolesi. marrissima decantata da E poi pure gli Orb, gli speReynolds, quella che ha aker KLF e le sirene Acid ispirato al critico la famosa Nation. Tante sirene ein teoria del continuum sezwei polizei in remember condo il quale il più vituperadegli scontri e delle retate to genere dalla scena alla luce del ‘92: l’anno della crociadei fatti era poi la chiave per ta governativa inglese antimutare e reinventarsi come rave, l’act che avrebbe stanl’araba fenice. Fategli incidere gato tutti e riportato tutto un disco furbissimo che prennei club istituzionalizzando de il meglio (o il peggio) di quei il suono di una generaziorush analogici e appiccicatene. Ci sono pure le tastieci sopra un’etichetta che più racce, quelle dei Black Box paracula non ce n’è: dov’eri nella variante taglia e cuci nel novantadue? La risposta di vocal che volgarizzavano è facile. Ero lì, proprio come per sempre il romanticismo lì c’era James Murphy neldi Derrick May, ficcandoci la famosa canzone e proprio come un coltello in cuore la come qui tra le mie mani c’è disco music di dieci e passa questo dischetto uscito a noanni prima. Supercafona vembre 2008 (Where Were ‘sta musica ‘ardekore you know what i mean che puzza di You In ‘92?) che è una chicca assurda. club scalciDentro, dice Mr Zomby, connato; ma più dentro puzza tattato istantaneamente via fido myspace, c’è tutta di ghetto, di negroni New York old skool (sentitela jungle techno from u.k, o meglio il suo ombrellone chiamavi la compila di Van Helden - New York A Mix to ‘old skool hardcore’. E se sei brit come dice lui non Odyssey 2). Quel kitsch che diede agli inglesi c’è scampo: jungle garage, hardcore, dubstep ecc. e tutto e agli europei tutti la voglia di sporcarsi le mani quel che c’è in mezzo, anche se il focus del disco è mentre oltreoceano gli intellettuali di Detroit atsu gente mirata e da addetti ai lavori come Manix, terrivano. Una nuova via per reinventare lo step Acen, 2 Bad Mice,Origination, Noise Factory, Hackney inglese è tracciata. Hardcore, Lennie De Ice e etichette come Formation, Edoardo Bridda e Marco Braggion Ibiza e Music House. Del resto dj o no tutti ci ri- zomby Turn On / 7 harmonic 313 Quando le macchine spaccano Grazie all’one man project 313, la Warp si riappropria dell’ambient che la fece conoscere al mondo intero con una sorpresa, l’hip hop. E tutti quei bass e break tornano a casa grazie a un magico brit finora rimasto in penombra. Sono anni che SA manda missive agli Autechre. Parola chiave e diktat: reinventarsi, hip hop, ripartire. Rasare daccapo. Via i vicoli ciechi del robo Cunningham. Via i rebus e i millennium bug. E sì, pure quel cazzo di snobismo oramai storicizzato e anni Ottanta che nessuno vuole. Oltrepiù è l’unica scelta artistica seria possibile, da artisti con le palle come direbbero i critics di Arte Fiera e Netmage, un ritorno a casa che non sappia di ripiego a seguire certi ritorni stimolanti, come l‘ardkore per il misterioso Zomby. Ma poi loro, gli Aut- li ricordate? Nacquero b-boy graffiti e skate. Sangue e pane del ghetto for real. Krautismo breakbeat stampo Warp. Label che ora fuori dal mucchio del pure electro ripesca magicamente le origini, si ricompone e anticipa un revival proprio sulle sue cose, prima che qualcuno soffi. Ma dicevamo hip-hop. Che sarebbero stati gli Autechre di Amber tra metalli e sincopi pre-dubstep senza il prezzemolo del battito? Già, ce lo dicevano pure gli Amari che sul prototipo del Bbeat si fondano tutti i Novanta. Ce lo diceva il Dariella prima B e ora electro-pop: “è tutta trasfigurazione (break)beat”. Da tutto questo e dalle sacrosante sentenze, attacchiamo anche un 8 / Turn On piccolo rewind con un riflettore puntato Beastie Boys periodo tuta gialla robo, importante quanto il sottobosco 8bit che non buca la notizia ma non molla e si reinventa continuamente come il Virtumonde che infesta i PC. Poi voci. Vocoder grezzi, kraft senza werk lontani dalle sofisticazioni francofone. Voci tirate in grana grossa come i pixelloni che si vedono nelle pubblicità. E pure l’internet tutt’uno con il suono. Fateci un giro nella home di Harmonic. C’è il segmento del loro pezzo chiave in animazione grafica stile graffiti Warp. Sincopi che vanno lette come basic beat. Tonde e sorde. Giochino di voci I/O. Biglietto da visita di mr. Mark Pritchard, ovvero le palle di reinventarsi come uno dei più intelligenti hip-hopper strumentali. Lui che ha un passato di ½ Global Comunication e che giustamente si merita un bel riflettore puntato a fianco di Tom Middleton quello di Lifetracks. Non ci si era soffermati più di tanto in occasione del paio di EP usciti nel 2008 (EP One e Dirtbox 12) ma rimediare è facile con un disco come When Machines Exceed Human Intelligence, uno di quei lavori che reinventano il Warp sound più tech, rinfocolano il bbeat con dosi controllate di 8bit e ambient autistica. E per i più vibertiani c’è pure l’acid. 09=90. E pure la noia buona del bit quadrato. Edoardo Bridda e Marco Braggion jem cohen Da anni l’americano Jem Cohen rappresenta un esempio di cinematografia “sul serio” indipendente che pare aver trovato ennesima conferma nell’uscita in dvd della riflessione sullo stato dell’unione Evening’s Civil Twilight In Empires Of Tin. Chissà se c’è un nesso tra l’insediarsi di Barack Obama alla Casa Bianca e la quasi contemporanea uscita del dvd Evening’s Civil Twilight In Empires Of Tin. E chissà che in qualche modo serva a chiudere il capitolo su un decennio tra i più tristi in politica estera per gli Stati Uniti, col suo evidenziare errori e decadenza del (fu?) paese più importante del mondo. Anche così non fosse, si tratta in fondo di uno tra gli innumerevoli livelli di lettura di un’opera che fonde musica, letteratura e politica come in poche altre è dato sentire. Non poteva che essere altrimenti, visti i pezzi da novanta impegnati e cioè il regista fieramente indipendente Jem Cohen, il cantautore Vic Chesnutt, i post-apocalittici rockers A Silver Mt. Zion e l’ex Fugazi Guy Picciotto. L’ensemble che già si era trovato in sala per il meraviglioso North Star Deserter e che qui si trova a fornire - con l’ausilio dei newyorchesi Quavers - adeguato commento sonoro alle immagini. Basata liberamente sul romanzo The Radetzky March di Joseph Roth (propostagli dal “montanaro d’argento” Efrim Menuck: “La ragione autentica dell’interesse del libro stava nel fatto che questi sono tempi assai duri, special- mente in America, sotto l’amministrazione Bush e dopo il 9/11.”) e commissionata dal Festival del Cinema di Vienna, la pellicola veniva proiettata a chiusura dell’edizione 2007 della rassegna. La sera stessa Cohen filmava l’esibizione ed eccoci oggi con in mano un dvd pesante come un mattone gettato dentro una vetrata; qualcosa che demolisce la barriera tra rockumentary e film d’autore attraverso metafore sociopolitiche aguzze e dolorose, secondo le quali il kaiser Francesco Giuseppe e “Mr. Dabliù” incarnano lo stesso timoniere di un vascello alla deriva. A tale scopo la macchina da presa indaga tra le pieghe della Vienna di oggi e che fu e lo stesso vale per New York, restituendo una metropoli-simbolo percorsa da ectoplasmi. L’uso del rallentatore e della velocizzazione tipici di Cohen congelano le emozioni per restituirle intatte nel loro potenziale evocativo e simbolico, siano esse sgranate istantanee prebelliche, seppiate intrusioni tra il centro città o panorami restituiti alle tinte vitali di ogni giorno. L’architettura si fa narrazione, pagina da indagare per leggere passato, presente e futuro. Sperando che quest’ultimo non sia come quella bandiera americana che, ridotta uno straccio di brandelli, sventolava sopra il “ground zero” nei giorni seguenti l’undici settembre di otto anni fa. giancarlo turra Turn On / 9 Action Beat Viene da Bletchley, nord-est di Londra, una delle sensazioni più vivide dell’attuale panorama indie del Regno Unito. Una appartenenza sentita che viene sbandierata sin dal titolo del comeback The Noise Band From Bletchley appena uscito per la neonata Truth Cult, sussidiaria della più nota Southern. Non una band in senso stretto, però, quanto piuttosto un collettivo piuttosto ampio e mobile che fluttua intorno ad un nucleo tutto sommato standard di almeno cinque membri. Quando però si tratta di salire su un palco, la formazione base si moltiplica fino a prevedere come minimo 3 chitarristi, un bassista e da 1 a 4 batterie. Intorno a questo core ruota di volta in volta una marea di collaboratori più o meno occasionali tra cui anche il drum-kit del nostro Bruno Dorella. Tanto per rendere l’idea, nelle sessions del nuovo album se ne contano almeno 10 tra chitarre, bassi, batterie, sax e trombe, come ci conferma Don McLean, col quale abbiamo fatto una lunga chiacchierata: «Non siamo una band classica, dato che ci adattiamo a situazioni differenti. Non abbiamo bisogno di un nucleo di membri, così se qualche membro regolare non può suonare un live è molto semplice 10 / Turn On farlo lo stesso. Nel nostro ultimo tour il nostro van si è rotto in Germania e abbiamo affittato un’auto suonando lo show successivo in Belgio. Quando però il van fu riparato, alcuni di noi dovettero tornare a recuperarlo a Leipzig e così abbiamo dovuto suonare l’ultimo show ad Amsterdam senza mezza band. È stato grande lo stesso!» Totale libertà, dunque. Approccio punk che si materializza in un assoluto distacco da canoni e codici. Libertà, una parola che tornerà spesso durante la conversazione e che si nasconde in ogni pezzo del collettivo: «Chiunque può suonare con AB e questo ci permette grande libertà e indipendenza. Per questo così tante persone hanno suonato con noi e permesso una così ampia libertà di suono».. Date queste premesse – collettivo aperto + attitudine free – sarebbe facile attendersi una potenza di fuoco impressionante. E invece ciò che stupisce maggiormente all’ascolto di The Noise Band From Bletchley è che cotanta artiglieria non si dedica, almeno in studio, ad un parossistico assalto sonico stordente e cacofonico come sarebbe lecito aspettarsi, bensì ad uno sviluppo focalizzato, controllato, quasi ragionato delle strutture che però nasce spesso in circostanze pressoché improvvisa- te: «Per il nuovo album abbiamo precedentemente jammato 3 pezzi in sede live (i pezzi sono High Action, Meat Head e Manic Face suonati nel live ripreso nell’artwork, nda) in modo da sapere cosa stavamo facendo. Le altre 9 canzoni sono totalmente improvvisate e assemblate in studio, anche se sono più corte, veloci e “song-oriented” rispetto alle precedenti. Considera che come AB non abbiamo mai provato; facciamo canzoni solo quando suoniamo live». Un discorso valido anche per il precedente 1977-2007: Thirty Years of Hurt, then us Cunts Exploded, nei cui 6 pezzi l’aspetto improvvisativo è ancor più evidente; in virtù soprattutto di un atteggiamento più jam-oriented che genera un sound libero, informe, dilatato, ben rappresentato dalle cacofonie e dai vuoti cosmici dei 16 minuti di Maximum Bletchley. Nel percorso sonoro del collettivo sono però riconoscibili un paio di capisaldi piuttosto evidenti: Sonic Youth e Glenn Branca «Siamo completamente fan di Sonic Youth e Glenn Branca; da lì proviene l’idea di accordare le chitarre in maniera differente». Le dissonanti accordature dei primi e i vortici ascensionali del secondo sono parte integrante del dna degli sgherri di Bletchley: l’ascendenza Daydream Nation cala come fall-out post-atomico sugli incastri strumentali solo apparentemente elementari di cui le partiture del collettivo sono piene; le ramificazioni ascensionali di Branca sfruttano la stratificazione delle chitarre per creare piccoli tornado noise, senza mai scivolare nell’accademico. Quello degli AB è però un percorso non circoscritto alla riproposizione, seppur personale, del sound di quelle pietre miliari; da quelle che sono le vere e proprie chiavi di volta per l’architettura sonica del collettivo, il suono di AB si allarga fino ad inglobare quanto di più rumoroso gli States abbiano prodotto nell’ultimo trentennio abbondante (scorre nelle parole di Don un bignami delle musiche rumorose Usa: «Stooges, Black Flag, Fugazi, Nirvana, Jesus Lizard, Swans, Big Black»). Il tutto, ov- viamente, suonato con strafottenza e supponenza tipicamente british alla Fall «Amiamo molto i Fall, specialmente quelli degli esordi…Live At The Witch Trials con la splendida Rebellious Jukebox» ma memore anche di altri momenti dimenticati e apparentemente fuori contesto, come Stone Roses e EMF «Cosa? �������������������������������� You’re Unbelievable??? Unbelievably Shite!!!» Nonostante le grasse risate di Don, l’ascolto della prima metà di Master Beat sembrerebbe dire il contrario. Cioè che a stratificarsi nel background di gruppi come questo sia una infinità di riferimenti più o meno consci agli stessi autori e che si riverberano in maniera latente nelle loro composizioni. Ecco così che dalle impalcature noise-rock in sovrapposizione emergono moloch apparentemente estranei come le aperture jazzy, i fiati che impreziosiscono e screziano il suono rendendolo schizoide, il motorik krauto che si accende all’improvviso oppure sorprendenti fascinazioni per drum’n’bass e musica africana. Se la prima trova giustificazione nelle parole di Don «tempo e ritmo sono controllati dal basso e dalla/dalle batterie…puntiamo sempre a beat dancey, un po’ come la d’n’b made in UK» la seconda sottolinea l’aspetto sciamanico che alcuni momenti più dilatati sembrano evocare: «Fondamentalmente siamo rockers che ascoltano underground noise shit e punk, ma amiamo ballare con James Brown, soul music, Motown e non è una novità dire che la musica nera, africana è la migliore musica sulla terra. […] Mi piace ascoltare musica africana come Konono N.1, e recentemente l’etiope Mahmoud Ahmed. C’è così tanta musica africana che devo ascoltare che spero, col tempo, possa influenzare gli AB». Stefano Pifferi Turn On / 11 dell’album di debutto degli islandesi Hjaltalín, disco che ben fotografa la condizione di ebbrezza cui sopra, Sleepdrunk Pop anche da un punto di vista musicale. Ci si trova allora davanti, in quest’album, a canzoni con massime variazioni in tempi e mood, uso di ampia strumentazione tra indie rock e pop orchestrale, e insieme un senso di estrema rilassatezza da festa tra amici, in cui si passa agevolmente da uno stato a un altro, dall’euforia alla rilassatezza alcolica e così via. Con una leggerezza piacevole e easy derivata dallo stare bene insieme, anche musicalmente. E in questo, una non scontata complessità musicale. D’altronde, l’apparente facilità del pop è cosa difficilissima da ottenere, si sa, frutto di intuizioni e talento nonché di fortunate e magiche alchimie. Chi sono allora questi newcomers del Leggerezza e ironia, chamber indie pop e catchyness le caratchamber pop nordico lo andremo scoprendo man teristiche degli Hjaltalín, nuova scoperta islandese. mano, basti dire intanto, per ribadire il carattere di loro (apparente) easyness, che il gruppo messo La definizione di sleepdrunk in slang inglese così su nel 2006 da Hogni Egilsson, fresco di studi di recita: “Lo stato, dovuto alla mancanza di sonno, in composizione, songwriter cantante e chitarrista di cui si è talmente stanchi che le inibizioni si abbassano Reykjavik, nonché deus ex-machina del gruppo, e i processi cerebrali si affievoliscono, proprio come se si è in origine destinato a un’unica esibizione. Evifosse ubriachi”. E Sleepdrunk Seasons è il nome dentemente le cose vanno meglio del previsto e il ©Leo Stefansson Hjaltalín 12 / Turn On combo variegato, che oscilla dalle otto alle dieci persone, prosegue la sua attività. Accanto ai tradizionali chitarra basso batteria piano e tastiere, si affiancano i meno usuali fagotto, tromba, trombone, corno francese e clarinetto, e i più consueti violino, violoncello, fisarmonica, harmonium, banjo. E la voce imperfetta ma efficace di Hogni, un misto di Jónsi dei Sigur Ros, Antony e Jens Lekman, doppiata dal lato femminile di Sigga (Sigríður Thorlacius), contribuisce a creare una definita alchimia di gruppo nonché un vero e proprio tratto distintivo armonico. Siamo dalle parti di un chamber pop impetuoso ma lirico molto vicino ai primi Arcade Fire, ai quali cominciano a essere ben presto paragonati. Il solito passaparola su Internet fa il resto, anche se il gruppo oggi non ama definirsi, con il senno di poi e con una certa punta di snobismo, “una internet band tipica”. L’incontro con il Morr-iano Benedikt Hermann Hermannsson alias Benni Hemm Hemm segue di lì a poco (e non si possono non notare le più che evidenti affinità tra le due band), mentre si cominciano a porre le basi per il disco d’esordio. Intanto il gruppo si tempra massicciamente dal vivo, e qui la formazione varia di numero a seconda delle esigenze e delle occasioni. Una mini orchestra la loro, che fa musica ben presto definita dalla critica locale “beautiful eclectic powerpop”, con descrizioni del tipo“suonano come se i Teletubbies avessero deciso di formare una band”, per il loro aspetto elfico e il potere immaginifico ma d’impatto delle liriche. A dicembre 2007 esce in Islanda il debutto Sleepdrunk Seasons, prodotto da Hermannsson insieme a Gunnar Tynes dei Múm, ed è da subito la consacrazione in patria, dove ricevono nel corso del 2008 numerosi riconoscimenti. Album d’esordio che nei primi mesi del 2009 è pubblicato nel resto d’Europa. Accade così che le fredde brume dei ghiacci nordici producono calde melodie laddove non ti aspetteresti, un equilibrio perfetto tra una base melodico ritmica beachboysiana e un’orchestrazione variegata, con uso massivo di cambio di tempi, alla maniera di mini suite tematiche (Goodbye July, cantata per metà in inglese e per metà in islandese) o colonne sonore classico-orchestrali (Kveldúlfur). Una passione nemmeno troppo nascosta per Bacharach e Hazelwood così come per la musica colta traspare da subito. Ed ecco ancora Jens Lekman e i Decemberists incontrare le voci e le variegate orchestrazioni degli Steely Dan (Traffic Music), mentre gli ultimi Sigur Ros pop si uniscono alla sensibilità Antony (The Boy Next Door). Non sorprende quindi incrociare anche il barocco meno melodrammatico dei canadesi Stars (Debussy, Selur) e dei Belle & Sebastian più malinconici alla Drake (nell’intensa e melodica The Trees Don’t Like The Smoke). Nonché il pop eclettico degli Hidden Cameras e la complessità dell’immancabile (da citare in questi casi) Sufjan Stevens. L’unità tematica si ritrova anche a livello contenutistico; Sleepdrunk Seasons può essere definito un “concept album” atipico, ricco com’è di spunti ecologisti espressi anche in modo giocoso e non forzato (così in The Trees Don’t Like The Smoke: “Put that cigarette out for the trees/ and if you’re so sure that it’s alright, then why don’t you say it out loud to the trees?”), dettagli cinematici ed impressionistici alla maniera di una soundtrack, anche se molto spesso, più che le parole, piuttosto centellinate, è il carattere prettamente evocativo della musica ad esprimersi pienamente. Un gruppo potenzialmente in grado di dare molto e ce lo dirà il tempo a questo punto. Intanto non si può non godere, ancora una volta, delle melodie cristalline e della magia del loro pop. Teresa Greco Turn On / 13 dälek Off -Hop - Marco Braggion Il ritorno del doom per due degli hip-hoppers più duri del momento. L’uscita del nuovo album e qualche riflessione sulla contemporaneità direttamente dalla strada. dälek: il nuovo incubo dal New Jersey. C os’è diventato l’hip-hop? I Dälek ne parlano nel loro nuovo album Gutter Tactics (recensito in questo numero): il genere è un magma ribollente che attinge da qualsiasi fonte sonora o linguistica. La voglia di innovare non si è affievolita. Il duo -formato dall’MC Will Brooks e dal produttore Oktopus (coadiuvati nella prima parte del loro percorso dal turntablista Still)- è attivo dal 1998. I due si trovano immersi fino alla gola nella pre-millennium tension profetizzata dal santone Tricky. Era la stagione del doom: etichette che proponevano un hip-hop ‘sperimentale’, avant. I nomi sulle copertine dei giornali musicali erano Anticon, El-P e cLOUDDEAD. I drones del rock e dell’elettronica, che avrebbero fatto la fortuna dei 14 / Tune In Radiohead, sfociavano improvvisamente nel ritmo urban per eccellenza. Oggi che di mesh ne siamo pieni, queste estetiche suonano normali, a tratti scontate. E non ci sorprendiamo più degli accostamenti inusuali. Il problema è uscire dal binario pur restando vicini all’ortodossia del genere. Senza ovviamente perdere la reputazione. Fedeli alla staticità che premia solo i più decisi, i più ‘massicci’, come si dice in gergo. Il duo da Newark (New Jersey) esordisce con una pletora di collaborazioni ed EP. Il primo è Negro, Necro, Nekros EP (1998). Un esperimento che esce dalla stagione post-hardcore e che si fonde con le estetiche cut’n’paste della Mo’ Wax e con lo Shadow più illuminato. Ma è in combo con Tech- no Animal nel Megaton & Classical Homicide EP (2002) che si avverte un segnale forte. Quattro tracce che mostrano la ‘shape of hip-hop to come’, la visione futurista che è ancor oggi il loro biglietto da visita: suoni lunghi, drones alieni mescolati a ritmiche old school. Vecchio e nuovo che collidono per far avanzare lo stile. Lo stesso anno, dopo quell’antipasto che ci aveva fatto venire l’acquolina in bocca, arriva il botto. L’album sulla lunga distanza si chiama From Filthy Tongue of Gods and Griots. Divinità e cantori africani sono la giusta cornice per entrare in una visione che ancor oggi spaventa per la potenza e per la freschezza del suono. Bordate del calibro di Spiritual Healing hanno la cattiveria del metal melvinsiano e la grazia della strada, tracce lunghe come l’incubo Black Smoke Rises ci fanno capire che non c’è compromesso. Il duo ha già il suono in tasca. Ha già in mente le visioni electro-ambient dei Boards of Canada, mescolate a suoni industriali à la Nurse With Wound e a un vago sapore etnico che non si eclissa in sterili elitarismi. L’esordio li lancia sull’olimpo delle classifiche; li si cataloga come hiphoppers solo perché vengono usate le basi in quattro. Ma sotto il vestito (ritmico) c’è molto di più. Due anni dopo li troviamo infatti al fianco dei Faust. Il combo krauto che va oltre la storia del rock. In Derbe Respect, Alder (2004) esplode la visione affine al sentire europeo. E non sai chi stia facendo cosa, se i maghi della psichedelia si stiano prendendo gioco dei pischelli americani o se proprio qui l’hip-hop si stia rivoluzionando nello sgretolamento di tutte le certezze; perché non c’è un pattern ritmico che segni la strada, non c’è un minuto in cui possiamo sentirci sicuri di quello che succederà. Più che un disco, questo split ci conferma il fatto che i ragazzi non scherzano. Da qui in poi non è più solo old school. Si passa alla maturità. Absence (2005). Il disco che fa i conti con i classici. La pietra che scava nella storia hip-hop e che inserisce la freschezza degli esperimenti sonori. Un lavoro coraggioso: proprio quando l’attenzio- ne sta calando sulla scena, la crew si fa notare con l’arte della calibratura perfetta di vecchio e nuovo. Il rapping incazzato dell’MC che si districa attraverso muri chitarristici in Asylum e i sample cupi nell’inno che è Culture for Dollars; le cronache dal dopobomba narrate nell’ambient sinuosa della titletrack o nei paesaggi glitch di Koner ci fanno capire la qualità di un combo che non ha mollato la corda davanti al compromesso e che sa di poter scuotere ancora per molto il pianeta del ritmo. Poi la strada è tutta in discesa. Nel 2007 Abandoned Language e la raccolta di B-sides Deadverse Massive consacrano il gruppo come alfiere di una ortodossia creata sul campo e sul palco. Gente che si è costruita faticosamente un seguito, senza aver bisogno di sponsor o di raccomandazioni. Scostanti, scivolosi e sfuggenti. Data l’impossibilità della catalogazione, l’anarchia nella scelta della proposta sonora è ormai d’obbligo. Loro sanno di dover fare quello che sentono senza dover rendere conto a produttori o a etichette. Solo a se stessi e a noi che li seguiamo. A noi, fan stupiti che ci siano ancora delle sorprese dietro la grancassa e l’hi-hat. Per toglierci gli ultimi dubbi siamo andati a sentire direttamente uno dei protagonisti. L’intervista telefonica con l’MC Will Brooks in esclusiva per SentireAscoltare. Con il tuo lavoro hai cambiato la prospettiva che guarda all’hip-hop. Il genere oggi è difficilmente definibile dai critici. Pensi di aver spostato il limite musicale o di aver mantenuto le radici? Per me l’hip-hop è quello che faccio, quello con cui sono nato e cresciuto, è la mia cultura. Scelgo suoni differenti rispetto ad altri artisti, ma l’hip-hop è sempre stato questo, è sempre stato così: spostare i limiti e usare suoni nuovi. Poi è anche diventato un affare commerciale, ma sicuramente queste operazioni non servono a creare cose nuove. L’hip-hop è nato come una cosa di strada e -come dici tu- poi è passato anche al comTune In / 15 merciale. Sì è persa definitivamente la realness? No. C’è ancora. Penso che l’hip-hop rimanga comunque hip-hop, cioè questa evoluzione non mi sorprende. Puoi trovare buona musica anche nella parte commerciale, e anche ovviamente nella parte underground. In Europa ci sono molte crew che stanno mescolando suoni diversi: banghra, hip-hop, electro, etc. pensi che questo mix di suoni sia la next-bigthing? Mixare i suoni è quello che io chiamo hip-hop! Non c’è niente di nuovo. Scoprire nuovi suoni e metterli assieme in una canzone. Il cuore dell’hip-hop è sempre stata la scoperta di sample da dischi o da film e il loro riassemblaggio. Pensa alle prime canzoni. Venivano usati anche samples dei Kraftwerk: è la mentalità che sta da sempre dietro l’hip-hop. Il mood che sta sotto alle tue canzoni è sempre molto oscuro. Secondo te si connette con il dubstep? Ascolti dubstep? No, non molto. 16 / Tune In Pensi che questo modo che hai di descrivere la realtà sia condizionato dai tempi in cui vivi? È una domanda soggettiva, dipende sempre dall’esperienza di ognuno, da che tipo di vita vivi, da dove provieni. Ascoltando il tuo nuovo album ho percepito due prospettive diverse. Una più focalizzata sul suono e l’altra sui testi. Come lavori? Che cosa influenza cosa? Dipende da canzone a canzone. Ma comunque non è il suono che influenza i testi o viceversa. Si tratta di costruire una canzone nel suo complesso. I testi e la musica si influenzano a vicenda. Ovviamente i testi sono importanti, ma allo stesso tempo riflettono il mood dei suoni. Nessuna delle due componenti prevale sull’altra. Non ci sono regole ben definite. L’album è su Ipecac, l’etichetta di Mike Patton. Perché hai scelto questa etichetta? Conosci Patton o lavori con lui? Non ho mai lavorato con lui ma penso che la sua etichetta sia “open minded”, dà all’artista tutta la libertà che vuole. Puoi fare ciò che vuoi, quin- © Alexandra Momin di penso sia una buona opportunità lavorare con un’etichetta del genere. Nei tuoi album parli spesso anche di politica. Scusa l’ovvietà della domanda, ma cosa ne pensi di Obama? Pensi che ci sarà davvero un cambiamento? Probabilmente è significativo. Penso sia grande che sia stato eletto Obama. Ma nello stesso tempo non penso che un presidente possa cambiare così tanto in 4 anni. Sono felice e orgoglioso, ma non sono stupido. Non penso che una persona possa cambiare l’intero sistema. Pensi che la tua musica ‘politica’ possa cambiare qualcosa? Perché scrivi se il sistema non cambierà? Non la vedo come musica ‘politica’. La ragione per cui scrivo musica è perché ho bisogno di qualcosa per esprimere le mie frustrazioni, i miei sogni o altro. Non penso che con questa musica cambierà qualcosa, Se la gente cambia ascoltandola certo sono il primo ad essere contento, e questa è una delle qualità della musica, ma non è lo scopo con cui la scrivo. Verrai in Italia per un tour? Certo, ci sono stato qualche mese fa e di sicuro ci tornerò! Non so ancora quando, ma sta sicuro che tornerò. Molte delle tue canzoni sembrano musica adatta per qualche film. Hai mai pensato di scrivere colonne sonore? Certo! Abbiamo già fatto qualcosina e probabilmente nel futuro scriveremo qualcos’altro per film. Hai qualche progetto per il futuro? Un nuovo album? Abbiamo due album su cui stiamo lavorando, ma adesso siamo in tour, quindi torneremo a lavorarci da marzo fino alla fine dell’anno. Tune In / 17 Circlesquare Berlin Emotronica 18 / Tune In Marco Braggion M oments L in love a lacrimuccia sul dancefloor ci mancava. Che siano le tonnellate di break o di acidità ad averci un po’ saturato le notti sul dancefloor non lo possiamo dimostrare, ma il riprendere in mano le briglie della melodia di tanto in tanto ce lo possiamo pure concedere. Dopo essere stati prigionieri delle camere dubstep e dell’ambient da decompressione ci mancava l’emozione. Ovvero il sentimento tutto 80 che due decadi fa veniva sprimacciato con tonnellate di paillettes sulle classifiche del pianeta e sugli aperitivi della Milano da bere. Quella sensazione è mutata dopo il crollo del muro, nelle camerette che la Morr ha abilmente nutrito con le sue sonorità; il cuore pulsante che nella disco di classe è sempre stato soul (vedi l’ultimo paladino Erlend Øye), nella bianchissima Europa da un po’ di tempo non trovava più casa se non in qualche uscita infelice e ripetitiva. Gli alfieri di quelle cavalcate epiche sono gli Apparat e i Röyksopp (nord e ancora nord). La loro è una visione che colpisce la pancia e che punta sulla voce. Con i primi si recuperano le lezioni tecniche di warpiana memoria, remiscelate nelle vocals che bilanciano il diabolico battito in quattro. Un intimismo che non si guarda le scarpe, ma che alza la testa e fa vibrare. Cose che scuotono, come l’Arcadia (nella storica versione remiscelata dai Telefon Tel Aviv), un mondo ideale da cui non vogliamo scendere, o quell’inno che è da sempre uno dei capisaldi del minimalismo: Queer Fellow (magari nella versione con Ellen Allien). Con i secondi invece andiamo in direzione pop, quella perfezione che ci annienta perché non ha una direzione, bensì la sensazione romantica delle pianure sconfinate, gli abissi che solo dal nord Europa si possono ammaestrare. I vuoti e i silenzi di una terra che non ti regala niente. La meditazione che ti porta a cercare nuovi universi nel tuo io. Dopo i fondatori, lo scettro passa a quel Patrick Wolf, il nuovo Bowie, che qualche anno fa ha sorpreso le piste da ballo e le passerelle di mezzo mondo. Un’estetica fatta di synth pop almon- diano remiscelato rave e dunque step che guarda furbescamente al rock mentre dal taschino spunta l’electro da cameretta che fa zero zero come non mai. Cose che fanno innamorare le girls e che fanno arrossire i boys (ma anche no). E da qui sarà anche (vedi il riferimento al Duca) sempre più stile. Sempre più fashion. La parabola romantica è sempre al confine col kitsch, perché se non la si prende sul serio la melancolia sovrasta chi la canta, eppure quando qualcuno riporta i remi in barca e sa il fatto suo, allora si sbanca. Un nome. Kings of Convenience. Ovvero saper guardare furbescamente a Simon & Garfunkel, fotografarsi slavati sixties style, apparire sempre in coppia. Aggiungi qualche color pastello e qualche atmosfera fumè, l’aria distaccata di chi sa far parlare di sé entrando di diritto nel magma pop, magari con qualche esotismo nerdy che ricorda la canzone d’autore ed è fatta, specie se la metà della coppia di Bergen è il citato Øye, uno che da solo si è consacrato ‘The Voice’ in fatto di singing disco pop, salvo ora ritrovare una sua dimensione suonata con Whitest Boy Alive. Sempre nerd ma indie soul appalla. E poi, continuando la passerella, ancora gli Air e gli esperimenti di eccellenza di Darkel. La francesità che non è solo confinata al touch da ballare, ma che sforna icone che stanno in piedi da sole sul palco. Gente che fa (la) scena. Giacca e occhiali uberchic che si fanno chiamare Sebastien Tellier. Le sue rimembranze che pescano (ancora) dall’immaginario gainsbourghiano ma alle quali s’aggiungono glitch e tastiere, una tradizione vieppiù rivisitata di macchine e cuori che chiamale se vuoi emo perché parliamo di una combriccola eterogenea di personaggi che puntano altezza petto e vivono senza troppi bassi, senza il fumo dei tombini NYC. E sono gli artisti più posh di tutta la ciurmaglia soul d’oltreoceano, prescindono dalla street culture e amano lo studio di registrazione. A molti piace questo atteggiamento snob. Un po’ retrò, un po’ cool che appunto ‘fa fico’, sicuro di accaparrarsi la copertina o la prossima passerella di turno. A parte Wolf e Tune In / 19 Øye, vecchi artisticamente ma non di passaporto, l’età anagrafica va sotto il ’76 e, a guardar bene, di nuovi adepti non ce ne sono poi molti. Fino a ieri. Oggi infatti giriamo tra le dita la confezione cd di nuovo ragazzo dal cuore d’oro. Jeremy Shaw in arte Circlesquare. Q uadrare il cerchio È la !K7 del benemerito Herbert a portare sulla bocca di tutti questo ragazzo canadese. L’etichetta berlinese torna sulle orme del mid-tempo e ci fa ricordare in un deja vu estraniante le mitiche Sessions di Kruder & Dorfmeister. Paragonare il nuovo pupillo ai due DJ non è esagerato. Anche loro ci davano di elettronica e di digitale, ma sapevano distillare l’essenza che punta allo stile direttamente dalle menti dei remixatori. Quelle tracce che trasudavano un calore mai provato e che stavano bene nei salotti dei parties più patinati. Dopo quasi 10 anni, lasciamo da parte il piatto e ci andiamo di analogico. Si torna in studio ma si suona e si canta. Perché Jeremy non fa il solito disco impostato sul 4. Jeremy ci fa respirare con vocalizzi fluidi, senza salti, una melodia cullante e piena di riferimenti dark-gothic in stile Close To Me. I Cure pop delle basi synth lanciate all’immortalità. Lui arriva dal Canada e si racconta al telefono dalla capitale tedesca. “ho vissuto a Vancouver per quasi tutta la mia vita dove era molto difficile per la mia band andare in tour. A Berlino ho avuto piena libertà d’azione”. E infatti, in Europa, si tuffa mani e braccia in un ricordo post Modest Mouse filtrato con l’electro. Di fatto un ripristino degli strumenti in chiave minimal ma con radici non proprio indie. “La mia è una minimal con elementi acustici, ma penso che l’influenza maggiore provenga dalla musica folk. Gente come Leonard Cohen, più che gruppi indie. Forse qualcosa di minimal techno e di drum’n’bass, ma il riferimento principale è sempre Cohen. Più folk che elettronica”. E la trama si infittisce: Shaw viaggia infatti attraverso i territori più disparati, elettronica e mesh innestati nella post-minimal. Un cuore che pulsa dark-folk e tutto ciò si riflette nella produzione di Songs About 20 / Tune In Dancing And Drugs (SA N°50), un album nato dalla collaborazione triennale con Colin Stewart. “Lui ha uno studio a Vancouver (The Hive). Ha lavorato con i Black Mountains, i New Pornographers e altre band valide. Visto che volevo usare molti suoni di batteria e di chitarra registrati dal vivo nel mio ultimo album, lavorare con lui è stata la scelta più ovvia. Lo conosco perché ho un amico che stava in una band negli anni 90 (i Beans, una band post-rock) a Vancouver. Loro registravano sempre in quello studio, così l’ho incontrato”. Acustico barra elettro sembrano essere il marchio di fabbrica delle produzioni Circlesquare. Già in Pre-Earthquake Anthem (Output Recordings, 2003) senza troppo clamore aveva mescolato Badalamenti e Joy Division, eppure nel lavoro a sorprendere è la semplicità e la freschezza. “Non so se sono più minimal o acustico. Dipende dal giorno della settimana [ride]. Ascolto sicuramente più rock’n’roll. Se dovessi fare la top ten dei dischi di sempre, penso ci metterei solo un album di elettronica pura. Ma penso che dal punto di vista estetico, visto che lavoro molto con tools elettronici, sono più orientato verso l’electro. Non so, in fondo quello che mi piace sono le belle canzoni”. L’ago della bilancia, insomma. Tanto per capire cosa ha in testa ci dice che ultimamente sta ascoltando molto “i Deerhunter, Conrad Black e dei remix di Patrick Wolf ”. Un bel miscuglio di electro mutante ma sempre con le canzoni là a farla da padrone. Si torna a cantare gli diciamo e lui risponde sicuro sul fatto che corsi e riscorsi tra disco e non disco dell’elettronica cantata sono normali. Del resto le pietre miliari restano i grandi gruppi. “Sono un grande fan dei Depeche Mode. E penso di avere una strategia simile agli Apparat o B. Fleischmann. In poche parole usare lo sile techno nella musica pop”. Avremo modo di vederlo anche in Italia (sarà probabilmente da supporto ai Junior Boys) e di sentirlo in un prossimo remix per Matthew Johnson e Patrick Wolf a cui sta lavorando. Insomma, da quanto abbiamo capito questo SADAD è uno dei punti di svolta per la Berlino minimal. Basta con le tastierine. Torniamo a quei cari e vecchi amplificatori analogici e rilassiamoci. La lampada in copertina ci ricorda il modo di aspirare la metanfetamina, che appunto molti ragazzi americani inalano usando pezzi di lampada rotta. Un ritorno al sintetico da camera. Per il nuovo sballo ritorniamo tutti a sognare sul materasso. Songs… è la miccia che scatenerà la rivoluzione. Ne siamo sicuri. Segnatevi l’appuntamento al Fabric, il 24 gennaio. Tune In / 21 Mimes Of Wine Immagini in movimento - 22 / Tune In Stefano Solventi Il pianoforte e la voce di Laura Loriga tornano a casa portando in testa e nel cuore immagini di altri tempi e altri spazi. La California, Parigi, Bologna: un triangolo tanto improbabile quanto plausibile oggi che nulla è incolmabile, che tutto è mobile, in ogni direzione/dimensione. Una sfida difficile ed esaltante per chiunque abbia voglia di catturare queste immagini in movimento. U n fantasma si aggira nell’occidente globalizzato, atomizzato, apolide. E’ un’inquietudine febbrile, è un andare avanti comunque anche se di colpo non riesci a vedere la strada, è un voltarsi che spedisce i rimpianti e le angosce in un futuro che sai irrinunciabile. Irreversibile. Forme e movenze antiche imbastiscono teatrini di sconcertante modernità. Di cui senti l’urgenza ora e qui. Lo hanno chiamato pre-war folk, ma è un’etichetta che si è presto rivelata angusta rispetto alla ricchezza espressiva di una Joanna Newsom, dell’immancabile Devendra Banhart, delle ineffabili Cocorosie e persino di una PJ Harvey inaspettatamente – ma emblematicamente - gothic. Pensavo questo ascoltando l’ep d’esordio dei Mimes Of Wine, moniker dietro cui agisce Laura Loriga, pianista e cantante, nata a Bologna (dove ha fatto parte dei post-rockers Lanark) ma con base anche a Parigi e in California (dove ha dato vita al trio elettroacustico While They Sleep..). Impressiona la forza e la complessità ammaliante dei pezzi, di cui lei stessa è autrice. Il piano e la voce si dannano in un’interpretazione senza sconti, strattonati tra allucinazioni folk-blues da camera, perniciose fatamorgane post-jazz, in un frullare di percussioni e ottoni, tra imprendibili folate elettroniche, nell’andirivieni di corde che ghignano e carezzano. Un sound notevole, sviluppato dall’incontro con Enzo Cimino dei Mariposa e Adriano Modica (un altro di cui varrebbe la pena parlare), quindi con Francesco Begnoni e Zeus Ferrari, già Juniper Band e You Should Play In A Band. Soprattutto, c’è la sensazione di qualcosa che sta ancora crescendo, in bilico tra antico insopprimibile e futuro prossimo. Non potevamo lasciarci sfuggire l’occasione di intervistarla. Mimes Of Wine è un modo per nasconder- ti dietro ad un progetto o unprogetto da perseguire oltre al tuo essere musicista e cantante? Una cosa ha portato all’altra. Nascondermi dietro ad un nome che non è il mio ha forse messo la musica un po’ in primo piano rispetto alla mia persona, e questo mi ha aiutato perché volevo che chi avrebbe fatto parte di Mimes of Wine con me si potesse sentire libero di giocare con forme ed elementi quanto me. “Mimes of Wine, apocalypse sets in..” sono i primi due versi di una poesia scritta da un mio amico, Amir, e ancora adesso mi piacciono ogni volta che li penso. Francesco e Zeus della Juniper Band sono oggi con te nei M.O.W., in passato hai lavorato con Enzo Cimino dei Mariposa e Adriano Modica: tutta gente in cerca di sonorità desuete però non estreme, selvatiche ma ad altezza d’uomo, tra frugale e sperimentale. Quanto sono stati difficili, e perciò preziosi, questi incontri? Tutti questi sono stati e sono ancora incontri preziosi. Per quanto diversi possano essere l’approccio di Francesco e Zeus da quello di Enzo o Adriano, tutti loro sono stati disposti ad ascoltare molto fin dal principio, e a venirmi incontro ognuno a modo suo moderando a volte le mie scelte, e a volte rendendole meno consuete. Con Enzo ed Adriano ho cominciato ad apprezzare il suono di ogni singolo campanellino, corda, respiro, rumore, e a mettere insieme le cose partendo da elementi piccoli, a volte a malapena udibili. Questa parte mi ha appassionato molto, infatti anche ora quando compongo da sola utilizzo lo stesso metodo. Con Francesco e Zeus invece ho imparato come si possono creare delle atmosfere che accompagnino ogni pezzo dall’inizio alla fine, come creare soliTune In / 23 dità, e come sentire strati di suoni diversi influenzarsi a vicenda e impregnarsi l’uno dell’altro come spugne una sull’altra. Non ci sono state grandi difficoltà in nessuna di queste circostanze, forse perchè abbiamo sempre cercato subito un punto di comunicazione da cui partire. Il fatto che tutti questi musicisti siano sempre pronti a cercare il suono giusto per ogni particolare, avendo anche cura del significato che questi possono assumere a livello di ascolto immediato, credo abbia aiutato nella creazione di zone d’intersezione con il lavoro che io avevo fatto da sola. Credo ci sia ancora molto da poter fare con ognuno di loro, in un futuro più o meno prossimo.. Hai vissuto a Parigi, a Santa Barbara in California, a Bologna. Che conseguenze ci sono sulle tue coordinate artistiche? In California ho incontrato musicisti che sono anche ora molto importanti per me a fianco di quelli italiani, e che mi supportano anche quando sono qui. Se ho imparato un po’ a stare su un palco, a trasmettere tutto il possibile, a farlo con semplicità e poca paura lo devo a questo strano paese, a San Francisco e Los Angeles, che negli ultimi due anni mi ha fatto impazzire dandomi però tantissimo. L’ ottimismo, la creatività, e l’apertura dei musicisti che ho ascoltato e conosciuto hanno influenzato ogni cosa che ho scritto, e buona parte dell’album è stato pensato lì. A Parigi ho fatto molti meno concerti ma ho camminato molto. Mi veniva voglia di fermarmi e scrivere tutto il tempo, pensando a tutti quelli che sono passati per quelle strade prima di me. Infine ho portato via con me un pochino di swing... Bologna è casa, e credo che in fondo parta tutto da qui, dalla decisione di comporre cose mie, fino al tipo di sonorità che finora ho scelto. Non ho raggiunto una grande saggezza, però ho cominciato a pensare che forse la musica davvero può non avere territorio e che può diventare davvero quello che si vuole, almeno in parte. Nel tempo mi è venuta la voglia di scrivere mille 24 / Tune In cose vicine a generi, posti e persone diverse, e Mimes of Wine è il risultato della combinazione di alcuni di questi tentativi. Le canzoni del tuo ep mettono il dito nella piaga tra avanguardia e tradizione, con tutto quel che sta nel mezzo. C’è margine di manovra per sentirsi popular? Ovvero: quando fai musica ti rivolgi al più vasto auditorio possibile o ti senti destinata ad un pubblico di nicchia? Spero che questa piaga non sia così dolorosa, e che ci sia molto spazio tra questi due estremi per me come per molti altri. Non riesco a immaginare un pubblico di nicchia, forse perché non saprei bene con che criteri definirlo. Mi piace pensare che ci sia ancora voglia di ascoltare (anche perché questo mi da molta più voglia di scrivere e di fare del mio meglio) e ho fiducia nelle orecchie altrui, come credo ne abbiamo avuta tutti i musicisti che ammiro di più, cercando di creare la musica che volevano sentire. Tra le Newsom e le Hyvonen, lanci evidenti allusioni alle performance saturnine della Galas e della prima Harvey. Poi c’è quella fregola jazz venata bossa che ammicca al post moderno di una Cibelle. Cosa ho azzeccato? Cosa ho colpevolmente lasciato fuori? Vedo anche io alcune di queste somiglianze che perciò mi sembrano azzeccate, però la maggior parte delle mie allusioni sono tuttora inconsapevoli. Di alcune mi sono accorta dopo aver scritto, su altre mi stai facendo riflettere ora tu... Mi sono riseduta al piano dopo anni passati piuttosto lontano da strumenti acustici e voci femminili (PJ Harvey è una delle eccezioni, con Kim Gordon, Patti Smith, Kazu Makino), e ho cercato di rielaborare i suoni e i ritmi a me familiari con piano e voce, usando soprattutto la seconda nel modo più naturale possibile. Anche ora se invento una linea di basso mi capita di pensare più che altro ai Morphine o ai June of ’ 44. Da allora però, continuando a cercare, trovando di più, e ascoltando in particolare Nico, Nina Simone, Mary Timony, Lotte Lenya, Vashti Bunyan, Meredith Monk, e ancora PJ Harvey (White Chalk mi piace molto e lo sento effettivamente vicino a me) la mia prospettiva si è arricchita. Di Diamanda Galas ammiro molto la forza sia sonora che di presenza e la capacità di trasmettere, di Cibelle l’inventiva e la capacità di incollare insieme mille cose diverse con totale naturalezza. a quattro mani per cortometraggi e piccole compagnie di danza. Sono curiosa di vedere che cosa può venire fuori lavorando a contatto con altri e con le loro parole, gesti e luci, con immagini in movimento. L’immediato futuro sarà targato M.O.W. o ci sono altri progetti in cantiere? Come prima cosa vorrei portare Mimes of Wine in giro dal vivo il più possibile, e portare avanti il materiale che sto scrivendo ora e che mi piacerebbe presentare. Da poco mi è stato proposto come “side project” di scrivere piccole colonne sonore Tune In / 25 Nuovi Corrieri Cosmici Non è la prima volta che la Grande Musica Cosmica diventa oggetto di revival. Oggi ci sono però differenze sostanziali. Quei suoni, quelle tecniche, quelle atmosfere risuonano nei dischi degli ultimi mesi senza che necessariamente si tratti di tributi. È diventato uno stilema, un linguaggio trasversale, come tutto il krautrock. Non si tratta di rielaborazioni del prototipo Irrlicht; ecco a voi i Nuovi Corrieri Cosmici che parlano come quelli di ieri. 26 Gaspare Caliri, Antonello Comunale, Stefano Pifferi; con contributi di Gianni Avella / Drop Out K rautrock - resampler C os’è il krautrock? è la musica tedesca dei primi anni Settanta. Definizione pacifica, palese, paleontologica, parziale. Eppure la sua diffusione non ha una storia limitata a quegli anni. Il suo modus operandi, anzi, come vedre- mo, i suoi due modi principali di fare musica, si sono raddensati attorno a certa musica degli anni Novanta, da un lato nel post rock che lo ha rivalutato esplicitamente, dall’altro negli usi e nelle strumentazioni dell’ondata elettronica che fece capo al suono Warp. Di fatto conosciamo le prime vicende del genere anche grazie ad alcuni contributi ad hoc, come il sempre citato Krautrocksampler di Julian Cope, che da giovane, come si legge nel libro, era un “avvertito”, uno di quegli eletti – neanche troppo pochi, in realtà – che in Inghilterra, nel passaggio tra Sessanta e Settanta, seguivano la scena di quello strano rock tedesco che non tutti reggevano, a fianco del quale solo alcuni riuscivano a stare, senza annoiarsi o cercare il calore dei suoni tradizionalmente blu. In realtà il krautrock ebbe in Inghilterra una diffusione nient’affatto limitata, selezionò cioè parecchi “avvertiti” – spesso adolescenti - che compravano le nuove uscite Polydor a scatola chiusa; successe persino che alcuni dischi – i Faust siano da esempio – uscirono prima in Inghilterra e poi in Germania, cioè prima in quel paese che era diventato il “mercato” principale e poi nella “madrepatria”. Questo per dire che il rapporto tra apertura e chiusura nella diffusione del krautrock – dentro e fuori il territorio tedesco - ha una storia lunga; anzi, ha una storia che inizia assieme a quella stessa del krautrock, e che forse dovremmo abituarci a considerare sovrapponibili. Se volessimo proprio mettere una conclusione parziale di quella liaison anglo-tedesca citeremmo con rapidissima sicumera la vicenda dei This Heat, che importarono ad Albione il krautrock più industriale, macchinino e meccanico, e finirono per essere a tutti gli effetti dei krautrocker, anni dopo le prime note della kosmische, nonostante la mancata provenienza tedesca. Tutti appena sentono il loro nome pensano al kraurock. Abbiamo con loro il primo esempio forse dell’inesattezza dell’equivalenza kraut uguale Germania. E però a dirla tutta tale fatto non è neanche particolarmente rilevante Drop Out / 27 o interessante. Il sampler krautrock di Cope è in realtà la narrazione dell’avvicinamento alla musica tedesca, cosa che poi si è riflessa nella stessa produzione dell’exleader dei Teardrop Explodes, non a caso proprio negli anni Novanta. L’articolo che state iniziando a leggere parla invece di una bolla musicale - negli ultimi mesi sempre più presente e tangibile - che è innegabilmente legata al krautrock di inizio Settanta. Vale come sempre la nostra prova del nove: quante volte è comparso negli ultimi mesi il termine “kraut” nelle recensioni e nelle riflessioni di SA? Tante. È allora la quantità di occorrenze del genere ad averci messo sotto gli occhi la necessità di un approfondimento; ma non solo. È la crescita, i cui primi passi sono datati a più di due anni fa, di una lettura critica che ci ha fatto pensare al “revival” krautrock odierno come qualcosa di diverso rispetto agli atteggiamenti del decennio precedente. Per capire la bolla di quello che oggi finisce nella casella “krautrock” siamo dovuti tornare indietro perché sembra quasi che le evoluzioni – a partire dal krautrock – che hanno avuto corso nei ’90 siano state quasi rimosse nella memoria storica del novello “avvertito” del 2008. Ovviamente non può essere del tutto così; ecco la ragione di un approfondimento che tocca sì le origini, ma soprattutto gli esempi concreti della Musica Cosmica datata fine Duemila; le ricognizioni spaziali di Emeralds, Cloudland Canyon e Be Invisible Now!, nonché le gesta dei californiani di Frisco The Arp e Jonas Reinhardt, ci hanno aiutato a nutrire le nostre argomentazioni di dischi da ascoltare; con la parabola e con la discografia (nutritissima) di Expo ’70 abbiamo poi sviscerato, discutendo con il diretto interessato, il rapporto con quella musica molto ben localizzabile di quasi quattro decenni fa. [g.c.] P assaggi di scal a Quando si parla di krautrock si intendono certamente almeno due cose, secondo una tradizionale divaricazione critica. Da una parte si parla di 28 / Drop Out quell’atteggiamento “macchinico”, percussivo che prese corpo a partire dalla produzione dei Neu! e per certi versi dei Faust, e proseguita, come si diceva sopra, senza ombra di dubbio geografico, dai britannici This Heat. Parliamo naturalmente del “motorik” di Michael Rother e Klaus Dinger, e qui citiamo ancora Julian Cope, che nel suo libro confessa che il momento in cui più di ogni altra circostanza ebbe la sensazione netta di ascoltare qualcosa di semplicemente nuovo, sconvolgente, rivoluzionario nel suo essere freschissima “acqua calda” del rock, fu quando, nel 1972, il suo giradischi riprodusse per la prima volta Hallogallo, cavalcata motoristica per eccellenza e primo brano di Neu!. D’altra parte di krautrock si parla anche quando si accenna a quella musica stellare che venne immediatamente ribattezzata con l’appellativo di Kosmische Musik; la fascinazione degli astri non era novità squisitamente appannaggio delle fredde menti tedesche di quegli anni; il probabile vero esordio in ambito “rock” fu il gioco dei pianeti di quella Astronomy Dominé di The Piper At The Gates Of Dawn; e però non è un caso che il sottotitolo di Krautrocksampler, per rifarcisi per l’ultima volta, si appellava alla volontà di fare da guida alla “Grande Musica Cosmica”. In effetti dopo le vicende tedesche di fine Sessanta-inizio Settanta a quell’espressione si associano immancabilmente alcuni stilemi, alcune tecniche musicali, alcune atmosfere propri degli iniziatori krauti, soprattutto il Klaus Schulze di Irrlicht, i Tangerine Dream, i Popol Vuh, gli Amon Duul II. Questi ultimi furono particolarmente esemplari per il fatto che espressero musicalmente il prodotto di un’aggregazione quasi da comune hippie, e che veicolarono in un certo senso la reazione politica attraverso la colonna sonora dei pianeti. È una chiave di lettura forse grossolana, ma sociologicamente sottolineata a più riprese; e, soprattutto, ci mette di fronte a una fondamentale differenza tra quel krautrock e tutti momenti in cui si ebbe a parlare, successivamente, del gene- popol vuh 1972 re. Pensiamo al post-rock, alla sua concentrazione sulla struttura musicale e sulla capacità che ebbe, a partire da presupposti squisitamente musicali, di far tornare in auge i corrieri cosmici – e tutto il krautrock. Pensiamo però anche alla disinvoltura anche questa tutta Novanta – con cui i pionieri di quello che sarebbe diventato il suono Warp ripreso strumenti analogici e vintage propri del krautrock cosmico per una rielaborazione attaccata da più lati, tattica, della musica cosmica. Con gli inizi Warp abbiamo assistito a qualcosa di nuovo; ma come per il post rock vi si arrivava attraverso una ripresa, una riflessione su quel passato; niente filologia, questo no, ma un ragionamento tecnologico. I Nuovi Corrieri Cosmici, ci pare di poter dire, hanno un atteggiamento diverso, che viene appresso a un cambiamento di statuto del kraut. Oggi come dicevamo il krautrock è stabilizzato in un .linguaggio, che si è isolato dai precedenti tentativi di ripristino creativo. Un formato quasi autonomo. Un insieme di stilemi che vanno ad affiancarsi con quelli dei Sessanta e Settanta anglosassoni, per cui oggi si fa blues-rock senza necessariamente mettere in discussione la distanza dalle fonti. Veniamo a oggi, anzi a pochi giorni fa. Siamo a Netmage, festival bolognese di “arti elettroniche”, rumorista e dronico per eccellenza. Ascoltiamo nella giornata di giovedì, la prima del festival, il live degli statunitensi Pete Swanson, John Wiese, Liz Harris. Noise a cui siamo sempre più abituati, fin troppo piatto nella sua capacità di far vibrare pericolosamente i timpani. Subito dopo assistiamo alla performance degli Emeralds, e lì la pulce nell’orecchio si sfoga. Una presa di peso di Schulze e dei Tangerine Dream, fino a Cluster e ai Popol Vuh. John Eliott, Steve Hauschildt, Mark McGuire suonano con una chitarra in secondissima linea, arpeggiata e astrale, ma soprattutto con un miniMoog, e portano nel tempio dell’elettronica sposata all’arte visual quel linguaggio una volta prodotto dalle comuni tedesche. La kosmische musik è insomma entrata persino nell’arte contemporanea, nella sofisticazione dei Drop Out / 29 droni e delle ultime linee tracciate dall’esercito ambientale, che a volte vanno allo spazio effettuando un passaggio di scala, descrivendoci come il vuoto di una stanza sia omotetico, come in un frattale, a quello dello spazio. In questo contesto, il nuovo krautrock dei circuiti dell’elettronica contemporanea si scarta da alcune associazioni assodate per tornare al passato del sogno al mandarino. La musica astrale è infatti diventata quasi un gioco, un lavoro sull’opinione collettiva dello spazio e dei suoi suoni, sui pregiudizi musicali fantascientifici che lega a determinati effetti sonori la rotazione dei pianeti; si legga a tal proposito – altrove su questo stesso numero di SA - l’epopea di Rafael Toral, portatore esplicito di “spazitudine” estetizzata – in un gioco al rialzo rispetto allo sci-fi. Ci sono aziende, come la ditta americana “Yuzoz”, che hanno registrato per anni i suoni dello spazio dai loro satelliti che esse possiedono; altri siti web dove è possibile scaricare tracce audio di una gigante rossa; spazi virtuali che non fanno che alimentare il comune senso di curiosità e la catacresi della metafora sonica del viaggio cosmico e delle relative tecniche di reporting immaginario del fischio dell’astro. I corrieri cosmici producevano invece un senso musicale che toccava direttamente l’umano, nella fuga da esso. Come esempio classico, citiamo il solito Schulze, la cui musica veniva associata agli umori di Wagner, di quella magnificenza celebrale. emeralds 30 / Drop Out Torniamo allora a capire gli ancoraggi effettivi coi maestri. Ci concentreremo poi a leggere la parabola di una band che oggi indaga quei rapporti che le comuni tedesche sperimentavano. Hanno il nome dell’esposizione universale che avuto luogo a Osaka nel 1970. Era periodo di architetture megastrutturali, di spazi apertissimi, di progetti di scala enorme. Ma qui – anche grazie agli Expo ’70 - ci occupiamo di una scala ancora più ampia, evidentemente. Del viaggiare verso lo spazio alla ricerca degli effetti sul terreno. Della geografia della musica cosmica. A partire dal caposaldo che fece da discrimine tra un prima e un dopo, magnifica asserzione da e per la musica tedesca al passaggio di decennio ’60-’70, al passaggio definitivo tra lo sballo (alla Agitation Free) e la pesantissima levitazione verso lassù, a sud di Irrlicht. [g.c.] Il mondo a sud di I rrlicht C’è una grande differenza tra guardare il mondo in cui viviamo, sia pure con occhi trasognati e alterati, e agognare le stelle che ci sovrastano. Il mood per forza di cose si tinge di liturgico e l’esperienza non può che tradursi in un romanticismo dalle tinte apocalittiche. Klaus Schulze lo sapeva bene. Non si inventa la musica cosmica di Irrlicht semplicemente svegliandosi un giorno, come illuminati sulla via per Antares. Basta ascoltare i primi dischi dei Tangerine Dream e confrontarli con quelli più tardi e “schulziani” come Alpha Centauri e Zeit. Irrlicht potrebbe essere preso come un metodico sistema per misurare la distanza tra l’uomo e le stelle. Il metro di questo intervallo tradotto nelle folate d’organo di questa “Quadrophonische Symphonie für Orchester ©jamie bayer und E-Maschinen”. D’altronde ridurre l’intera esperienza e genesi della musica cosmica tedesca alla sola figura di Schulze sarebbe riduttivo. Ci dimenticheremmo di compagni di viaggio fondamentali come Manuel Göttsching, Sergius Golowin o Walter Wegmüller. Ma qui non si vuol tracciare un profilo storico di un periodo musicale o costruire un albero genealogico di una comune visione. Come sempre più spesso siamo condannati a fare, guardiamo al passato per tradurre il presente, ed è in questo senso che possiamo fermarci a parlare di musiche così attuali e al tempo stesso così tradizionali come quelle dei nuovissimi corrieri cosmici dei giorni nostri. Sul finire della prima decade del nuovo millennio quasi tutti quelli che decidono di trafficare con drones e moods dell’estasi cosmica tedesca vivono una sorta di dopo sbornia da post rock. Il suono dei questi anni si rivela così assai più integralista della commistione di generi e sottogeneri che infuriava negli anni ’90. Quello che contributi a codificare il marchio Kranky, depurato dei suoi elementi eterogenei e ridotto all’osso della tradizione. Un percorso in qualche modo simile a quanto accaduto in ambito folk con il ricorso alle radici più tarde e vere del pre-war. La musica cosmica dei primi anni del nuovo millennio si allinea alle coordinate stellari dei maestri di sempre. Stabilisce ponti e fusioni tra Tangerine Dream e Ash Ra Tempel, con la stella polare di Irrlicht a condurre il viaggio. E’ questo il caso degli Emeralds, tra i migliori esemplari del nuovo corso. Trio proveniente da Cleveland, Ohio, costituito da Mark McGuire, John Elliott e Steve Hauschildt. I documenti migliori del trio prendono il nome di Allegory Of Allergies e Solar Bridge. La loro è una sintesi illuminata dell’estasi cosmica tedesca. Le chitarre liquide e oniriche di Göttsching riprendono vita in brani sostenuti sulle nuvole come Nereus (Spirit Over The Lake), Lawn Of Mirrors, Snores. Il trio è poi abile a traghettare queste corde liquide e oniriche nei gorghi a base di synth e organo di tradizione schulziana che costituiscono il loro trademark. Gli Emeralds non ci pro- joseph ragl ani vano neppure a trovare nuovi modi di coniugare il verbo. Il loro è un modus operandi quanto mai classico. Fasci e fasci di drones d’organo e synth inframmezzati da reticoli di chitarra riverberata. Il loro viaggio è il classico anelito verso l’infinito fatto con cattedrali costruite tra quasar e supernova. L’unico aggiornamento che concedono all’aria dei tempi è un generalizzato sentore d’apocalisse che adombra la maggior parte dell’anelito mistico degli corrieri cosmici originali. Quello degli Emeralds è un ponte costruito verso un sole nero. Meno dark, ma non meno tortuoso il percorso di un altro caso eccellente che risponde al nome di Joseph Raglani. Altro americano, del Midwest, cresciuto tra college, comic books e krautrock. Come sempre accade in questi anni, anche Joe è un autarDrop Out / 31 chico self-made-music e quindi si prodiga nell’ordinaria amministrazione di una varia e disordinata produzione discografica a base di microlabel e formati per feticisti (cdr, cassette, edizioni limitate). Per usare le parole di Brad Rose, Joe Raglani “segna la linea di separazione tra la bellezza e il caos”. Una definizione altisonante ma stranamente centrata e giustificabe invisible now! ta. Tra i capi d’opera dell’artista troviamo infatti cose come Oneism Una cassetta che parte con un ronzio da synth valvolare e che arriva a due passi dall’harsh noise. Ma il vero trademark di Raglani è l’eden scomposto e variopinto di episodi come Living Room, Web Of Light e quell’ Of Sirens Born ristampato in fretta e furia dalla Kranky l’anno scorso. L’attacco di Web Of Light non lascia dubbi. Dice di un autore che prende in prestito da Cluster e Tangerine Dream e in misura ancora maggiore da Ash Ra Tempel, e questo tradotto in soluzioni musicali significa erigere costruzioni animate da fasci reticolari di note d’organo e synth. Episodi più caotici e originali come Bardophasing vanno per altro a flirtare con i riferimenti quarto mondisti di Hassell, ma come filtrati attraverso un fitto intrico di riferimenti noise. Of Sirens Born si rivela quindi come il disco che fa maggiore sintesi delle diverse sfaccettature del musicista, mettendo dentro di tutto. Dalla quieta stasi onirica di Rivers al caos estetizzante e imperioso di Washed Astore. Volendo però prendere in esame un casus belli esemplificativo al massimo della nuova stagione, anche in virtù dell’umore prettamente passatista dell’operazione, il duo americano-tede32 / Drop Out sco dei Cloudland Canyon diventa il simbolo perfetto del nostro discorso. Non che Kip Uhlhorn e Simon Wojan siano deficitari di un gusto proprio e di una capacità di rielaborare in modo nuovo la vecchia grammatica tedesca, ma sta di fatto che nel corso di due dischi e mezzo (due lp e un ep…) e di una collaborazione con Lichens, i due abbiano praticamente inscenato un perfetto revival kraut, che non da spazi a dubbi o incertezze. Da qui a titolare quindi il primo brano dell’ultimo disco partorito su Kranky, Lie In Light, con il titolo ammiccante di Krautwerk il passo è breve. È un piccolo duopolio, invece, quello stanziatosi dalle parti di San Francisco. Jonas Reinhardt e The Arp – questi noto all’anagrafe come Alexis Georgopoulos - sono amici di vecchia data armati di soli synth, e dai loro lavori si evince una forma mentis oltremodo trance. Reinhardt in particolare ci sembra quello più ispirato. Nel debutto omonimo targato Kranky, il Nostro, che alla maniera dei corrieri cosmici di un tempo azzera - a suo dire - il gap spazio/epidermico tra uomo e macchina, sciorina tredici istanze dove lo spauracchio dei Cluster addomesticati dalla cura Michael Rother, Modern By Nature’s Reward, risolve senza indugi, come naturale evoluzione della specie, nelle architetture a là Harmonia di How To Adjust People. Nel mentre, di contro ai palesi richiami teutonici, si tagliano rimandi a Wendy Carlos (la prima parte di Blue CutawayTore Earth Clinke) e peculiari appeal cinematici a piè pari tra i Goblin di Dawn of the Dead (Every Terminal Evening) e il John Carpenter di Fuga Da New York (Tandem Suns). Contrariamente, Alexis Georgopoulos, dopo la breve parentesi in seno al combo punk funk Tussle, al proprio nome preferisce, dal 2006, il moniker the arp The Arp. La first release griffata Smalltown Supersound In Light gravita, anch’essa, nell’interregno sito tra Cluster, St Tropez, e Harmonia, Potentialities, parimenti a digressioni Brian Eno, The Rising Sun. Ciò che lascia perplessi è il mancato effetto sorpresa. Non che sia necessario, ma contrariamente al dirimpettaio Jonas Reinhardt il canovaccio vive di pochi scossoni; e alla luce delle palesi qualità tocca attenderlo fiduciosi al secondo step. Ma il revival sei suoni cosmici anni ’70 non è soltanto materiale per geek americani. Anche in Italia qualcuno sta provando a rispolverare i vecchi suoni, i vecchi immaginari valvolari, e questo qualcuno è Be Invisibile Now! al secolo Marco Giotto. Nel suo primo disco, sorta di concept album dedicato ai neutrini, Giotto riprende a trafficare con strumentazioni e soluzioni d’antan. Tastiere Roland e Korg d’epoca e sintetizzatori valvolari, per una generale atmosfera retro-futirista anni ’70 che collide in egual misura con Klaus Schulze e John Carpenter. In brani come Antiparticella e Sarin il Nostro non fa mistero dei suoi riferimenti arrivando addirittura ad una sorta di “mimetismo sonoro”, cercando a tutti i costi di suonare come un vecchio corriere d’epoca, piuttosto che come un epigono degli anni 2000. Un approccio a tal punto simile a quello dell’americano Expo ’70, che i due non hanno potuto fare a meno di incrociarsi e di condividere uno split ep, uscito l’anno scorso per Kill Shaman. Musica minacciosa, brumosa, in perenne stato di ansiosa sospensione. Tutte le liturgie della nuova epoca hanno in comune un pathos caDrop Out / 33 expo ‘70 34 / Drop Out rico d’angoscia che stride platealmente con l’anelito mistico e libertario dell’epoca che fu. I padri hanno lasciato ai figli un mondo in disfacimento e il testimone viene passato con un anelito sempre più pronunciato verso la fine di tutte le epoche. I nuovi corrieri cosmici tendono al nero e al caos. Questo oggi ci resta di tanta speme… [a.c., g.a.] Un infinito ohm nero pece Una discografia sterminata per un uomo solo. Ma anche e soprattutto una discografia sterminata per un suono solo. Justin Wright, l’uomo nero e solo dietro Expo ’70, propone da pochi anni e tantissimi dischi un singolo, unico, ossessivo e dilatato suono che si perpetua in eterno: quello di un drone nero-pece di matrice chitarristica, debitore tanto del minimalismo più astratto quanto del kraut-rock più lisergico e liquido. Una esperienza del limite, quella dell’artista di Kansas City; di quelle in cui l’apparente staticità del suono è simile a quella dello spazio profondo, in cui l’assenza di gravità rende i movimenti sospesi, quasi impercettibili, rallentati al punto da poterne quasi vedere la scia. La metafora spacey non è scelta a caso. La musica targata Expo ’70 si inserisce, infatti, nel solco di altre esperienze, spesso sotterranee, protagoniste della parziale carrellata offerta da queste pagine e dedite più che a una infruttuosa e emulativa riscoperta, ad una sorta di comunione spirituale con l’ala più libera e droning del kraut dei ’70. C’è però nelle musiche (nella musica?) di Expo ’70 e nell’uomo dietro questa sigla una coesione forte, una filosofia verrebbe da dire, che ci impone di approfondirne l’evoluzione attraverso la discografia – in gran parte sconosciuta da noi – e con una breve ma intensa intervista. Procediamo però con ordine. Rubato il nome alla prima expo mondiale tenutasi in Giappone (nella regione di Osaka, tra il marzo e il settembre del 1970, il cui tema era Progresso e armonia per il genere umano), l’entità Expo ‘70 mosse i primi passi quando Wright era ancora parte integrante del gruppo losangelino Living Science Foundation (Psychedelic dub post-rock, nelle parole dello stesso chitarrista). Sulle prime non un solo-project, ad esser precisi, ma una collaborazione aperta, dato che della partita erano anche i due cofondatori della Kill Shaman: Paul Kneejie, del noise-duo The Pope, e Bryan Levine di Bipolar Bear. Un paio di cd-r (lo split con l’altro progetto di Kneejie, SXBRS del 2003 e il live in studio July 18 2004, entrambi su Kill Shaman) e, causa lo scioglimento di LSF, Wright se ne ritorna nel Midwest. Prende così consistenza l’idea di una musica da sviluppare in solitaria, anche se nella natia Kansas City Wright/Expo ‘70 inizia a collaborare con lo spirito affine – si veda la discografia in proprio per conferme – McKinley Jones a.k.a. Cantus Firmus. L’ottimo album Surfaces (2005), seppur in cd-r, è il vero e proprio esordio lungo per la sigla e non fa che confermare l’affinità tra i due: l’aggiunta delle folate di synth e degli ambient noise sounds di McKinley rendono il suono ancor più space-oriented nel loro sovrapporsi alle dilatazioni guitar-drone, peculiarità del progetto di Wright sin dai primi passi. Musica che rimanda da subito alle suggestioni kraute più liquide ed evanescenti di Tangerine Dream e Ash Ra Tempel per le dilatazioni strumentali che la pervade e per l’afflato cosmico cui rimanda. L’album successivo è sempre un cd-r: Exquisite Lust, impreziosito da una cover soft-lesbo anni 70, sposta radicalmente le sonorità dell’accoppiata Wright-McKinley verso un approccio più minimalista – specie nella strumentazione ridotta a corde, synth ed effettistica varia – che fonde loop e drones in un magma sonoro evocativo. Link perfetto tra atmosfere kraute e ambient-music sempre made in Deutschland, Exquisite Lust è il primo vero capolavoro di Wright e sembra attualizzare gli impro-drones di un leggendario gruppo proveniente da tutt’altri lidi geografici: i giapponesi Taj Mahal Travellers. Sciolto il sodalizio con McKinley, è il turno di Drop Out / 35 Centre Of The Earth, primo disco che vede Wright agire in completa solitudine. Le 4 lunghe tracce che lo compongono – che, tanto per sottolineare il continuum delle musiche di Expo ’70, iniziano con lo stesso drone montante che apre il recente e definitivo Black Ohms – sono pervase da una sensazione di assoluto romitaggio, qualcosa che rimanda ad un vagabondaggio psichico che scaturisce dall’atmosfera notturna in cui sono state composte. Quattro pezzi untitled per una suite di quasi un’ora di tensione ascensionale simile ad una marea montante e in cui le stratificazioni del suono sono apparentemente impercettibili ma presenti. Le aperture psichedeliche dei 5 minuti del pezzo conclusivo – Come osservare una tempesta di fulmini sopra l’oceano, ricorda Wright – fanno da ideale testa di ponte con i dischi a venire. Da lì in poi, l’universo sonoro targato Expo ’70 si fa più coeso così come più densa si fa la poetica visionaria di Wright. Le atmosfere si sbriciolano in pulviscolo spaziale, i toni si fanno più riflessivi e cupi, l’andazzo generale si riduce ancora di più intorno alla ieratica figura dell’uomo in nero e delle sue chitarre elettriche e acustiche. I pezzi del cd-r Mystical Amplification, dell’ottimo esordio in cd ufficiale Animism ma soprattutto del recente Black Ohms (per l’ossianica Beta-Lactam Ring) si avvicinano a certo riduzionismo minimalista ripetitivo alla Riley e traggono il loro senso più compiuto dalle stratificazioni dei suoni di una chitarra dilatata, trattata, apparentemente statica fino a sfiorare l’immobilismo. Eppure quel suono – ché di un unico suono, un ohm primordiale e magico, si tratta – è sempre mobile, mutevole, in un viaggio siderale per certi versi molto simile a quello dei kosmische kurier da cui – come vedremo più avanti – trae direttamente e esplicitamente ispirazione. Musiche ascensionali, verrebbe da dire, che puntano indistintamente lo spazio più profondo dell’io e quello dell’universo. Space is the place; I am the space. Prima di proporre uno stralcio dalla fluviale conversazione avuta con Justin, giusto qualche anno36 / Drop Out tazione su altre uscite degne di menzione dalla ampia discografia Expo ‘70. La Audio Archive series, soprattutto, giunta ora al suo terzo volume, evidenzia l’aspetto più personale ed intimo dell’operato di Wright. Sorta di progetto di divulgazione in divenire della ricerca sonora wrightiana, la serie, come suggerisce il sottotitolo al primo volume, Music from Inaudible Depths, rende appieno l’idea di costante crescita di un suono che sembra scaturire dal più profondo dell’animo umano e da lì muoversi verso l’infinito dello spazio profondo. Non da meno sono alcuni momenti dalla discografia “minore” – solo per formato e/o durata – come il cd-r 3” Illusive Landscaping o l’edizione limitata per un matrimonio di The Wedding Album, così come gli split con gente del calibro di Radhunes (il 12” per Kill Shaman), I Am Sea Monster (7” + cd-r 3” per Small Doses), il nostro Be Invisibile Now! (in collaborazione Kill Shaman/Boring Machines) e il 3 Way Split cd-r con spiriti affini, nonché collaboratori estemporanei di Expo ‘70, Matt Hill e Duane Pitre. [s.p.] I ntervista con E xpo ’70 Mi piacerebbe sapere qual è il tuo rapporto col fronte più psichedelico del kraut-rock, I cosiddetti corrieri cosmici… Tutto è cominciato nei tardi anni 90 quando iniziai ad ascoltare i Can; suonavo in una band e stavo cercando di sperimentare con pedali ed effetti. Ero affascinato dai Can e pochi anni dopo, quando un amico mi introdusse ad Ash Ra Tempel, scattò qualcosa tra me e la loro musica. Era fluttuante e molto più viva delle band rock dei ‘70. Sembravano rendere vivo lo spirito di Hendrix o dei Cream, superandone i confini. Più tardi scoprii Cosmic Jokers e Tangerine Dream. Mi piace il fatto che queste band abbiano preso il concetto del free-jazz e incorporato l’elettronica, tanto che credo Stockhausen e il minimalismo siano stati una influenza per loro. Ho sempre preferito l’analogico al digitale e questi gruppi sono stati pionieri di un certo tipo di musica “elettronica”. L’amore per la psichedelia viene da Pink Floyd e Hawkwind, ma è stato l’incontro con un live di Acid Mothers Temple ad influenzarmi realmente. Vedere Kawabata Makoto al Knitting Factory di Los Angeles ai primi del 2000, mi ha costretto a riflettere ancor di più su quella musica e sulla sua provenienza. Expo 70 sembra legato agli aspetti improvvisativi di un’altra grande band: Taj Mahal Travellers…sappiamo che l’improvvisazione è il tuo metodo di composizione preferito… Inizialmente ho dato vita alla band per suonare come i Taj Mahal Travellers; li ascoltavo moltissimo quando July 18, 2004 fu registrato. All’epoca avevo cominciato ad interessarmi all’improvvisazione con uno dei membri con cui suonavo allora e con Paul Kneejie che poi fondò la Kill Shaman. Condividevamo l’interesse per soundscapes e sperimentazioni sui pedali, che divennero fondamentali nella prima incarnazione di Expo 70. Suonammo una manciata di show a LA prima che decidessi di tornarmene a Kansas City verso la fine del 2004. Expo ‘70 nasce come fuga verso l’improvvisazione, esperienza aperta all’esplorazione di suoni e textures in collaborazione con altre persone openminded. Per me, essere in grado di prendere un qualsiasi strumento e creare qualcosa di organico è molto più soddisfacente del fare prove e suonare e risuonare qualcosa di continuo. È l’atto del momento, l’immediatezza, il lasciare che l’ambiente circostante interagisca col corpo ad essere creativo ed artistico. Nella tua musica molto presente è l’aspetto mistico, trascendente…c’è un intento trance-inducing in Expo ’70? C’è del misticismo, indubbiamente; puoi trovare del ritmo in natura o nel corpo umano tramite la meditazione. Da bambino mi piaceva passare molto tempo immerso nella natura, tanto che in un certo senso creo questa musica come una via di fuga, un qualcosa che mi permetta di distaccarmi, di dissociarmi da ciò che mi circonda e dalla cultura pop. Amo l’estetica di questo suono e credo che questo sia il modo in cui la mia musica viene creata. Ho una fascinazione per quei vecchi tipi di musica che sono in grado di creare un regno in cui i concetti si fondono insieme. L’aspetto mistico scaturisce dalla sensazione di essere profondamente engaged nel regno dei suoni che sono solito creare esplorando la mia psiche, componendo inconsciamente questa musica organica e “sentendola” dal di dentro. Questo crea un aspetto trance-inducing, un feeling di “longevità” con la musica in grado di lasciarsi andare a ciò che sta succedendo e non focalizzandosi su un beat o un ritmo che cerca di imporsi, ma in una maniera meditativa. Cosa significa per te la parola spazio? Mi spiego meglio: taj mahal tangerine dream ash ra tempel erano artisti con un mood spacey che è facile ritrovare nelle tue musiche: quella capacità di porre chi ascolta nella condizione di perdersi, nello stesso tempo, in se stesso e nelle inaudibili profondità dello spazio… Sono sempre stato affascinato dallo spazio così come dalla fantascienza, ma non credo che influenzino la musica. Credo che il genere umano sia attratto dallo spazio e che le culture antiche, molto più delle moderne, pensassero allo spazio come ad una entità superiore…i suoni che creiamo non sono che l’infinita gamma di frequenze e toni presenti in tutta la musica e perciò nello spazio stesso, e quando li dilatiamo, li facciamo durare molto a lungo, rendendoli ripetitivi, essi diventano meditativi per il corpo umano… [s.p.] Drop Out / 37 Lo spazio del suono - Sara Bracco e Vincenzo Santarcangelo Ci sono almeno due motivi per i quali a partire da questo mese vi proporremo una serie di articoli dedicati a Lo Spazio del Suono, ossia ad una serie di artisti che hanno focalizzato la propria attenzione sulla proprietà spaziale del suono. Innanzi tutto per via del proliferare di giovani leve che affollano la scena della cosiddetta “nuova musica” animando il dibattito su questo argomento, e in secondo luogo, per cercare di ragionare su quella che a nostro avviso da semplice attitudine stilistica sta trasformandosi gradualmente in una vera e propria koinè linguistica. Alcune premesse ci sembrano dovute: consideriamo innegabile l’affinità che interfaccia l’arte sonora alla disciplina scientifica che va sotto il nome di acustica, come innegabile è il fatto che si possano rintracciare modalità estetiche proprie ad installazioni e a performance sonore - proprie cioè, di eventi sonori che avvengono in uno spazio, di qualunque tipo esso sia. Come, ancora, si possono considerare similari certe espressioni legate alla sound-art o lezioni care ad artisti qual Rolf Julius, John Duncan e Carl Michael Von Hausswolff (per citarne alcuni) che in un certo senso hanno dato il via ai primi dibattiti sulla questione. Questa materia d’indagine è ancora parzialmente inesplorata, e fonte tutt’oggi di discussione e produzione a firma dei maggiori artisti ed interpreti dell’elettronica che operano in direzioni affini. Artisti la cui matrice d’esplorazione consiste in una lettura sonora che va oltre il territorio dell’ascolto, che conduce la forma e il divenire attraverso lo spazio. Uno spazio immaginato, sommesso o al limite dell’ architettonico, uno spazio reale, uno spazio nello spazio, legato al luogo o ad esso distante. Uno spazio organico, effimero, assente o vividamente sommesso. E’ questo il motivo della nostre indagine strutturata in brevi monografie spesso corredate di interviste, un momento di riflessione ormai dovuto a fronte del proliferare di pubblicazioni e di artisti. 38 / Drop Out Ralph Steinbruchel Un’arte preziosa quella dello svizzero Ralph Steinbruchel, noto agli assidui frequentatori delle zone limite dell’elettronica come uno dei più quotati sperimentatori sulla piazza. Classe 1969, una carriera costantemente in bilico tra musica e grafica che trova consacrazione ufficiale dapprima nel 2002 con il conferimento del premio “Max Brand Award for Electronic Music” (phono TAKTIK 2002, New York), grazie alla composizione Zwischen.raum (Domizil), poi con la borsa di studio “Pro Helvetia” ricevuta dall’ Art Council of Switzerland che gli permetterà di lavorare a una delle sue prime uscite firmate LINE. Ma andiamo con ordine. Ralph Steinbruchel è senza dubbio un figlio dell’elettronica anni ’90. I suoi primi esperimenti sonori risalgono al ’96 con l’lp Stockwerk, il 7” On3 End e il cd-r Sinus, tutti lavori che si lasciavano già notare per le austere letture sonore che contenevano. Gli esordi Drop Out / 39 dichiarano apertamente un’estetica riduzionista fortemente legata all’utilizzo del digitale, grazie al quale l’artista riesce a catturare l’essenza spaziale di luoghi reali od immaginari e ad immergere l’ascoltatore in ambientazioni sature di suono. Ambientazioni glitch come quelle di Circa (Line, 2003), che prendono forma dall’installazione Zeit , esposta qualche anno prima presso il Parco Platzspitz di Zurigo, un evento importante che oltre a confermare l’interdisciplinarità della ricerca dello svizzero, segna l’avvio di una serie di collaborazioni con le maggiori etichette del settore e di uscite discografiche che lo renderanno celebre al pubblico dell’elettronica. Dalla 12k di Taylor Deupree e Richard Chartier - in particolare la sussidaria LINE, nota per il suo prezioso roster d’artisti au- 40 / Drop Out dio e visuali - alla parentesi con l’etichetta Bine (Skizzen, del 2005), dalla Room40 alla più recente Koyuki, saranno molte le etichette a contendersi i lavori di Steinbruchel. Tornando al 2005, è da segnalare Status, progetto a quattro mani con Frank Bretschneider, collaborazione tanto differente dallo stile-Steinbruchel quanto proficua, riuscita a pieni voti grazie alla sua personale identità stilistica che regge il gioco di dodici tracce in equilibrio tra concrete astrazioni e relazioni micro-ritmiche. D’obbligo fermarsi alla tappa con la Room40 nella collezione estemporanea di Opaque (+Re) (Room40, 2005), o sostare ad ammirare le dieci scene di Stage (Line, 2006), raccolta di musica per la performance di danza interattiva Hybridome. La scrittura di Steinbruchel presta attenzione agli spazi immaginati e alle elaborate letture minimali, esibendone elementi o frazioni, assemblandoli con calibrata avanguardie e liberata intensità. Non importa quale sia la materia da plasmare. Drones, i glitch, le microscopiche particelle elettroacustiche, i contributi di chitarra, pianoforte, le dissonanze o le risonanze: a fare la differenza è la deliberata trasformazione della massa sonora che viene frammentata con una tecnica che ha qualcosa del puntillismo. Flussi sonori che si prende gioco del tempo creando sospensioni o stasi ricche di dettagli infinitesimali (si ascolti Staub a firma Steinbruchel&Macinefabriek, minicd-r 2008). O ancora, spazi sonori microscopici come istantanee di paesaggi (Sustain, Koyuki 2008). Attenzioni proprie dell’estetica, che non dimenticano le esperienze dell’universo percettivo, ne è un esempio il recente Mit Ohme (12k, 2008) che prende spunto dall’installazione audio-visuale di Yves Netzhammer, la cui chiave di lettura è sicuramente quell’aggraziata semplicità di forma che Steinbruchel riesce a tradurre abilmente tra le superfici in tonalismi e i panorami di dettaglio. Volevamo proprio saperne di più e quale migliore occasione per un ‘intervista. Hai girato il mondo grazie alle tue installazioni: da Zurigo a New York, da Parigi a Los Angeles e Seoul. Com’è cambiato il tuo approccio al suono nelle live performance con il tempo, l’esperienza e i recenti progressi tecnologici? Attualmente non sto lavorando a nessuna installazione, ed è da tempo che non sono impegnato in questo senso. La maggior parte delle mie installazioni sono state collaborazioni con artisti visuli (o programmatori), o con altri musicisti.Le installazioni mi hanno dato la possiblità di lavorare in profondità con la tridimensionalità del suono, dal momento che erano tutte concepite per performance multicanale. Per definirle mi sono sempre servito della dizione audiosculture. Oggi come oggi, mi piacerebbe esibirmi dal vivo in performance multicanale, laddove possibile tecnicamente, per creare una performance che si situi esattamente a metà strada tra installazione e live performance. Una sorta di “performance installativa”.Non credo che il mio approccio al suono o alla composizione sia cambiato a causa del progresso tecnologico, o per simili ragioni. Fermo restando che il progresso nel campo della spazializzazione del suono e della tecnologia multicanale hanno aperto la porta a nuove possibilità, che sono ben felice di integrare nel mio lavoro se conciliabili con la mia estetica. Il legame tra spazio e suono è al centro del dibattito musicologico dagli inizi del XX secolo. Qual è il tuo concetto di sound-art? Ti senti più legato al filone purista legato alla materia sonora o a quello più contestualizzante d’indagine sonora e di lettura del contesto? A nessuno dei due in particolare. Non mi considero un sound-artist perché quello che faccio è lavorare sulla composizione di musica che mi smuova emotivamente e che all’atto dell’ascolto risulti piacevole. Nel mio fare artistico c’è meno concetto e senso della struttura di quanto potrebbe sembrare ad un primo sguardo. Naturalmente mi servo di un approccio concettuale se questo può servire alla resa finale, se il concetto è al servizio di ciò che senti ed ascolti. Ma sono molto più interessato al risultato finale che al processo in sè. Con o senza l’utilizzo dell’elettronica la tua scrittura sembra plasmarsi in ognuna delle tue esperienze produttive attraverso una sorta di naturale “manierismo estetico”. Qual è, se ne esiste uno, il tuo personale concetto di estetica del suono? Molto difficile rispondere a parole. Come ti ho già detto, la maggior parte delle mie musiche deve agire su di me da un punto di vista emozionale, interagire con me in una qualche maniera. Cerco di appropriarmi di un mio linguaggio sonoro specifico che sottopongo ad aggiustamenti continui, com’è ovvio che sia, dato che cambio giorno per Drop Out / 41 giorno come persona grazie alle esperienze della mia vita quotidiana. Naturalmente alcuni di questi cambiamenti avvengono quasi impercettibilmente e potrebbero rimanere inavvertiti o risultare illogici quando percepiti dall’ascoltatore. Tra le tue innumerevoli collaborazioni vorremmo ci parlassi di quella uscita per la 12K di Taylor Deupree con Frank Bretschneider, Status. Com’è nata e come siete riusciti a far combaciare due stili così differenti senza perdere l’identità? Ho incontrato Frank Breschneider qualche anno fa, in occasione di alcuni festival e performance. Ci siamo subito piaciuti e abbiamo scoperto di avere interessi comuni nell’estetica del suono (pur pervenendo l’uno a risultati molto diversi dall’altro). Entrambi avevamo appena dato alle stampe un cd e avevamo voglia di lavorare su qualcosa di più “aperto” e diverso dalle solite cose. Decidemmo di scambiarci dei suoni di partenza e di vedere cosa accadeva se il mio approccio “si scontrava” con il suo. Questi suoni hanno così iniziato a rimbalzare da un computer all’altro - il mio ed il suo. Ognuno dei due ha lavorato sulle sequenze di suono fino a quando la resa finale non fosse risultata del tutto soddisfacente. L’obiettivo era realizzare musica che nessuno dei due avrebbe mai concepito lavorando in solitaria. Spesso la tua musica viene comparata al filone Neomodernista di Richard Chartier e Ryoji Ikeda che cosa ne pensi? Ti rivedi in qualche modo nel loro linguaggio sonoro? In genere sono contrario ai paragoni. Non capisco perché debbano essere necessariamente fatti, dal momento che ogni artista – o quasi – segue la sua propria strada.Mi piace il lavoro di Ryoji Ikeda e lo rispetto molto, soprattutto quando consiste in una commistione di sonoro e visuale, così come rispetto il suo approccio – molto concettuale ma dotato di un altissimo senso della musica. Potrei anche concedere che in alcune sue declinazioni mi ha influenzato - soprattutto in passato. Ma credo permangano fondamentali differenze tra il mio lavoro ed il suo. Ryoji ha creato ex novo un linguaggio musicale e mi piacerebbe davvero poter dire lo stesso di me - chissà che un giorno io non possa davvero farlo! Puoi parlarci di queste ultime esperienze che potremmo definire concrete, quasi scultoree: Sustain, uscito per la Koyuki e Home per la Slaapwel? Come nascono questi due progetti? Mentre lavoravo al mio contributo per una compilation dell’etichetta and-oar una serie di suoni da esso “fuoriusciti” mi hanno ispirato un’altra composizione...così è nata Sustain. Ero già in contatto da molti anni con David Sani (dell’eccellente mailorder Microsuoni), che mi chiese se avevo a disposizione del materiale per una uscita sulla label Koyuki, che gestisce con Luigi Turra. Fui ben lieto di affidargli Sustain. Home è stata creata su invito di Wim di Slaapwel Records. Sono entrato in contatto con lui perché cercavo un disco appartenente al catalogo di quell’etichetta, e così abbiamo iniziato a scambiarci delle mail. Mi è subito piaciuta l’idea di comporre un brano di musica che concilii il sonno. Per usare le parole dell’etichetta, «music which is interesting enough to listen to, but boring enough to fall asleep to». Un’idea davvero meravigliosa! Mit Ohne è il documento sonoro di un’installazione audio/video di Yves Netzhammer intitolata “The feeling of precise instability when holding things”, ed esposta al Museum für Gestaltung di Zurigo. Puoi parlarcene? Che ruolo ha avuto il suono nel suo funzionamento? Yves Netzhammer è uno dei miei artisti visuali preferiti. É in grado di creare animazioni ed illustrazioni 3-D molto belle e poetiche. Aveva ricevuto un invito a creare un lavoro sul futuro dei living spaces e voleva aggiungere un elemento musicale alla sua installazione. Così ha pensato di allargare l’invito anche a me. Mi ha inviato una serie di animazioni che ho sincronizzato a dei suoni. Ho poi composto sette brevi frammenti di musica che ora è possibile ascoltare nella recente uscita 12k Mit Ohne. Durante l’esibizione, le animazioni di Yves venivano proiettate su tre schermi a loro volta riflessi da specchi posizionati sotto di essi. Un nuovo spazio prendeva forma grazie a questo sapiente utilizzo delle leggi di riflessione. Il suono era irradiato grazie ad un sistema multicanale: ogni schermo era dotato di uno speaker che permetteva allo spettatore un’esperienza spaziale e sonora davvero uniche. La tua musica ha la capacità di catturare lo spazio immergendo l’ascoltatore all’interno stesso del suono e mettendo profondamente in gioco il concetto di “percezione sonora”. Sei d’accordo? Qual è il tuo personale punto di vista? In un certo senso è vero, ma non c’è nulla di programmato da un punto di vista teoretico o concettuale. Per me lo spazio in sè funziona come strumento addizionale. Ecco perché quando mi esibisco dal vivo è molto importante per me disporre del tempo necessario - solitamente durante il soundcheck - per entrare in sintonia con lo spazio fisico nel quale sono situato; per capire come i suoni interagiranno con quello spazio. L’attenzione che riservo al concetto di spazio in sè e alla percezione del suono nello spazio mi spinge inoltre a preferire il multicanale, laddove possibile. Cosa pensi dell’attuale stato di salute della musica sperimentale? C’è tanta buona musica, ma anche tanta pessima musica. Artisti validi e artisti meno validi. Etichette coraggiose ed etichette che non lo sono. Per quanto mi riguarda, il mio gusto varia giorno per giorno, dato che quotidianamente scopro nuova musica. Può piacermi come non piacermi: se non mi è piaciuta quest’anno, probabilmente imparero’ad aprezzarla l’anno prossimo, o forse no. E viceversa. ►►►►recensioni ►► ►► feb adriano modica andrew bird 2 Novembre – Bellorio (Elevator / Jestrai, 2 novembre 2008) G enere : grunge - stoner Stoner e grunge, Kyuss e Melvins, a banchettare amorevolmente tra testi in italiano pieni di buoni sentimenti (“Merda! Merda! Te lo dico in faccia, Muori!!”) e titoli che alludono ai progenitori senza rivelarli (King Buzzo). Il terreno è fertile per far crescere chitarre elettriche a profusione, toni angoscianti, muri di bassi e batterie dispari, con lo scopo di rinverdire i fasti di un’epopea musicale che – ahimè - se non è morta e sepolta, pare per lo meno in fin di vita, attaccata com’è al polmone d’acciaio del tempo. Se è vero, infatti, che pochi tra i reduci dei Novanta continuano a sfornare operette dignitose e nuove leve autoctone, come i milanesi Grenouille, ci illudono che in Italia possa nascere una new wave della musica di Kurt Cobain e Josh Homme, è vero anche che i 2 Novembre illustrano loro malgrado quali siano i rischi per chi si aggiri 44 / recensioni senza bussola tra pedalini Boss e flanger assortiti. Nello specifico, confondere l’ispirazione con la didascalia, il mal di vivere con il machismo più pacchiano, l’impeto e la claustrofobia con la noia. In un’ora di musica che piace solo a tratti e pare fin troppo abbondante, considerata la quantità di carne messa al fuoco. E dire che ai tre musicisti genovesi le doti tecniche non mancherebbero come non manca un certo buon gusto, tanto che in qualche frangente ci si diverte non poco ripensando a quei diciottenni capelloni che eravamo una quindicina di anni fa (gli otto minuti dell’ottima GMB). Eppure, sono momenti sporadici. L’impressione generale, invece, è che molto si faccia e poco si sia – originali, personali, consapevoli –, che il nichilismo esistenzialista dei padri si sia trasformato in oltraggio gratuito, che lo scarto tra opera di finzione e disco pregevole sia fin troppo ampio. (5.5/10) Fabrizio Zampighi bbraio prima che nei suoni e fateli viaggiare indietro nel tempo all’altezza di Daydream Nation; mandateli a rubare il master di quel disco e fateglielo risuonare tutto. The Noise Band From Bletchley inanella 12 pezzi pressoché strumentali, costruiti per stratificazione di suoni e distorsioni di chitarra, con echi tribaloidi e sovrappiù di energia adolescenziale grezza e coinvolgente. Un muro di suono che – diversamente da come potrebbe immaginarsi – non tocca picchi parossistici, né si piega su se stesso, ma piuttosto lascia presagire una certa maturità compositiva nelle aperture quasi trance e ridisegna il concetto troppo spesso abusato di noise-rock. A breve dalle nostre parti, perciò, siete avvisati. (7.0/10) Stefano Pifferi Adam Payne – Organ (Holy Mountain, febbraio 2009) G enere : indie power rock mi ami Action Beat – The Noise Band From Bletchley (Truth Cult, febbraio 2009) G enere : noise - rock È magma bollente quello che fuoriesce dagli strumenti – tanti, tantissimi – del combo più atteso d’oltremanica. Altro che cazzate brit-pop o sbruffonate nu-rave; quello del collettivo spavaldamente fiero delle proprie origini provinciali è un vero e proprio assalto al calor bianco come non se ne sentiva da tempo, specialmente dalla perfida Albione. Chitarre, chitarre e ancora chitarre; batterie a profusione; un basso; trombe e sassofoni più o meno occasionali. Il tutto in quantità variabile ma in qualità costante, a sfiorare in alcuni momenti l’eccellenza. Avete presente Glenn Branca? Beh, fatelo tornare adolescente nella grigia provincia inglese, clonatelo moltiplicandolo per 5, 6 o 10 e lasciatelo libero di suonare noise-rock in modalità impro. Oppure prendete gli olandesi The Ex e la loro etica/estetica fieramente punk nell’umore E’ davvero un bell’esempio di rinfrancante e rinfrescante melting pot, Adam Payne dalla Florida: figlio di un’italiana e un afroamericano, mostra un talento musicale assai precoce nutrito dai cartoni animati del sabato mattina. Polistrumentista, maneggia lui tutti gli strumenti di questo suo (crediamo) esordio - mini piuttosto corposo che un tempo sarebbe stato un album: trentasei minuti - e appese sul muro vanta quel paio di lauree in statistica e psicologia. Impossibile per uno così fare brutta musica, ma vatti a fidare in quest’epoca di intellettuali emaciati o megalomani: tocca invece ricredersi, perché Organ è disco frizzante e agile, arguto e ricco d’idee e melodie. Mettete da parte le ipotetiche influenze soul - dovrete tuttavia tirarle fuori per giustificare le cadenze a costante rischio d’inciampo e impennata della tenera In Hell - e immaginatevi un power pop corretto dalle sottili sconnessioni “nerd” dei Pavement. Altrimenti dei Replacements che preferiscono la Red Bull alla Budweiser e sono di conseguenza cioè iperattivi e non sbronzi, in ogni caso ferrati tanto in math rock e low-fi (gli otto e passa minuti di Incidental Arrecensioni / 45 Highlight AA. VV. - Evening’s Civil Twilight In Empires Of Tin (DVD, Constellation / Wide, 26 gennaio 2009) post rock Ci sono svariati modi di fare politica attraverso l’arte e, in chi scrive, il comizio dal palco non ha mai incontrato gran favori. Nel limitarsi a declamare slogan, sfuggono alla visione quelle intercapedini in cui la gente comune finisce per cadere. dimenticata dai più. Ad esempio le masse di derelitti che marciano dritte nel tritacarne bellico, per le quali - causa i corsi e ricorsi della natura distruttiva umana - non esiste differenza tra la Marna e Bassora, il gas nervino e le bombe al fosforo bianco. Questo pare volerci In sostanza dire il regista Jem Cohen tramite questa splendida pellicola, emozionante e leggibile a più livelli: che la Storia si ripete e gli imperi sull’orlo del collasso generano un nuovo ordine mondiale. Cadeva l’autunno del 2007 allorché Cohen - tra le tante cose autore del fantastico Instrument dei Fugazi e di alcuni video dei giovani R.e.m. - venne chiamato a concludere l’International Film Festival di Vienna con Evening’s Civil Twilight In Empires Of Tin. L’opera, ispirata in parte al romanzo The Radetsky March di Joseph Roth, sovrapponeva a immagini della Vienna antecedente il primo conflitto mondiale visioni contemporanee della capitale austriaca e di New York. L’impero americano come quello austro-ungarico ne uscivano come due Titanic in cui l’orchestra seguita a suonare mentre si cola a picco, tutti insieme inesorabilmente. Un’affermazione “politica” netta e tagliente, offerta sommando in modo indistinguibile letteratura, musica e coscienza sociale. Il commento sonoro alle immagini lo offrirono nientemeno che gli artefici del capolavoro North Star Deserter, al tempo fresco di pubblicazione: Vic Chesnutt e i Silver Mt Zion, più Guy Picciotto e l’ensemble sperimentale Quavers. Tra ondate di rumore controllato e una decostruzione anticata e ondeggiante della straussiana Marcia di Radetzky, si dipanano i fili di un folk cameristico da tregenda nelle immense Distortion e Sponge, in una What He Is And What He Ain’t degna del Tom Waits più luciferino e nella riassuntiva Coward composta per l’occasione. Le immagini alternano sapientemente consunti fotogrammi d’epoca a paesaggi urbani qui avvolti in un granuloso grigio seppia, là riconsegnati ai propri cromatismi; sono simboli e scheletri di luoghi in cui le persone si aggirano come fossero brandelli di vita, velocizzate e rallentate secondo lo stile tipico di Cohen. Il quale si sofferma poi sui volti dei musicisti a coglierne il particolare rivelatore da un gesto, un’espressione del viso rubata durante l’esecuzione live, in tal modo abbattendo il muro tra il tema e la sua rappresentazione. Oltre il rockumentary e la denuncia, oltre il film d’autore e la sperimentazione sonora, camminiamo in una terra a sé stante. Rabbrividente e veritiera per come riassume un decennio di avvenimenti americani e pertanto anche mondiali che speriamo destinati a essere definitivamente archiviati. Si resta in quest’ora e quaranta minuti, al contempo incollati alla sedia e al muro. Necessario esporsi a tanta penetrante bellezza, oggi più che mai. (8.0/10) Giancarlo Turra 46 / recensioni rangement si snodano torpidamente acidi e jazzy, un po’ Polvo e un po’ Storm & Stress; la cavalcata wave Wind, Wind, Wind/Take A Look) quanto nello stile stradaiolo e meticcio canonizzato da Exile On Main Street (The One After Eyes). Non contento, Payne si ricorda di avere sullo scaffale un lp dei Big Star e uno dei Dinosaur Jr. e una sera gli viene in mente che sarebbe una bella idea farli convivere sotto una patina glam autoironica, facciamo simile a quella dei primi Urge Overkill (Never See You Anymore); infine, prima di coricarsi per il meritato riposo quotidiano, estrae dal cilindro una Fruzstration che - a passo di ballata cupa e sgasata - conduce i Jacobites al ranch dei Crazy Horse. Penserete di ascoltare una compilation, un condominio abitato da gente che non si parla e manco si guarda. Un accidente: c’è il robusto filo conduttore di creatività a ruota libera e calligrafia convincente a tenere insieme tutto. Ci sono canzoni che canticchierete in men che non si dica e alle quali sarà impossibile non affezionarvi. T anta carne al fuoco, mai scotta o bruciata: complimenti al cuoco. (7.0/10) Giancarlo Turra Aidan Moffat & The Best Ofs – How To Get To Heaven From Scotland (Chemikal Underground / Audioglobe, febbraio 2009) G enere : folk , songwriting , indie La sfida di Aidan Moffat all’appuntamento ufficiale post-Arab Strap? Scrivere un disco di canzoni d’amore… felici. E, in effetti, gli umori di cui si nutre il suo debutto con i Best Ofs - più che una band, una duttile compagine di accompagnatori, fra cui l’ex Delgado Alun Woodward – appaiono lontani dalla malinconia del duo di provenienza, alla ricerca di diverse aperture e forme espressive. Se I Can Hear Your Heart, pubblicato un anno fa come Aidan John Moffat, era più un esperimento di poesia (porno, ovviamente, con le sue buone dosi di sarcasmo e crudeltà), adesso si tratta di riprendere in mano la canzone con nuove consape- volezze e nuovi intenti, anche poetici. Nonostante orfano dell’amico Malcolm Middleton, che ormai veleggia sicuro in solitaria, l’autore e cantante sembra già sguazzare in una dimensione ideale, grazie anche a musicisti che ne assecondano ogni capriccio e, soprattutto, a buone idee. Come ad esempio riscoprire le proprie radici folk, e partire da esse per raccontare storie d’amore sicuramente agrodolci, irrimediabilmente ubriache, ma sincere e – in primis - a lieto fine. Ci vorrebbe un capitolo a sé, ma basti l’esempio di Living With You Now, in cui Aidan riesce a cavare fuori romanticismo anche da un rapporto che si esprime, primariamente, nell’azzuffarsi. Sarebbe bello se prima o poi si riconoscesse universalmente la statura di Moffat non solo come musicista – sull’apporto del suo vecchio gruppo ci sono pochi dubbi, crediamo -, ma anche come uno dei poeti più personali della sua generazione; uno capace di portarti in posti precisi soltanto con la sua voce storta, con la maniera inequivocabile di storpiare e cantilenare frasi e parole. Quanto ai suoni, il tappeto è il più vario possibile, in un riuscito amalgama acustico-elettronico sempre adatto a ciò che il brano richiede, sia l’indie folk di classe del singolo Big Blonde, i sentori etilici Pogues di Oh Men, That’s Just Love e The Last Kiss o i semplici a cappella di Lover’s Song e My Goodbye. Qua e là le suggestioni Arab Strap non mancano, certo (A Scenic Route To The Isle Of Ewe, Now I Know I’m Right); ma How To Get To Heaven From Scotland (un plauso al titolo, ça va sans dire) somiglia più al lavoro di un cantautore dall’impronta già inconfondibile che al tentativo di un ex di trovare la propria strada - il riferimento a Middleton è puramente voluto, anche se ce ne duole. Vogliamo infine aggiungere un dettaglio tutt’altro che trascurabile: l’album viene pubblicato il giorno di San Valentino. Che sia un po’ di sano romanticismo alcolico l’antidoto ai tempi grigi che stiamo attraversando? (7.3/10) Antonio Puglia recensioni / 47 Alela Diane – To Be Still (Naive / Self, 20 febbraio 2009) G enere : folk blues Dallo scarno folk blues acustico del disco d’esordio The Pirate’s Gospel (2007) sembra passato un bel po’ di tempo in fatto di produzione: To Be Still è infatti tutto fuorché minimale. Realizzato al solito con un ampio gruppo di amici-musicisti e con la collaborazione del sempre presente padrino Michael Hurley (qui alla voce nella struggente Age Old Blue), vede le composizioni, cantate con il solito trasporto dalla Nostra, riempirsi di strumenti ed arrangiamenti, che danno profondità ai pezzi. Echi di Will Oldham e spettralità dolenti, nonché desertiche echeggiano per tutto l’album, come nella splendida title track country con la pedal steel a dominare, nella già citata Age Old Blue con echi di Karen Dalton. Altrove mandolini (Tatted Lace), archi (Take Us Back) violini (White As Diamonds) e le solite voci doppiate sua caratteristica, per un suono pieno e tradizionale che ricorda del resto l’ultimissima Larkin Grimm. Di inquietudine, contemplazione e solitudine qui si tratta, cantati con trasporto lirico ma senza eccessivi fronzoli. Il salto dal precedente disco si sente in fatto quindi di coesione e composizioni, segno di avvenuta maturità. (7.1/10) Teresa Greco Ando – Habitat (Bine, 2008) G enere : minimal / dancefloor Il percorso di Taylor Deupree (Ando) è multiforme, non è certo una novità per chi lo segue da tempo, semmai per chi ne ha apprezzato le ultime opere in bilanciato rapporto tra acustico e sintetico. Le premesse c’erano già nella scuola anni ‘80 che ha segnato le sue inclinazioni all’elettronica più sperimentale, nelle prime collaborazioni con Sav48 / recensioni vas Ysatis sotto il nome ARC o Unit Park se parliamo di Schoenemann. Assistiamo così ad un cambio di registro, non un vero e proprio volta pagina, ma una ponderata analisi di forma che per questa uscita firmata Bine Music si fa espressione di configurate radici techno. Dimenticate per un attimo, per quanto nitida ne permanga la memoria, le iterate texture di Northen e il Taylor Deupree più introspettivo, per fare un passo indietro verso gli esordi e le energie giovanili. Un dichiarato 4/4 che funge da filo conduttore di filtrazioni, introduzioni, battiti e linearità. Ma Habitat non è solo questo, è matura esperienza che intreccia elettronica con miniature-sonore, con la risaputa eleganza di stile che lo rende brillante. Giocano con il tempo e con il ritmo, queste quattro tracce, lavorano con il multiplo, le relazioni, il ripetitivismo e le pause, senza spogliarsi delle fluenze techno, senza mai diventarne schiave. Per molti magari un azzardo, sicuramente l’ennesima conferma della innegabile potenza sonora di Deupree. (7.0/10) Sara Bracco Andrey Kiritchenko – Misterrious (Spekk, 2008) genere : minimalismi - ambient Per la seconda prova con la Spekk dopo True Delusion, A. Kiritchenko dimentica per un attimo le astrazioni in micro-suoni di Kinga Skazok o l’elettronica “pop” di There Was No End per condurre la sua creatività verso visionari territori di confine. Artista di punta della scena ucraina e fondatore dell’etichetta Nexsound, con Misterrious l’autore porta avanti le sovrapposizioni di Stuffed With senza dimenticare l’eredità della passata collaborazione con Courtis-Moglass.Un capitolo fondamentale per Kiritchenko, che non si lascia condizionare dal registrio elettronico per dedicarsi a partiture decisamente più acustiche. Si mettono in circolo gerarchie soliste di un pianoforte (Let oneself in) dal sapore minimalista (Sparkling early mornings) che si lascia divorare dalle ridondanze in percussioni per poi imporsi come forma portante (Wounded by love). Mentre all’elettronica spetta il puntualismo di Your thoughts in scary forest, trai voluti eclettismi di batteria o i siderali contributi ambient (Evening lights wrap me softly). Decisamente riuscite le formule acustiche in loop di Persistent visions o i timori in pellicole che trasudano attesa (Untitled inquietudes). Una dinamica che dirige le frequenze, il cui trait d’union è la scelta di quella voce narrante sotto forma di pianoforte che muta l’approccio pur mantenendo quella coerenza sintetica di linguaggio concreto. Il tutto eseguito secondo il naturale ordine delle cose proprio dell’improvvisazione, tra attitudini e feeling di delicata morbidezza. (6.7/10) Sara Bracco Asobi Seksu – Hush (One Little Indian, febbraio 2009) G enere : pop Terzo disco per il gruppo nippoamericano di Yuki Chikudate. Ci si aspettava qualcosa di più di uno scimmiottamento di movenze soniche trite e ritrite come gli accenni pastorali dell’iniziale Layers che fa un po’ Enya un po’ Cranberries, le progressività naïve di Familiar Light, i tastieroni à la Organ di Sing Tomorrow’s Praise e le stanze lounge di stereolabiana memoria (Gliss). Le atmosfere hanno sorpassato il citazionismo shoegaze e si sono invischiate in un emo che ha poca intraprendenza indie e che in fondo è pop di normale amministrazione. La voce della leader fa il suo mestiere, ma non stupisce. Peccato. Lo spleen si è bruciato nel giro di due anni. Ritroveranno la scintilla? Staremo a vedere. Intanto basta e avanza un (5.0/10). Marco Braggion Barzin – Notes To An Absent Lover (Monotreme, febbraio 2009) G enere : sad slow core Bisognerebbe rettificare il glossario musicale così che al posto di “intima ballata strappalacrime” si potesse inserire Barzin, solamente Barzin. Perché sì, con il cantautore canadese abbiamo a che fare sempre con la ricerca della canzone d’amore perfetta, sofferta e straziante. E il suo terzo album già dal titolo, Notes To An Absent Lover, non fa che confermarlo, non cambiando assolutamente niente rispetto ai due lavori precedenti. E ciò, in questo caso, è senz’ombra di dubbio un merito: la sua sommessa ma suggestiva voce fa esplodere struggenti mondi fatti di carezze, assenze, solitudini, sguardi e intermittenze emozionali, che un attento e mai invasivo impianto sonoro asseconda dolcemente, ora con ricercati saliscendi strumentali ora con uno scarno incedere. Il suo è un morbido slow core cantautorale, affine a quello dei Dakota Suite, che esce direttamente dal cuore. Insomma, l’estetica dello struggimento amoroso passa sicuramente da qua. Magari non se ne sentirà il bisogno di accederci, ma mai dire mai. (7.0/10) Andrea Provinciali Bastion – Self Titled (Interregnum, gennaio 2009) G enere : free - drone Pratica corrente quella del dialogo a distanza tra artisti più o meno lontani geograficamente e stilisticamente. Quasi comune verrebbe da dire, con un po’ di puzza sotto al naso. Senonché incroci tanto inimmaginabili quanto entusiasmanti come quello che ha dato i natali al progetto Bastion, ci fanno tornare in mente che tanto comuni dopotutto non sono. Almeno nell’accezione di banali, semplici, normali. Jukka Reverberi nelle sue vesti più sperimentali (il versante in solitaria die stadt der romantische punks) e Valerio Cosi nelle sue vesti più incredibilmente camaleontiche sono i protagonisti dietro Bastion e intessono per l’omonimo esordio un denso 4pieces evocativo quanto recensioni / 49 Highlight Adriano Modica - Annanna (Trovarobato, dicembre 2008) avant folk rock L’attesa per il nuovo album di Adriano Modica viene spezzata e ravvivata dalla pubblicazione di Annanna, il primo capitolo finora inedito della trilogia di cui Il fantasma ha paura era il secondo e La sedia sarà il conclusivo. Trattasi del cosiddetto album di stoffa, perché - come dichiara lo stesso Modica - rimanda al senso di calore, sofficità e protezione in cui avvolgiamo l’infanzia, cui le nove tracce in scaletta si rivolgono come su una voragine mnemonica. Rispetto al successore, è album più intenso ed essenziale, di un lirismo crudo sorretto da immagini sconcertanti dall’odore minacciosamente familiare, capace di attraversare con lieve autorevolezza una terra di nessuno tra folk, psych, prog e post-cantautoriale. Soprattutto: è bello. Tanto che non ti spieghi come sia potuto rimanere ad ammuffire per tre anni, da non crederci che oggi te lo puoi scaricare gratis direttamente dal sito dell’artista reggino. Il quale ti conduce come un Virgilio sotto benzedrina tra flash di ricordi, aprendo vecchi cassetti che è “come rubare ciò che è tuo”, col passo sognante e irrequieto di un Gazzé via Radiohead (in Le sirene dello Stretto) o contagiato da emulsioni cosmiche Tiromancino (tolte le fregole festivaliere, come in Sapone Verde e nella title track), tra fiabesche apprensioni Barrett e frastagliati tremori Marco Parente (Primo volo, Cassetti chiusi a chiave), sbrigandosela tra spasimi acustici finché la spinta visionaria non spinge su terreni acidi (il flamenco ghignante de Il settenano di pietra e soprattutto A.C.N.E., mitraglie di sfondo e passo robotico tra il primo Dalla, i Kuntz e i CSI). Da restare senza parole. Di nuovo in attesa. (7.5/10) Stefano Solventi lugubre. Non una citazione casuale quella del progetto privato drone-ambient di Reverberi in vece del più plausibile e rinomato GDM di postrockiana memoria, perché proprio da lì prende il via Bastion. Oltre che dalle musiche, qui più “corpose” e screziate grazie alla sensibilità di Cosi, anche da un rimando postato in un commento sul suo blog in tempi non sospetti, in cui ad essere direttamente tirato in ballo è l’immaginario Blade Runner: le mie non sono lacrime nella pioggia. anche se con questo progetto vorrei vedere i bastioni a largo di orione.... Proprio 50 / recensioni come nelle musiche, nelle cui architetture di textures, miscrosuoni, rumori bianchi e sfarfallii vari, ad essere evocato è quel cielo plumbeo, quel clima soffocante, quel senso di ottundente claustrofobia da jungla post-urbana. E se la caratteristica intrinseca fondante di Bastion è la distanza (apparente) tra i due bastioni, la resa è quella di una materia magmatica che ingloba l’ascoltatore fino a farlo precipitare nei suoi meandri. (7.2/10) Stefano Pifferi Ashley Beedle/Horace Andy – Inspiration Information, Vol. 2 (Strut / Audioglobe, 2 marzo 2009) G enere : electro reggae Sulla carta è non poco stimolante l’idea alla base di questa serie di uscite della Strut, qui giunta al secondo tomo: similmente alla collana In The Fishtank edita tempo addietro della Konkurrent, si riuniscono un paio di artisti in studio di registrazione per pubblicare poi i risultati della collaborazione. Che è una moneta estemporanea e con due facce, sulla quale grava il rischio latente che il materiale possa suonare “tirato via” a causa della fretta o dell’eccesso di entusiasmo. Va a finire in parte così tra la leggendaria ugola reggae Horace Andy e il produttore Ashley Beedle, già con XPress 2, Ballistic Brothers e Black Science Orchestra. Sono comprensibilmente i Caraibi a rappresentare il terreno comune, anche in virtù del fatto che Beedle - suddito di Sua Maestà Elisabetta - vanta in parte origini nelle Barbados; un fattore anagrafico che spiega l’agio col quale si è in passato accostasto alla battuta in levare e il suo remixare e “mash-uppare” alcuni classici di Bob Marley nel 2005. Detto che la forma delle corde vocali di Andy ha tuttora dello stupefacente, non possiamo esimerci dal rilevare l’esito altalenante del disco, che finisce per afflosciarsi nella seconda metà. Prima di una inqualificabile cover della stoniana Angie - un orrore nell’originale, figuratevi voi riletta con passo tra reggae e mariachi - sfilano il martellare militante di Rasta Don’t, una solare e arguta Hypocrite Dog, le cadenze percussive di latinità modernista in When The Rain Falls. Altrove è una concezione morbida e “conscious” del reggae a elargire il frutto in assoluto migliore con The Light, sviluppo melodico speziato di aromi arabeggianti, mentre soluzioni prossime a un agile dub elettronico (Watch We) e prossime a intuizioni di scuola bristoliana (2-Way Traffic) chiudono il cerchio col passato recente di entrambi. Non disprezzabile il rimanente, a parte una Hot Hot Hot ruffianotta e col fiatone, che però scorre senza imprimersi nella memoria. Nonostante il talento e la sintonia, un controllo qualità più approfondito avrebbe senz’altro giovato. (6.5/10) Giancarlo Turra Beirut – March of the Zapotec & Realpeople – Holland (Ba Da Bing! / Audioglobe, 16 febbraio 2009) G enere : indie folk balcanico Dopo aver annullato il tour europeo per troppo perfezionismo, Zach Condon cerca di consolare i fan con questa nuova uscita, che in qualche modo prosegue sulla linea della “stranezza” che contraddistingue il percorso del cantante: non di un nuovo album si tratta, infatti, benché la durata alla fine sia quasi quella, ma di due EP pubblicati insieme, col secondo attribuito a Realpeople, lo pseudonimo con cui il nostro pubblicava musica elettronica. Due facce dell’autore, quindi, rese in teoria ancora più distanti dal fatto che Zapotec è stato registrato in Messico utilizzando una tipica banda da funerali locale, i Jimenez, inizialmente contattata per la colonna sonora di un film poi annullato. In realtà, non solo le due facce si somigliano più di quanto le premesse farebbero pensare, perché Condon dimostra ancora una volta di saper piegare le sue fonti a sfumature del suo inconfondibile stile, limitando di molto le differenze tra il materiale costruito con 17 elementi e quello fatto col laptop; ma scopriamo anche che il Messico e i Balcani non sono nemmeno così distanti. Eccettuata la breve intro di Zocalo e qualche sfumatura qua e là (My Wife, The Akara in cui l’ukulele mal si distingue da un charango), l’orchestra suona infatti per lo più come le sue omologhe della terra di Bregovic, il cui gruppo si definisce “orchestra per matrimoni e funerali”: una tradizione che attraversa Mediterraneo e Atlantico che Condon armonizza grazie anche a partiture che, come composizione e ritmi (dolenti melodie spesso a tempo di valzer), hanno risentito poco della trasferta pur lasciando più volte ai Jimenez spazi per esprimersi. recensioni / 51 Anche nel secondo cd la penna di Condon mantiene la rotta sulle proprie coordinate (tutto sommato dividere in due il disco non era nemmeno indispensabile), ma l’elettronica si fa sentire un po’ più del Messico: nel finale di No Dice, uno scherzo-omaggio un po’ allunga-brodo, più seriamente nei riverberi Yorkiani della suggestiva, splendida Venice, nei quasi-Offlaga di My Wife… e nell’iniziale My Night… dove si oscilla tra la riconoscibilità dello stile e una rinfrescata sonora ottenuta curiosamente riandando alle sue origini di manipolatore elettronico. Un disco -o due- che vanno avanti tornando indietro, che ritrovano le origini allontanandosi: non tutto è splendido, ma il talento per fare un piccolo miracolo come questo c’è. (6.9/10) Giulio Pasquali Ben Nash / Nautilus – Split (Blackest Rainbow, gennaio 2009) G enere : drone / folk Mi ero letteralmente perso dietro ai ghirigori elettro-acustici di The Seventh Goodbye, edito la scorsa primavera in versione digitale da Aurora Borealis, marchio solitamente dedito ad esplorazioni in ambiti metal più prossimi al decadentismo ambient od al teatro della musica eterna. Ben Nash è cavallo di razza, già da quel confortante album si coglievano i segni di un’ispirazione quasi divina. Musica da western da fine del mondo, un senso inedito di sfida e attesa, pellicole polverose ed una chitarra sempre protagonista. Un po’ Ry Cooder, un po’ Morricone, va da sé, ma con ovvi rimandi a quello che è il cosiddetto movimento weird folk. Perchè i paragoni contemporanei più prossimi non ingannano: in questa spettrale coltre strumentale ci avviciniamo al senso onirico di un Ben Chasny o di un Alexander Tucker. Con l’ovvio desiderio di travalicare l’epopea folk attraverso vibranti escrescenze soniche ed un’ovvia dedizione per il drone. Delle due tracce presentate Plymouth Bredren Blues spicca suprema, affacciandosi anche in maniera mefitica verso il delta e convogliando 52 / recensioni anomale melodie flamenco. Non male nemmeno Interloper/Latch, materia che ufficialmente sarebbe potuta finire negli ultimi dischi di Fahey. Nautilus è invece il progetto solista di Heidi Diehl dei Vanishing Voice/Time Life (siamo nella Brooklyn limitrofa alle storie cantautorali off di Wooden Wand), anche qui arabeschi drone, conditi da una rilevante componente krauta in area Amon Duul II/Popol Vuh. Tre brani, di cui Still Rings appare come personale capolavoro: una psichedelia dei sensi che lascia ben sperare per prove più estese. Vinile limitato a 269 copie. (7.0/10) Luca Collepiccolo Ben Kweller - Changing Horses (ATO, 2 febbraio 2009) G enere : alt country Ricordo Ben Kweller ragazzino al debutto con Sha Sha (ATO, 2002), quella vena balzana e indolenzita, i guizzi genialoidi lo-fi e una certa versatilità che scomodarono link più o meno immediati con Badly Drawn Boy, paragone illustro visto che all’epoca il buon Damon Gough veleggiava alto tra i favori e le aspettative di pubblico e critica. Accolgo quindi questo Changing Horses - quarto lavoro per Mr. Kweller - con la colpevole mancanza di aver saltato a pié pari l’omonimo terzo lavoro del 2006, forse inconsciamente scoraggiato dal discreto sophomore On My Way (ATO 2004) che lo consegnò al rango dei più, ovvero ad una medietà carina, a tratti intrigante ma abbastanza ovviabile. Scopro così con un pizzico di sorpresa che l’ex giovane Ben - oramai ventisettenne, praticamente decrepito - tenta la carta del country, col fare inevitabilmente “alt” che proviene da un approccio vagamente sbarazzino alla materia. Fermo restando il rispetto di norme e forme, a partire dalla line-up, composta da lui a chitarra, piano e voce, dai fedeli Chris Morrissey e Mark Stepro a basso e batteria (drums), più il bravo Kitt Kitterman ai ricami di dobro e pedal steel. Insomma, diavolo d’un Ben: è ovvio che così mi frega. Per forza finisco con l’affezionarmi ad una Old Hat col suo ciondolare struggente Wilco, al rigurgito vaudeville di una Sawdust Man, ai languori spersi di Ballad Of Wendy Baker (stiepiditi da un refolo d’archi), all’asciuttezza Dylan di Wantin’ Her Again o ancora a quella Hurtin’ You come potrebbe un Malkmus qualora lo cogliesse il morbo Gram Parsons. Detto ciò, Kwelle è lungi dal sembrarmi un artista imprescindibile. Facciamo che ha saputo muovere con genuina arguzia le pedine giuste. Nulla da rimproverargli. (6.4/10) Stefano Solventi Black Eyed Dog - Rhaianuledada (Songs To Sissy) (Ghost Records / Audioglobe, 22 gennaio 2009) G enere : cantautorato folk - blues Non nascondo di provare una certa curiosità per Fabio Parrinello, cosmopolita o apolide non saprei bene (nato a Varese, cresciuto tra Londra e Los Angeles, attualmente domiciliato a Palermo), uno che si nasconde dietro ad un moniker sfacciatamente drakeiano salvo poi disimpegnarsi più che altro in direzione Tim Buckley, uno che dopo i consensi ricevuti dall’esordio Love Is A Dog From Hell (Ghost Records / Audioglobe, aprile 2007) si è mediaticamente eclissato, magari per covare con le dovute attenzioni il qui presente successore Rhaianuledada. Nel quale vengono perlopiù abbandonati i buckleismi vagamente freak dell’esordio in favore d’un cantautorato intimista, cupo e appassionato, sorta di versione schiva di un Goodmorningboy oppure un Josh Ritter problematico. Da un certo punto di vista si tratta di un’implosione, un rifugio morbidamente claustrofobico, però non fai in tempo a sentirti soffocare che le melodie e l’essenziale lirismo degli arrangiamenti tracciano feritoie da cui soffiano refoli romantici e tutto sommato consolatori. Capita nel passo frugale di All 4 You, dove la fisarmonica è una carezza frugale, oppure tra le brume tenere di I Got You In con la tiepida benedizione del violino, e ancora nel soffice guaire dell’armonica nella dolciastra Daly Suicide, nella lunare The Way To My Heart con quei cori da Will Oldham cherubino, per non dire di quella Salina’s che tra pianoforte e clarinetto sbriglia un piglio da Lanegan ingentilito e controcanto efebico quasi Rufus Wainwright. Il tessuto s’increspa complicandosi in Honeysuckle Gal (delirio piratesco da Devendra Banhart waitsiano), concedendosi fregole jazzy nell’iniziale Roses (con un piano quasi Paolo Conte) e masticando certe ugge inafferrabili vagamente Peter Hammill nella notevole Drink Me (le elettroniche a perturbare la trama di chitarre, piano e percussioni). Alla fine resti appeso ad un senso di sedazione emotiva che appiana ogni escursione, allestendo un giaciglio forse un po’ monotono e schivo ma ugualmente - e stranamente - affettuoso. Non parlerei di una crescita, ma di un riposizionamento poetico che conferma Black Eyed Dog tra le più interessanti realtà indie nostrane. (7.1/10) Stefano Solventi Boozoo Bajou - Grains (!K7/Audioglobe, febbraio 2009) G enere : post downtempo L’effetto che restituisce l’ascolto di questa nuova fatica della coppia tedesca ha del paradossale: richiama alla memoria la breve e felice stagione in cui esplosero trip-hop e downtempo, che prima di trasformarsi in salottiero sottofondo buono per i centri estetici qualche bel disco fecero in tempo a consegnarcelo. Sembra, insomma, di leggere oggi una missiva che doveva esser spedita un decennio e recensioni / 53 rotti or sono per avere reale consistenza, per suscitare le emozioni che chi la scrisse aveva in mente. Alla prova dei fatti risulta difatti interessante il loro approccio moderatamente trasversale alla materia volto a fare cosa sola di elettronica e jazz, soul e latinità, slarghi dub e inquietudini post: il problema sorge nel momento in cui realizzi che di calendari dal muro ne hai frattanto staccati un bel po’. Va difatti benissimo omaggiare e in parte aggiornare gli Everything But The Girl di Eden tramite la delicata Messengers e genuflettersi ai Michael Brook e Daniel Lanois del caso nel sentire cinematico di Fuersattel e nelle tensioni “noir” di Kinder Ohne Strom e Big Nicks; assai meno l’aver trattenuto di Isaac Hayes la buccia e non il frutto, oppure perdersi dentro talune eccessive gassosità del tipo che l’ambiente lo riempiono senza riuscire a crearselo intorno. Accade giusto in un paio di episodi e si deve tenerne conto, frattanto aggiungendo sul piatto le title-track e le Same Sun più realiste del re nel loro rifarsi ai primi Air. Se poi tra gli invitati alla festa sbucano fuori anche Kruder & Dorfmeister e sotto bracci recano la glassa sinuosa e suadente che li fece famosi, converrete che Boozoo Bajou di talento puro non ne hanno poi molto. Piuttosto abbiamo a che fare con artigiani valenti e moderatamente abili, dal discreto gusto e tecnica adeguata. Prendendo spunto dai “what if ” resi celebri da Philip K. Dick, viene da pensare cosa sarebbe accaduto se Grains avesse visto la luce nel 1998. In questa epoca confusa e indecifrabile, pur convincendoci abbastanza, ci diciamo certi che non potrà lasciare segni di rilievo. (6.6/10) Giancarlo Turra Bruce Springsteen - Working on a Dream (Columbia, 27 gennaio 2009) G enere : folk rock Non è certo per mera convenienza che il Boss si sta prestando ad uscite tanto… sconvenienti. Perché lo dico subito - Working on a Dream è un brutto disco. Spompa e confusa l’ispirazione, affogata tra arrangiamenti che tendono inevitabilmente a 54 / recensioni “stroppiare”, pensando bene di sconcertarti fin dall’iniziale Outlaw Pete coi suoi scivoloni morriconiani. No, l’onestà dell’uomo e dell’artista non la metterei in discussione neanche sotto tortura. Se Bruce inciampa in questo presenzialismo frettoloso credo sia per generosità, un volerci essere ad ogni costo in un momento tanto critico ma anche esaltante per il Paese che da sempre è sfondo, premessa e struttura della sua poetica. Accadde già con quel The Rising (2002) che spezzò l’astinenza discografica in vigore dall’ottimo The Ghost Of Tom Joad (1995), affogando nello tsunami retorico post-undicisettembre malgrado una scrittura tutto sommato energica, intensa, vibrante. Oggi, nel ventre cetaceo della depressione, Springsteen chiama a sé i ragazzi della E Street Band per soffiare tutti assieme sul fuoco della speranza Obama. Anzi, più che una speranza un sogno, scenografia e orizzonte che ahinoi non possiede bordi abbastanza robusti per contenere l’esondazione appiccicaticcia del sentimentalismo canzonettaro buonista e proattivo (Kingdom Of Days, la title track, Surprise Surprise, Queen Of The Supermarket...). Quando ti va bene ti becchi una My Lucky Day che potrebbe essere la sorellina di My Love Will Not Let You Down, una Tomorrow Never Knows rannicchiata tra placidi vapori mariachi e quella The Wrestler (bonus track che avrete già sentito nei titoli di coda dell’omonimo film) che sgrana una dignitosa ballad a fari bassi e cuore pieno delle sue, mentre Good Eye è degna di nota giusto perché anomala con la sua robotica frenesia country-blues. Insomma, sembra la soundtrack di una terapia di recupero collettiva. Mi fa venire il disagio, voglia di alzarmi e salutare. Speriamo almeno che serva a qualcosa. (4.5/10) Stefano Solventi Burning Hearts - Aboa Sleeping (Shelflife, 10 febbraio 2009) G enere : indie pop Supponiamo ordunque che l’electro-pop malinconico, garbato, trepido, nostalgico ma a suo modo ostinatamente proiettato in avanti, possieda proprieta terapeutiche. Un lenitivo per il malanimo che sempre più spesso accompagna i nostri giorni saturi di troppe cose a perdere. Supponiamolo. Ecco, casomai oserei dire che i Burning Hearts duo finnico formato dalla cantante Jessika Rapo e da Henry Ojala, polistrumentista già nei Cats On Fire - stemperano nel debutto Aboa Sleeping il suddetto principio attivo, con la competenza un po’ scostante dei farmaci generici, cui comunque finisci per tributare la giusta fiducia. Del resto, la confezione calda ed essenziale testimonia l’onestà del contenuto, che l’infermiera Jessika ci propina con setosa autorevolezza, mentre il dottor Ojala si disimpegna tra scaffali Stereolab (A Peasant’s Dream) e provette New Order (I Lost My Color Vision), distillando morbidezze Lali Puna via Belle And Sebastian (Iris), concedendosi omeopatie Bowie (una We Walked Among the Trees che ammicca Ashes To Ashes) e Kraftwerk (l’angelicamente frigida The Galloping Horse), per poi planare su una title track col passo delle ballad importanti, coprendo d’amblé la distanza tra certe ugge Delgados alle utopiche elevazioni Air. Un disco non esaltante ma buono. Io comunque lo preferisco al Prozac. (6.7/10) Stefano Solventi Camera 237 – Inspiration Is Not Here (Foolica, 13 febbraio 2009) G enere : post - rock Verrebbe da parafrasare il titolo del disco per tagliar corto sulle scelte stilistiche “un po’ attempate” e in qualche caso prevedibili dei Camera 237. Verrebbe da parafrasarlo ma sarebbe non rendere merito a musicisti che sanno comunque come suonare credibili e almeno in qualche frangente, spiccano per lucidità. Un paradosso? Forse, ma che riteniamo di poter risolvere in questa sede, in primis passando in rassegna i principali caratteri della proposta musicale della band cosentina. Su tutti, quelli tipici di un “dopo-rock” corposo e solido che tornano alla ribalta ciclicamente, negli arpeggi insistiti, nelle porzioni strumentali elaborate, nelle complessità dei fraseggi. Una formula che come da ultimo aggiornamento del Prontuario del perfetto post-rocker, vive di veloci cambi di passo, contempla qualche sprint al fotofinish, cerca di rinnovarsi richiamando estetiche che poco hanno a che vedere con l’ortodossia e molto con il carattere, per lo meno nelle intenzioni. Nei fatti ci si imbatte in episodi elettro-acustici di pregevole fattura (la title-track) come in ampollose lentezze in saturazione (If You Are Tired, Don’t Risk), apprezzabili progressioni in controtempo (New Song) e derive strumentali lasciate alla corrente (elettrica) (Caracol), in un tira e molla che ha certo il pregio di non annoiare ma anche il difetto di non suscitare sbalzi emotivi significativi. Mestiere e entusiasmo rendono il prodotto finale apprezzabile e tutto sommato onesto, pur correndo il rischio di farlo passare in più di un’occasione per un esercizio di stile che piace alla gente che piace, gratifica chi ci si è impegnato – al secondo episodio discografico della carriera - ma fatica a lasciare un segno profondo. (6.7/10) Fabrizio Zampighi Camouflage - Live in Dresden (Synthetic Symphony / Audioglobe, 19 gennaio 2009) G enere : techno pop Esiste da sempre un pregiudizio di fondo nei confronti del techno-pop, che nemmeno gli sdoganamenti ripetuti di Depeche Mode, Pet Shop Boys, Heaven 17 e chicchessia tra i maestri del genere non sono ancora riusciti a scalfire fino in fondo. Che, insomma, si tratti di materiale vacuo e “commerciale”, privo di spessore e peso specifico. Come se, attenendoci al rock duro e chitarre, Bon Jovi e i Queens Of The Stone Age recensioni / 55 fossero la stessa cosa. Non è per fortuna così e lo sappiamo bene, benché talvolta incappiamo in personaggi che poco (cioè molto) fanno per procurare ai detrattori prove a carico della loro tesi. I tedeschi Camouflage traggono il nome da una canzone dei Yellow Magic Orchestra, e pare rappresentino da anni una delle band di synthpop più importanti sulle scene. Devono avere un pubblico comunque folto se si permettono il lusso di uscire con un mammut come questo - cd audio più dvd con più brani e ulteriore dischetto con tutti i video - oppure, in caso contrario, nessuno si è premurato di dirgli che sulla carta d’identità non hanno scritto Gahan o Gore. Eh, sì, perché quello è grossomodo l’ambito in cui ci si muove: quello per l’appunto di un techno pop che vorrebbe avere impatto rock senza epica e ridondanza. Il problema del quintetto è che tra le sue fila non vanta un’ugola carismatica, uno scrittore capace di conciliare immediatezza ed eleganza, uno che arrangi i brani senza che gli anni Ottanta sfocino nel 1993. Finisce che afferri l’apparenza e del genere restituisci un’idea tra stadio e alternative club di provincia, al cui confronto i Subsonica paiono gente da prendere tuttora sul serio. Arrivare alla fine della maratona è stata fatica che al sottoscritto ha richiesto numerosi e ripetuti passaggi di The Luxury Gap e The Hurting per ossigenare i polmoni. (5.0/10) meno virtuosa delle due artiste citate in apertura, potrebbe rientrare a grandi linee in questa tradizione, visto che con The Deep Blue confeziona un disco fortemente interessato alle stratificazioni sonore (Behave), attratto dalle linee armoniche inconsuete (Roll Over), affezionato alle vaghezze soffici della voce (Dawn Treader). Con in più il geneticamente modificato delle chitarre elettriche (I Wan’t You To Know e Very Young) e della psichedelia (Love’s Young e Dream, Be Thankful), a vergare a caratteri cubitali un proposta finemente arrangiata e, in qualche caso, piuttosto energica. Del resto non potrebbe essere altrimenti, visto che stiamo parlando dell’ex chitarrista degli Ash, qui al secondo disco della sua neo-carriera solista. Una che oltre ad aver già le idee chiare sulla direzione da prendere, coinvolge in fase di produzione figure d’alto profilo come Rob Ellis e Eric Drew Feldman (ex Captain Beefheart’s Magic Band) e sceglie come co-autore in Dawn Treader Andy Partridge degli XTC. Tutti segnali da interpretare, per un’opera che arriva in Italia soltanto ora nonostante una pubblicazione inglese risalente al 2007. (7.1/10) Giancarlo Turra La transizione della scena tradizionalmente definita garage-punk, americana quanto europea, verso certe sonorità anni ’80 è ormai cosa consolidata. Se ce ne fosse bisogno, ecco qui un’ulteriore prova di questo passaggio di testimone. Molte band e progetti solisti si sono prodigati negli ultimi tempi nella produzione di materiale dai connotati smaccatamente e volutamente wave: Mike dei DC Snipers con Blank Dogs, gli Homostupids con Factory Man (tra l’altro artefici di un ottimo 7’’ su My Mind’s Eye) fino al nuovo progetto di Erin Sullivan (cantante e chitarrista negli A-Frames) a nome Rodent Plague, il cui singolo d’esordio è uscito da poco su Kill Shaman. E proprio dal famigerato asse A-Frames/Intelligence/ Charlotte Hatherley – The Deep Blue (Little Sister, 2007– Red House Recordings, 2009) G enere : pop - rock Ultimamente sono sempre di più le musiciste che si cimentano in una rielaborazione del pop in chiave personale e innovativa. Vengono in mente, solo per fare un paio di nomi, St. Vincent e My Brightest Diamond, entrambe capaci di unire una vena melodica suadente ad arrangiamenti strutturati e difficilmente etichettabili. Charlotte Hatherley, pur essendo inglese e tecnicamente 56 / recensioni Fabrizio Zampighi Children’s Hospital – Alone Together (Sacred Bones, dicembre 2008) G enere : wave industriale Highlight Andrew Bird - Noble Beast (Fat Possum / Bella Union/ Cooperative Music, 13 febbraio 2009) art folk La continuità dell’incanto, più che la sua intensità, ci convince del fatto che Noble Beast è - e probabilmente sarà - il capolavoro di Andrew Bird. Col quinto album da solista non fa che raccogliere quanto seminato nel suo frugale orticello, e siccome il nostro musicista chicagoano da sempre professa il culto della biodiversità sonora, ne viene fuori un raccolto variegato, ricco, persino robusto nella generale morbidezza del tono. Rispetto alle prove del passato sembra semmai più accorta la gestione del canto, tenuto al guinzaglio delle necessità espressive che pezzo dopo pezzo indagano con frugale gravità il mistero, la meraviglia e la miseria del fattore umano. La scrittura invece è di quelle... nobili, sposandosi alla misurata brillantezza di arrangiamenti che, innervati su mai eccessive evoluzioni di violino, conferiscono abiti trepidi e setosi, un carosello discreto e ipnotico di fiabesche tensioni (Anonanimal e Nomenclature, con le apprensioni acustiche Kozelek contagiate di languori Rufus Wainwright), di bucolico abbandono (la fatamorgana Al Stewart/ Brian Wilson di Oh No), di esotismi fragranti (l’incalzante Fitz And The Dizzyspells) e randagi (la bossa onirica di Masterswarm, lo sdilinquimento post moderno di Not A Robot, But A Ghost). Altrove predomina il battito traditional, appena carezzato da una verve freak, come in quella Tenuousness come potrebbe il nipotino garbato e arguto di Paul Simon, come in una Effigy scaldata dal tepore Gram Parsons (con la brava Kelly Hogan a fare la Emmylou Harris della situazione), o come quella Natural Disaster che incede docile e grave come il Beck di Sea Change. Volendo individuare l’apice della scaletta, punteremmo l’indice verso Souverian, sorta di mini suite che parte come milonga da front porch e poi trascolora in un camerismo pervaso di languori coloniali, magnifico il ritornello, ineffabili le ambientazioni all’insegna di scenografie incantevoli e spossate. Inevitabile tirare in ballo il luogo comune della maturità, che Andrew Bird sta vivendo con la pienezza tipica di chi ha molto da dire. (7.5/10) Stefano Solventi AFCGT giunge, inevitabilmente su Sacred Bones, il primo LP dei Children’s Hospital, nuova formazione nata sotto il grigio cielo di Seattle; accantonate le chitarre, o almeno poggiate momentaneamente in un angolo, si estraggono synth, tastiere e archeologia tecnologica avariata per dar vita a meccaniche nostalgie analogiche, salvo di tanto in tanto riesumare il fantasma del proprio passato con riff che lasciano intravedere una minima continuità (Unseen). Il passaggio, va detto, è indolore e in alcuni punti è anche recensioni / 57 decisamente compiuto (Preschool Of Atonement, If You Find Me I’m Here); tuttavia a volte tuttavia alle volte i nostri si lasciano sedurre da scorciatoie compositive che, più che agevolare, rallentano il percorso (After the Aftermath, Blue/Green Algae). Certo è che questo è solo il primo lungo passo nella direzione di quella wave-proto-industriale di cui furono, a loro tempo, fulgidi testimoni atti come Cabaret Voltaire, Throbbing Gristle e Factrix e i pezzi posti a chiusura di entrambi i lati lo dimostrano egregiamente. Tuttavia , pensando ad esperienze più navigate in questo ambito, si insinua il dubbio che non si sia voluto tentare troppo in fretta un traghettamento non sempre così naturale come si potrebbe presupporre. (7.0/10) Andrea Napoli Circus Devils – Ataxia (Static Caravan, 2008) G enere : low - fi Oltre alla prolifica e discutibile carriera solista, Robert Pollard continua a portare avanti, più o meno con lo stesso ritmo (ma con esiti senz’altro più interessanti) il progetto Circus Devils. Se c’è qualcosa ancora degno del passato dell’ex Guided By Voices, va cercato proprio nelle uscite di questa band che, seppure con qualche riserva, è riuscita ad esprimere finora le sue (attualmente) migliori idee musicali. La caratteristica del musicista dell’Ohio (quando è in forma) è quella di riuscire a comporre su due piani, navigando nell’underground rock americano senza tuttavia esimersi dallo strizzare un occhio a piacevoli melodie. Quando riesce a mantenere il giusto equilibrio tra questi due diversi approcci alla composizione, Pollard dimostra di meritare le lodi del passato. Ataxia è un disco complesso, ma anche molto coerente del suo predecessore. C’è qui un’intenzione di osare mai ascoltata prima, di spingersi fino alle soglie della psichedelica, del noise rock (Nets At Very Angle) e della new wave , sfociando addirittura nel dark ambient di I Found The Black Mind e Fuzz In The Street. Se evitasse le sdolcinatezze alla He Had 58 / recensioni All Day e qualche tocco di banalità, sarebbe proprio un gran bel disco (7.0/10) Daniele Follero Cristopher McFall – The City Of Almost (Sourdine, 2008) G enere : minimalismo - ambient Andando oltre l’hic et nunc dell’aneddoto, i fields recordings di Cristopher McFall si fanno strumento di rilevazioni urbane. Linee narrative in quattro tracce ed un’unica direzione di studio, una città del Kansas un tempo molto prospera colpita con il passare dei decenni da un evidente stato di degrado urbano. Una lettura sonora che cela l’origine di registrazione sul campo per concedersi ad un elegante estetica digitale, deteriorata in claustrofobiche stratificazioni (Slow Containment) o esposta agli oscuri temi centrali di drones (One of several possible endings). A colpire è l’accostamento al luogo, documentato dalle partiture che restituiscono l’evolversi del luogo dispensando di esso immagini vivide. E’ tangibile l’essenza temporale, nelle ariose decostruzioni in interferenze di Requiem for Troost (dovuto omaggio al quartiere e al suo centrale Viale Troost) o tra le estensioni in fondali dal sapore vinilico che accompagnano trame oblique e microcosmi campionati (Al parts contained). Disco figlio dell’era post-industriale, a metà strada tra antropologia sonora e soundscape. (6.8/10) Sara Bracco dälek – Gutter Tactics (Ipecac, gennaio 2009) G enere : doom - hop Dopo che certe fasce dubstep hanno virato verso il modernismo techno, ci mancava un po’ di realness. Se i generi subiscono inevitabilmente il destino dell’eterno ritorno, il duo composto da MC Dälek e dal produttore Octopus torna a parlare di doom ed è come una risposta alle fascinazioni banghra di gente come Dusk+Blackdown, a tutte quegli etno velluti escapisti ai quali occorre un fermo no con la crisi a caldo che ci brucia ogni giorno più il culo. Poi è come se fosse la prima volta, come se la Anticon non ci fosse mai stata, come se i cLOUDDEAD non fossero mai esistiti. Rivisitando si cresce, si tirano fuori quei drones cupi ereditati dai Sunn O))) e dai Melvins e il deja vù sorprende. In poche parole: hip-hop is here to stay. Ovviamente mutato da una sensibilità trasversale che dal 2002 accompagna il percorso compositivo dei rappers dal New Jersey e che ancora una volta ci fa capire come il mesh sia d’obbligo. Ma non solo suono. Cavalcando le roots ci si va anche di scalpello sul testo. In direzione contraria al mainstream, che si dimentica del sociale e del politico, in un momento come questo è sempre più doveroso ripescare la lezione dei sempreverdi Public Enemy. Parola d’ordine: cattiveria. Già dall’iniziale Blessed Are… si parla di quello che sta accadendo da sempre: conquiste in nome del dio denaro che non guardano in faccia a niente e a nessuno, travalicando confini e diritti. La verve engagé risuona poi nei colpi apocalittici di Los Macheteros e nelle bordate che attraversano in stile Wu Tang Clan l’intero album. Cose che non si sentono più, dischi come questo ci fanno stare male, ci fanno incazzare. Senza sballo, una cosa che viene dall’anima, un sentimento che nel rock avevamo sperimentato nei pogo dei RATM. Qui l’hip-hop ritrova la sua possibilità di riscatto con una straightedgeness che suona nuova, sporcata da mille effetti e disorsioni, imperfezioni che arricchiscono e che sono sempre più necessarie per descrivere la (vita di) strada. Respect.(7.5/10) iniziava a stare stretta al caro Dan Auerbach, al cui estro solistico ha quindi giustamente pensato di concedere un po’ di spazio. Debutta quindi in solitario con questo buon Keep It Hid, fedele al verbo dei Keys coi contorni lasciati però sfumare, così come la direzione delle parabole espressive, che si rannicchiano tra folk ballad acidule e si spampanano tra svaporate psych, ora tirando per la giacca i fantasmi del blues col ghigno elettrico (I Want Some More), salvo poi grattare la pancia alle fatamorgane della nostalgia fifties. La calligrafia è diretta come da copione (arrangiamenti essenziali, col piccolo aiuto di pochi amici), prevedibile come da rituale, credibile perché convinta fino al midollo di fare quel che fa, ragion per cui piuttosto che lasciar prevalere l’effetto sferzante ma catchy alla maniera di certi White Stripes, lo senti vicino al piglio roccioso d’un Lanegan (Street Walkin, The Prowl, la quasi waitsiana title track), anche per la tenerezza (Whispered Worlds, canzone scritta dal padre) e l’obliquità (When I Left The Room) con cui rimastica certe situazioni Gun Club. Certo che quando Dan spinge sul pedale del white soul (come una Real Desire che è quasi i Creedence di Long As i Can See The Light) o della ballata carezzevole (una When The Night Comes cantata assieme a Jessica Lea Mayfield) il discorso cambia, per non dire di quando si disimpegna sbrigliato e lirico rammentando il Devendra Banahrt ultima versione (My Last Mistake) e quello delle reminiscenze arcaiche (Goin’ Home). Come dire, siamo chiaramente in presenza di un autore versatile e versato in quella che per semplificare chiameremo Americana, come già chiarisce in apertura quella Trouble Weighs A Ton che non sfigurerebbe nel repertorio d’un Will Oldham, così per dire. Non un disco sorprendente, ma comunque una bella sorpresa. (7.0/10) Marco Braggion Stefano Solventi Dan Auerbach - Keep It Hid (Nonesuch, 10 febbraio 2009) G enere : blues rock Dead Letters Spell Out Dead Words – Lost In Reflections (Release The Bats, gennaio 2009) G enere : post - rock / shoegaze / elettronica La formula Black Keys - tanto collaudata quanto efficace, ma invero un po’ ripetitiva - probabilmente Dead Letters Spell Out Dead Words è lo pseudorecensioni / 59 nimo dietro cui si nasconde Thomas Ekelund, artista visuale e musicista di Gothenburg, e Lost in Reflections è il suo ultimo disco. I luoghi esplorati nelle sue composizioni sono le stesse terre gelide e brumose che hanno fatto la fortuna di gruppi come Sigur Ros. Ma se la musica degli islandesi sembra essere soltanto una sfocata concessione del loro mondo – troppo alieno da capire, troppo distante da descrivere in titoli o parole – Ekelund vuole invece condividersi apertamente, sin dalle dichiarazioni riguardanti il ruolo avuto dalla sua malattia (un disturbo della personalità) nella gestazione dell’album. Anche la sua musica in qualche modo vuole mostrarsi vicina. I lunghi tappeti ambientali, gli sconfinati riverberi, sono graffiati da piccoli suoni, glitches digitali, sfrigolii elettrici di vinili polverosi, come se volesse mostrarci i suoi luoghi attraverso le diapositive di un vecchio proiettore scrostato. Riducendo cioè il viaggio a una dimensione più domestica, quindi più accessibile. Highlight Harmonic 313 – When Machines Exceed Human Intelligence (Warp, febbraio 2009) glitch - electro - hop Mark Pritchard ritorna su Warp. L’uomo ����������������� mezzo Global Communication si rifà il trucco e fa parlare di sé. Con questo album che è un tornare alla meccanizzazione, alla visione kraftwerkiana (guardate i video e gli artwork del sito) tutto però sporcato di break nero. E quindi di storia hip-hop. Una cosa così non te l’aspetti. Non ti aspetti che la proposta sia coinvolgente e a tratti squassante. Perché il ritorno sulla scena molte volte è un riproporre cose già dette senza pensare alla patina di polvere che hai davanti agli occhi. Qui si ripropone, ma con uno stile che è da archeologia 90. E in questo inizio anno capiamo che più avanti si va, più gli occhi sono rivolti all’indietro. Ce l’avevano già detto su altri lidi gli O.R.B. e gli Autechre. I vecchi suoni sono lì, ma chi saprà usarli a dovere? C’è ancora qualcuno che riesce a cavalcare le sterminate praterie ambient senza copiare Aphex T.? Sì, ascolta Köln e poi dimmi se il mago del synth ci ha spiazzato o no. C’è ancora qualcuno che sa parlarti col vocoder e distruggerti con una base glitch à la Space Invaders? Sì, ascolta Word Problems. Che lesson. Ci sono ancora quei bei break che sentivamo dalle parti dei Beastie Boys? Vediti il riff di Battlestar e poi muori. C’è ancora qualcuno che ricorda in modo degno la cultura a 8 bit? Cyclotron C64 SID sì. E avanti così. I rimandi sono infiniti, ma non sono nostalgia sterile. Qui si riparte per nuove avventure nella matrix gibsoniana. Le guerre stellari le vedremo tra un po’ di tempo, quando capiremo che i teen del dubstep sono troppo concentrati a sfornare singoli che durano solo una notte di nerdy videogaming sfrenato. Chi invece ha la forza di prevedere il futuro va oltre il tempo. E questo, cari amici, è uno di quei dischi. Che voi siate Bad o no.(7.7/10) Marco Braggion 60 / recensioni Ad introdurre il disco è la semidensa progressione chitarristica di This Room Seems Empty Without You, ma nei brani successivi le atmosfere si fanno più rarefatte, le strutture sempre ascensionali, ma la tensione non arriva mai a sciogliersi come accade ad esempio nelle distensioni tipiche del post-rock di Mogwai o Explosions in the Sky. A chiudere Himmelschreibenden Herzen, la traccia più cupa, forse quella che meglio trasmette la frustrazione di cui Ekelund fa riferimento nelle sue dichiarazioni. Le parti più riuscite sono però quelle che fanno da cornice al nucleo dei pezzi: le lunghe scie di elettronica statica che introducono o concludono i brani. Quando a prevalere sono piccoli suoni quasi quotidiani, in cui riconosciamo l’intimo silenzio dei luoghi domestici. Fruscii, sospiri, magri feedback, hum di elettrodomestici, dettagli spesso ignorati o sommersi da conversazioni futili, televisori prepotenti, decibel sprecati nel chiasso degli spazi affollati. Non so se riesce appieno a comunicare le sue sensazioni, ma sicuramente riesce a creare il miglior luogo possibile in cui si è disposti ad ascoltare. (6.8/10) Leonardo Amico Dente – L’amore non è bello (Ghost, febbraio 2009) G enere : canzone d ’ autore Quale data migliore del 14 febbraio per uscire con un album intitolato L’amore non è bello? Già da questa bizzarra scelta, intuiamo fin da subito che la vena ironico-lessicale di Dente, ben espressa anche nei suoi primi due album, è lungi dall’inaridirsi, anzi. Ciò che invece viene smarrito per strada, per una volontaria scelta artistica, è quell’approccio lo-fi che faceva da perfetto contraltare alle liriche del Nostro. Dobbiamo ammettere che infatti questa sua terza fatica ne risente non poco di siffatta virata stilistica, perdendo in spensieratezza. Però dobbiamo dargli atto del suo coraggio di non ripetersi: molto probabilmente un clone di Non c’è due senza te avrebbe stancato e non gli avrebbe permesso di fare il salto di qualità. Cosa che non succede neanche con L’amore non è bello, però almeno esso è da considerarsi come un album di transizione che lascia speranze per il futuro. I riferimenti sono sempre i medesimi: Battisti e tutta la canzone d’autore pop anni Sessanta. Alcuni brani risultano fin troppo monotoni e piatti nella loro nuova e più elegante veste strumentale, altri invece incidono sublimi e delicate linee melodiche che si conficcano in testa senza più uscirne, grazie anche a delle liriche sempre ironiche e suggestive. Dente avrà tutto il tempo di maturare, per ora un più che meritato (6.5/10) Andrea Provinciali El Cijo – Bonjour My Love (Still Fizzy, ottobre 2008) G enere : folk - blues Se non ti conoscono che quattro gatti e te ne esci con un disco d’esordio con sedici tracce in scaletta, o sei un giocatore d’azzardo o sei uno che crede che le “logiche di mercato” siano una delle ultime punk band al femminile scoperte da Pitchfork. Non ci sono mezze misure. In tempi in cui anche un Ep sembra troppo lungo, in un’era discografica logorroica e dispersiva come la nostra, spiattellare in un’ora di musica micro-frammenti da un minuto come divagazioni da sei sperando di farsi apprezzare da scribacchini perennemente in ritardo sulla tabella di marcia, equivale a puntarsi una rivoltella alla tempia. Basta un nonnulla per far partire il colpo. Gli El Cijo ne sono consapevoli, dimostrano una fiducia incrollabile nelle loro capacità, fanno per un po’ gli equilibristi sul filo ma alla fine se la cavano piuttosto bene, se è vero che questo Bonjour My Love non solo non è tempo perso, ma acchiappa pure. Con un tripudio di folk in bassa fedeltà (Blackbird Messenger), blues acustico (Every Woman), vaghezze jazz riconducibili al Tim Buckley più etereo (The Guy Of Yellow Grain), morbidi strumentali (Calamari in frack) che si fa apprezzare da subito, regalando nel contempo raffinate incursioni musicali in territori di confine. Ancona la città di provenienza della recensioni / 61 formazione, chitarre, contrabbasso, kazoo, piano elettrico, fiati e chissà cos’altro la strumentazione, Memphis (Tennessee) il quartier generale per queste registrazioni, per un disco che stupisce e non stanca, nemmeno alla lunga. Le idee, del resto, non mancano, il linguaggio è forbito, la maturità davvero a un passo. (7.0/10) Fabrizio Zampighi trasforma nel tono imprecatorio di un Allen Ginsberg che legge in pubblico (Februaries) o sopra, a sua volta, una band; un tono perentorio ma stralunato nella sua aggressività; come in Bells, dove notiamo quell’intensità di accordo tra carica strumentale e vocale. E tra un voto che inizia per 5 e uno che iniza per 6 propendiamo per il numero più alto. (6.3/10) Gaspare Caliri Enablers – Tundra (Exile On Mainstream, 26 gennaio 2009) G enere : spoken word - post rock È il 2009 e sembra davvero fuori tempo massimo proporre uno spoken word che declama sopra del post rock Novanta. È il 2009 e Tundra è il terzo lavoro del progetto Enablers, ideato da Pete Simonelli – alla voce - e accettato di buon grado dal chitarrista Kevin Thompson. A noi che ci abbiamo tanto riflettuto e scritto sopra il progetto non può che ricordare i Massimo Volume, con la differenza che allora i riferimenti del post oltreoceano erano – diciamo – coscritti, mentre ora sono storicizzati per tutti. Lo si capisce notando l’esperienza e la competenza calibrata di Carriage, con la sua riuscita struttura angolare. Mentre la parentela con la tecnica di Mimì e soci è dirompente, ossimorica rispetto alla riflessività slow-core del pezzo, nella title-track; e non manca nemmeno la catarsi, su cui abbiamo tanto insistito parlando dei MV. È un vortice che ci porterebbe solo a parlare solo della band italiana, non per deplorevole campanilismo, ma per un debito critico che sembra sgorgare come linfa e sangue insieme. Sono però fortunatamente questi i casi in cui prediligiamo le differenze al di là delle somiglianze, e che spesso le differenze sono quelle che “salvano” i nostri ascolti. In questo caso parliamo della caratteristica vocale di Simonelli, un crooning parlato che per occasioni selezionate riesce a trovare un’espressività che non può che giovare al combo post-rocckettaro. I momenti migliori, a tal proposito e dal punto di vista di chi scrive, sono quando il teatro baritonale della cassa toracica di Pete si 62 / recensioni Fauna – Rain (Aurora Borealis / Southern, 2008) G enere : B l ack M etal Si cela dietro un alone di mistero, questa band americana, giusto per far perdere un po’ di tempo prezioso a chi cerca informazioni su Rain, capitolo primo dei Fauna, ovvero il duo formato da Echtra e Vines (tanto per rimanere in tema di storie ed eroi nordici, quando si parla di Black Metal), provenienti dal nordest del Pacifico. Una sola traccia lunga sessantatrè minuti (!). A parte i neanche troppo velati riferimenti alla simbologia nazista e ariana, Rain è la dilatazione estrema di tutti gli stereotipi del black metal di stampo nord europeo: arpeggi in tonalità minore lenti e scheletrici alternati a velocissime accelerazioni, saturazione sonora ai limiti della distorsione, voce strozzata e macabra. Tutto sommato, questo concept album non è il peggio che possa capitare tra le mani: meglio ascoltare il black metal in forma di suite che in un album con 15 brani tutti uguali. Per carità, i contenuti non si discostano molto dalla brodaglia di genere, a parte qualche lunga apertura al doom dei primi My Dying Bride, ma almeno l’intenzione di fare un passo oltre lo stereotipo c’è e si vede. (5.8/10) Daniele Follero Franz Ferdinand – Tonight: Franz Ferdinand (Domino, gennaio 2009) G enere : rock post - p - funk I Ferdinandi alla terza e fatidica prova. Come al solito ci si aspetta qualcosa dal numero perfetto. Poi per le band che escono dal nu-rave quest’attesa è ancora più ricca di curiosità, dato che molti emul-baronetti stanno perdendo mordente (vedi per dirne due Kaiser Chiefs e Interpol). Già. Smalto da irresistibili dandy, brit fab-four style virato amfetamina, mod di ieri e domani cosa? I ragazzi, già vecchi anagraficamente agli esordi stanno riproponendo la più classica delle parabole rock: ci fanno vedere la dark side del loro successo in Ulysses, e ci ricordano la diaspora Beatles-letit-be. Across the Universe non c’è qui, ma nel rifare le origini con i soliti ritmi in levare e qualche aggiunta elettronica di tastiera che varia la ricetta, la dinamica con tutti i se e i ma del caso è la stessa, come in un disco di Bowie metà Ottanta. Capitalizzare il successo è ancora l’obiettivo principale e i singoletti del duca di allora ci piacquero tanto quanto ci piaceranno per un po’ quelli del quartetto di Glasgow. Del resto ci hanno stuzzicato il basso e i synth che pompano uptempo funk nella citata Ulysses e No You Girls. Mica male il ricordo northern soul con gli Hammond in Send Him Away, le atmosfere 80 di Live Alone e - per la prima volta - un accenno di psichedelia mescolata alla acid disco nella sorprendente Lucid Dreams. Tutti ingredienti che ci fanno fare i soliti proseliti per un prossimo disco spiazzante proprio come quello dei Supergrass. L’uso dell’elettronica probabilmente agevolerà i remixatori a sfornare singoletti riempi pista, ma Alex, invece di fare il fighetto, stupiscici la prossima volta. Ne sei ancora capace. (6.3/10) Mar co Br a ggion e Edoardo Bridda John Frusciante – The Empyrean (Adrenaline Music, gennaio 2009) G enere : songwriter Fa sempre notizia John Frusciante in uscita dal gruppo, e dire che con The Empyrean colleziona il suo undicesimo disco in solo, un bottino niente male per un musicista che avrebbe potuto comodamente adagiarsi sugli allori. Che il gruppo madre sia un’attrazione per scolaresche in libera uscita non è mistero, ma non dimentichiamo che prima della penosa svolta arena rock i Red Hot Chili Peppers hanno pur sempre occupato un ruolo di primissimo piano nella cultura alternativa americana. Del resto l’emblematico white funk di dischi come Freaky Styley e Uplift Mofo Party Plan non è cosa da liquidare in due battute. Chi è il Frusciante solista quindi? Un uomo sicuramente innamorato delle sue origini, ma anche un impensabile ed impenetrabile songwriter. Detto che Eddie Hazel dei Funkadelic e Shuggie Otis rimangono quasi un punto fermo nel suo stile, sorprendono la sottile interpretazione di Dark/ Light quasi un’ outtake dal Pacific Ocean Blue di Dennis Wilson; ancor più coraggioso il confronto con uno dei più grandi di tutti i tempi: Tim Buckley. Accedere alle arcane e celestiali volte di Song To The Siren non è esattamente un’impresa trascurabile, oltre al fegato ci vuole il buon gusto, ben intesi. Quando scorre l’apertura psichedelica di Before The Beginning, ci chiediamo davvero se i Funkadelic di Maggot Brain, siano dietro ad una colonna ad osservare in disparte, tanta è l’assonanza col periodo più lisergico della gang di George Clinton. Idee ed intuizioni che al gruppo madre sono venute a mancare in un sol colpo, anche se il commilitone storico Flea è a dar manforte sul disco, sciorinando le consuete ed avvolgenti linee di basso. Non è l’unico ospite di rilievo, visto che Johnny Marr degli Smiths si affaccia con discrezione, forse a causa dei suoi nuovi interessi americani (ha sbancato con i Modest Mouse come rirecensioni / 63 portano le recenti cronache). Di impatto anche la presenza del quartetto d’archi Sonus Quartet che di recente è stato ospite in studio di Sparklehorse e Gnarls Barkley. Lontano è il tempestoso e realmente ‘drogato’ Frusciante del secondo album – Smile From The Street You Hold, sospeso tra fantasmi di Butthole Surfers e Jandek – il chitarrista californiano trova nuovamente la quadratura del cerchio con uno dei suoi più compiuti album di sempre. Chapeau! (6.8/10) interpretare impastandone il senso attuale, quelli passati e - casomai - quelli futuri. Talora le escursioni danzerecce suonano un pizzico inopportune - come quando in Martinsson scompaginano un assolo cameristico di violoncello, un po’ come servire un limoncello dopo un sassicaia – senza però rovinare la buona impressione complessiva. (6.8/10) Luca Collepiccolo Grandmaster Flash - The Bridge (Strut / Audioglobe, 23 febbraio 2009) G enere : hip hop Gadamer - Self Titled (AltriSuoni, gennaio 2009) G enere : electro / avant / jazz Il violoncellista (con fregole elettriche) Zeno Gabaglio e il pianista (con tentazioni sintetiche) Andrea Manzoni avviano questo progetto di avant-fusion omaggiando nella ragione sociale uno dei padri dell’ermeneutica, il filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer, morto nel 2002 ultracentenario non prima però di averci regalato concetti straordinariamente post-moderni come il circolo ermeneutico e la fusione degli orizzonti. Bene, ringraziamo wikipedia e proseguiamo tessendo lodi non sperticate ma abbastanza lusinghiere su un disco che riesce nell’impresa di fondere le allucinazioni cosmiche-ambientali del kraut (Gate) e le palpitazioni avant-jazz di Esbjorn Svensson Trio (Impro 14, Chiara), la fusion davisiana e la techno in odor di IDM (Methode), suonando torva e suggestiva, misteriosa e immediata come la soundtrack di un lungometraggio suburbano, in attesa che il miracolo della natura ci assolva dagli squallidi residui (materiali e spirituali) della ipertecnologia. Tra scenografie assorte e claustrofobiche (Impro 01) e carezzevoli ossessioni sbocciate tra loop e fremiti di violoncello (Orizzonte), tra deep bass ipnotizzati da un impertinente minimoog e barbagli romantici nella caligine androide, ti capita di ipotizzare una situazione in cui Popol Vuh, Brian Eno, Fennesz e Zawinul rilasciano spore semantiche da 64 / recensioni Stefano Solventi Operati i dovuti distinguo di compressione stilistico-temporale, l’effetto è lo stesso. Quello di ascoltare un disco di Jerry Lee Lewis, meglio se circondato da ospiti prestigiosi, in pieno nuovo secolo e con ciò misurare quanto e come il Pioniere di un genere musicale possa ancora dirsi al passo coi tempi. Basterebbe in fondo trovare il Nostro in condizioni dignitose e non ridotto alla patetica macchietta di se stesso, ma pensateci: c’è gente che arriva al primo disco ed già suona risaputa, prevedibile, stantia e non importa se fa rock o hip-hop. Quindi tocca azzerare tutto e cancellare gli appunti dalla lavagna, ascoltare questo disco come fosse un album come gli altri. Chi sia Grandmaster Flash (che come ricordava Deborah Harry in Rapture “is fast”) lo sa chiunque abbia un minimo di infarinatura nel rap e dunque eviteremo di esibirci in scienza dell’ovvio. Quel che ci preme semmai sottolineare è come The Bridge sia - non senza una certa sorpresa - mediamente fresco e godibile, capace di esibire smalto ed equilibrio che difettano a tanti campioni del crasso e del botteghino. Sarà che il parterre è più che semplicemente adeguato (citiamo quasi a caso Q-Tip, Busta Rhymes, KRS-One, Big Daddy Kane…) e i suoni si adeguano, ma una gommosa e subliminalmente krauta Bounce Back, il caramello di Shine All Day e la squadrata però sexy Swagger non Highlight Hjaltalín - Sleepdrunk Seasons (Kimi, febbraio 2009) G enere : chamber pop Sensibilità pop all’ennesima potenza, chamber e orchestrazioni, apparente facilità delle melodie e leggerezza, con lo zampino di Benni Hemmm Hemm e Mum: arriva in Europa a inizio 2009 la band che tanto entusiasmo ha suscitato l’anno scorso nella patria Islanda. L’esordio sulla lunga distanza Sleepdrunk Seasons, che già dal nome (ebbrezza derivata dalla mancanza prolungata di sonno) evoca facilità e rilassatezza, star bene insieme e piacevolezza, non smentisce affatto queste caratteristiche. Immaginate una mini orchestra sinfonica che arriva fino a dieci elementi, aggiungete strumenti non consuetissimi, quali fagotto, tromba, trombone, corno francese e clarinetto, oltre all’usuale armamentario di una band del genere, immettete canzoni con massime variazioni in tempi e mood, strumentali o cantate a doppia voce, con parti in inglese e islandese, aggiungete un’impetuosità lirica ma non barocca come i primi Arcade Fire, una facilità alla melodia e una ottima alchimia di gruppo. Le caratteristiche per creare l’apparente facilità del pop sembrano esserci tutte, unite a un talento per la composizione, ad opera del leader Hogni Egilsson, vocalmente un incrocio tra Jónsi dei Sigur Ros, Antony e Jens Lekman. Il risultato è un gioiellino che unisce una base melodico ritmica beachboysiana con un’orchestrazione variegata, per mini suite orchestrali (Goodbye July) miste a pop song vere e proprie. L’amore per Bacharach o Hazelwood così come per la musica colta è palese; ecco poi Lekman e i Decemberists incontrare le voci e le variegate orchestrazioni degli Steely Dan (Traffic Music), mentre gli ultimissimi Sigur Ros più pop fanno eco alla sensibilità Antony (The Boy Next Door), Non sorprende imbattersi anche nel barocco meno melodrammatico dei canadesi Stars (Debussy, Selur) e nei Belle & Sebastian più malinconici virati Drake (nell’intensa e melodica The Trees Don’t Like The Smoke). Nonché nel pop eclettico degli Hidden Cameras. Ed è impossibile da non citare, arrivati a questo punto per gli Hjaltalín, la complessità di uno come Sufjan Stevens. Se si è già così ben riconoscibili all’esordio, non dovrebbe essere troppo difficile il proseguimento. (7.2/10) Teresa Greco le ascolti ogni giorno; sarà che lo stesso vale per l’irruenza controllata di Tribute To The Breakdancer, per il martello esuberante Here Comes My DJ e per l’oriente immaginato in Those Chix; sarà che le basi sono per ogni episodio fantasiose ed elastiche, pos- senti e ingegnose nonostante l’acqua passata sotto i ponti. Più di tanto al Maestro del Giradischi non si può a ragion veduta chiedere, pertanto non lo faremo. Però, che classe. (6.5/10) Giancarlo Turra recensioni / 65 Hauschka – Snowflakes & Carwrecks Ep (Fat Cat/Audioglobe, Gennaio 2009) G enere : chamber music Ancora una deliziosa offerta da parte del pianista tedesco – con base a Düsseldorf - Volker Bertelmann, compositore a tutto tondo che ha letteralmente trasposto il suo sapere accademico in contesti intimamente indie. Un percorso che per certi versi può rimandarci agli analoghi processi dei Rachel’s di Music For Egon Schiele. Volker che in arte è meglio conosciuto come Hauschka lavora da sempre sulle ampie possibilità del piano preparato ed il nuovo Ep – 7 brani per quasi 40 minuti di musica, quasi a rinnegare il formato merceologico- nasce dalle session del precedente Ferndorf, un album che pur mantenendo la costante ‘minimalista’ introduceva sottili arrangiamenti d’archi e piccole profezie ritmiche. Un fascino per nulla snaturato dal nuovo cimento, che anzi si sposta ancor più con decisione nei meandri della musica da camera, mantenendo un’ affatto trascurabile sobrietà. Prossima alle magie di Penguin Cafè Orchestra e del più riflessivo Philip Glass, la musica di Snowflakes & Carwrecks è puro impressionismo contemporaneo, delizia auditiva che indica al strada – tutta in discesa – per questo talento germanico, partito in sordina nemmeno 4 anni or sono con il debutto – Substantial - per la piccola indipendente Karaoke Kalk. (6.9/10) Luca Collepiccolo Kieran Hebden & Steve Reid – NYC (Domino, novembre 2008) G enere : jazz Terre di mezzo. New York è stata spesso la città che ha visto nascere ritmi e melodie creoli, la sede 66 / recensioni che ha ospitato germinazioni e inseminazioni tra generi, a volte a coppie, a volte misti e improvvisi come una discendenza che si manifesta all’ennesima generazione. La città non può che permeare il prologo alla recensione di NYC - quarto parto della coppia formata dal Four Tet Kieran Hebden e dal batterista jazz Steve Reid -, che a sua volta del resto probabilmente non può fare a meno di metafore di filiazioni e incroci. Per un motivo almeno; i precedenti (tre) dischi del combo erano sì all’incrocio tra le due musiche degli autori, ma giocavano sul terreno fertile e per certi versi neutro del free jazz, dell’impro, e quindi da un certo punto di vista erano più sbilanciate verso quello che dei due fa il jazzista di mestiere. NYC invece cerca altrove; il luogo lo sappiamo dal titolo, il concetto lo si può desumere senza troppe difficoltà; è quel genere musicale che può indicare un punto di tangenza neanche così sottile tra Kieran e Steve; quella cosa che contiene la pulsazione del funk di fine Settanta (1St & 1St) che a volte si suole chiamare mutant-disco, peccando di imprecisione sineddotica; il sibilo dei synth (Arrival); il ritmo fisso dei crescendo; il groove sintetico e grasso (Lyman Place). E pensare che una operazione così chirurgica è il prodotto di soli due giorni di registrazione. Ma non può neanche troppo stupirci la cosa; i due si sono studiati, prestati entrambi a concessioni e prove – quasi sempre soddisfacenti, peraltro; e ora hanno scoperto, guardando verso New York, che a loro due piace anche fare le stesse cose. Né distanti o più vicine più all’uno o all’altro; semplicemente spinti dalla percussività che monta fatta da elettronica e batteria. E sentite la finale Departure; ritmo, pause e ripartenze che esaltano le due parti in causa e ne fanno sentire la reciproca necessità; una sincronia di intenzioni di impressionante efficacia; il brano meno newyorkese forse, quasi continentale, si direbbe qui in Europa; una specie di jazz-motorik four-tetiano; senza troppi giri di parole, un piccolo capolavoro. (7.2/10) Gaspare Caliri Honeychild Coleman - Halo Inside (Come la luna) (Matteite / Venus, gennaio 2009) G enere : cros sover - hop Inizia come una cuginetta arguta di Erykah Badu invalvolata della Bjork altezza Enjoy, prosegue concedendosi fregole indie-rock e strali drum’n’bass, quindi armeggia dense congetture dub, devozioni post-wave e setosi impasti folk-soul come se nulla fosse. E’ il debutto solista di Carolyn “Honeychild” Coleman, versatile artista originaria del Kentucky ma cresciuta tra spasmi punk e club culture nel calderone newyorkese (non stupisce trovare tra le sue frequentazioni i cari Tv On The Radio), dove ha fatto la busker nella metropolitana e la dj, ha dato vita ad una band “afropunk”, ha strapazzato allucinazioni videoartistiche e organizzato festival, finché non ha incontrato Matteo Dainese, già batterista per Ulan Bator, ed è una specie di colpo di fulmine artistico. Il nome della Coleman compare tra i credits di Feed the Dog (Matteite / Venus, 16 febbraio 2007), album di debutto di Dejlight, band allestita da Dainese col bassista dei Tre Allegri Ragazzi Morti Enrico Molteni. Assieme a Matteo Carolyn abbozza l’ipotesi di questo Halo Inside, che vede oggi finalmente la luce. Album che come dicevamo esplora le sfaccettature espressive della ragazza col turgore e la flemma di chi la grinta l’ha smerigliata in prima linea e sa bene come ci si muove a cavallo tra underground e popular. Buona anzi buonissima la prima: grazie ad una scrittura capace di esplorare con sagacia e disinvoltura le forme in gioco, ad una produzione (dell’italianissimo Max Stirner, al secolo Emanuele Fusaroli) che bilancia preziosismi e misura, ad un variopinto parterre di ospiti che porta in dote magia senza invadere la scena (oltre a Dainese, ci sono tra gli altri The Mad Professor nella fragranza dub di Your Idea Of Time, un ottimo Jim “Natureboy” Kelly nella palpitante Never Goin’ Home Again e Robyn Gutthrie nientemeno nell’etera December). Ma l’ingrediente segreto che tutto avvalora è il pi- glio di Honeychild, ovvero la sua voce e il modo in cui la usa per rilasciare un’idea costante di soul stemperato, smorzato, in agguato tra suggestioni estrose e astruse, siano il funk-jazz torvo à la Morphine di Torch Song, sia il folk-psych ombroso della stupenda Molassess, sia la pop-wave trafelata e sognante di Inside, sia soprattutto la techno-funk evoluta di Headlock. Divertente, intrigante, insidioso: un esordio notevole. (7.4/10) Stefano Solventi Hot Chip With Robert Wyatt and Geese – Self Titled (Parlophone Records, febbraio 2009) G enere : remix ep Operazioni del genere, nella maggior parte dei casi, le si riserva e consiglia - vedi ad esempio il nuovo 5 track degli of Montreal – ai fan di stretta osservanza, ma il novello extended play accreditato a Hot Chip, Robert Wyatt e Geese esula l’assunto. Made In The Dark, l’ultimo e indovinato disco degli Hot Chip, ritoccato in quattro dei suoi episodi migliori per mano del sempreverde ex Soft Machine e dalla coppia, al secolo Emma Smith e Vince Sipprell, nota per i servigi in seno all’Elysian Quartet. L’uomo di Canterbury impreziosisce, con un cantato ai margini e qualche orpello di giustezza, la ballad Made In The Dark per poi intervenire in modo voluminoso nella successiva - già molto wyatt-iana di suo - Whistle For Will decorandola di un piano elettrico e di una voce, la sua, che non smetterà mai di emozionare. Il duo Geese interviene in corso d’opera convertendo, ancora con Wyatt presente, We’re Looking For A Lot Of Love in salsa cameristica e privando One Pure Thought dell’originaria patina dance a favore di un recensioni / 67 appeal avant-pop decisamente più accattivante. Per i quanti lo trovassero difficile da reperire (è stampato in edizione limitata), sul sito degli Hot Chip è possibile scaricare gratuitamente le tracce Made In The Dark e We’re Looking For A Lot Of Love. Quando si dice “non avere attenuanti”. (7.5/10) Gianni Avella Hot Gossip – You Look Faster When You’re Young (Ghost / Audioglobe, marzo 2009) G enere : I ndie rock Gli italiani non lo fanno necessariamente meglio, nella fattispecie il rock; ma ogni tanto riescono a pareggiare se non a superare tanti colleghi della stessa nicchia: è il caso di questo gruppo milanese che, con un nome azzeccato da next big thing –apprezzato infatti anche all’estero- e uno stile che pesca nei classici modelli di questi anni (Devo, in questo caso, e altra rock-wave assortita), riesce a tenersi lontano da furberie e facilonerie di tanti “eroi” (per un giorno, o poco più) d’oltremanica. Merito di una grinta che, abbandonati certi furori punk e certe ingenuità del precedente Angles (2006), viene incanalata nel tocco, nel piglio con cui la band affronta ed esegue i suoi pezzi, dando loro quel quid grazie al quale riescono ad usare in maniera intelligente anche qualche fronzolo abusato e a inventarne di tali da vivacizzare anche quelle canzoni apparentemente prive di melodie o ritornelli memorabili o che indulgono troppo al già sentito. Più che il materiale in sé, efficace comunque nelle iniziali Everybody Else e And Again, nel vaudeville di You Better Know e soprattutto negli ammiccamenti Stones-AC/DC della cavalcata Cops With Telephones, è proprio questo tipo di approccio, questa baldanza mentre si ritirano dal troppo ovvio -oltre a una maggiore coerenza e focalizzazione stilistica- che alza questo disco un po’ al di sopra della media odierna e che fa ben sperare per i loro concerti. 68 / recensioni E peccato che non abbiano sviluppato ulteriormente You Name It: finisce, un po’ come il disco, come se avessero staccato la spina. (6.7/10). Giulio Pa s quali Humcrush – Rest At Worlds End (Rune Grammofon, dicembre 2008) G enere : jazz / elettronica Del batterista Thomas Strønen, legato alla scena avant-jazz norvegese, ci è capitato di parlare recentemente a proposito dell’ultima uscita della sua band principale, i Food. Per avere notizie su Stale Storløkken, guardare, invece, nel dizionario della musica scandinava, alla voce Supersilent. Un duo ben rodato, con all’attivo, prima di questo Rest At The Worlds End, già due dischi, entrambi pubblicati dalla Rune Grammofon. A distanza di due anni dall’ultimo Hornswoggle e di quattro dagli esordi, la batteria free di Strønen ritorna ad incontrare le tastiere di Storløkken, in un binomio timbrico piuttosto inedito. Nel caso dell’album in questione, si tratta di una raccolta di registrazioni dal vivo in giro per la Norvegia, improvvisazioni mai pubblicate prima e decisamente diverse l’una dall’altra. I suoni delle tastiere forniscono alla musica un elemento inconfondibilmente electro, cui il drumming si associa, in alcuni casi macinando groove tra il jazz e la fusion (Edingruv; Rest At Worlds End), in altri liberando il ritmo e creando imprevedibili impasti sonori con l’altro strumento (Audio Hydraulic; Creak), impazzendo letteralmente nei conati spastici di Bullfight. Se queste vibrazioni si rilassano, possono sfociare nell’ambient di Airport o nel prog di Solar Sail, in cui le tastiere compiono un tuffo nel passato di almeno quarant’ anni. La creatività dei due, quando riescono (quasi sempre, in realtà) a combinarsi, dimostra di valere per quat- tro, facendo dimenticare completamente la mancanza di un supporto ritmico aggiuntivo: ascoltare la conclusiva Hit per credere. Conclusiva per il cd, poichè la versione in doppio vinile contiene addirittura sette brani in più. Un’altra conferma, l’ennesima, dell’ottimo stato di salute di cui gode la scena avant norvegese, sia in qualità che in quantità. (7.2/10) Daniele Follero Il Pan del Diavolo - Il Pan del Diavolo EP (800A Rec / Malintenti, dicembre 2008) G enere : folk , blues , rockabilly Se è vero che il blues è il “pan del diavolo”, questo duo palermitano lo mastica che è un piacere. Non solo: lo metabolizza, lo trasforma in un ibrido a base principalmente di folk (l’assetto acustico – chitarre, grancassa, sonaglio - è imperativo) e di vita vissuta, fatta di disgrazie quotidiane affrontate con irriverente sberleffo e parodistica, ironica disperazione. Genuinità, spontaneità e freschezza sono le armi più affilate dell’arsenale di Pietro Alessandro Alasi e Gianluca Bartolo: una formula personale che si riversa prepotente ed esplode fragorosa nelle quattro tracce di questo dischetto d’esordio, pubblicazione #1 della neonata 800A Records, affiliata con quella Malintenti già dietro le interessanti uscite di Don Settimo e Toti Poeta. Come nel caso di quei dischi, parlare di “segnali positivi provenienti dalla Sicilia” è semplicemente riduttivo: questa è musica che guarda ben aldilà dello Stretto, pur cibandosi di sensazioni, attitudini, istinti fieramente locali. Vengono in mente tanto i Violent Femmes quanto il miglior Bennato, oltre al quasi ovvio Rino Gaetano (riferimento obbligato per la visionarietà dei testi, fra piante cresciute dal ginocchio, volti cancellati con le mani e così via); il tutto caratterizzato da una vocalità sopra le righe che galleggia fra toni rock blues quasi urbani (Coltiverò l’ortica, complice la mano del produttore Fabio Rizzo, già in Waines e Second Grace, altre due formazioni in espan- sione libera dal capoluogo siciliano) e rockabilly forsennati (I fiori, Stile roberto il maledetto), pestati al ritmo di una festa di paese. In attesa di una conferma sulla lunga distanza consigliamo di tenerli d’occhio, perché quel poco che queste canzoni promettono varrebbe già tutta l’attenzione di solito riservata ad altri act indie nostrani più in vista – a nostro avviso, da qui si possono sviluppare gli anticorpi contro la depressione da “anni zero” di Vasco Brondi e delle sue Luci della centrale elettrica; perché per scacciare via il blues - chase the blues away, come diceva Tim Buckley -, in fondo, non c’é niente di meglio di una sonora pernacchia. (7.2/10) Antonio Puglia James Yuill – Turning Down Water For Air (Moshi Moshi / Self, 6 febbraio 2009) G enere : folktronica La generazione glitch-pop dei primi anni duemila in certi territori si è poi tramutata in folktronica, ossia quel flirtare di bleeps e beat prodotti dal laptop di turno con una chitarra acustica e una voce melodiosa e rattristita quanto basta. Col senno di poi, viene da ridere a pensare che intere generazioni di geek musicali abbiano preso quel Give Up dei Postal Service totalmente come monito nonostante siano passati sei anni e di acqua sotto i ponti ne sia scorsa parecchia. A scanso d’equivoci, essendo la formula del genere arrivata da tempo al ripetere se stessa nei modi e nell’espressione, l’unico arbitro della situazione è la compattezza della scrittura e la presenza di singoli episodi che facciano da traino all’intero disco. James fa il suo lavoro con passione e colleziona un buon numero di canzoni riuscite, dove l’intersecarsi dei soliti ingredienti in gioco recensioni / 69 provoca un fluire dell’ascolto molto piacevole (l’hit da dancefloor alternativo No Pins Allowed, la malinconia gocciolante di Left Handed Girl, la ballatona commovente This Sweet Love e la lezione Morr Music di No Surprise), che però tende alla lunga a mostrare il fianco quando gli stilemi diventano un limite da ricalcare senza troppa fantasia. Quindi un po’ Maximilian Hecker, un po’ Tunng, un po’ tanto Gibbard + Tamborello, il difetto principale di certe produzioni seppur supportate da un buon numero di pezzi sopra la media è il fatto di non spostarsi di un millimetro da territori già esplorati appieno, stemperando l’entusiasmo appena sopra la sufficienza. Il talento si avverte, manca solo un po’ di coraggio. (6.1/10) Alessandro Grassi Jocelyn Pulsar - Penso a Sonia ma suono per la gloria (Agos Music 2009) G enere : lo - fi / pop Siamo al quarto disco dal 2004 per i Jocelyn Pulsar, il repertorio comincia a farsi significativo, roba da fare i conti con una certa maturità. Invece, loro, niente: stanno lì a palleggiare lo stesso disincanto ad alzo zero di sempre, indie a bassa fedeltà con l’ovosodo in gola e quel prurito al basso ventre subito smorzato da uno spleen frugale, di quelli che al tempo del telefono fisso finivi per scrivere sulla paginetta del diario e oggi ti tocca dare in pasto ai social network e ai telefoni cellulari. L’ingrediente principale del loro songwriting è una sorta di rammarico stupefatto per lo scarto insanabile dall’immaginario degli ottanta, divorato dall’evoluzione mediatica che significa anche profonda mutazione esistenziale. Personaggi e situazioni dell’altro ieri dal portiere che parava senza mani al whiskey che invecchiava sette anni e non c’erano cazzi, dalla grande festa al mobilificio al giocatore di basket sovradimensionato a fine corsa, dal maggiordomo spacciatore di delizie all’incredibile forno autopulente - talmente obsoleti da sembrare di un altro pianeta, provocando una pellicola di disarmo at70 / recensioni traverso cui possiamo osservare i tormenti inconfessati del campione di calcetto, la boria sotto vuoto spinto del critico musicale di lungo corso, oppure il melodramma minimale di chi ama malgrado la sindrome influenzale. Ballate che ciondolano tra l’acustico e il sintetico concedendosi talora un’elettricità bonaria, capaci sì di appiccicarsi alle orecchie ma non abbastanza da arrivarti al cuore. Questo il difetto principale del quartetto romagnolo: la poetica del pensiero debole conduce ad una debolezza espressiva oserei dire fisiologica. Un’impostazione rispettabile e ci mancherebbe, però si condannano da soli a fare i nipotini sfigati dei Pavement vita natural durante. Mi aspetterei - mi augurerei - da parte loro un guizzo stilistico verso l’alto, un sussulto d’ambizione. D’altronde, per dipingere una parete grande ci vuole un pennello grande. O era un grande pennello? Boh. (6.2/10) Stefano Solventi Kid606 – Die Soundboy Die EP (Very Friendly, dicembre 2008) G enere : deep techno Più che mai attuale questo EP lungo per uno degli assi della techno deviata come il ragazzo Kid606. La proposta si situa infatti nel labile confine tra le esperienze dei maghi Warp prima maniera, le atmosfere belgiche che stanno rivivendo nelle avventure di Mr Oizo e inevitabilmente il dubstep. Come a dire: techno. Come a dire: nord Europa e raving. Ascoltate ad esempio l’acidità di una traccia come Loose Noose e sentirete gli echi degli esordi Chemical Brothers, proseguite poi con Get In The Way e ditemi se non c’è tutto il clubbing dei 90, con quegli effetti che fanno ancora una volta ’House Nation’ un motto per cui morire col sorriso plastificato in faccia. Non solo club comunque: You Can’t Stop A Stepper è l’accenno al dubstep virato reggae, Bat Manners ripercorre le orme della ambient di gente come Pole e Gas e per finire Death Is Pain Leaving The Body è un brivido nero che scuote come il soul-grime di Burial. Tre quarti d’ora che ci ricordano come alcuni vecchi maestri siano ancora capaci di dire la loro e di come l’eterogeneità sia ormai d’obbligo. Ben fatto, Kid. Ora ci vuole l’album.(7.0/10) marco braggion La Otracina – Blood Moon Riders (Holy Mountain, gennaio 2009) G enere : heavy psichedelia Ultimo parto, temporalmente parlando, in casa La Otracina con Ninni Morgia in formazione. Dopo qualche interlocutorio passaggio minore – meglio il cd-r Crystal Wizards From The Cosmic Weird uscito per Sky-fi con ancora la chitarra del siciliano, che il “casalingo” The Risk Of Gravitation per Color Sounds – esce ora in solo vinile per Holy Mountain questo 5 pezzi che si pone in scia all’ottimo Tonal Ellipse Of The One. Non per sembrare patriottici, ma lo scarto essenziale rispetto alle nuove cose pubblicate dal gruppo – virate verso un versante più metallico e francamente troppo pacchiano – sembra risiedere proprio nelle volute chitarristiche di Morgia. Un suonato in grado di trainare il suono pachidermico e lieve allo stesso tempo del terzetto, di farlo proprio, di dettare tempi ed evoluzioni in maniera anche netta (certe aperture hard-prog di Inner Mind Journey così come i deliqui mantrici di Ballad Of The Hot Ghost Mama Pt.1) ma mai banale. Non da meno gli altri due vertici del triangolo newyorchese, qui ognuno al rispettivo zenith: il bassista Evan Sobel (anche al piano elettrico) e il batterista/fondatore Adam Kriney non sono comprimari. Ma anzi, i supporter perfetti per il lavorio della chitarra, col loro affiatamento e soprattutto con l’estrema duttilità: che si tratti di accendere il motorik o di contrappuntare i frammenti chitarristici, i due rispondono sempre presente. Il risultato perciò non può che essere un frullatore di rock acidissimo, psichedelia krauta corrosiva, jam da Velvet selvaggi, attitudine free, incubi jodorowskyani, evanescenze spacey e tanto altro ancora che si avvicina ai picchi toccati da Tonal…. La qual cosa ci fa avvertire ancor di più, come una nube minacciosa, le dimissioni di Morgia. (7.0/10) Stefano Pifferi Lars Horntveth – Kaleidoscopic (Smalltown Supersound / Family Affair, gennaio 2009) G enere : contemporanea Lo si era intuito dal debutto Pooka che Lars Horntveth è personaggio che ama mettersi in gioco. Kaleidoscopic è una mossa importante, imponente, per mole e giro di vite implicato. La Latvian Symphony Orchestra al completo (quarantuno elementi suddivisi tra archi, percussioni, clarinetto, flauto, trombone e arpa) diretta dal norvegese Terje Mikkelsen e impreziosita dallo stesso Horntveth al piano, fiati e clarinetto. Il canovaccio che ne viene - una suite di trentasette minuti ispirata, a detta del suo artefice, a Jim O’Rourke, Robert Wyatt, Stereolab, Dave Brubeck, Joanna Newson, Bernanrd Herrmann e l’arrangiatore di archi di Gainsbourg Jean-Claude Vannier – somiglia ad una versione high tech di Steve Reich persosi in un vaudeville venusiano. Lo scorrere dei minuti, ripresi live in una piccola chiesa di Riga, dal decimo primo in avanti si leva nel suo essere policromo alternandosi in incisi cinematici e leggiadrie da musical post moderno che, secondo i dettami dell’autore, variano in funzione dell’umore. In progress insomma. Immaginifico. A suo modo un genio, Lars Horntveth rischia seriamente di candidarsi a novello Simon Jeffes. Obbligatorio tenerlo d’occhio. (7.0/10) Gianni Avella Leadfinger – Rich Kids (Bang! Records, 2008) G enere : rock mainstream A qualcuno che se ne intende un po’ del panorama recensioni / 71 pop-rock australiano nomi come Yes Men, Asteroid B612 e Brother Brick può darsi che dicano qualcosa. Così come il nome di Stewart “leadfinger” Cunningham, chitarrista delle suddette band, che stavolta si è messo “in proprio”, dando vita ad un trio a sua immagine e somiglianza (e nome), accompagnato dal bassista Wayne Stockes e Stephen O’Brien alla batteria. Le sedicenti premesse potrebbero anche essere allettanti. Influenze “dichiarate”: MC5, Stooges, Radio Birdman. Risultato: un misto tra il southern rock, i Soul Asylum e gli U2 più recenti. Non riusciamo veramente a trovare più felice paragone con un rock decisamente rivolto al mainstream, dagli spigoli limati e il ritornello facile e scontato, reso leggermente più maschio da qualche timida distorsione. Speriamo proprio non sia questo, come qualcuno dice, il “vero” Sydney r’n’r. (5.0/10) Daniele Follero Loney, Dear – Dear John (Polyvinyl, gennaio 2009) G enere : indie pop Gli svedesi Loney, Dear giungono con Dear John al traguardo del terzo album. Si registra il raggiungimento di una maggiore maturità stilistica, specialmente nello svilupparsi dell’impianto strumentale – sempre più stratificato e curato da campioni e suoni elettronici -, e di una più intensa introspezione della loro idea di pop. Infatti, essa si fa ancor più leggiadra e malinconica concedendo più spazio alla riflessione. Ciò rappresenta simultaneamente un merito e un difetto: perché sì, le canzoni ora guadagnano in profondità emotiva, ma finiscono per stancare a un ascolto intero dell’album. Esclusione fatta per il buon “tiro” dell’apripista Airport Surroundings, di Everything Turns To You e di Summers, il resto dell’album si muove su più quiete e distese suite musicali, ora intensificandone la drammatizzazio72 / recensioni ne con ricercate orchestrazioni, ora dilatandole con eteree sospensioni sonore. Come se i Grandaddy flirtassero con i Radiohead di Exit Music (For A Film), tanto per rendere l’idea: su tutte Under A Silent Sea, ballad lunare che si particolarizza con aggiunta di vocoder e innesti faithlessiani a contrappuntare, e Harm, costruita sul celebre e dolente Adagio di Albinoni. Singolarmente, ogni episodio piace e persuade ma è la loro concatenazione a non convincere a pieno. Qualche più sbarazzino intermezzo avrebbe sicuramente giovato al risultato finale. Ma, nonostante ciò, Dear John è album coraggioso da considerarsi, comunque, un passo in avanti e innovativo nel loro percorso artistico. (6.8/10) Andrea Provinciali The Lucksmiths - First Frost (Fortuna Pop!, febbraio 2009) G enere : indie pop Ci sono gruppi che immancabilmente portano a riflettere su quanto un certo pop degli ’80 continui tuttora ad essere seminale nell’indie pop odierno. Ecco allora che le storie drammatiche e le melodie degli Smiths, la musicalità dei Go-Betweens e della Sarah Records tutta affiorano di tanto in tanto, e quando i riferimenti sia pur così espliciti sono ben amalgamati e resi intimamente propri, ecco allora il gruppo che fa la differenza. È giusto il caso degli australiani The Lucksmiths, sulle scene da ormai ben più di 15 anni e cult band tra gli appassionati del genere.First Frost non fa eccezione alla regola; vi si ritrovano infatti con equilibrio perfetto gli ingredienti adatti all’occasione: il giusto amalgama tra melodie e malinconia suadente, il chitarrismo, la liricità, le storie sull’ordinarietà e la problematicità dell’everyday life e le liriche, accluse al libretto della bella edizione cartonata del CD, impetuose e intense che senza clamore esprimono il malessere “adolescenziale” in senso lato così caro alla band. Così si procede tra ballad smithsiane (Up With The Sun, South-East Coastal Rendezvous), chitarrismo Aztec Camera e Housemartins (Good Light, Never And Always), Highlight Mi Ami – Watersports (Quarterstick, febbraio 2009) G enere : post - dub - tribal - punk Avevamo visto giusto incensandoli dopo la manciata di minuti racchiusa nel 12” d’esordio African Rhythms. Non che questo sia merito nostro, anzi, tutt’altro. Il merito va tutto a Daniel Martin-McCormick (chitarra, voce), Jacob Long (basso) e Damon Palermo (batteria), al secolo Mi Ami. Un passato targato Dischord quando si chiamavano Black Eyes e spaccavano cuori ed orecchie a suon di epilessie no-(p-funk)-wave; un futuro lucente, se continueranno a mantenere le promesse come in questo Watersports. Sì, perché nei suoi 7 pezzi prendono corpo in maniera più compiuta quelle dichiarazioni d’intenti presenti nel 12”: tensione post-punk e instabilità emotiva, sfaccettato tribalismo terzomondista e dissonanze noise, isterismi vocali e dilagante attitudine dance-dub. È il senso di equilibrio, di perfetto incastro, di vicendevole supporto tra le varie forme musicali masticate dai tre a stupire, fornendo la chiave di volta per la comprensione di una musica matura ben oltre la relativamente giovane età del progetto. Gli 8 minuti dell’opener Echononecho stanno lì a dimostrarcelo: un suono nero talmente smostrato dai bianchi da venirne quasi rinvigorito. In ogni suo elemento, in ogni sua componente. Le frecce nell’arco di Watersports sono tante e varie. Riduzionismo dub e suggestioni da jazz libero dei sessanta, disco-music mutante e manipolazione dei ritmi, apnee strumentali e continue camere di decompressione. Il bello è che quelle frecce colpiscono sempre il bersaglio. (7.5/10) Stefano Pifferi languori Go Betweens (Song Of The Undersea), fiati e puro B&S (The National Mitten Registry), l’afflato dei migliori Style Council melodici con moderazione (Pines). In fondo il segreto ben custodito di questa musica è nel suo rimanere sottotraccia, leggera ma significativa per chi coglie l’essenza. (7.2/10) Teresa Greco M. Ward – Hold Time (4 AD, 17 febbraio 2009) G enere : retro folk pop Non ci voleva certo la recente uscita a nome She & Him (Volume 1, in coppia con l’attrice Zooey Deschanel) perché ci accorgessimo del talento di M. Ward, né ci stupisce, in fondo, che in America il suo sia diventato uno dei nomi più cool da mettersi in bocca quando si parla di alt-folk (o giù di lì), al pari dei suoi vecchi compari Bright Eyes e My Morning Jacket. E’ un nuovo establishment musicale che, in un certo senso, si sta creando, se pensiamo che Jim James e i suoi ormai si esibiscono a Las Vegas e che Conor Oberst è una star sdoganata già dai tempi del famigerato tour Vote For Change. Ed è una cosa assolutamente sacrosanta, perché Ward è e resta musicista, compositore ed recensioni / 73 arrangiatore di prima classe, e al bando tutti i giri di parole. E’ quello che ti ritrovi a pensare quando stringi tra le mani questo Hold Time, che sin dal titolo, come l’acclamato Post-War, gioca su certe inevitabili tendenze retrò da sempre presenti nella sua musica; pre-war e old time music non si possono certo sradicare dal suo dna, ma adesso ci si è messo in mezzo anche il pop dei ’60, e allora non ce n’è per nessuno. Il punto di partenza in quella direzione erano già le canzoni del disco con la Deschanel (peraltro, la ritroviamo come discreta presenza in un paio di episodi), ma qui è la sostanza ad essere diversa. La densa pasta spectoriana in cui si diverte a immergere melodie degne di Brian Wilson, o meglio ancora del suo idolo dichiarato Daniel Johnston, è qualcosa di più che un mero esercizio di stile; l’affascinante veste sonora vintage non copre, anzi risalta una scrittura sempre più ferma e forse mai così pop come adesso (For Beginners, Star Of Leo, To Save Me, insieme all’ex Grandaddy Jason Lytle). Altrove aleggia lo spettro dei Big Star più disperati virati Scott Walker (la title track), bilanciati dal treno in corsa rockabilly Johnny Cash di Fisher Of Men. Poi beh, ci sono le solite fascinazioni legnose alla John Fahey (ShangriLa), c’è l’eccellente cover che conferma la sapienza del sarto (un’ombrosa Oh Lonesome Me di Don Gibson ricalcata dalla versione di Neil Young, con la voce da reduce di Lucinda Williams a rendere il tutto ancor più indimenticabile); e se non bastasse, sui titoli di coda c’è pure la zampata finale: l’Outro, una malinconica chitarra twang su un tappeto orchestrale che nemmeno il Jack Nitzsche più celestiale e irraggiungibile. L’avrete già capito, saranno in molti a dire che questo è il miglior disco che M. Ward abbia pubblicato sinora (lo si era detto per Post-War, d’altronde). Oltre a covare il 74 / recensioni legittimo dubbio che ciò sia effettivamente vero, ci viene anche da pensare che la sua produzione, se si manterrà su tale livello, sarà difficile da battere per altri anni ancora. (7.7/10) Antonio Puglia Marissa Nadler – Little Hells (Kemado, 3 marzo 2009) G enere : folk - pop ball ads Definire il nuovo disco di Marissa Nadler è lavoro assai arduo per chi ne aveva cristallizzato l’immagine da sirena delle isole Aran destata dai rintocchi delle campane di The Saga Of Mayflower May. Una voce che figurava come l’ultimo degli echi di Cathy Berberian e una capacità di scrivere ballad folk che incantava al primo ascolto. A due anni di distanza da Song III: Bird On The Water, la Giunone di Boston fa il salto verso un altrove che mai ci saremmo aspettati. Saranno stati gli ascolti giovanili di Throwing Muses e Mazzy Star o la voglia di sdoganarsi dalla nicchia o ancora la curiosità di guardare alla propria musica con occhi nuovi, perché la triade iniziata con Ballads of Living & Dying non avrebbe potuto perpetuarsi all’infinito. Da queste parti però ci si attendeva un salto di qualità sulla via buona, quella che, in almeno un paio di episodi, Little Hells sembra imboccare: Heart Paper Lover e Loner, dove la presenza degli ospiti Farmer Dave Scher (Jenny Lewis, Beachwood Sparks) ad organo, synth e piano e Myles Baer (Black Hole Infinity) alle chitarre assicura un morbida transizione dagli Appalachi alle atmosfere dreamy e sintetiche di ascendenza 4AD. Il seguito viaggia disomogeneo alla ricerca di involucri pop, esauditi di volta in volta in un’alchimia Sandoval-Roback (Rosary) ed incubi alla Blonde Redhead che affaticano l’ascolto nonostante l’ammaliante scrittura (Mary Come Alive). E’ che qui una volta era tutta campagna, e probabilmente la sontuosa produzione di Chris Coady, già all’opera con i Blonde Redhead, a tratti ha prevalso sullo stile di Marissa. D’altro canto la parte centrale del disco rimane ancorata al passato più che mai (Little Hells, Brittle, Crushed And Torn). Senz’ altro un’opera di transizione, che non tralascia di nascondere tesori tra le pieghe di un’inaspettata veste pre-mainstream. Da segnalare la presenza di Simone Pace dei Blonde Redhead alla batteria. (7.3/10) Francesca Marongiu Massimo Falascone – Works 05-007-2008 (Setola di Maiale, dicembre 2008) G enere : impro - jazz Con colpevole ritardo torniamo su un interessante lavoro che sarebbe stato un peccato lasciar giacere nel dimenticatoio. Un disco di grande spessore e maturità, quello imbastito da Massimo Falascone, sassofonista e sound artist di stanza a Milano. In Works 05-007-2008 l’artista italiano colleziona lavori sparsi – lavori in proprio, collaborazioni a distanza geograficamente e temporalmente, musiche per piece teatrali, ecc. – tanto eterogenei che il titolo dell’album avrebbe potuto tranquillamente fregiarsi del prefisso patch…. A far da contraltare, oltre che da collante, a tanta frammentazione c’è però l’omogeneità della cura dei suoni e della ricerca di Falascone, che unita all’ottima qualità media degli 8 pezzi, rende questo collected works un disco immancabile per chi si occupi del versante più impro del jazz. Perché Falascone unisce elementi apparentemente distanti – il caldo del suo strumento e il freddo dei loop – con convinzione e gioia, senza seriose verbosità ma piuttosto con una grossa carica auto-ironica. Per tutti valgano i 7 minuti dell’iniziale Ottovolante. Vero e proprio bignami del modus operandi di Falascone e del suo intendere il lavoro di ricerca sui suoni e sulle possibilità delle interazioni con fonti e personalità altre, Ottovolante rielabora una composizione di 8 minuti dell’americano Bob Marsh tramite cut-up invasivo, aggiunte di plug-ins, bassi e immancabili contrappunti di sax. Ottimo (7.0/10) Stefano Pifferi Monno – Ghosts (Conspiracy, gennaio 2009) G enere : D rone /S ludge Non basta imbeccare buoni riff e trascinarli oltre i 10 minuti per fare un buon disco. Ed è questo il motivo per cui a volte dischi di questo genere vanno poco oltre la noia. I Monno (duo che maneggia laptop, basso batteria e sax) per esempio, si sono spinti molto oltre. In Ghosts ci mostrano che è possibile scavalcare il suono caratteristico del drone/sludge, quei bassi riff che costituiscono il corpo massiccio del genere, senza abbandonarne i territori densi e neri. I Monno sembra asportino chirurgicamente quella precisa porzione di spettro delle frequenze, delimitandone i contorni con telluriche vibrazioni al limite dell’udibile e graffianti suoni sintetici e di sax ultraprocessato. Quel che resta è una pesante mancanza, e una sensazione di vertigine di fronte alle enormi bolle di vuoto che restano. Forse i fantasmi a cui si riferisce il titolo. La prima traccia, Negative Horizon, prepara il terreno. Introdotta da innaturali cori si mantiene su un lento incedere di basso e batteria, poggiandosi interamente su un cupo accordo immutato per tutta la durata del pezzo. Ma è dal suono del successivo Troye che crolla l’intero costrutto del drone. Riferimenti forse se ne trovano nei Today Is The Day più recenti, ma in questo caso l’effetto è decisamente più devastante. Quella che nella band di Steve Austin è soltanto una strana equalizzazione, qui è un attacco, dall’interno, ai codici del genere. Merule continua lungo la stessa linea ma concedendosi un introduzione quasi jazz. Ormai il danno è stato fatto, e se in Hull si sale a velocità più tipiche di Naked City o Zu, nell’ultima Endfall si continua a giocare con opposti, costruendo abissi e disgragando macigni. recensioni / 75 Sicuramente è solo un obiettivo di settore, ma in Ghosts i Monno segnano un nuovo traguardo in un genere dove il rischio di finire nel “già sentito” è sempre molto alto. (7.3/10) Mt. St. Helens Vietnam Band - Self Titled (Dead Oceans / Goodfellas, febbraio 2009) G enere : indie emo Leonardo Amico Nella nostra era di download selvaggio la paura di imbattersi nel nuovo DCFC fake è sempre in agguato. E questa si fa quasi concreta non appena si ascoltano le prime due canzoni del nuovo album, il nono nella sua carriera solistica, di Morrissey. Ovviamente è una provocazione, perché impossibile emulare così bene le corde vocali di uno dei più grandi cantori pop. Ciò, però, va inevitabilmente a discapito del Nostro: la prima sensazione che scaturisce all’ascolto di Something Is Squeezing My Skull e Mama Lay Softly On The Riverbed è quella di trovarsi dinnanzi una band emocore (da intendersi nell’accezione più nobile del genere) che ben scimmiotta gli Smiths. Menomale che Years Of Refusal non è tutto cosi, alcuni brani (la malinconica I’m Throwing My Arms Around Paris e la più sbarazzina When Last I Spoke To Carol) si rivelano ben riusciti e con un trainante impatto melodico, questo sì contraddistintivo di Morrissey, mentre le due ballad (It’s Not Your Birthday Anymore e You Were Good In Your Time) riescono finalmente a rendere al meglio le sue capacità compositive. Ma nell’insieme, purtroppo, si avverte una certa sua volontà di mostrarsi fresco e giovane, quando noi invece l’avremmo preferito stagionato e maturo. Un rilevante ma non compromettente passo indietro rispetto ai suoi ultimi due lavori. (6.2/10) Di questi tempi basta poco perché un nome divenga chiacchierato: da più parti si indica infatti il Monte Sant’Elena come futuro e assai plausibile santino indie, in ragione di un suono debitore - in parti disuguali - a At The Drive In, Modest Mouse e Cursive. Senza tuttavia padroneggiare l’arguzia, la scioltezza e il senso per la confidenzialità di costoro ed è facile capire i motivi: ridi e scherza siamo arrivati al 2009, “emo” è diventata una parolaccia o - nella migliore (?) delle ipotesi - un’imbarazzante casella di marketing giovanilista in cui si è infilata gentaglia esecrabile come 30 Seconds To Mars o Chemical Romance. Non è colpa di questo quintetto proveniente da Seattle, qui all’esordio lungo dopo un e.p. di riscaldamento; il problema pertiene all’attingere da una vena inaridita, che di uno stile può restituire solamente la parvenza esteriore. Le motivazioni originarie sono svanite e chi all’epoca non c’era non le può ricreare dall’ascolto dei dischi. Di conseguenza, il suono angolare ma tortuosamente pop dei Mt. St. Helens ecc. si racconta per lo più un ridondante teatro di buone intenzioni e padronanza esecutiva, nel quale la spontaneità soccombe ai cambi di tempo e atmosfera. Nell’alternanza sin troppo studiata dei quali il gruppo non impressiona granché e persino irrita con la pompa magna anni ’70 di Little Red Shoes, En Fuego e Albatross, Albatross, Albatross. Meglio allora rivolgersi ad Anchors Dropped, filastrocca prossima agli Xtc, e all’imbrigliata dolcezza quasi soul di A Year Or Two per fare chiarezza. Le carte restano comunque nebulose fino alla fine, allorché i sette minuti di On The Collar - sensazionale scintillio da qualche parte tra Forever Changes, Skylarking e Tones Of Town - inducono all’applauso a scena aperta. E’ su tali percorsi la formazione americana dovrebbe investire il proprio talento ancora in embrione, più che cercare di compiacere l’ortodossia nerd che fa capo a Pitchfork e dintorni. Speriamo. (6.5/10) Andrea Provinciali Giancarlo Turra Morrissey – Years Of Refusal (Decca / Universal, febbraio 2009) G enere : pop rock 76 / recensioni My Morning Jacket - iTunes Live from Las Vegas At The Palms – EP (iTunes, gennaio 2009) G enere : folk , pop , soul Questa uscita collaterale, in apparenza un approdo sicuro (appartiene a una serie di EP, esclusivamente in digitale, che vede band scelte da iTunes registrare alcune loro canzoni dal vivo in un lussuoso studio di Las Vegas, presso il casinò At The Palms), in realtà riconnette i My Morning Jacket con una parte della loro musica - della loro storia che sembrava ormai dimenticata, sepolta com’era dalla loro fama di roboante live band (e da recenti uscite discografiche che si concedono a diversioni stilistiche fra l’azzardato e l’azzeccato). Quando invece riposava soltanto sottopelle: l’approccio minimale, narcolettico, sommerso da strati e strati di riverbero che era tipico del lontano esordio The Tennessee Fire (1999) lo ritroviamo qui, sia nella ripresa di rare canzoni del periodo - They Ran, From Nashville to Kentucky, Tonight I Want to Celebrate With You, a loro volta iniettate di vibrazioni soul - sia negli arrangiamenti di cose più recenti. E ci si accorge sia che Knot Comes Loose (da Z, 2005) e Thank You Too, uno dei gioiellini del’ultimo Evil Urges, affondano le radici in un passato mai in fondo dimenticato, mentre l’inedita Dear Wife giochicchia tenuemente con easy listening anni ’70 e primi Beatles. Una pubblicazione tutt’altro che priva d’importanza, a ben vedere. (6.8/10) Antonio Puglia Nancy Wallace - Old Stories (Midwich Records / Goodfellas, febbraio 2009) G enere : folk revival Arriva al debutto solista la cantante del combo folk inglese The Memory Band, e già ospite l’anno scorso nel primo disco degli Owl Service. Folk britannico tradizionale che si riallaccia prepotentemente alla tradizione dei ‘60 e dei ‘70 degli immancabili Steeleye Span, Fairport Convention, Pentangle. Folk rivisitato all’oggi, mescolando traditional e composizioni originali e dotandoli del medesimo afflato melodico, resi con grazia armonica e strumentale. Voce suadente un po’ Vashti Bunyan, un po’ Shirley Collins un po’ Anne Briggs a seconda delle occasioni. Album che si fa ascoltare senza essere niente di trascendentale e nulla aggiunge fin qui al percorso della Wallace, che preferiamo a questo punto di gran lunga nel gruppo di provenienza. (6.4/10) Teresa Greco Napalm Death – Time Waits For No Slave (Century Media, Gennaio 2009) G enere : D eath -G rind Chi si aspettava di trovarli ancora lì? Chi avrebbe mai scommesso un euro (una lira dell’epoca, alla faccia dell’inflazione!) vent’anni fa sul futuro di una band che nei primi cinque minuti di musica aveva già portato all’estremo e “macinato” (to grind) tutta la sua radicale carica innovativa? E invece eccoli lì, i Napalm Death, a galleggiare, avvalendosi del loro stato di miti, sui resti di una rivoluzione ormai quasi del tutto dimenticata. Una rivoluzione consapevole di percorrere un binario morto negli sviluppi della musica, ultimo passo verso la totale devastazione iniziata un decennio prima con il punk. Il grindcore, quello “vero”, radicale, anarchico, è nato e morto subito, ammazzato quasi subito, proprio da chi lo aveva creato, salvo lasciare qualche traccia nel metal a venire. L’approdo al death metal ha rappresentato il percorso di tanti pionieri del genere (dai Carcass agli stessi Napalm Death) che lì si sono fermati, travolti da tecnicismi che solo in rari casi hanno rappresentato un valore aggiunto nella crisi del metal estremo, sempre più fagocitato dal mainstream. Persa ogni valenza artistica, la musica dei Napalm Death, dopo Harmony Corruption (Earache, 1990) è da ascrivere quasi completamente alla storia del death metal e dei sui sottogeneri. E a distanza di tanti anni, la band di Birmingham continua a vivere di questo, con dignità ma senza grandi sussulti, sfornando mediamente un album recensioni / 77 Highlight Mimes Of Wine – Self Titled EP (Midfinger, gennaio 2009) G enere : avant / art / folk / blues Se fosse un biglietto da visita (lo è) ti brucerebbe nel taschino, dovresti stropicciarlo per sentire se contiene un po’ dell’energia strana, insidiosa, avvolgente, primordiale e post-atomica che avverti nelle quattro tracce di questo ep d’esordio. Mimes Of Wine è Laura Loriga. Laura suona il piano anzi lo scuote con risoluta tenerezza, canta come se ne aspirasse il veleno e l’antidoto assieme, in mezzo a vortici di chitarre aspre, a vapori di ottoni, a fatamorgane di tastiere, folate e tramestii percussivi e impalpabili bave sintetiche. Prova ad incantarti (ci riesce) coi sussurri foschi e le fughe palpitanti, con l’agnizione tenue e selvatica di K (dove è una Diamanda Galas ingentilita Tori Amos, intensa ed eterea come la PJ Harvey di White Chalk). Ti sbalordisce coi languori teatrali, il passo freak marziale e la frenesia cavernosa di Fishes (dove avverti tracce del lirismo Jeff Buckley, dove ti figuri una Laura Nyro prigioniera dei Grizzly Bear). Ti strega con la lunare irrequietezza Hyvönen/Newsom di Carnival Scar (misteri folk e trepidazione post-blues), ti circuisce con lo struggimento jazzy venato bossa di Oberkampf, come una Cibelle invischiata nelle tossine Billie Holiday, il siparietto swing rurale a spettinare il ventaglio delle aspettative. Appunto: cosa attendersi dal full lenght Apocalypse Sets In, previsto per la primavera? (7.5/10) Stefano Solventi ogni biennio e proseguendo il turnover di membri, che la caratterizza sin dagli esordi. Eppure Time Waits For No Slave non ispira i sentimenti di pietà o tenerezza che di solito provocano i dischi di band-Matusalemme, che non vogliono proprio demordere e si trascinano per i capelli pur di far uscire qualcosa di nuovo a proprio nome. Decisamente orientato verso il Thrash, il quindicesimo album dei Napalm Death dai tempi di Scum (Earache, 1987) non abbandona del tutto la violenza esecutiva degli esordi, che però, dopo i momenti iniziali (Strongarm, Diktat e Work To Rule), si perde in un suono spurio, a metà tra gli Sla78 / recensioni yer, i Morbid Angel. Riff consumati dall’abuso, distorsioni leggermente più pulite e la solita batteria di Mick Harris a fare la differenza, con le sue precise variazioni di tempo e i suoi ormai classici “stacchi” alla velocità della luce. Penose le escursioni in improbabili territori melodici che gli sono a dir poco estranei (la Title Track; Downbeat Clique), e suonano goffi, trasformandoli in un clone venuto male degli Slipknot. Sì, i Napalm Death sono vivi. E probabilmente anche il metal d’annata continua ad avere il suoi seguito. Ma…cui ������������ prodest? (5.5/10) Daniele Follero Night Horse – The Dark Won’t hide You (North Atlantic Sound, 2008) G enere : heavy blues Per qualcuno il blues è stato un punto di partenza, per qualcun altro un punto di riferimento stabile. Ma c’è anche chi dal blues “duro e puro” non vuole proprio staccarsi. Mi sembra sia il caso di questi Night Horse, band losangelina, neonata ma già vecchia. I suoi membri vengono tutti dal blues rock e non mostrano alcuna intenzione di mollare la presa. L’ortodossia non ha limiti e i paragoni scomodi (e piuttosto datati) si sprecano: i Led Zeppelin più vicini all’hard rock, i Black Sabbath più anonimi, l’Alice Cooper meno heavy sono tutti lì, mescolati nel nome della “purezza” rockettara più oltranzista. Ma rassegnamoci, perché non sono né i primi né saranno gli ultimi cloni di una generazione di rocker ormai giunta alla meritata pensione. Per avere un idea di ciò che può offrire quest’album, basta dare un’occhiata alla copertina: una foto con al centro un teschio tra due candele e dietro l’immagine di un nativo americano (quelli che erroneamente vengono chiamati indiani, per intenderci). Dietro questa iconografia americanissima e un po’ volgaruccia (se non addirittura ridicola), si nascondono sei brani scontatissimi, anche se sinceri e in alcuni casi addirittura vivi ed energici. La voce di Sam James Velde richiama il tono semiserio dell’omonima band del Glenn Danzig post-Misfits e potrebbe anche risultare interessante se non fosse sostenuta da anonimi riffettoni e parti di basso e batteria essenziali, come vuole la tradizione heavy rock. Nota di merito: la durata. Mezz’ora di heavy blues suonato bene non la si nega a nessuno. (5.0/10) Daniele Follero No Neck Blues Band – Cloneim (Locust, dicembre 2008) G enere : kraut / psych Riuscire a intrappolare la ghenga di Dave Nuss non avrebbe molto senso, sarebbe come snaturarne il valore. Che gli animali siano liberi di scorazzare ordunque; i sette che arrivano dalla nera Harlem conoscono il valore dell’improvvisazione ed una continua – assai poco leziosa – jam appare questo Clomeim, che registra il numero 100 in catalogo per Sound @ One, marchio da sempre associato alla No Neck Blues Band, anche quando si è tratto di pubblicare tapes e cd-r in tiratura irrisoria. Il pagano odore di kraut avvolge le spire della zelante The Coach House, mentre le smorfie tra esoterismi psych folk e brutali nenie black metal (con ampio ricollegarsi al progetto satellite Angelsblood) di Ministry Of Voices lasciano pensare ad una band persa alla propria deriva psicotica. Ancora suoni sfilacciati ma ovviamente tribali in Salai Widnalas, dove le urla gutturali assumono ancora il senso di provocazione estrema. Non va dunque per il sottile la No Neck Blues Bland, che di cedere ai crismi della normalità non ha vaga intenzione. In un consumato rituale la loro proposta si infiamma, abbandonando i lineamenti della forma canzone e della composizione stessa. Un’immersione totale nello stream of consciousness. Ragion per cui nessuno dei loro dischi in studio e delle loro performance dal vivo rispecchieranno una reciproca idea. E’ tutto giocato sul filo del rasoio, in una rappresentazione spesso isterica, solo raramente celestiale. Con in dosso I panni dei sobillatori esistenziali i Nostri marciano verso un assoluto in musica che si sgretola di continuo, nell’abbandono delle più terrene certezze. Una musica che conserva ancora un carattere iniziatico, cerimonia impalpabile della sofferenza umana. Mutilando brandelli del catalogo ESP (soprattutto quello più off, si pensi ai Cro-Magnon o alla Patty Waters di Black Is The Color Of My True Love’s Hair) ed accedendo alle pagine culto della musica germanica (Agitation Free e Amon Duul in cima) con Clomeim fanno un’ulteriore passo verso l’eternità, quella più scomoda. (7.3/10) Luca Collepiccolo recensioni / 79 Of Montreal – An Eluardian Instance; Jon Brion Remix Ep (Polyvinyl / Goodfellas, febbraio 2009) G enere : remix ep Sull’onda lunga del vertiginoso Skeletal Camping, il combo degli of Montreal pubblica un EP manipolato da quel Jon Brion conosciuto per i trascorsi al fianco di Elliott Smith, Kanye West nonché firmatario di score quali Magnolia e Eternal Sunshine Of The Spotless Mind da noi noto, al solito, col pessimo titolo de Se Mi Lasci Ti Cancello. Le tracce in esame sono due, An Eluardian Instance e Gallery Piece, e il trattamento di Brion consiste nel dare corpo a materiale già corposo di suo; quindi se First Time High (nuova ragione sociale, per l’occasione, di An Eluardian Instance) si impreziosirà, sia per il Reconstructionist Remix che nella versione acustica, del mandolino e le backing vocals dell’ospite Chris Thile dei Nickel Creek, Gallery Piece la si vedrà sfilare, dancereccia com’è, remixata, allungata e strumentale. Operazione, comunque, per i fan di stretta osservanza. (7.0/10) Gianni Avella Oginoknaus – Nuclearcunt (Marinaio Gaio – Valvolare Records - Elevator / Jestrai, ottobre 2008) G enere : post punk - new wave Narcotici come il Lou Reed più indisponente, alla moda come un contraccettivo scaduto, essenziali ed efficaci come sa essere soltanto chi vede ancora le chitarre elettriche, il basso e la batteria al comando di quel vascello fantasma che è il rock contemporaneo, gli Oginoknaus tornano a quattro anni dell’omonimo esordio. E lo fanno impilando una sull’altra dieci tracce ruvide e ringhianti, pronte a consacrarne ancora una volta l’estro compositivo. Nessun effetto speciale a foraggiare la meraviglia, nessun tono acceso a corroborare il bianco sporco e il nero pece dei suoni, nessuna facile concessione alla melodia: solo una guerriglia in piena regola portata avanti tra post-punk malato e spunti noise, 80 / recensioni assalti feroci e ossessioni in stile Ian Curtis. Dalle lacerazioni profonde che ne conseguono, esce un’opera immediatamente riconoscibile, dal fascino ambiguo, claustrofobica e disturbante nella sua monocorde uniformità, capace di cedere giusto un paio di parentesi – il sax in bilico tra Morphine e Gallon Drunk di Breakdance e l’accordian dell’ospite/produttore Rob Ellis di Rainbow Drive – a contributi strumentali altri. Per un suono lontano dal “pop” ma decisamente attraente. (6.9/10) Fabrizio Zampighi Pains Of Being Pure At Heart – Self Titled (Slumberland, febbraio 2009) G enere : noise - pop Rinnova la sua fama la Slumberland con l’esordio di un quartetto misto dal nome terribilmente adolescenziale. E rinnova anche i fasti di quel noisepop zuccherumoroso che trova proprio nel catalogo della label una delle sue gemme più nascoste: i Black Tambourine. Alex (basso), Kip (chitarra + voce), Kurt (batteria) e Peggy (tastiere + voce) – questi nomi e strumenti del quartetto newyorchese – sono tre imberbi fanciulli e una nippo-girl tutto pepe in fissa con la musica più semplice del mondo, da quando i fratelli Reid accesero gli ampli scoperchiando il vaso del feedback-pop: declinare al verbo del rumore le melodie più poppy e appiccicose del rock. Affogarle in un oceano di riverberi e delay, quasi a volerle soffocare, nella consapevolezza che le melodie riemergeranno da quel marasma come niente fosse. Prendete come ottimo esempio Contender, l’attacco del disco. Gioca su accordi che sembrano quelli di I Don’t Wanna Grow Up di waitsiana memoria, ma è solo una fugace impressione. Quando entra la voce, catturata a rimirarsi le scarpe su un tappeto di distorsioni gentili, esplode il caleidoscopio: reminiscenze Cure virati shoegaze (This Love Is Fucking Right), trasposizioni Pastels (Gentle Sons), svisate indie-nostalgiche (Stay Alive), echi morriseyiani (Everything With You), immaginario college nei suoi dettagli più apparentemente insignificanti (A Teenager In Love). Un debutto coi fiocchi e un disco da avere. Perché ogni tanto si ha bisogno di tornare adolescenti sognati, così come ogni tanto si ha bisogno di canzoni. E qui ne trovate di meravigliose. (7.0/10) Richard Pinhas & Merzbow – Keio Line (Cuneiform, dicembre 2008) G enere : impro - noise Matthew Houck stavolta mette le carte in regola, chiarendo una volta per tutte che la sua somiglianza artistica (perché evidente è anche quella fisica) con Will Oldham, al quale viene da sempre paragonato, è soltanto apparenza e sicuramente figlia di medesimi ascolti. Il quarto album della sua creatura fosforescente, infatti, non rappresenta altro che un personale tributo a Willie Nelson, immenso cantore folk americano esploso musicalmente a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Proprio a quel periodo, infatti, sono debitori gli odierni cantautori indie come Phosphorescent e Bonnie “Prince” Billy, per l’appunto. Ma la cosa curiosa è che lo stesso guru folk omaggiato in questo album pubblicò, a suo tempo, nel ’75, un tributo dedicato interamente a Lefty Frizzell intitolato To Lefty From Willie. Da qui la scelta di To Willie. E l’album in questione contiene undici cover (reinterpretazione di canzoni anche minori del catalogo nelsoniano) che, flirtando con il folk più classico, mostrano l’ottimo livello di maturità stilistica raggiunto dal Nostro: abbandona quell’approccio lo-fi per dedicarsi completamente a una meticolosa ricerca strumentale, impregnandola però di profonde e sincere emozioni. Adesso non resta che attendere il vero salto di qualità con il quinto album, altrimenti a nessuno tra vent’anni salterà in mente di intitolare un album “To Matthew”. (7.3/10) Titolo e nomi in ballo permettono di inquadrare da subito questa ennesima, curatissima edizione Cuneiform. Da una parte Richard Pinhas, storico esponente dell’ala più radicale dell’elettronica rock (o viceversa) spacey & floating d’oltralpe; dall’altra Masami Akita, aka Merzbow, incompromissorio violentatore sonico e riconosciuto padrino del noise (non solo) giapponese. In mezzo, a far da anello di congiunzione tra i due, la Keio Line, linea metropolitana della città di Tokyo dove i due si sono incontrati per registrare questo doppio cd. Proprio il titolo e le dinamiche relative alla produzione/ registrazione di questo Keio Line rendono perfettamente l’idea di collegamento e viaggio tra la Parigi di Pinhas e la Tokyo di Masami, così come evidenziano la perfetta coesistenza tra imput sonori piuttosto differenti: l’elettricità rock dilatata e estatica del primo e l’elettronica spigolosa e piena di asperità del secondo. Pinhas fornisce una piattaforma sonora a base di chitarre e loop systems sulla quale Merzbow esprime al massimo tutto il potenziale esplosivo dei suoi synth e dei suoi noise treatments. L’effetto, vista anche la mastodontica durata delle suite – viaggiamo sul quarto d’ora abbondante di media – è quello di una musica visionaria, estatica, sciamanica e perfettamente in equilibrio tra sporcizia digitale – beats, loop, noises vari, folate di rumore bianco – e flussi dreaming memori del kraut più evanescente. Un signor disco, da due signori della sperimentazione. (7.0/10) Andrea Provinciali Stefano Pifferi Stefano Pifferi Phosphorescent – To Willie (Dead Oceans, febbraio 2009) G enere : cl as sic folk recensioni / 81 Pixel – The Drive (Raster-Noton,2009) G enere : elettronica - ambient Excursus non convenzionali per il compositore ed ex-sassofonista Jon Ekeskov in arte Pixel nella nuova uscita firmata Raster-Norton. Le tessiture di The Drive si ancorano a saporite eloquenze contemporanee, per poi incontrare gli orizzonti decisamente poco ovvi dell’elettronica più sperimentale, il tutto grazie a quelle controllate matrici concrete ormai care agli adepti moderni della sintesi. Sette elementi che dialogano con una improvvisazione minimale “melodica”, per poi farsi spazio nelle poliritmiche e nelle oscillate strutture tra dominata sostanza e accentuato dinamismo. Gli elementi leggibili dialogano tra glitch o microframmentazioni che si lasciano scoprire attraverso un incontaminato sub-bass, le cui maniere si dichiarano apertamente tra ritmiche in microsuoni, dualismo e musica puntilista. Rimbalza all’orecchio un potenziale sicuramente buono anche se a tratti troppo legato all’esercizio tecnico, a discapito del fascino comunicativo. (6.9/10) surreale. C’è quella sensibilità post-romantica cara ad alcuni artisti filo-giapponesi dell’eletronic wave, le meditate atmosfere glamour e le sonorità chilling (Masato Shuffle, K3), l’elettroacustica isolazionista (Veisalgia), improvvisata e sovrapposta al limite della robotica (Bata) o contaminata dalle ritmiche in levare (Not Hearing a Word). E all’acustica spettano gli arpeggi zuccherati dai colori pastello (Non Hoi), gli archi sottoesposti (Seizure), le percussioni arabeggianti (Durban Pain) e le arie cristalline in chiusura (Two Rooms). Frames sonori a cui qualche particolarità e sfumatura in meno non avrebbe fatto male specialmente se si considera il lavoro nel suo insieme. In compenso alcune tracce risultano decisamente godibili. (6.7/10) Sara Bracco Sara Bracco Plaid – Heaven’s Door (Beat Records, 2008) G enere : colonna sonora Quivers – 2012 (Tigerasylum, gennaio 2009) G enere : impro Ed Handley ed Andrew Turner - ex The Black Dog - ora Plaid, sono un duo britannico che per uscita discografica firmata Beat Records concedono le loro propensioni elettroniche ai fotogrammi del primo live-action dell’animatore americano Michael Arias. Il loro repertorio sonoro spazia in album, collaborazioni e remix per innumerevoli artisti, passando per EP, compilation e colonne sonore. Heaven’s Door infatti è la seconda prova in questo campo: attraverso i mezzi tecnici del cinema sonoro propongono ambientazioni dalle sognanti dinamiche cinematografiche. E’ l’elettronica la chiave di lettura di queste sedici tracce, che si creano il proprio spazio senza perdere in coerenza ma trascinando con se l’ascolto attraverso un idilliaco paesaggio che cavalca l’onirico e il Quivers tries to have open minds and to open minds, chiosano i quattro newyorchesi (d’origine o d’adozione, poco interessa) e come dar loro torto. Il padrone di casa Jordon Schranz (basso), il presenzialista Adam Kriney (batteria), l’iperattivo Chris Welcome (cello) e l’ubiquo Ninni Morgia (chitarra) imbastiscono, su supporto vinilico, 5 pezzi untitled che sa di apocalisse impro-rock prossima ventura. I riferimenti non mancano, come l’esplicito rimando del titolo alle profezie maya; tanto meno le evoluzioni da “dopo-rock imbastardito con attitudine free-jazz” dei 5 pezzi untitled. A farla da padrona come al solito è la sei corde del siciliano: nella più totale libertà d’azione frattura e spezza, cuce e ricama un suono instabile e umorale, tra gorgoglii e estatici fraseggi. In questa sua 82 / recensioni azione di riduzionismo free (termine comprensibile per chi segue anche le altre incarnazioni del suo fare musica, La Otracina su tutti), Morgia è ottimamente sostenuto dalla precisa azione di una sezione ritmica affiatata ed energica e contrappuntato dalle intrusioni rumorose di Welcome. È di nuovo l’impro di matrice jazz che si riversa nel corpo morto del rock: ne mantiene lo sfogo liberatorio, estatico e privo di vincoli strutturali, senza negare però la tensione e la “corposità” del secondo. (6.7/10) Stefano Pifferi Raccoo-oo-oon – Self Titled (Release The Bats, gennaio 2009) G enere : weird america Mischiare rock in forma libera e psichedelia sognante, carcasse da rock krauto maciullato e prog mutante, tribalismo primitivista, rumorismo e ninnananne ossessive. Questa la missione dei 4 Raccoo-oo-oon, di cui purtroppo questo omonimo è l’inatteso canto del cigno. Musiche ostiche, difficili, a volte dissonanti, a volte sussurrate, sempre in modalità improvvisativa e suonate non con piglio e supponenza arty, ma con semplicità quasi infantile, giocosa, tanto è facile immaginarseli immersi nei boschi dell’america rurale, tra amici, impegnati in sessions più vicine a baccanali orgiastici che a vere e proprie sedute in sala prove. È proprio nella totale libertà da schemi e strutture che Raccoo-oo-oon da il meglio di sé; nel far convivere nello stesso pezzo, l’una accanto all’altra, cifre stilistiche agli antipodi come xilofoni cinguettanti e percussività free, slabbrature synthetiche e chitarre accordate a caso, stralci della tradizione folk americana e avant-rock devastato. Forse – ma è solo un pensiero ramingo – proprio lì risiede(va) il fascino e il miglior pregio dei Raccoo-oo-oon. Che sia la vastità degli spazi geografici o quella dei confini di una società culturalmente mista, resta un mistero per noi europei. Di certo c’è che mai canto del cigno fu più inaspettato e triste. Ad memoriam (7.5/10) Stefano Pifferi Rahim – Laughter (Pretty Activity, 9 settembre 2008) G enere : rock melodico - cantautoriale I Rahim fanno canzoni, di quella guisa che innerva tutto attorno alla melodia, alla costruzione vocale solista e coristica. Niente virtuosismi, sia chiaro; ma sulla strada della chiarezza neanche solo quello, in Laughter. E forse qui sta il problema maggiore. Primo, le strutture degli accompagnamenti strumentali fanno spesso il verso a quei tocchi incrociati batteria-basso-chitarra che furono del post-rock americano, tanto di Louisville che di Chicago, declinati qui alla dilatazione e al pochissimo rumore. E però, secondo, il gioco non sempre riesce ai quattro di Long Island, al loro secondo disco. Non è solo questione di melodie a volte imbarazzanti (Cities Change); c’è che con la finta destrutturazione si rischia di spezzare decisamente in due i brani, con la voce che va da una parte e gli strumenti che provano a essere più sofisticati negli arrangiamenti. Meglio le armonie di Of Course, che iniziano a spostare la bussola indietro nel tempo, o la quasi beatlesiana Dark Harbors; e soprattutto la title-track, a fine album, che si smarca del tutto dalla tendenza delle prime tracce del disco, estraendo dal cilindro sapori di primi Settanta post-acid, si direbbe jethro-tulliani. Ovunque di positivo – e raro, per certi versi – c’è che le melodie vocali non sono mai troppo patemizzate. Ma visto i successi con i decenni precedenti, facciamo in conclusione una proposta; Rahim, dimenticatevi i Novanta. (6.0/10) Gaspare Caliri RHumornero – Umorismi Neri (Arroyo - Metamusic / Venus, 20 novembre 2008) G enere : rock Banalizzare la spinta centrifuga del rock per tradurne soltanto gli stereotipi più in uso. Questo è quello che fanno i Rhumornero con Umorismi neri, allestendo uno spettacolo dal finale già scritto recensioni / 83 Highlight Plastic Crimewave Sound – Painted Shadows (A Silent Place, febbraio 2009) G enere : rock Per capire con un solo colpo d’occhio la filosofia di Steve Krakow, aka Plastic Crimewave, basta prendere uno dei suoi Galactic Zoo Dossier. In pratica una vera e propria fanzine da lui curata (anche se venduta dal mailorder della Drag City), interamente disegnata a mano e con argomenti rigorosamente scelti, come – cito a memoria - articoli sui classici della dark psichedelia, oppure sugli horror movies hippie e interviste a gente come Clive Palmer o Ed Askew… Il mondo di Krakow sembra flirtare da una parte con la psichedelia hard di Julian Cope, dall’altra con lo sballo acido di Wayne Coyne e dall’altra ancora con qualcosa di completamente inedito ma paragonabile con il culto feticista per l’exotica. Un personaggio quindi con un senso della musica e dell’arte che oscilla perennemente tra il retrò e il kitch bello e buono. Che poi la sua band sia ormai da tre dischi che pesti duro regalandoci alcuni dei migliori nuovi anthem psych rock non è certo di secondaria importanza. Painted Shadows, quindi, potrebbe essere un bel lasciapassare per addentrarsi in un mondo come quello di Krakow, in cui non è certo facile immergersi e per mandare finalmente i Plastic Crimewave Sound nel patheon dei nuovi psichedelici, da qualche parte tra Black Angels o Indian Jewelry. Confidiamo quindi nella qualità del disco e nel fatto che per la prima volta non si dovranno aspettare mesi e mesi per vederlo in formato cd, come accaduto per i precedenti che hanno vissuto a lungo in esclusiva versione vinile. Painted Shadows prende il titolo dalla pratica in voga nell’espressionismo tedesco di dipingere le ombre direttamente sulla pellicola. Come riferimento culturale alla sacra scuola d’arte d’Alemagna, si fa centro pieno, perché di tutti i dischi pubblicati fino ad ora, questo è certamente quello dalle vibrazioni meno garage e più cosmiche. L’introduttiva I Feel Evils immerge subito in una nebbia wave che sembra essere stata filtrata dai Loop di Robert Hampson. Questo, insieme alla successiva (Can’t) Turn The Key, gli episodi più orecchiabili e “darkwave”. Le tirata acide non mancano comunque come si capisce quando attaccata la ronzante e febbrile ritmica (quasi motorik) di The Grip e della successiva Ecstatic Song. Ma il capolavoro del disco arriva alla fine con la title track: venti minuti di delirio cosmico che suona un po’ come uno scontro tra titani, su una ideale battlefield che frulla di tutto, dagli Hawkwind ai Pink Floyd, dagli Stooges ai Motorhead passando per quintali di krautrock. E’ questo il suono del più feticista di tutti i messia rock contemporanei. (7.5/10) Antonello Comunale 84 / recensioni in cui si recita un hard-rock scuro tutto riff granitici e lentezze marziali. Roba che neanche i Soundgarden meno acidi e più sfilacciati si azzardavano a proporre, per lo meno non con tale semplicistico slancio creativo. L’ambito di riferimento è una terra di mezzo tra la band di Chris Cornell e certi Negrita periodo Reset, anche se in realtà, l’idea che ci si fa a fine programma, è che il naturale sbocco per la band pisana sia un immaginario decisamente più convenzionale, tipo il palcoscenico di Sanremo rock(?). Per una formula che si accontenta di collezionare qualche arpeggio in distorsione e un pugno di fraseggi poco originali, facilonerie su tempi dispari e temi depressivi da piccola borghesia, senza oltrepassare gli steccati della buona creanza. Certo, a cercar bene, qualcosa si salva: si parla comunque di musicisti preparati – in giro c’è decisamente di peggio –, capaci di tirar fuori un suono attraente, talvolta in grado di osare qualche incursione in territori elettrici urticanti. Ma si tratta di piccole parentesi, per un disco che vorrebbe tanto, ma non fa. (5.0/10) Fabrizio Zampighi Robert Pollard – The Crawling Distance (Guided By Voices Inc., 2009) G enere : lo - fi pop - rock Abbiamo già avuto modo di notare come, tra le tante manifestazioni del Pollard-pensiero, quelle che portano il suo nome di battesimo, siano le più scadenti. Rieccoci alla riprova delle nostre supposizioni, grazie all’uscita quasi parallela dell’ultimo e più che soddisfacente Circus Devils e di questo The Crawling Distance, a firma del Nostro. La prima impressione che si ha ascoltando i due dischi è che l’autore principale non sia per niente lo stesso. Lo sbiadito e insipido pop-rock, leggermente “sporcato” negli arrangiamenti, a metà tra i Dinosaur Jr. e i R.E.M., del Pollard solista non ricorda, se non molto lontanamente, né il passato dei Guided By Voices né il presente dei progetti collaterali del musicista statunitense. Troppe le banalità e la retorica pop per farlo ap- parire un disco credibile. L’attenzione è tutta concentrata su linee vocali melodiose, arrangiamenti semplici ed essenzialmente relegati al sostegno armonico e un uso della forma canzone che, seppure minimamente esplorata nelle sue possibilità, non sconfina mai oltre le strutture stereotipate. Qualche volte ci si spinge fino al punk rock annacquato di By Silence Be Destroyed, ma a prevalere è quasi sempre un atteggiamento più soft, che non risparmia episodi al limite della decenza, robaccia da radio ultra-generalista come Imaginary Queen Anne. Neanche le fluttuanti melodie di una ballata raffinata come No Island o i toni cupi e darkeggianti di On Shortwave riescono a salvare la barca dal naufragio. (4.8/10) Daniele Follero Ryoji Ikeda – Test Pattern (RasterNoton, 2008) G enere : R yoji I keda Interfacciano sintesi numeriche i composti parametri di Test Pattern, nuovo progetto dell’artista giapponese Ryoji Ikeda a tre anni dal sublime radicalismo di Datamatics. Portavoci di valori performativi, le sedici tracce di Test Pattern oltrepassano la frequenza assumendo ad ogni capo polarità in pattern per poi mutare identità nell’elettronica di segnale. Si ritrattano i principi dell’estetica che acquistano forma e purezza nella geometria contemporanea del limite; un limite finito che attraversa le regole dell’imput/output organizzando pulsioni sonore che difficilmente superano i 5 minuti. Soggetti in segnali ad alte frequenze, in certi casi al limite dell’udibile, che si lasciano condizionare dal ritmo e da governate regolarità, mentre la struttura composita regola le volute tra sferzati, puntinati o modulati ripetitivismi. Geometrie che vanno oltre la minimal-techno e superano i confini del glitch; che partendo da elementi primari, arrivano a plasmare masse di flussi sonori che s’impossessano del limite spaziale a tratti annientandolo, o radicandosi nel mutamenrecensioni / 85 to seriale. Senza mai dimenticare poetica e stato emotivo dell’ascoltatore, a conferma che i cosiddetti nuovi suoni esistono ancora, ed hanno ancora molto da dirci. (7.8/10) Sara Bracco Six Organs Of Admittance – RTZ (Drag City, 20 gennaio 2009) G enere : psych - folk Return To Zero, lo si evince dal titolo, è un disco che va a ripescare nel percorso artistico di Ben Chasny dagli esordi fino agli split con Charalambides, The Magic Carpathians e Vibracathedral Orchestra, attingendo a piene mani tra quei materiali pubblicati in edizione limitata e pertanto attualmente introvabili. E ad iniziare dalla lunga suite Resurrection, divisa in cinque parti, ritroviamo tutti i temi che ricorrono nei dischi più conosciuti del chitarrista folk californiano: la profonda empatia con la natura, la febbrilità di un fingerpicking mai fine a se stesso e la dimensione corale e intimista della voce. Immancabile anche l’utilizzo minimale della percussione, spesso usata solo come contorno ambientale e, ovviamente, quella chitarra stratificata che ha scavato a lungo tra le radici di una tradizione ben consolidata (John Fahey su tutti) e di un’altra invece, tutta da fare, dove è l’uomo, in buona solitudine, a immergersi nella visceralità del suono. Più della metà delle tracce resta sospesa tra il raga indiano e la psichedelia polverosa dei deserti dell’ovest, alle sorgenti dell’intera scena neofolk angloamericana, sulla quale il Nostro, indiscutibilmente, troneggia. Warm Earth, Which I’ve Been Told, la seconda long track del primo cd, rispolvera la componente arcana e oscura dell’ opera dell’ exComets On Fire, forse la stessa che lo ha avvi86 / recensioni cinato, negli anni, a David Tibet. Il secondo cd non si discosta di molto dal primo, richiamando alla mente la storica controparte inglese di Chasny, quell’ Alexander Tucker che segue con la voce le linee della chitarra, fornendo un supporto non indifferente alla psichedelia selvaggia della sei corde. E’ forse tardi per gridare al miracolo, ma contando che si tratta di materiale vecchio è lecito riportare l’orologio indietro. (7.8/10) Francesca Marongiu Susumu Yokota– Mother(Lo Recording / febbraio 2009) G enere : ( elettro ) pop , noir , dream ecc Lo avevamo conosciuto poco più di un anno fà con Love Or die anche se, Susumu Yokota ha già alle spalle una decina di anni di attività e una trentina di album. Tredici tracce e sette collaborazioni tutte al femminile per la neo uscita firmata Lo Recording ma; purtroppo in questo caso non sono i numeri a far la differenza. Mother si lascia controllare e lo si dichiara apertamente già dai primi minuti dalle scelte vocali, senza nulla togliere alle preziose opzioni in talento che reggono il gioco con gradevole grazia ma, tramano inganno. E sono proprio i pieni e i vuoti, le identità in pigmenti elettroacustici e i colori che pagano il pegno, risultando o troppo accondiscendenti ( A Ray of light ) o decisamente fuori posto (Meltwater). Ritornano i residui del Sylvian e gli anni ’90, velati tra le piste a tre di “Love Tendrilises” o dichiarati senza timore nei toccati confini d’intro ambienthouse (The Natural Process) che a suo modo cerca rimedio nel dovuto giusto ordine delle cose (Breeze), tra battiti elettronici e le scritture in frequenza. C’è un po’ di dead can dance, tanto smalto dream e persino quella new age dai bozzetti angel-chic che fanno tanto Enya. Si salvano gli accostamenti in chiaro-scuro trai riff in chitarra e il grazioso cantato di Nancy Elizabeth (A Flower White) mentre le multi-tracce in vocalità dall’approccio forse concreto (Reflect Mind) si lasciano perdere e confondere. Congeniale a suo modo l’accostamento in percussioni e sintesi con le dualità vocali di “Suture” o le chiusure in pianoforte che nel voluto eco si lasciano contaminare dall’avanguardia; anime che sicuramente troveranno rifugio nei salotti per intellettuali cosmopoliti e stagionati. Tirando le somme la noia fa da maestro ma, se volete proprio dirigere l’orecchio e cercare un po’ di sostegno andate verso la fine o centellinate qua e là l’ascolto dove forse emergono alcune attitudini migliori. (5.6/10) Sara Bracco Telefon Tel Aviv – Immolate Yourself (Bpitch Control, gennaio 2009) G enere : electro - ambient - pop Al terzo disco i telefoni approdano sull’etichetta berlinese di Ellen Aillen e si votano all’electropop, tralasciando un po’ le atmosfere dilatate che li avevano contraddistinti sin dall’esordio del 2001. La svolta a tratti è fruttuosa, soprattutto quando si punta sui crescendi in stile Apparat (vedi l’opener The Birds), quando si ricordano in modo estremo gli Ottanta (le percussioni di Helen Of Troy o gli archi darkettoni di Your Mouth) o quando ci si va di progressività puramente synth-pop (You Are The Worst Thing In The Word). Il disco risente comunque di una nostalgia verso il synth-pop che nel complesso si rivela essere troppo melanconica e in certi casi zuccherosa. Se con Maps Of What Is Effortless ci avevano fatto capire di avere qualche colpo in canna ancora da sparare (che in effetti li avrebbe portati a sfornare dei remix epici per gli Apparat), qui Curtis e Cooper entrano nel tunnel del pop in punta di piedi, spogliandosi dell’anima e non riescono a togliersi di dosso la patina di uno scopiazzamento dei Depeche Mode e dei Cure più tastieristici. L’eccellente minimalismo acustic-pop di Circlesquare è distante. L’album potrebbe piacere a chi non ha vissuto a fondo la stagione dell’emotronica, ma i capolavori sono da tutt’altra parte. Senza infamia e senza lode, buono per un po’ di chilling e ‘mai niente di più’. (6.0/10) Marco Braggion Telepathe – Dance Mother (V2, febbraio 2009) G enere : synth - wave evanescente Ce le ricordavamo più tribali, robuste e ossessive, le Telepathe, all’altezza dei primi passi vinilici. Ma si sa, le corte distanze possono ingannare nella stessa misura in cui i primi passi non sempre portano a luoghi (musicalmente) certi. Eccole ora qui, Busy Gangnes e Melissa Livaudais (synth, beats, qualche chitarra e tante voci), alle prese con l’esordio lungo; con quella prova che le metterà spalle al muro e di fronte al mondo, visti anche i nomi coinvolti nell’assemblaggio di Dance Mother, in primis quel Dave Sitek di Tv On The Radio memoria.C’è da dire subito che per chi le seguiva da tempo lo scarto è notevole. Il suono si fa meno corposo, si sfilaccia da quella wave “percussiva” e così tremendamente newyorchese che caratterizzava le uscite minori Farewell Forest e Sinister Militia, per avvicinarsi ad un concentrato compatto e (quasi) senza fronzoli di synth-wavepop accattivante e giocosa. Ripetitiva e minimale. Ossessiva nella sua elementarità. Ma è il senso di evanescenza al limite dell’ectoplasmico a segnare sottotraccia i 9 pezzi di Dance Mother. Un senso di sfuggevolezza che assume di volta in volta forme diverse a seconda della strumentazione usata e che fa pensare ad una sorta di haunted-pop songs. Qualcuno dirà che sono perfette per l’innocuo pubblico da performance arty che ingolfa certo sottobosco indie williamsburghiano. Noi risponderemo che certi dischi, nonostante riferimenti ovvi e un certo senso di inevitabile dejà-écouté, si recensioni / 87 fanno apprezzare al di fuori di qualsiasi improduttiva contorsione mentale sull’utilità della musica. (6.8/10) Stefano Pifferi John Tejada – Fabric 44 (Fabric Records, gennaio 2009) G enere : compil ation techno minimal Il DJ californiano torna a concentrarsi sulla sua ristretta cerchia di amici e sforna un mix degno del Fabric. Ancora una volta minimal techno a farla da padrona, dopo lo scherzetto 80 Metro Area (sul numero precedente della serie del rinomato club britannico). L’omogeneità della proposta conquista subito al primo ascolto e man mano che si prosegue nel viaggio si ricordano le stagioni in cui eravamo là davanti alle casse a vibrare. Perché questo è clubbismo distillato techno. Un magma di progressioni (Subharmonik Atoms) e di laser sonori che fanno tanto sorriso stampato ibizenco (Colorseries Olive B), i confini con l’acidità sorpassati nella poderosa WAX10001 e le due tracce autoreferenziali sono le cose deep che ti stampano il marchio sui timpani per tutta la notte (la collaborazione con Arian Leviste in M Track 1 e con Justin Maxwell in Benus Boats). Ma al di là di troppi tecnicismi, qui si parla di uno che va avanti per la sua strada underground. Con la sua Palette Recordings il ragazzone classe ‘74 si sta costruendo una squadra di adepti che lo seguiranno ancora per molto tempo. I nomi sono quasi tutti qui, e noi siamo felici di poterli ascoltare mixati in maniera ottimale dal loro produttore. Non solo comunque un ‘piccolo spazio pubblicità’. Ci sono anche delle chicche da lacrime. La potenza degli Orbital, le meditazioni di Spooky e il finale in acido con LJ Kruzer. La techno non muore, finché qualcuno ci crede. Fabric must go on. (7.0/10) che divide il comeback da Hobo Sunrise (In The Red, 2004). E molto probabilmente morti (nel senso di sciolti) lo sono davvero, o magari si sono appena riformati e festeggiano la rimpatriata con questo nuovo disco. Con gente del genere non c’è mai da fidarsi troppo. Di certo al momento c’è questo Exit Dreams, e tanto basta per rendere felici noi e chiunque ami quello che genericamente si può chiamare garage. Se poi quello che stiamo ascoltando fosse il canto del cigno degli Hunches, o l’inizio di un’altra sferragliante serie di release, beh, sia come sia la certezza è che colonna sonora migliore non potrebbe esserci. Chris Gunn (chitarre), Hart Gledhill (voce), Sarah Epstein (basso) e Ben Spencer (batteria) (ri)mettono in scena il loro personale teatrino garage-rock ad alto tasso di squilibrio, con un piede nella tradizione e l’altro sui distorsori. Da una parte la storia americana fatta essenzialmente di country e blues, dall’altra il lerciume depravato e iconoclasta del punk-rock. Che è un po’ come dire le ruvidezze dei Pussy Galore intenti a vivisezionare il cadavere del rock e la sguaiatezza slabbrata, teatrale, oscena dei Cramps. Senza mai raggiungere però né il parossismo distruttivo dei primi, né l’enfasi caricaturale dei secondi, evidenziando invece gusto per melodia e perfetto equilibrio formale e stilistico. La tradizione è trattata coi guanti mentre viene seviziata dalla carica irruente dei quattro, fatta di sporcizia del suono e grezzume dei ritmi. Perle come la conclusiva Swim Hole con quell’annegare una melodia infantile e irresistibile in un’orgia cacofonica esaltante, e l’opener Actors col suo stomprock robotico, lo dimostrano appieno. Volume a palla è quello che si merita un disco del genere. (7.0/10) Stefano Pifferi Marco Braggion The Hunches – Exit Dreams (In The Red, febbraio 2009) G enere : garage - rock Li davamo per morti, visto lo iato quinquennale 88 / recensioni The Vickers – Keep Clear (Foolica / Halidon, 13 febbraio 2009) G enere : indie - pop Ai tempi dell’EP autoprodotto che finì tra le grinfie del nostro We Are Demo guadagnandosi un quasi sette, li paragonammo a Pavement, Libertines e Radiohead. Una scelta su cui ritorniamo ora - a disco d’esordio acquisito - non senza qualche perplessità, dal momento che se è vero che qualcosa delle formazioni citate la si ritrova ancora nella musica dei Vickers, è vero anche che ben altro si nasconde sotto la superficie. Nel nostro outing di inizio anno potremmo comunque coinvolgere anche illustri scrivani di altri “lidi”, dal momento che il ventaglio di riferimenti scomodato per definire il sound del gruppo toscano è stato ed è tutt’ora, ampio e variegato: Thrills, Coral, Turin Brakes, Bluetones, Charlatans, Oasis, Blur, ancora Pavement, solo per fare qualche nome. Una tendenza che, al di là delle facili battute di spirito, la dice lunga sul valore di una formula ricca e ambivalente, per certi versi riconoscibile ma anche sufficientemente originale da svincolarsi dalle facili categorizzazioni formali. Ancora di più in questo Keep Clear, deciso passo in avanti rispetto al passato recente oltre che – lo diciamo subito – disco di assoluto di valore. Dodici tracce per lo più chitarra, batteria, basso, tastiere, il cui maggior pregio è forse il naturale appeal melodico, unito ad un’orecchiabilità virata seppia familiare quanto spumeggiante. Una scrittura rubata al brit-pop meno banale come all’incedere energico di Pete Doherty e colleghi - Here Again -, al Dylan più sboccato - I’ve Got You On My Mind - come alle indolenze di Neil Young - I’ll wait -, che riesce a entusiasmare senza svilire i modelli originali. Collezionando invece piccole gemme con stupefacente semplicità, giocando con gli arrangiamenti, concedendo a musica e testi il giusto spazio, facendo apparire semplice un lavoro di rifinitura, invece, puntuale. Niente di trascendentale, verrebbe da dire, ma ce ne fossero di musicisti così. (7.1/10) Fabrizio Zampighi The Felice Brothers – Self Titled (Team Love Records, gennaio 2009) G enere : A mericana Capita, è capitato, capiterà ancora. Capiterà sempre. Che un guizzo di tradizione Americana (folk, blues, swing...) s’incarni in una situazione contemporanea, di cui senti con chiarezza la forza, l’estro risaputo ma necessario delle cose maturate a contatto con la vita vera. Simone, James e Ian Felice da Catskill, stato di New York, misero assieme la band come uno scherzo della passione nel non troppo lontano 2006, finendo per fare i busker nella metropolitana della Grande Mela, cogliendo apprezzamenti e strappando entusiasmi che li portarono di lì a poco ad un tour in terra d’Albione, laddove licenziarono per la Loose Music il debutto Tonight At The Arizona (2007). I pochi che hanno avuto il privilegio di ascoltarlo (tipico caso di distribuzione a singhiozzo) ne sono usciti elettrizzati, una di quelle scariche valvolari d’una volta, che non lasciano in pace nessun nervo o capello. Le esibizioni live, alcune prestigiose come al Folk Festival di Newport, ribadirono il concetto. Ed eccoci a questa sorta di secondo debutto, giustamente omonimo, per la Team Love Records. Un gran disco, quindici pezzi in cui l’estro roots sprizza uno sghembo, irresistibile vitalismo, come una scorribanda Tom Waits nella famosa cantina della famosa Casa Rosa, con Dylan e The Band felici di impastare ebbrezza e arcaicismi, smarrimento ed eccitazione, sacro e profano. Rag dinoccolati nella taverna dei buoni sentimenti alcolici, tenerezze country, storie spietate e impietose, violini e fisarmoniche, pianoforti e banjo, il conforto sbruffoncello della sezione fiati, voci che ammiccano, sproloquiano, ti consolano e si consolano. Canzoni come agili liturgie sconsacrate, grarecensioni / 89 vi e asprigne come la stupenda Helen Fry, argute e struggenti come Greatest Show On Earth (venata di infingarda flemma Lambchop), colme di indomita apprensione come Murder By Mistletoe (di quelle ballad che Grant Lee Phillips non ci regala più da tempo), trascinanti e scombiccherate come Frankie’s Gun!, languide e distese come Don’t Wake The Scarecrow. E lì in mezzo Goddamn You, Jim, a fungere da formidabile anomalia, con la sua gravità degna dei Low più funerei. Certo, siccome la veridicità è un lusso che la finzione non sempre può permettersi, capita di avvertire un vago senso di artificio, di inevitabile edulcorazione, un po’ come accadeva con gli I Am Kloot (ex busker pure loro), se ricordate. Ma, vi assicuro, non è un prezzo caro da pagare. (7.3/10) Stefano Solventi These Are Powers – All Aboard Future (Dead Oceans, 17 febbraio 2009) G enere : electro Questo è quello che vorremmo da un genere. Esplorare i confini – in questo caso dell’electro - ma mantenere riconoscibili i riferimenti classici. Creare accostamenti inediti. Riprovare strade che si sono dimostrate pericolose – pensiero fisso alla parabola post-El Guapo, e ogni esempio di ciò che sarebbero potuti diventare scegliendo altre strade mette amarezza da un lato e speranza (per il nuovo) dall’altro. Tanto ci sarebbe bastato per caldeggiare l’ascolto di All Aboard Future, nuova prova per These Are Powers. Ad aggiungere interesse nei confronti di questa uscita c’è poi anche la recente storia della band, con l’auto-definizione “ghost punk” che, come si ricordava su SA, i TAP proponevano per se stessi fino allo scorso Taro Tarot. Va allora sommato a quanto detto lo scarto qualitativo dei generi; e pensate a come sia possibile cercare un ancoraggio (di velcro, naturalmente) a tutto lo spettro dell’electro, dalla sua declinazione pop all’industrial music for industrial people, dai Brainiac alle spezie digital hardcore. Si parte così con una versione più tirata dei Blow con Easy Answers; drum machine, co90 / recensioni lori, aperture, niente di risparmiato, nessun lavoro di sottrazione; si va più in là, rasentando gli Adult, con Life Ob Boards; si incrociano le due proposte con Double Double Yolk. Ma che ne è allora del fantasmatico e scheletrico suonare cui ci ha abituato la formazione? Proprio qui sta l’asserzione del disco, ci pare. Sì perché è nella mimesi di Genesis P-Orridge di Light After Sound riscopriamo il velo oscurantista della prima industria fatta a musica, e i These Are Powers sono in grado di metterci dentro un riff tecnologico ma pur sempre chitarristico, ponte (come etimo vuole) tra il prima e il dopo, il rock e l’elettronica, il fantasma, lo scheletro e la carne. Insomma, pur corpulenta, anche questa elettronica è scarnificata. Ossimorici i These Are Powers. E, cosa che li rende ancora più convincenti, gente in grado di far risbucare la propria ontogenesi nella filogenesi di questo ultimo lavoro. Non un capolavoro, ma una prova difficile e superata. (7.0/10) Gaspare Caliri Tim Hecker – An Imaginary Country (Kranky / Goodfellas, febbraio 2009) G enere : ambient L’uomo che compone “musica per stati d’animo da 4.00 del mattino” ritorna in proprio. Dopo la parentesi in compagnia di Aidan Baker, Tim Hecker riprende il discorso avviato con Harmony In Ultraviolet regalandoci un nuovo saggio di allegoria ambient. An Imaginary Country, volendo smentire i dettami dell’autore, lo si può ascoltare in qualsivoglia fascia oraria, che sia notte fonda o l’inizio di un nuovo giorno, visto che l’effetto sarà sempre di totale trascendenza. Meno austero del predecessore, il lavoro si stende alla maniera di un concept il cui soggetto è un immaginario paese esistito un secolo addietro (100 Years Ago), bagnato da acque pulsanti (Sea of Pulses, arricchita da un beat che fa tanto Jetone, il moniker minimal techno del Nostro) che cingono l’umorale ambiente (l’elegiaca Borderlands) affinché i corvini orizzonti in lontananza (Her Black Horizon) vi si possano specchiare imponenti. Non si esagera se ci considera Tim Hecker alla pari dei Flying Saucer Attack oppure, giusto per rimanere nel presente, evocativo quanto l’ultimo Fennesz. C’è ��������������������������������� vita dopo Black Sea (Of Pulses). (8.0/10) Gianni Avella Tony Formichella & BaseOne – Not Too Long Ago (Point Of View / Halidon, 2008) G enere : jazz Jazzista d’avanguardia – c’è chi lo paragona, senza falsi pudori, a Sonny Rollins -, musicista con alle spalle quarantacinque anni di carriera spesi tra Stati Uniti e Italia, collaboratore di artisti come Rino Gaetano – suo l’assolo di sax ne Il cielo è sempre più blu -, Tony Formichella colleziona con Not Too Long Ago nove spaccati di raffinato jazz d’autore. Materiale in bilico tra fascinazioni latine (Africa) e funk anni settanta (Perverso Blues e Shatto), toni caldi (Blue Blues) e rielaborazioni della tradizione (Saint Lawrence), che oltre ad ammaliare con le sue cadenze misurate, rivela una classe figlia, soprattutto, dell’esperienza. La si coglie nelle partiture ma anche nell’estetica ricercata dei suoni, con quel distendersi pacato del sax su fantasie minimali di batteria, chitarra, contrabbasso, flauto traverso e ottoni. Una musicalità che non pretende sforzi di comprensione fuori dal comune, non nasconde brutte sorprese, non prevede stravolgimenti, ma vive invece di particolari e sfumature. (6.9/10) Fabrizio Zampighi Van Morrison - Astral Weeks Live at the Hollywood Bowl (Listen To The Lion Records / EMI, 10 febbraio 2009) G enere : folk soul Se Van Morrison non avesse pubblicato Astral Weeks lo rispetterei moltissimo ma non lo amerei quanto in effetti lo amo. E la mia vita sarebbe indubbiamente più vuota. Il primo a rendersene conto è proprio Van “The Man”, che quaranta anni dopo quel prodigio di vinile ha deciso di rendergli omaggio rivisitandolo live per due serate - ovviamente sold out - all’Hollywood Bowl, in quel di Los Angeles, California. Durante quei concerti è stato catturato il materiale per questo Astral Weeks Live at the Hollywood Bowl, titolo che inaugura l’etichetta personale di Morrison, la Listen To The Lion. Disco che trasuda un entusiasmo - va da sé - maturo, dove un disinvolto delizioso horror vacui riempie gli interstizi con friniti di viola, svolazzi di fiddle, trilli di mandolino, vampe di ottoni, palpiti d’organo. Insomma tutto un ricamare sbrigliato e friabile che non sovraccarica semmai spampana i bordi (e i testi) di quei vecchi gloriosi pezzi, stemperandone la densità in un rituale liberatorio, capace di sdilinquirsi con la disinvoltura del jazz-rock-soul andato (raggiungendo l’apice in Ballerina e in Listen To The Lion, una delle due bonus track). In tutto ciò, la voce del cerimoniere paga impietosamente dazio alle ere geologiche trascorse, mostrandosi competente (e ci mancherebbe) ma legnosa nelle movenze, pronta ad affrontare le dinamiche più impervie ma depauperata del pazzesco bouquet timbrico che ricordavamo. Insomma, ho una notizia per voi: la nostalgia è un gioco tenero e crudele, sia quando finge di credersi vera sia quando - come in questi casi - s’illude di non averne bisogno. La differenza è sottile come il filo delle emozioni, e tenace allo stesso modo. La differenza la fate voi. (6.9/10) Stefano Solventi Vetiver - Tight Knit (Sub Pop, 17 febbraio 2009) G enere : folk pop Smaltito ormai del tutto il flirt col prewar fricchetrecensioni / 91 Highlight Svarte Greiner – Kappe (Type Records, febbraio 2009) G enere : dark ambient Ritorniamo in Norvegia. Li dove fa sempre freddo e il sole è un disco magro che non dà luce né calore. Avevamo lasciato l’eroe del precedente disco Knive, un kafkiano e ideale “signor K”, alle prese con boschi neri, flutti paludosi, corvi minacciosi e uno spirito d’assenza e abbandono, nella spaesata scenografia d’ambiente architettata da Erik K. Skodvin. Nel 2009 assistiamo alla seconda parte di questo immaginario e intangibile excursus. Il signor K è riuscito a tirarsi fuori dalla selva oscura e pertanto questo sequel cambia buona parte dell’arredo di scena. I suoni perdono quasi del tutto quel mood onomatopeico che si alimentava a sparsi e disparati field recordings e inscenava gli andirivieni nella natura minacciosa. L’anelito metafisico verso l’alto è compiuto e il signor K si ritrova in una serie di malevoli e oscuri arredi interni, con pesanti tendaggi d’archi e un florilegio di note sostenute nel vuoto. E’ questo il nuovo trademark di Svarte Greiner: lasciare che le note cerchino una via d’uscita senza apparentemente trovarla. Da qui una sorta di pesante stasi armonica, costantemente ostile e intimidatoria. I sette minuti iniziali di Tunnels Of Love viaggiano via verso riverberi ed echi sempre più irraggiungibili e quando ti sembra di aver visto la via di fuga, ti accorgi che dietro la tenda la finestra è murata. Rispetto al primo disco, Skodvin si è ulteriormente raffinato come ambiguo esegeta del mistero. Non cerca più di spaventare quanto proprio di angosciare, calando ogni cosa in una nube di indeterminatezza. Ne sono testimonianza i sedici minuti abbondanti di Candle Light Dinner Actress forti della mano di Kjetil Møster degli Ultralyd e dei macabri riverberi d’oltretomba che si animano sulla scia del Wendy Carlos di Shining, ideali traghettatori verso il climax sinfonico finale di Last Light. L’ultimo segno di luce prima che arrivi il buio. (7.5/10) Antonello Comunale tone devendriano - mai troppo conclamato a dire il vero - il quintetto californiano capitanato da Andy Cabic torna a mettere in scena la consueta fascinazione folk, con piglio assieme frugale e alieno, ovvero spendendosi con le movenze e i modi delle ballate country rock ostentando la devozione e il distacco di chi proviene da altrove. Mai come in questo quarto album il punto di vista è sembrato 92 / recensioni - se me lo consentite - british. Difatti, oltre ai noti rimandi George Harrison (la dolciastra intraprendenza di Everyday, l’indolenza acidula di Strictly Rule, lo sperso incanto di Rolling Sea), t’imbatti in una Through The Front Door come potrebbe Badly Drawn Boy invaghito Mojave 3, oppure in una Strictly Rule che sembra i Belle And Sebastian di Legal Man narcotizzati dal peyote Gomez. Quin- di - su un altro piano di alterità - ecco scorrerci davanti una mischia oppiacea Lennon-Flying Burrito Bros (quella Sister che ricicla con svampita delicatezza Stand By Me), una fatamorgana Califone parecchio ingentilita (il mantra folk tra caligini elettroniche di Down from Above) e una At Forest che ciondola soffuso abbandono velvettiano altezza Loaded, per non dire di quella Another Reason To Go che strascica fiati e chitarrina liquorosa su disincanto bluesy tipo l’ultima Cat Power. A parte questa sensazione di riciclaggio tanto affettuoso quanto subdolamente po-mo, siamo dalle parti di un intrattenimento ipnotico e carezzevole, tutto sommato innocuo, con qualche pretesa psych che ne sfuma in meglio i limiti e gli obiettivi. Da ascoltarsi quindi come un buon lenitivo. (6.4/10) Stefano Solventi Claro Intelecto – Warehouse Sessions (Modern Love, gennaio 2009) G enere : deep techno Mark Stewart ritorna con l’attesissima compilation che raccoglie in CD i 5 vinili delle sue famose sessions berlinesi (e aggiunge pure una postilla). Se l’anno scorso ci aveva stupito per la sua raffinatezza ai confini con l’IDM con quel botto che è stato Metanarrative, oggi questa antologia ci conferma che il ragazzo ha uno stile. Punto. Anni fa lo si sentiva poco, nascosto in qualche compilation o in qualche set che rischiava. Oggi non occorre più andare a inseguire le uscite in vinile o il downoad selvaggio. La prova ce l’abbiamo qui. Il suo moniker è più azzeccato che mai. Fa il furbo: stare con un piede nella deep e non annoiare il pubblico techno è dura. Mark ci riesce. Dal 2006 a oggi nelle sue corde sentiamo il compagno di etichetta Andy Stott e quel Maurizio come ombre che assistono la darkness e la visione. Tutta gente hypercool che sbanca con 4 battute e un po’ di cassa caldissima. E allora via con la giostra fatta di trance dub sporcata glitch à la Rhythm & Sound (New Dawn), l’inno uberBerlin che è X (ascoltatevi il passaggio in eco a metà e ditemi se non siamo in zona Basic Channel), la spaventosa parata di effetti di delay e panning in Instinct e per finire Hunt You Down, 10 minuti che guardano nell’abisso del minimalismo. Irresistibile e a tratti oscuro. Qui si esprime la forza del club, senza alcun riguardo per l’editing da album. Se l’anno scorso c’erano state le Carl Craig, quest’anno ci sono le Claro Intelecto Sessions. Altroché. Lasciamolo respirare. Lasciamolo fare.(7.3/10) Marco Braggion Wavves – Wavvves (De Stijl, gennaio 2009) G enere : lo - fi beach - punk Noise-pop in modalità lo-fi dalla assolata California. Nascondismo di default e isolazionismo fatto bandiera ideologica. Immaginario retro-futurista già ben noto – si veda alla voce Blank Dogs – ed escamotage puerili – raddoppio delle consonanti, nello specifico – che cominciano a mostrare la corda. Ce ne sarebbe per dire basta alla terza riga. Però. Come in tutte le (in)certezze che si rispettino c’è il fatidico però. Però,si diceva, nonostante tutti gli indizi giochino a sfavore, sto disco spacca totalmente. Spacca davvero, e per un semplice fatto: perché al versante più synth-cold-wave di altre sensazioni – si veda sempre alla voce di cui sopra – Wavves oppone un immaginario di riferimento totalmente bubblegum-pop. Le sue sono proprio canzonette dalle melodie irresistibili; spinte, sconce, abbrutite, violate, sia quel che sia ma sempre e solo canzonette irresistibili sono. Che vengano totalmente trasfigurate da baccanali di lerciume elettrostatico o deturpate da ritmiche pestone e poverissime, beh, poco conta alla fin fine. Anzi, aggiunge proprio quel nonsochè che porta l’etichetta a definire questo suono the sound of today’s american youth e noi a darle ragione. Nathan Williams, classe 1986, da San Diego – perché i misteri, nell’era del 2.0, non esistono – ha messo su un dischetto, riedizione della cassetta per Fuck It Tapes, niente, niente male. (7.0/10) Stefano Pifferi recensioni / 93 William Elliott Whitmore - Animals In The Dark (Anti, 17 febbraio 2009) G enere : A mericana Dovessi suggerire un disco al mio migliore amico voglioso di Americana, consigliando questo Animals In The Dark andrei sul sicuro. Se mi chiedesse qualche dettaglio, gli direi che col quinto album William Elliott Whitmore porta il suo country nella zona franca che separa e unisce il mainstream dall’alternativo, definendo con sempre maggiore lucidità quella calligrafia fatta di tradizione integerrima, basata su un ristretto novero di segni immediatamente riconoscibili, intensamente tipizzati. Una fisarmonica, l’hammond, il dobro, quella voce che sembra appena strappata al ventre della terra, alle inquietudini e alle speranze covate sotto al front porch. E la morbidezza, soprattutto la morbidezza con cui accoglie stemperandola un’ebbrezza black, tanto che - volendo tagliare un paragone con l’accetta - sembra posizionarsi rispetto al soul e al blues come Ben Harper si pone rispetto al folk-rock. Quale esempio porterei senz’altro la trepida There’s Hope For You, oppure i tremori espettorati da Who Stole The Soul e Let the Rain Come In. Inoltre direi buone cose sulla disarmante fierezza che pervade l’invettiva corsara di Mutiny, così come sulla grana redneck fragrante e priva di boria di Johnny Law e Lifetime Underground. Infine lo rassicurerei, che in certi casi la genuinità la senti a pelle, capisci quanto profondamente è radicata anche dalla serenità con cui si disimpegna tra un malanimo e l’altro. Questo è uno di quei casi. (7.0/10) ultima band, Hidden Hand, infatti, l’ex chitarrista di Obsessed e Saint Vitus, gruppi che hanno scritto le prime pagine della storia del doom, ha pensato bene di provare la strada solista, firmandosi con il solo nomignolo. L’approccio è un po’ disorientante per la varietà di elementi messi in campo. L’impronta doom conserva la sua influenza su un lavoro che accosta con disinvoltura, ma anche con cognizione di causa, la psichedelia (Wild Blue Yonder) l’acid blues (Release Me), il funk-metal (Smilin’ Road) e il Thrash (la Title-Track; The Woman In The Orange Pants), mentre un brano come Eyes Of The Flesh ricorda quanto siano debitrici (ieri come oggi), le correnti più oscure del metal, ai primi Black Sabbath. Non mancano le cadute di stile, come il rock un po’ amorfo di Secret Realm Devotion, e gli stereotipati momenti di intimità con la chitarra (Water Crane e i vari assoli-fiume un po’ noiosetti) molto comuni tra i chitarristi metallari. Ed abbondano le soluzioni scontate e decisamente retrò, prevedibile richiamo alle migliori cose fatte in passato da Weinrich. Ma c’è da tenere conto anche, che non ci troviamo di fronte l’album di un povero cristo invecchiato e all’ultima spiaggia, ma di un musicista stagionato che qualcosa da dire ancora ce l’ha. Al di là di tutti i possibili, probabili e concepibili momenti revivalistici (6.4/10) Stefano Solventi Daniele Follero Wino – Punctuated Equilibrium (Southern Lord / Southern, gennaio 2009) G enere : metal e dintorni Yussuf Jerusalem – A Heart Full of Sorrow (Floridas Dying, dicembre 2008) G enere : garage folk noir Dopo venticinque anni di carriera, Scott “Wino” Weinrich, chitarrista dal passato glorioso negli ambienti metal, ha deciso di fare per la prima volta le cose da solo. A seguito dello scioglimento della sua Cosa unisce le tonalità oscure di un certo neo-folknoir con quelle più ruvide, ma anche più solari, del garage-country-rock? Il disco di Y ussuf Jerusalem – primo LP di Floridas Dying – da una risposta 94 / recensioni ed una testimonianza in questo senso. Questo misterioso gruppo francese (le foto dei live rappresentano un trio, ma potrebbe essere una soluzione solo per i concerti) arriva al debutto con un album che fa piazza pulita di ogni purismo di sorta, offrendo in prima battuta una luttuosa copertina che sembra provenire più dal più tetro e putrido underground black metal che dai circuiti del garagepunk. E su quell’asse si continua con l’opener Gille De Rais che fa subito tornare alla mente i Celtic Frost nel nome e band ben più estreme come i primissimi Emperor nel sound. Con il secondo pezzo, che da il titolo all’album, cambia tutto: chitarre acustiche celticheggianti si sposano con linee vocali dal sapore di Midwest statunitense, quella tradizione americana che arriva fino a Lanegan e Woven Hand. Da qui si continua con ballate di alto impatto emotivo e di lodevole fattura in cui acustica, elettrica ed elettronica si mischiano alla perfezione, sempre in un sottile ma mai precario equilibrio; e allora la tradizione dei cantautori folk americani (The One You Really Want) si ricongiunge con i suoi esiti moderni (We Aint Coming Back ricorda i GoodNight Loving) senza per questo dimenticarsi di un certa canzone popolare medievale (The End Of Tomorrow), il tutto intervallato solo dall’obliquo interludio pianistico di Jihad. Negli ultimi anni raramente Death In June e Roky Erickson, Current 93 e Neil Young sono stati così vicini come nei solchi di questo disco. (7.5/10) Andrea Napoli Zeitkratzer – Volksmusik (Zeitkratzer Records, 2008) G enere : avant - folk Ribalta i canoni cari alla scrittura classica del primo ‘900 l’ensemble berlinese Zeitkratzer, e si concede alla direzione di Reinhold Friedl, nel tentativo inesausto di rompere gli schemi. In Volksmusik è una evidente matrice folk che attraversa i confini di Austria, Bulgaria e Romania a dettare i tempi di una musica complessa ma per nulla cerebrale. Nessun atteggiamento nu-folk e neppure leziosi orpelli strumentali, ma vere e propria avanguardia in chiave popolare che sembra non rinunciare nemmeno alla presa diretta. L’impatto è notevole, anche se ad alcuni potrebbe sembrare trasgressivo per le dissonanze da live, tra ritmi incalzanti, rallentati o trattenuti a mezz’aria. Con le vibranti danze di Batuta, le ancestrali rivisitazioni di Picior, la lettura jazz di Mountain e le percussioni tzigane di Bouchimich si abbattono le frontiere di un genere ormai ben radicato negli archivi sonori di Volksmusik, a conferma anche questa volta che l’originalità premia. (8.0/10) Sara Bracco Zomby – Where Were You In ‘92? (Werk Discs, novembre 2008) G enere : hardcore rave - step Tempo fa un personaggio senza nome usciva in sordina e ci sfornava un capolavoro del dubstep. Si chiamava Burial. Solo dopo qualche tempo si è capita a fondo la potenza del suo esordio. Oggi un altro che ama nascondersi esce con un disco che ha qualcosa in più. Lui dice di chiamarsi Zomby. E fa hardcore. Fin qua niente di sorprendente. Eh no, dico io! Fare hardcore oggi è come spararsi addosso. Bisogna avere le palle quadre per riproporre ancora una volta le sonorità della generazione E. Zomby ce la fa e ci sforna il disco che mancava per iniziare degnamente il 2009. Anche se uscito alla fine dell’anno appena terminato, questa chicca entra nel mondo dubstep e lo sfalda in modo inaspettato. Per cui ce ne freghiamo e lo recensiamo ora, consapevoli che ne sentiremo riparlare. Ma che cos’è quest’album? Solo un ricordo del rave? Come già detto in numerose recensioni e speciali, la cosa per cui ci si distingue oggi è la capacità di meshing e di rifrullo della storia. E allora se in certi punti non si può prescindere dalla cupezza (vedi la citazione dal monologo più famoso di Blade Runner in Tears In The Rain), il grosso di queste 14 tracce esula dalla grimeness e ci riporta direttamente a contatto con il rave. Tutti quei break spezzati, recensioni / 95 quei laser che ci attraversavano la mente e quelle tastiere robotiche sono di nuovo atterrate. Le mitiche sirene à la O.R.B. in Get Sorted, le vocine velocizzate in We Got The Sound, i beatz superblack con le voci acute che tanto piacciono al popolo del drum’n’bass (splendide in Float), il trucco nerdy che non muore mai (il remix dello Street Fighter Theme). Il resto è un omaggio palese al rave. Ma se il tributo è fine a se stesso non ci smuove più. Zomby è invece un vulcano che sta per scoppiare. Perché con questa mossa disconosce e rifonda in modo furbissimo le sue origini dubstep. Una mistura intelligente che colpisce il trentenne e che spopolerà nel popolo di head bangers che nel 92 non era ancora nato. We were with you, Zomby.(7.5/10) Marco Braggion Zu – Carboniferous (Ipecac, 17 febbraio 2009) G enere : jazz core Zu non sbaglia un colpo. Non ci pensa neanche la band romana ad indietreggiare e non pare per niente propensa a fare passi falsi. Dieci anni di dischi, critiche positive e tour in tutto il mondo, non sono riusciti ad appagare il trio romano, che si tiene distante dalla tentazione di accomodarsi sui famigerati allori. Dieci anni durante i quali Mai, Battaglia e Pupillo le hanno provate davvero tutte, trovando il coraggio, di volta in volta, di ricominciare da capo, facendo si che ogni esperimento potesse godere di vita propria. La formula del 3+1 (con il trio a costituire la struttura di svariate collaborazioni) ha concretizzato questo spirito progressivo, creando incroci “pericolosi” che di volta in volta hanno parlato un linguaggio diverso. Thurston Moore, Steve MacKay degli Stooges, i jazzisti Ken Vandermark, Han Bennink e Mats Gustafsson, Nobukazu Takemura, il violoncellista Fred Lonberg-Holm, la band hip hop Dälek, sono solo alcuni dei nomi che hanno vestito i panni del “quarto Zu”, influendo radicalmente sulle idee del trio ostiense Carboniferous è un disco importante, un ennesimo punto di svolta. 96 / recensioni E per vari motivi. Intanto perché, come prima si è accennato, piazza la decima candelina sulla torta di una carriera discografica di tutto rispetto. Poi perché segna l’inizio della collaborazione di Zu per la Ipecac di Mike Patton, coronamento di un incontro musicale già rodato dal vivo durante il tour con la doppia band Melvins-Fantomas. Terzo, perché per la prima volta non c’è un “quarto”, almeno in organico. Già perché di ospiti illustri ce ne sono comunque. A parte lo stesso Patton, che presta la sua voce trasformista e un pizzico di Mr. Bungle alla causa (come definire altrimenti le atmosfere schizofreniche di Soulympics e Beata Viscera?), si aggiunge al gruppo anche la chitarra di King Buzzo (Buzz Osborne) dei Melvins. Le soluzioni di questa bizzarra equazione sorprenderebbero anche il più scettico. La durezza metal e i tempi quasi doom, caratteristici del sound del trio, che trovano espressione nelle atmosfere dark di Chthonian e Carbon, lasciano spesso e volentieri il posto a velocissime cavalcate math-noise (Ostia), a follie hardcore alla Naked City (Erinys), arrivando a spingersi fino all’ambient delirante di Orc. Un pot-pourri coerente, nel quale neanche per un attimo si perde la bussola dello stile che ormai i Nostri hanno scolpito nella roccia di un sound granitico, spigoloso e ormai assolutamente inconfondibile. (8.0/10) Daniele Follero recensioni a confronto zZz – Running With The Beast (Anti / Self, dicembre 2008) G enere : wave / post - punk Mi chiedo dove sia l’hype e soprattutto il buon gusto. Il duo olandese costituito da Daan (organo) e Tjess (batteria e voce) varca con imbarazzo il dancefloor rock degli ‘80 con numeri che sanno di liofilizzato batcave, scimmiottando dove è lecito i Sucide, senza chiaramente sfiorare la profondità ed il fascino del duo Rev/Vega. Del resto se gruppi “cartoon“ come gli MGMT (visti lo scorso anno al Primavera Sound di Barcellona meritavano una simpatica tanica di benzina a bordo palco) riescono ad ammorbare le fantasie di critici e fruitori deve pur esserci qualche tarlo. Il migliore duo con questo tipo di strumentazione rimangono i Silver Apples, concedetemelo, una sola nota per mettere a tacere la prova di questi pur volenterosi ragazzotti dai Paesi Bassi. Non posso non pensare alla schizofrenia dei primi Rah Bras od alle pur contagiose evoluzioni dei Dance Disaster Movement, che mai hanno usufruito di una distribuzione “major“ ed hanno finito per occupare le poco ambite stanze del dimenticatoio. Volete ascoltare un organo creepy? Beh, allora risentitevi il buon vecchio Ray Manzarek, anche quando si affacciava in Los Angeles degli X o – se desiderosi di un esempio contemporaneo – Maya Miller dei Religious Knives. Ammiccanti e oscuri, su questo binomio costruiscono la loro fama gli zZz, risultando in ibridi discutibili come Amanda, un qualcosa tra i Joy Division e l’Iggy Pop di Cry For Love. Spoil The Party è forse uno dei brani più spinti e muscolosi con una pressante cassa in 4, troppo poco per ambire ai luoghi culto della disco moderna, troppo derivativi per aggiungere note alla grande tradizione wave britannica. Da rivedersi. (5.0/10) Sulle prime, il nuovo lavoro degli olandesi Zzz suona come l’ennesimo gruppetto di maniera neo-wave preceduto dal suffisso “The” (Departure, Editors e via discorrendo). Anzi, se ci soffermassimo alla sola traccia inaugurale, Lover, non potremmo che pensare ad un clone bramoso di gloria parimenti i The Killers. Ma Running With The Beast, col passare degli ascolti, si manifesta disco sinistro e spigoloso. Prendiamo ad esempio la voce: giocata su varie tonalità di nero, talvolta evoca lo spauracchio di Ian Curtis (la ballad finale Islands) e tal’altra il luciferino baritono di Alan Vega (il boogie di Grip). La ritmica gravita su registri post-punk epico alla maniera dei Simple Minds periodo Empires and Dance (Spoil The Party) o stile Psychedelic Furs dei tempi moderni (Angel, con tanto di sax in coda), senza lesinare digressioni à la Man or Astro-Man? (Sign Of Love), sortite swamp-wave (Majeur), acidi pastiche pop tra Beatles e Beta Band (The Movies) e invettive space-rock (Sign Of Love, Running With The Beast) che, riversate in ambiti new wave, non possono che mirare ai mitologici Chrome. Fortunatamente la prima impressione è stata smentita. L’onda lunga del suono a cavallo tra ’70 e ’80 non si spegne, e finché non si intravedono cloni di A Flock Of Seagulls all’orizzonte ci sta bene così. (7.5/10) Gianni Avella Luca Collepiccolo recensioni / 97 live report Jamie Lidell – Live @ Velvet, Rimini (24 Gennaio 2009) Live: Squartet + Testadeporcu – Traffic, Roma (15 gennaio 2008) Nessuna band, solo un gregario al piano, all’organo e ai svariati tricks. In una parola “soul”. Quello di prim’ordine, quello con anima vibrante e corpo trascinato al movimento. Quello che si porta dietro la storia tutta di un genere e non la offende, vedendola anzi omaggiata da una vocalità fuori dall’ordinario e da un savoir-faire on stage che elettrizza l’imberbe ascoltatore che non sa quello che potrà attendersi. E Jamie, un novello Stevie Wonder bianchissimo, tiene il palco benissimo con le sue smorfie e le sue movenze da autistico completamente inebriato dal proprio senso del ritmo che esterna al meglio facendosi “human beat box”, basi e bassi grossolani partoriti dalla bocca ma rigorosamente a tempo che registra e campiona sul momento per crearsi una fondamenta da cui sprizzare tutto il suo dilagante entusiasmo, che è tangibile poiché non filtrato. Certo la formula “beat campionati + vocalismi” può allettare (e lo fa eccome) ma alla lunga tende a risultare un tantinello monotona e la fruizione dei pezzi (principalmente presi, come ovvio, dall’ultimo Jim) talvolta richiamano la mancanza di una vera e propria fullband alle spalle. Tanto basta però per assaporare qualche brivido e sentirsi per una volta “neri dentro”, quando soprattutto si arriva ad un finale da singalong col pubblico sulle note di una “Another Day” a cappella, di cui prendere e stampare il testo da esporre sullo specchio come monito positivista al fine di cominciare al meglio ogni singola mattina. Insomma un figlio della tradizione e della bizzarria dell’artista a tutto tondo che per fortuna è ben attaccato al comunicare le proprie sensazioni, forse più dal vivo che su disco. E come si dice, “quando lo spettacolo si fa emozione”… Rome is burning. Una nebbia padana sorprende i cieli stellati della capitale e avvolge il Traffic tutt’intorno. Il locale, dopo il restyling del piano inferiore, si è assestato in un accogliente mood anglofono anche su quello superiore. Niente più poster grindcore, locandine di gruppi emo né gadget giovanilisti. Siamo adulti e un po’ navigati, quindi largo all’ordine e alla pulizia. Stasera assisteremo all’esibizione di due delle costole della Jazzcore Inc.: Squartet e Testadeporcu. Romani e con un disco uscito di recente i primi (Uwaga!, Jazzcore Inc, 2009), bolognesi e in procinto di entrare in studio i secondi. Come da copione capitolino, il concerto inizia tardi; i tre Squartet, Manlio Maresca alla chitarra, Fabiano Marcucci al basso e Marco Di Gasbarro alla batteria, prendono possesso del palco mentre dalla consolle fa capolino la testa rasata di Mr. Jamming (soundman e componente del gruppo ad honorem). Inaugura la scaletta Il piccolo samaritano, seguita da vari estratti da Uwaga! (Perky Pat, L’infame, Sexy Camorra). Il trio, compattissimo, attacca, sbanca, si ferma, cambia ritmo, ricomincia. I pezzi scivolano metronomici e goliardici uno dentro l’altro, supportati dal genio chitarristico di Maresca che rimanda tanto a certo virtuosismo pre-war quanto al rock e al punk, il tutto annegato in un fertile territorio jazz, regno di febbrili ostinati e cambi di tonalità. Il basso emette delle bordate sì massicce e armoniche che quasi non ci si accorge che nei primi pezzi l’ampli sull’impianto è off. E la batteria è il cuore pulsante nella corsa scatenata dietro ad un autobus di periferia che va a tutta velocità. Altro che attitudine punk, qui si prende il testimone di gruppi come No Means No, Pak e Victims Family sfoderando Alessandro Grassi 98 / recensioni © francesca garattoni jamie lidell però un alto tasso di personalità. Musica tosta ma fruibile, intelligente ma mai leziosa, schietta come la romanità, energica e contagiosa. Chiudono il set Radau e un pezzo nuovo, con Carlo Conti (Neo) al sax e il suo dialogo overlapping con il funk della sezione ritmica. Dopo una breve pausa si torna giù e, come per accoglierci al meglio, partono le basi un po’ losche dei Testadeporcu aka Diego D’Agata (basso, exSplatterpink) e Claudio Trotta (batteria, già Deus Ex Machina, storica prog-band che forse qualcuno, più attempato della sottoscritta, ricorderà). I Testa sono un monolite spaccato e ricomposto un’infinità di volte e se la forma e il colore sono quelli di un grindcore “anomalo”, dalle crepe fuoriescono gli adorati spettri della contemporaneità. Non a caso i due definiscono la loro musica punktemporary, punk-temporanea. Ed è il tempo il terreno dove si gioca un po’ tutta la partita: pezzi velocissimi, stoppati all’inverosimile, dove la schirecensioni / 99 zofrenia jazzcore mostra ora la maschera tecnica ora quella iconoclasta. Il tutto accompagnato da un atteggiamento ironico, di metacritica nei confronti del punk e della musica contemporanea di matrice intellettuale. Sicuramente meno digeribili dei romani, ma senz’altro coinvolgenti e da approfondire. All’uscita seguono rituali di aggregazione, finchè il Traffic chiude le serrande e un singolare personaggio con una farfalla in testa cerca di convincerci ad accompagnarlo a ballare l’house. Vagli a spiegare che oltre a vivere veloce bisogna morire vecchi. Vagli a spiegare che Roma brucia. Francesca Marongiu Adem (Velvet, Rimini, 29 gennaio 2009) Non ci dovrebbe essere bisogno d’altro che di una bella voce e di un’atmosfera piacevolmente rilassata, quando si assiste ad un concerto con pochi adem 100 / recensioni intimi. Che le corde dell’anima siano toccate in santa pace senza alcun filtro; poco importa se parte delle canzoni qui proposte non sono autografe, ma quando la resa possiede una fedeltà emotiva tale da riempire il cuore, si ha la netta certezza che l’obbiettivo prefissato è stato raggiunto, almeno osservando i volti degli astanti. Ad accompagnare il simpatico turco-inglese Adem Ihan ci sono due ospiti d’eccezione che si rivelano decisive per la resa dell’intenso live: Nancy Elizabeth – già esordiente per conto della Leaf fra folk ed incanto un po’ alla Joanna Newsom – allo xilofono e all’organo e Sarah Jones – batterista dei new wavers New Young Pony Club e dei “nuovi” Bat For Lashes – dietro le pelli. Un inizio in punta di piedi e una voce toccante, quella del Nostro, che comincia in solitaria prendendo per mano la sua acustica e la sua timidezza, e traghettando in soffici momenti sonori sulle onde di Love And Other Planets e della splendida Long Drive Home, per poi abbracciare la minuta folla quando il trio si compie, grazie ad armonie vocali pulite e veramente rare. Dall’ultimo Takes scorrono le celebri Hotellounge e Tears Are In Your Eyes che vibrano di nuova vita nelle corde del gruppo, per poi giungere alle celestiali derive di Slide di Lisa Germano e prendere vigore ed energia in Everything You Need e Launch Yourself. Epico il finale sulle note di Laser Beam dei migliori Low che dalle mani del terzetto arriva diretta e pregna di emozione fra un falsetto di Adem e note solitarie di chitarra. Per una serata dove l’essenzialità del folk funge da pennello per dipingere un’atmosfera calda e complice, viene da sorridere per la gioia, considerando quanto a volte sia necessaria la semplicità solo stando a guardare la grazia di Sarah che pacatamente, per tutto il tempo, ha usato come grancassa una valigia… Alessandro Grassi Giant Sand – Circolo Magnolia, Milano 02/02/2009 Parafrasando Forrest Gump, assistere a un concerto dei Giant Sand - o di Howe Gelb, che poco cambia - equivale ad aprire una scatola di cioccolatini. Nel senso che non sai mai bene che farà e come lo farà: un pregio/difetto connaturato al suo rapportarsi alla musica in modo arruffato, sfruttando il caso e il momento. Se l’ispirazione c’è e i sodali sono all’altezza (nello specifico i danesi Thoger Lund al contrabbasso, l’abile Peter Dombernowsky dietro la batteria e il chitarrista Anders Pedersen, più la concittadina di Gelb Lonna Kelley - sguardo perso degno di David Lynch e incinta di un paio di mesi - alla seconda voce) può nascere la serata memorabile, dove si passa come nulla fosse da rock turgidi e aciduli a siparietti pianistici ragtime, da ballate country impolverate al jazz-lounge, talvolta tutto insieme splendidamente. Altrimenti tocca sorbirsi uno sbraco approssimativo, i cui artefici paiono vagare autonomamente dietro a una bussola smagnetizzata. Come con ogni album cui il Nostro ha messo mano in venticinque anni di carriera, insomma, tutto il bello (tanto) e il brutto (poco, per fortuna) stanno in questo acuto understatement, nel gioco - tratti somatici e sguardi luciferini ma sornioni inclusi - con la musica americana, seguendo le regole peculiari di un enciclopedismo simpaticamente sconclusionato. Gli ci è voluto del tempo, a Howe, per riuscire a tramutare questo ipotetico limite in un tratto caratteristico che lo rende riconoscibile e addirittura geniale. Anche quando gli impasti vocali traballano un po’ o, all’inizio del concerto, la sezione ritmica e l’armonia suonano scollate. Basta poco per scaldarsi, tuttavia: tra un aneddoto e un inedito, una toccante The Desperate Kingdom Of Love sottratta a P. J. Harvey e il medley prelevato dal sottovalutato Rock Opera Years, arrivi all’ora e mezza che manco t’accorgi. Allampanato, baffuto e di residenza desertica, Gelb ricorda Spike, il fratello di Snoopy. Rispetto al quale ha contraccambiato la scalogna con una creatività che scintilla sì a intermittenza, ma che quando brilla scioglie la neve nell’anima come poche altre. Lui non se ne preoccupa, visto che da tempo ha capito di essere - e difatti ce lo canta pure… - quel che si definisce un classico. giancarlo turra recensioni / 101 WE ARE DEMO #33 I migliori demo giunti nelle nostre cassette postali. Assaggiati, soppesati, vagliati, giudicati dai vostri devoluti redattori di S&A. Testo: Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi. Shabadà Orchestra - EP Quattro tracce per cambiare idea riguardo alla patchanka, ricettacolo di sonorità parecchio abusate in chiave combat folk al punto da provocarci l’orticaria al solo sentirla nominare. Ma, appunto, gli Shabadà Orchestra arrivano ed è un balsamo, un unguento, un bicchiere di rhum e polvere da sparo. Aromi mediterranei imbizzarriti, estro balcanico, sentori marsigliesi e aspro spasmo black (errebì + Africa), il tutto cucinato nel calderone partenopeo che non significa autoghettizzarsi nel dialettale, infatti l’inno tabagista 40 sigarette potrebbe benissimo essere un Capossela incazzato e sbarazzino, mentre la sordidella e bluesy Il gabbiano affonda il bisturi nella piaga strattonando locale e universale come una favola noir. Tutto in loro è contagioso, dalla voce - a metà strada tra Peppe Voltarelli e Rocky Roberts - alla foga sferzante della chitarra, dalla ruspante collusione sax-fisarmonica (con sorprendenti link a certo jazz etiope) ai nomignoli che si sono scelti (roba tipo Sdugtmbò e LuAplles). Si attende a breve l’esordio su lunga distanza. Qualcosa mi dice che non passerà inosservato.(voto:7.2/10 myspace.com/shabadaorchestra ) (s.s.) Omosumo – Promo EP Scartabellando tra i crediti di questi Omosumo finiamo per scoprire alle chitarre un Roberto Cammarata già passato per We Are Demo con gli ottimi Waines e al basso un Settimo Serradifalco, principale attivista del progetto Donsettimo. Artisti, entrambi, di buon livello, a cui si aggiungono Giuseppe Megna alla batteria e un Angelo Sicurella alla voce definito dalle note stampa come “il miglior cantante rock di Palermo”. Sia come sia, un fatto è certo: l’EP in oggetto punta i riflettori su una formazione che mostra carattere da vendere, pur frequentando compagnie poco raccomandabili per gli amanti dell’originalità a tutti i costi. Nello specifico, new wave (Sensazioni di 102 / recensioni libertà), post-punk, ma anche blues e hard (quasi) à la Led Zeppelin (Industriale e Di terra e di me), filtrati da una scrittura che riesce nell’impresa di mescolare le carte per suonare, infine, originale. (voto: 7.2/10 myspace.com/omosumo ) (f.z.) Dresda – We Are The Superfunkers Più che post-rock, malinconie strumentali concepite per pellicole struggenti, crescendo umorali su arpeggi rinsecchiti, stratificazioni in punta di plettro intense ed evocative. Il nome è Dresda – ripreso dall’insuperabile Mattatoio n.5 di Kurt Vonnegut – e l’ideologia che serra le fila pare essere quella di “descrivere ambientazioni con la musica per rendere i suoni parte di una scena a più dimensioni”. Tra field recordings e elettriche urticanti, tastiere e glockenspiel, basso e theremin, i quattro genovesi riescono nell’impresa, alternando momenti di stasi a distorsioni violente e consegnando ai posteri un Ep inquietante e catartico. (voto: 7.1/10 myspace.com/wearedresda )(f.z.) Giuda Matti - EP + Il trittico del male Quartetto modenese - e non fanno nulla per nasconderlo - i Giuda Matti vantano un repertorio breve ma impudente, EP del 2008 e il recentissimo Il trittico del male. Nel primo fregola punk-pop-folk in guazzo sixties come dei Blur circuiti da Ivan Cattaneo e strattonati da mancanza di riguardo Skiantos, nel secondo uno spurgarsi l’anima in tre atti senza soluzione di continuità, rievocazioni beat tra il perverso e lo scazzato (con tanto di pronuncia paraenglish alla Mal), oppure una versione demenzial-psych e ingrugnita degli Offlaga Disco Pax. Che è un po’ come cercare nuovi modi di circoscrivere l’ennui periferico prima della bucolica (falsa) resurrezione finale. In loro c’è del tragicomico che non posso fare a meno di adorare.(voto:7.0/10 myspace.com/giudamatti) (s.s.) Sundance Capoeira – A Low Choice EP C’entrano i Giardini di Miro’ e Il Nucleo, dal momento che in formazione militano il bassista dei primi, Mirko Venturelli, e il bassista dei secondi, Mauro Buratti, ma questi Sundance Capoeira, nonostante alcune analogie nell’approccio alla musica, fanno storia a sé. Anche perché il post-rock qui si trasforma in digressioni eteree e inafferrabili, suoni morbidi e ovattati, sulle ali di una voce, quella della svedese Karin Nygren, che funge da collante armonico tra gli strumenti. La vena è inaspettatamente pop – nei limiti concessi da una forma che privilegia le sfumature -, l’incedere lento e avvolgente, il sentire decisamente godibile, figlio certo dell’esperienza dei musicisti coinvolti ma anche di un tocco magico che riesce a semplificare una musica per sua natura raffinata e complessa. (voto: 7.3/10 web: myspace.com/sundancecapoeira ) (f.z.) Formanta! - F! EP Assieme dall’estate del 2008, i romani Formanta! sono un quartetto col pallino per l’indie pop viziato wave, roba garrula ma tesa, graffiante ma con una sua gentilezza di base, informata alla nostalgia degli anni in cui ti capitava di intercettare nelle radio e sulle piste da ballo le ultime fatiche di Blondie o Smiths, di Pretenders o Television, però con quella disinvoltura che ti regala un approccio autorevole e sbarazzino alla materia. Ovvero: ci vogliamo seriamente divertire, secondo la lezione Broken Sovial Scene e Blonde Redhead per intenderci. In mancanza di intuizioni davvero geniali - nelle cinque tracce di questo F! si raggiunge al più un’intrigante gradevolezza - mi sembra un buon punto di partenza.(voto:6.9/10 myspace.com/formantamusic ) (s.s.) confluiscono i retaggi prog-rock di entrambi. Detto che ad aiutarli intervengono il basso di Andrea Castelli e le voci di Elena Antonelli e Alice Bardini, direi che il risultato finale è un ineffabile ibrido tra i Massive Attack più atmosferici, un pizzico di Popol Vuh stregati Cocteau Twins, Steve Roach alle prese con fregole etno, i Floyd persi in un sogno industrial-psych. A tratti sfiorano certa deprecabile effettistica new age, ma in genere riescono a mantenersi aggrappati ad un’idea estetica abbastanza precisa, solenne e suggestiva. Malgrado non sia il mio genere, mi sono piaciuti. Vorrà pur dire qualcosa.(voto:6.8/10www.vicolomargana.it/(s.s.) Vicolo Margana - A Perfect Life I Vicolo Margana sono sostanzialmente un duo, Francesco Antonelli e Fabio Bizzarri, attivi dai primi anni settanta e quindi non proprio debuttanti allo sbaraglio, però è fresco questo loro progetto che esordisce appunto con A Perfect Life, undici tracce all’insegna di una calda electro ambient in cui recensioni / 103 The Smiths Teenwave Pop Gli Smiths sono tornati a far parlare di loro: in primis con l’attuale uscita dell’ultimo album di Morrissey, indirettamente con la pubblicazione della Rhino di un cofanetto contenente tutti i loro singoli in versione originale, e (forse) direttamente per il vociferare di una loro possibile reunion. Quale occasione migliore per tornare a parlare della band che ha fatto la storia del pop, brit e non solo, e del suo mondo “acquatico”? Testo: Andrea Provinciali 104 / Rearview Mirror Non avete mai visto fare surf a Manchester, grigia città del North West dell’Inghilterra? Peccato, perché un mercoledì (da leoni) di quasi trent’anni fa l’aria divenne improvvisamente limpida, la primavera esplose prematuramente e una grande onda, di dimensioni gigantesche, raggiunse il cuore metropolitano con il suo incedere irrefrenabile. In quel momento quattro ragazzi qualunque si fecero trovare pronti all’appuntamento, e cavalcarono quell’onda per alcuni anni, disegnando solchi sublimi che innaffiarono la loro città prima, l’Europa poi, il mondo intero infine, come se non avessero fatto altro nella loro vita. Certo, non tutto dura all’infinito, ma fin quando riuscirono a domare a loro piacimento quell’incontenibile massa d’acqua, beh, bisogna ammettere che fecero immedesimare molti nella loro impresa, portandoli metaforicamente con loro lassù, su quella cresta esuberante. Perché quella non era un’onda qualunque, era quella eterna dell’Adolescenza che da sempre e ovunque avvolge tutti, lasciando dietro di sé vortici di rimpianti, ricordi, sogni e illusioni. Ma, si badi bene, qui adolescenza è da considerarsi con la A maiuscola. Infatti, in una società dove i principi e le certezze sono smarriti, questa condizione vitale si dilata all’infinito perdendo la sua limitata accezione temporale. E gli Smiths sono riusciti a formalizzarla e sublimarla perfettamente in canzoni pop da tre minuti che proprio come il moto ondoso hanno invaso tutto e tutti, nel tempo e nello spazio, fino ad oggi. Questi signor Rossi qualunque, questi ragazzi della porta accanto, fin dalla pubblicazione del primo singolo, hanno parlato a generazioni su generazioni, determinando tuttora il panorama musicale, pop e non solo, inglese e non solo. A loro devono moltissimo band come Housemartins e The Wedding Present prima, The Stone Roses poi, Suede, Blur e Pulp pochi anni più tardi, ma anche il college rock e le miriadi di gruppi emocore oltreoceano sul finire dei Novanta; non solo, addirittura compagini post-hardcore e post metal come Quicksand e Deftones hanno dichiarato Rearview Mirror / 105 tutto il proprio amore per Morrissey e Co. Le loro canzoni hanno espresso il linguaggio dell’amore, quello ideale ma disperato perché difficilmente avverabile, riposizionando l’uomo e la sua sfera personale al centro di tutto. Una vera e propria romantica rivoluzione pop, per i canoni estetici imperanti all’alba degli Ottanta. Per quattro anni, la loro spinta artistica è riuscita a tener testa a quell’onda irrefrenabile, ma poi - si sa - il successo forse arricchisce economicamente ma spegne interiormente e quel moto sinusoidale ha continuato la sua corsa disarcionandoli in maniera definitiva. Giusto così: l’alba e il tramonto, il giorno e la notte, la vita e la morte fanno parte della quotidianità, della natura e dell’umanità, e chi più della band mancuniana ha espresso meglio questi concetti? Per cui sentir vociferare oggi di una loro possibile reunion ci fa sorridere amaro, perché sappiamo bene che le canzoni da loro scritte in quegli anni continuano a propagarsi e a consolarci come lunghe onde infinite. Non saremmo surfisti, ma quel dolce suono di risacca ci fa sentire come in cima alla cresta pronti per l’adrenalinica discesa. E no, non pensiamo che dei redivivi Smiths possano rievocare ciò che fu, ciò che è stato e ciò che sarà per sempre. H and I n G love Manchester, primi anni Ottanta, piena era post punk. C’è un ragazzo col ciuffo, eccentrico e motivato, che orbita intorno all’ambito musicale della città, ne scrive su alcune riviste locali, ma soprattutto ne incarna lo spirito più fanatico: diviene ad106 / Rearview Mirror dirittura presidente del fan club inglese delle New York Dolls. Assiste a ogni concerto, aiuta le piccole case discografiche, cerca in ogni modo di alimentare quel fermento artistico che sente intorno a sé, che sente dentro di sé. Si chiama Stephen Patrick Morrissey “Moz”, è nato il 22 maggio 1959 e ha forti e radicate origini irlandesi. Questo narrano le cronache, ma in realtà tutto si è originato prima, molto prima, quando un timido ed effeminato ragazzino, cresciuto in un duro contesto sociale, per fuggire tutto ciò e dalla sua esterna apparenza di sfigato si rinchiude nella sua cameretta consacrando ogni speranza e felicità agli idoli immortalati nei poster appesi sulle sue quattro mura, tra tutti David Bowie, Roxy Music e New York Dolls. Brama il successo, ma soprattutto riflette su di sé, sulla sua condizione. E infatti la struggente poetica degli Smiths non può prescindere dai dolori del giovane Morrissey. Chi invece interpreta il mondo su scale armoniche è John Martin Maher “Marr”. Nato il 31 ottobre 1963, di lui c’è poco da dire sennonché sia un dotato chitarrista dal gusto melodico superiore alla norma. I suoi polpastrelli riescono con una facilità disarmante a far scaturire arcobaleni di note, a metà tra la pioggia e il sereno, per l’appunto. Se la poetica degli Smiths è tutta opera di Moz, non c’è dubbio che l’incisività pop dei brani sia tutta farina del sacco di Marr: ecco i presupposti della sintesi perfetta in eterna dualità. Ma come si incontrano questi poli contrapposti? Tramite mi- steriosi e segreti bivi del destino, come sempre. Entrambi orbitanti in band minori cittadine, si sfiorano in un gruppo chiamato Nosebleed. I due, buttando giù alcune canzoni insieme, annusano l’aria, guardano l’orizzonte, sentono il boato lontano e, nella quiete contratta prima della tempesta, scambiandosi occhiate complici, decidono di prepararsi per cavalcare l’onda insieme al batterista Michael Joyce e al bassista Andrew Rourke. Alcune prove per testare l’equilibrio e i quattro sono pronti. L’oceano si allunga ritraendosi, un’irrefrenabile corrente li risucchia fin sulla cresta spumeggiante, l’adrenalina è al massimo: è tempo del carpe diem, non c’è un istante in più per pensare. Attorno al gruppo si crea sin da subito un gran movimento di manager e discografici, perché il primo demo registrato dai Nostri riluce di predestinazione. Nel 1982 il verbo degli Smiths inizia così a varcare i confini mancuniani, conquistando e fidelizzando un po’ ovunque in Gran Bretagna: i concerti cominciano ad essere sold out, e addirittura la EMI si interessa a loro. Ma è il più lesto e lungimirante Simon Edwards della Rough Trade a farli firmare, assicurandoseli per sempre. L’onda che arriva è gigantesca e vertiginosa, e i Nostri sembrano non aspettare altro. Balzano in piedi e in quel giorno di primavera del maggio 1983 scivolano a tutta velocità e a proprio agio nel ventre cristallino, come se non avessero mai fatto altro. Il loro primo singolo, Hand In Glove, sono tre minuti e ventitré secondi di pura incisività melo- dica, con un impatto pop di sicuro successo. Uno scheletro essenziale di basso e batteria sul quale si aggiungono le sei corde di Marr, qui ancora trattenute in un refrain ripetitivo ma già in grado di accendere quel virtuoso e intermittente prisma di colori che le contraddistinguerà splendidamente, un’armonica a impreziosire, ma soprattutto la voce di Morrissey a incidere le prime ferite con i suoi emozionanti saliscendi e con la sua malinconica forza comunicativa. Questi i pregi dal punto di vista stilistico-musicale. Chiari sono i riferimenti allo spleen attitudinale estrinsecato da band come Joy Division, Television e Fall, ma gli Smiths trascendono ogni limite post punk, creando una loro personale e originale idea pop, guardando ancora più indietro nel tempo, verso i Sixties. Si canta di un amore idealizzato, quasi ultraterreno nella sua semplicità, perché inviso dal perbenismo imperante. Il booklet del 45 giri, che in copertina immortala in una foto rétro un uomo nudo di schiena (tratta dal libro Il maschio nudo di Margaret Walters del 1978) ritenuta scandalosa alla sua uscita, inizia quella che sarà l’estetica iconografica degli Smiths: provocatoriamente romantica con rimandi letterari e cinematografici. Presa la decisione di non effigiare mai la band o qualche suo componente nei booklet, è Morrissey stesso a scegliere le immagini che andranno a identificare ogni singolo e ogni album della band. Tale decisione, oltre che alimentare inevitabilmente un alone di mistero intorno alla band, si fa rivelatrice della ricerca Rearview Mirror / 107 estetica del cantante: la sua straordinaria “omo” sensibilità feticistica lo conduce ad esorcizzare ogni frustrazione esistenziale nell’idealizzazione del bello trascendentale. Ecco perché le copertine immortalano star cinematografiche degli anni Cinquanta e Sessanta nella loro pura e spensierata eleganza: sono i miti, come Alain Delon o James Dean, ad aver segnato per sempre la sua adolescenza, catalizzando i suoi sogni e desideri. Oppure sono scatti anticonformisti, pregni di rimandi androgini, omosessuali o antimilitaristici, a rappresentare il lato più coraggioso e oltraggioso, difficile da esprimere quotidianamente. Proprio per questo l’impatto grafico degli Smiths fa tutt’uno con la loro musica, diviene complementare perché si erge come perfetto contraltare alle canzoni. Mentre veniamo straziati da testi che cantano delle difficoltà della vita, di ipocrisie e sogni infranti, si resta affascinati visivamente desiderando di esser rapiti dal mondo-copertina. Ma gli Smiths hanno causato un terremoto socioartistico non solo per la loro iconografia. Il fatto è che in quegli anni il pubblico non era abituato a tanta sensibilità estetica: erano tempi in cui il punk e il suo post avevano innalzato l’oscurità, il nichilismo e la dissonanza a paradigmi estetici, il nascondere e il decolorare le emozioni e le frustrazioni dietro un atteggiamento iconoclasta. Con gli Smiths tutto ciò viene ribaltato romanticamente nel segno della naturalezza e della spontaneità: se i problemi ci sono essi devono sbocciare luccicanti e 108 / Rearview Mirror colorati come fiori, non più celati. Fanno tutto ciò con leggiadri arpeggi sixties, con falsetti femminei sopra le righe, con maglioncini a collo alto, con liriche sofferte ma giocose, romantiche ma pensose. Certo, anche tutte le band inglesi orbitanti intorno alla Sarah Records, con tutte le loro delicate intermittenze pop, si muovevano parallelamente ai Nostri, causando simili scosse sismiche al contesto musicale preesistente. Ma non di pari intensità e potenza mediatiche di quelle smithsiane: Morrissey e Co., infatti, unendo autenticità, genio e, soprattutto, carisma sono riusciti a farsi trovare nel posto giusto al momento giusto, e la Storia li ha innalzati e mitizzati, azzerandogli apparentemente la concorrenza. Lo stesso motivo per cui l’amore dei fan nei loro confronti è infinito quanto l’odio provocato dai loro detrattori. Cose che capitano solo alle grandi band, purtroppo. T hese C harming M en La pubblicazione di altri due 45 giri, This Charming Man - allegro e sbarazzino riff chitarristico, sul quale il melodioso falsettare di Moz declama una storia sulla ricerca di maturità di un ragazzo seduto in un auto affianco ad un uomo affascinante - e What Difference Does It Make?, fa degli Smiths il nome nuovo su cui puntare. I quattro sembrano danzare a proprio piacimento su quell’onda vorticante, ora lambendone la cresta con manovre radicali, ora scivolando lineari col sole negli occhi. Dopo un trittico di singoli capolavoro come que- sto, l’attesa del vero debutto discografico su grande formato si fa a dir poco spasmodica. Ma l’uscita di The Smiths slitta continuamente fino a febbraio del 1984. Eccolo qua l’esordio ufficiale: copertina impeccabile e di forte impatto e undici canzoni che hanno veramente poco da farsi recriminare. Si va da melense ballate bucoliche (Reel Around The Fountain) a giovanili frenesie umorali (Still Ill), fino a malinconiche introspezioni (Suffer Little Children e I Don’t Owe You Anything). Da evidenziare come Marr sembri apparentemente soltanto accompagnare, con giri di chitarra quasi ossessivi nel suo ripetersi, la voce di Morrissey, salvo poi constatare che proprio questo loro duettare a distanza si elevi sopra il più monotono schema post punk da cui prendevano le mosse, dando vita a ciò che sarà il loro personale sound. Troppa però la differenza tra l’album e quei tre preziosi 45 giri. E questo sarà un “difetto” che i Nostri mai perderanno: saranno sempre più incisivi e a proprio agio nel piccolo formato che non negli album veri e propri. Dimostrazione di ciò giunge sul finire del 1984 con l’uscita di due nuovi singoli, nei quali una glassa pop multicolore ricopre un cuore tenero e dolce di marzapane che al solo assaggio la primavera sembra esplodere nel palato e tutt’intorno: Heaven Knows I’m Miserable Now e William, It Was Really Nothing. Ecco qua tutta l’incisività pop degli Smiths, la loro dualità che si diverte a intrecciarsi continuamente, mostrando simultaneamente il dolore e la cura, il giorno e la notte, il riso e le lacrime, a volte addirittura divertendosi a scambiare di posto questi estremi contrapposti. E che sorpresa scoprire come b side del secondo 45 giri un brano che in un minuto e cinquantuno secondi provoca intime rivoluzioni estasianti: Please Please Please Let Me Get What I Want. Il 1984 passerà alla storia come l’anno più proficuo degli Smiths. Infatti, con solo un album e una manciata di singoli alle spalle, la Rough Trade decide di pubblicare addirittura la prima rac- colta della band, Hatful Of Hollow. Adesso è l’etichetta a cavalcare le onde create dal passaggio di quella smithsiana, e queste profumano di soldi e di affari. Male di poco, comunque. Perché la tracklist dell’album è di quelle che passano alla storia. Ci sono tutti i pezzi più riusciti dai Nostri, con l’inclusione di b side e riletture di brani iniziali composte per l’occasione. Un disco che sintetizza perfettamente tutta la portata pop rivoluzionaria della band nei suoi primi anni di attività, che per molti hanno rappresentato la vetta più alta della loro produzione artistica. Ma non solo, scorrendo i titoli se ne scorge uno nuovo di zecca, How Soon Is Now?: canzone devastante, che oltre cambiare la vita di molti fans, detterà anche il nuovo percorso artistico-umano del gruppo. H ow S oon I s N ow ? Il brano viene anche pubblicato come singolo nel febbraio del 1985. È un vortice di riverberi ed effetti, ora, a scandire l’incedere chitarristico, l’atmosfera si fa contratta e umbratile, la sezione ritmica si fa più pensierosa, in altre parole si perde quell’innocente andatura naif e spensierata che li aveva contraddistinti fino ad allora, ma si guadagna stupendamente in profondità. Il mood è avvolgente, lisergico, sul quale la voce di un inquieto Moz non fa che spennellare sfumature ancor più drammatiche fino a raggiungere un climax emozionale da lasciare tramortiti. E poi quel testo sulla debolezza e sulla disperazione umana e sul bisogno incommensurabile di amore che molto probabilmente mai arriverà. Se fino adesso gli Smiths piroettavano su quell’onda indomabile da nessuno se non da loro, con How Soon Is Now? si intubano nel suo ventre buio e materno per uscirne maturati e più consapevoli dei propri mezzi. Ma si sa, quando si cresce, quando il successo ci conquista totalmente, a volte è facile disconnettersi da quel mondo che fino a poco prima ci era familiare, seppur ostile: l’adolescenza. È come quando un bravo surfista troppo sicuro diminuisce l’attenzione e viene travolto. Ecco, gli Rearview Mirror / 109 Smiths hanno rischiato di fare la stessa fine, e menomale che il loro secondo album, Meat Is Murder, ne risentirà solamente in parte, continuando però a confermare la teoria della loro predisposizione al piccolo formato. Il disco pur rappresentando un mezzo passo falso, racchiude in sé buoni episodi,soprattutto per le liriche sempre più pungenti e intelligentemente impegnate di Morrissey. Bellissimo booklet, come sempre, che avvolge dieci tracce che prendono in qualche modo le distanze da quella spontanea semplicità dei trascorsi recenti. Emblematico di ciò è il minutaggio delle canzoni che aumenta considerevolmente la propria media rispetto ai tre minuti pop. Non dispiacciono i virtuosismi musicalmente acidi e liricamente violenti di Barbarism Begins At Home, la melodica circolarità pop di The Headmaster Ritual e le quiete dilatazioni sonore delle title track e del singolo That Joke Isn´T Funny Anymore. Ma How Soon Is Now?, però, resta l’unica a toccare certi picchi artistici, e dunque l’unica vera grande canzone dell’album. Stavolta, neanche il successivo singolo pubblicato, Shakespeare’s Sister, riesce nell’impresa dei suoi predecessori. Il successo di pubblico è sempre tanto, oramai i due volti trainanti la band, Moz e Marr, sono considerati alla stregua di vere e proprie icone: il fanatismo che li circonda ha raggiunto livelli esorbitanti e la loro coppia è già entrata a far parte della storia della musica. Ma gli Smiths sono in una fase di stanca, tengono ancora l’onda ma adesso le 110 / Rearview Mirror loro manovre virtuose sono limitate al minimo indispensabile. E un cielo livido oltremodo si staglia sopra le loro teste. Che sia l’inizio della fine? T here I s A L ight T hat (N ever ) G oes O ut Tutto sembra andare per il peggio, nonostante l’incetta di premi che i Nostri fanno un po’ ovunque: saltano i manager, i rapporti interni si fanno sempre più tesi. Ma a far quasi degenerare il tutto è Morrissey. Rinchiusosi nella propria torre d’avorio, sembra guardare tutti dall’alto della sua spocchia, fino a saltare presentazioni televisive della band senza avvisare nessuno. Nemmeno la pubblicazione di un nuovo singolo, The Boy With The Thorn In His Side (con una splendida copertina raffigurante Truman Capote), riesce a stemperare gli animi. E sì, che dentro questi poco più di tre minuti ci sono tutti gli ingredienti giusti: solari e sbarazzini fraseggi chitarristici, ritmiche vigorose, e il solito falsettare malinconico e prodigioso a declamare la cecità di un mondo che non riesce a capire l’amore sofferto del ragazzo con una spina nel fianco. La primavera sembra germogliare rigogliosa ascoltando il brano, e invece tutto all’interno della band sembra appassire inevitabilmente. Ma forse è proprio vero che nei momenti di difficoltà il genio che si cela dentro ognuno di noi, dentro l’uomo qualsiasi, trova sempre la via migliore per diradare l’aria malsana intorno. Il terzo album degli Smiths, uscito nel 1986 dopo esser rimasto parcheggiato per molti mesi senza alcun motivo, è la riprova empirica della loro peculiarità artistica. E chi l’avrebbe mai detto che in una situazione che si apprestava a collassare definitivamente, i Nostri avessero calato il poker d’assi vincente, fin già dal titolo e dalla copertina: The Queen Is Dead impresso in una suggestiva immagine di Alain Delon. In queste dieci canzoni il sole sembra esser tornato a baciare di luce abbacinante quella cresta spumeggiante sulla quale i Nostri, con i virtuosismi da polpastrelli di Marr e le impennate e le invenzioni vocali di Moz, piroettano armoniosi e veloci con il primo singolo estratto Bigmouth Strikes Again: canzone ironica e arrabbiata che ci narra di una Giovanna D’Arco “lingualunga” contemporanea, con tanto di cuffiette, che “non ha diritto di avere un posto nel genere umano”. Ecco, proprio le liriche colpiscono nella loro intelligente commistione di cinismo, ironia romanticismo e giochi lessicali, trattando temi ora impegnati ora frivoli, ma sempre anticonformisti anche quando è una “semplice” storia d’amore ad esser cantata. Proprio come accade nella ballad dal titolo folgorante, There Is A Light That Never Goes Out: emblematica sintesi di quello spirito adolescenziale con la A maiuscola. Non da meno è la title track che nella sua antiistituzionalità, in questo caso monarchica, fonde insieme poeticamente immagini rabbiose, disincantate e disperate. Oppure l’umorismo dileggiante in Frankly, Mr Shankly, il malinconico decadimento in I Know It’s Over e l’emozionante pas- seggiata al cimitero “un terribile giorno di sole” tra rimandi letterari in Cemetry Gates. The Queen Is Dead è senza ombra di dubbio l’album più riuscito degli Smiths: il suono è maturo ma il minutaggio medio delle canzoni difficilmente oltrepassa i tre minuti, si alternano passaggi frenetici e immediati ad atmosfere dilatate ed intimistiche senza mai cadere nel banale o nel melenso. Ma veramente quella luce mai si spegnerà? T he S miths I n A n U nderwater D ream Ora tutto fa pensare che le cose vadano veramente per il meglio: un nuovo singolo viene pubblicato e immediato è il successo, forse il più grande dal punto di vista commerciale. Si tratta di Panic: un riuscito lavoro di spontaneità, in cui la chitarra di Marr, ben coadiuvata dalla sezione ritmica, crea un tappeto sinuoso in cui la voce di Moz declama ripetutamente il famoso verso “Hang the Dj” (impicca il Dj). Per la prima volta in assoluto i mancuniani decidono di promuovere il brano anche con un video. Il lavoro viene assegnato al talentuoso regista Derek Jarman, che ne costruisce un vero e proprio cortometraggio di una ventina di minuti da non perdere, con l’inserimento anche di There Is A Light That Never Goes Out e The Queen Is Dead. Inoltre nel 1987 viene pubblicata dalla Rough Trade anche la seconda raccolta di materiale, intitolata The World Won’t Listen, che tra singoli e b-side racchiude il secondo periodo della band. Di essa l’etichetta inglese ne stampa anche una versione alternativa ed estesa, Louder Than Bombs, solRearview Mirror / 111 tanto per il mercato statunitense. Ma altre e più compatte nubi arrivano improvvise e minacciose ad oscurare il cielo sotto il quale gli Smiths sembravano finalmente vorticare senza problemi. Il tour americano, appena intrapreso sull’entusiasmo dei buoni riscontri dell’album, diviene esperienza disastrosa se non traumatica: la carovana si interrompe senza portare a termine tutte le date in programma. Il gruppo viene corteggiato pressantemente dalle major, e la Rough Trade è sul punto di capitolare. Tutto ciò riacutizza ferite mai rimarginate, provocando un’emorragia, stavolta difficile da tamponare. Ci provano con il successivo singolo Ask: il brano ha tutte le carte per sfondare e infatti così è, ma non riesce ad arginare i malumori che circondano la band. Quel ritornello che si incunea inesorabilmente nelle orecchie, che fa battere le mani, con quello zucchero filato che esce direttamente dalla chitarra, conquista il pubblico, ma non fa tornare il sole, neanche un raggio. Infatti gli altri due 45 giri, Shoplifters Of The World Unite e Sheila Take A Bow, che dovrebbero allietare l’attesa per il nuovo album in registrazione, risultano essere puro manierismo, niente di più. L’onda si sta avviluppando sugli Smiths incamerandoli nel proprio ventre ora freddo e scurissimo. Dall’esterno si potrebbe avere l’erronea impressione che il gruppo si stia preparando all’ennesimo prodigio, dato che si trovano in studio a preparare quello che invece sarà il loro ultimo album in studio. Strangeways, Here We Come uscirà, infatti, postumo nel 1987, sempre sotto l’egida della Rough Trade, nonostante la EMI avesse oramai in pugno la band. Il primo ad abbandonare è Marr, stufato ed estenuato dall’ennesimo capriccio del suo vocale alter ego. Disorientati, Rourke e Joyce non attendono altro che sia proprio un irato Moz ad ufficializzare la resa nel settembre del 1987. L’album, con Richard Davalos in copertina (dal film La valle dell’Eden), rappresenta così il loro testamento artistico, e forse proprio questo alone mistico che lo circonda, questa consapevolezza che esso 112 / Rearview Mirror fosse l’ultimo omaggio al mondo, lo valorizza più di quello che realmente vale. La verità è che esso è un lavoro dignitoso, che alterna ottimi episodi, ma non memorabili canzoni, ad altri davvero trascurabili. Certo quella magia pop a cui ci avevano abituati è lungi dall’essere evocata, ma l’onda si è chiusa su di loro e questi sono soltanto gli spruzzi e i riverberi delle ultime virate multicolori. Girlfriend In A Coma, A Rush And A Push And The Land, Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me, Death Of A Disco Dancer e I Started Something I Couldn’t Finish gli episodi migliori. Passa appena un anno e la Rough Trade pone il suo sigillo sulla carriera della band con la pubblicazione dell’immancabile live: Rank contiene la registrazione del concerto tenutosi al National Ballroom di Londra nel 1986. Ma ormai gli Smiths hanno terminato la loro caleidoscopica corsa e la fine è stata autistica: silenziosa e incomunicabile. Il fatto è che nessuno, esternamente, ha potuto registrare la loro caduta da quella mastodontica massa d’acqua che fino a quel momento avevano padroneggiato: non si sono visti corpi mulinare nella schiuma e soprattutto non si sono scorte teste riemergere in superficie, come se loro non fossero mai stati lì, come se tutto fosse stato un sogno, un bellissimo e confortante sogno. Oppure, come se avessero deciso di non riemergere mai più, restando confinati per sempre nell’abisso, e magari lì continuare a suonare e cantare dell’adolescenza dei pesci, delle alghe, dei cavallucci e delle stelle marine. Ma sappiamo bene che non è andata così. E tutto quello che è successo dopo è un’altra storia, ché qui abbiamo narrato di onde e primavera, di surf e adolescenza. “Life is very long, when you’re lonely” (The Queen Is Dead). Rearview Mirror / 113 Ristampe Boohoos – Here Comes The Hoo (Spit/ Fire, novembre 2008) G enere : gl am rock In Germania i musicisti locali ascoltarono il r’n’r e ne trassero il krautrock. In Italia quando arrivò la new wave fu gara a chi riuscisse a somigliare di più ai modelli anglosassoni. E via dicendo. Può essere, ma i Boohoos furono una mezza stagione. Mettersi a fare glam rock nella seconda metà degli anni Ottanta deve aver significato qualcosa come battere il pungo sul tavolo per spazzare via le tappe obbligate, per rincorrere la rincorsa di cui sopra – benché alcuni membri della band fecero gavetta nell’hc nostrano. Ne vennero fuori un demo (Bloody Mary, 1986), un LP (Moonshiner, 1987), un EP (The Sun, The Snake And The Hoo, 1987) e una buona risonanza a livello nazionale, con qualche puntata tattica lassù, nel mainstream. Qualche mese fa Spit/Fire (divisione Spittle, e come poteva non esserlo) ha stampato una sorta di summa/selezione delle tre produzioni della band, e la intitola Here Comes The Hoo. Bisogna ammettere che quel rockaccio fatto di riff e urla d’Iguana (Downtown Train), solo all’apparenza dannato e melmoso, in realtà divertito e diven114 / Rearview Mirror terete, conserva anche oggi la sua freschezza. Si sente che la band amava allo stesso modo tanto Black Sabbath (vi ricordano niente ritmo e riff delle strofe di Meet Us?) quanto New York Dolls. Si sente la determinazione. Si sente Detroit ma anche un pizzico di Pesaro. Nella sfacciataggine forse, chi lo sa, magari menefreghismo; insisto: è determinazione; e coinvolge come la cover di Search And Destroy, o, ancora meglio, come Bloody Mary – voodoobilly manualistico, forse, però che spasso. (7.0/10) Gaspare Caliri The Gynecologists – Hoosier Psychopaths 1981-1994: The Official Recordings (Gulcher, 2008) G enere : punk Ripercorrere le oscillazioni. Fare una ristampa di tutta la carriera di una band significa soprattutto questo. Vuol dire accostare le cose più famose a quelle meno note, persino mettere nelle condizioni di far risuonare i brani meno riusciti in quelli più convincenti. E viceversa. Viceversa c’è del buono e proattivamente marcio anche in Jimmy Jones, e in analoghe canzoni punkbanalizzate dei The Gynecologists; l’esempio è We’re An American Band, sporcatura di qualcosa che è semplicemente banale, pur se forse il titolo denuncia una certa ironia attorno al pezzo. C’è però anche di molto meglio nelle trenta tracce di Hoosier Psychopaths 1981-1994: The Official Recordings, album-ristampa-culto edito da Gulcher per recuperare le gesta della band di Indiana, che in realtà constava delle fibrillazioni del solo Tommy Afterbirth – inquieto e repubblicanamente ambiguo, ma capace di essere genuinamente dirompente, come in Leper Colony, o in Infant Doe, dove il suo timbro vocale ricorda un misto tra gli scimmiottamenti cartoonati dei Residents di Not Available e l’ugola sgraziata di Ian McKaye C’è tutta la produzione del gruppo in questa raccolta, e l’ascolto fa sentire l’odore acre di scoppiettanti aneddoti; come quella volta che Tommy inviò Faces & Psycopaths, primo EP della band (qui presente nelle prime 4 tracce), al New Yorker per ottenere una recensione, che gli fu negata motivando il rifiuto col fatto che c’era già troppa roba disgustosa, in giro. In effetti gli esordi erano assimilabili al punk, specie nella sua proto-versione stooges-iana – citiamo a testimone il cavallo di battaglia (nonché primo pezzo scritto dall’Afterbirth), Dog Face; e però indicavano già le tastiere come strada di differenziazione. Ricordate gli Stranglers? La cavalcata prosegue con un altro EP (Kinder, Gentler Nation) e due cassette (A Goat...You Geek e Auto-Erotica Asphyxia & Various Moldy Turds), dove, come si sottolineava sopra, si toccano alti e bassi; ma è nella sezione finale della compila che crediamo di aver sentito le cose migliori; sono B-Side e rarità soprattutto live, come Fart Speak / Fucking Wench, la traccia finale, che ricorda i Chrome, spettro industriale percussivo e sporchissimo; dal vivo, dove pare proprio che Tommy desse il suo meglio. Secondo chi scrive soprattutto i suoi musicisti. Per una volta le rarità fanno da vero compimento di una ristampa. (7.0/10) Gaspare Caliri Marlene Kuntz - Best Of (Virgin / Emi, 23 gennaio 2009) G enere : rock cantautoriale Come giudicare un “Best Of ”? Diciamo la verità: è un dilemma che ci risparmieremmo volentieri, tanto ci sembra evitabile questo raccogliere il già raccolto, questo rituale che celebra una (vana)gloria postuma di se stessa, col prosaico seppur lecito scopo di raggranellar grana. Tuttavia, son vizietti cui nessuno o quasi sfugge, quindi perché biasimare i Marlene Kuntz se a tre lustri dal debutto si concedono questo peccatuccio veniale? Tanto vale entrare nel merito, che in casi del genere significa spesso fare l’appello e inarcare le sopracciglia per le “clamorose assenze”. E’ presto detto: tra i titoli in programma non figurano tracce come Lieve, Sonica, Ape Regina e Le putte, pezzi che ogni fedelissimo non toglierebbe dalla playlist kuntziana neanche sotto la tortura di un redivivo Bellarmino tra i deliziosi confort di Bolzaneto. Ma il fedelissimo se ne faccia una ragione, perché a mio modo di vedere è una scelta giustificata. Difatti, la selezione sembra voler porre un deciso accento sulla cifra autoriale che negli ultimi lavori ha preso il sopravvento sulle intemperanze soniche, quasi ad indicarvi un approdo naturale, l’immancabile evoluzione di un discorso che anche nell’asprezza degli esordi tirava in ballo situazioni e modi dai palpabili rimandi letterari. Un “messaggio” reso ancora più pregnante da episodi come La libertà, capolavoro firmato Gaber di cui Godano e soci s’impadroniscono con impeto e naturalezza, rimarcando assieme alle altre due cover - quella Impressioni di settembre presenza fissa nei live recenti e una sordidella Non gioco più - link sempre più saldi con la tradizione canzonettistica (in senso alto) e finanche progressiva italiana. Se l’interpretazione fosse giusta, se - in altre parole - la stesura della scaletta riflettesse l’immagine che la band oggi ha di se stessa (e chissà quanto ha realmente pesato la volontà di Godano e soci nel redigerla), questa compilazione raggiungerebbe appieno lo scopo: tirare in ballo più o meno equaRearview Mirror / 115 mente tutti i sette album disegnando una parabola che decolla sui furori sonici per avvitarsi via via nei tormenti acri e pensosi della canzone rock adulta. Non a caso, ecco che nel bel mezzo del cammin spunta Il pregiudizio, pezzo inedito - gioia e dannazione del fedelissimo di cui sopra - che sintetizza egregiamente quanto detto confezionando una ficcante e trepida invettiva in aspra vestigia rock. Tirate le somme, alla fine più che un’antologia rivolta al neofita bramoso di “farsi un’idea” - cui consiglierei semmai i due gustosi live H.U.P. del ‘99 e S-Low del 2006 - sembra un buon pretesto per farsi una ponderazione su passato, presente e (forse) futuro di una band che - la si apprezzi o meno - in Italia ha scavato un solco ancora parecchio trafficato. (6.8/10) Stefano Solventi Jeunesse D’Ivoire, La Maison, Other Side, State Of Art – Milano New Wave 1980-83 (Spittle, 2008) G enere : new wave Milano New Wave 1980-83. Quattro band dei primi anni Ottanta milanesi – Jeunesse D’Ivoire, La Maison, Other Side, State Of Art che la solita Spittle Records decide di pubblicare, compilate da Fred Ventura (sì, quello della italodisco), per dare loro un corpo stampato (su cd) che spesso non hanno mai avuto; un invito a nozze per ovvi giudizi circa la dervivatività dei detti gruppi nei confronti dei modelli stranieri allora in auge. Fatto che in realtà sussiste, specie nei confronti dei Contortions-pensiero (onnipresente ovunque si palesi un sax o una base funk) e della miriade di esempi goth-punk inglesi – a loro volta poco originali, nella maggior parte dei casi. Eppure c’è qualcosa che al di là di questo imprezio116 / Rearview Mirror sisce questo cartonato – oltre alle apprezzate scelte grafiche. È un concetto che sembra scontato ma solo senza la profondità del tempo; si tratta della questione della selezione all’interno di un contesto; cioè dell’importanza di queste band come selettori e “importatori” in Italia delle proprie fonti che a loro volta saranno quelle dei successori. Sono decisioni come queste che diventarono “condizioni di possibilità” per il post punk italiano; e lo dimostrano, a creare peso specifico, le sovrapposizioni tra quest’album e le compile tratte da Rockerilla che poco tempo fa la stessa Spittle ha ristampato, nelle primissime file del suo catalogo della rinascita. In fin dei conti questo è il mestiere della Spittle; la ricostruzione – sotto un qualche criterio di pertinenza, qui locale e geografico, per esempio - di un tentativo di costruire una scena. È una questione di taglio, più che di riscoperta. E non è operazione semplice.(7.0/10) Gaspare Caliri ROYAL TRUX – TWIN INFINITIVES (DRAG CITY, GENNAIO 2009) GENERE: PSYCH/DEMENTIA A distanza di quasi vent’anni dalla sua originale messa in circolo – anno di grazia 1990, per la stessa Drag City - Twin Infinitives non appare più come quel mostro informe che in origine fece gridare – a seconda degli schieramenti – al miracolo od allo scandalo. Con questo non intendo ridimensionare l’opera eroinomane dei due, che prima di passare al metadone e ad una forma canzone in odor di Rolling Stones (l’ottimo debutto per Virgin, Thank You, e l’altrettanto riuscito Accelerator per la ritrovata Drag City) seppero inscenare un tributo sincero alle brutture del rock’n’roll tutto. Restando ovviamente fuori dal circo. Che in que- gli anni significava rinunciare all’ottica esistenzialista del lo-fi e alle dorate volte delle multinazionali alla caccia di nuovi rockers dal Northwest. Jennifer Herrema e l’ex-Pussy Galore Neil Hagerty muovevano in tutt’altra direzione, pur ammaliati da una dimensione casalinga. Tra squassanti drum machines, blues al fulmicotone, litanie d’altri tempi e psicotiche frequenze proto-folk, i nostri realizzavano il loro capolavoro errato. Che Drag City ripubblica nel formato doppio vinile, proprio per ribadire l’importanza dell’ingombrante disco nero. Un doppio album proprio come in origine, un grosso punto interrogativo nell’evoluzione dell’indie-rock dei primi novanta, con una coppia di junkie che soffriva dei propri incubi musicali, rispondessero al nome di Captain Beefheart, Wild Man Fischer, Throbbing Gristle o King Tubby (per godere dell’estatica componente dub del gruppo consigliamo il postumo Hand Of Glory). Mistificatori o no con Twin Infinitives sbeffeggiarono – ed anche sonoramente – il rock più pantofolaio, in una ressa di idee e screzi affatto calcolati (7.2/10) LUCA COLLEPICCOLO Ryoji Ikeda – 1000 Fragments (Raster-Noton / 2008) G enere : R yoji I keda Il primo incontro con l’universo creativo di Ryoji Ikeda risale al 1995, anno che battezzò la sua carriera artistica con il nome 1000 Fragments. A distanza di più di dieci anni, la seconda edizione dell’omonimo disco firmata Raster-Norton diventa quasi necessaria a consolidare il dovuto merito all’artista giapponese. Bisogna allora ancora una volta fare i conti con quella che è stata definita e continuerà ad essere definita un’uscita decisamente influente, che lascia intravedere, leggere per la prima volta, o riscoprire inclinazioni e anticipazioni. La differenza la fa proprio la distanza,il tempo che ha legato e tutt’ora lega gli ormai assodati risultati di perle sonore quali +/-, 0°C o Matrix. La materia si divide in tre principali composizioni che risalgono a tre periodi differenti e dichiarano apertamente gli interessi e gli intenti dell’artista. I nove elementi di Channel X (1985-95) utilizzano la forma breve per dar voce alla frammentazione elettronica e al collage sonoro fatto d’incisioni d’eventi e disparate altre fonti sonore. Dalle interferenze in trasmissioni radio alle voci tagliate, le tracce mutano forma e spazio per poi diventare parte unitaria di una sorta di conversazione universale: il tutto ottenuto grazie a quella personale tenuta d’insieme fatta d’elettronica di segnale e di drones. Alle cinque Zones (1994-1995) spettano invece le meditazioni più profonde, quelle di borbotti atonali, matrici minimali, astrazioni elettroacustiche e incisioni sintetiche che entrano in perfetta sintonia con riletture che si sarebbero dette ambient. Ed infine Luxus (1993), dalle concretezze decisamente attuali, che dialogano rarefacendosi, tra passaggi di luce in voci ed archi, astrazioni in glissato e basse frequenze. A fine ascolto 1000 Fragments vince l’ostacolo del tempo e conquista ancora oggi con quel suo naturale senso d’appartenenza al suono che in pochi sanno catturare come Ikeda. (7.9/10) Sara Bracco New Order – Movement / Power Corruption And Lies / Low Life / Brotherhood / Tecnique ristampe (Rhino Records, 2008) I quattro Joy Division avevano già deciso che se qualcuno avesse lasciato il gruppo, i restanti avrebbero continuato con un altro nome. Dal maggio 1980 quindi c’è stato un dipanarsi temporale che ha portato la band di Manchester ad una rinascita personale, che avrebbe fatto perdere la stima dei fan della prima ora per acquisire un largo seguito, e che ha consegnato agli ‘80 alcune delle miglioRearview Mirror / 117 ri contaminazioni fra musica di ispirazione pop e nuove frontiere dance. Siamo alla fine del 1981. Movement come la migliore elaborazione del lutto possibile. E infatti le trame tribaloidi del fu singolo Atmosphere dei Joy Division, accompagnamento definitivo del feretro di Ian, diventano il leitmotiv per entrare nei chiaroscuri di questo primo disco New Order. Sentori dark per un’introspezione opprimente e scomoda, dove a sgambettare sono gli spettri di Closer a braccetto con un più oculato utilizzo dei synth, ma con il tremendo errore di un Bernard Sumner che tenta di scimmiottare la voce di Ian invano. C’è ancora il post punk che talvolta diventa arresa inconsistenza (Dreams Never End), primordiale sincronizzazione di synth e chitarra (Chosen Time) o sfogo da rigettare in decibel di frustrazione (la coda di The Him), ma c’è soprattutto tutta un’estetica dark, ovviamente desolata e nichilista (la marcia per organo e percussioni di Denial, i beats elettronici e il basso sottopelle di Truth). Un primo passo che sa di sguardo malinconico indietro, che paga dazio all’ombra lunga del poeta maledetto e alle sue ultime atmosfere. La ristampa ridimensiona il voto aggiungendo un mezzo punto in più alla luce principalmente della ballata post punk per eccellenza, quella Ceremony (primo singolo) di bellezza sopraffina e grazie alle prime avvisaglie “dancey” di Everything’s Gone Green e della Temptation che traghetta i Nostri in quello che verrà dopo ossia negli umori dancefloor, cifra stilistica imprescindibile del dopo 1982. (6.8/10) Prima di tutto in Power, Corruption And Lies Sumner prende coscienza della propria vocalità e inonda le vibrazioni che fuoriescono dalle casse con il suo timbro post-adolescenziale tendente all’etereo. In secondo luogo la mutazione avvenuta con Temptation diventa fonte di ispirazione su cui 118 / Rearview Mirror costruire numeri di brioso dance/synth-pop (The Village, Ecstasy, 586), malinconiche canzoni da spiaggia a fine estate (Leave Me Alone), meravigliose derive di synth e sequencer in media battuta che marchieranno a fuoco tutti gli ’80 (Your Silent Face, Ultraviolence) e non fosse altro (grazie al secondo cd) per traghettarci nel manifesto di prima “dance grandeur” che è Blue Monday. Altre chicche risiedono nella ballad languida in chiave synth-pop di Thieves Like Us e nei beat quadrati della poliedrica Confusion. (8.0/10) Low-Life è l’esternazione completa e matura del senso pop che il gruppo si porterà dietro fino agli ultimi dischi e soprattutto la quadratura di un cerchio electro-pop che sarà cannibalizzato e depredato largamente dalla dance da classifica tutta fino ai primi ’90. The Perfect Kiss è lì a dimostrarlo in tutta la sua fulgida grandiosità: il basso di Hooky come centro attrattivo e un tripudio di synth e chitarre a divagare melodia su beat che sono storia. Love Vigilantes che è canovaccio pop su cui plasmare mille epigoni, Sub-Culture che ha dato un perché al suono dei Pet Shop Boys (e di tanti altri) e This Time Of Night che è bignami di “quel” tipico romanticismo mitteleuropeo. A impreziosire la presenza di versioni “lunghe” e remix dei singoli e una Shame Of The Nation, prima mattonella sulla costruzione del successivo singolo State Of The Nation. (8.2/10) Brotherhood è stato il Republic degli anni ’80, i New Order che fanno con un filo di gas quello dove sono diventati più “automatizzati”, la loro dimensione più pop e commerciale. Non un album brutto, perché esempi come Weirdo, Paradise e Way Of Life veleggiano tutti sopra la sufficienza con il loro appeal profumatamente catchy, ma è nella malinconia romantica di Angel Dust e nello “strike out” di Bizarre Love Triangle che sono ravvisabili le componenti interessanti di un lavoro che si siede sugli allori, compiacendosi. Alza di parecchio il giudizio il secondo cd che contiene l’indispensabile State Of The Nation, un piacevole remix (abbastanza fedele all’originale) del “powerseller” True Faith, il delizioso mid-tempo di Touched By The Hand Of God e il nuovo mix (velocizzato e pericolosamente iperfarcito) di Blue Monday. (7.0/10) Gli ultimi New Order degli ‘80 sono quelli che si radunano nel 1988 a Ibiza per registrare il nuovo disco e che ci hanno buttato dentro l’l’atmosfeta esta(sia)tica della fatidica “summer of love”. Beat prorompenti e basi quasi techno per un profluvio di sequenze da dancefloor che fanno di Fine Time, Round & Round e Vanishing Point un culmine dance che non tornerà mai più così limpido. A braccetto con la loro vena pista-orientata c’è la dimensione pop che riscopre la brillantezza di Low-Life in All The Way, nella circolarità perfetta di Dream Attack e nell’electro-pop sopraffino di Mr. Disco. Il già ottimo Tecnique originale è infarcito nel secondo disco del buon singolo Run 2, da un remix di World In Motion e dalle versioni in 12 pollici dei singoli estratti dal disco. (7.8/10) Alessandro Grassi Zero Boys – Hystory Of / Vicious Circle (Secretly Canadian, 2 marzo 2009) G enere : punk Era la primavera del 1980 quando gli Zero Boys, band di Indianapolis nata l’anno prima, resgitrarono otto brani di filata in una sola notte, nel “basement” di un amico. Nacque così il corpus di Living In The ‘80s, EP con cui esordì quello che oggi viene presentato come il miglior gruppo hc del Midwest di allora. La canzone che diede titolo al mini era un inno primo-punk speziato di Nuggets e di garage, in maniera midollare; ma anche dimostrava un gusto per la scrittura davvero più saporito della media – ribadito nella combinazione melodica voce-chitarra di Stick In Your Guns. Gli Zero Boys durarono fino al 1983, mutando in un hard core vero e proprio (Seen That Movie Before), nel punk hc melodico di Positive Change, fino a sbucare in Amerika, brano che li collegò, all’atterraggio della parabola, persino al rock hard-garagista di Stooges e MC5. Di mezzo, l’episodio centrale della storia, dove si scopre che l’assassino è il maggiordomo e l’arma l’attizzatoio, è Vicious Circle, l’album di vero esordio sulla lunga durata (più o meno, date le abitudini del genere) e di vera raccolta dei frutti di Ramones – già peraltro abbondantemente citati a fonte in Piece Of Me, ultima traccia di Living… -, Germs, Circle Jerks. Magistrale nel disco era la brevitas della title-track, il gioco strofa-refrain di Amphetamine Addiction – che strania nel momento in cui ci si accorge che usa la struttura armonica di The Other Window degli Wire. Tutto questo – EP, album e tracce di quel potenziale secondo album che non vide mai la luce – va a comporre una coppia di uscite Secretly Canadian – meritevole da tutti i punti di vista più ovvi, ma anche per la completezza storica delle note di copertina; oppure solo per lo sforzo discografico di riscoperta. Basta quello, ad ascolto avvenuto. Le ovvietà diventano più interessanti, se giustificate. (7.0/10) Gaspare Caliri Rearview Mirror / 119 (GI)Ant Steps #24 Freddie Hubbard Open Sesame (Blue Note Records, giugno 1960) Entrò dalla porta principale, accese tutte le luci della stanza, si pose al centro della scena. Sembrava mosso da una frenesia incandescente, il talento spedito a mille per colmare il ritardo anagrafico rispetto alla Storia. Spese molto, e ci riuscì. Ma non ebbe indietro il resto. Freddie Hubbard ha lasciato questa valle di lacrime sul finire del 2008, settantenne, solo un lustro più anziano d’un Mick Jagger, tanto per dire. La notizia mi ha ovviamente intristito, obbligandomi a fare i conti con questo trombettista che mi sembra incarnare la parabola dell’hard bop come pochi altri. Nato nel ‘38 a Indianapolis, era un ragazzino quando Miles, Dizzy e Bird palleggiavano be bop nei locali più torridi della Grande Mela, città che raggiunse ventenne portando in dote l’esperienza coi fratelli Montgomery (tra cui l’immenso chitarrista Wes) e un talento che scomodò subito paragoni col compianto Clifford Brown. Suonò tra gli altri con Sonny Rollins, con Philly Joe Jones ed Eric Dolphy, persuadendo i luminari della Blue Note a concedergli subito una chance da leader. L’occhiuto Alfred Lion pensò bene di mettergli a fianco una miscela di esperienza e brio giovane: alla flessuosa autorevolezza delle quattro corde di Sam Jones faceva eco ai tamburi un Clifford Jarvis neanche ventenne ma già all’opera con Chet Baker e Curtis Fuller, e se al pianoforte sedeva un McCoy Tyner sul punto di decollare in orbita Coltrane, del sax si occupava il ventottenne Tina Brooks, uno che smerigliò l’ancia incidendo assieme a Jimmy Smith e Kenny Burrel, vantando altresì un album come leader alle spalle (Minor Move del ‘58). Di Brooks, straordinario compositore ed interprete, riparleremo presto. Quanto a Open Sesame, facciamo subito: disco stupendo, swingante con impu120 / Rearview Mirror denza generosa, languidamente declinato latin tinge, insomma il frutto perfetto di quella cuspide tra cinquanta e sessanta quando il jazz era una tensione urbana e un brivido liberatorio, un sogno esotico e il lasciapassare per la modernità. A testimoniare il talento fuori dal comune di Freddie basti il suo assolo in All Or Nothing At All, standard spedito a cento all’ora col fraseggio della tromba a centrifugare dinamiche come una turbina, la calligrafia pastosa spinta in avanti come un prodigio, uno sbattimento festoso d’illuminazioni così rapide da spingere l’improvvisazione sull’orlo del free (non a caso di lì a poco Hubbard sarà chiamato da Ornette Coleman a far parte dell’impresa Free Jazz). Detto ciò, il mio amore per Hubbard ha dei limiti: lo sento come un suono troppo preoccupato a manifestarsi nella propria tempestosa epifania, superandosi di evoluzione in evoluzione, lasciando indietro così il dramma, quel peso specifico che sfida l’inconsistenza materiale – assieme rasserenante e carnefice - nei Davis e nei Baker. Così mi pare vadano le cose in questo riuscitissimo debutto e un po’ lungo tutti i ruggenti sixties, passando dalla sbandata fusion alle peripezie che ne smarriranno via via la brillantezza, fino al brutto incidente che nel ’93 danneggerà le preziose labbra. Infine, l’attacco di cuore, atto senza ritorno, chiusura dello scrigno. Hubbard mi è sempre sembrato uno che sale al volo sul treno già in corsa, se ne sbatte dei macchinisti, del cuore infernale della belva e armeggia per guadagnarsi un buon posto magari in prima. Però che fantastico compagno di viaggio che eri, Frederick Dewayne. Stefano Solventi classic album rev Bruce Springsteen Tunnel Of Love (Columbia, 1987) Fin dalla copertina Tunnel Of Love rappresentò uno scarto netto, spiazzante: Bruce vi compare in stolido piano americano (guarda un po’…), giacca nera su camicia immacolata, algida cravattina texana, l’espressione così vaga e imbiechita che non sembra neanche lui, al più un cugino spacciatore di auto usate. Coi primi ascolti, la drammatica evidenza: ruggito innodico? Piglio blue collar? Epica rockista? Niente di tutto ciò. Ne discutevamo con sconcerto, chi imprecando sulla fuoriuscita di Little Steven dall’entourage - peraltro sostituito dal valido Nils Lofgren - e chi maledicendo il matrimonio del Boss con la modella Julianne Philipps. Insomma, all’epoca questo disco suonò come un mesto doposbronza. Una roba dimenticabile. Lo riascolto oggi e trovo che sia un disco emblematico. A suo modo importante. Perché parla del tempo e nel tempo da cui proviene, errori e orrori compresi, raccontandoci di quando Springsteen (l’uomo e l’artista) volle spingersi ancora una volta all’indietro, smarcandosi dalla valanga rock da egli stesso provocata (e dalla band, parcellizzata brano per brano) per non esserne travolto. Certo, Tunnel Of Love non può competere con l’intensità di titoli quali Nebraska o Darkness On The Edge Of Town. Ma è l’intensità di uno sguardo dietro una maschera di cera. Una “freddezza” - quel posarsi della melodia su emulsioni algide di tastiera – necessaria, adattissima a rappresentare quell’intimismo tormentato in cui Springsteen sentì di doversi rifugiare. Da qui la scelta, consapevolissima, di eleggere a modello melodico la vecchia Stolen Car, concentrando l’obiettivo sui pochi metri quadri in cui si consuma tanta parte della vita dei più, sul riflesso sfrangiato di mille esistenze regolari. Certo, le tastiere di Walk Like A Man e Two Faces sono viscide come ranocchi di plastilina, per non dire degli sciagurati “sound effects” messi in testa alla title track, del drumming polimerizzato e di tanti sciocchi coretti a cura dell’ineffabile Patti Scialfa. Ma tant’è, erano tempi in cui l’arte della produzione andava organizzandosi in rigidi e frigidi format, sintetica mattanza da cui in pochi usciranno veramente indenni (non Lou Reed, non Neil Young...). Si potrebbe inoltre cavillare sul piglio tra l’inane e il tronfio di Tougher Than The Rest, ma - per quanto mi riguarda - le critiche finiscono qui. Sinceramente, trovo ragguardevole l’impeto di Spare Parts, la cui rabbia ancestrale supera (e di gran lunga) quella “volumetrica” di Born In The USA, mentre Brilliant Disguise ha semplicemente il passo delle ballate di razza. Inoltre, se Cautious Man anticipa di un decennio l’uggia insidiosa del Tom Joad, One Step Up sa rendere con cruda nitidezza la resa dei sentimenti al disincanto del quotidiano. In chiusura, poi, t’imbatti nella leggerezza stagionata di When You’re Alone e Valentine’s Day, dolci trepidazioni country-folk sull’ultima luce che bagna l’asfalto, quello stesso che un tempo - irreversibile - era pur sempre Thunder Road. Oggi, dopo oltre vent’anni di passi falsi, resurrezioni, recuperi d’archivio e flirt hollywoodiani, il Boss tenta con ostinazione ammirevole di porre se stesso e la propria musica al servizio dell’amato Paese. La cruda tenerezza senza scampo di quei racconti in prima persona è diventato un “noi” saturo di sensazionalismo emotivo ad alto tasso retorico. Rispetto al quale, quanto più sangue, ossa, tremori, penombre e luce in Tunnel Of Love. E quanta America: quella più fragile e vera. Stefano Solventi Rearview Mirror / 121 The Flaming Lips Christmas On Mars A Fantastical Film Freakout L’ultima fatica del delirante lunapark lipsiano è un viaggio in versione celluloide nei meandri della coscienza e della vita umana, un dramma tragico venato di humour nero e surreale. Ben sette anni sono trascorsi dall’inizio delle riprese di Christmas On Mars, ovvero Flaming Lips on film, impresa cominciata a girare nel 2001, terminata nel 2005 e il resto in post-produzione fino a metà 2008; a novembre dello stesso anno risale l’uscita in DVD. Nello stile autarchico della band, la pellicola è naturalmente artigianale, low budget e autoprodotta, con cast prevalentemente fai da te (band, staff, parenti, ad esclusione di qualche amico attore, come Adam Goldberg, il comico di Saturday Night Live Fred Armisen e Steve Burns), alla regia c’è Wayne Coyne aiutato da Bradley Beesley, documentarista e co-regista dei video della band di Oklahoma City. Cosa aspettarsi allora dall’ennesimo delirante lunapark lipsiano in versione celluloide? Niente di troppo diverso in fondo, per chi li ha sempre frequentati, dal loro stile psych freak. L’ambizioso ed elaborato (concettualmente) loro ultimo parto si può definire l’approdo ultimo di un percorso che ha fatto da sempre della tenacia, della tensione morale e dell’ottimismo venato di humour surreale e caustico la loro cifra stilistica. A chiudere un 122 / La Sera della Prima cerchio, forse, e riaprire, chissà una nuova fase in un prossimo futuro. Ossessione è la parola chiave per entrare in Christmas On Mars. La storia che fa da collante al film si svolge nel futuro, su uno spettrale pianeta Marte colonizzato dai terrestri; siamo alla vigilia del primo loro Natale passato lì, in una stazione spaziale ormai quasi in avaria, dove si verificano strane allucinazioni, blocchi psichici, suicidi e paranoie da isolamento, mentre nel frattempo si sta cercando di riparare le macchine e di dare un senso di ottimismo, celebrando la festività, anche in occasione della nascita del primo bambino lì; nascita artificiale che simboleggia l’inizio della colonizzazione marziana. L’arrivo di un bizzarro superessere, Coyne stesso, che ripara il generatore d’ossigeno, infonde speranza alla crew tutta e si riesce anche a risolvere un problema di gravità. “It’s magic and hard work that really gets the job done”, la filosofia coyniana sottesa in questo esprime compiutamente il suo credo (“siamo artefici della nostra felicità”). In altre parole, ottimismo e realismo. E un pragmatismo assoluto su tutto. Ossessione si diceva poc’anzi. La genesi di Christmas parte da lontano e mette insieme alcuni nuclei tematici delle personali ossessioni della mente di uno come Wayne Coyne. L’inconscio e i ricordi dell’infanzia, la differenza tra ciò che ricordiamo a posteriori e ciò che rimane sepolto nel subconscio, la parte infantile di noi tutti a cui da adulti difficilmente si riesce più ad accedere. In altre parole, i nostri viaggi interiori nel tempo. E la capacità difficilissima, che hanno pochi, di riuscire ad accedervi anche da adulti. Questo il punto di partenza che ha dato vita all’idea del film, cristallizzatasi dopo la morte del padre di Coyne, avvenuta nel 1997. C’è anche la fascinazione per l’oscurità e il senso del magico e dell’imprevedibile, presente negli anni formativi infantili, insieme al senso di luci ed ombre, così importante per un graphic designer qual è anche il Nostro. Luce ed ombra così correlate alle paure infantili del resto. Ancora la sensazione claustrofobica dell’isolamento e della relativa conseguente paranoia, così dominante in alcuni characters del film, i quali rappresentano la parte psichica che è rimasta intrappolata in un meccanismo e contro cui altri personaggi oppongono di contro il loro humour surreale e una certa dose deterrente di ottimismo. C’è in tutto ciò anche la percezione evidente della nostra fragilità, pur in un mondo ipertecnologizzato qual è quello attuale. And the fight for our sanity will be the fight of our lives. La paranoia da isolamento è anche quella che circolava nei Settanta intorno a una favoleggiata conquista USA del pianeta Marte non andata a buon fine e di conseguenza mai rivelata al mondo. Leggenda che fa un po’ il paio con la (supposta) conquista della Luna nel 1969. Teorie cospirative sul loro governo che tanto piacciono e continuano a piacere agli americani del resto. E su tutto, ritorna il senso della comunità e della famiglia, del clan così tipico dell’universo Lips. A proposto di ricordi, Coyne rivela come la storia si basi essenzialmente su di un (falso) ricordo della madre che, rimasta di notte sveglia davanti alla televisione - siamo a metà degli anni ’70 - aveva rielaborato, addormentandosi, qualcosa che credeva di aver visto in un film. La storia appunto che si svolgeva in una pellicola degli anni’40 su di uno La Sera della Prima / 123 sperduto avamposto, tipo sottomarino o astronave, dove una ciurma ormai alla deriva per guasti meccanici e convinta di dover morire, nel momento in cui affronta la morte e la accetta, viene visitata da un’entità sovrannaturale e si trova così cambiata positivamente dall’evento. Che è quel che succede in Christmas d’altra parte. Inutile dire che il film oggetto del sogno-ricordo si rivelò poi difficile da trovare nel corso del tempo e che sia stata maturata da Coyne la convinzione che non fosse mai esistito. Se la genesi di Christmas ha avuto le radici fin qui esaminate, quali sono state invece le influenze filmiche e tematiche che ne hanno determinato il risultato finale? Si è già detto della sua lunga elaborazione e postproduzione, frammista alla lavorazione degli album da fine ‘90 ad oggi. In mezzo alle riprese anche la dipendenza, poi vinta, da eroina del protagonista del film, il batterista Steve Drozd (alias Major Syrtis) tra le altre cose. “Forse Eraserhead o Dead Man misti a fantasia e aspetti spaziali, come Il mago di Oz e probabilmente 2001-Odissea nello spazio, ma realizzati senza veri attori o budget e ambientati durante il periodo natalizio. La storia che si svolge possiede 124 / La Sera della Prima della magia infantile mista a una situazione tragica e realistica”. E’ Coyne stesso ad offrirci suggerimenti sulle alcune delle influenze, dal commento a Christmas On Mars sul sito ufficiale flaminglips. com. Certamente essenziali sono stati Kubrick, la magia e la speranza di un film come Il mago di Oz di Victor Fleming, l’artigianalità, il paesaggio industriale ed emotivo desolante di Eraserhead di David Lynch (ma il bambino dell’allucinazione in Christmas è più tranquillizzante!), il senso del surreale e del parodistico del Dark Star di John Carpenter, frammisti a spruzzate di Solaris e Tetsuo. Senza dimenticare però la science fiction più popolare di fumetti, b-movies e serie TV, quali Star Trek, e uno z-movie scombinato quale Santa Claus Conquers The Martians (di Nicholas Webster,1964) che fa il paio con i film del famigerato Ed Wood. Un immaginario fertilissimo per chi cresceva negli psichedelici Sessanta-Settanta tra hippismo e controculture. E il senso del citazionismo diffuso da sempre nei Lips. Girato in 16 mm con prevalenza del bianco e nero (il colore viene associato al suono in scene topiche, come le disturbanti visioni del Major Syrtis o l’ap- parizione del marziano verdissimo e ipercolorato Coyne), Christmas On Mars è di base un film puramente artigianale - girato per la maggior parte nel giardino di casa - ma con ambizioni “arty”: ritmo rallentato, esplosioni soniche, pellicola invecchiata e via dicendo. Sarebbe un errore considerarlo unicamente come prodotto a sé stante prodotto di modesta caratura, in verità. Altra cosa è immetterlo contestualmente nell’universo lipsiano, da dove scaturiscono, come si è già visto, una miriade di sensi compiuti, che partono da lontano nel tempo e chiudono completando il cerchio di un’esperienza più o meno trentennale all’insegna dell’immaginazione e della psichedelica più sfrenata e liberatoria. Si diceva dell’irruzione della musica in alcune scene; la colonna sonora viene acclusa all’edizione speciale di questo DVD, ed alcuni estratti erano già stati pubblicati negli anni scorsi; la composizione risale alle session di quello che sarebbe poi diventato Yoshimi Battles The Pink Robots (2002). Lo score strumentale, che irrompe sonicamente a maggior volume in alcune delle scene più deraglianti, ha derivazione prettamente ambient con inserti kraut orchestrali: Drozd negli extra del DVD cita non a caso Bernard Hermann, Brian Eno e Stravinskji come maggiori influenze compositive. E Coyne parla di tono drammatico della musica che ben si adatta e amplifica la tragicità e l’amarezza di fondo della pellicola. Ultimo paradosso e humour nero dei Nostri, la mancanza di sottotitoli - inglese compreso - se si escludono i soli presenti, in cirillico (!). Ad un esame degli stessi nei titoli di coda di Christmas, è stato sottolineato che la traduzione non è neanche letterale, ma immette dell’altro, come ad esempio commenti sulla ricerca della felicità nella vita e via discorrendo. Ennesimo detour di senso. Ma non ci aspettavamo davvero niente di diverso. “La vita è dura per lo più priva di senso. Ma sta a noi renderla migliore. Sta a noi cercarne il magico e il senso di meraviglia sotteso. E nel significato più profondo, scoprire cosa sia il sublime. Ce la possiamo fare, al di là delle sofferenze, a creare la nostra gioia e la nostra felicità. Questo è il Natale di cui parliamo”. (Wayne Coyne, 2008) Teresa Greco credits: • Titolo originale: The Flaming Lips - Christmas On Mars (DVD & CD - Warner, novembre 2008) • Regia: Wayne Coyne con Bradley Beesley e George Salisbury • Sceneggiatura: Wayne Coyne • Fotografia: Jeremy Lasky • Musica: The Flaming Lips • Cast: Steven Drozd, Wayne Coyne, Adam Goldberg, Fred Armisen, Steve Burns, Michael Ivins, Kliph Scurlock, J. Michelle Martin-Coyne • Genere: Fantastico, drammatico • Nazionalità: USA • Durata: 1h 22’ La Sera della Prima / 125 Tony Manero (di Pablo Larrain - Cile 2009) Abbiamo visto più volte sul grande schermo la storia tragica delle dittature sudamericane, ma un film il cui protagonista non è il buono ma risulta persino sgradevole non ce lo ricordavamo. E neanche un tema all’apparenza frivolo come il ballo, ma così rivelatorio in realtà della condizione della popolazione cilena degli anni ’70 alle prese con la dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990). Popolazione rassegnata e stanca, che vede la violenza per strada giorno per giorno, gente abbrutita, coprifuochi, esercito e soprusi. Chi si ribella e chi per sfuggire alla sordida real- 126 / La Sera della Prima tà evade, con il cinema “straniero”, americano in particolare, con il ballo, anche questo importato. Siamo nel 1978, che vide la “febbre del sabato sera” di travoltiana memoria (Saturday Night Fever, 1977) diventare globalmente febbre di tutti. O quasi. E la disco massiccio fenomeno di costume. Ci troviamo alla periferia di Santiago del Cile. Raúl Peralta (Alfredo Castro, anche sceneggiatore del film) è un ballerino cinquantenne che sbarca il lunario arrangiandosi come può, con l’ossessione per questo film, che va a rivedere in sala in continuazione. È a capo di un gruppo di ballerini che si esibiscono in un piccolo bar di periferia, e anche loro sognano il successo e l’evasione. Ma a differenza di chi lo circonda, il protagonista non esita a fare qualsiasi cosa per perseguire i propri scopi di affermazione, anche rubare, ingannare, uccidere. Indifferente a tutto quello che ha attorno, se non lo tocca da vicino per i suoi scopi primari. Tutto pur di migliorare le sue performance di ballo e cercare di vincere dei soldi e la gloria a un concorso in televisione, presentandosi come sosia di John Travolta alias Tony Manero. Pablo Larrain, qui al secondo film dopo Fuga del 2005, affronta il film realizzandolo con stile documentaristico, incollandosi quasi ai personaggi e seguendoli strettamente, con alcune scene anche in fuorifuoco. Assistiamo così passo dopo passo all’amoralità di Raúl, fino alle estreme conseguenze; Larrain lascia il finale in sospeso, dopo averci fatto assistere attoniti alla vicenda. E l’altra storia parallela, il cui epilogo è in sottofinale (la figlia della sua convivente e il suo ragazzo arrestati dalla polizia per opposizione clandestina al regime) che era la normalità tragica in anni come quelli, è vista con gli occhi del protagonista, che al momento dell’irruzione nella casa in cui anche lui vive, trova il modo per fuggire, anzi è come un fantasma, coperto come se non fosse mai esistito. Un no man’s land, uno spettro che si aggira nei meandri di una dittatura approfittando dell’amoralità generale e usandola a suo favore. E il senso di continua tensione in Tony Manero è avvertibile sin da subito, quando dopo le scene iniziali in cui il protagonista sembrava solo una povera vittima che cerca di farcela in qualche modo, si rivela bruscamente per quel che è. Momento rivelatore da cui si procede poi in discesa negativa per tutto la pellicola. L’ultima fatica di Larrain si conferma quindi come un crudissimo spaccato della perdita di valori e di identità di una società, ormai rassegnata a tutto. Un fallimento dei personaggi che è quello di tutto il Cile di allora. E un film estremamente politico. Vincitore del premio per il miglior film e per il miglior attore al Festival di Torino 2008, premio meritato dall’ottimo Castro, che con la sua mimica, i silenzi, la gestualità minimale ha reso al meglio la mancanza di morale del tragico Raúl. Teresa Greco Milk (di Gus Van Sant – USA, 2009) “Sono Harvey Milk e voglio reclutarvi tutti”. Gus Van Sant alle prese con un biopic? Non proprio, anzi non solo. Nel portare sullo schermo un progetto accarezzato già da un po’ di anni e mai riuscito a realizzare finora, si avvicina abbastanza a suoi film “regolari” quali Will Hunting (1997) Psycho (1998) e Scoprendo Forrester (2000). La libertà che offre una storia del genere non è invero moltissima, anche se pensando al suo recente Last Days (2005) ispirato a Cobain, i margini di deragliamento ci sarebbero potuti benissimo stare. Invece il regista sceglie apparentemente un impianto narrativo classico per raccontare parte della vita dell’attivista Harvey Milk (1930-1978), il primo americano omosessuale dichiarato a riuscire a ricoprire una carica pubblica, quella di consigliere comunale nell’America La Sera della Prima / 127 omofoba di fine anni ’70, a San Francisco, e tragicamente assassinato da un suo collega. Prendendo spunto dalle centinaia di taccuini e registrazioni audio che Milk aveva lasciato, in particolare da un lungo nastro rievocativo della sua carriera da rendere pubblico in caso di assassinio, Van Sant usa questo espediente narrativo, partendo dalla decisione del coming out personale e politico del personaggio dopo anni di vita regolare e conformistica. Si comincia quindi da un disvelamento, iniziando a rivelare se stessi. “Lo stile più rivoluzionario che mi sembrava giusto seguire per raccontare la vita di un gay era proprio quello classico, per lasciare spazio alla storia e a tutto quello che di importante Milk ha fatto, e mettere l’etica prima dell’estetica. Non volevo che fosse considerato un eroe ma un grande uomo, che si preoccupava dei diritti di tutti gli esseri umani. Comunque non penso assolutamente di avere rinunciato al mio personale modo di girare”. Così dalle parole dello stesso autore. Il tocco di Van Sant c’è comunque tutto: i lunghi 128 / La Sera della Prima pianosequenza, la fotografia minimale, la cura dei particolari, alcuni dei quali appena appena insistiti. Come il riflesso del fischietto che è inquadrato durante una manifestazione di protesta, a simboleggiare il movimento tutto, o l’inquadratura in prefinale, durante l’assassinio, con Josh Brolin nei corridoi del Comune, inquadrato di spalle alla maniera di Elephant mentre meccanicamente dà vita al massacro di Milk e del sindaco che lo appoggiava. Viene in mente un altro grande alle prese con film più apparentemente regolari della sua carriera, il Cronenberg di A History Of Violence (2005). E non c’è solo in scena quasi il protagonista, come in genere nei biopic. Van Sant è Van Sant ed ecco coralmente la sua massa di diseredati, hobo, adolescenti, emarginati di tutti i suoi film, il popolo gay di San Francisco, qui al centro dell’attenzione per combattere e affermare i propri diritti. Contro la Proposition 6, una proposta di legge che chiedeva tra le altre cose l’allontanamento degli omosessuali dalle scuole pubbliche della California e che per mesi infiammò il dibattito politico e sociale americano. L’abbattimento di catene che imprigionavano la vita sociale degli omosessuali, e di riflesso anche la loro vita privata, il togliersi le maschere e rivelarsi per quel che si era: ecco uno dei capisaldi del pensiero di Milk (“dì a tutti chi sei”, rivolto a chiunque, non solo alla comunità gay). E per ultimo non si può non citare il gran lavoro sul e del cast tutto: Sean Penn si cuce letteralmente addosso i panni di Milk, conferendo al personaggio una nota dolente e malinconica da grande istrione; così anche i tre co-protagonisti, Emile Hirsch che interpreta l’attivista Cleve Jones, già visto l’anno scorso in Into The Wild, James Franco il compagno di Milk e il tormentato Brolin, l’assassino Dan White. Teresa Greco BEST OF 2008 THE FIREMAN (Paul McCartney & Youth) “Electric Arguments” MPL DAVID BYRNE & BRIAN ENO “Everything That Happens Will Happen Today” BLACK MOUNTAIN “In The Future” Jagjaguwar Silver Arrow Asthmatic Kitty FUCK BUTTONS “Street Horrrsing” VIC CHESNUTT/ELF POWER “Dark Developments” PETE MOLINARI “A Virtual Landslide” ELI PAPERBOY REED “Roll With You” ATP Recordings Orange Twin Damaged Goods Q Division RODRIGUEZ “Cold Fact” Light In The Attic SEUN KUTI “Many Thing” MURCOF “Versailles Sessions” BENGA “Diary Of An Afro Warrior” ALBOROSIE “Soul Pirate” PATTI SMITH & KEVIN SHIELDS “The Coral Sea” Tout Ou Tard Leaf Label Tempa Forward Pask JULIAN COPE “Black Sheep” WIRE “Object 47” THE MELVINS “Nude With Boots” JESSE MALIN “Mercury Retrograde” Pink Flag Ipecac One Little Indian A SILVER MT. ZION “13 Blues For Thirteen Moons” ROSE KEMP “Unholy Majesty” WILDBIRDS & PEACEDRUMS “Heartcore” EARTH “The Bees Made Honey In The Lion’s Skull” XIU XIU “Women As Lovers” Head Heritage DEERHOOF “Offend Maggie!” Kill Rock Star One Little Indian Leaf THE BLACK CROWES “Warpaint” MY BRIGHTEST DIAMOND “Thousand Shark’s Teeth” Constellation Kill Rock Star Southern Lord DISTRIBUZIONE / PROMOZIONE / EDIZIONI via Fortebraccio 20/A, 00176 Roma (Pigneto) Tel. 06 21700139 Fax: 06 2148346 - e-mail: [email protected] www.goodfellas.it - www.myspace.com/goodfellasdistribution - news sempre aggiornate su goodfellasblogspot.com La Sera della Prima / 129 RADIATION RECORDS VENDITA PER CORRISPONDENZA: Ordini telefonici: +39 06 90286578 - Ordini via e-mail: [email protected] Circ.ne Casilina 44 (Pigneto) 00176 ROMA L’incantevole voce di Florez Dopo sei anni ritorna al Comunale di Bologna I Puritani di Vincenzo Bellini, ancora una volta con la regia e le scene di Pier’Alli, che, per la quarta volta consecutiva mette in scena l’ultima opera di Bellini nel teatro della città petroniana. Un allestimento bello, anche se non eccezionale, nel quale la splendida voce del tenore Juan Diego Florez ha fatto la differenza.. Testo: Daniele Follero I P uritani di V incenzo B ellini – T eatro C omunale I Puritani: Opera seria in tre atti su libretto di Carlo Pepoli. Musica di Vincenzo Bellini. Regia e scene: Pier’Alli. Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, direttore Michele Mariotti Al di là dei meriti stilistici e di quelli storici, imprescindibili nel caso di un’opera rimasta saldamente legata al repertorio per 150 anni, ciò che conferisce un’aura quasi mitica ai Puritani di Bellini, è la stretta relazione che essa ha avuto con la morte del compositore siciliano, scomparso giovanissimo e nel pieno del suo successo internazionale, una manciata di mesi dopo la Prima parigina di quella che sarebbe stata la sua ultima partitura per il teatro. La morte prematura di un artista che dimostra di avere ancora molto da dire, ha sempre destato un certo fascino, orientando la critica verso un giudizio sbilanciato verso ciò che sarebbe diventato, quell’artista, se il fato non avesse deciso anzitempo la sua scomparsa. E’ successo con molti musicisti del passato e succede ancora oggi nei più svariati ambiti musicali: cosa sarebbe diventato Mozart se avesse vissuto i primi fermenti romantici, lui che in anticipo su tutti aveva già impregnato le sue ultime opere di una drammaticità anticipatrice dello spirito beethoveniano? cosa sarebbe stata la musica del Settecento se Pergolesi avesse potuto esprimere la sua maturità invece di essere stroncato a 27 anni dalla tisi? e come sarebbe il rock aves- di B ologna (8 – 17 G ennaio 2009) se potuto godere ancora qualche anno della presenza di icone viventi come Jimi Hendrix, Jim Morrison e Kurt Cobain? E Verdi? Il Verdi popolare, di Traviata e Rigoletto, il musicista risorgimentale per eccellenza, avrebbe avuto una carriera così limpida se la vita avesse permesso a Bellini di andare oltre I Puritani? Domande inutili, forse, ma che aprono a un ventaglio di ipotesi ampio e suggestivo, che condiziona inevitabilmente il giudizio storico sull’arte e le sue espressioni. L’ultima opera del compositore catanese, pur mantenendo alcune caratteristiche tipicamente belcantiste (non manca il lirismo che aveva reso grandi due grandi capolavori precedenti come Norma e La Sonnambula) segna anche un superamento dello stile belliniano, verso tecniche e atmosfere che ben presto diverranno caratteristiche fondamentali del melodramma romantico: maggiore espressività e colore dell’orchestra; uno sviluppo musicale sempre più intimamente legato all’azione drammatica; cantanti ai quali è sempre più richiesta la capacità di interpretazione attoriale a scapito del virtuosismo; argomento patriottico. L’estetismo lascia il posto alla funzione drammatica della musica, che culminerà nella concezione totalizzante del teatro di Wagner, per il quale musica, testo e azione diventano un tutt’uno inscindibile. Il conflitto tra i Puritani seguaci di Cromwell e gli Stuart assume, nel libretto dell’esule patriota bolognese Carlo Pepoli, toni che preannunciano già il risorgimento italiano, divenendo un esempio di lotta per la libertà trasferibile idealmente nello spirito nazionalista italiano dell’epoca. Da questo punto di vista l’opera di Bellini non acquistò la fama e il rango di vero e proprio “inno alla Patria” di alcune musiche verdiane, anche se passi dei Puritani come “Suona La Tromba, Intrepido” già esprimevano quel complesso di valori liberali di cui il compositore di Busseto sarebbe diventato, di lì a poco, la più evidente espressione. Non sarà la Norma in quanto a successo popolare e posizione nella particolare gerarchia del repertorio, ma I Puritani è entrata di diritto tra le opere più eseguite di Bellini e, più in generale, del teatro musicale della prima metà dell’Ottocento e, con una certa continuità, sin dai suoi esordi, è arrivato fino a noi, come dimostrano le rappresentazioni ospitate dal Teatro Comunale di Bologna, che dal 1836 e prima di questo nuovo allestimento, arrivavano fino al 2002. Nella memoria bolognese resterà senz’altro la grande interpretazione di un Pavarotti già maturo, ma non ancora divissimo, del 1969, accompagnato da Mirella Freni, subentrata a un’indisponibile Joan Southerland (come dire, calcisticamente, che esce Maradona ed entra Platini!). Altri tempi, direbbe qualche nostalgico del belcanto. “Tiempe Belle ‘E ‘Na Vota…E Pecchè Nun Turnate”, come recita una nota canzone napoletana, con nostalgia e pessimismo. Domanda legittima per il melomane. Che forse però, ascoltando la voce di Juan Diego Florez, qualche speranza l’avrà covata, dentro di sé, come il tifoso (sempre per rimanere in tema calcistico) che solleva speranze nella nuova promessa, sognando il ritorno dei grandi campioni del passato. La voce di Florez, tenore peruviano ancora giovane ma già maturo musicalmente e di notevole fama internazionale, è, secondo la mia ancor più giovane conoscenza della lirica, la più espressiva e limpida voce tenorile che abbia mai ascoltato dal vivo. Una voce che prende la scena con una natu- ralezza e una chiarezza che oltrepassano il livello medio delle altre presenze, che riesce a svolazzare tra le note alte, ma è capace anche di vestirsi di toni cupi e drammatici senza perdere vigore. In alcuni tratti il ruolo di Lord Arturo Talbo, sembra cucito perfettamente per la plasticità della sua voce, ancor più che i ruoli mozartiani, grazie ai quali si è imposto sulla scena internazionale. L’allestimento, una collaborazione a tre tra il Comunale, il Massimo di Palermo e il Lirico di Cagliari è stato, per il teatro bolognese il quarto consecutivo a portare la firma del regista fiorentino Pier’ Alli, del quale avevamo potuto apprezzare, lo scorso anno, la messinscena multimediale del Requiem di Verdi. Niente video, stavolta, ma predilezione per scene mastodontiche e spigolose, a contatto con le quali la luce fioca crea un’atmosfera cupamente gotica. Enormi spade, a mo’ di colonne doriche disegnano la scena, tenendo ben presente per tutto il dramma l’idea del conflitto, della lotta a testimonianza della grande attenzione ai simboli caratteristica dello stile scenografico di Pier’Alli. Sul podio, Michele Mariotti, ormai sempre più lontano dalla qualifica di “giovane” vista la sua sicurezza nel dirigere, ha interpretato in maniera decisa e accentuata i chiaroscuri presenti nella partitura, dimostrandosi un dignitoso erede di Daniele Gatti, pur avendo caratteristiche diverse dal direttore milanese. Quando le cose stanno così, quando la regia funziona e dialoga bene con la musica e con cantanti “sopra la media” come Florez, è un bene per tutti. Anche per chi la lode non la meriterebbe. a night at the opera / 131 Dmitri Shostakovich Fino all’ultima sinfonia Stretta tra la voglia di aprirsi ai nuovi linguaggi delle avanguardie europee, la fedeltà agli ideali del socialismo sovietico e le censure del regime, la carriera artisica di Dmitri Schostakovich ha coinciso del tutto con la vita dell’U.R.S.S., dalla morte di Lenin alla “normalizzazione” di Breznev, assorbendone tutte le contraddizioni. Personaggio schivo, introverso, amico di Majakovskij, comunista convinto, ma spesso avversato dal regime, Mitja, come veniva chiamato dai più intimi, rappresenta, nel bene e nel male il compositore sovietico per eccellenza. Testo: Daniele Follero “Quando un uomo è disperato vuol dire che crede ancora in qualcosa” Dmitri Schostakovich Affrontare e, talvolta, giudicare la storia e l’opera di artisti vissuti all’ombra dei regimi totalitari non è mai cosa facile. In società dove la cultura è controllata da istituzioni create ad hoc e le espressioni artistiche sono censurate ogni qualvolta non si allineino alle direttive del regime, le soluzioni sono due, non si scappa: emigrare (laddove si possa) o adattarsi, reprimendo, in maniera un po’ schizofrenica, gli istinti creativi che rischiano di trasbordare verso libertà non concesse. Molti artisti del Novecento (ma anche scienziati, come Freud e Einstein), nati in Germania, Italia o Russia e sensibili ai cambiamenti radicali delle avanguardie “storiche” (che coincisero, cronologicamente, con il periodo delle grandi dittature del XX secolo) optarono per la prima soluzione, con la conseguenza di apparire come degli eroi, pur avendo scelto la via più semplice (per modo di dire, ovviamente) ma, in ogni caso, più coerente con le proprie idee, politiche e culturali. Una scelta quasi obbligata per evitare di scendere a compromessi umilianti, che qualcuno non ha avuto il coraggio o la semplice intenzione di compiere, con conseguenze spesso devastanti per la propria carriera o, quantomeno, con il rischio sempre incombente di sacrificare, fino all’insop- portabile, l’arte alla vita politica. Non lo fece Mascagni, adattatosi senza vergogna alle esigenze populiste del fascismo e caduto presto nel dimenticatoio; e lo fece solo a metà Prokofiev, prendendo le distanze dalla rivoluzione leninista per ritornare in U.R.S.S. all’apice del regime stalinista. Per Shostakovich, invece, che con gli ideali della Rivoluzione di Ottobre si era alimentato e credeva nel socialismo sovietico, restare a vivere in patria fu atto dovuto, un motivo d’orgoglio, manifestato attraverso la piena adesione agli ideali del nuovo potere politico che aveva rovesciato l’ultimo zar. Ci credette a lungo, nonostante percepisse che qualcosa non quadrava. Ci credette, almeno fino a quando, nel 1935, la Pravda non pubblicò quel maledetto articolo sulla sua Lady Machbeth, dal titolo: “Caos anziché musica”. A cui seguì il marchio definitivo di formalismo apposto dal regime alla sua Quarta Sinfonia, Da quel momento, la contraddizione tra lo Shostakovich artista e il cittadino sovietico cominciò a diventare incolmabile e a rappresentare un ostacolo sempre più insormontabile per il carattere mansueto e debole (come la sua salute) del compositore di San Pietroburgo. L a R ivoluzione di M itja Nato a San Pietroburgo nel 1906, ma vissuto a Leningrado (il nome che assunse la sua città natale dopo il 1917) Shostakovich è figlio legittimo, sia per ragioni anagrafiche sia ideologiche, della rivoluzione bolscevica. Il clima familiare nel quale cresce il piccolo Mitja (come veniva chiamato dai parenti e dagli amici più intimi) risente molto delle idee leniniste e contribuirà non poco a stimolare il suo spirito progressista, fino a coinvolgerlo di persona (è stato per molto tempo membro dell’Unione dei Compositori). Durante gli anni giovanili dei primi studi musicali, viene in contatto con Prokofiev, di qualche anno più grande,e con Majakovskij, personaggi che influenzeranno non poco la prima sua prima fase compositiva, anche se i rapporti tra lui e il compositore ucraino non saranno mai idilliaci e si limiteranno ad una cortesia di maniera non priva di critiche reciproche. Già nella Prima Sinfonia, che lo impone all’attenzione internazio- nale all’età di appena 19 anni, il “modernismo” del primo Prokofiev è presente in tutta la sua carica dirompente, espressa con sonorità spigolose e ritmi sferzanti, trame melodico-armoniche che alternano atonalità e politonalità e un particolare interesse per l’organizzazione timbrica. Ma non mancano le influenze mitteleuropee, che si concretizzano, nei primi lavori sinfonici di S.(almeno fino alla Quarta Sinfonia), soprattutto nella figura di Paul Hindemith e del suo neo-oggettivismo. Pungente, sarcastico, nel complesso uno stile non certo facile da digerire, per un ambiente musicale come quello russo, ancora strettamente legato al sinfonismo tardo-romantico. Se lo stile guarda all’occidente, però, le intenzioni, i cosiddetti contemporanei / 133 i messaggi, sono tutti rivolti al socialismo sovietico. Spesso le composizioni di S. sono dedicate ai miti della rivoluzione o scritte per particolari celebrazioni (ne è un esempio la Seconda Sinfonia, denominata “Ottobre” e composta per il decimo anniversario della Rivoluzione, nel 1927). Anche nell’opera lo stile di S. si mostra ricco di sfumature ed evidenzia una forte carica ironica, espressa attraverso un linguaggio musicale a volte parodistico, altre esasperato, con l’orchestra che assume un ruolo determinante nell’effetto complessivo. Nasce con queste caratteristiche il suo primo lavoro teatrale, Il Naso (1930), tratto dall’omonimo racconto di Gogol’. La personale elaborazione dei linguaggi delle avanguardie europee (Stravinskij, Hindemith, Berg) e la deformazione di timbri e voci che assume toni talvolta ironici, talvolta grotteschi, rendono quest’opera assolutamente eccezionale nel mondo in cui prende vita. I l R ealismo S ocialista , S hostakovich l ’U.R.S.S.: una storia di censure e Il dibattito culturale su un’arte che esprimesse la realtà della società post-rivoluzionaria e sovietica era già ampiamente avviato all’epoca, ma la censura non aveva ancora colpito il compagno Mitja che, seppure in maniera troppo “occidentale” (a quei tempi sinonimo di borghese e quindi di nemico politico e culturale) aveva dimostrato di aderire ai precetti della nuova arte russa. Un’adesione ad un linguaggio che fosse il più possibile comunicativo, celebrativo e funzionale al cambiamento radicale della società. E che S. interpreta a suo modo attraverso una raffinatezza compositiva che gli permette di esprimersi a più livelli, senza per questo cadere nelle grinfie della critica più ortodossa e intransigente. Ma questo equilibrio riesce a durare ancora qualche anno, anche perché sempre più stretta si fa la morsa del potere politico (che culminerà dopo la seconda guerra mondiale negli “editti” di Ždanov, il plenipotenziario “colonnello” di Stalin) sulla cultura e l’accusa di “formalismo” (cioè di un supposto interesse per la forma in sé a scapito della comuni- cazione) diventa lo strumento più in voga per “scomunicare” un artista. Una recensione sulla Pravda critica aspramente la seconda opera teatrale di S., Lady Macbeth Del Distretto di Mcensk (rivisitata poi nel 1963 con il nome della protagonista femminile, Katerina Ismailova), che pure voleva interpretare il delitto di Macbeth come gesto di rivolta antiborghese, bollandola come “caos” e, addirittura, parlando di “pornofonia” nel caso della descrizione musicale dell’amplesso tra Katerina e Sergej. Segue a ruota la stroncatura della sua Quarta Sinfonia. E in meno di un anno uno dei più grandi compositori della Russia Sovietica, viene messo al bando e costretto a ritrattare le sue idee artistiche (firmando addirittura una poco convinta condanna critica alla figura di Schoenberg), con lo scopo di fornire solide garanzie al controllo del regime. E’ da questo momento che la contraddizione che covava nel mite S. esplode in maniera irruenta nella sua vita. Una condizione sì dell’uomo, ma che si può estendere a tutta la società sovietica, stretta tra parole di libertà e un atteggiamento del potere che esprime l’esatto contrario Si spiega così la virata improvvisa di S., dalla Quinta Sinfonia in poi, verso uno stile più sobrio e lirico, che abbandona i radicalismi avanguardisti e si riavvicina al tonalismo. L’orchestra viene ridotta, il linguaggio si accosta di più a Mahler e al poema sinfonico e spesso e volentieri vengono utilizzati testi, come nel caso della celebre Settima Sinfonia “Leningrado”, scritta durante la battaglia del 1941. La vitalità compositiva di S. non si spegne neanche durante gli anni della guerra, ma ben presto un altro colpo, un’altra confessione strappata con la forza a seguito del rapporto Ždanov, lo costringe ad abbandonare qualsiasi benché minima intenzione innovativa, lasciando cadere la sua musica verso toni maggiormente celebrativi e un sinfonismo tardo-romantico alla Tchaikovsky. R iflettendo sull a morte La conseguenza di questi colpi bassi, porta un ormai disilluso S. ad allontanarsi sempre di più dal- la realtà (ormai irreparabilmente confusa con la propaganda. Una condizione descritta in maniera eccellente da Orwell in 1984), spingendosi verso i territori dell’immaginazione. La riflessione sulla morte diviene il tema più ricorrente dell’ultima fase compositiva del compositore di Leningrado, che si chiude così, in un pessimismo fatalista sempre più scuro. Proprio lui, che per tanti anni aveva creduto nell’”uomo nuovo”! Anche la musica si fa più cupa: abbandonati già da molto tempo i generi dell’opera e del balletto (altro genere molto stimato nella Russia sovietica e al quale S. aveva regalato, prima del ’35 opere di ottimo livello e “sopra la media” come L’Età Dell’ Oro, Il Bullone e Il Limpido Fiume, rispettivamente del ’30, ’31 e ’35), S. si concentra sulle sinfonie e sulla musica da camera, mantenendo costante anche il suo impegno come compositore per il cinema, reso più prolifico ma anche meno interessante, artisticamente, dall’avvento del sonoro (degne di nota sono le musiche scritte per l’unico film muto musicato da lui, Nuova Babilonia). Ma se la sinfonia rappresenta ormai la forma prediletta dal regime per la sua autocelebrazione, nelle partiture per organici piccoli e destinata a luoghi d’esecuzione ridotti, MItja riesce a sviluppare la sua ricerca musicale più sincera, ancora attratta dai linguaggi della modernità, dalle avanguardie al jazz. Nei numerosi Quartetti (15 in tutto) e Quintetti S. può ancora permettersi di comporre, indisturbato, utilizzando le serie dodecafoniche e i cromatismi più estremi. Tra questi, l’Ottavo Quartetto (1960) è senz’altro il più significativo: una sorta di epitaffio auto celebrativo, nel quale il tema è ricavato dalle iniziali del nome del compositore (D.S.C.H., che corrispondono alle note Re-Sol-Do-Si). La contrapposizione tra, da un lato, un atteggiamento celebrativo, sottomesso alle volontà del regime, espresso attraverso un acceso lirismo e l’uso costante di elementi folclorici (le Sinfonie n.11, dedicata alla rivoluzione fallita del 1905 e la n.12, “in memoria di Lenin”) e, dall’altro la voglia di confrontarsi con i suoi contemporanei europei sperimentando a suo modo con i linguaggi della modernità (la Sinfonia n.13 si testi di Evtušenko, che gli valse l’ennesima censura nel 1962), ha rappresentato una costante, assunta a fondamentale caratteristica stilistica, dello S. compositore. Che come abbiamo avuto modo di vedere, non era molto diverso dall’uomo, combattuto in questo eterno conflitto, rimasto irrisolto fino alla sua morte. Fino all’ultima sinfonia. Sarebbe stata la Sedicesima. The Essential Dmitri Shostakovich * Sinfonia n.1 in Fa minore (1925) * Sinfonia n.2 in Si maggiore “Ad Ottobre” (1927) * 10 Aforismi per Pianoforte (1927) * Musiche per il film muto “Nuova Babilonia” (1929) * Sinfonia n.3 in Si bemolle maggiore “Il Primo Maggio” (1929) * Il Naso (1930) tratto da un testo di Gogol’ * Suite per Jazz Orchestra n.1 e 2 (1934 e 1938) * Lady Macbeth Del Distretto Di Mcensk (1934) tratto da un testo di Leskov * Sinfonia n.4 in Do minore (1936) * Sinfonia n.5 in Re minore (1937) * Sinfonia n. 7 in Do maggiore “Leningrado” (1941) * Sinfonia n.8 in Do minore (1943) * Quartetto d’archi n.8 in Do minore (1960) * Sinfonia n.13 in Si bemolle minore “Babi-Yar” (1962) * Quartetto d’archi n.9 in Mi bemolle maggiore (1964) * L’Esecuzione Di Stepan Razin (1966) su testo du Evtušenko * Quartetto d’archi n. 12 in Re bemolle maggiore (1968) * Sinfonia n. 15 in La maggiore (1971) * Quartetto d’archi n.15 in Mi bemolle minore (1974) * Sonata per Viola (1975) i cosiddetti contemporanei / 135 sentireascoltare.com a breve di nuovo online......