OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA n. 1 - gennaio-febbraio 2010 Nuova serie, Anno IV- n. 1 - gennaio-febbraio 2010 - Spedizione in abbonamento postale 70% - DC Roma Avvocatidifamiglia Massimario di diritto di famiglia 2003-2009 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Avvocatidifamiglia OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA Avvocati di famiglia Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Nuova serie, Anno IV, n. 1 - gennaio-febbraio 2010 Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4.3.1996 Spedizione in abbonamento postale 70% - DC Roma Amministrazione Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Centro studi giuridici sulla persona Via Nomentana 257, 00161, Roma tel. 06.44242164 fax 06.44236900 ([email protected]) Direttore responsabile Gianfranco Dosi ([email protected]) Comitato esecutivo dell’Osservatorio Nazionale sul diritto di famiglia avv. Gianfranco Dosi (Roma) avv. Maria Giulia Albiero (Messina) avv. Germana Bertoli (Torino) avv. Matilde Giammarco (Chieti) avv. Corrado Rosina (Barcellona Pozzo di Gotto) avv. Ivana Terracciano Scognamiglio (Napoli) Redazione Direttore responsabile Zoom (sulle sezioni) Primo piano (vita associativa) Professione avvocato Gli osservatori sulla giustizia Eventi formativi Giurisprudenza penale Giurisprudenza civile Massimario Mediazione familiare Pari Opportunità Osservatorio Legislativo Sito associativo avv. Gianfranco Dosi (Roma) avv. Corrado Rosina (Barcellona Pozzo di Gotto) avv. Gianfranco Dosi (Roma) avv. Maria Giulia Albiero (Messina) avv. Laura Landi (Salerno) avv. Germana Bertoli (Torino) avv. Gioia Sambuco (Rieti) avv. Ivana Terracciano Scognamiglio (Napoli) avv. Gianfranco Dosi (Roma) avv. Matilde Giammarco (Rieti) avv. Claudia Romanelli (Bari) avv. Emanuela Comand (Udine) avv. Cesare Fossati (Genova) Stampa: EUROLIT S.r.l. 00133 Roma, Via Bitetto 39 - Tel. 06.2015137 ([email protected]) Massimario di diritto di famiglia 2003 - 2009 a cura di Gianfranco Dosi MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Le sentenze più significative sono evidenziate con un retino grigio. 2 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Indice Accordi di separazione e di divorzio 7 Accordi contestuali alla separazione Accordi successivi alla separazione Azione revocatoria Responsabilità Rilevanza Trasferimenti immobiliari Una tantum Accordi tra i coniugi 8 Responsabilità Transazione Violenza Addebito della separazione 9 Affidamento dei figli Condotta successiva alla cessazione della convivenza Motivi Presupposti Adozione di maggiorenni 13 Azione di nullità Figli minori dell’adottante Adozione di minori 14 Adozione in casi particolari Audizione del minore Dichiarazione di adottabilità Presupposti Procedimento di adottabilità Revoca dell’adottabilità Rilevanza dei parenti Affidamento dei figli 19 Affidamento al servizio sociale Affidamento condiviso Affidamento congiunto Affidamento esclusivo Intervento dei nonni Trasferimento all’estero Amministrazione di sostegno 21 Diritto di difesa Nomina Poteri Presupposti Procedimento Assegnazione della casa familiare 26 Azione revocatoria Comodato Diritti dei terzi Diritti e doveri dell’assegnatario Divisione Famiglia di fatto Filiazione naturale Nozione di casa familiare Presupposti Revoca Trascrizione e opponibilità Usufruttuario Assegno a carico dell’eredità 33 Quantificazione Assegno di separazione e di divorzio 33 Accertamenti del giudice Accertamento Accordi tra coniugi Aiuti della famiglia d’origine Assegno a carico del terzo Assegno di separazione Assegno di separazione (presupposti) Assegno divorzile (natura e quantificazione) Assegno divorzile (presupposti) Decorrenza Durata Natura e quantificazione Prescrizione Revoca Rilevanza della convivenza more uxorio Tenore di vita Avvocato 45 Consulenza stragiudiziale Curatore speciale del minore Deontologia Onorari Prestazioni giudiziali Sanzioni disciplinari Tariffe minime Cognome 46 Aspetti processuali Cambiamento Filiazione legittima Filiazione naturale Comunione legale 48 Acquisti esclusi dalla comunione Amministrazione e responsabilità Cessazione Comunione de residuo Diritti di credito Divisione Esclusione del coacquisto Limiti e presupposti Litisconsorzio Natura Responsabilità Riconciliazione Rimborsi e restituzioni Congedi parentali 54 Fratelli Genitori adottivi Handicap Indennità di maternità Licenziamento Padre Diritti della persona 55 Respirazione assistita Tutela del nome Diritto comunitario 55 Diritti di soggiorno Giochi vietati Matrimonio Parità di trattamento Diritto internazionale privato 56 Legge applicabile Riconoscimento automatico gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 3 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Diritto penale della famiglia 57 Abbandono di minore (art. 591 c.p.) Abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.) Alterazione di stato (art. 567 c.p.) Appropriazione indebita (art. 646 c.p.) Atti sessuali (art. 609 c.p.) Atti sessuali con minorenni (art. 609 quater e 609 septies c.p.) Bigamia (art. 556 c.p.) Circonvenzione di incapaci (art. 643 c.p.) Corruzione di minorenne (art. 609 quinquies c.p.) Detenzione di materiale pedopornografico (art. 600 quater c.p.). Favoreggiamento personale (art. 384 c.p.) Furto e non punibilità (624, 625, 649 c.p.) Imputabilità Imputabilità (art. 97 c.p.) Inosservanza dell’obbligo di istruzione (art. 731 c.p.) Maltrattamenti (art. 572 c.p.) Mancata esecuzione dolosa dei provvedimenti del giudice (art. 388 c.p.) Minacce (art. 612 c.p.) Minore non imputabile (art. 97 c.p.) Offese alla religione (art. 403 c.p.) Omicidio volontario (art. 575 c.p.) Reati contro la libertà sessuale (art. 609 septies c.p.) Sottrazione di minori (art. 574 c.p.) Violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) Violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) Violenza sessuale (art. 609 sexies c.p.) Violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies c.p.) Violenza sessuale presunta (art. 609 quater c.p.) Violenza sessuale su minore di dieci anni (art. 609 bis e 609 ter c.p.) Diritto penale minorile 66 Consenso dell’imputato Messa alla prova Misure cautelari Donazione 67 Donazione indiretta Revocazione Equità 68 Ricorso per cassazione Famiglia di fatto 68 Assegnazione della casa familiare Ingiustificato arricchimento Locazione Patrocinio a spese dello Stato Risarcimento del danno biologico Filiazione 69 Dichiarazione giudiziale di paternità naturale Disconoscimento Legittimazione Prova ematologica Responsabilità per il mantenimento (art. 279 c.c.) Riconoscimento di figlio naturale Filiazione naturale 78 Dichiarazione giudiziale di paternità naturale Impugnazione per difetto di veridicità Prova ematologica Fondo patrimoniale 78 Azione revocatoria Esecuzione Opponibilità Scioglimento Impresa familiare 79 Diritto di prelazione Natura 4 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Presupposti Società Utili Mantenimento dei figli 80 Adeguamento automatico Adeguamento in unica soluzione Art. 148 c.c. Ascendenti Assegni familiari Domanda di parte Figli maggiorenni Figli naturali Legittimazione attiva Mantenimento diretto Modalità di assolvimento Motivi di revisione Prescrizione Quantificazione Rapporti tra separazione e divorzio Revisione dell’assegno Ricorso per cassazione Ripetibilità Spese straordinarie Surrogazione dell’ente pubblico Trasferimenti immobiliari Matrimonio 87 Affinità Matrimonio dello straniero Trascrizione Minori 88 Prescrizione Rispetto della vita familiare Modifiche della separazione e del divorzio 88 Assegno di mantenimento Decorrenza della decisione Durata Modifiche concordate Motivi di revisione Presupposti Procedimento Prova Ricorso per cassazione Sopravvenienze Nullità del matrimonio 92 Aspetti processuali Delibazione Effetti patrimoniali Rapporti tra nullità, separazione e divorzio Ordini di protezione 96 Allontanamento del figlio Durata Finalità Presupposti Procedimento Pensione di reversibilità 97 Aspetti processuali Diritti del coniuge divorziato Diritti del coniuge separato Irripetibilità Presupposti e decorrenza Ripartizione tra coniuge superstite ed ex coniuge Potestà genitoriale 101 Atti di ordinaria amministrazione e atti di straordinaria amministrazione Provvedimenti del tribunale per i minorenni Procedimento civile minorile 102 Competenza Formula esecutiva Ricorso per cassazione MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Processo civile 103 Appello e reclamo Prove raccolte in altro giudizio Ricorso per cassazione Rito camerale Procreazione assistita 105 Diagnosi di preimpianto Divieto di congelamento Promessa di matrimonio 106 Restituzione dei doni Risarcimento Regime fiscale della famiglia 106 Presupposti Regolamento europeo sulla famiglia 107 Dichiarazione di esecutività Responsabilità civile 107 Danno biologico Danno non patrimoniale Danno patrimoniale Famiglia e responsabilità civile Natura della responsabilità Perdita di chances Prova del danno Responsabilità dei genitori Responsabilità del notaio Responsabilità medica Violazione del dovere di fedeltà Rettificazione di sesso 115 Autorizzazione Riconciliazione 115 Accertamento Effetti Riconoscimento delle sentenze straniere 116 Intervento del pubblico ministero Presupposti Separazione consensuale 116 Annullamento Azione revocatoria Incapacità Revoca del consenso Ricorso per cassazione Simulazione Separazione dei beni 117 Responsabilità Separazione e divorzio: aspetti processuali 117 Accertamenti di polizia tributaria Appello Audizione del minore Competenza Comportamento anteriore alla separazione Connessione Consulenza tecnica d’ufficio Cumulo di domande Domanda di addebito Domanda riconvenzionale Giurisdizione e legge applicabile Impugnazione Intervento dei nonni Litispendenza Morte di un coniuge Mutamento del titolo Obbligo di contestazione Poteri del giudice Prima udienza Prova Provvedimenti presidenziali Rapporti tra separazione e divorzio Ricorso per cassazione Sentenza non definitiva Sequestro Sospensione del processo Tentativo di conciliazione Tutela cautelare Separazione giudiziale dei beni 126 Rapporti con la separazione coniugale Sottrazione internazionale di minori 127 Audizione dei minori Concetto di residenza Ordine di rimpatrio Presupposti Riconoscimento delle sentenze Stato vegetativo permanente 129 Interruzione delle cure Stranieri 129 Espulsione Ingresso e permanenza Permesso di soggiorno Regolamento di giurisdizione Ricongiungimento Ricorso per cassazione Successioni 131 Accettazione dell’eredità Azione di riduzione Azione surrogatoria Coniuge superstite Divisione Esecutore testamentario Ex coniuge Legittimari Rappresentazione Retratto successorio Simulazione Testamento Trattamento dei dati personali 133 Diritto all’opposizione Trattamento di fine rapporto di lavoro 134 Anticipazioni Diritto dell’ex coniuge Trust 136 Trust interno gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 5 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA 6 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA ACCORDI DI SEPARAZIONE E DI DIVORZIO Accordi contestuali alla separazione Gli accordi tra coniugi in vista della separazione non necessariamente vanno ritenuti condizionati alla omologa della consensuale. Cass. sez. I, 6 febbraio 2009, n. 2997 Qualora una coppia decida di sottoscrivere una scrittura privata per regolare i rapporti economici in caso di futura separazione, l’esecuzione integrale di tale accordo non può essere condizionata alla sola separazione consensuale (nella specie, la Corte ha respinto il ricorso del marito contro la sentenza della Corte di Appello, la quale aveva ritenuto che la scrittura privata non fosse sottoposta alla condizione della separazione consensuale dei coniugi. Lo scopo dell’accordo, infatti, era quello di regolare i rapporti economici più importanti della coppia, prima di rivolgersi al giudice della separazione, eliminando così le controversie su questioni non strettamente attinenti alla fine dell’unione. Ma non solo, l’intento della scrittura privata era anche quello di definire i rapporti economici con i figli maggiorenni che con la separazione non avevano nulla a che vedere. Pertanto, la Corte di merito ha escluso che la separazione consensuale costituisse il presupposto della scrittura privata). Accordi successivi alla separazione Sono ammissibili pattuizioni successive alla separazione anche senza ricorso al tribunale purché rispettino le norme inderogabili. Cass. sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20290 Le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omologazione della separazione, trovando fondamento nell’art. 1322 c.c., devono ritenersi valide ed efficaci, senza altro limite che non sia quello di derogabilità consentito dall’art. 160 c.c.; le pattuizioni, invece, convenute dagli stessi coniugi antecedentemente o contemporaneamente al decreto di omologazione e non trasfuse nell’accordo omologato, sono operanti soltanto se si collocano, rispetto a quest’ultimo, in posizione di non interferenza o in posizione di conclamata e incontestabile maggiore rispondenza all’interesse tutelato attraverso il controllo di cui all’art. 158 c.c. dichiarato fine di dare esecuzione agli obblighi assunti in sede di separazione consensuale omologata. La domanda di revoca del contratto di trasferimento sottopone alla cognizione del giudice anche l’esame degli accordi preliminari stipulati in sede di separazione, che abbiano dato causa al trasferimento, senza necessità che sia proposta specifica impugnazione contro gli stessi, sempre che siano stati dedotti in giudizio i presupposti di diritto e di fatto rilevanti ai fini della decisione. La valutazione relativa alla sussistenza dei requisiti per la revoca ai sensi dell’art. 2901 c.c. va compiuta con riferimento sia ai preliminari accordi di separazione, sia al contratto definitivo di trasferimento immobiliare. È ammissibile l’azione revocatoria nei confronti dei trasferimenti immobiliari oggetto di accordi di separazione consensuale. Cass. sez. I, 12 aprile 2006, n. 8516 L’accordo con il quale i coniugi, nel quadro della complessiva regolamentazione dei loro rapporti in sede di separazione consensuale, stabiliscano il trasferimento di beni immobili o la costituzione di diritti reali minori sui medesimi, rientra nel novero degli atti suscettibili di revocatoria fallimentare (ai sensi degli articoli 67 e 69 della legge fallimentare). Tale azione non trova ostacolo né nell’avvenuta omologazione dell’accordo stesso, cui resta estranea la funzione di tutela dei terzi creditori e che, comunque, lascia inalterata la natura negoziale della pattuizione; né nella pretesa inscindibilità di tale pattuizione dal complesso delle altre condizioni della separazione; né, infine, nella circostanza che il trasferimento immobiliare o la costituzione del diritto reale minore siano stati pattuiti in funzione solutoria dell’obbligo di mantenimento del coniuge economicamente più debole o di contribuzione al mantenimento dei figli, venendo nella specie in contestazione, non già la sussistenza dell’obbligo in sé, di fonte legale, ma le concrete modalità di assolvimento del medesimo, convenzionalmente stabilite dalle parti. Tale conclusione si impone a fortiori allorché il trasferimento immobiliare o la costituzione del diritto reale minore non facciano parte delle originarie condizioni della separazione consensuale omologata, ma formino invece oggetto di un accordo modificativo intervenuto successivamente fra i coniugi, del quale esauriscano i contenuti. Responsabilità Azione revocatoria È ammissibile l’azione revocatoria avverso gli accordi di separazione che operano trasferimenti immobiliari. Cass. Sez. III, 13 maggio 2008, n. 11914 L’accordo con il quale i coniugi, nel quadro della complessiva regolamentazione dei loro rapporti in sede di separazione consensuale, stabiliscano il trasferimento di beni immobili o la costituzione di diritti reali minori sui medesimi, rientra nel novero degli atti suscettibili di revocatoria non trovando tale azione ostacolo né nell’avvenuta omologazione dell’accordo di separazione, che lascia inalterata la natura negoziale della pattuizione; né nell’ipotetica inscindibilità di tale pattuizione dal complesso delle altre condizioni della separazione; né, infine, nella circostanza che il trasferimento immobiliare o la costituzione del diritto reale minore siano stati pattuiti in funzione solutoria dell’obbligo di mantenimento del coniuge o di contribuzione al mantenimento dei figli, venendo nella specie in considerazione non già la sussistenza dell’obbligo in sé, di fonte legale, ma le concrete modalità del suo assolvimento. È suscettibile di revoca ai sensi dell’art. 2901 c.c. il contratto con cui un coniuge trasferisca all’altro un immobile, al Un coniuge risponde delle obbligazioni contratte dall’altro quando l’apparenza induce a ritenere che egli sia stato d’accordo. Cass. sez. III, 6 ottobre 2004, n. 19947 La moglie, di regola, è responsabile in proprio per le obbligazioni da lei contratte nell’interesse della famiglia; il marito, tuttavia, è responsabile delle obbligazioni contratte in suo nome dalla moglie oltre che nei casi in cui egli le abbia conferito, in forma espressa o tacita, una procura a rappresentarlo, tutte le volte in cui sia stata posta in essere una situazione tale da far ritenere, alla stregua del principio dell’apparenza giuridica, che la moglie abbia contratto una determinata obbligazione non già in proprio, ma in nome del marito. (Nella specie, relativa al contratto stipulato dalla resistente con un artigiano per un trasloco, la S.C ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la sussistenza di un obbligo del marito, non essendo emerso né che la moglie avesse assunto l’obbligazione in nome del coniuge, né che la stessa avesse da lui ricevuto mandato, né che sussisteva una situazione di apparenza giuridica che facesse ritenere che ella operasse per conto del marito, né infine che fosse emersa una responsabilità del co- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 7 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA niuge ai sensi degli artt. 143 e 144 cod. civ. per obbligazioni relative all’indirizzo concordato). Rilevanza L’accordo sulla vita familiare nel corso del matrimonio ha rilevanza anche in sede di separazione ma non può averlo più dopo il divorzio. Cass. sez. I, 11 dicembre 2003, n. 18920 Qualora prima della separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione, atteso che la separazione instaura un regime il quale, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio, compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore e il tipo di vita di ciascuno dei coniugi, nel senso esattamente che solo con il divorzio la situazione muta radicalmente, tanto da far residuare tra gli ex coniugi solo un vincolo di solidarietà di tipo preminentemente assistenziale che, in quanto tale, presuppone nell’ex coniuge assistito non solo la mancanza di mezzi economici adeguati, ma anche l’oggettiva impossibilità di procurarseli mettendo altresì a frutto tutte le proprie capacità di lavoro. missibili attribuzioni patrimoniali da un coniuge all’altro, concernenti beni mobili o immobili, non necessariamente legate alla presenza di uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della donazione le quali rispondono piuttosto a un più specifico e più proprio e originario spirito degli accordi di sistemazione dei rapporti tra i coniugi in occasione dell’evento di separazione consensuale. Tali attribuzioni, sfuggendo, in quanto tali, da un lato alle connotazioni classiche dell’atto di donazione vero e proprio (tipicamente estraneo di per sé a un contesto, quello della separazione personale, caratterizzato dalla dissoluzioni delle ragioni della convivenza materiale e morale) e, dall’altro, a quello di un atto di vendita (attesa l’assenza di un prezzo corrisposto), svelano una loro tipicità la quale poi, volta a volta, può colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all’articolo 2901 del codice civile, in funzione dell’eventuale ricorrenza, nel concreto, dei connotati di una sistemazione solutorio-compensativa più ampia e complessiva di tutta quella serie di possibili rapporti, anche del lutto frammentari, aventi significati, o eventualmente, solo riflessi, patrimoniali i quali essendo maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale, per lo più non si rendono perciò sempre immediatamente riconoscibili come tali. Trasferimenti immobiliari Una tantum Gli accordi di trasferimento immobiliare hanno causa atipica. Cass. sez. I, 8 novembre 2006, n. 23801 L’atto con cui un coniuge nel contesto della separazione si obbliga a trasferire all’altro determinati beni non configura una convenzione matrimoniale ai sensi dell’art. 162 c.c. che presuppone lo svolgimento normale della vita coniugale con oggetto una generalità di beni anche di futura acquisizione, né un contratto di donazione avente come causa tipica ed esclusiva uno scopo di liberalità, bensì un contratto atipico con propri presupposti e finalità. Gli accordi di trasferimento immobiliare hanno causa atipica. Tribunale di Salerno, sez. I, 4 luglio 2006 L’atto con cui un coniuge nel contesto della separazione si obbliga a trasferire all’altro determinati beni non configura una convenzione matrimoniale ai sensi dell’art. 162 c.c. che presuppone lo svolgimento normale della vita coniugale con oggetto una generalità di beni anche di futura acquisizione, né un contratto di donazione avente come causa tipica ed esclusiva uno scopo di liberalità, bensì un contratto atipico con propri presupposti e finalità. L’esenzione fiscale prevista per i trasferimenti immobiliari in sede di divorzio si estende anche ai trasferimenti nell’interesse dei figli. Cass. sez. V, 30 maggio 2005 n. 11458 L’esenzione dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa di tutti gli atti, documenti e i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti del matrimonio si estende a tutti gli atti, i documenti e i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi, in modo da garantire l’adempimento delle obbligazioni che i coniugi separati hanno assunto per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, anche con atti i cui effetti siano favorevoli ai figli. L’una tantum è un accordo che ha natura transattiva e aleatoria. Cass. sez. I, 5 settembre 2003, n. 12939 L’articolo 5 della legge 789/1970, nel testo di cui alla legge 74/1987, conferisce ai coniugi la facoltà di sostituire all’assegno periodico di divorzio l’attribuzione di una somma forfetaria, o di un bene, o di altra utilità, definendo in modo definitivo ed esaustivo i rapporti patrimoniali in proposito. A tutela del coniuge economicamente più debole è previsto che l’accordo debba essere delibato dal Tribunale, che ne deve controllare l’equità. Trattasi di un negozio di natura sostanzialmente transattiva e aleatoria, previsto e autorizzato dalla legge che ne subordina l’efficacia all’approvazione da parte del tribunale. Con la conseguenza che, una volta che esso si sia perfezionato e sia stato delibato dal giudice che lo recepisce in sentenza che ne accerta la congruità, diventa definitivamente efficace, conferendo al coniuge beneficiario il diritto all’attribuzione patrimoniale pattuita, sia essa una somma forfetariamente stabilita, ovvero il trasferimento di un diritto reale o di altra utilità. Da tale momento, essendo divenuto efficace il negozio intercorso tra le parti, stante il carattere definitivo dell’attribuzione transattiva, disciplinata dalle norme che regolano i contratti, le vicende personali dei coniugi diventano irrilevanti rispetto a essa, cosicché il mutamento delle rispettive condizioni economiche, la morte, ovvero il passaggio a nuove nozze dell’avente diritto, non influiscono in alcun modo sulla sorte del diritto che ne forma oggetto. ACCORDI TRA I CONIUGI Responsabilità Le attribuzioni tra coniugi in sede di separazione non sono donazioni o atti di compravendita ma hanno natura tipica e contenuto oneroso. Cass. sez. I, 23 marzo 2004, n. 5741 In sede di accordi di separazione consensuale sono am- 8 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Il coniuge che assume un’obbligazione non pone l’altro nella veste di debitore solidale. Cass. sez. III, 15 febbraio 2007, n. 3471 Nella disciplina del diritto di famiglia, introdotta dalla MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA legge 151/1975, l’obbligazione assunta da un coniuge, per soddisfare i bisogni familiari, non pone l’altro coniuge nella veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi. Il suddetto principio opera indipendentemente dal fatto che i coniugi si trovino in regime di comunione dei beni, essendo la circostanza rilevante solo sotto il diverso profilo della invocabilità da parte del creditore della garanzia dei beni della comunione o del coniuge non stipulante, nei casi e nei limiti di cui agli artt. 189 e 190 (nuovo testo) c.c. Nella disciplina del diritto di famiglia, in relazione alle obbligazioni contratte da uno solo dei coniugi nell’interesse della famiglia, il creditore che, ai sensi dell’art. 189 c.c., voglia agire anche nei confronti del coniuge dello stipulante, deve dimostrare non solo che il convenuto è coniuge dello stipulante, ma anche che i beni della comunione non sono sufficienti ad estinguere l’obbligazione e che l’unico debitore principale, il coniuge stipulante, non abbia adempiuto l’obbligazione, assunta esclusivamente a suo carico. In materia di rapporti patrimoniali tra coniugi, il contraente che ha contrattato con uno solo dei coniugi può invocare il principio dell’apparenza del diritto, al fine di sostenere il suo ragionevole affidamento sul fatto che questi agisse anche in nome e per conto dell’altro coniuge solo qualora si verifichino le seguenti condizioni: a) uno stato di fatto non corrispondente allo stato di diritto; b) il ragionevole convincimento del contraente, derivante da errore scusabile, che lo stato di fatto rispecchiasse la realtà giuridica; ne consegue che, per poter invocare il principio dell’apparenza del diritto il terzo deve comunque poter provare la propria buona fede e la ragionevolezza dell’affidamento, non essendo invocabile il principio in questione da chi versi in colpa per aver omesso di accertare, in contrasto con la stessa legge oltre che con le norme di comune prudenza, la realtà delle cose. Transazione È ammissibile la transazione tra coniugi. Cass. sez. I, 9 luglio 2003, n. 10794 E’ ammissibile la transazione tra coniugi che abbia ad oggetto i loro reciproci rapporti patrimoniali, sempre che la transazione stessa non riguardi diritti indisponibili da parte dei contraenti. Violenza La violenza quale causa di invalidità dell’accordo deve essere di tale intensità da incidere sul processo di formazione della volontà. Cass. sez. I, 6 febbraio 2009, n. 3005 In materia di rapporti patrimoniali tra coniugi, la sottoscrizione di una dichiarazione da parte della moglie, predisposta dal marito al fine di perseguire un ingiusto profitto in ordine alla ripartizione delle quote di una porzione immobiliare, non presenta gli estremi della violenza quale causa invalidante l’atto. Il “metus ab intrinseco”, derivante dalla paura ispirata da uno stato di fatto oggettivo, non è causa invalidante della dichiarazione, occorrendo invece, a tal fine, che il timore provenga dall’esterno, ad opera di un soggetto che usi violenza o minaccia, sia esso l’altro coniuge o un terzo, e inoltre che la minaccia del male ingiusto e notevole sia tale da incidere sul processo di formazione della volontà. ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE Affidamento dei figli L’addebito della separazione non contrasta con l’affidamento dei figli al genitore cui la separazione è stata addebitata. Cass. sez. I, 22 dicembre 2004, n. 23786 In tema di separazione personale i provvedimenti di affidamento della prole prescindono dalle responsabilità dell’uno o dell’altro coniuge nell’aver reso intollerabile la prosecuzione della convivenza, dovendo essere adottati con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale dei figli. Ne consegue che la declaratoria di addebito per infedeltà e l’esistenza di un nuovo legame affettivo del genitore affidatario, quand’anche risoltosi, dopo la cessazione della convivenza coniugale, nella coabitazione more uxorio presso la casa familiare, ove non pregiudizievoli per i figli, non possono assumere di per sé soli valenza ostativa al loro affidamento al genitore cui sia stata addebitata la separazione. Condotta successiva alla cessazione della convivenza La condotta successiva alla cessazione della convivenza può avere rilevanza i fini dell’addebito della separazione solo ove serva ad illuminare sulla condotta precedente. Cass. sez. I, 28 maggio 2008, n. 14042 Fermo il principio che la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola inosservanza dei doveri di cui all’articolo 143 c.c., necessitando la prova della sussistenza del nesso causale tra i comportamenti addebitati e la cessazione della convivenza, la condotta contraria ai doveri coniugali, ove successiva al venir meno della convivenza, sia pure immediatamente prossima alla cessazione della stessa, può avere rilevanza ai fini della dichiarazione di addebito solo ove essa costituisca una conferma del passato e concorra ad illuminare sulla condotta pregressa. Motivi Allontanamento da casa. Cass. sez. I, 12 agosto 2009, n. 18235 Non integra causa di addebito della separazione l’allontanamento dalla casa coniugale del coniugi che, andato all’estero per assistere il genitore malato, si allontani dalla casa coniugale, qualora non si dimostri che l’intollerabilità della convivenza fosse antecedente rispetto all’allontanamento e dipendente dalla violazione del dovere di fedeltà da parte dell’altro coniuge. La relazione omosessuale del marito può costituire motivo di addebito della separazione. Cass. sez. I, 25 marzo 2009, n. 7207 La relazione omosessuale del marito costituisce violazione dell’obbligo di fedeltà ai sensi dell’art. 143 c.c. e motivo di addebito a carico del coniuge che vi è incorso. Ai fini dell’addebito la nozione di fedeltà va avvicinata a quella di lealtà rientrandovi anche l’infedeltà affettiva. Cass. sez. I, 11 giugno 2008, n. 15557 La pronuncia di addebito richiede di accertare se uno dei coniugi abbia tenuto un comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio fra i quali è indicato l’obbligo della fedeltà, strettamente connesso a quello della convivenza e da intendere non soltanto come astensione da relazioni sessuali extraconiugali, ma quale impegno, ricadente su ciascun coniugo, di non tradire la fiducia reciproca, ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi, che dura quanto dura il matrimo- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 9 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA nio. La nozione di fedeltà coniugale va avvicinata a quella di lealtà, la quale impone di sacrificare gli interessi e le scelte individuali di ciascun coniuge che si rivelino in conflitto con gli impegni e le prospettive della vita comune. In questo quadro la fedeltà affettiva diventa componente di una fedeltà più ampia che si traduce nella capacità di sacrificare le proprie scelte personali a quelle imposte dal legame di coppia e dal sodalizio che su di esso si fonda. Il giudice non può fondare la pronuncia di addebito sulla mera inosservanza dei doveri di cui all’art. 143 c.c., dovendo, per converso, verificare l’effettiva incidenza delle relative violazioni nel determinarsi della situazione di intollerabilità della convivenza. A tale regola non si sottrae l’infedeltà di un coniuge, la quale pur rappresentando una violazione particolarmente grave, specie se attuata attraverso una stabile relazione extraconiugale, può essere rilevante al fine dell’addebitatilità della separazione soltanto quando sia stata causa o concausa della frattura del rapporto coniugale, e non anche, pertanto, qualora risulti non aver spiegato concreta incidenza negativa sull’unità familiare e sulla prosecuzione della convivenza medesima: come avviene allorquando il giudice accerti la preesistenza di una rottura già irrimediabilmente in atto, perciò autonoma ed indipendente dalla successiva violazione del dovere di fedeltà L’abbandono della casa familiare è causa di addebito se non ha giustificazione nel comportamento dell’altro coniuge. Cass. sez. I, 5 febbraio 2008, n 2740 L’abbandono della casa familiare, ove attuato dal coniuge senza il consenso dell’altro coniuge e confermato dal rifiuto di tornarvi, di per sé costituisce violazione di un obbligo matrimoniale e, conseguentemente, causa di addebito della separazione là dove provoca l’impossibilità della convivenza, mentre non concreta una simile violazione quante volte sia stato cagionato dal comportamento dell’altro coniuge, ovvero quando risulti intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata, e in conseguenza di tale fatto, così da non spiegare rilievo causale ai fini della crisi matrimoniale. Le reiterate violenze fisiche e morali sono causa di addebito senza che il giudice abbia l’obbligo di effettuare comparazioni con il comportamento dell’altro coniuge. Cass. sez. I, 19 maggio 2006, n. 11844 Le reiterate violenze fisiche e morali, inflitte da un coniuge all’altro, costituiscono violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare di per sé sole, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti l’intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore di esse, e da esonerare il giudice del merito, che abbia accertato siffatti comportamenti, dal dovere di comparare con essi, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, il comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, trattandosi di atti che, in ragione della loro estrema gravità, sono comparabili solo con comportamenti omogenei. La violenza è causa di addebito anche se motivata da ritorsione verso il comportamento dell’altro coniuge. Cass. sez. I, 11 marzo 2006 n. 5379 In tema di addebitabilità della separazione personale, ove i fatti accertati a carico di un coniuge costituiscano violazione di norme di condotta imperative e inderogabili, traducendosi nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale dell’altro coniuge, e oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e 10 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 doverosa per la personalità del partner, essi sono insuscettibili di essere giustificati come ritorsione e reazione al comportamento di quest’ultimo, e si sottraggono anche alla comparazione con tale comportamento che non può costituire un mezzo per escludere l’addebitabilità nei confronti del coniuge che quei fatti ha posto in essere. Non può pronunciarsi l’addebito della separazione a carico della moglie che abbia deciso di interrompere il proprio stato di gravidanza. Tribunale di Monza, 26 gennaio 2006 Non può pronunciarsi l’addebito della separazione a carico della moglie che abbia deciso di interrompere il proprio stato di gravidanza senza preventivamente aver reso partecipe il marito-padre della propria decisione. Le violenze coniugali non escludono l’addebito per il fatto che siano una reazione al comportamento dell’altro coniuge. Cass. sez. I, 19 settembre 2005, n. 18475 In tema di addebitabilità della separazione personale, ove i fatti accertati a carico di un coniuge costituiscano violazione di norme di condotta imperative e inderogabili, traducendosi nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale dell’altro coniuge così da oltrepassare quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa per la personalità del partner, essi sono insuscettibili di essere giustificati come ritorsione e reazione al comportamento di quest’ultimo, sottraendosi anche alla comparazione con tale comportamento, la quale non può costituire un mezzo per escludere l’addebitabilità nei confronti del coniuge che quei fatti ha posto in essere. Anche il mancato accordo in materia di educazione dei figli può costituire una violazione delle regole di solidarietà tra coniugi ed essere fonte di addebito. Cass. sez. I, 2 settembre 2005, n. 17710 Costituisce violazione delle regole di solidarietà coniugale indicate nell’art. 143 cod. civ. l’inosservanza del principio fondamentale di concordare l’educazione dei figli richiamato nell’art. 144 cod. civ. Infatti il dovere di entrambi i coniugi di mantenere, istruire ed educare la prole sancito nell’art. 147 cod. civ. non impone obblighi soltanto verso i figli. L’art. 144 stabilisce infatti l’obbligo per i coniugi di concordare tra di loro l’indirizzo della vita familiare. Un atteggiamento unilaterale verso i figli può tradursi in quanto fonte di angoscia e di dolore per l’altro coniuge, nella violazione del dovere di assistenza morale e materiale sancito dall’art. 143 cod. civ. Il rifiuto di intrattenere con il coniuge rapporti sessuali può essere causa di addebito della separazione. Cass. sez. I, 23 marzo 2005, n. 6276 In tema di separazione giudiziale dei coniugi, il volontario rifiuto di un coniuge di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con l’altro, nella specie protrattosi per sette anni, costituisce offesa gravissima alla dignità e alla personalità del partner, cui possono derivare danni irreversibili sul piano dell’ equilibrio psicofisico, e - in quanto configura ed integra violazione del dovere di assistenza morale e materiale - giustifica l’addebito della separazione, senza che sia necessario procedere ad una valutazione comparativa con la condotta dell’altro coniuge. La relazione extraconiugale può essere causa di addebito se porta alla separazione. Cass. sez. I, 1° marzo 2005, n. 4290 In tema di separazione giudiziale dei coniugi, la stabile relazione extraconiugale di un coniuge costituisce viola- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA zione dell’obbligo di fedeltà, con conseguente addebito della separazione al coniuge che ne è responsabile, sempre che sia accertato il nesso causale tra l’adulterio e l’intollerabilità della convivenza (nella specie, la Suprema corte ha ritenuto immune da vizi logico-giuridici la decisione del giudice di merito che ha addebitato la separazione alla moglie, avendo accertato che il fattore causale dissolutivo della convivenza era stato la relazione omosessuale intrattenuta dalla moglie stessa con altra donna). Il mutamento di fede religiosa non può essere di per sé causa di addebito. Cass. sez. I, 6 agosto 2004, n. 15241 Il comportamento di un coniuge consistente nel mutamento di fede religiosa e nella partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, si connette all’esercizio dei diritti garantiti dall’art. 19 cost. e, nonostante la sua inevitabile incidenza sull’armonia di coppia, non può essere considerato come ragione di addebito della separazione, se ed in quanto non superi i limiti di compatibilità con i concorrenti doveri di coniuge e di genitore fissati dagli art. 143 e 147 cod. civ. e non determini quindi, con la violazione di tali doveri (come appunto quello della coabitazione di cui al comma 2 dell’art. 143 cod. civ.), una situazione di intollerabilità della convivenza o di grave pregiudizio per la prole. In sede di valutazione dell’addebito nella separazione atti di violenza non possono mai trovare giustificazione. Cass. sez. I, 5 agosto 2004, n. 15101 In tema di separazione giudiziale dei coniugi, ai fini della pronuncia dell’addebito, pur se l’indagine del giudice di merito sull’intollerabilità della convivenza, provocata dal comportamento trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi, deve essere condotta sulla base della valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, sfuggono tuttavia ad ogni giudizio di comparazione i fatti accertati a carico di un coniuge integranti violazione di norme di condotta imperative e inderogabili, in alcun modo giustificabili come atti di reazione o ritorsione rispetto a comportamenti dell’altro, in quanto si traducano nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale e la dignità dell’altro coniuge, così superando la soglia minima di solidarietà e di rispetto per la personalità del partner. Non è escluso l’addebito dal fatto che le violenze di un coniuge siano ritorsione alle violenze dell’altro coniuge. Cass. sez. I, 5 agosto 2004, n. 15101 In tema di addebitabilità della separazione personale, ove i fatti accertati a carico di un coniuge costituiscano violazione di norme di condotta imperative ed inderogabili - traducendosi nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale dell’altro coniuge - essi sono insuscettibili di essere giustificati come ritorsione e reazione al comportamento di quest’ultimo, e si sottraggono anche alla comparazione con tale comportamento, la quale non può costituire un mezzo per escludere l’addebitabilità nei confronti del coniuge che quei fatti ha posto in essere. La violazione dell’obbligo di fedeltà è causa di addebito se vi è nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale. Cass. sez. I, 12 marzo 2004, n. 5090 La reiterata violazione, in assenza di una consolidata separazione di fatto, dell’obbligo della fedeltà coniugale, soprattutto se attuata attraverso una stabile relazione extraconiugale, rappresenta una violazione particolarmente grave dell’obbligo della fedeltà coniugale, che, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi di regola causa della separazione personale dei coniugi e, quindi, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge che ne è responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, da cui risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. La violazione dell’obbligo di fedeltà è causa di addebito se vi è nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale. Cass. sez. I, 18 settembre 2003, n. 13747 In tema di separazione personale dei coniugi, la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri che l’articolo 143 del Codice civile pone a carico dei coniugi, essendo invece necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale; tuttavia la reiterata violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale, particolarmente se attuata attraverso una stabile relazione extraconiugale, rappresenta una violazione particolarmente grave di tale obbligo, che, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi causa della separazione personale dei coniugi e, quindi, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge che ne è responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale mediante un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, da cui risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. Presupposti L’addebito presuppone una condotta contraria ai doveri nascenti dal matrimoni che determina la intollerabilità della convivenza. Cass. sez. I, 8 giugno 2009, n. 13185 La pronuncia di addebito ai sensi dell’art. 151, comma 2, c.c., presuppone che uno dei coniugi abbia tenuto un comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio e sussista un nesso di causalità tra questo comportamento ed il determinarsi dell’intollerabilità nella prosecuzione della convivenza. L’indagine sul punto, involgendo un apprezzamento di fatto, è riservata alla valutazione del giudice del merito ed è quindi censurabile in sede di legittimità soltanto qualora la motivazione che la sorregge sia inficiata da un vizio che dia luogo ad un’obiettiva deficienza del criterio logico seguito dal giudice nella formazione del suo convincimento, ovvero da una contraddittorietà fra le varie parti della pronuncia, oppure da una totale omissione della motivazione su di un punto decisivo. Non sono, invece, proponibili quelle censure che contengono un’autonoma valutazione dei fatti, sostitutiva rispetto a quella operata dal giudice del merito (in applicazione dei suesposti principi, la Corte ha confermato le decisioni dei giudici del merito, che avevano rigettato le domanda di addebito proposte da entrambi i coniugi fondate esclusivamente sulle querele, peraltro dall’esito ancora incerto, sporte dagli stessi per liti avvenute dopo la comparizione delle parti all’udienza presidenziale). L’addebito presuppone una condotta contraria ai doveri nascenti dal matrimoni che determina la intollerabilità della convivenza. Cass. sez. I, 22 maggio 2009, n. 11922 gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 11 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA La pronuncia di addebito della separazione non può essere basata sulla semplice violazione dei doveri di cui all’art. 143 c.c., essendo viceversa necessario accertare l’eventuale esistenza di un collegamento tra la detta violazione e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza. Da ciò dunque consegue che, pur a fronte della constatata esistenza della violazione degli obblighi in questione, l’addebito della separazione va escluso quando il giudice accerti la preesistenza di una situazione di irrimediabile contrasto fra le parti o nella quale emerga il carattere meramente formale della convivenza, del tutto autonoma dunque rispetto alla successiva violazione e tale pertanto da rimanere insensibile agli effetti da essa altrimenti prodotti. L’addebito presuppone una condotta contraria ai doveri nascenti dal matrimoni che determina la intollerabilità della convivenza. Cass. sez. I, 3 aprile 2009, n. 8124 Ai fini dell’addebitabilità della separazione è necessario accertare se la crisi coniugale sia ricollegabile al comportamento di uno o entrambi i coniugi e se sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il verificarsi dell’intollerabilità della convivenza. Risulta, nella specie, fattore integrante il nesso di casualità, rispetto all’insorgere di detta intollerabilità, il comportamento del coniuge il quale, con atteggiamento dispotico e non rispettoso della dignità della moglie, cerchi di impedire alla stessa di frequentare un corso professionale, rifiutandole ogni finanziamento al riguardo, utilizzando violenza fisica, nonché ostacolando i suoi rapporti con la famiglia di origine. Tali valutazioni, risultano inoltre circostanziate, congrue e specifiche, e considerano il comportamento del marito abituale, per cui ne risulta implicito l’accertamento della predetta causalità. Nel valutare l’addebitabilità della separazione le condotte dei coniugi devono essere comparate tra di loro. Cass. sez. I, 19 marzo 2009, n. 6697 Di fronte ad un comportamento contrario ai doveri del matrimonio da parte di entrambi i coniugi, la condotta dell’uno non può essere giudicata senza un suo raffronto con quella dell’altro, perché solo tale comparazione consente di riscontrare se e quale incidenza le stesse abbiano rivestito, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi coniugale. L’addebito della separazione richiede la prova che l’irreversibilità della crisi coniugale sia ricollegabile al comportamento contrario ai doveri del matrimonio. Cass. sez. I, 23 maggio 2008, n.13431 La dichiarazione di addebito della separazione richiede la prova che l’irreversibilità della crisi coniugale sia ricollegabile al comportamento contrario ai doveri del matrimonio di uno o di entrambi i coniugi, sussistendo un nesso di causalità tra di esso e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza. In particolare la l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà deve ritenersi di regola circostanza sufficiente a determinare l’addebito della separazione a carico del coniuge responsabile, fermo restando che deve sussistere il nesso di causalità tra l’infedeltà e la crisi coniugale, il quale viene meno ove preesista una crisi già irrimediabilmente in atto. L’addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, essendo invece necessario accertare se tale violazione non sia intervenuta quando già si era maturata ed in conseguenza di una situazione d’intollerabilità della convivenza. Cass. sez. I, 23 maggio 2008, n. 13431 12 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 La dichiarazione di addebito della separazione richiede la prova che la irreversibilità della crisi coniugale sia collegabile al comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o di entrambi i coniugi, sussistendo un nesso di causalità fra di esso e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza (Cass. 27 giugno 2006, n. 14840; 11 giugno 2005, n. 12383). Con la conseguenza che la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, essendo invece necessario accertare se tale violazione non sia intervenuta quando già si era maturata ed in conseguenza di una situazione d’intollerabilità della convivenza (Cass. 28 aprile 2006, n. 9877). In particolare, quanto all’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, questa, secondo quanto statuito da questa Corte, rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a determinare l’addebito della separazione a carico del coniuge responsabile, fermo restando che deve sussistere il nesso di causalità fra l’infedeltà e la crisi coniugale, il quale viene meno ove preesista una crisi già irrimediabilmente in atto. Il relativo accertamento, peraltro, attenendo al merito, è incensurabile in questa sede se adeguatamente motivato. Per l’addebito della separazione occorre soltanto che le violazioni dei doveri coniugali abbiano incidenza causale sulla intollerabilità della convivenza. Cass. sez. I, 20 settembre 2007, n. 19450 La valutazione di addebito deve passare attraverso la verifica che i comportamenti, sempre che assunti dal coniuge in piena coscienza e volontà, e contrari ai doveri fondamentali del matrimonio, pur se spiegabili con la storia personale del coniuge stesso, abbiano una incidenza causale diretta nel determinare una condizione di oggettiva intollerabilità della convivenza” (cfr. Cass. 12383.05). La pronuncia di addebito della separazione presuppone la violazione dei doveri coniugali e il nesso causale tra tale violazione e la separazione. Cass. sez. I, 24 ottobre 2005 n. 20536 In tema di separazione personale dei coniugi, la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri che l’articolo 143 del Cc pone a carico dei coniugi, essendo invece necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale. La reiterata violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale, tanto più se attuata attraverso una stabile relazione extraconiugale, rappresenta una violazione particolarmente grave di tale obbligo, che, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, causa della separazione personale dei coniugi e, quindi,circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge che ne è responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale mediante un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, da cui risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. Ai fini dell’addebito della separazione il giudice deve valutare la condotta complessiva del coniuge e non solo singoli episodi di tale condotta. Cass. sez. I, 2 settembre 2005, n. 17710 Per stabilire se la condotta di uno dei coniugi si sia tradotta in fatti di persecuzione fisica e morale nei confronti dell’altro, e sia stata perciò tale da giustificare l’addebito della separazione, il giudice di merito non deve considerare atomisticamente i singoli accadimenti della vita matri- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA moniale, ma deve valutarli complessivamente, nell’arco di tutta la durata della convivenza. L’obbligo di istruire e allevare la prole sussiste non solo nei confronti di quest’ultima, ma anche nei confronti dell’altro coniuge: sicchè la condotta autoritaria e violenta nei confronti dei figli, tale da indurre l’altro coniuge a schierarsi a difesa di questi e rompere così il rapporto unitario che lega genitori e figli, costituisce una violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e può costituire giusta causa di addebito della separazione. La condotta tenuta da uno dei coniugi dopo la separazione e in prossimità di essa, se pure privo di efficacia autonoma nel determinare l’intollerabilità della convivenza, deve comunque essere valutato dal giudice, quale elemento alla luce del quale valutare la condotta pregressa ai fini del giudizio di addebitabilità. L’addebito presuppone la violazione dei doveri matrimoniali e l’efficienza causale di tale violazione nella separazione. Cass. sez. I, 10 marzo 2005, n. 5283 La dichiarazione di addebito della separazione personale dei coniugi presuppone non solo la prova dell’avvenuta violazione dei doveri nascenti dal matrimonio ma anche quella dell’efficienza causale in concreto rivestita da tale violazione nel determinarsi dell’intollerabilità della convivenza coniugale. Il comportamento successivo all’udienza presidenziale non può essere preso in considerazione ai fini dell’addebito. Cass. sez. I, 4 gennaio 2005, n. 116 La separazione (con o senza addebito) può essere chiesta (a norma dell’art. 151 cod. civ.) sulla base di fatti che mostrano l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, tali fatti devono essere relativi alla convivenza, mentre restano irrilevanti quelli eventualmente accaduti dopo il provvedimento del presidente del tribunale che autorizza i coniugi a vivere separatamente, a meno che essi non posseggano autonomo e concreto rilievo causale in ordine alla produzione dell’effetto dell’improseguibilità della convivenza e, quindi, dell’addebito. Ai fini dell’addebito della separazione deve esservi connessione causale tra violazione dei doveri coniugali e intollerabilità della convivenza. Cass. sez. I, 26 maggio 2004, 10273 In tema di separazione personale dei coniugi, la sola relazione adulterina, nota e sopportata dall’altro coniuge, non è necessariamente causa di addebito qualora, una volta cessata, sia stata superata dalle parti; analoga considerazione non può invece essere fatta nell’ipotesi di una relazione adulterina, duratura nel tempo, che, se inizialmente sopportata, può essere causa del fallimento del matrimonio a causa del suo protrarsi, posto che nessun coniuge è tenuto a sopportare per un tempo indefinito una situazione che necessariamente incide sul rapporto di fiducia, che deve sussistere all’interno della coppia. La pronuncia di addebito presuppone un nesso causale tra la condotta e l’intollerabilità della convivenza. Cass. sez. I, 27 novembre 2003, n. 18132 La violazione, da parte di uno dei coniugi, del dovere di fedeltà - unita all’assenza di interesse sessuale nei confronti dell’altro coniuge - non legittima di per sé, automaticamente, la pronuncia di separazione con addebito della stessa al coniuge - infedele, dovendo, invece, il giudice accertare l’esistenza di un nesso causale tra quella condotta, costituente violazione dei doveri coniugali, e la rottura dell’armonia coniugale, così rendendo intollerabile la prosecuzione della convivenza. E’ irrilevante, in un tale contesto, al fine di ritenere la responsabilità del coniuge che è venu- to meno ai suoi doveri, che l’altro, nonostante i continui tradimenti lo continui ad amare e a essergli affezionato. La mera violazione dei doveri coniugali non è causa di addebito. Cass. Sez. I, 25 marzo 2003, n. 4367 In tema di separazione personale dei coniugi, la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri che l’articolo 143 del Codice civile pone a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale. L’accertamento dell’efficacia causale delle violazioni dei doveri coniugali sul fallimento della convivenza coniugale postula una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, ben potendo la prova di determinati comportamenti di un coniuge influire sulla valutazione dell’efficacia causale dei comportamenti dell’altro. La pronuncia di addebito presuppone un nesso causale tra la condotta e l’intollerabilità della convivenza. Cass. Sez. I, 6 febbraio 2003, n. 1744 Il trasferimento del domicilio del coniuge non comporta l’addebito della separazione qualora la violazione del dovere di fissare concordemente la residenza familiare anziché essere la causa del disintegrarsi del consorzio familiare ne sia uno degli effetti. ADOZIONE DI MAGGIORENNI Azione di nullità I vizi del procedimento di adozione costituiscono motivi di impugnazione della sentenza contro la quale, quindi, non è ammissibile un’autonoma azione di nullità. Cass. sez. I, 16 luglio 2004, n. 13171 Il decreto di adozione di soggetti di età maggiore ha la natura di provvedimento decisorio e definitivo. Ne deriva, pertanto, che allo stesso è applicabile il principio generale secondo cui sia i vizi processuali che quelli sostanziali di tale provvedimento si convertono in motivi di impugnazione. In particolare i vizi che affliggono la pronuncia giudiziale sia che investano direttamente la pronuncia stessa, sia che attengano all’attività processuale svolta, determinando a loro volta la nullità del provvedimento, possono essere fatti valere solo con il mezzo di impugnazione previsto dall’ordinamento e l’eventuale decadenza dal rimedio impugnatorio comporta che essi non possano più essere dedotti, secondo il disposto dell’articolo 161, comma 1 del codice di procedura civile. Deve escludersi, altresì, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 184 del 1983 (con l’abrogazione dei commi 2 e 3 dell’articolo 293 del codice civile), che sia esperibile, avverso il decreto di adozione di persone di età maggiori, un’autonoma azione di nullità. Figli minori dell’adottante Non è ostativa all’adozione del figlio naturale maggiorenne del proprio coniuge la presenza di figli legittimi minorenni dell’adottante nello stesso nucleo familiare. Cass. sez. I, 3 febbraio 2006, n. 2246 In tema di adozione di persone di maggiore età, la presenza di figli minori (legittimi, legittimati o naturali) dell’adottante, come tali incapaci, per ragioni di età, di esprime- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 13 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA re un valido consenso, costituisce di norma, ai sensi dell’articolo 291 Cc, un impedimento alla richiesta di adozione. Ove, tuttavia, l’adozione di maggiorenne riguardi un soggetto, il figlio del coniuge, che già appartenga, insieme al proprio genitore naturale e ai fratelli, minorenni, ex uno latere, al contesto affettivo della famiglia di accoglienza dell’adottante, la presenza dei figli minori dell’adottante non preclude in assoluto l’adozione, fermo restando il potere dovere del giudice del merito di procedere alla audizione personale di costoro, ne aventi capacità di discernimento, e del loro curatore speciale, ai fini della formulazione del complessivo giudizio di convenienza nell’interesse dell’adottando, richiesto dall’articolo 312, primo comma, numero 2), Cc, giacchè tale convenienza in tanto sussiste in quanto l’interesse dell’adottando trovi una effettiva e reale rispondenza eventualmente da apprezzare all’esito dell’acquisizione anche delle opportune informazioni nella comunione di intenti di tutti i membri della famiglia, compresi i figli dell’adottante. È preclusa l’adozione di maggiorenni a chi ha figli naturali minorenni. Corte cost. 20 luglio 2004, n. 245 E’ illegittimo l’art. 291 del codice civile nella parte in cui non prevede che l’adozione di maggiorenni non possa essere pronunciata in presenza di figli naturali, riconosciuti dall’adottante, minorenni o, se maggiorenni, non consenzienti. Non è permessa l’adozione di un maggiorenne ha chi ha figli minori. Corte cost. 23 maggio 2003, n. 170 E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 291 del codice civile, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che possa aversi adozione di maggiorenne da parte di soggetto che abbia discendenti legittimi o legittimati di età minore. Infatti come più volte affermato da questa Corte, l’adozione di persone maggiori di età, è caratterizzata, diversamente dall’adozione dei minorenni, dall’originaria finalità di “procurare un figlio a chi non lo ha avuto da natura mediante il matrimonio (adoptio in hereditatem)”. ADOZIONE DI MINORI Adozione in casi particolari Il figlio di un coniuge deceduto non può essere adottato dal coniuge sopravvissuto. Corte costituzionale, 20 luglio 2007, n. 315 E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 44, comma 1, lettera b), della legge 4 maggio 1983 n. 184, sollevata in riferimento all’articolo 3 della costituzione, nella parte in cui non consente al coniuge sopravvissuto, in caso di morte dell’altro coniuge, genitore del minore che s’intende adottare, richiedere l’adozione del medesimo. L’adozione del figlio del proprio coniuge non può mai avvenire se c’è il dissenso del genitore che ne esercita la potestà. Corte costituzionale, 20 luglio 2007, n. 315 E’ inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2 e 31 della Costituzione, nella parte in cui esclude che il tribunale possa superare il diniego di assen- 14 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 so del genitore del minore adottando, che ne eserciti la piena potestà, quand’anche detto diniego sia contrario al primario interesse del minore. Audizione del minore Nel processo di adottabilità di due minori di 5 e 8 anni l’audizione del minore può essere esclusa se motivata. Cass. sez. I, 22 maggio 2009, n. 11910 L’art. 10, comma 5 l. n. 184 del 1983, non impone incondizionatamente l’audizione diretta del minore, ma dispone che deve essere sentito il minore che ha compiuto gli anni dodici, e anche il minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento. La disciplina vigente, non si sottrae agli obblighi internazionali assunti dall’Italia (si veda art. 12 convenzione di New York sui diritti del fanciullo, del 20 novembre 1989; art. 6 convenzione europea di Strasburgo, sull’esercizio dei diritti dei bambini, del 25 gennaio 1996). Dichiarazione di adottabilità L’adozione è da considerarsi una extrema ratio. Cass. sez. I, 21 novembre 2009, n. 24589 L’istituto dell’adozione è da considerarsi una extrema ratio cui ricorrere solo allorché il minore risulti privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi e di conseguenza esposto a gravi pericoli per la sua salute fisica e psichica (nella specie, la Corte ha confermato lo stato di adottabilità di quattro minori, in ragione del grave stato di abbondono in cui versavano). Non costituisce causa ostativa alla adottabilità la semplice dichiarazione dei genitori di volersi occupare del figlio. Cass. Sez. I, 17 luglio 2009, n. 16795 La mera espressione della volontà dei genitori di occuparsi del figlio minore, così come una speranza di recupero delle loro capacità genitoriali, non può ritenersi idonea al superamento dello stato di abbandono del minore (Cassa con rinvio, App. Ancona). Non costituisce causa ostativa alla adottabilità la semplice dichiarazione dei genitori di volersi occupare del figlio. Cass. Sez. I, 17 luglio 2009, n. 16796 In tema di dichiarazione dello stato di adottabilità, ai fini dell’accertamento della situazione di abbandono, la mera disponibilità (nella specie, manifestata in corso di causa) da uno dei parenti entro il quarto grado (nella specie, una zia paterna) ad occuparsi del minore, non è sufficiente, di per sé, ad escludere detta situazione, dovendo la stessa essere suffragata da rapporti significativi pregressi (Cassa con rinvio, App. Catania). L’adozione costituisce un estremo rimedio alla condizione di abbandono. Cass. sez. I, 2 aprile 2009, n. 6921 Interesse del minore, in base alla disciplina di cui agli artt. 1 e 8, della legge n. 184 del 1983, ed in conformità con i principi posti dall’art. 30 Cost., è avere garantita un’assistenza morale e materiale nell’ambito della propria famiglia, costituendo l’adozione estremo rimedio in presenza di un’accertata ed irreparabile situazione di abbandono. L’adozione costituisce l’estrema soluzione dell’abbandono. Cass. sez. I, 28 aprile 2008, n. 10809 La dichiarazione di adottabilità di un minore trova giustificazione solo in presenza di carenza e di cure materiali e affettive di tale rilevanza da integrare di per sé una situa- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA zione di pregiudizio per il minore tale da pregiudicare in modo grave e non transeunte il suo sviluppo psicofisico. Per questo lo stato di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità, con il conseguente sacrificio del diritto a vivere e crescere nell’ambito della propria famiglia di origine, è ravvisabile solo ove si verifichi una carenza di quel minimo di cure materiali, calore affettivo, aiuto psicologico, indispensabile per lo sviluppo e la formazione della personalità del minore non dovuto a forza maggiore, intesa quest’ultima come causa non contingente estranea alla condotta dei genitori. I servizi sociali devono affiancarsi e sostenere la famiglia d’origine ma non sono chiamati a sostituirsi completamente ad essa. Cass. sez. I, 28 giugno 2006, n. 15011 I doverosi interventi di sostegno dei servizi sociali sono destinati ad integrare e sostenere la famiglia d’origine; non a sostituirsi completamente ad essa. Pertanto la dichiarazione dello stato di adottabilità è inevitabile quando risulta che la famiglia biologica è assolutamente incapace ad assolvere, ancorché adeguatamente coadiuvata e affiancata, le sue funzioni e che da queste carenze, non transeunti, potrebbero derivare danni molto gravi ed irreversibili all’equilibrata e sana crescita psicofisica del minore. L’adottabilità di un minore si giustifica solo in una situazione di carenza di cure materiali e morali da parte dei genitori e degli stretti congiunti tale da pregiudicare in modo grave e non transeunte lo sviluppo e l’equilibrio psicofisico del minore stesso. Cass. sez. I, 14 aprile 2006, n. 8877 In tema di dichiarazione dello stato di adottabilità dei minori di età che si trovano in stato di abbandono l’articolo 1 della legge 184/1983 attribuisce carattere prioritario all’esigenza del minore di crescere nella famiglia di origine. Un’esigenza della quale è consentito il sacrificio solo in presenza di una situazione di carenza di cure materiali e morali, da parte dei genitori e degli stretti congiunti tale da pregiudicare in modo grave e non transeunte lo sviluppo e l’equilibrio psicofisico del minore stesso. La valorizzazione del legame naturale rende, infatti, necessario un particolare rigore nella valutazione della situazione di abbandono del minore quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità dello stesso, finalizzata esclusivamente all’obiettivo della tutela dei suoi interessi. In particolare, siffatta valutazione non può discendere da un mero apprezzamento circa l’inidoneità dei genitori (o congiunti) del minore cui non si accompagni l’ulteriore, positivo accertamento che tale inidoneità abbia provocato, o possa provocare, danni gravi e irreversibili all’equilibrata crescita dell’interessato, dovendo, invece, la valutazione di cui si tratta necessariamente basarsi su di una reale, obiettiva situazione esistente in atto, nella quale soltanto vanno individuate, e rigorosamente accertate e provate, le gravi ragioni che, impedendo al nucleo familiare di origine di garantire una normale crescita, e adeguati riferimenti educativi, al minore, ne giustifichino la sottrazione allo stesso nucleo. Ne consegue che è legittima la decisione della Corte d’appello di affidare una bambina alla comunità di recupero per tossicodipendenti presso la quale è ospitato il padre, affidamento finalizzato al compimento delle verifiche ritenute necessarie ai fini del graduale ricongiungimento con il genitore stesso. Lo stato di adottabilità costituisce per un minore una situazione eccezionale il cui accertamento deve svolgersi in modo molto rigoroso. Cass. sez. I, 12 aprile 2006, n. 8527 Perché si realizzi lo stato di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità di un minore devono risultare, all’esito di un rigoroso accertamento, carenza materiali e affettive di tale rilevanza da integrare, di per sé, una situazione di pregiudizio per il minore, tenuto anche conto della esigenza primaria che questi cresca nella famiglia di origine, esigenza che non può essere sacrificata per la semplice inadeguatezza della assistenza o degli atteggiamenti psicologici e/o educativi dei genitori. L’adozione va sempre considerata una soluzione estrema. Cass. sez. I, 14 maggio 2005, n. 10126 L’articolo 1 della legge 184/83, attribuisce carattere prioritario alla esigenza del minore di vivere nella famiglia di origine, esigenza ribadita con forza ancor maggiore attraverso le successive modifiche apportate alla predetta norma. Ed infatti, mentre il testo originario dell’articolo 1, con il quale si apriva il titolo I, “Dell’ affidamento dei minori”, della citata legge 184/83, si limitava ad affermare il diritto del minore “di essere educato nell’ambito della propria famiglia”, la riformulazione della stessa disposizione ne ha arricchito il testo, introducendo, tra i “Principi generali” così mutata la rubrica del titolo 1 della legge 184/83 per effetto della legge 149/01 - anche quello relativo al “diritto di crescere” nella famiglia naturale, nonché quello, enunciato nel comma 2 dell’articolo 1, aggiunto dalla stessa legge 149, secondo il quale “mai la condizione di indigenza dei genitori naturali può portare alla dichiarazione di adottabilità del minore”, essendo affidato alle organizzazioni statali competenti, ed in particolare dei servizi sociali, in caso di difficoltà della famiglia d’origine, il compito di rimuovere le cause che possono precludere una crescita serena. Una esigenza, quella appena evidenziata, della quale è consentito il sacrificio solo in presenza di una situazione di carenza di cure materiali e morali, da parte dei genitori e degli stretti congiunti - ed a prescindere dalla imputabilità a costoro di detta situazione tale da pregiudicare in modo grave e non transeunte lo sviluppo e l’equilibrio psico - fisico del minore stesso. La dichiarazione di adottabilità non presuppone la colpa del genitore. Cass. sez. I, 18 febbraio 2005, n. 3389 Lo stato di adottabilità del minore può essere dichiarato anche quando non sia imputabile al genitore a titolo di colpa, ma sia determinato da una malattia mentale non transitoria che lo renda inidoneo ad assumere e a conservare piena consapevolezza delle proprie responsabilità verso il figlio, nonché ad agire in modo coerente per curarne al meglio lo sviluppo fisico, psichico ed affettivo. La dichiarazione di adottabilità non presuppone la colpa del genitore. Cass. sez. I, 1° febbraio 2005, n. 1996 Lo stato di adottabilità del minore può essere dichiarato anche quando non sia imputabile al genitore a titolo di colpa, qualora l’entità delle cure morali e materiali che sia in grado di prestare la nonna materna, cui i nipoti sono stati affidati dalla madre, da tempo sofferente di gravi disturbi psichici irreversibili, scende - , per cause non temporanee e non emendabili e a prescindere dalla loro imputabilità - al di sotto della soglia minima indispensabile per non compromettere in modo grave e permanente lo sviluppo psicofisico del minore. La differenza tra la dichiarazione di adottabilità e la decadenza della potestà sta solo nella gravità del comportamento presupposto che nel primo caso è inemendabile e nel secondo emendabile. Cass. sez. I, 5 gennaio 2005, n. 212 gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 15 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA La dichiarazione di adottabilità - rimedio estremo alla situazione di abbandono del minorenne, non espediente finalizzato ad assicurargli condizioni di vita teoricamente migliori in un nucleo familiare diverso da quello di origine consegue all’accertata carenza di una misura di assistenza materiale e morale ritenuta indispensabile per lo sviluppo armonioso della personalità del minore. Tale difetto di assistenza materiale e morale postula la dichiarazione di adottabilità nell’interesse del minorenne: dichiarazione che, implicando la rescissione di ogni legame coi genitori biologici, rappresenta una conseguenza certamente più radicale rispetto alla perdita della potestà, ma non si fonda su presupposti logicamente contrastanti o diversi da quelli che giustificano l’ablazione o la limitazione di questa, distinguendosene solo per la maggior gravità ed inemendabilità, per cui risultano ostativi allo sviluppo armonico della personalità del figlio. Sul piano concreto, la valutazione dei suddetti caratteri di gravità e inemendabilità della carenza di cure, tale da configurare lo stato di abbandono, ed il giudizio sulla non transitorietà della causa di forza maggiore, costituiscono accertamenti riservati al giudice di merito. Per dichiarare lo stato di adottabilità occorre che il minore si trovi in una situazione di danno reale o potenziale. Cass. sez. I, 14 novembre 2003, n. 17198 Sussiste stato di abbandono non solo nell’ipotesi in cui la famiglia naturale non voglia o non possa occuparsi del minore, ma anche ogniqualvolta il minore, nell’ambito della famiglia naturale non possa ricevere quel minimo di cure morali e materiali necessarie per il suo sviluppo armonico e sereno, sicché l’adozione non può essere disposta quando, nonostante la famiglia d’origine sia problematica, tuttavia il minore non corra il rischio di danno morale o materiale. Deriva, da quanto precede, pertanto, che il discrimine tra il mantenimento dei rapporti con la famiglia naturale e l’interruzione di tali rapporti, con conseguente necessità di procedere all’adozione del minore, è dato dal danno reale o potenziale che lo stesso subisca, o possa subire continuando a vivere nella famiglia di origine. La situazione di abbandono sussiste anche se la deprivazione morale e materiale non è il frutto di una specifica volontà diretta ad abbandonare il figlio. Cass. Sez. I, 23 maggio 2003, n. 8198 Il diritto del minore a essere educato nell’ambito della propria famiglia (di cui all’articolo 1 della legge n. 184 del 1983) è soggetto al limite stabilito dall’articolo 8 della stessa legge nell’interesse del minore medesimo, del verificarsi della situazione di abbandono la quale sussiste allorché il minore sia privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi, anche se tale deprivazione obiettiva non sia il frutto di una specifica volontà di questi, diretta al fine di abbandonare il figlio. Per potersi, comunque, legittimamente ritenere la sussistenza dello stato di abbandono e dichiarare conseguentemente l’adottabilità occorre che all’esito di un rigoroso accertamento risultino non già la semplice inadeguatezza dei genitori e degli altri parenti, tale da non impedire una residuale possibilità di equilibrato e sano sviluppo psicofisico del minore, bensì carenze materiali, educative e affettive integranti una situazione di pregiudizio grave e irreversibile, di tale rilevanza da inibire del tutto lo sviluppo del minore. Presupposti L’adozione legittimante non è incompatibile con il fatto che sia noto alla famiglia di origine il luogo in cui si trova il minore. Tribunale per i minorenni di Milano, 15 novembre 2004 16 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Se è vero che i rapporti tra l’adottato e la sua famiglia di origine cessano, di regola (oltre che di diritto), anche di fatto quando questo è possibile, come effetto dell’adozione, non per questo deve escludersi la dichiarazione di adozione, laddove sia noto alla famiglia di origine il luogo in cui si trova il minore adottando, qualora l’adozione stessa risponda al suo superiore interesse. Procedimento di adottabilità La mancanza di assistenza tecnica determina la inutilizzabilità della CTU. Cass. sez. I, 25 settembre 2009, n. 20625 La nuova disciplina del procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità di un minore, è caratterizzato dall’assistenza legale dei genitori (o, in mancanza, dei parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore) e del minore. In mancanza di tale assistenza la consulenza tecnica esperita è inutilizzabile e il giudice è tenuto a disporne una nuova. La sospensione del procedimento in caso di genitore infrasedicenne che non può riconoscere il figlio può essere disposta solo se la situazione familiare consente una assistenza adeguata del minore. Cass. sez. I, 17 giugno 2009, n. 14094 In tema di adozione e dichiarazione dello stato di adottabilità, la sospensione prevista dall’art. 11 l. n. 184/83 può essere disposta dal tribunale per i minorenni sino al compimento dei sedici anni di età del genitore naturale, purché nel frattempo il minore sia assistito dal genitore naturale o dai parenti fino al quarto grado o in altro modo conveniente, permanendo comunque un rapporto con il genitore naturale (nella specie, la Corte ha confermato la decisione del giudice d’appello che aveva escluso la sospensione del procedimento di adottabilità perché la situazione famigliare del genitore infrasedicenne era tale da non offrire garanzie sufficienti per la tutela della bambina). Costituisce causa di nullità del procedimento di adottabilità la mancata nomina al minore di un curatore speciale. Cass. sez. I, 8 maggio 2009, n. 10594 Nei giudizi dichiarativi dello stato di adottabilità la mancata nomina di un curatore speciale che rappresenti il minore sin dal loro inizio, ne provoca la nullità assoluta, insanabile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Costituisce causa di nullità del procedimento di adottabilità la mancata nomina al minore di un curatore speciale. Cass. sez. I, 4 maggio 2009, n. 10228 In materia di adozione ed anche con riferimento all’assetto normativo previgente alle modifiche di carattere processuale apportate alla legge 4 maggio 1983, n. 184 dalla legge 28 marzo 2001, n. 149 (la cui efficacia è rimasta sospesa, in forza della disposizione transitoria di cui all’art.1 del d.l. 24 aprile 2001, n. 150, e successive proroghe, fino al 30 giugno 2007), il procedimento diretto alla dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore postula - ai sensi dell’art. 17, secondo comma, della legge n. 184 cit., dell’art. 75, secondo comma e 78, secondo comma, cod. proc. civ., dei principi costituzionali di protezione dell’infanzia, del giusto processo e di diritto di difesa, nonché dei principi consacrati nella Convenzione dei diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176 e nella Convenzione europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 2 marzo 2003, n. 77 -, la nomina di un curatore speciale, affinchè l’interessato sia autonomamente MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA rappresentato in giudizio e tutelato nei suoi preminenti interessi e diritti; in mancanza, il procedimento è affetto da nullità assoluta, insanabile e rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, in quanto conseguente al vizio di costituzione del rapporto processuale e alla violazione del principio del contraddittorio. Solo le sentenze della Corte d’appello in materia di adottabilità pronunciate dopo il 30 giugno 2007 sono ricorribili per cassazione per tutti i motivi di cui all’art. 360 c.p.c. Cass. sez. I, 4 aprile 2008, n. 8714 Avverso le sentenze sullo stato di adottabilità pronunciate dalla sezione per i minorenni della Corte d’appello fino alla data del 30 giugno 2007, il ricorso per cassazione continua ad essere ammesso esclusivamente per violazione di legge, secondo la disciplina contenuta nel testo originario dell’art. 17 della legge 184/83, giacché l’entrata in vigore della nuova normativa processuale (art. 16 della legge 149/01, sostitutivo del richiamato art. 17) - la quale ha esteso l’ambito dei motivi di ricorso per cassazione avverso le dette sentenze, comprendendovi anche il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, numero 5), c.p.c. - è rimasta sospesa fino alla predetta data in forza della disposizione transitoria di cui all’art. 1 del Dl 150/01 {convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2001, n. 240/01), il cui termine di efficacia, dapprima fissato al 30 giugno 2002, è stato ripetutamente prorogato, e da ultimo fino, appunto, al 30 giugno 2007, in forza dell’art. 1, comma 2, della legge 12 luglio 2006, n. 228, di conversione del decreto-legge 12 maggio 2006, n. 173. Ammissibilità del ricorso per cassazione avverso le decisioni della Corte d’appello in tema di adottabilità di minorenni. Cass. sez. I, 28 giugno 2006, n. 15011 Il ricorso per cassazione avverso le decisioni della corte d’appello in tema di adottabilità di minorenni è ammissibile soltanto per violazione di legge, con la conseguenza che del vizio di motivazione del provvedimento impugnato la Corte di cassazione può conoscere soltanto nei limiti in cui esso si traduca in una violazione di legge: e cioè quando la motivazione è totalmente pretermessa o mancante, ovvero si estrinseca in argomentazioni del tutto inidonee a rivelare la ratio decidendi del provvedimento impugnato (motivazione apparente) o fra loro logicamente inconciliabili o, comunque, obiettivamente incomprensibili (motivazione perplessa). Nel procedimento di opposizione all’adottabilità non c’è l’obbligo di ascoltare gli affidatari provvisori. Cass. sez. I, 24 aprile 2006, n. 9523 Ai sensi del testo originario dell’art. 17 l. 4 maggio 1983 n. 184, nel giudizio di appello conseguente all’impugnazione della sentenza resa dal tribunale per i minorenni sull’opposizione avverso il decreto di adottabilità, non vi è l’obbligo per il giudice di sentire gli affidatari provvisori del minore. In materia di adottabilità il ricorso per cassazione è ammissibile solo per violazione di legge. Il ricorso per cassazione è ammissibile solo per violazione di legge nella disciplina precedente all’entrata in vigore della legge 149/2001. Cass. sez. I, 12 aprile 2006, n. 8527 In tema di dichiarazione dello stato di adottabilità del minore in stato di abbandono il ricorso per cassazione, avverso la sentenza della Corte d’appello - ai sensi dell’articolo 17 della legge n. 184 del 1983 - è consentito solo per violazione di legge e non anche per vizi della motivazione. La disciplina, infatti, sebbene novellata dall’articolo 16, comma 2, della legge n. 149 del 2001, che ammette il ricor- so per motivi diversi dalla violazione di legge, è ancora in vigore nel testo originario, perché l’operatività della legge modificatrice è rimasta sospesa, limitatamente alle disposizioni di carattere processuale, in forza di vari provvedimenti succedutisi nel tempo (ultimo, in ordine di tempo, l’articolo 8, del decreto legge 30 giugno 2005, n. 115, convertito dalla legge 17 agosto 2005, n. 168) fino al 30 giugno 2006. Non è ammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso i provvedimenti provvisori adottati nel corso del procedimento di adozione. Cass. sez. I, 24 marzo 2006, n. 6696 I provvedimenti temporanei nell’interesse del minore, tra cui quelli di collocamento presso una famiglia o una comunità di tipo familiare, emessi, ai sensi dell’art. 10, comma 2, l. 4 maggio 1983 n. 184, nel corso del procedimento di adozione, assolvono ad una funzione meramente cautelare e provvisoria, essendo destinati a perdere efficacia con la conclusione di detto procedimento, e restando comunque revocabili e modificabili nel corso di esso. Pertanto, avverso tali provvedimenti, seppure resi dalla corte d’appello in sede di reclamo avverso decreti del tribunale, deve escludersi l’esperibilità del ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 cost. L’affidatario di un minore non ha legittimazione a proporre opposizione alla dichiarazione di adottabilità ma può spiegare nel processo solo intervento adesivo. Cass. sez. I, 4 novembre 2005, n. 21395 L’affidatario di un minore - nella specie in base all’istituto della kafala previsto nella legge marocchina - non ha legittimazione a proporre opposizione alla dichiarazione dello stato di adottabilità di cui all’art. 17 della legge 4 maggio 1983, n. 184, riservata al tutore del minore ovvero a chi si trovi in una posizione ad essa equiparabile. Tale affidatario, in quanto titolare di un potere di custodia del minore è da ritenere legittimato a spiegare intervento solo adesivo dipendente (e, quinid, non perla prima volta in appello) in quanto portatore non di un proprio diritto in conflitto con l’oggetto del giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità ma di un mero interesse a non vedere pregiudicata la propria aspettativa all’adozione, onde, qualora intervenuto non può impugnare in via autonoma e principale, ma solo in via incidentale adesiva, rispetto all’impugnazione eventualmente proposta dalla parte adiuvata. L’affidatario in base ad un provvedimento di kafalah prevista nella legge marocchina non può presentare opposizione all’adottabilità. Cass. sez. I, 4 novembre 2005, n. 21395 L’istituto della kafalah previsto dalla legge marocchina, quale strumento di protezione dell’infanzia e, come tale, riconosciuto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989, non attribuisce all’affidatario, dal punto di vista giuridico-formale, né la tutela né la rappresentanza legale del minore, bensì un potere-dovere di custodia, a tempo sostanzialmente indeterminato, con i contenuti educativi di un vero e proprio affidamento preadottivo. In capo a detto affidatario non sussiste pertanto la legittimazione a proporre l’opposizione alla dichiarazione dello stato di adottabilità, di cui all’articolo 17 della legge 4 maggio 1983 n. 184, riservata al tutore del minore ovvero a chi si trovi in una posizione a esso equiparabile. Tale affidatario, in quanto titolare di un potere di custodia assimilabile come concetto giuridico a quello di affidamento, è da ritenere, al pari degli affidatari (ancorché in preadozione) del minore stesso riconosciuti dal diritto interno, legittimato a gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 17 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA spiegare intervento solo adesivo dipendente (e, quindi, non per la prima volta in appello), in quanto portatore non di un proprio diritto in conflitto con l’oggetto del giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità, ma di un mero interesse a non vedere pregiudicata la propria aspettativa all’adozione, onde, qualora esso sia intervenuto, non può impugnare in via autonoma e principale, ma solo in via incidentale adesiva, rispetto all’impugnazione eventualmente proposta dalla parte adiuvata. La mancata audizione di una delle parti in appello non è causa di nullità del procedimento di adottabilità. Cass. sez. I, 18 giugno 2005, n. 13173 In tema di opposizione alla dichiarazione dello stato di adottabilità la violazione, in grado di appello, del precetto di cui all’articolo 17 della legge n. 184 del 1983 nella parte in cui prevede l’audizione delle parti e, in particolare, dell’appellante (nella specie: per non essere stata disposta la traduzione dal carcere del padre del minore, per partecipare alla discussione) non è sanzionata espressamente con la nullità del procedimento e della sentenza. (Nella specie, comunque, il genitore era stato già sentito in primo grado e non aveva indicato, nel ricorso, quali ragioni “difensive” personali, non enunciabili quindi dal difensore e di carattere decisivo, che i giudici di appello non hanno potuto ascoltare o, più semplicemente, i mezzi di prova o gli accertamenti istruttori che il ricorrente non sentito in appello avrebbe potuto rispettivamente far rilevare e/o richiedere in sede di comparizione). Gli affini non sono legittimati a proporre opposizione alla dichiarazione di adottabilità. Corte di appello di Potenza, Sezione per i minorenni, 9 giugno 2005 Gli affini di qualunque grado non sono legittimati a proporre opposizione al provvedimento che dichiara lo stato di adottabilità, in quanto la legge riserva inequivocabilmente tale legittimazione ai soli parenti entro il quarto grado. Il termine di trenta giorni per il ricorso per cassazione in materia di adottabilità anziché di sessanta non comporta alcuna violazione del diritto di difesa. Cass. sez. unite, 5 aprile 2005, n. 6985 Il termine dimidiato di trenta giorni previsto dall’art. 17, comma ult., l. 4 maggio 1983 n. 184 per la proposizione del ricorso per cassazione contro le sentenze di appello in materia di opposizione alla dichiarazione dello stato di adottabilità non comporta alcuna apprezzabile limitazione del diritto di difesa, quali che siano i motivi di ricorso; è pertanto manifestamente infondata, in riferimento all’art. 24 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma ult., cit. I provvedimenti in materia di potestà anche emanati all’interno del procedimento di adottabilità non sono ricorribili per cassazione. Cass. sez. I, 19 gennaio 2005, n. 1098 I provvedimenti in materia di decadenza o di reintegrazione nella potestà, di affidamento della prole e quelli adottati ai sensi dell’art. 333 cod. civ., nel quadro degli atti innominati incidenti sull’esercizio della potestà dei genitori, nonché quelli emessi nel corso del procedimento per la dichiarazione di adottabilità, non sono ricorribili per cassazione, in quanto non sono assistiti dall’autorità del giudicato sostanziale, ma si caratterizzano per un’efficacia meno intensa, propria dei provvedimenti camerali di giurisdizione volontaria, i quali sono soggetti a modifica o a revoca da parte dello stesso giudice che li ha emessi. 18 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Nel procedimento di opposizione all’adottabilità il tribunale può assumere informazioni al di fuori delle norme processuali sulla testimonianza. Cass. sez. I, I civile, 27 agosto 2004, n. 17110 Il giudizio di opposizione alla dichiarazione dello stato di adottabilità, ancorché sia un procedimento a cognizione ordinaria (a differenza di quello che sì conclude con la predetta dichiarazione, che ha carattere sommario e natura camerale), è caratterizzato dal potere, attribuito al giudice, di attingere, anche d’ufficio, tutti gli elementi utili al fine delle valutazioni che deve compiere sullo stato del minore e sulla condizione dei suoi familiari, poiché tutta la disciplina dell’adozione è finalizzata alla tutela del preminente interesse del minore, sottratto alla disponibilità delle parti. A tal fine il giudice può non solo chiedere informazioni alla pubblica amministrazione, senza che i funzionari interpellati assumano il ruolo di testimoni tenuti a deporre sotto il vincolo del giuramento, ma chiedere anche notizie e valutazioni agli operatori dei servizi in relazione ai compiti istituzionali da essi svolti, al fine di attingere in tempi brevi il maggior numero di informazioni possibili, al di là ed al di fuori della normale dialettica processuale soggetta agli oneri di deduzione e di prova delle parti, nonché ascoltare altri soggetti senza che questi assumano il ruolo di testimoni in senso tecnico. L’opposizione è proponibile anche avverso il provvedimento di archiviazione del procedimento. Cass. sez. I, 3 giugno 2004, n. 10570 L’articolo 17 della legge n. 184 dei 1983 (nel testo originario) prevede che il ricorso può essere proposto avverso il provvedimento sullo stato di adottabilità, formula che deve ritenersi comprensiva sia della dichiarazione dello stato di adottabilità che del decreto che dichiara che non vi è luogo a provvedere, non sussistendo i presupposti per la pronuncia sullo stato di adottabilità, Nell’ipotesi in cui il ricorso sia diretto contro un provvedimento di non luogo a provvedere, l’accoglimento del ricorso stesso, per la ritenuta sussistenza dello stato di adottabilità, inoltre, comporta come conseguenza la dichiarazione di tale stato. Nel giudizio di cassazione i termini di deposito e di controricorso sono quelli ordinari. Cass. sez. I, 3 giugno 2004, n. 10570 Nel procedimento di opposizione alla dichiarazione di adottabilità l’articolo 17 della legge n. 184 del 1983 dispone che il ricorso per cassazione deve essere proposto entro trenta giorni senza prevedere, contemporaneamente, una generale riduzione alla metà di tutti i termini, ivi compresi quello relativo al deposito del ricorso, che è di giorni venti, ai sensi dell’articolo 369 del c.p.c. Deriva da quanto precede, pertanto, che non sussiste l’inammissibilità del controricorso per tardività qualora sia stato proposto entro 40 giorni dalla notifica del ricorso principale. Nella disciplina ancora in vigore il ricorso per cassazione avverso le sentenze rese in tema di adottabilità è ammesso solo per violazione di legge. Cass. sez. I, 29 aprile 2004, n. 8203 Ai sensi dell’articolo 17, ultimo comma, della legge n. 184 del 1982 (nella sua formulazione originaria ancora applicabile essendo l’efficacia della nuova formulazione inapplicabile in forza di reiterati decreti legge convertiti in legge) il ricorso per Cassazione avverso le sentenze rese in tema di declaratoria dello stato di adottabilità dei minori non solo è soggetto a un termine dimidiato, rispetto a quello ordinario, il quale decorre dalla notificazione di ufficio della sentenza medesima. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA La riforma di cui alla legge 149/2001 è sospesa solo per le disposizioni di carattere processuale. Cass. sez. I, 16 gennaio 2004 n. 542 In tema di adozione di minori di età il ricorso per cassazione ai sensi dell’articolo 17, legge n. 184 del 1983 è consentito solo per violazione di legge e non anche per vizi della motivazione, perché tale norma, ancorché novellata dall’articolo 16, comma 2, della legge n. 149 del 2001 (che ammette il ricorso per motivi diversi dalla violazione di legge), è ancora in vigore nel testo originario. L’operatività della legge modificativa, infatti, è rimasta sospesa, limitatamente alle disposizioni di carattere processuale (a seguito di reiterati decreti legge convertiti in legge). fino all’emanazione di una specifica disciplina sulla difesa di ufficio nei procedimenti per la dichiarazione dello stato di adattabilità. Revoca dell’adottabilità La revoca dell’adottabilità presuppone sia il venir meno dell’abbandono che l’interesse del minore. Cass. sez. I, 19 febbraio 2008, n. 4199 La legge 184/83, art. 21, stabilisce al comma 1 che «Lo stato di adottabilità cessa altresì per revoca, nell’interesse del minore, in quanto siano venute meno le condizioni di cui all’art. 8...». L’ultimo comma della norma precisa inoltre che «nel caso in cui sia in atto l’affidamento preadottivo, lo stato di adottabilità non può essere revocato». Dalla lettera della norma si ricava con chiarezza che due sono le condizioni perchè possa farsi luogo alla revoca dello stato di adottabilità: il venir meno dello stato di abbandono del minore, quale regolato dalla legge 184/83, art. 8, e la sussistenza dell’interesse del minore alla revoca. Tant’è che il legislatore vieta la revoca quando sia in atto l’affidamento preadottivo, presumendo in via assoluta che in tale situazione di fatto la revoca dello stato di adottabilità non sia nell’interesse del minore. Rilevanza dei parenti La situazione di abbandono va valutata con riguardo anche ai parenti fino al quarto grado. Cass. Sez. I, 17 luglio 2009, n. 16795 In tema di adozione, la valutazione della situazione di abbandono del minore, prescritta dall’art. 8 della legge n. 184 del 1983 ai fini della dichiarazione dello stato di adottabilità, deve estendersi ai parenti fino al quarto grado, i quali, in virtù di un principio generale introdotto dalla stessa legge n. 184 cit., sono tenuti, qualora i genitori non vi provvedano, a prestare assistenza al minore e ad adempiere agli obblighi educativi, la cui inottemperanza conduce allo scioglimento di ogni vincolo del minore anche nei loro confronti (Cassa con rinvio, App. Ancona). La situazione di abbandono va valutata con riguardo anche ai parenti fino al quarto grado. Cass. Sez. I, 17 luglio 2009, n. 16796 In tema di adozione, la valutazione della situazione di abbandono del minore, prescritta dall’art. 8 l. n. 184 del 1983 ai fini della dichiarazione dello stato di adottabilità, deve estendersi ai parenti fino al quarto grado, i quali, in virtù di un principio generale introdotto dalla stessa l. n. 184 cit., sono tenuti, qualora i genitori non vi provvedano, a prestare assistenza al minore e ad adempiere agli obblighi educativi, la cui inottemperanza conduce allo scioglimento di ogni vincolo del minore anche nei loro confronti (Cassa con rinvio, App. Catania). La verifica dei presupposti per la dichiarazione di adottabilità deve essere ristretta soltanto al rapporto tra il minore e i parenti che abbiano avuto con lui rapporti significativi. Cass. sez. I, I civile, 27 agosto 2004, n. 17110 Qualora si manifesti, da parte di figure parentali sostitutive la disponibilità a prestare assistenza e cure al minore, essenziale presupposto giuridico per escludere lo stato di abbandono è la presenza di significativi rapporti dello stesso con tali persone, giacché alla parentela la legge n. 184 del 1983 attribuisce rilievo, ai fini della sopraindicata esclusione, soltanto se accompagnata dalle relazioni psicologiche e affettive che normalmente la caratterizzano (anche Cass. sez. I, 9 maggio 2002, n. 6629) La valutazione sull’adottabilità deve essere compiuta anche con riferimento ai parenti che non hanno avuto rapporti significativi con il minore. Cass. sez. I., 23 luglio 2003, n. 11426 La mancanza di assistenza morale e materiale deve essere valutata anche con riguardo ai parenti che non hanno avuto con il minore pregressi rapporti significativi ma l’obbligo di convocazione dei parenti previsto dall’art. 12 della legge 184/83 riguarda solo i parenti che hanno avuto con il minore rapporti significativi. La opportunità di tenere conto - al fine di evitare per quanto possibile la dichiarazione dello stato di abbandono - della disponibilità seriamente offerta da parenti entro il quarto grado a prestare assistenza morale e materiale al minorenne, anche se non avevano intrattenuto rapporti significativi con lui, non impedisce che, sotto un profilo meramente processuale, l’obbligo della convocazione e la corrispondente legittimazione a partecipare alle diverse fasi della procedura per la dichiarazione dello stato di adottabilità, concerna soltanto quelli, fra i parenti entro il quarto grado “che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore” secondo la inequivoca espressione dell’articolo 12, comma 1, della legge 184/1983. La nullità del procedimento consegue, pertanto, solo alla mancata convocazione di parenti entro il quarto grado che hanno “mantenuto” - e perciò hanno ancora in atto - tale tipo di rapporti con il minore. La ratio dell’articolo 12 della legge 4 maggio 1983 n. 184 non consiste nel suscitare, attraverso la convocazione di tutti i parenti entro il quarto grado, nuovi interessi affettivi verso il minore, ma consiste nel valorizzare quando ne risulti l’esistenza “attraverso le indagini effettuate” in anticipo, ai sensi del precedente articolo 11 le risorse affettive già esistenti nell’ambito della famiglia allargata, mantenute nel tempo, adeguate e durevoli, rappresentate da persone o nuclei capaci di vicariare le funzioni genitoriali nei confronti del minorenne, e quindi di ovviare alla situazione di abbandono verificatasi nel quadro più ristretto della famiglia biologica. AFFIDAMENTO DEI FIGLI Affidamento al servizio sociale In caso di conflittualità tra i genitori è ammissibile in sede di separazione l’affidamento dei figli minori al servizio sociale. Cass. sez. I, 28 maggio 2008, n. 14042 Se congruamente motivata non è censurabile in sede di legittimità la sentenza del giudice di merito che, aderendo alle conclusioni di una consulenza tecnica d’ufficio, abbia disposto in sede di separazione l’affidamento dei figli minori al servizio sociale e il collocamento di due fratelli ciascuno presso uno dei genitori. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 19 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA È ammissibile nel giudizio di separazione l’affidamento al servizio sociale dei figli. Cass. sez. I, 8 maggio 2003, n. 6970 I giudici possono decidere di affidare al Comune i figli di genitori separati qualora, nel corso del giudizio di separazione, questi ultimi manifestino un alto tasso di litigiosità che interferisca negativamente sullo sviluppo del minore. Affidamento condiviso E’ causa ostativa all’affidamento condiviso il mancato versamento del mantenimento per i figli. Cass. sez. I, 17 dicembre 2009, n. 26587 Perché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso occorre che risulti nei confronti di uno dei genitori una condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore (come nel caso, ad esempio, di un’obiettiva lontananza del genitore dal figlio, o di un suo sostanziale disinteresse per le complessive esigenze di cura, di istruzione e di educazione del minore), con la conseguenza che l’esclusione della modalità dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario ma anche in negativo sull’inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale e sulla rispondenza quindi all’interesse del figlio dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento. L’affidamento condiviso non può ritenersi precluso, di per sé, dalla mera conflittualità esistente fra i coniugi, ma solo ove nei confronti di uno dei genitori, risulti una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa da renderlo in concreto pregiudizievole per il minore. Cass. sez. I, 19 giugno 2008. n. 16593 Nel quadro della nuova disciplina relativa ai “provvedimenti riguardo ai figli” dei coniugi separati, di cui ai citati artt. 155 e 155 bis, come riscritti dalla legge n. 54 del 2006, improntata alla tutela del diritto del minore (già consacrato nella Convenzione di New York del 20 novembre 1989 resa esecutiva in Italia con la legge 176/1991) alla c.d. “bigenitorialità” (al diritto, cioè, dei figli a continuare ad avere un rapporto equilibrato con il padre e con la madre anche dopo la separazione), l’affidamento “condiviso” (comportante l’esercizio della potestà genitoriale da parte di entrambi ed una condivisione, appunto, delle decisioni di maggior importanza attinenti alla sfera personale e patrimoniale del minore) si pone non più (come nel precedente sistema) come evenienza residuale, bensì come regola; rispetto alla quale costituisce, invece, ora eccezione la soluzione dell’affidamento esclusivo. Alla regola dell’affidamento condiviso può infatti derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”. Non avendo, per altro, il legislatore ritenuto di tipizzare le circostanze ostative all’affidamento condiviso, la loro individuazione resta rimessa alla decisione del Giudice nel caso concreto da adottarsi con “provvedimento motivato”, con riferimento alla peculiarità della fattispecie che giustifichi, in via di eccezione, l’affidamento esclusivo. L’affidamento condiviso non può ragionevolmente ritenersi comunque precluso, di per sé, dalla mera conflittualità esistente fra i coniugi, poiché avrebbe altrimenti una applicazione, evidentemente, solo residuale, finendo di fatto con il coincidere con il vecchio affidamento congiunto. Occorre viceversa, perché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso, che risulti, nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale appunto da rendere quell’affidamento in concreto pre- 20 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 giudizievole per il minore (come, nel caso, ad esempio, di una sua anomala condizione di vita, di insanabile contrasto con il figlio, di obiettiva lontananza...). Per cui l’esclusione della modalità dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale e sulla non rispondenza, quindi, all’interesse del figlio dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento. La conflittualità tra i genitori non può di per sé sola essere ritenuta ostativa dell’affido condiviso, purché ciò rimanga nei limiti di una dialettica che non intacchi la serenità e la possibilità di sviluppo psicofisico equilibrato del figlio minore. Tribunale per i minorenni di Genova, decreto 9 luglio 2007 La conflittualità tra i genitori non può di per sé sola essere ritenuta ostativa dell’affido condiviso, purché ciò rimanga nei limiti di una dialettica che non intacchi la serenità e la possibilità di sviluppo psicofisico equilibrato del figlio minore. Nell’ipotesi in cui la forte conflittualità si concreti nella estrema difficoltà di operare delle scelte educative in favore del figli l’interesse preminente del minore è maggiormente tutelato con l’affidamento esclusivo a quello dei genitori che appare più adeguato nel caso concreto con riferimento ai bisogni affettivo-educativi della figlia e nel contempo che consenta lo svolgersi dei rapporti di quest’ultima con l’altro genitore. Con riguardo all’esercizio della potestà di genitore, l’affidamento esclusivo ad un genitore comporta l’esercizio esclusivo da parte di questi della potestà genitoriale. L’altro genitore, oltre a essere titolare del diritto-dovere di vigilare sulla istruzione ed educazione dei figli, ha comunque titolo ad adottare congiuntamente all’affidatario le decisioni di maggior rilievo nell’interesse della prole. In caso di disaccordo tale decisione è rimessa al giudice, sulla base del combinato disposto dell’art. 155bis e 155 comma 3 c.c. Competente ad occuparsi dell’affidamento e del mantenimento dei figli naturali è il tribunale per i minorenni e non il tribunale ordinario. Cassazione sez. I, 3 aprile 2007, n. 8362 La legge 8 febbraio 2006 n. 54 sull’esercizio della potestà in caso di crisi della coppia genitoriale e sull’affidamento condiviso, applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, ha corrispondentemente riplasmato l’articolo 317-bis del Cc, il quale, innovato nel suo contenuto precettivo, continua tuttavia a rappresentare lo statuto normativo della potestà del genitore naturale e dell’affidamento del figlio nella crisi dell’unione di fatto, sicchè la competenza ad adottare i provvedimenti nell’interesse del figlio naturale spetta al tribunale per i minorenni, in forza dall’articolo 38, primo comma, delle disposizioni di attuazione del codice civile, in parte qua non abrogato, neppure tacitamente, dalla novella. La contestualità delle misure relative all’esercizio della potestà e all’affidamento del figlio, da un lato, e di quelle economiche inerenti al loro mantenimento, dall’altro, prefigurata dai novellati articoli 155 e seguenti del Cc, ha peraltro determinato - in sintonia con l’esigenza di evitare che i minori ricevano dall’ordinamento un trattamento diseguale a seconda che sia nati da genitori coniugati oppure da genitori non coniugati, oltre che di escludere soluzioni interpretative che comportino un sacrificio del principio di concentrazione delle tutele, che è aspetto centrale della ragionevole durata del processo - una attrazione, in capo allo stesso giudice specializzato, della competenza a provvedere, altresì, sulla misura e sul modo con cui ciascuno dei genitori naturali deve contribuire al mantenimento del figlio. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA È escluso l’affido condiviso se c’è conflittualità molto forte tra i genitori. Corte d’appello di Ancona, 22 novembre 2006 La conflittualità elevata tra i genitori impedisce l’applicabilità dell’affidamento condiviso. È ammissibile l’affido condiviso quando si vive lontani. Corte d’appello di Caltanissetta, 29 luglio 2006 La distanza dei rispettivi luoghi di permanenza del figlio e di uno dei genitori non può essere di ostacolo all’applicazione dell’affidamento condiviso dovendosi procedere, in questi casi, all’equo contemperamento delle esigenze di entrambi i soggetti coinvolti nella crisi familiare. L’affidamento condiviso dei figli naturali è di competenza del tribunale per i minorenni. Tribunale Milano, 28 giugno 2006 Anche dopo l’entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54 è competente il tribunale per i minorenni, ai sensi dell’art. 317 bis c.c. e 38 disp. att. c.c., a decidere sulla domanda di affidamento di un minore proposta dal genitore naturale, non contenendo l’art. 4 della suddetta legge, che estende l’applicazione della riforma anche ai figli naturali, alcuna disposizione espressa in tema di competenza giurisdizionale. L’affidamento condiviso dei figli naturali è di competenza del tribunale ordinario. Tribunale per i minorenni di Milano, 12 maggio 2006 L’art. 4 della legge 8 febbraio 2006, n. 54, che estende l’applicazione della disciplina in tema di affidamento condiviso anche al contenzioso tra genitori naturali, richiama integralmente tutte le norme sostanziali e processuali contenute nella riforma, con ciò presupponendo l’applicazione del rito speciale di cui all’art. 706 e seguenti, con la conseguenza che la competenza ad occuparsi dell’affidamento dei figli naturali appartiene al tribunale ordinario. Affidamento congiunto L’affidamento congiunto presuppone l’assenza di conflittualità tra i genitori. Tribunale Varese, 11 luglio 2005 L’assenza di una elevata conflittualità tra i coniugi divorziati, e la loro comprovata capacità di dialogo costituiscono elementi sufficienti per disporre l’affidamento congiunto del figlio minore. L’affidamento congiunto può essere disposto anche se non c’è accordo tra i genitori. Tribunale di Varese, 31 maggio 2005 Poiché l’affidamento del minore, nel caso di sperequazione dei coniugi, deve essere preordinato a tutelare gli interessi del minore stesso, e poiché l’affidamento congiunto rappresenta la forma più idonea a tal fine, esso può essere disposto d’ufficio dal giudice, anche in assenza di un previo “programma” concordato tra i coniugi, all’unica condizione che questi ultimi dimostrino di avere responsabilmente compreso la finalità del suddetto affidamento e di essere responsabilmente in grado di gestirlo. Affidamento esclusivo Non può essere disposto l’affidamento condiviso se vi è ostilità grave tra figlio e genitori. Tribunale di Firenze, 22 aprile 2006 Non può essere disposto l’affidamento condiviso quando il minore rifiuti in modo categorico ogni rapporto con uno dei genitori, adducendo motivi di sofferenza che il giudicante, sia direttamente sia con l’ausilio di una consulenza psicologica, deve ascoltare e porre a fondamento della propria decisione. In tal caso, pur avendo dato il legislatore chiara indicazione della propria preferenza per l’affidamento condiviso, la valutazione del superiore interesse del minore esige che venga disposto l’affidamento esclusivo con la prosecuzione di adeguata terapia psicologica per consentirgli di recuperare la figura genitoriale rifiutata. Intervento dei nonni Gli ascendenti sono legittimati ad un intervento adesivo nel procedimento di separazione. Tribunale di Firenze, 22 aprile 2006 Nei giudizi in cui si fa luogo all’affidamento di minori gli ascendenti sono legittimati all’intervento adesivo per sostenere le ragioni del genitore che intenda attuare il diritto del figlio a conservare con gli stessi significativi rapporti. Trasferimento all’estero L’affidatario ha il diritto di trasferirsi all’estero con i figlio. Cass. sez. I, 14 luglio 2006, n. 16092 Il genitore cui sia affidato il figlio minore è libero di trasferire la propria residenza all’estero, conducendo con sé il figlio affidatogli, né l’altro genitore può opporsi all’esercizio di tale libera facoltà, adducendo la sostanziale vanificazione del proprio diritto di visita del minore. AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO Diritto di difesa Non sempre il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno richiede il ministero di un difensore. Cass. sez. I, 29 novembre 2006, n. 25366 Il procedimento per la nomina dell’amministrazione di sostegno non richiede il ministero del difensore nei casi in cui il provvedimento deve limitarsi ad individuare i singoli atti o categorie di atti in relazione ai quali l’intervento dell’amministratore è richiesto. La difesa tecnica è invece necessaria quando il provvedimento individua limitazioni dei diritti fondamentali della persona analoghe a quelle previste per l’interdetto o l’inabilitato. Nei procedimenti per la nomina di un amministratore di sostegno non è necessario il patrocinio legale. Corte d’appello di Venezia, 16 gennaio 2006 Nei giudizi aventi ad oggetto la nomina dell’amministratore di sostegno non v’è necessità del patrocino legale. Nei procedimenti per la nomina di un amministratore di sostegno è necessario il patrocinio legale. Corte d’appello di Milano, 11 ottobre 2005 Nei giudizi aventi ad oggetto la nomina dell’amministratore di sostegno è necessario il patrocino legale in quanto la natura e la non disponibilità degli interessi coinvolti, gli ampi poteri inquisitori del giudice, la posizione dei soggetti legittimati a presentare il ricorso e ad impugnare il provvedimento, la sua particolare pubblicità e la sua stessa revocabilità, non escludono che esso si configuri come un procedimento contenzioso speciale. Nel procedimento per la nomina di un amministratore di sostegno si applicano le stesse garanzie difensive del processo gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 21 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA di interdizione, trattandosi di procedimento inerente lo stato delle persone. Tribunale di Milano, 2 marzo 2005 La ratifica della Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo ha rafforzato nel nostro ordinamento sia dal punto di vista sostanziale che procedurale la tutela dei diritti inviolabili della persona già sancita dall’art. 2 della Costituzione, prevedendo all’art. 8 la necessità - per il processo decisionale che incida sull’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali (come quello in oggetto) - di rispettare requisiti di forma e di sostanza onde proteggere l’individuo da ingerenze arbitrarie. Ogni qualvolta oggetto del processo siano situazioni inerenti allo “stato” delle persone (come avviene nel giudizio in esame), la loro tutela ancorché possa essere realizzata attraverso un procedimento semplificato - non può prescindere dal rispetto di proprie garanzie interne e quindi dall’osservanza delle regole in tema di patrocinio delle parti. (v. Cass. 5025/19906900/1996-156/1996-5831/1989). La lettura costituzionalmente orientata dalle norme impone di applicare al procedimento per la nomina di un amministratore di sostegno le stesse garanzie imposte per i giudizi di interdizione e inabilitazione, soprattutto con riferimento al rispetto del diritto al contraddittorio e all’esercizio di difesa. Una diversa interpretazione non solo si risolverebbe in un’ingiustificata disparità di trattamento di situazioni del tutto analoghe (dal momento che all’amministrazione di sostegno possono essere estesi taluni dei più incisivi effetti della interdizione v. art. 411 cod. civ. nel nuovo testo), ma condurrebbe persino a negare all’istituto in esame le stesse garanzie procedimentali assicurate nel giudizio di inabilitazione, pur avendo quest’ultimo un contenuto ablativo della capacità indubbiamente minore. Il procedimento per la nomina di un amministratore di sostegno non avendo natura contenziosa non richiede l’obbligo del patrocinio legale. Tribunale di Milano, 28 febbraio 2005 L’istanza di nomina di amministratore di sostegno a protezione di soggetto incapace non richiede come obbligatorio il patrocinio di un difensore legale, non dovendosi ritenere che il relativo procedimento abbia natura contenziosa. Chi agisce non é portatore di una propria pretesa di diritto nei confronti di un altro, ma sollecita l’intervento del giudice perché verifichi e attui l’interesse di quell’unico soggetto presentato come potenziale beneficiario della misura di protezione; la presenza del giudice nasce dall’esigenza di soddisfare, unitamente all’interesse del singolo, l’interesse generale a che soggetti privi di autonomia possano avere protezione e siano consentiti e regolamentati i loro rapporti giuridici in seno alla società. Parimenti non può ritenersi che la struttura contenziosa debba caratterizzare il presente procedimento come struttura di garanzia, al pari di ogni procedimento da cui derivi una pronuncia di status, in quanto la pronuncia di nomina di un amministratore di sostegno non incide sullo status del soggetto, poiché si concretizza nell’affiancare a un soggetto una persona che, con riferimento all’incidenza maggiore o minore dell’infermità del soggetto sulle sue capacità, potrà sostituirlo o assisterlo nel compimento di quei soli specifici atti che si ravvisino necessari nella sua esistenza e che siano indicati nel decreto di nomina. Il procedimento per la nomina di un amministratore di sostegno non avendo natura contenziosa non richiede l’obbligo del patrocinio legale. Tribunale di Modena, 24 febbraio 2005 Nell’ambito di un procedimento in materia di amministrazione di sostegno, di cui alla legge n. 6/2004, il ricorren- 22 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 te ha piena legittimazione ad agire in giudizio senza il patrocinio di un difensore tecnico, trattandosi di giurisdizione volontaria, con la conseguente inoperatività dell’art. 82 c.p.c. Nel procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno sono obbligatori a pena di nullità il patrocinio del difensore e l’intervento del pubblico ministero. Corte d’Appello di Milano, 15 febbraio 2005 Nel procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno vanno osservati il principio della necessaria garanzia di difesa tecnica e l’obbligo di intervento del pubblico ministero. Nel procedimento per la nomina di un amministratore di sostegno è necessaria l’assistenza del difensore. Tribunale di Padova, 21 maggio 2004 Il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno è finalizzato ad un provvedimento giurisdizionale che influisce sullo stato e sui diritti delle persone, ed è omogeneo, sotto il profilo processuale, ai giudizi di interdizione e inabilitazione - stante quanto disposto dall’art. 720 bis c.p.c. Inoltre il tecnicismo della procedura per la nomina dell’amministratore di sostegno, con il contenuto necessario del ricorso di cui all’art. 407, primo comma, cod. civ., e gli incombenti che chi agisce deve svolgere, essendo applicabile anche l’art. 713 c.p.c. richiamato dall’art. 720 bis c.p.c., fa ritenere necessaria la difesa tecnica. Pertanto il ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno non proposto a mezzo di difensore abilitatoè nullo. Nomina Il sistema di nomina dell’amministratore di sostegno è pienamente legittimo. Corte costituzionale 19 gennaio 2007, n. 4 È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 407 e 410 cc. nel testo introdotto dalla legge 6/2004 sollevata in riferimento agli articoli 2 e 3 della Costituzione, nella parte in cui non subordinano al consenso dell’interessato l’attivazione della misura dell’amministrazione di sostegno e il compimento dei singoli atti gestionali, o comunque non attribuiscono efficacia paralizzante al suo dissenso in ordine a tale attivazione e al compimento di tali atti. Poteri L’amministratore di sostegno ha legittimazione per esprimere il consenso ad un trattamento sanitario che riguarda il beneficiario. Tribunale di Cosenza, 28 ottobre 2004 Ove il beneficiario, affetto da patologie mentali, manifesti il proprio dissenso ad un trattamento sanitario, tale determinazione siccome viziata in radice per l’incapacità naturale (art. 428 cod. civ.) in cui versa [incapacità di intendere o di volere] - non appare a priori ostativa alla sottoposizione ad un idoneo trattamento sanitario ove necessario per la cura della sua persona; ed invero la finalità del “consenso informato” è quello di porre il paziente in condizioni di decidere sull’opportunità o meno di un trattamento qualsiasi attraverso un bilanciamento di vantaggi e rischi (in materia v. Cass. 15 gennaio, 1997, n. 364), scelta che però può essere viziata proprio dalla patologia del soggetto da “proteggere “. In tale ipotesi (come per il caso di tutela), l’amministratore deve ritenersi legittimato - ove gli sia consentito dal decreto di nomina ed alla luce dell’accertata patologia psichiatrica - ad esprimere o rifiutare il consenso al trattamento terapeutico e MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA quindi a sostituirsi al disabile, con il potere di valutare (unitamente ai servizi sanitari a tanto deputati) quale debba essere, per il soggetto doverosamente da “proteggere” e da “curare”, il trattamento saunitario temporaneo più idoneo. L’amministratore di sostegno ha legittimazione per esprimere il consenso ad un trattamento sanitario che riguarda il beneficiario. Tribunale di Modena, 15 settembre 2004 Può ritenersi acquisito dall’ ordinamento il principio per cui il “sostengono” normativo della “cura” della persona (e degli “interessi” di essa) non si limita alla sfera economico-patrimoniale ma tiene conto dei bisogni e delle aspirazioni dell’essere umano ricomprendendo ogni attività della vita civile giuridicamente significativa; questo comporta il coinvolgimento anche di quel diritto-dovere di esprimere il c.d. consenso informato a terapie mediche e/o interventi che se, escluso, in ipotesi, qualora l’interessato non sia in grado di determinarsi (tale l’interdetto), comporterebbe indiscutibile lesione della legislativamente consacrata funzione della “cura della persona”. Il criterio per un equilibrato giudizio rispettoso dell’individuo e dei suoi fondamentali diritti di autodeterminazione altro non sembra essere se non quello di procedere al “sostegno” della “cura” della persona sostituendola nel diritto-dovere di esprimere il consenso di sottoposizione alla terapia medica salvavita esclusivamente nel caso in cui, acquisiti tutti gli elementi, anche scientifici, disponibili, si pervenga al convincimento che il dissenso non si fonda su una cosciente valutazione critica della situazione in essere e delle conseguenze di non porvi rimedio. L’amministratore di sostegno ha legittimazione per esprimere il consenso ad un trattamento sanitario che riguarda il beneficiario. Tribunale di Modena, 28 giugno 2004 L’amministratore di sostegno può essere autorizzato dal giudice a dare il consenso ad un intervento chirurgico sulla persona dell’assistito, quando tale intervento sia necessario per evitare danni permanenti e l’interessato non sia in grado per le proprie menomate condizioni psichiche di percepire appieno la gravità della situazione. all’interdizione e all’inabilitazione l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ad alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa, ben potendo il giudice tutelare graduare i limiti alla sfera negoziale del beneficiario dell’amministrazione di sostegno a mente dell’art. 405 c.c., comma 5, nn. 3 e 4, in modo da evitare che questi possa essere esposto al rischio di compiere un’attività negoziale per sé pregiudizievole. L’amministrazione di sostegno è preferibile all’interdizione o all’inabilitazione se offre maggiore tutela all’interessato e non quando vi sia una grado diverso di infermità. Cass. sez. I, 12 giugno 2006, n. 13584 L’amministrazione di sostegno, introdotta nell’ordinamento dall’articolo 3 della legge 9 gennaio 2004 n. 6, ha la finalità di offrire a chi si trovi nell’impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali la interdizione e la inabilitazione, non soppressi ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli articoli 414 e 417 del codice civile. Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità e alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa. Appartiene all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerare anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie. Presupposti La scelta tra amministrazione di sostegno e interdizione non dipende dal diverso grado di infermità dell’interessato. Cass. sez. I, 24 luglio 2009, n. 17421 L’amministrazione di sostegno ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea (ed anche totale), di attendere ai propri interessi uno strumento di assistenza agile e tale da sacrificare, nella minor misura possibile, la capacità di agire. Rispetto all’interdizione, quindi, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno non va collegato ad un diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze del soggetto stesso, considerata la sua flessibilità e la maggiore agilità della sua procedura applicativa. La scelta tra amministrazione di sostegno e interdizione non dipende dal diverso grado di infermità dell’interessato. Cass. sez. I, 22 aprile 2009, n. 9628 Nel giudizio di interdizione il giudice di merito, nel valutare se ricorrono le condizioni a mente dell’art. 418 c.c. per applicare l’amministrazione di sostegno, rimettendo gli atti al giudice tutelare, deve considerare che rispetto L’amministrazione di sostegno è alternativa e non fungibile rispetto all’interdizione. Corte cost. 9 dicembre 2005, n. 440 In nessun caso l’ambito dell’amministrazione di sostegno può coincidere con quello dell’interdizione o dell’inabilitazione, in quanto queste ultime debbono essere disposte soltanto se il giudice ritiene di non potere adottare alcuno strumento ad esso alternativo. Ne consegue che non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 404 Cc, nella parte in cui - secondo la tesi del rimettente - rende l’amministrazione di sostegno uno strumento fungibile rispetto all’interdizione. Nel caso di contrasti tra le decisioni del giudice chiamato a disporre l’amministrazione di sostegno, e quello chiamato a disporre l’interdizione, l’ordinamento prevede adeguate misure di tutela consistenti sia nell’appello avverso l’una o l’altra di tali decisioni, sia nell’obbligo del giudice tutelare che neghi l’amministrazione di sostegno di trasmettere gli atti al Pm affinché promuova, se del caso, l’interdizione. Ne consegue che non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 413 e 418 Cc, nella parte in cui non prevederebbe - secondo la tesi del rimettente - uno strumento di risoluzione del contrasto tra giudice tutelare e tribunale dell’interdizione. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 23 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA L’interdizione è misura residuale rispetto all’amministrazione di sostegno. Tribunale di Venezia, 13 ottobre 2005, n. 2086 Nell’ambito della nuova disciplina non può essere da solo decisivo il fatto che una patologia pur qualificabile come “infermità di mente” determini uno stato di “incapacità di agire” abituale (rilevante a tal punto da escludere anche totalmente la capacità del soggetto di provvedere ai propri interessi) per impedire l’applicabilità dell’amministrazione di sostegno e rendere inevitabilmente applicabile il giudizio di interdizione; tale situazione dovrà essere infatti valutata alla luce della possibilità o della impossibilità di proteggere adeguatamente, attraverso un idoneo e sempre modificabile progetto di sostegno il soggetto-beneficiario; riservandosi necessariamente l’utilizzazione del rigido ed astratto giudizio di interdizione ai casi di inevitabilmente prevista o constatata (art. 413, ult. co., cod. civ.) impossibilità di protezione dell’interessato attraverso un idoneo, modificabile, specificabile, adeguabile, integrabile provvedimento ex artt. 405, 4° e 5° co. - 407, 4° co. - 410, 2° co., cod. civ., dettato nell’ambito di un concreto e specifico progetto di amministrazione di sostegno. In caso di rifiuto da parte del beneficiario può essere disposta la sospensione dei poteri dell’amministrazione di sostegno. Tribunale di Modena, 10 ottobre 2005 Ove il beneficiario si opponga strenuamente all’assistenza del proprio amministratore di sostegno, può disporsi la temporanea sospensione dei poteri assistenziali di quest’ultimo, all’auspicato fine che, nel frattempo, la frequentazione tra gli stessi nonché l’approfondimento della reciproca conoscenza conducano all’instaurazione di rapporti di familiarità e confidenza che consentano il consolidamento di fiducia nella figura, nei consigli e nell’operato dell’amministratore stesso. (Nel caso di specie, ad un settantacinquenne cardiopatico e psichicamente indebolito veniva nominato un amministratore di sostegno con poteri di assistenza nella riscossione della pensione mensile e nella miglior cura della salute della persona. In applicazione del principio di cui in massima, poiché il beneficiario rifiutava veementemente - tanto da far temere per la sua salute già compromessa dalla cardiopatia - qualsivoglia assistenza nelle attività di riscossione della pensione e di gestione del denaro per tal via percepito, il giudice tutelare sospendeva per 60 giorni i poteri assistenziali dell’amministratore quanto a riscossione e utilizzo della pensione ma non anche con riferimento alla cura della persona e la tutela della salute della stessa). Salvo che non siano assolutamente indispensabili, all’interdizione e all’inabilitazione si deve preferire l’amministrazione di sostegno. Tribunale di Modena, 2 settembre 2005 Alla luce della disciplina di cui alla l. n. 6 del 2004, deve ormai ravvisarsi la residualità degli arcaici e desueti istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, da preferirsi all’amministrazione di sostegno solo quando risultino proprio indispensabili per assicurare all’interessato una adeguata protezione. Conseguentemente, ove in concreto manchi il citato presupposto dell’indispensabilità, deve farsi luogo all’amministrazione di sostegno, istituto sicuramente più protettivo per la persona priva in tutto o in parte di autonomia. È preferibile l’interdizione quando la condotta dell’interessato tende ad essere a sé pregiudizievole. Tribunale di Bologna, 1° agosto 2005 L’interdizione deve essere preferita all’amministrazione di sostegno in tutti i casi in cui il soggetto, come espressio- 24 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 ne della sua infermità mentale, e cioè di capacità intellettive e volitive compromesse, abbia la tendenza a sfuggire alle maglie di assistenza create intorno a lui, non abbia consapevolezza della malattia e si opponga sistematicamente alle soluzioni di cura proposte, soprattutto quando la sua condotta tenda ad essere pregiudizievole a sé e necessiti di adeguato contenimento. La nomina dell’amministratore non è possibile nei casi di incapacità grave della persona. Tribunale di Milano, 21 marzo 2005 La nomina di un amministratore di sostegno, soggetto legittimato ad assistere o rappresentare l’incapace nei soli atti che lo stesso non sia in grado di compiere quali necessari ed esattamente indicati nel decreto di nomina, e derivandone solo per tali atti, ai sensi degli artt. 409 e 412 cod. civ., l’incapacità dello stesso di procedere in via autonoma, con conseguente annullabilità dell’atto compiuto senza assistenza o rappresentanza dell’ amministratore di sostegno, è sufficiente per soggetti con specifiche incapacità (in grado di esplicitare adeguatamente valide capacità residue) ovvero anche per soggetti del tutto privi di capacità, quando siano nell’impossibilità materiale di relazionarsi autonomamente con l’esterno e quindi di porre in essere comportamenti idonei a produrre effetti giuridici e negoziali. Può invece rivelarsi insufficiente misura di protezione e di tutela inadeguata per quei soggetti la cui mantenuta capacità di relazionarsi con l’esterno, ma viziata sotto il profilo della consapevolezza o volontà, li espone a compiere atti in ogni direzione dai quali possano derivarne effetti giuridici dannosi, non immediatamente annullabili ove non compresi nell’elenco di poteri riconosciuti all’amministratore. La gravità delle condizioni del beneficiario va accertata combinando vari criteri. Tribunale di Ancona, sez. dist. Jesolo, 17 marzo 2005 Nell’accertamento del livello di gravità dello stato psichico dell’amministrando, va ritenuto che l’idoneità dell’amministrazione di sostegno deve anche ricavarsi dalla valutazione combinata di criteri eterogenei: nel caso di un minimo di soglia di comprensione e di un modesto reddito e patrimonio, ben può farsi luogo alla misura di amministratore di sostegno. Il rifiuto di una operazione chirurgica molto invasiva può giustificare un trattamento sanitario obbligatorio ma non la nomina di un amministratore di sostegno. Tribunale di Milano, 11 marzo 2005 Nel caso di persona ricoverata che rifiuta di sottoporsi all’intervento chirurgico di amputazione di un arto, e in merito a ricorso proposto dal PM sul presupposto della sua infermità psichica e di “un totale quadro di inconsapevolezza della malattia” e la incapacità conseguente “di fornire consapevolmente un consenso informato dell’intervento” ritenuto dai medici indispensabile a salvarne la vita, il G.T. rigetta la domanda di nomina dell’amministratore di sostegno, ritenendo che nella specie trovano invece necessaria applicazione le norme previste dagli articoli 33 e seguenti della legge n. 833/1978 che consentono i trattamenti sanitari obbligatori nei confronti di persone affette da malattia mentale. La nomina di un amministrazione di sostegno è possibile solo quando residuano spazi di autonomia nel beneficiario. Tribunale Bari, 3 febbraio 2005 In funzione dell’individuazione della più adeguata forma di protezione delle persone, va considerato lo spazio di autonomia residuante in capo all’infermo, sì da collocarlo MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA sulla soglia minima di capacità che la legge riconosce indefettibilmente al beneficiario dell’amministrazione di sostegno (nella specie, la carenza era stata riscontrata nella gestione delle risorse patrimoniali, in termini di conservazione, utilizzazione e valorizzazione delle stesse, richiedendo ciò capacità adattative.) L’amministrazione di sostegno presuppone una impossibilità parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi. Tribunale di Roma, sez. I, 28 gennaio 2005 A norma dell’art 404 cod. civ., si applica la misura dell’amministratore di sostegno a chi si trovi, per effetto di menomazione fisica o psichica, nella impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi, al fine di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità d’agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia; mentre la diversa misura dell’interdizione risulta più idonea quando il caso concreto sia tale che gli interessi dell’incapace non possano essere adeguatamente tutelati con la misura di cui si tratta. L’interdizione è misura residuale rispetto all’amministrazione di sostegno. Tribunale di Modena, 15 novembre 2004 Nel rinnovato sistema degli istituti a protezione degli incapaci introdotto dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, la misura della interdizione è meramente residuale, potendo trovare applicazione esclusivamente nei casi in cui l’amministrazione di sostegno, strumento di protezione di carattere generale delle persone non in grado di provvedere ai propri interessi, risulti in concreto inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario. L’interdizione è misura residuale rispetto all’amministrazione di sostegno. Tribunale di Pinerolo, 4 novembre 2004 A seguito dell’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2004 n. 6, nessun infermo di mente incapace di provvedere ai propri interessi deve essere interdetto, atteso che la nuova formulazione dell’art. 414 cod. civ. prevede l’interdizione soltanto quando ciò sia necessario per assicurare la sua adeguata protezione, e quindi allorché gli altri strumenti di protezione approntati dal codice civile - in primis l’amministrazione di sostegno - si rivelino inadeguati. L’età avanzata e la mancanza di autonomia della persona sono elementi sufficienti per la nomina di un amministratore di sostegno. Tribunale di Milano, 13 luglio 2004 L’età avanzata e la mancanza di iniziativa e di autonomia della persona nel recarsi al di fuori della propria abitazione, e quindi la mancanza di eventualità di esporsi a pericoli derivanti da comportamenti approfittatori di estranei, se pure vi è il sospetto che comportamenti di circonvenzione possano essersi verificati nel recente passato in suo danno, fanno ritenere sufficiente la nomina di un amministratore di sostegno., che vigili sulle sue modalità di vita, sui suoi contatti con l’esterno e che la rappresenti negli atti di gestione patrimoniale. Non sussistono nel caso di specie quelle esigenze di protezione totale nei confronti della beneficiaria derivanti essenzialmente dalle iniziative imprevedibili od oppositive della stessa. Se il decreto di nomina di amministratore di sostegno si dovesse rilevare insufficiente nel tempo, potrà essere di volta in volta integrato, così come previsto dalla legge. Se poi lo strumento dell’amministrazione di sostegno dovesse dimostrarsi insufficiente, si potrà in futuro chiedere l’interdizione. L’interdizione è misura residuale rispetto all’amministrazione di sostegno. Tribunale di Modena, 7 giugno 2004 Ai fini della pronuncia dell’interdizione o della inabilitazione occorre accertare l’esistenza di una menomazione psichica di tale gravità, nella diversa gradazione richiesta, rispettivamente, per la interdizione o l’inabilitazione, da rappresentare un habitus normale del soggetto. Ove non ricorra tale situazione, trattandosi di un disturbo provvisorio, episodico, non ancora stabilizzato e suscettibile di evoluzione, può essere disposta solo l’amministrazione di sostegno prevista dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6. Deve essere pronunciata l’interdizione se manca la capacità di intendere e di volere. Tribunale di Firenze, 3 giugno 2004 Deve essere pronunciata l’interdizione quando nel destinatario della misura richiesta manchi una residua capacità di intendere e di volere. L’interdizione è misura residuale rispetto all’amministrazione di sostegno. Tribunale di Palmi, 24 maggio 2004 La norma in materia di interdizione non solo non impone più, automaticamente, l’applicazione di tale misura per i soggetti totalmente incapaci di provvedere ai propri interessi, ma si inscrive in un sistema la cui finalità è di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità d’agire, lepersone prive in tutto o in parte di autonomia. Tale finalità impone un profonda modifica dei presupposti applicativi dell’interdizione poiché l’adozione di tale strumento richiede una previa valutazione della sua adeguatezza e proporzione rispetto ai bisogni di tutela del soggetto. Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno deve avere una autonomia e una capacità, per quanto ridotte. Tribunale di Torino, 22 maggio 2004 Il destinatario del provvedimento di amministrazione di sostegno deve mantenere quanto meno in misura ridotta una propria autonomia e capacità, risultando da un lato, per il giudice, tener conto anche delle richieste formulate dallo stesso beneficiario, e dall’altro per l’amministratore informare il beneficiario dei diversi atti da compiere, raccogliendo il suo assenso e considerando nel proprio agire anche le aspirazioni di questi.La residua capacità del beneficiario (soggetto che dialoga con il proprio amministratore e con il giudice) non può essere compressa sino al punto che la manifestazione del consenso a trattamenti sanitari e terapeutici possa essere prestata dall’a.s., in totale sostituzione del beneficiario. Solo nell’ipotesi di interdizione è legittima la sostituzione nella prestazione del consenso informato, (ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Oviedo 4 aprile 1997, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 28 marzo 2001, n. 145). L’amministrazione di sostegno non è applicabile ai soggetti privi di capacità di agire. Tribunale di Torino, sez. dist. di Moncalieri, 15 maggio 2004 L’istituto dell’amministratore di sostegno non è applicabile ai soggetti apparentemente privi della capacità di agire, se non in via d’urgenza con provvedimento di natura necessariamente provvisoria. Procedimento L’amministratore di sostegno può essere nominato anche in pendenza di un procedimento di interdizione. Tribunale di Messina, 23 agosto 2005 Promosso il giudizio di interdizione ma non ancora no- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 25 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA minato il giudice istruttore, il giudice tutelare è competente per la nomina di un amministratore di sostegno al fine di assicurare al beneficiato il compimento delle attività indispensabili alla sua sussistenza e cura, e salva l’applicazione dell’art. 413 cod. civ. ultimo comma. telare. Sul piano formale, una volta che il giudice istruttore abbia valutato come più opportuna l’amministrazione di sostegno, è da escludere la possibilità di un conflitto per una differente valutazione di opportunità da parte del giudice tutelare. Il giudice istruttore quando ritiene che debba essere disposta l’amministrazione di sostegno deve chiedere al tribunale di trasmettere gli atti del processo di interdizione al giudice tutelare. Tribunale di Bologna, 11 luglio 2005 Al fine di decidere se disporre l’interdizione o nominare un amministratore di sostegno, non assume rilievo il criterio della gravità o della natura dell’infermità, ma quello delle concrete esigenze di protezione del soggetto incapace. Qualora nel corso del giudizio di interdizione o di inabilitazione appare opportuno applicare l’amministrazione di sostegno, è necessario che il tribunale respinga con sentenza la domanda principale, provvedendo a trasmettere con ordinanza il procedimento al giudice tutelare. Il procedimento per l’amministrazione di sostegno può essere promosso dal giudice istruttore durante il giudizio di interdizione con invio del fascicolo al giudice tutelare. Tribunale di Cagliari, 19 gennaio 2005 Se il giudice istruttore nel corso del giudizio di interdizione ritiene applicabile l’amministrazione di sostegno, trasmette il procedimento al giudice tutelare con ordinanza, operando così un mutamento del rito con trasferimento ad altro organo del medesimo ufficio giudiziario; onde non deve farsi luogo a sospensione del procedimento davanti al giudice istruttore, ma a trasmissione definitiva del fascicolo al giudice tutelare. Il ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno può essere presentato dall’assistente sociale. Tribunale di Roma, 19 febbraio 2005 È ammissibile il ricorso presentato personalmente dall’assistente sociale, sia perché si tratta di responsabile del Servizio Sociale che ha in cura (...), sia perché la particolare posizione di taluni soggetti legittimati a proporre ricorso (con particolare riferimento, per l’appunto, ai responsabili dei Servizi Sociali, art. 406, 3° co.,cod. civ.), la natura non contenziosa del procedimento (desumibile, tra l’altro, dall’attribuzione della competenza al giudice tutelare e dalla non idoneità al giudicato del provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno in considerazione della mutevolezza della situazione sostanziale sulla quale viene ad incidere, artt. 407, 4° co., e 413 cod. civ.), la finalità preminente del nuovo istituto di assicurare un sistema facilmente accessibile di adeguata gestione degli interessi del beneficiario inducono ad escludere l’applicabilità al procedimento in esame del principio dell’onere del patrocinio previsto dall’art. 82 c.p.c. (Cass. 3 luglio 1987, n. 5814). Il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno ha natura contenziosa. Corte d’Appello Milano, 15 febbraio 2005 Nell’amministrazione di sostegno il procedimento di nomina è strutturato sul modello dell’interdizione e inabilitazione quale procedimento contenzioso che verte su diritti e status soggettivi con la conseguente necessità che le parti siano assistite da un difensore tecnico come previsto dall’art. 82 c.p.c. Il giudice istruttore quando ritiene che debba essere disposta l’amministrazione di sostegno può trasmettere direttamente gli atti del processo di interdizione al giudice tutelare. Tribunale di Cagliari, 19 gennaio 2005 La formulazione letterale dell’art. 418, 3°co., c.p.c., (“trasmissione del procedimento”, e non degli atti, al giudice tutelare) costituisce, di per sé, argomento per escludere che il legislatore abbia inteso disporre uno sdoppiamento, per così dire, dei procedimenti, dovendosi invece ritenere che la previsione normativa si ponga piuttosto sul piano del mutamento del rito (poiché appare caratterizzante l’aspetto dell’iter processuale, piuttosto che quello formale della difformità della pronuncia finale rispetto alla domanda originaria), con trasferimento ad altro organo del medesimo ufficio giudiziario; onde non deve farsi luogo a sospensione del procedimento davanti al giudice istruttore, ma a trasmissione definitiva del fascicolo al giudice tu- 26 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE Azione revocatoria Il coniuge assegnatario dell’abitazione coniugale non può esperire l’’azione revocatoria a tutela dell’assegnazione della casa familiare venduta dal coniuge proprietario. Cass. sez. II, 22 maggio 2007, n. 11830 Pur non potendosi disconoscere che nel concetto di credito rientrano non solo situazioni giuridiche aventi ad oggetto la prestazione di dare somme di denaro., ma anche quelle inerenti a prestazioni di fare, o di non fare, ovvero di consegna o rilascio, dal collegamento tra l’art. 2901, c.c., delineante i presupposti dell’azione revocatoria. e l’art. 2902, c.c., indicante i possibili effetti della pronuncia favorevole, si deduce che l’azione, c.d. pauliana, non tutela l’esecuzione in forma specifica ed obbligazioni diverse da quelle pecuniarie, ma ha la sola funzione di ricostituire la garanzia generica assicurata al creditore ex art. 2740, c.c., dal patrimonio del debitore, nel caso in cui la consistenza di esso sia stata ridotta, da uno o più atti dispositivi, al punto da pregiudicare la realizzazione coattiva del diritto del creditore, ed è correlata all’esercitabilità al suo esito dell’azione esecutiva, a norma dell’art. 602 e ss., c.p.c., sul bene od i beni il cui trasferimento abbia pregiudicato le ragioni del creditore (cfr.: cass. civ., sez. II, sent. 25 maggio 2001, n. 7127; cass. civ., sez. I, sent. 19 dicembre 1996, n. 11349 ; cass. civ ., sez. II, sent. 18 febbraio 1991, n. 1691). In coerenza con detta funzione conservativa della garanzia patrimoniale, l’azione non determina, ove esperita vittoriosamente, il travolgimento dell’atto di disposizione posto in essere dal debitore, come si era dubitato nella vigenza dell’art. 1235, c.c. 1865, ma soltanto la sua inefficacia relativa, consentendo al solo creditore che abbia agito per la revoca di procedere nei limiti del suo diritto di credito all’espropriazione contro il terzo divenuto proprietario del bene alienato con le formalità specificamente previste per detta esecuzione e di essere preferito nel soddisfacimento della sua pretesa rispetto ai creditori di quest’ultimo. Attraverso l’istituto della revocazione non è conseguentemente possibile ottenere la tutela specifica del diritto all’abitazione nella casa familiare, attribuito al coniuge con il provvedimento di assegnazione emanato in un giudizio di separazione personale o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nei confronti del terzo acquirente dell’immobile dall’altro coniuge che ne era proprietario, né in via di azione mediante la richiesta di ini- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA bire all’acquirente di chiederne la consegna in conseguenza dell’atto di acquisto (cfr.: cass. civ., sez. I, sent. 8 aprile 2003, n. 5455) e né in via di eccezione all’esecuzione per rilascio da questo promossa. Comodato Il comodante può richiedere la restituzione della casa familiare concessa in comodato solo per sopravvenienza di un urgente ed imprevedibile bisogno. Cass. Sez. III, 18 luglio 2008, n. 19939 Qualora un terzo ha concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare il successivo provvedimento di assegnazione nel giudizio di separazione o divorzio non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento sull’immobile che resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della famiglia prima della separazione. Pertanto se il comodato era a tempo indeterminato, il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevedibile bisogno ai sensi dell’art. 1809, comma 2, c.c. L’assegnazione della casa coniugale occupata in regime di comodato senza termine non può essere opposta al comodante che ne chieda il rilascio. Cassazione sezione I, 13 febbraio 2007, n. 3179 Gli effetti riconducibili al provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, che legittima l’esclusione di uno dei coniugi dall’utilizzazione in atto e consente la concentrazione del godimento del bene in favore della persona dell’assegnatario, restano regolati dalla stessa disciplina già vigente nella fase fisiologica della vita matrimoniale (Cassazione Sezione unite 2004/13603). Ne consegue pertanto che ove, come nella specie, si tratti di comodato senza la fissazione di un termine predeterminato - cd. precario - il comodatario è tenuto a restituire il bene quando il comodante lo richieda (articolo 1810 cc.) e che il diritto di recesso del proprietario è stato legittimamente esercitato. L’assegnazione della casa familiare è opponibile anche al comodante. Cass. sez. unite, 21 luglio 2004, n. 13603 Nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario non modifica la natura e il contenuto del titolo di godimento sull’immobile che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente e impreveduto bisogno, ai sensi dell’articolo 1809, comma 2, del codice civile. Diritti dei terzi Il terzo acquirente della casa assegnata non può pretendere il pagamento di indennità dall’assegnatario. Cass. sez. I, 15 settembre 2004, n. 18574 Nel caso di assegnazione della casa familiare ai sensi dell’articolo 155 del codice civile e 6, comma 6, della legge sul divorzio, il terzo acquirente del bene in epoca successiva al provvedimento di assegnazione è tenuto, negli stessi limiti di durata nei quali è a lui opponibile il provvedimento stesso, a rispettare il godimento del coniuge del suo dante causa, nello stesso contenuto e nello stesso regime giuridico propri dell’assegnazione, quale vincolo di desti- nazione collegato all’interesse dei figli. Ne consegue che, per detta durata, in caso di assegnazione della casa coniugale di proprietà dell’altro coniuge, è escluso qualsiasi obbligo di pagamento di un’indennità all’acquirente da parte del beneficiario di tale godimento, atteso che ogni forma dì corrispettivo verrebbe a snaturare la funzione stessa dell’istituto, in quanto incompatibile con la sua finalità di tutela della prole e inciderebbe direttamente sull’assetto dei rapporti patrimoniali fra i coniugi del quale l’assegnazione costituisce un elemento, potendo l’acquirente che al momento della stipula dell’atto di acquisto ignorava l’esistenza del provvedimento di assegnazione agire unicamente nei confronti del suo dante causa avvalendosi di ogni forma di tutela prevista dall’ordinamento. Contro il terzo che si trova nella casa familiare non può essere fatto valere il provvedimento di assegnazione. Cass. sez. I, 17 settembre 2003, n. 13664 Il provvedimento di rilascio della casa familiare emanato nei confronti del coniuge proprietario esclusivo dell’immobile, non può essere fatto utilmente valere nei confronti del terzo, che si trovi nel godimento dell’immobile in forza di un titolo (nella specie locazione contratta dopo che i coniugi si erano trasferiti altrove) che gli assicura un possesso autonomo, incompatibile con la pretesa fatta valere in via esecutiva, sin quando il creditore procedente non si sia munito di un titolo esecutivo valido nei confronti del terzo, che cessi, così, di essere tale. Il terzo acquirente può agire contro il venditore dell’abitazione gravata da vincolo di assegnazione. Cass. sez. I, 8 aprile 2003, n. 5455 Il diritto riconosciuto al coniuge, non titolare di un diritto di proprietà o di godimento, sulla casa coniugale, con il provvedimento giudiziale di assegnazione di detta casa in sede di separazione o divorzio, ha natura di diritto personale di godimento e non di diritto reale. Di conseguenza, l’acquirente del bene gravato da siffatto diritto di godimento da parte del terzo-assegnatario può agire facendo valere la responsabilità del venditore ai sensi dell’art. 1489 codice civile (ed eventualmente, nei limiti del richiamo ivi contenuto, dagli art. 1480, 1481, 1485, 1486, 1487 e 1488 codice civile). E, per il richiamo compiuto dall’art. 1480, all’art. 1223 codice civile, l’acquirente può agire anche chiedendo il risarcimento del danno, secondo le regole generali. Diritti e doveri dell’assegnatario Solo il provvedimento di assegnazione in sede di separazione può far nascere il diritto del coniuge non originariamente locatario a subentrare nel contratto di locazione di edilizia residenziale pubblica. Cass. sez. III, 19 giugno 2008, n. 16627 Le norme che regolano gli effetti della separazione personale e i rapporti di locazione di natura privata sono applicabili anche in materia di edilizia residenziale pubblica. Il coniuge separato ha pertanto diritto alla conservazione del contratto di locazione in corso (nella specie locazione agevolata di immobile urbano residenziale pubblico di proprietà IACP) solo quando l’alloggio gli è stato assegnato con provveidmento del giudice. In mancanza di tale espressa attribuzione l’alloggio rimane assegnato all’originario avente diritto ed eventuali provvedimenti caducativi dell’assegnazione non rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario. Le spese condominiali spettano all’assegnatario. Cass. sez. I, 22 febbraio 2006, n. 3836 L’assegnazione della casa coniugale esonera l’assegnata- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 27 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA rio esclusivamente dal pagamento del canone, cui altrimenti sarebbe tenuto nei confronti del proprietario dell’immobile assegnato, onde, qualora il giudice attribuisca a uno dei coniugi l’abitazione di proprietà dell’altro, la gratuità di tale assegnazione si riferisce solo all’uso dell’abitazione medesima, ma non si estende alle spese correlate a detto uso (comprese quelle, del genere delle spese condominiali, che riguardano la manutenzione delle cose comuni poste a servizio anche dell’abitazione familiare), onde simili spese, in mancanza di un provvedimento espresso che ne accolli l’onere al coniuge proprietario, sono a carico del coniuge assegnatario. L’ICI va pagata dal proprietario e non dall’assegnatario. Cass. sez. I, 19 settembre 2005, n. 18476 Le spese correlate al godimento dell’immobile, ivi comprese quelle per gli oneri condominiali, imposte e tasse sono a carico del coniuge assegnatario, anche se non proprietario dell’immobile, ad eccezione di quelle per l’ICI; e che la competenza a conoscere della causa promossa per il rimborso delle spese versate va determinata secondo le regole comuni, non trovando deroga in favore del giudice competente per la separazione (o per il divorzio) o di quello competente per la modifica del relativo provvedimento. L’assegnatario non è tenuto a corrispondere alcun compenso al terzo acquirente dell’immobile assegnato. Cass. sez. I, 29 agosto 2003, n. 12705 Il principio ormai maturato nell’esperienza giurisprudenziale che l’assegnazione della casa familiare non integra una componente delle obbligazioni patrimoniali conseguenti alla separazione o al divorzio, ma svolga una essenziale funzione di tutela dei figli, che consente di inscrivere l’assegnazione della casa nell’ambito del regime primario della famiglia comporta che l’assegnazione della casa coniugale, pur certamente risolvendosi in una utilità valutabile economicamente in misura corrispondente al risparmio della spesa necessaria per il godimento di quell’immobile a titolo di locazione, e quindi certamente influente ai fini della concreta determinazione della misura dell’assegno, si configura come misura intrinsecamente gratuita. Divisione L’assegnazione della casa familiare comporta una decurtazione del valore dell’immobile. Cass. sez. II, 15 ottobre 2004, n. 20319 L’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l’immobile non appartenga in via esclusiva, instaura un vincolo (opponibile anche ai terzi per nove anni e, in caso di trascrizione, senza limite di tempo) che oggettivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non venga eventualmente modificato; ne consegue che di tale decurtazione deve tenersi conto indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro coniuge, ovvero venduto a terzi in caso di sua infrazionabilità in natura. Famiglia di fatto In caso di cessazione della convivenza more uxorio il genitore affidatario dei figli naturali può chiedere l’assegnazione della casa familiare. Cass. sez. I, 26 maggio 2004, n. 10102 In tema di famiglia di fatto e nell’ipotesi di cessazione 28 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 della convivenza more uxorio, l’attribuzione giudiziale del diritto di (continuare ad) abitare nella casa familiare al convivente cui sono affidati i figli minorenni o che conviva con figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti per motivi indipendenti dalla loro volontà è da ritenersi possibile per effetto della sentenza n. 166 del 1998 della Corte costituzionale, che fa leva sul principio di responsabilità genitoriale, immanente nell’ordinamento e ricavabile dall’interpretazione sistematica degli art. 261 (che parifica doveri e diritti del genitore nei confronti dei figli legittimi e di quelli naturali riconosciuti), 147 e 148 (comprendenti il dovere di apprestare un’idonea abitazione per la prole, secondo le proprie sostanze e capacità) cod. civ., in correlazione all’art. 30 cost. Tale diritto è attribuito dal giudice al coniuge (o al convivente), qualora ne sussistano i presupposti di legge, con giudizio di carattere discrezionale, non suscettibile di sindacato in sede di legittimità se logicamente e adeguatamente motivato, tale da comprimere temporaneamente, fino al raggiungimento della maggiore età o dell’indipendenza economica dei figli, il diritto di proprietà o di godimento di cui sia titolare o contitolare l’altro genitore, in vista dell’esclusivo interesse della prole alla conservazione, per quanto possibile, dell’habitat domestico anche dopo la separazione dei genitori. Ne consegue che è legittimo, se congruamente motivato, il provvedimento del giudice di merito che, in relazione ad una ipotesi di cessazione della convivenza more uxorio, escluda - ritenendola incongrua rispetto al fine di garantire ai figli la continuità dell’habitat domestico - l’eventualità di ridurre l’abitazione a una metà di quella sino ad allora goduta. Filiazione naturale La casa familiare può essere legittimamente assegnata al genitore naturale affidatario anche se l’altro genitore naturale vanti sull’immobile un diritto reale o un diritto reale limitato. Cass. sez. I, 26 maggio 2004, n. 10102 Il diritto all’assegnazione della casa familiare in presenza di figli minori è da ritenersi esteso al convivente di fatto in virtù della sentenza interpretativa di rigetto 166/98 della Corte costituzionale, che fa leva sul principio di responsabilità genitoriale, immanente nell’ordinamento e ricavabile dall’interpretazione sistematica degli art. 261 (che parifica doveri e diritti del genitore nei confronti dei figli legittimi e di quelli naturali riconosciuti), 147 e 148 (comprendenti il dovere di apprestare un’idonea abitazione per la prole, secondo le proprie sostanze e capacità) cod. civ., in correlazione all’art. 30 Cost. Nozione di casa familiare Non può essere oggetto di assegnazione in sede di separazione un immobile che non costituisce casa familiare. Cass. sez. I, 27 febbraio 2009, n. 4816 L’assegnazione della casa familiare prevista all’art. 155, 4° comma, c.c. è consentita unicamente con riguardo a quell’immobile che abbia costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi abbiano la disponibilità. (Nella specie la moglie separata aveva chiesto l’assegnazione come casa coniugale di un appartamento, differente da quello in cui la famiglia aveva vissuto, maggiormente rispondente ai desideri ed alle necessità quotidiane della figlia adolescente). La casa familiare è quella in cui prima della separazione si svolgeva la vita comune della famiglia. Cass. sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1198 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Al fine dell’assegnazione a uno dei coniugi separati o divorziati della casa familiare non basta la mera constatazione della convivenza con figli maggiorenni, ma occorre che si tratti della stessa abitazione in cui si svolgeva la vita della famiglia finché era unita e che i figli maggiorenni conviventi versino, senza loro colpa, in condizione di non autosufficienza economica. Per potersi parlare di casa familiare è necessario il requisito dell’attualità dell’habitat domestico. Cass. sez. I, 18 settembre 2003, n. 13736 L’assegnazione della casa familiare risponde all’esigenza di garantire l’interesse dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, al fine di evitare loro l’ulteriore trauma di un allontanamento dal luogo ove si svolgeva la loro esistenza e di assicurare una certezza e una prospettiva di stabilità in un momento di precario equilibrio familiare. Anche se la concessione del beneficio ha riflessi economici, è vero che l’assegnazione non può essere disposta al fine di sopperire alle esigenze economiche di detto coniuge, a garanzia delle quali è unicamente destinato l’assegno di divorzio. Tale specifica finalità dell’istituto comporta che l’assegnazione non può essere pronunciata in favore del coniuge affidatario ove in concreto al momento della domanda l’immobile non si configuri più come casa familiare per essersi per qualsiasi ragione quell’habitat domestico già disciolto. Presupposti L’assegnazione della casa familiare è subordinata all’interesse dei figli. Cass. sez. I, 18 febbraio 2008, n. 3934 Il previgente art. 155 del c.c., nel testo fino all’entrata in vigore della legge, 54/2006 e il vigente art. 155quater del c.c., in tema di separazione, come l’art. 6 della legge 898/1970, subordinano l’adottabilità del provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla presenza di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi. In difetto di tale elemento, sia che la casa familiare sia in comproprietà fra i coniugi, sia che appartenga in via esclusiva a uno solo dei coniugi, il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non autorizzandolo neppure l’art. 156 del c.c., che non prevede tale assegnazione in sostituzione o quale componente di mantenimento. L’assegnazione della casa familiare in sede di separazione è finalizzata alla esclusiva tutela dei figli. Cass. sez. I, 14 maggio 2007, n. 10994 In materia di separazione e di divorzio, l’assegnazione della casa familiare, malgrado abbia anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dalla legge n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, (come sostituito dalla legge n. 74 del 1987, art. 11) , risulta finalizzata alla esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta e non può essere disposta, come se fosse una componente degli assegni rispettivamente previsti dagli artt. 156 cod. civ. e 5 legge n. 898 del 1970, allo scopo di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, alle quali sono destinati unicamente gli assegni sopra indicati; pertanto, la concessione del beneficio in parola resta subordinata all’imprescindibile presupposto dell’affidamento di figli minori o della convivenza con figli maggiorenni ad economicamente non autosufficienti. La casa familiare, anche in comproprietà, può essere assegnata solo se vi sono figli. Cassazione sez. I, 22 marzo 2007, n. 6979 In materia di separazione e di divorzio l’assegnazione della casa familiare, malgrado abbia anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dall’articolo 6, comma 6, della legge n. 898 del 1970 (come sostituito dall’articolo 11 della legge n. 74 del 1987), essendo finalizzata all’esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta, non può essere disposta a titolo di componente degli assegni rispettivamente previsti dagli articoli 156 del Cc e 5 della legge n. 898 del 1970, allo scopo di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, al soddisfacimento delle quali sono destinati unicamente gli assegni sopra indicati. Ne consegue che in difetto di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi, sia che la casa familiare sia in comproprietà tra i coniugi, sia che appartenga in via esclusiva a un solo coniuge, il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non autorizzandolo neppure l’articolo 156, che non prevede tale assegnazione in sostituzione o quale componente dell’assegno di mantenimento. In mancanza di una normativa speciale in tema di separazione, la casa familiare in comproprietà è soggetta, infatti, alle norme sulla comunione, al cui regime dovrà farsi riferimento per l’uso e la divisione. Va sollevata la questione di legittimità costituzionale della norma che prevede la revoca dell’assegnazione della casa familiare in caso di nuovo matrimonio del coniuge assegnatario. L’assegnazione presuppone la presenza di figli conviventi. Cass. sez. I, 13 febbraio 2006, n. 3030 Con la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio viene meno lo stato di separazione dei coniugi e, con esso, la regolamentazione dei rapporti tra i medesimi, anche per quanto riguarda l’eventuale assegnazione della casa familiare a uno di loro; sicché il coniuge già assegnatario della casa coniugale che sia anche comproprietario dell’immobile non ha più diritto all’utilizzo esclusivo del bene e il giudice di merito non può, in assenza di figli conviventi, procedere all’assegnazione della casa coniugale in comproprietà tra i coniugi, al coniuge avente diritto all’assegno di mantenimento quale componente di questo, salvo che ricorra un accordo (anche tacito) tra le parti affinché la casa resti in godimento esclusivo a quest’ultimo. Il presupposto per l’assegnazione è la convivenza del genitore assegnatario con i figli. Cass. sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2338 L’assegnazione della casa familiare risponde all’esigenza di garantire l’interesse dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime e si articola la vita familiare. Resta quindi imprescindibile il requisito dell’affidamento di figli minori o della convivenza con figli maggiorenni non autosufficienti; pertanto, se è vero che la concessione del beneficio ha anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dall’articolo 6, comma 6, della legge sul divorzio, nondimeno l’assegnazione della casa familiare non può essere disposta al fine di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, a garanzia delle quali è unicamente destinato l’assegno di divorzio. L’assegnazione della casa familiare può essere disposta solo in presenza di figli. Cass. sez. I, 10 giugno 2005, n. 12295 L’assegnazione della casa familiare risponde all’esigenza gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 29 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA di garantire l’interesse dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, al fine di evitare loro l’ulteriore trauma di un allontanamento dal luogo ove si svolgeva la loro esistenza e di assicurare una certezza e una prospettiva di stabilità in un momento di precario equilibrio familiare. Resta, quindi, imprescindibile il requisito dell’affidamento di figli minori o della convivenza con figli maggiorenni non autosufficienti, pertanto, se è vero che la concessione del beneficio ha anche riflessi economici, nondimeno l’assegnazione della casa familiare non può essere disposta al fine di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, a garanzia delle quali è unicamente destinato l’assegno di divorzio. L’assegnazione della casa in assenza di figli è ammissibile se c’è accordo delle parti. Corte d’appello di Roma, 1° giugno 2005 L’assegnazione della casa coniugale al coniuge che non ne è esclusivo proprietario deve ritenersi possibile solo in presenza dell’accordo delle parti sul punto e quale componente dell’assegno di mantenimento, nel senso che in tal caso si deve tenere conto del valore economico dell’assegnazione nella liquidazione dell’assegno. Mancando il presupposto richiesto dalla legge per privilegiare uno dei due coniugi nel godimento dell’alloggio in precedenza condiviso, la regolamentazione dei loro diritti sull’immobile esula dalle statuizioni accessorie alla pronuncia di separazione o di divorzio. Ciò non vuol dire che i diritti di ciascun coniuge siano privi di tutela giudiziaria, ma soltanto che devono essere azionati con le domande appropriate e nelle sedi competenti. L’assegnazione della casa familiare presuppone l’affidamento dei figli e non ha la funzione di tutela del coniuge economicamente economicamente più debole. Cass. sez. I, 12 gennaio 2005, n. 408 A norma dell’art. 6 della l. 1° dicembre 1970, n. 898 come sostituito dall’art. 11, l. 6 marzo 1987, n. 74, il favore nei confronti del coniuge più debole non può essere letto separatamente dal contesto in cui la previsione è inserita, ed interpretato come l’enunciazione di un criterio applicabile di per sé, ma va invece messo in relazione al contenuto dell’intero art. 6, l. 1° dicembre 1970, n. 898, che riguarda esclusivamente i rapporti degli ex coniugi con i figli, trovando invece sede nell’art. 5 la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra le parti del giudizio di divorzio. Infatti l’assegnazione della casa familiare risponde all’esigenza di garantire l’interesse dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, al fine di evitare l’ulteriore trauma di un allontanamento dal luogo ove si svolgeva la loro esistenza e di assicurare una certezza ed una prospettiva di stabilità in un momento di precario equilibrio. Resta quindi imprescindibile il requisito dell’affidamento dei figli minori o della convivenza con i figli maggiorenni non autosufficienti; pertanto, se è vero che la concessione del beneficio ha anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dall’art. 6, comma 6, della legge sul divorzio, nondimeno l’assegnazione della casa familiare non può essere disposta al fine di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, a garanzia delle quali è unicamente destinato l’assegno di divorzio. L’assegnazione della casa familiare presuppone l’affidamento dei figli e non ha la funzione di tutela del coniuge economicamente economicamente più debole. Cass. sez. I, 17 dicembre 2004, n. 23570 30 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 L’assegnazione della casa familiare a uno dei coniugi in caso di separazione personale degli stessi, presuppone che allo stesso siano affidati i figli minorenni o che con lo stesso convivano figli maggiorenni non autosufficienti economicamente, rimanendo centrale nella stessa ratio della disposizione di cui all’art. 155 cod. civ. non già una finalità di contribuzione economica alle esigenze del coniuge più debole, ma il profilo della tutela dell’habitat domestico, con tutto il complesso di valori in esso sintetizzati, se e fino a quando permanga questo contesto di convivenza. L’assegnazione della casa familiare, in assenza di figli, non può essere disposta per sopperire alle esigenze di mantenimento del coniuge economicamente più debole. Cass. sez. I, 1° dicembre 2004, n. 22500 Anche nel vigore della l. 6 marzo 1987, n. 74, il cui art. 11 ha sostituito l’art. 6 della l. 1° dicembre 1970, n. 898, la disposizione del comma 6 di quest’ultima norma, in tema di assegnazione della casa familiare, consente il sacrificio della posizione del coniuge titolare di diritti reali o personali sull’immobile adibito ad abitazione coniugale, mediante assegnazione della stessa in sede di divorzio dall’altro coniuge, solo alla condizione della sua convivenza con figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti. In assenza di tale condizione, coerente con la finalizzazione dell’istituto alla tutela della prole, l’assegnazione non può essere disposta, in favore del coniuge ritenuto economicamente più debole, in funzione integrativa o sostitutiva dell’assegno divorzile, dovendo per converso tenersi conto, ai fini della determinazione di detto assegno, dell’eventuale esborso economico del coniuge per le proprie esigenze abitative. L’assegnazione della casa familiare in sede di separazione è ammissibile solo a tutela dei figli e non può essere disposta per sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole. Cass. sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309 L’assegnazione al coniuge non titolare di diritti reali sull’abitazione ha natura eccezionale rispetto alle regole della proprietà ed è ammissibile solo ove vi siano figli minori o maggiorenni non autosufficienti. L’assegnazione della casa familiare non può essere strumento di perequazione economica tra i coniugi ma è ammissibile solo a tutela dei figli. Cass. sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309 In materia di separazione e di divorzio, l’assegnazione della casa familiare, malgrado abbia anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dall’art. 6, comma 6, della legge n. 898 del 1970 (come sostituito dall’art. 11 della legge n. 74 del 1987), risulta finalizzata alla esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta, non potendo essere disposta, a titolo di componente degli assegni rispettivamente previsti dagli arte. 156 cod. civ. e 5 della legge n. 898 del 1970, allo scopo di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, a garanzia delle quali sono destinati unicamente gli assegni sopra indicati, onde la concessione del beneficio in parola resta subordinata all’imprescindibile presupposto dell’affidamento di figli minori o della convivenza con figli maggiorenni ed economicamente non autosufficienti, laddove, nell’ipotesi in cui l’alloggio “de quo” appartenga in proprietà ad uno solo dei coniugi e manchino figli in possesso dei requisiti anzidetti, il titolo di proprietà vantato da quest’ultimo preclude ogni eventuale assegnazione dell’immobile all’altro, rendendo poi ridondante e superflua ogni e qualsivoglia pronuncia di assegnazione in favore del coniuge proprietario. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA L’assegnazione della casa familiare, in assenza di figli, non può essere disposta per sopperire alle esigenze di mantenimento del coniuge economicamente più debole. Cass. sez. I, 25 maggio 2004, n. 10004 In tema di separazione giudiziale dei coniugi l’assegnazione della casa familiare ha carattere eccezionale ed è finalizzata alla tutela degli interessi della prole, senza, cioè, che l’assegnazione medesima risulti previsti in funzione della debolezza economica di uno dei coniugi, alle cui esigenze sono destinati, rispettivamente, l’assegno di mantenimento e l’assegno divorzile, onde il giudice, in assenza di figli conviventi, impregiudicata la possibilità di incrementare correlativamente la misura di ciascuno dei due indicati emolumenti, non può, salvo che ricorra un accordo tra le parti affinché il godimento della casa sopra menzionata sia attribuito al coniuge avente diritto a uno dei riferiti assegni quale componente di questo, assegnare l’immobile a quella tra dette parti che ritenga più debole, tanto nel caso in cui l’immobile stesso appartenga in proprietà esclusiva all’altro coniuge, quanto nel caso in cui tale immobile risulti in comproprietà tra i medesimi coniugi. L’assegnazione della casa familiare ha carattere eccezionale e perciò, in assenza di figli, non può essere disposta per sopperire alle esigenze di mantenimento del coniuge economicamente più debole. Cass. sez. I, 18 settembre 2003, n. 13747 In tema di separazione personale dei coniugi, la disposizione dell’articolo 155 del codice civile che attribuisce al giudice il potere di assegnare il diritto di abitare la casa familiare al coniuge affidatario, che non sia contitolare o esclusivo titolare del diritto di godimento dell’immobile, ha carattere eccezionale ed è dettata nell’esclusivo interesse della prole, sicché essa non è invocabile, neppure in via di interpretazione estensiva, con riferimento alla posizione del coniuge non affidatario dei figli, ancorché avente diritto al mantenimento, al quale, pertanto, il predetto diritto non può essere attribuito neppure ex articolo 156 del codice civile, che conferisce al giudice il potere di imporre al coniuge obbligato al mantenimento l’adempimento dell’obbligo in forma diretta e non mediante prestazione pecuniaria. L’assegnazione della casa familiare ha carattere eccezionale e perciò, in assenza di figli, non può essere disposta per sopperire alle esigenze di mantenimento del coniuge economicamente più debole. Cass. sez. I, 2 luglio 2003, n. 10417 Ove la casa coniugale risulti di titolarità esclusiva di uno dei coniugi essa non si rende suscettibile di assegnazione all’altro coniuge se non quando e se quest’ultimo risulti affidatario di figli minorenni o comunque abbia conviventi con sé figli maggiorenni non auto sufficienti economicamente, né la sua assegnazione può rispondere alla finalità di costituire una forma surrettizia di contribuzione economica, atta a giustificare - perciò e di per sé - in caso di sopravvenuto difetto dei suoi presupposti, un riequilibrio delle posizioni economiche. Posto invero che la norma di cui all’articolo 6 della legge 898/1970 è disposizione di carattere eccezionale dettata dall’esclusivo interesse della prole convivente, e non certamente prevista, in funzione di contemperamento della debolezza economica di uno dei coniugi, deve escludersi che il giudice possa, in assenza di figli meritevoli della tutela predetta, assegnare la casa familiare al coniuge che sull’immobile non vanti alcun diritto né reale, né personale. L’assegnazione della casa coniugale non può essere utilizzata come strumento per realizzare il diritto al mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri. Cass. sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2214 L’assegnazione della casa coniugale è finalizzata alla protezione della prole e non è prevista in funzione della debolezza economica di uno dei coniugi, alle cui esigenze è destinato l’assegno di mantenimento, con la conseguenza che il giudice non può, in assenza di figli conviventi, assegnare la casa coniugale di proprietà di uno dei coniugi all’altro che ritenga più debole. L’assegnazione della casa coniugale non può essere utilizzata come strumento per realizzare (in tutto o in parte) il diritto al mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri. L’assegnazione della casa familiare, in assenza di figli, non può essere disposta per sopperire alle esigenze di mantenimento del coniuge economicamente più debole. Cass. sez. I, 17 gennaio 2003, n. 661 Nell’ipotesi in cui l’alloggio coniugale appartenga in proprietà a uno solo dei due coniugi e, per l’assenza di figli minori affidati all’altro coniuge o comunque con lo stesso conviventi, non vi siano pronunce da assumere in ordine alloro affido e/o mantenimento, il titolo di proprietà vantato dal coniuge, se preclude ogni eventuale assegnazione dell’alloggio all’altro coniuge, rende altresì ridondante e superflua ogni e qualsivoglia pronuncia di assegnazione dell’alloggio medesimo in favore del coniuge proprietario. Revoca La revoca dell’assegnazione della casa coniugale non può essere mai automatica ma è subordinata ad un giudizio di conformità all’interesse del minore. Corte costituzionale, 30 luglio 2008, n. 308 L’articolo 155 quater cod. civ., ove interpretato, sulla base del dato letterale, nel senso che la convivenza more uxorio o il nuovo matrimonio dell’assegnatario della casa sono circostanze idonee, di per se stesse, a determinare la cessazione dell’assegnazione, non è coerente con i fini di tutela della prole, per i quale l’istituto è sorto. La norma va interpretata nel senso che l’assegnazione della casa coniugale non viene meno di diritto al verificarsi degli eventi di cui si tratta (instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo matrimonio), ma che la decadenza dell’assegnazione è subordinata ad un giudizio di conformità all’interesse del minore. La revoca dell’assegno di mantenimento non comporta necessariamente anche la revoca dell’assegnazione della casa familiare. Cass. sez. I, 22 aprile 2005, n. 8539 La revoca dell’assegno dovuto dal padre al figlio maggiorenne non comporta necessariamente che il figlio sia da considerarsi autosufficiente e che di conseguenza debba essere revocata anche l’assegnazione della casa familiare alla madre con la quale il figlio continua a convivere. Trascrizione e opponibilità L’assegnazione della casa familiare dopo il novennio non è opponibile al terzo acquirente se non è stata trascritta. Cass. sez. I, 18 settembre 2009, n. 20144 Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, dettata con riferimento al procedimento di divorzio, ma applicabile anche in tema di separazione personale dei coniugi, il provvedimento di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario della prole, avendo per definizione data certa, deve ritenersi opponibile, anche se non trascritto, al terzo acquirente dell’immobile in data successiva, limitatamente al periodo di nove anni, decorrente dalla data del gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 31 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA provvedimento di assegnazione, mentre per il periodo eccedente i nove anni, il provvedimento di assegnazione è opponibile al terzo acquirente solo se trascritto prima dell’acquisto. In tema di assegnazione della casa coniugale, il provvedimento di attribuzione, una volta scaduti i nove anni dalla data di sua emissione, non è di per sé solo, senza trascrizione, opponibile al terzo che acquista l’immobile dall’altro coniuge, il quale ne è proprietario esclusivo. È inammissibile la trascrizione della domanda di assegnazione della casa familiare. Tribunale di Pisa, 13 febbraio 2008 Non è trascrivibile la domanda di assegnazione della casa familiare formulata con il ricorso di separazione. Non si ricava nella disciplina della trascrizione un principio generale in virtù del quale sono suscettibili di trascrizione tutte le domande giudiziali che si riferiscono agli atti suscettibili di trascrizione, ponendo, al contrario, l’articolo 2652 c.c. la regola secondo cui si devono trascrivere, qualora si riferiscono ai diritti menzionati nell’articolo 2643 c.c., solo alcune domande giudiziali, tassativamente indicate, agli effetti per ciascuna di essa previsti. Tutto ciò anche se tale sistema desta non poche perplessità, in quanto lascia privo di efficace tutela i coniuge e i figli nel lasso di tempo, non sempre breve, tra la data del deposito del ricorso introduttivo del procedimento di separazione e divorzio e l’adozione dei provvedimenti presidenziali provvisori ed urgenti. L’assegnazione è opponibile al terzo acquirente per nove anni se non è trascritta. Cass. sez. I, 10 giugno 2005, n. 12296 Ai sensi dell’articolo 6, comma 6 della legge 898/1970, nel testo sostituito dall’articolo 11 della legge 74/1987, applicabile anche in tema di separazione personale, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell’assegnazione, ovvero, ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto, anche oltre i nove anni. Il provvedimento di assegnazione a favore del coniuge non affidatario di figli è abnorme e non può essere opposto a chi ha sull’immobile un diritto reale. Cass. sez. I, 4 maggio 2005, n. 9253 Il giudice della separazione non ha il potere di disporre l’assegnazione della casa in base all’art. 155, comma 4 cod. civ. a favore del coniuge che non sia affidatario dei figli. Il provvedimento di assegnazione emanato dal giudice della separazione al di fuori di tali presupposti costituisce un provvedimento aspecifico di autorizzazione ad abitare che non può essere opposto a colui che, già titolare di un diritto reale sull’immobile, lo aveva concesso a titolo di comodato. È pienamente ammissibile la trascrizione del provvedimento di assegnazione al genitore naturale della casa familiare. Corte cost. 12 ottobre 2005, n. 394 Come il diritto del figlio naturale a non lasciare l’abitazione in seguito alla cessazione della convivenza di fatto fra i genitori non richiede un’apposita previsione (Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166), anche il diritto del genitore affidatario di prole naturale ad ottenere la trascrizione del provvedimento di assegnazione non necessita di un’autonoma previsione, dal momento che risponde alla stessa ratio di tutela del minore ed è strumentale a rafforzarne il contenuto: il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli e di garantire loro la permanenza nel medesimo am- 32 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 biente in cui hanno vissuto con i genitori deve essere assolto tenendo conto, prima che delle posizioni di terzi, del diritto che alla prole deriva dalla responsabilità genitoriale prevista dall’art. 30 della Costituzione e tesa a favorire il corretto sviluppo della personalità del minore. L’assegnazione della casa familiare è opponibile anche a chi aveva concesso l’abitazione in comodato. Cass. sez. I, 23 marzo 2005, n. 6278 Nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non auto-sufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura e il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determina una concentrazione, nella persona dell’assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentirne la continuazione per l’uso previsto nel contratto, salva la sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno, ai sensi dell’art. 1809, comma 2, del Cc. E’, pertanto, opponibile al proprietario comodante la suddetta assegnazione giudiziale di casa coniugale, se ricorrono gli indicati presupposti di fatto: destinazione a casa familiare del bene concesso in comodato e mancata allegazione e prova, da parte del proprietario comodante, della sopravvenienza di un suo urgente e imprevisto bisogno. L’assegnazione della casa familiare è opponibile nei primi nove anni al terzo acquirente anche senza trascrizione dell’assegnazione. Cass. sez. I, 2 aprile 2003, n. 5067 Ai sensi dell’art. 6, comma 6, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito dall’art. 11 della legge 6 marzo 1987, n. 74) - dettato con riguardo al procedimento di divorzio e applicabile anche in tema di separazione personale dei coniugi - il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché non trascritto, al terzo acquirente l’immobile in data successiva, limitatamente al periodo di nove anni, decorrenti dalla data del provvedimento di assegnazione; per il periodo eccedente i nove anni, invece, il provvedimento di assegnazione in tanto è opponibile al terzo acquirente in quanto sia stato precedentemente trascritto, sicché è irrilevante la conoscenza in fatto da parte del terzo dell’avvenuta assegnazione dell’immobile da lui acquistato, l’unica disciplina dell’opponibilità essendo appunto quella derivante dalla trascrizione e dalla conoscibilità legale dell’atto da parte del terzo. Usufruttuario Solo l’usufruttuario ha diritto a richiedere il rilascio della casa familiare. Cass. sez. I, 18 settembre 2009, n. 20144 Il solo usufruttuario del bene, che è titolare di un diritto reale di godimento, può chiedere il rilascio dell’immobile all’affidataria della prole, che vanta invece un diritto personale di godimento, anche senza l’intervento del nudo proprietario MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA ASSEGNO A CARICO DELL’EREDITÀ Quantificazione L’assegno a carico dell’eredità è un istituto solidaristico postdivorzile e va quantificato in relazione alle complessive condizioni economiche del richiedente e del de cuius. Cass. sez. I, 14 maggio 2004, n. 9185 Nella quantificazione dell’assegno a carico dell’eredità (art. 9 bis della legge sul divorzio), l’entità del bisogno del richiedente deve essere valutata non già con riferimento alle norme dettate da leggi speciali per finalità di ordine generale di sostegno dell’indigenza - le quali sono prive di ogni collegamento con ragioni di solidarietà familiare, che costituiscono, invece, il fondamento della norma in esame - bensì in relazione al contesto socio - economico del richiedente e del de cuius, in analogia a quanto previsto dall’art. 438 cod. civ. in materia di alimenti. ASSEGNO DI SEPARAZIONE E DI DIVORZIO Accertamenti del giudice Il giudice può sempre disattendere le risultanze delle dichiarazioni fiscali. Cass. sez. I, 31 maggio 2007, n. 12764 Le dichiarazioni dei redditi dell’obbligato svolgono una funzione tipicamente fiscale e, in una controversia concernente l’attribuzione o la quantificazione dell’assegno di divorzio, non rivestono valore vincolante per il giudice, il quale, nel suo apprezzamento discrezionale, ben può disattenderle, fondando il suo convincimento su altre risultanze probatorie. Il giudice può rigettare la richiesta di accertamenti tributari se ritiene raggiunta la prova dell’insussistenza dei presupposti per l’assegno. Cass. sez. I, 28 aprile 2006, n. 9861 In tema di divorzio, il giudice del merito, ove ritenga aliunde raggiunta la prova dell’insussistenza dei presupposti che condizionano il riconoscimento dell’assegno di divorzio, può direttamente procedere al rigetto della relativa istanza, anche senza aver prima disposto accertamenti d’ufficio attraverso la polizia tributaria, atteso che l’esercizio del potere officioso di disporre, per il detto tramite, indagini sui redditi e sui patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita rientra nella discrezionalità del giudice del merito e non può essere considerato come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche. Il giudice ha l’obbligo di disporre accertamenti d’ufficio se le parti non riescono a dimostrare i redditi. Cass. sez. I, 17 maggio 2005, n. 10344 Anche in sede di separazione, ricorrendo la stessa ratio, trova applicazione il disposto in via analogica dell’art. 5, comma 9 della legge sul divorzio che prevede il potere del giudice in caso di contestazioni sui redditi di disporre accertamenti d’ufficio (norma, in verità, applicabile alla separazione ex art. 23 legge n.74/1987). Il potere di disporre tali accertamenti costituisce “una deroga alle regole generali sull’onere della prova” nel senso che in difetto di prova da parte dell’interessato gli accertamenti possono essere disposti d’ufficio dal giudice. Tale potere ha naturalmente natura discrezionale - nel senso che il giudice può valutare come superfluo ricorrervi in presenza evidentemente di elementi di convincimento tratti aliunde - ma che ciononostante il giudice “non può rigettare le istanze delle parti relative al riconoscimento e alla determinazione dell’assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali si fondano” facendo capo in tal caso al giudice l’obbligo di disporre accertamenti d’ufficio. Anche i redditi derivanti da lavoro nero hanno rilevanza. Cass. sez. I, 2 novembre 2004, n. 21047 In sede di separazione il giudice, nel ricostruire le situazioni patrimoniali dei rispettivi coniugi al fine di verificarne l’adeguatezza alla conservazione del precedente tenore di vita, può tenere conto del reddito da attività lavorativa non dichiarata. L’inattività lavorativa del richiedente l’assegno può costituire circostanza idonea ad annullare l’altrui obbligo di versarlo, solo se conseguente al rifiuto accertato di effettive e concrete, non meramente ipotetiche, opportunità di lavoro. Cass. sez. I, 2 luglio 2004, n. 12121 L’inattività lavorativa del richiedente l’assegno può costituire circostanza idonea ad annullare l’altrui obbligo altrimenti sussistente - di versarlo, solo se conseguente al rifiuto accertato di effettive e concrete, non meramente ipotetiche, opportunità di lavoro. In effetti, l’attitudine al lavoro proficuo, come potenziale capacità di guadagno, appartiene certamente al novero degli elementi valutabili dal giudice della separazione per definire la misura dell’assegno, dovendo egli considerare a tal fine non soltanto i redditi in denaro, ma anche ogni utilità o capacità propria dei coniugi, suscettibile di valutazione economica (Cass. 4543/1998, 7630/1997, 961/1992, 11523/1990 e 6774/1990). L’inattività lavorativa, però, non necessariamente è indice di scarsa diligenza nella ricerca di un lavoro, finché non sia provato, ai fini della decisione sull’assegno, il rifiuto di una concreta opportunità di occupazione; solo in tal caso lo stato di disoccupazione potrebbe essere interpretato, secondo le circostanze, come rifiuto o non avvertita necessità di un reddito; il che condurrebbe ad escludere il diritto di ricevere dal coniuge (cfr. Cass. 3975/2002, 4163/1989), a titolo di mantenimento, le somme che il richiedente avrebbe potuto ottenere quale retribuzione per l’attività lavorativa rifiutata o dismessa senza giusto motivo. Accertamento Il giudice del divorzio non è tenuto a procedere ad un’analitica disamina di tutti gli elementi contemplati nell’art. 5, comma 6, l. n. 898/70. Cass. sez. I, 4 novembre 2009, n. 23409 Il giudice del divorzio, una volta accertata una differenza di situazione economica e reddituale tra i coniugi, in una con l’incapacità del coniuge più debole di procurarsi mezzi adeguati per mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto durante il matrimonio, non è tenuto a procedere ad un’analitica disamina di tutti gli elementi contemplati nell’art. 5, comma 6, l. n. 898/70 (nella specie, la Corte ha confermato la decisione dei giudici d’appello che, seppur riducendo l’importo, avevano confermato l’assegno divorzile alla ex moglie non lavoratrice, ma con potenzialità professionali, essendo in possesso di due lauree ed abilitata all’esercizio di una professione). Rientra nella discrezionalità del giudice di merito disporre indagini tributarie ma ove il giudice non si avvalga di questo potere non può rigettare le domande per la mancata dimostrazione della situazione economica delle parti. Cass. sez. I, 17 giugno 2009, n. 14081 gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 33 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Anche in materia di separazione dei coniugi deve ritenersi applicabile in via analogica la norma dell’art. 5, comma 9, l. n. 898/70, come modificato dall’art. 10 l. n. 74/87, il quale prevede, in tema di riconoscimento e quantificazione dell’assegno divorzile, che in caso di contestazioni il tribunale possa disporre indagini sui redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria. Peraltro, l’esercizio di tale potere rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che non è tenuto ad avvalersene ove ritenga provata compiutamente “aliunde” la situazione economica delle parti, ma ove non se ne avvalga non può rigettare le domande per la mancata dimostrazione della situazione economica delle parti (nella specie, la Corte ha confermato la decisione dei giudici del merito, che avevano respinto la richiesta d’indagini a mezzo della polizia tributaria sui beni del marito avanzata dalla moglie, affermando che la cospicua documentazione allegata agli atti, costituita dalle dichiarazione dei redditi, fosse del tutto sufficiente per una completa conoscenza della situazione economica dell’uomo). Accordi tra coniugi L’accordo assunto durante il matrimonio circa la mancata prestazione lavorativa da parte di uno dei coniugi vale solo durante la separazione e non dopo il divorzio. Cass. sez. I, 19 marzo 2004, n. 5555 Se prima della separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione (evitando, così, tra l’altro, che il coniuge che non lavorava sia costretto di colpo a trovarsi un’occupazione), atteso che la separazione instaura un regime il quale, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore e il tipo di vita di ciascuno dei coniugi, nel senso esattamente che solo con il divorzio, capace di sciogliere a tutti gli effetti il matrimonio, la situazione muta radicalmente, tanto da far residuare tra gli ex coniugi solo un vincolo di solidarietà di tipo preminentemente assistenziale che. in quanto tale, presuppone nell’ex coniuge assistito non solo la mancanza di mezzi economici adeguati, ma anche l’oggettiva impossibilità di procurarseli mettendo altresì a frutto tulle le proprie capacità di lavoro. Aiuti della famiglia d’origine Gli aiuti della famiglia d’origine non escludono il diritto all’assegno di mantenimento. Cass. sez. I, 13 marzo 2009, n. 6200 Il coniuge separato, tenuto alla corresponsione del contributo di mantenimento, non può ritenersi esonerato nei confronti dell’ex moglie qualora questa riceva delle forme di aiuto dalla famiglia di origine, specie allorché tale aiuto si sia reso necessario proprio in considerazione della modesta entità del contributo stesso. L’utilizzazione, da parte della moglie separata, di un’abitazione messale a disposizione dai propri genitori - e, conseguentemente, del venir meno dell’obbligo del pagamento dell’affitto - è infatti da considerarsi irrilevante ai fini dell’accoglimento della domanda dell’ex marito volta ad ottenere una riduzione della somma dovuta. Assegno a carico del terzo Il giudice può porre l’assegno a carico dell’ente pensionistico. Cass. sez. I, 27 gennaio 2004, n. 1398 34 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 In tema di separazione personale dei coniugi l’art. 156 comma 6, cod. civ. il quale prevede che, nel caso in cui il coniuge non adempia l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento in favore dell’altro coniuge e dei figli, il giudice può ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto, si riferisce anche ai trattamenti pensionistici corrisposti in favore del coniuge. Assegno di separazione Ai fini del riconoscimento del diritto al mantenimento l’attitudine al lavoro va valutata non in termini ipotetici ed astratti ma di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale. Cass. sez. I, 6 giugno 2008, n. 15086 Al fine del riconoscimento del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitatile la separazione, è essenziale che questi sia privo di redditi che gli consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto durante la convivenza e che sussista una disparità economica tra i due coniugi, non a-vendo rilievo che, prima della separazione, il coniuge richiedente avesse eventualmente tollerato, subito o - comunque - accettato un tenore di vita più modesto. L’attitudine al lavoro proficuo dei coniugi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile nei giudizi di separazione ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, che deve tenere conto non solo dei redditi in denaro ma anche di ogni utilità o capacità dei coniugi suscettibile di valutazione economica. L’attitudine al lavoro assume tuttavia rilievo solo se venga riscontrata non in termini di mere valutazioni ipotetiche ed astratte, ma di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale. L’attitudine al lavoro costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione dell’assegno di separazione. Cass. sez. I, 22 agosto 2006, n. 1824 In tema di separazione personale dei coniugi l’attitudine al lavoro dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, che deve al riguardo tenere conto non soltanto dei redditi in denaro ma anche di ogni utilità o capacità dei coniugi suscettibile di valutazione economica. Peraltro l’attitudine al lavoro assume rilievo solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale, e non già di mera valutazione astratta ed ipotetica. L’assegno di separazione deve consentire la conservazione, sia pure tendenziale, del tenore di vita goduto durante il matrimonio. Cass. sez. I, 28 aprile 2006, n. 9878 In tema di effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi, la conservazione del precedente tenore di vita da parte de coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento coniugale e della prole costituisce un obiettivo solo tendenziale, perché non sempre la separazione ne consente la piena realizzazione, cosicché esso va perseguito nei limiti consentiti dalle condizioni economiche del coniuge obbligato e dalle altre circostanze richiamate dall’art. 156 c.c. con la precisazione che, in ogni caso, la determinazione dei limiti entro i quali è possibile perse- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA guire il suddetto obiettivo è riservata al giudice di merito, cui spetta la valutazione comparativa delle risorse dei due coniugi al fine di stabilire in quale misura l’uno debba integrare i redditi insufficienti dell’altro. dente tenore di vita, ferma restando la possibilità dell’altro coniuge di contestare la pretesa inesistenza o insufficienza di redditi o sostanze, indicando beni o proventi che evidenzino l’infondatezza della domanda. L’assegno di separazione è dovuto quando vi è disparità di posizione economica tra i coniugi da valutarsi con riferimento a ogni reddito o mezzo ivi compresa la disponibilità della casa coniugale. Cass. sez. I, 3 ottobre 2005, n. 19291 Il coniuge cui non sia addebitabile la separazione ha diritto al mantenimento a carico dell’altro, se vi è una disparità tra le posizioni economiche complessive attuali dei coniugi, da valutarsi con riferimento ai redditi e ad ogni altra utilità suscettibile di valutazione economica, compresa la disponibilità della casa coniugale, e sempre che il richiedente sia privo di adeguati mezzi propri, da valutarsi in via prioritaria con riferimento alla pregressa posizione economica complessiva dei coniugi durante la convivenza, e al conseguente tenore di vita che gli stessi avrebbero potuto tenere. L’obbligo di indicizzazione riguarda anche l’assegno di separazione. Cass. sez. I, 5 agosto 2004, n. 15101 La previsione dell’art. 5, comma 7, legge 1 dicembre 1970 n. 898 (come modificato dall’art. 10 l. 6 marzo 1987 n. 74), secondo cui la sentenza di scioglimento del matrimonio deve stabilire un criterio di adeguamento automatico, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria, dell’assegno di mantenimento posto a carico di uno degli ex coniugi è applicabile in via analogica anche all’assegno previsto dall’art. 155 cod. civ. Ne consegue che esso è rivalutabile, anche in assenza di domanda di parte e senza obbligo di motivazione, in misura almeno pari agli indici Istat, salvo i casi di palese iniquità, che richiedono viceversa specifica motivazione. Assegno di separazione (presupposti) È irrilevante la volontarietà del pensionamento per escludere il diritto all’assegno di separazione. Cass. sez. I, 21 settembre 2005, n. 18604 Le condizioni per il sorgere del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione sono costituite dalla mancata titolarità di adeguati redditi propri, ovvero redditi che permettano al richiedente di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, nonché dalla sussistenza di una disparità economica tra le parti, senza che, a differenza di quanto previsto - in materia di divorzio - dall’articolo 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970 (nel testo attualmente vigente), occorra altresì il concorso dell’ulteriore requisito rappresentato dal fatto che colui che pretende il relativo emolumento non possa procurarsi detti redditi per ragioni oggettive. E’ evidente, pertanto, che è irrilevante la volontarietà del pensionamento della parte istante l’assegno in questione in corso di causa. La durata del matrimonio non è di ostacolo al riconoscimento del diritto all’assegno influendo solo sul quantum. Cass. sez. I, 16 dicembre 2004, n. 23378 La durata del matrimonio non rientra tra gli elementi costitutivi del diritto all’assegno di mantenimento, essendo rilevanti, invece, la non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente, la non titolarità, da parte del medesimo di adeguati redditi propri, e la sussistenza di una disparità economica tra le parti. Alla breve durata del matrimonio pertanto non può essere riconosciuta una efficacia preclusiva del diritto all’assegno di mantenimento, nel concorso delle condizioni indicate. Al più, alla durata del matrimonio, da riferire peraltro anche al periodo della separazione, può essere attribuito rilievo, assieme alle potenzialità economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio, ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento. Il coniuge che richiede l’assegno non deve necessariamente provare di non possedere redditi propri sufficienti a mantenere il tenore di vita. Cass. sez. I, 27 agosto 2004, n. 17136 Il coniuge, cui non è addebitabile la separazione personale, nel richiedere l’assegno di mantenimento, pur non essendo onerato della prova di impossidenza di sostanze o di redditi, non è tenuto a darne dimostrazione specifica e diretta, essendo sufficiente che deduca anche implicitamente una condizione inadeguata a mantenere il prece- L’inattività lavorativa non è necessariamente indice di scarsa diligenza nella ricerca di un lavoro, almeno finché non sia provato il rifiuto di una concreta opportunità d’occupazione. Cass. sez. I, 2 luglio 2004, n. 12121 Presupposti essenziali dell’assegno di mantenimento, così come stabiliti dall’art. 156 cod. civ., sono la non addebitabilità della separazione e la totale mancanza di propri redditi accertati, idonei a conservare il pregresso, ancorché modesto, tenore di vita matrimoniale. Il reddito non elevato del coniuge nei confronti del quale viene domandato l’assegno e il sopraggiunto obbligo di mantenere un figlio, pur potendo giustificare il contenimento dell’assegno, non sono da soli sufficienti ad escluderlo. L’inattività lavorativa del coniuge richiedente l’assegno di mantenimento può costituire circostanza idonea ad annullare l’altrui obbligo altrimenti sussistente - di versarlo, solo se conseguente al rifiuto accertato di effettive e concrete, non meramente ipotetiche, opportunità di lavoro. L’attitudine al lavoro proficuo, come potenziale capacità di guadagno, appartiene certamente al novero degli elementi valutabili dal giudice della separazione per definire la misura dell’assegno, ma il mancato sfruttamento della supposta attitudine al lavoro non equivale a un reddito attuale né, di per sé e in modo univoco, lascia presumere la volontaria ripulsa di propizie occasioni di reddito, in quanto l’inattività lavorativa non è necessariamente indice di scarsa diligenza nella ricerca di un lavoro, almeno finchè non sia provato il rifiuto di una concreta opportunità d’occupazione. Il parametro di riferimento per attribuzione dell’assegno è costituito dalle potenzialità economiche dei coniugi nel corso del matrimonio. Cass. sez. I, 12 dicembre 2003, n. 19042 Condizioni per il sorgere del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, sono la non titolarità, da parte di quest’ultimo, di adeguati redditi propri, che consentano al richiedente di mantenere un tenore di vita analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio, e la disparità economica tra le parti; pertanto, ai fini della valutazione dell’adeguatezza dei redditi del soggetto che chiede l’assegno, il parametro di riferimento è costituito dalle potenzialità economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del medesimo richiedente; quindi, una volta accertato il diritto del richiedente all’assegno di mantenimento, il giu- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 35 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA dice, per determinare il quantum, deve tener conto anche degli elementi fattuali di ordine economico o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidenza sulle condizioni delle parti. La mancata convivenza tra i coniugi non preclude il diritto al mantenimento. Cass. sez. I, 19 novembre 2003, n. 17537 Condizioni per il sorgere del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione sono la non titolarità di adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano al richiedente di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e la sussistenza di una disparità economica tra le parti (v., tra le tante, Cassazione, 4800/02; 3291/01; 3490/98; 7630/97; 5762/97; 5916/96; 4720/95; 2223/95; 11523/90; 6774/90). Si è in particolare, precisato nella giurisprudenza di legittimità che il parametro di riferimento, ai fini della valutazione di adeguatezza dei redditi del soggetto che invoca l’assegno, è dato dalle potenzialità economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del medesimo richiedente, non avendo rilievo il più modesto livello di vita eventualmente subito o tollerato (v. per tutte sul punto Cassazione, 18327/02; 3490/98; 10465/96; 4720/95; 2223/95; 7437/94). Il legislatore non subordinato la spettanza dell’assegno alla convivenza tra i coniugi. La mancata convivenza tra i coniugi, quindi, può trovare ragione nelle più diverse situazioni o esigenze e va comunque intesa, in difetto di elementi che dimostrino il contrario, come espressione di una scelta della coppia, di per sé non escludente la comunione spirituale e materiale, dalla quale non possono farsi derivare effetti penalizzanti per uno dei coniugi, ed alla quale comunque non può attribuirsi, in difetto di pronuncia di addebito, efficacia estintiva dei diritti e doveri di natura patrimoniale che nascono dal matrimonio. L’assegno presuppone la mancanza di redditi adeguati a mantenere il tenore di vita a quello goduto durante il matrimonio. Cass. sez. I, 19 marzo 2003, n. 4039 Secondo l’articolo 156 del Codice civile, il diritto all’assegno di mantenimento sorge dalla separazione personale a favore del coniuge cui essa non sia addebitabile, quando questi non fruisca di redditi che gli consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello esistente durante il matrimonio e sussista disparità economica tra i coniugi. Assegno divorzile (natura e quantificazione) L’assegno ha natura assistenziale ed è dovuto se il beneficiario non ha mezzi adeguati a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ed è quantificato tenendo conto dei criteri indicati nell’art. 5 della legge sul divorzio. Cass. sez. I, 12 luglio 2007, n. 15610 In tema di scioglimento del matrimonio e nella disciplina dettata dall’art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, come modificato dall’art. 10 l. 6 marzo 1987 n. 74 che subordina l’attribuzione di un assegno di divorzio alla mancanza di “mezzi adeguati” l’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando innanzitutto l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, ovvero che poteva ragionevolmente prefigurarsi sulla base di aspettative esistenti nel corso del rapporto matrimoniale (da ultimo 36 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Cass. 28 febbraio 2007, n. 4764; 23 febbraio 2006, n. 4021; 16 maggio 2005, n. 10210; 7 maggio 2002, n. 6541; 15 ottobre 2003, n. 15383; 15 gennaio 1998, n. 317; 3 luglio 1997, n. 5986). L’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerabile in astratto, e possono in ipotesi estreme valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (ex plurimis Cass. 22 agosto 2006, n. 18241; 19 marzo 2003, n. 4040). Nella determinazione dell’assegno, il giudice può desumere induttivamente il tenore di vita dalla documentazione relativa ai redditi dei coniugi al momento della pronuncia di divorzio (Cass. 6 ottobre 2005, n. 19446; 16 luglio 2004, n. 13169; 7 maggio 2002, n. 6541) - costituendo essi, insieme agli immobili direttamente goduti dai coniugi, il parametro per determinarlo (Cass. 16 maggio 2005, n. 10210) - sempre che non sia stato dedotto e dimostrato che essi non costituissero sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante la convivenza matrimoniale. L’eredità percepita dal coniuge obbligato al pagamento di un assegno non influenza l’ammontare dell’assegno. Cass. sez. I, 30 maggio 2007, n. 12687 Le successioni ereditarie ricevute dopo il divorzio dall’onerato del pagamento di un assegno divorziale, sono inidonee a giustificarne l’aumento, in assenza di una peggiorata situazione economica del beneficiario, concorrendo tale incremento solo nella valutazione della capacità economica dell’obbligato a pagare l’assegno già in atto. La determinazione dell’assegno di divorzio è indipendente dalle condizioni di separazione. Cass. sez. I, 6 novembre 2006, n. 23671 La determinazione dell’assegno di divorzio è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti per accordo tra le parti o in virtù di decisione giudiziale in relazione alla separazione tra coniugi, cosicché l’assetto economico stabilito in separazione può costituire, al fine della determinazione dell’assegno divorzile, solo un elemento di valutazione, nel contesto degli ulteriori elementi probatori, anche presuntivi emersi, suscettibili di essere apprezzati in sede di pronuncia sull’assegno. Il tribunale può fondare la quantificazione dell’assegno anche solo su uno dei parametri previsti ritenuto prevalente. Cass. sez. I, 28 aprile 2006, n. 9876 In tema di determinazione dell’assegno di divorzio, il giudice non deve dare giustificazione di tutti i parametri di riferimento indicati dall’art. 5 l. 1° dicembre 1970 n. 898 (nel testo modificato dall’art. 10 l. 6 marzo 1987 n. 74), potendo considerare prevalente quello basato sulle condizioni economiche delle parti. La riduzione anche volontaria dei propri redditi può avere rilevanza ai fini della riduzione dell’importo dell’assegno divorzile. Cass. sez. I, 11 marzo 2006, n. 5378 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA La riduzione del reddito della persona obbligata al pagamento dell’assegno divorzile non può non incidere sulla misura di quest’ultimo, a nulla rilevando che la suddetta riduzione dipenda da una libera scelta del lavoratore, il quale abbia optato per attività meno redditizie. In tema di revisione dell’assegno di divorzio, la sopravvenuta diminuzione dei redditi da lavoro dell’obbligato è suscettiva di assumere rilievo, quale possibile giustificato motivo di riduzione o soppressione dell’assegno, ai sensi dell’articolo 9 della legge 898/1970, nel quadro di una rinnovata valutazione comparativa della situazione economica delle parti e in quanto risulti oggettivamente idonea ad alterare l’equilibrio determinato al momento della pronuncia di divorzio, anche se dipendente da una libera scelta dello stesso obbligato riguardo all’oggetto e alle modalità di svolgimento della propria attività lavorativa, quale, in specie, quella di svolgere tale attività a tempo parziale, anziché a tempo pieno. I criteri di quantificazione indicati nell’art. 5 della legge sul divorzio sono criteri di moderazione e diminuzione dell’assegno. Cass. sez. I, 7 marzo 2006. n. 4873 Nella disciplina dettata dall’articolo 5 della legge 898/1970, come modificato dall’articolo 10 della legge 74/1987, l’accertamento del diritto all’assegno divorzile si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità, comunque, di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati a un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, per poi procedere a una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno stesso, là dove, in tale seconda fase, il medesimo giudice deve addivenire alla determinazione dell’emolumento sulla base della valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati dall’articolo 5, i quali agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono, in ipotesi estreme, valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con siffatti elementi di quantificazione. I criteri di quantificazione indicati nell’art. 5 della legge sul divorzio sono criteri di moderazione e diminuzione dell’assegno. Cass. sez. I, 16 maggio 2005, n. 10210 L’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontate ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno; e che, nella seconda fase, il giudice deve procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso articolo 5 comma 6 (nel testo modificato dalla legge 74/1987), i quali, quindi, agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono, in ipotesi estre- me, valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurata dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione. Il tenore di vita cui rapportare il giudizio di adeguatezza dei redditi è quello potenziale e non quello tollerato. Cass. sez. I , 16 maggio 2005, n. 10210 In tema di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella disciplina dettata dall’art. 5 l. 1° dicembre 1970 n. 898, come mod. dall’art. 10 l. 6 marzo 1987 n. 74, il tenore di vita goduto durante il matrimonio, cui rapportare il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente l’assegno di divorzio, è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e delle loro disponibilità patrimoniali, e non già quello tollerato o subito od anche concordato con l’adozione di particolari criteri di suddivisione delle spese familiari e di disposizione dei redditi personali residui. Con riguardo alla quantificazione dell’assegno di divorzio, deve escludersi la necessità di una puntuale considerazione, da parte del giudice che dia adeguata giustificazione della propria decisione, di tutti, contemporaneamente, i parametri di riferimento indicati dall’art. 5 l. n. 898, cit., come mod. dall’art. 10 l. n. 74, cit., per la determinazione dell’importo spettante all’ex coniuge, anche in relazione alle deduzioni e alle richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla misura dell’assegno (nella specie, la Corte ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva determinato la misura dell’assegno prendendo in ponderata e bilaterale considerazione i criteri di legge, valorizzando quelli della durata del matrimonio, del contributo personale ed economico dato anche dalla moglie alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché della deteriore condizione reddituale e patrimoniale della moglie rispetto a quella del marito; enunciando il principio di cui in massima, la Corte di cassazione ha ritenuto irrilevante l’omessa considerazione, in un contesto siffatto, del criterio delle “ragioni della decisione”, tanto più che la pronuncia di separazione con addebito ad entrambi i coniugi, in assenza di specifiche deduzioni delle parti relative al comportamento dei coniugi successivo alla separazione, rende il criterio medesimo sostanzialmente privo di valore orientativo ai fini della quantificazione dell’assegno di divorzio). Per determinare l’assegno di divorzio occorre far riferimento alla condizione dei coniugi al momento della pronuncia di divorzio. Cass. sez. I, 4 settembre 2004, n. 17901 La valutazione ponderata e bilaterale dei criteri di determinazione concreti dell’assegno di divorzio deve essere operata dal giudice avendo riguardo alla condizione delle parti quale risulta al momento della pronuncia di divorzio e non in relazione ad epoche precedenti ed eventualmente contraddistinte da una diversa capacità di reddito. Nella quantificazione dell’assegno di divorzio si deve tener conto degli incrementi retributivi prevedibili. Cass. sez. I, 27 agosto 2004, n. 17128 Legittimamente il giudice del divorzio, nel quantificare l’assegno spettante ad uno dei coniugi, tiene conto degli incrementi retributivi dell’altro qualora siano legati in gran parte alla progressione per anzianità e costituiscano un prevedibile sviluppo di situazioni e aspettative già presenti durante la convivenza matrimoniale in quanto collegati alla sua attività lavorativa in atto e non aventi carattere di eccezionalità, vale a dire non connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 37 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA I criteri di quantificazione dell’assegno di divorzio costituiscono criteri moderatori dell’importo idoneo a consentire all’ex coniuge debole di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Cass. sez. I, 21 luglio 2004, n. 13507 Riguardo al dedotto profilo di violazione di legge, sembra opportuno premettere che il carattere assistenziale attribuito all’assegno di divorzio (articolo 5, 6° co., legge n. 898/1970, come sopra novellato) corrisponde alla funzione di mantenere tendenzialmente inalterato il tenore di vita goduto dal coniuge in costanza di matrimonio, quando questi non disponga di altri mezzi “adeguati” a tale scopo e sia nell’impossibilità oggettiva di procurarseli. I criteri concorrenti elencati dalla norma suddetta (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributi al ménage ed al patrimonio familiari, redditi rispettivi) rivestono funzione moderatrice, in concreto, della misura dell’assegno astrattamente stabilita in base al parametro sopra indicato (S.U., nn. 11492 e 11490/1990; e, fra le molte, Cass. n. 7068/2001, 6660/2001, 8225/2000, 4809/1998, 9758/1997, 4098/1991). Il regime patrimoniale deciso in sede di separazione non vincola il giudice del divorzio. Cass. sez. I, 9 luglio 2004, n. 12666 Il regime patrimoniale concordato o deciso in sede di separazione non riveste alcuna efficacia vincolante per il giudice del divorzio, potendo quest’ultimo rivedere le relative statuizioni sulla base di criteri distinti e autonomi rispetto a quelli rilevanti per il trattamento spettante al coniuge separato e tenere conto, semmai, della situazione reddituale della famiglia al momento della cessazione della convivenza quale elemento induttivo da cui desumere, in via presuntiva, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ai soli fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio, così da rappresentare mero indice di riferimento nella misura in cui appaia capace di fornire utili elementi di valutazione. I criteri di quantificazione dell’assegno di divorzio costituiscono criteri moderatori dell’importo idoneo a consentire all’ex coniuge debole di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Cass. sez. I, 25 giugno 2004, n. 11863 L’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi. Nella prima il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto, in relazione alla sussistenza o meno in capo al coniuge che ne fa richiesta, di mezzi adeguati a garantirgli un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio. Nella seconda fase il giudice è tenuto a procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di tali mezzi, tenendo conto dei criteri indicati nell’art. 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, i quali agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, così da potere, in ipotesi estreme, valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con simili elementi di quantificazione. Il giudice deve accertare in concreto sia i presupposti per l’attribuzione dell’assegno divorzile che quelli relativi alla sua quantificazione. Cass. sez. I, 28 gennaio 2004, n. 1487 L’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge (art. 5, legge n. 898 del 1970, nel testo modificato dall’art. 10, legge n. 74 del 1987) ha carattere assistenziale e rinviene il suo presupposto nella circostanza che questi, eventualmente, non disponga di mezzi economici adeguati a permettergli di conservare un tenore di vita analogo a quello 38 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 goduto in costanza di matrimonio ed ha, quindi, lo scopo di porre rimedio al deterioramento delle precedenti condizioni economiche, in dipendenza del divorzio. L’accertamento del presupposto del diritto all’assegno divorziale e la sua quantificazione richiedono al giudice del merito di stabilire quale fosse la situazione economica familiare al momento della cessazione della convivenza matrimoniale, comparandola con quella del coniuge richiedente al momento della pronunzia di divorzio, allo scopo di verificare se quest’ultima gli permetta appunto di conservare il tenore di vita corrispondente a quello precedente, costituendo l’assetto economico relativo alla separazione mero indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione. Si tratta di un accertamento che, virtù dell’art. 5, legge n. 898 del 1970, va effettuato tenendo conto “delle ragioni della decisione” (che richiedono una indagine sulla responsabilità del fallimento del matrimonio in una prospettiva comprendente l’intero periodo di vita coniugale, quindi in una valutazione che attenga alle cause determinative della separazione ed anche al successivo comportamento dei coniugi che abbia concretamente costituito un impedimento al ripristino della comunione spirituale e materiale e alla ricostituzione del consorzio familiare); “del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare del patrimonio comune”; “del reddito di entrambi” - considerando anche i cespiti patrimoniali che, benché improduttivi di reddito, assicurino un beneficio economico al proprietario - da valutare anche “in rapporto alla durata del matrimonio”. L’insufficienza o la mancanza di mezzi da parte del coniuge istante, da lui neppure altrimenti acquisibili mediante lo svolgimento di un’attività lavorativa concretamente esplicabile e confacente alla propria posizione sociale, deve costituire oggetto di un’indagine, da condurre in sede di merito, che deve esprimersi sul piano della concretezza e dell’effettività, e cioè tenendo conto di tutti gli elementi e fattori (individuali, ambientali, territoriali, economico sociali) della specifica fattispecie. Peraltro, il giudice del merito, al fine di stabilire l’an ed il quantum dell’assegno, può tenere conto della situazione reddituale al momento della cessazione della convivenza, quale elemento induttivo da cui ricavare, in via presuntiva, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, avendo quindi appunto riguardo, quale parametro di valutazione del pregresso tenore di vita, alla documentazione attestante i redditi dell’onerato. Assegno divorzile (presupposti) Il diritto all’assegno divorzile ha natura assistenziale in quanto presuppone l’inadeguatezza del coniuge richiedente a mantenere il tenore di vita pregresso. Cass. sez. I, 11 novembre 2009, n. 23906 In tema di assegno divorzile, l’accertamento del diritto all’assegno si articola in due fasi: nella prima il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio; nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nell’art. 5 l. n. 898/70, che agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerabile in astratto, e possono in ipotesi estreme valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matri- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA monio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (in applicazione dei suesposti principi, la Corte ha confermato l’assegno nei confronti di una donna disoccupata, seppur giovane, ritenendo molto scarse le possibilità di reperire una occupazione nel contesto sociale in cui viveva). E’ manifestamente infondata la questione di costituzionalità delle norme che prevedono il diritto all’assegno divorzile. Cass. sez. I, 17 luglio 2009, n. 16789 È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma sesto, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, sollevata in relazione agli artt. 29, 3, 31 Cost., nella parte in cui contempla il diritto all’assegno per il coniuge divorziato che non abbia mezzi adeguati; tale diritto trova infatti fondamento nella solidarietà post-coniugale, espressione del più generale dovere di solidarietà economico-sociale sancito all’art. 2 Cost., dalla quale sorge l’obbligo di corrispondere un assegno periodico a favore dell’ex coniuge privo di mezzi adeguati, nonché di riparare allo squilibrio economico derivante dal divorzio, in piena conformità al valore del matrimonio come indicato dall’art. 29 Cost.; neppure può ravvisarsi contrasto nella parte in cui l’articolo richiamato non esclude la permanenza del diritto all’assegno, qualora l’obbligato contragga nuove nozze, non potendo la sussistenza di tale diritto essere fatta dipendere dalla volontà dell’obbligato, e dovendo la costituzione del nuovo nucleo familiare essere valutata ai fini della determinazione dell’importo dell’assegno dovuto all’ex coniuge. Non è dovuto l’assegno divorzile se il coniuge onerato non riesce più a permettersi il tenore di vita pregresso. Cass. sez. I, 17 luglio 2009, n. 16800 Non è più tenuto al versamento dell’assegno divorzile l’ex coniuge che utilizza il t.f.r. per integrare il minor reddito percepito in seguito al pensionamento (nella specie, dopo che l’ex coniuge onerato aveva smesso di lavorare, la situazione economica e patrimoniale delle parti si era attestata su un livello di sostanziale parità e nessuno dei due poteva più permettersi il tenore di vita goduto in costanza di convivenza). Le condizioni di salute della parte richiedente l’assegno divorzile vanno valutate in connessione con la possibilità di mantenere il tenore di vita pregresso. Cass. sez. I, 4 maggio 2009, n. 10221 Ai fini del riconoscimento, in sede di divorzio, di un assegno di mantenimento del coniuge la valutazione delle condizioni di salute dell’istante non può prescindere dal raffronto con il tenore di vita goduto durante il matrimonio, posto che solo se la condizione fisica ed economica dell’istante sia tale da consentirle di mantenere un tenore di vita simile a quello goduto manente matrimonio, pure per i redditi del marito, il diritto all’assegno non può essere riconosciuto, non risultando invece sufficiente a negarlo la sola mancanza di un peggioramento dello stato di salute della richiedente. Ai fini dell’attribuzione dell’assegno di divorzio il giudice deve tenere conto dei mutamenti intervenuti dopo separazione. Cass. sez. I, 21 maggio 2008, n. 13058 Ai fini dell’attribuzione dell’assegno di divorzio il giudice deve tenere conto dei mutamenti intervenuti dopo separazione (nella fattispecie l’inizio di una attività lavorativa della moglie). L’assegno divorzile compete al coniuge che non è in grado di mantenere con i propri redditi il tenore di vita goduto all’e- poca della cessazione della convivenza matrimoniale. Cass. sez. I, 6 ottobre 2005, n. 19446 L’assegno divorzile compete - sempre che vi sia disparità attuale tra le posizioni economiche dei coniugi - a quello che versa in una situazione patrimoniale e reddituale tale da non consentirgli, per ragioni obiettive, la conservazione di un tenore di vita analogo a quello che i coniugi avrebbero potuto tenere all’epoca della cessazione della convivenza, in base alla loro posizione economica, e non a quello più morigerato eventualmente tenuto per tolleranza, imposizione o accordo, tenendo anche conto dei miglioramenti reddituali conseguiti dall’obbligato dopo la cessazione della convivenza, sempre se dovuti al normale e prevedibile sviluppo dell’attività lavorativa svolta durante il matrimonio, tali essendo i miglioramenti relativi all’attività di lavoro subordinato svolta da ciascun coniuge durante la convivenza alle dipendenze del medesimo datore di lavoro, compresi gli emolumenti per il lavoro straordinario e i premi di presenza e di produttività, con esclusione dei soli miglioramenti connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili, non collegati alle aspettative maturate nel corso del matrimonio. L’assegno divorzile è dovuto quando un coniuge non può mantenere lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Cass. sez. I, 27 luglio 2005, n. 15726 L’art. 5, comma 6 della legge 898/1970 subordina l’attribuzione dell’assegno divorzile ad una situazione non già d’indigenza o d’insufficienza ad un tenore di vita autonomo e dignitoso, ma di inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante a consentirgli la conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. L’assegno divorzile è dovuto quando un coniuge non può mantenere lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Cass. sez. I, 15 giugno 2005, n. 12838 Il carattere assistenziale dell’assegno di divorzio determina l’insorgenza del relativo diritto solo in presenza di una situazione patrimoniale e reddituale tale da non consentire la conservazione di un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio: il richiedente ha l’onere di fornire la dimostrazione della fascia socioeconomica di appartenenza della coppia all’epoca della convivenza e del relativo stile di vita in quel tempo adottato, nonché della situazione economica attuale. Ai fini dell’attribuzione dell’assegno divorzile il giudice deve porre a raffronto i redditi percepiti dagli ex coniugi durante e dopo il matrimonio. Cass. sez. I, 13 giugno 2005, n. 12625 Correttamente il giudice del merito desume il diritto di uno dei coniugi a percepire, a carico dell’altro, un assegno periodico di divorzio, ove accerti che durante la convivenza mentre quest’ultimo (dentista libero professionista) non aveva mai goduto di un reddito (da lui dichiarato) inferiore a 60 milioni di lire l’anno (giunto, successivamente anche a 80 milioni), l’altro (istruttrice di danza) aveva tratto dal proprio lavoro un reddito annuo di soli 9 milioni e 900mila lire, comprensivo del rimborso delle spese. Tale circostanza, infatti, è idonea a evidenziare la differenza tra il tenore di vita mantenuto durante il matrimonio e quello successivo e, quindi, il peggioramento della condizione economica del coniuge avente un reddito inferiore (non compensato nelle specie dal reddito che lo stesso poteva trarre dall’investimento di circa 150 milioni ricavato dalla vendita di un cespite ereditario). gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 39 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Il tenore di vita cui rapportare il giudizio di adeguatezza dei redditi è quello potenziale e non quello tollerato. Cass. sez. I , 16 maggio 2005, n. 10210 In tema di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella disciplina dettata dall’art. 5 l. 1° dicembre 1970 n. 898, come mod. dall’art. 10 l. 6 marzo 1987 n. 74, il tenore di vita goduto durante il matrimonio, cui rapportare il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente l’assegno di divorzio, è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e delle loro disponibilità patrimoniali, e non già quello tollerato o subito od anche concordato con l’adozione di particolari criteri di suddivisione delle spese familiari e di disposizione dei redditi personali residui. Con riguardo alla quantificazione dell’assegno di divorzio, deve escludersi la necessità di una puntuale considerazione, da parte del giudice che dia adeguata giustificazione della propria decisione, di tutti, contemporaneamente, i parametri di riferimento indicati dall’art. 5 l. n. 898, cit., come mod. dall’art. 10 l. n. 74, cit., per la determinazione dell’importo spettante all’ex coniuge, anche in relazione alle deduzioni e alle richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla misura dell’assegno (nella specie, la Corte ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva determinato la misura dell’assegno prendendo in ponderata e bilaterale considerazione i criteri di legge, valorizzando quelli della durata del matrimonio, del contributo personale ed economico dato anche dalla moglie alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché della deteriore condizione reddituale e patrimoniale della moglie rispetto a quella del marito; enunciando il principio di cui in massima, la Corte di cassazione ha ritenuto irrilevante l’omessa considerazione, in un contesto siffatto, del criterio delle “ragioni della decisione”, tanto più che la pronuncia di separazione con addebito ad entrambi i coniugi, in assenza di specifiche deduzioni delle parti relative al comportamento dei coniugi successivo alla separazione, rende il criterio medesimo sostanzialmente privo di valore orientativo ai fini della quantificazione dell’assegno di divorzio). L’assegno di divorzio è determinato sulla base di criteri diversi e autonomi rispetto all’assegno di separazione. Cass. sez. I, 27 agosto 2004, n. 17128 L’assegno di divorzio che presuppone lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili è determinato sulla base di criteri autonomi e distinti, rispetto all’assegno spettante al coniuge separato. Quest’ultimo assegno può costituire, nei congrui casi, un utile elemento di riferimento ma non già il dato cui ancorare necessariamente il riconoscimento dell’assegno di divorzio o parametrarne la determinazione, senza possibilità di discostarsene, in assenza di eventuali mutamenti nella situazione economica dei due coniugi. Causa di attribuzione dell’assegno è sia l’assenza che l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale. Cass. sez. I, 16 luglio 2004, n. 13169 In tema di attribuzione dell’assegno di divorzio, di cui all’art. 5 legge 1° dicembre 1970, n. 898, modificato dall’art. 10 legge 6 marzo 1987, n. 74, l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sostentamento per ragioni obiettive costituisce ipotesi non già alternativa, ma meramente esplicativa rispetto a quella della mancanza assoluta di tali mezzi, dovendosi, pertanto, trattare di impossibilità di ottenere mezzi tali da consentire il raggiungimento non già della mera autosufficienza economica, ma di un tenore di 40 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 vita sostanzialmente non diverso rispetto a quello goduto in costanza di matrimonio, onde l’accertamento della relativa capacità lavorativa va compiuto non nella sfera della ipoteticità o dell’astrattezza, bensì in quella dell’effettività e della concretezza, dovendosi, all’uopo, tenere conto di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi del caso di specie in rapporto ad ogni fattore economico - sociale, individuale, ambientale, territoriale. L’assegno divorzile ha natura assistenziale nel senso che è dovuto solo ove il coniuge beneficiario non abbia mezzi per conservare il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Cass. sez. I, 12 dicembre 2003, n. 19026 L’assegno di divorzio si configura con natura eminentemente assistenziale, essendone condizionata l’attribuzione alla specifica circostanza della mancanza di mezzi adeguati o della impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. L’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, per l’attribuzione dell’assegno in questione, peraltro, deve intendersi come insufficienza dei medesimi (comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali e altre utilità di cui possa disporre) a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno. È rilevante, invece, l’apprezzabile deterioramento in dipendenza del divorzio delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio. Decorrenza L’assegno divorzile decorre dal giudicato ma il giudice può disporre che decorra dalla data della domanda. Cass. sez. I, 29 marzo 2006, n. 7117 Il principio enunciato nell’art. 4, comma 10, l. 1° dicembre 1970 n. 898 (nel testo sostituito ad opera dell’art. 8 l. 6 marzo 1987 n. 74) - secondo il quale il giudice del merito può far decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda - ha una portata generale ed è quindi applicabile non solo nell’ipotesi, espressamente prevista, in cui si sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui con la stessa decisione si sia dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio, senza peraltro che sia necessaria un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno; ciò non costituisce deroga al principio secondo il quale l’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, decorre dal passaggio in giudicato della relativa statuizione, bensì rappresenta un temperamento a tale principio, col conferire al giudice il potere discrezionale, in relazione alle circostanze del caso concreto, di disporre la decorrenza di esso dalla data della domanda, senza che a tal fine la pronuncia di sentenza non definitiva costituisca un necessario requisito per l’esercizio di detto potere. L’assegno coniugale e per i figli stabilito nella sentenza di separazione decorre dalla domanda salvo il potere del giudice di graduarlo nel tempo. Cass. sez. I, 17 dicembre 2004, n. 23570 In tema di separazione personale dei coniugi la circostanza che la spettanza degli assegni di cui agli articoli 155 e 156 cod. civ. decorra dalla domanda non esclude il potere del giudice del merito di graduare e differenziare nel tempo l’entità dell’assegno modulandola in funzione del complesso dei dati concretamente accertati. Ne segue, pertanto, che la naturale retroattività delle statuizioni assunte in proposito in sede di giudizio di separazione non vuol dire MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA anche necessaria uniformità degli importi fissati in relazione alle varie fasi temporali. Il giudice può far decorrere l’assegno divorzile dalla domanda ovvero può indicare una decorrenza diversa. Cass. sez. I, 16 dicembre 2004, n. 23396 Ove il giudice del divorzio, nell’emettere la sentenza che dispone la somministrazione del relativo assegno, abbia stabilito, in considerazione delle modeste condizioni economiche dell’onerato, la decorrenza dello stesso assegno dalla data della deliberazione della sentenza di primo grado - così erroneamente scegliendo una data intermedia di decorrenza fra quella della domanda introduttiva e quella del passaggio in giudicato della pronuncia di scioglimento (o di cessazione degli effetti civili) del matrimonio - è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale l’avente diritto all’assegno di divorzio censuri tale statuizione relativa alla decorrenza dell’assegno senza tuttavia indicare le circostanze necessarie e sufficienti per fissare l’insorgenza del diritto alla percezione dell’assegno dalla domanda introduttiva del giudizio, e ciò trattandosi di censura finalizzata ad ottenere il rispetto meramente astratto della legge e non la tutela di un concreto interesse della parte ricorrente. Il giudice può indicare una decorrenza per l’assegno divorzile diversa dalla data della domanda. Cass. sez. I, 21 luglio 2004, n. 13507 Il criterio in virtù del quale, in presenza di sentenza non definitiva di divorzio, l’assegno disposto ai sensi dell’articolo 4, 10° co, legge n. 898/1970 (novellato dall’articolo 8, legge 6 marzo 1987, n. 74) può farsi decorrere dalla data della domanda - non dovendo un diritto essere pregiudicato dalla durata del processo - attiene soltanto al profilo dell’an debeatur e non interferisce nel giudizio per la determinazione del quantum dell’assegno allorché, invece, l’evoluzione delle condizioni economiche dei coniugi postula diverse decorrenze, coincidenti con le date dei mutamenti (Cass. n. 14886/2002, 4011/1999, 9028/1998, 2870/1994, tutte riferite all’analogo caso della separazione dei coniugi, ma il cui principio di diritto è applicabile alla fattispecie dell’assegno di divorzio). Quando il petitum si limiti, come nel caso alla definizione dell’ammontare dell’assegno, non è quindi inibita la decorrenza della misura modificata di esso da una data diversa, rispetto alla previsione della norma citata; non diversamente da come accadrebbe, d’altronde, se fosse introdotta la procedura di revisione prevista dal successivo articolo 9. (Per la distinta ipotesi di controversia vertente sull’attribuzione dell’assegno, cfr. Cass. nn. 3351/2003, 6737/1995). che il giudice motivi adeguatamente la propria decisione. La sentenza di divorzio, mentre ha importanza costitutiva rispetto all’assegno che uno degli ex coniugi debba all’altro per le esigenze proprie di quest’ultimo, è irrilevante rispetto all’obbligo di mantenere i figli, nel senso che i doveri ed i diritti dei genitori verso questi ultimi, impregiudicate le modifiche conseguenti ai provvedimenti relativi al loro affidamento, non subiscono alcuna alterazione sostanziale, rimanendo identico, sia prima sia dopo la pronuncia del divorzio, l’obbligo di entrambi i genitori di contribuire, in proporzione alle loro capacità, all’assistenza, all’educazione e al mantenimento della prole, onde, se in sede di giudizio di divorzio uno dei coniugi abbia richiesto un assegno di mantenimento per i figli o l’adeguamento di esso, la domanda, se ritenuta fondata, deve essere accolta, in mancanza di espresse limitazioni, dalla data stessa della sua proposizione, ovvero dalla data dei fatti che ne impongono il riequilibrio, se successivi. L’assegno di separazione è caducato dalla data della sentenza anche non definitiva di divorzio. Tribunale di Reggio Calabria, 3 novembre 2003 L’assegno di mantenimento attribuito al coniuge in sede di separazione automaticamente è caducato col passaggio in giudicato della sentenza che pronunzia il divorzio, esclusa la parte riferibile al mantenimento dei figli minori; e ciò anche quando il divorzio sia stato pronunciato con sentenza non definitiva e sia ancora in corso il giudizio relativo alla quantificazione dell’assegno di divorzio. Il diritto all’assegno decorre decorre dalla domanda. Cass. sez. I, 26 settembre 2003, n. 14341 Il principio secondo cui l’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione personale, decorre dalla data di presentazione della relativa domanda da parte dell’avente diritto in applicazione della regola fissata per gli alimenti dall’articolo 445 del codice civile, attiene soltanto al profilo dell’an debeatur della domanda medesima, se in tale momento esistevano già i presupposti per l’emanazione del relativo provvedimento di attribuzione, laddove non interferisce né sull’esigenza di fissare una decorrenza posteriore, corrispondente al momento in cui tali presupposti siano maturati, né sull’esigenza di determinare comunque il quantum del suddetto assegno, tenendo conto dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi, ovvero sulla legittimità della fissazione di misure e decorrenze differenziate dalle diverse date in cui i mutamenti si sono verificati. Durata L’assegno di divorzio decorre dal passaggio in giudicato della sentenza ma il giudice può farlo decorrere dalla domanda a differenza dell’assegno per i figli che decorre dalla domanda. Cass. sez. I, 25 giugno 2004, n. 11863 L’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, rispetto al quale la pronuncia del giudice ha efficacia costitutiva, decorre dal passaggio in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo coniugale, con il temperamento, tuttavia, introdotto dall’articolo 4, comma 10. della legge 898/1970, così come sostituito dall’articolo 8 della legge 74/1987, che conferisce al giudice il potere di disporre, in relazione alle circostanze del caso concreto e anche in assenza di specifica richiesta, la decorrenza dello stesso assegno dalla data della domanda, senza peraltro escludere che, ove le condizioni per l’attribuzione siano maturate in un momento successivo, la decorrenza dell’assegno possa essere fissata a partire da tale momento, ferma restando la necessità, in una siffatta ipotesi, L’assegno di separazione è dovuto fino al giudicato di divorzio. Cass. sez. I, 15 gennaio 2009, n. 813 L’assegno di mantenimento, in favore di uno dei due coniugi in regime di separazione, è dovuto fino al passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia il divorzio, la quale segna il venir meno del presupposto di detto mantenimento, cioè del vincolo matrimoniale; con la conseguenza che questa non comporta il venir meno dell’interesse al ricorso in cassazione avverso la sentenza che riconosce e quantifica l’assegno di mantenimento. Natura e quantificazione Il giudice di merito ha l’obbligo di valutare il tenore di vita familiare al fine di statuire in ordine all’assegno di mantenimento. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 41 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Cass. sez. I, 19 marzo 2009, n. 6698 Va cassata, per difetto di motivazione, la sentenza del giudice d’appello che abbia, di fatto, ritenuto congruo l’assegno di mantenimento determinato dal giudice di primo grado a favore della ex moglie, in seguito a separazione allorché non sia stata compiuta la dovuta ricostruzione concreta delle situazioni patrimoniali di entrambi i coniugi, e non sia stato effettuato un accertamento in merito al tenore di vita dei coniugi durante il matrimonio (il quale era tale da permettere al nucleo familiare viaggi, collaboratori familiari, acquisto di vestiario ad alto livello). Il giudice del merito, infatti, alla fine della quantificazione dell’assegno di mantenimento, deve anzitutto accertare il tenore di vita dei coniugi durante il matrimonio, per poi verificare se i mezzi economici a disposizione del coniuge richiedente gli permettano di conservarlo indipendentemente dalla percezione di detto assegno, e, in caso di esito negativo di questo esame, deve procedere alla valutazione comparativa dei mezzi economici a disposizione di ciascun coniuge al momento della separazione. L’assegno di divorzio non è di per sé incompatibile con la breve durata del matrimonio. Cass. sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2721 L’assegno di divorzio, nonostante l’estrema brevità della convivenza matrimoniale, può essere attribuito sulla base del raffronto tra il tenore di vita in costanza di matrimonio e quello successivo alla separazione, in caso di relativo deterioramento sopravvenuto al divorzio. Il deterioramento del tenore di vita sopravvenuto al divorzio e derivante dalla sensibile disparità di redditi giustifica l’attribuzione dell’assegno divorzile nonostante la breve durata del matrimonio, che costituisce solo un elemento capace di ridurne l’ammontare. Il giudice deve quantificare l’assegno di mantenimento in relazione al concreo contesto sociale di riferimento. Cass. sez. I, 28 gennaio 2009, n. 2191 Il giudice, una volta accertato il diritto all’assegno di mantenimento ed al contributo per la prole minorenne, deve prendere in considerazione, quale indispensabile elemento di riferimento ai fini della valutazione della congruità dello stesso, il concreto contesto sociale nel quale coniugi e prole avevano vissuto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità dei bisogni emergenti cui le contribuzioni devono fare fronte, nonché accertare le disponibilità economiche del coniuge a cui carico l’assegno va posto. Nella valutazione comparativa dei redditi va considerata l’indennità di lavoro all’estero. Cass. sez. I, 9 giugno 2008, n. 15221 L’indennità per costo della vita percepita all’estero dal marito ha natura retributiva e va considerata nella valutazione comparativa dei redditi delle parti. I criteri di quantificazione vanno accertati con rigore. Cass. Sez. I, 21 maggio 2008, n. 13058 Il giudice deve determinare l’entità dell’assegno divorzile e di mantenimento in favore dei figli procedendo ad una rigorosa analisi dei criteri fissati dagli articoli 5 e 6 della legge 898/70 così come più volte precisati dalla giurisprudenza. Ai fini della valutazione sull’entità dell’assegno di mantenimento il giudice deve valutare non solo i redditi delle parti ma anche tutti gli altri elementi suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti. Cass. sez. I, 24 aprile 2007, 9915 42 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 In tema di separazione tra coniugi, al fine della quantificazione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge, al quale non sia addebitabile la separazione, il giudice del merito deve accertare quale indispensabile elemento di riferimento ai fini della valutazione di congruità dell’assegno, il tenore di vita del quale i coniugi avevano goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente, accertando le disponibilità patrimoniali dell’onerato. A tal fine, detto giudice non può limitarsi a considerare soltanto il reddito (sia pure molto elevato) emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma deve tenere conto anche degli altri elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti (quali la disponibilità di un consistente patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso), dovendo, in caso di specifica contestazione della parte, effettuare i dovuti approfondimenti - anche, se del caso, attraverso indagini di polizia tributaria - rivolti ad un pieno accertamento delle risorse economiche dell’onerato (incluse le disponibilità monetarie e gli investimenti in titoli obbligazionari ed azionari ed in beni mobili), avuto riguardo a tutte le potenzialità derivanti dalla titolarità del patrimonio in termini di redditività, di capacità di spesa, di garanzie di elevato benessere e di fondate aspettative per il futuro; e, nell’esaminare la posizione del beneficiario, deve prescindere dal considerare come posta attiva, significativa di una capacità reddituale, l’entrata derivante dalla percezione dell’assegno di separazione. Tali accertamenti si rendono altresì necessari in ordine alla determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del figlio minore, atteso che anch’esso deve essere quantificato, tra l’altro, considerando le sue esigenze in rapporto al tenore di vita goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori e le risorse ed i redditi di costoro. Le migliori condizioni economiche di uno dei genitori non comportano necessariamente una riduzione del contributo di mantenimento dei figli posto a carico dell’altro genitore. Cassazione sezione I, 24 gennaio 2007, n. 1607 La determinazione del contributo che per legge grava su ciascun coniuge per il mantenimento, l’educazione e l’istruzione della prole non si fonda, a differenza di quanto avviene nella determinazione dell’assegno spettante al coniuge separato o divorziato, su una rigida comparazione della situazione patrimoniale di ciascun coniuge. Pertanto, le maggiori potenzialità economiche del genitore affidatario concorrono a garantire al minore un migliore soddisfacimento delle sue esigenze di vita, ma non comportano una proporzionale diminuzione del contributo posto a carico dell’altro genitore. Prescrizione La prescrizione dell’assegno di mantenimento decorre dalle singole scadenze e non dalla sentenza che lo prevede. Cass. sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975 Il diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio, in quanto avente ad oggetto più prestazioni periodiche, distinte ed autonome, si prescrive non a decorrere da un unico termine costituito dalla sentenza che ha pronunciato sul diritto stesso, ma dalle scadenze delle singole prestazioni imposte nella pronuncia giudiziale, in relazione alle quali sorge di volta in volta l’interesse del creditore. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Revoca Le somme riscosse in virtù di provvedimenti di natura economica successivamente riformati sono irripetibili. Cass. sez. I, 20 marzo 2009, n. 6864 In tema di separazione personale, la decisione che nega il diritto del coniuge al mantenimento o ne riduce la misura non comporta la ripetibilità delle maggiori somme corrisposte in forza di precedenti provvedimenti non definitivi, qualora, per la loro non elevata entità, tali somme siano state comunque destinate ad assicurare il mantenimento del coniuge fino all’eventuale esclusione del diritto stesso o al suo affievolimento in un obbligo di natura solo alimentare, e debba presumersi, proprio in virtù della modestia del loro importo, che le stesse siano state consumate per fini di sostentamento personale. (Nel caso di specie, la ripetibilità dell’assegno di mantenimento è stata esclusa dalla Corte, in riforma della sentenza di secondo grado, rispetto ad un importo di euro 350). L’assegno corrisposto nella misura maggiore stabilita in sede presidenziale rispetto a quello stabilito in sentenza può essere oggetto di ripetizione se si dimostra la colpa del coniuge beneficiario. Cass. sez. I, 12 aprile 2006, n. 8512 In tema di separazione personale dei coniugi, il provvedimento presidenziale di fissazione di un assegno di mantenimento, emesso in via provvisoria ai sensi dell’art. 708 c.p.c., ha natura cautelare e tende ad assicurare i mezzi adeguati al necessario sostentamento del beneficiario fino all’eventuale esclusione o al suo affievolimento in un diritto meramente alimentare che può derivare solo dal giudicato, onde gli effetti della decisione che esclude il diritto del coniuge al mantenimento, oppure ne riduce la misura, non possono comportare la ripetibilità delle somme a quel titolo sino a quel momento corrisposte, che si presumono consumate per far fronte alle necessità di sostentamento, a meno che non vengano dimostrati gli estremi dell’eventuale responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c. per avere il coniuge stesso agito in giudizio con mala fede o colpa grave oppure per aver eseguito il provvedimento cautelare senza la necessaria prudenza. In caso di revoca dell’assegno per errata concessione devono essere restituite le somme già erogate. Cass. sez. I, 28 maggio 2004, n. 10291 Qualora non sussistano i presupposti per il riconoscimento del diritto alla percezione dell’assegno divorzile, le somme, non aventi funzione alimentare, corrisposte al coniuge più debole, in base a una pronuncia rivelatasi ab initio errata, devono essere restituite, trovando la loro erogazione esclusivo fondamento in un titolo originato dall’infondata domanda del coniuge debole e caducato fin dall’origine, tenuto altresì conto della natura dell’assegno divorzile che trova il suo fondamento non nel diritto all’assistenza materiale, connessa al vincolo matrimoniale, venuto meno con il divorzio, ma esclusivamente nell’inadeguatezza dei mezzi, inadeguatezza riconosciuta appunto in base a titolo giudiziario. Rilevanza della convivenza more uxorio La convivenza “more uxorio” può rilevare ai fini dell’assegno non in sé ma in quanto comporti un miglioramento della situazione economica dell’avente diritto all’assegno. Cass. sez. I, 13 maggio 2009, n. 11131 La convivenza “more uxorio”, non attribuendo, allo stato della legislazione vigente, ai conviventi diritti reciproci di mantenimento, rileva ed è valutabile ai fini della determi- nazione dell’assegno di separazione e di divorzio unicamente nei limiti in cui sia dimostrato dalla controparte che in conseguenza di essa, della sua stabilità e delle condizioni economiche del convivente di fatto, si sia verificato un miglioramento stabile e duraturo della situazione economica della parte richiedente. Ciò senza che sia esclusa la debenza dell’assegno in misura - quale è quella liquidata nella specie - destinata ad assicurare all’avente diritto condizioni minime di autonomia economica. La nascita di un figlio non è di per sé prova della convivenza more uxorio con un terzo del coniuge beneficiario dell’assegno. Cass. sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2709 In tema di divorzio, l’eventuale nascita di un figlio non costituisce elemento di prova di per sé sufficiente e idoneo a dimostrare l’esistenza di una situazione di convivenza “more uxorio” tra il coniuge beneficiario dell’assegno ed un terzo, avente nel tempo i caratteri di stabilità e continuità tali, da far presumere che il beneficiario dell’assegno tragga da tale convivenza vantaggi economici che giustifichino la revisione dell’assegno medesimo. L’assegno divorzile è in astratto dovuto anche se l’ex coniuge beneficiario ha ormai instaurato una nuova stabile convivenza more uxorio e durante il periodo della separazione non aveva ricevuto né richiesto l’assegno. Cass. sez. I, 28 giugno 2007, n. 14921 L’assegno di divorzio non può essere automaticamente negato nel caso in cui il beneficiario abbia instaurato una nuova convivenza stabile: il rapporto more uxorio rappresenta soltanto un elemento da valutare per stabilire se il richiedente dispone di mezzi adeguati rispetto al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. L’incidenza economica della convivenza, insomma, deve essere valutata in relazione al complesso delle circostanze che la caratterizzano. La mancata liquidazione, così come la mancata richiesta, dell’assegno di mantenimento in sede di separazione non preclude l’ottenimento dell’assegno di divorzio se il richiedente riesce a dimostrare l’insufficienza delle proprie disponibilità. L’assetto economico relativo alla separazione può soltanto rappresentare un indice di riferimento nella regolazione del regime patrimoniale del divorzio, nella misura in cui appare idoneo a offrire elementi utili a valutare condizioni e redditi dei coniugi. La convivenza more uxorio della ex moglie beneficiaria di assegno divorzile ove comporti per lei risparmi di spesa ha rilevanza ai fini di una diminuzione del quantum dell’assegno. Cass. sez. I, 10 novembre 2006, n. 24056 Il diritto all’assegno di divorzio non può essere automaticamente negato per il fatto che il suo titolare abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, influendo tale convivenza solo sulla misura dell’assegno ove si dia la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza, pur se non assistita da garanzie giuridiche di stabilità, ma di fatto consolidatasi e protraentesi nel tempo, influisca in melius sulle condizioni sulle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo di mantenimento da parte del convivente o quanto meno di apprezzabili risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza. La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di un convivente more uxorio di uno dei coniugi possono avere incidenza sull’assegno divorzile ma non sul mantenimento dei figli. Cass. sez. I, 24 febbraio 2006, n. 4203 La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 43 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA un convivente more uxorio di uno dei coniugi può assumere rilievo solo per escludere oppure ridurre lo stato di bisogno dell’altro coniuge, e, quindi, in ordine all’esistenza e alla consistenza del diritto all’assegno di mantenimento o divorzile, da parte di quest’ultimo, ma non può incidere sull’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli che, in base al disposto dell’articolo 147 del Cc, grava esclusivamente su ciascuno dei genitori, ed è rivolto a far fronte a una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma esteso all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale. Perché l’assegno divorzile venga meno occorre provare che la convivenza more uxorio del beneficiario ha determinato un miglioramento delle sue condizioni di vita. Cass. sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1179 In assenza di un nuovo matrimonio, il diritto all’assegno di divorzio di per sé permane anche se il richiedente abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, salvo che sia data la prova, da parte dell’ex coniuge, che tale convivenza abbia determinato un mutamento in melius, pur se non assistito da garanzie giuridiche di stabilità ma di fatto adeguatamente consolidatosi e protraentesi nel tempo, delle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento a opera del convivente o, quanto meno, di risparmi di spesa derivategli dalla convivenza. La relativa prova non può essere limitata a quella della mera instaurazione e della permanenza di una convivenza siffatta e la dimostrazione del mutamento in melius delle condizioni economiche dell’avente diritto può essere data con ogni mezzo di prova, anche presuntiva, soprattutto attraverso il riferimento ai redditi e al tenore di vita della persona con la quale il richiedente l’assegno convive; ciò al fine di far presumere che dalla convivenza more uxorio il richiedente tragga benefici economici idonei a giustificare il diniego o la minor quantificazione dell’assegno. Non soccorre, invece, l’esperimento di indagini a cura della polizia tributaria, previste dall’articolo 5 della legge 898/1970, in caso di contestazioni sui redditi e patrimoni dei coniugi ma non dei terzi. Il miglioramento delle condizioni economiche del beneficiari dell’assegno divorziale dovuto agli apporti del convivente more uxorio rende ammissibile la revisione della misura dell’assegno. Cass. sez. I, 8 luglio 2004, n. 12557 In assenza di un nuovo matrimonio, il diritto all’assegno di divorzio di per sé permane nella misura stabilita dalla sentenza di divorzio, anche se il suo titolare instauri una convivenza more uxorio con altra persona, salvo che sussistano i presupposti per la modifica della sentenza di divorzio ex articolo 9 della legge 898/1970, con la prova, in questo caso, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza ha determinato un mutamento in melius, pur se non assistito da garanzie giuridiche di stabilità, ma di fatto adeguatamente consolidato, delle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o quanto meno da risparmi di spese da questa derivatigli. La relativa prova può essere data con ogni mezzo, anche presuntivo, soprattutto con riferimento ai redditi e al tenore di vita della persona con la quale il titolare dell’assegno convive, i quali possono far presumere che dalla convivenza more uxorio i! titolare dell’assegno tragga benefìci economici idonei a giustificare la revisione dell’assegno, secondo il principio generale di cui all’articolo 9, comma 1 della legge 898/1970. Può essere ridotto l’assegno di divorzio se il coniuge beneficiario trae i mezzi di vita da una stabile convivenza more 44 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 uxorio. Cass. sez. I, 6 febbraio 2004, n. 2251 La convivenza extraconiugale intrapresa dal coniuge richiedente l’assegno, non implicando alcun diritto al mantenimento nei confronti del convivente, non comporta di per sé la cessazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di separazione o di divorzio da parte dell’altro coniuge, ma può rilevare, ove rivesta requisiti di stabilità e di affidabilità, ai fini dell’accertamento delle condizioni del beneficiario, nei limiti in cui incida sulla reale e concreta situazione economica del medesimo, risolvendosi in una fonte effettiva e non aleatoria di reddito. L’assegno divorzile non è dovuto se il beneficiario trae i mezzi di vita da una stabile convivenza more uxorio. Cass. sez. I, 8 agosto 2003 n. 11975 In caso di divorzio e di richiesta di un assegno di mantenimento, ai sensi dell’articolo 5, della legge n. 898 del 1970, incombe sull’ex coniuge richiedente l’onere della prova dell’impossibilità obiettiva di procurarsi mezzi adeguati. Allorché la convivenza more uxorio con un terzo dell’ex coniuge divorziato, che chieda la concessione di un assegno di mantenimento a carico dell’altro, si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità, tanto da venire ad assumere i connotati della famiglia di fatto - in quanto tale caratterizzata dalla libera e stabile condivisione di valori e modelli di vita, perciò stesso anche economici - il parametro della valutazione dell’adeguazione dei mezzi economici a disposizione del richiedente l’assegno non può che registrare una tale evoluzione, recidendo finché dura tale convivenza e ferma in questa fase la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé, ove non compensato all’interno della convivenza - ogni plausibile connessione con il tenore e il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, con ciò stesso, ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione di esso. Può venir meno il diritto all’assegno di divorzio se il coniuge beneficiario trae i mezzi di vita da una convivenza more uxorio. Cass. sez. I, 9 aprile 2003, n. 5560 In sede di accertamento del diritto all’assegno divorzile, la convivenza “more uxorio”, e quindi la prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte del convivente, costituisce elemento valutabile in ordine alla disponibilità, da parte del richiedente, di “mezzi adeguati” rispetto al tenore di vita goduto durante il matrimonio. Tenore di vita L’assegno divorzile non va commisurato al tenore di vita tollerato o subìto ma a quello offerto dalle potenzialità economiche delle parti. Cass. sez. I, 16 maggio 2005, n. 10210 Il tenore di vita, cui rapportare il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente l’assegno di divorzio, è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi - ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e delle loro disponibilità patrimoniali - e non già quello tollerato, o subito, o anche concordato con l’adozione di particolari criteri di suddivisione delle spese familiari e di disposizione dei redditi personali residui. Il tenore di vita può essere legittimamente desunto dalla potenzialità economiche dei coniugi durante il matrimonio. Cass. sez. I, 15 ottobre 2003, n. 15383 L’accertamento del diritto all’assegno di divorzio va ef- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA fettuato verificando l’adeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente a consentirgli il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e razionalmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio: ai fini di tale accertamento correttamente il tenore di vita precedente viene desunto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e delle loro disponibilità patrimoniali. Il tenore di vita può essere legittimamente desunto dalla potenzialità economiche dei coniugi durante il matrimonio. Cass. sez. I, 8 agosto 2003, n. 11965 Condizioni, per il sorgere del diritto al mantenimento, in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, sono, da un lato, la non titolarità, da parte di quest’ultimo, di adeguati redditi propri - cioè di redditi che consentano al richiedente di mantenere un tenore di vita analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio dall’altro, la disparità economica tra le parti. Deriva, da quanto precede, pertanto, che ai fini della valutazione dell’adeguatezza dei redditi del soggetto che chiede l’assegno il parametro di riferimento è costituito dalle potenzialità economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del medesimo richiedente. Una volta accertato il diritto all’assegno, infine, il giudice, per determinare il quantum deve tenere conto anche, degli elementi fattuali di ordine economico o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti. Il tenore di vita può essere legittimamente desunto dalla situazione reddituale dei coniugi al momento della cessazione della convivenza. Cass. sez I, 20 marzo 2003, n. 4064 L’applicazione dei criteri stabiliti dall’articolo 5, comma 6, della legge 898/1970 (modificato dall’articolo 10, della legge 74/1987), e particolarmente di quello concernente la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, è da ritenere attuata, allorché il giudice di merito abbia tenuto conto della situazione reddituale della famiglia al momento della cessazione della convivenza, quale elemento induttivo dal quale desumere, in via presuntiva, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; facendo anche riferimento, in mancanza di altre prove, al parametro di valutazione desunto dalla comparazione tra i redditi dell’onerato e quelli del richiedente. AVVOCATO Consulenza stragiudiziale L’attività di consulenza stragiudiziale non è riservata agli esercenti la professione di avvocato. Cass. sez. unite, 12 luglio 2004, n. 12874 L’attività di consulenza stragiudiziale non è riservata agli esercenti la professione di avvocato. Ha ritenuto la Corte che non viola, perciò, l’ordinamento della detta professione, né contrasta con principi di deontologia forense il comportamento del docente universitario a tempo pieno, iscritto nell’elenco speciale di cui all’art. 11, comma 6, DPR 11 luglio 1980 n. 382, che, inosservante delle regole di incompatibilità proprie dell’ordinamento universitario, ab- bia prestato opera di consulenza stragiudiziale retribuita in favore di privati. Curatore speciale del minore Costituisce causa di nullità del procedimento di adottabilità la mancata nomina al minore di un curatore speciale. Cass. sez. I, 8 maggio 2009, n. 10594 Nei giudizi dichiarativi dello stato di adottabilità la mancata nomina di un curatore speciale che rappresenti il minore sin dal loro inizio, ne provoca la nullità assoluta, insanabile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Costituisce causa di nullità del procedimento di adottabilità la mancata nomina al minore di un curatore speciale. Cass. sez. I, 4 maggio 2009, n. 10228 In materia di adozione ed anche con riferimento all’assetto normativo previgente alle modifiche di carattere processuale apportate alla legge 4 maggio 1983, n. 184 dalla legge 28 marzo 2001, n. 149 (la cui efficacia è rimasta sospesa, in forza della disposizione transitoria di cui all’art.1 del d.l. 24 aprile 2001, n. 150, e successive proroghe, fino al 30 giugno 2007), il procedimento diretto alla dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore postula - ai sensi dell’art. 17, secondo comma, della legge n. 184 cit., dell’art. 75, secondo comma e 78, secondo comma, cod. proc. civ., dei principi costituzionali di protezione dell’infanzia, del giusto processo e di diritto di difesa, nonchè dei principi consacrati nella Convenzione dei diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176 e nella Convenzione europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 2 marzo 2003, n. 77 -, la nomina di un curatore speciale, affinchè l’interessato sia autonomamente rappresentato in giudizio e tutelato nei suoi preminenti interessi e diritti; in mancanza, il procedimento è affetto da nullità assoluta, insanabile e rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, in quanto conseguente al vizio di costituzione del rapporto processuale e alla violazione del principio del contraddittorio. Deontologia L’avvocato che assiste i coniugi in sede di separazione consensuale non può assumere la difesa di uno dei due coniugi successivamente. Cass. sez. unite, 10 gennaio 2006, n. 134 L’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari deve astenersi dal prestare la propria assistenza in controversie successive tra i medesimi in favore di uno di essi. L’avvocato non può essere iscritto all’albo dei mediatori commerciali. Cass. sez. unite, 17 novembre 2005, n. 23239 La semplice iscrizione all’albo dei mediatori determina a prescindere dell’effettivo esercizio dell’attività di mediazione - una situazione di incompatibilità con l’iscrizione all’albo degli avvocati, e legittima, ai sensi degli articoli 3 e 37 del r.d.l 27 novembre 1933, n. 1578, la cancellazione del professionista dall’albo degli avvocati, non avente natura disciplinare. L’avvocato deve assolvere anche ad un compito di dissuasione quando ritiene la causa produttiva di un rischio o contraria all’interesse del proprio assistito. Cass., sez. II, 30 luglio 2004, n. 14597 Nell’adempimento dell’incarico professionale conferito- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 45 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA gli, l’obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto degli art. 1176, comma 2, e 2236 cod. civ. impone all’avvocato di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l’onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all’esercizio dello ius postulandi, stante la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno di iniziare un processo o intervenire in giudizio. L’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari non può successivamente assumere la rappresentanza di uno di essi. Cass. sez. unite, 11 aprile 2003, n. 5715 Per la ravvisabilità di un conflitto di interessi tra avvocato e cliente non è necessario l’effettivo utilizzo di notizie acquisite, ma è sufficiente l’astratta possibilità che esso si verifichi. Onorari Nel patrocinio a spese dello Stato gli importi spettanti al difensore sono ridotti alla metà. Corte cost. 18 maggio 2006, n. 201 E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 130 del Dpr 30 maggio 2002 n. 115 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”) in riferimento all’articolo 3 della Costituzione. La riduzione alla metà degli onorari previsti per le cause civili nella disciplina del patrocinio a spese dello Stato non è incostituzionale. Corte cost. 15 luglio 2005, n. 350 E’ legittima la norma sul patrocinio a spese dello Stato (art. 130 del Testo unico sulle spese di giustizia approvato con dpr 115/2002) che prevede la riduzione dei compensi e degli onorari degli avvocati a metà nella cause civili. Prestazioni giudiziali Sono da considerarsi prestazioni giudiziali anche quelle attività che si svolgano al di fuori del processo, purché strettamente dipendenti da un mandato relativo alla difesa e rappresentanza in giudizio. Cassazione sez. II, 19 febbraio 2007, n 3740 Ai fini dell’ applicazione delle disposizioni della legge professionale forense 1794/1942 sono da considerarsi prestazioni giudiziali non soltanto quelle che consistono nel compimento di veri e propri atti processuali, ma anche quelle attività che si svolgano al di fuori del processo, purché strettamente dipendenti da un mandato relativo alla difesa e rappresentanza in giudizio, cosicché possano ritenersi come preordinate allo svolgimento di attività propriamente processuali o a esse complementari. Rientra, ad esempio, fra le prestazioni giudiziali l’attività svolta dal difensore di una parte in giudizio per la conclusione di una 46 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 transazione che ponga termine alla lite, ancorché la transazione stessa abbia luogo non sotto forma di conciliazione davanti al giudice di pace, ma mediante negozio extraprocessuale, quale che sia la sua rilevanza economica. Sanzioni disciplinari Quando il praticante diventa avvocato continua a valere la sanzione disciplinare Cass. sez. Unite, 9 aprile 2008, n. 9166 La sanzione della sospensione dalla pratica si converte in sospensione dall’esercizio della professione di avvocato se il praticante nelle more dell’esecuzione della sanzione è divenuto avvocato iscrivendosi al relativo albo. Tariffe minime La determinazione delle tariffe minime inderogabili non è in contrasto con l’ordinamento europeo. Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. VII, 5 maggio 2008, Causa C-386-07 Come anche chiarito in altre decisioni (sentenza Arduino nella causa C-35/99 del 19 febbraio 2002; sentenza Cipolla, Macrino-Capodarte nelle cause riunite C-94/04 e C202/04 del 5 dicembre 2006; Ordinanza Mauri nella causa C-250/03 del 17 febbraio 2005) gli articoli 10 e 81 del Trattato CE non ostano ad una normativa nazionale che vieti in linea di principio di derogare ai mini tariffari approvati mediante decreto ministeriale sulla base di un progetto elaborato dal Consiglio nazionale Forense e perciò sulla base di un procedimento che non delega a privati l’adozione di interventi in ambito economico. [Il principio continua a trovare applicazione solo per le cause anteriori all’abrogazione - operata con l’art. 2, co 1 del DL 4 luglio 2006 n. 223 convertito dalla legge 4 agosto 2006 n. 248 - delle disposizioni legislative e regolamentari che prevedono la fissazione di tariffe fisse o minime: Cass. sez. III, 15 aprile 2008, n. 9878] COGNOME Aspetti processuali Nei procedimenti camerali di attribuzione del cognome l’appello si introduce, come in tutti i procedimenti camerali, con ricorso da depositare nel termine perentorio di cui all’art. 739 c.p.c. Cass. sez. I, 5 giugno 2009, n. 12983 Nei procedimenti camerali indicati nell’art. 38 disp. att. c.c., tra i quali rientra quello disciplinato dall’art. 262 c.c., relativo alla domanda di attribuzione del cognome paterno in via aggiuntiva o sostitutiva a quello materno, il reclamo avverso la pronuncia di primo grado del tribunale per i minorenni deve essere proposto con ricorso, sia perché tale è la forma dell’atto introduttivo dei procedimenti camerali, sia perché trova applicazione il principio secondo il quale ai procedimenti di secondo grado si applicano (salvo incompatibilità) le regole processuali proprie dei procedimenti di primo grado. Ne consegue che, ai fini dell’osservanza del termine perentorio previsto dall’art. 739 c.p.c. per la proposizione del reclamo, è sufficiente il tempestivo deposito del ricorso, potendo la nullità o l’omissione della notifica dell’atto introduttivo e del decreto di fissazione d’udienza essere sanate, in applicazione dell’art. 162, comma 1, c.p.c., mediante l’ordine di rinnovazione emesso dal giudice. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Cambiamento Si può aggiungere al cognome del padre anche quello della madre. Consiglio di Stato, sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2572 Il diniego ministeriale di autorizzazione al mutamento di nome, ai sensi degli artt. 153 e seguenti del R.D. 9 luglio 1939 n. 1238, costituisce, come costantemente affermato da questo Consiglio di Stato (cfr. IV Sez., n. 906/89; par. III, n. 26/86), provvedimento eminentemente discrezionale, in cui la salvaguardia dell’interesse pubblico alla tendenziale stabilità del nome, connesso ai profili pubblicistici dello stesso come mezzo di identificazione dell’individuo nella comunità sociale, può venire contemperata con gli interessi di coloro che quel nome intendano mutare o modificare nonché di coloro che a quel mutamento intendano opporsi. Dalla natura discrezionale dell’impugnato provvedimento di diniego discende - secondo i principi - che il sindacato giurisdizionale dello stesso può essere condotto, quanto al vizio intrinseco dello sviamento, sotto il limitato profilo della manifesta irragionevolezza delle argomentazioni amministrative o del difetto di motivazione. Nella fattispecie in esame, il diniego si fonda su una comparazione, da ritenere inadeguata, dell’interesse dell’istante M. C. con l’interesse pubblico alla tendenziale stabilità del nome e si risolve nella attribuzione di una prevalenza all’interesse alla immutabilità del nome. Invero, è stata già affermata dalla Sezione (cfr. dec. n. 750/84 e 1220/73) l’illegittimità di un provvedimento che neghi al richiedente l’aggiunta di un cognome al proprio ove esso non risulti sufficientemente motivato in ordine al dissenso dagli atti istruttori, favorevoli alla richiesta dell’interessato. Nella fattispecie, il Ministero di grazia e giustizia non ha indicato le ragioni di opposizione rispetto al favorevole parere espresso dal Procuratore generale. Il cognome è un diritto della persona. Corte di giustizia CE, 2 ottobre 2003, n. 148 Gli art. 12 Ce e 17 Ce devono essere interpretati nel senso che ostano al fatto che, in circostanze come quelle della causa principale, l’autorità amministrativa di uno Stato membro respinga una domanda di cambiamento del cognome per figli minorenni residenti in questo Stato e in possesso della doppia cittadinanza, dello stesso Stato e di un altro Stato membro, allorché la domanda è volta a far si che i detti figli possano portare il cognome di cui sarebbero titolari in forza del diritto e della tradizione del secondo Stato membro. Filiazione legittima La prima sezione della Cassazione chiede l’intervento delle Sezioni Unite sulla questione della libera attribuzione del cognome ai figli legittimi. Cass. Sez. I, ordinanza 22 settembre 2008, n. 23934 La norma attributiva del cognome paterno al figlio legittimo anche in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori appare “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia” e non più in sintonia con le fonti sopranazionali (che impongono agli Stati membri l’adozione di misure adeguate ad eliminare discriminazioni di trattamento nei confronti della donna). Ciò premesso si chiede al Primo presidente della Corte di assegnare alle Sezioni Unite la questione per un riesame dei principi affermati in precedenza da Cass. 16093 del 2006 con cui, preso atto della sentenza 61 del 2006 della Corte costituzionale, si è ritenuto che spetta solo al legislatore modificare la normativa in questione. Il figlio legittimo acquista automaticamente il cognome del padre, anche quando vi è una diversa volontà dei coniugi. Corte cost. 16 febbraio 2006, n. 61 E’ riservata al legislatore la questione relativa all’attribuzione del cognome dei figli nella famiglia legittima. L’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna. Tuttavia, l’intervento che si invoca con l’ordinanza di rimessione richiede una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte. E infatti, nonostante l’attenzione prestata dal collegio rimettente a circoscrivere il petitum, limitato alla richiesta di esclusione dell’automatismo dell’attribuzione al figlio del cognome paterno nelle sole ipotesi in cui i coniugi abbiano manifestato una concorde diversa volontà, viene comunque lasciata aperta tutta una serie di opzioni, che vanno da quella di rimettere la scelta del cognome esclusivamente a detta volontà - con la conseguente necessità di stabilire i criteri cui l’ufficiale dello stato civile dovrebbe attenersi in caso di mancato accordo - ovvero di consentire ai coniugi che abbiano raggiunto un accordo di derogare a una regola pur sempre valida, a quella di richiedere che la scelta dei coniugi debba avvenire una sola volta, con effetto per tutti i figli, ovvero debba essere espressa all’atto della nascita di ciascuno di essi. È sospetta di incostituzionalità la norma che prevede l’attribuzione ai figli legittimi del solo cognome paterno. Cass. sez. I, 17 luglio 2004, n. 13298 La prima sezione civile della Cassazione solleva la questione di costituzionalità delle norme in materia di filiazione legittima che prevedono l’automaticità dell’acquisto del cognome paterno anche quando sussiste accordo dei coniugi nell’attribuzione al figlio del cognome materno. Filiazione naturale La scelta del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori deve essere effettuata con esclusivo riferimento all’interesse del figlio minore e con esclusione di qualsiasi automaticità. Cass. sez. I, 6 novembre 2009, n. 23632 Nel caso di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito dall’art. 262, comma 3, c.c. del poteredovere di decidere su ognuna delle soluzioni in detta disposizione previste, avendo riguardo all’unico criterio di riferimento dell’interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità, quale anche rinveniente ai fini dell’attribuzione del cognome di entrambi i genitori dalla pregressa durevole convivenza del medesimo minore con la madre. La scelta del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori deve essere effettuata con esclusivo riferimento all’interesse del figlio minore. Cass. sez. I, 28 maggio 2009, n. 12670 In tema di attribuzione giudiziale del cognome del figlio naturale e riconosciuto non contestualmente dai genitori, poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione esclusiva del suo interesse, che è essenzialmente quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, e poiché l’art. 262 c.c. disciplina autonomamente e compiutamente la materia, la scelta del giudice non può essere condizionata né dal favor per il patroni- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 47 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA mico né dall’esigenza di equiparare, almeno tendenzialmente, il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dal citato articolo, che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo o legittimato. La scelta del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori deve essere effettuata con esclusivo riferimento all’interesse del figlio minore. Cass. sez. I, 27 febbraio 2009, n. 4819 L’ultimo comma dell’art. 262 c.c. demanda al giudice la decisione circa le modalità di attribuzione del cognome paterno, che può essere aggiunto o anche sostituito a quello materno, e tale decisione deve essere assunta nell’esclusivo interesse del figlio naturale minore il cui riconoscimento da parte del padre avvenga in seguito al riconoscimento operato dalla madre, tenendo conto della natura inviolabile del diritto al cognome, tutelato ai sensi dell’art. 2 Cost.; è conseguentemente da escludere che il diritto del minore possa essere influenzato direttamente da valutazioni circa la correttezza del comportamento del genitore. In caso di riconoscimento tardivo da parte del padre naturale il figlio maggiorenne o il tribunale per i minorenni, in caso di minore età del figlio, hanno il potere di decidere se il figlio debba acquisire o meno il cognome paterno e, in caso affermativo, se il cognome paterno debba essere aggiunto o sostituito. Cass. sez. I, 6 giugno 2008, n. 15087 La ratio dell’art. 262 c.c. è quella di assicurare, in correlazione con la particolarità dei casi concreti, anche in materia di assunzione del cognome, il diritto costituzionalmente garantito di tendenziale completa equiparazione del trattamento dei figli naturali a quello dei figli nati nel matrimonio, contemperandolo, peraltro, nell’interesse esclusivo del figlio stesso, con la tutela generale del cognome, in quanto elemento identificativo della persona. Infatti, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 13 del 1994, il nome è uno degli elementi che caratterizzano l’identità della persona, oggetto di tutela costituzionale, oltre che ai sensi dell’art. 22 Cost., anche ai sensi dell’art. 2 Cost., in quanto segno distintivo ed identificativo di ogni individuo nella vita di relazione. Ne deriva che, una volta radicatosi quale elemento identificativo della persona, il cognome debba essere tutelato da irragionevoli modificazioni che contrastino con il diritto inviolabile e fondamentale alla propria identità (Corte cost., sentenze nn. 297 del 1996 e 120 del 2001), cosicché anche l’art. 262 cod. civ. va interpretato alla luce di tali principi. Sulla base di essi questa Corte, riguardo al primo comma dell’art. 262, ha statuito (Cass. 17 luglio 2007, n. 15953 cit.) che il figlio maggiorenne, la cui filiazione nei confronti del padre sia stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, può - a sua scelta - valutando direttamente il proprio interesse al riguardo, assumere o meno il cognome del padre, aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre, senza che nessuno dei due genitori possa opporsi alla sua scelta. Ove, invece, il figlio sia minore di età, detta scelta va compiuta, in forza del terzo comma dell’art. 262, dal giudice, che dovrà valutare l’interesse del minore in relazione ad esso, tenendo conto dell’esigenza di tutela del diritto alla già acquisita identità personale in relazione al cognome in precedenza attribuitogli, nell’ambito dell’ambiente sociale in cui vive, con una valutazione contrassegnata da un ampio margine di discrezionalità, frutto di un ponderato apprezzamento dell’interesse del minore, all’uopo tenendo conto di ogni specifico elemento della fattispecie concreta (Cass. 1 agosto 2007, n. 16989; 27 aprile 2001, n. 6098). 48 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Nell’attribuzione del cognome al figlio naturale occorre sempre valutare l’interesse del minore. Cass. sez. I, 26 maggio 2006, n. 12641 Il figlio naturale, riconosciuto al momento della nascita unicamente dalla madre e riconosciuto dal padre solo in un secondo momento, ha diritto a conservare il cognome precedentemente attribuitogli, non solo ove dal nuovo cognome possa derivare allo stesso danno, ma anche allorquando il cognome materno si sia radicato nel contesto sociale in cui il minore si trova a vivere, atteso che precludergli il diritto a mantenerlo si risolverebbe in un’ingiusta privazione di un elemento della sua personalità. (Nella specie, in applicazione del riferito principio, la Suprema corte ha confermato la pronuncia del giudice del merito che aveva negato l’attribuzione del cognome del padre dopo aver accertato, da un lato, la cattiva reputazione del cognome paterno, essendo l’avo paterno fortemente sospettato di appartenere alla malavita organizzata, dall’altro che nell’intervallo tra i due riconoscimenti il minore aveva maturato una precisa identità individuale e sociale per il fatto essere conosciuto, nella cerchia sociale in cui vive, con il cognome della madre). COMUNIONE LEGALE Acquisti esclusi dalla comunione Gli acquisti effettuati da un coniuge dopo la sentenza di separazione sono esclusi dalla comunione ove sia stata proposta impugnazione per il solo addebito. Cass. sez. I, 31 maggio 2008, n. 14639 Secondo il condiviso ed ormai consolidato orientamento di questa Corte nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la richiesta di addebito, pur essendo proponibile solo nell’ambito del giudizio di separazione, ha natura di domanda autonoma; infatti, la stessa presuppone l’iniziativa di parte, soggiace alle regole e alle preclusioni stabilite per le domande, ha una causa petendi (la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio in rapporto causale con le ragioni giustificatrici della separazione, intollerabilità della convivenza o dannosità per la prole) ed un petitum (statuizione destinata a incidere sui rapporti patrimoniali con la perdita del diritto al mantenimento e della qualità di erede riservatario e di erede legittimo) distinti da quelli della domanda di separazione; pertanto, in carenza di ragioni sistematiche contrarie e di norme derogative dell’art. 329, secondo comma cod. proc. civ., l’impugnazione proposta con esclusivo riferimento all’addebito contro la sentenza che abbia pronunciato la separazione ed al contempo ne abbia dichiarato l’addebitabilità, implica il passaggio in giudicato del capo sulla separazione. Conseguentemente l’acquisto di un immobile effettuato da un coniuge dopo il passaggio in giudicato del punto relativo allo status non comporta l’acquisizione di quel bene alla comunione. La costruzione realizzata su terreno di proprietà di uno dei coniugi non entra in comunione. Cass, sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354 La costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale su terreno di proprietà esclusiva di uno dei coniugi è di proprietà esclusiva di quest’ultimo, mentre al coniuge non proprietario che abbia contribuito alla realizzazione della costruzione compete un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione (nella MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA specie il principio è stato applicato al caso di ristrutturazione di un immobile già in proprietà esclusiva). La costruzione realizzata sul suolo di uno dei coniugi in comunione legale non entra far parte della comunione. Cass. sez. II, 19 gennaio 2004, n. 716 In tema di comunione legale tra coniugi, la costruzione realizzata, in costanza di matrimonio, da uno dei coniugi su di un fondo a lui appartenente in proprietà esclusiva entra a far parte del suo patrimonio, senza cadere nel novero dei beni oggetto di comunione di cui all’articolo 177, comma 1, del Cc, prevalendo la specifica disciplina in tema di accessione, espressa dagli articoli 934 e seguenti del Cc, che attribuisce il diritto di proprietà esclusiva della costruzione a favore del proprietario del suolo. Amministrazione e responsabilità Il coniuge che non chiede l’annullamento di un preliminare firmato senza il suo consenso dall’altro coniuge subisce poi gli effetti di quell’atto. Cass. sez. I, 8 gennaio 2007, n. 88 La mancata partecipazione di un coniuge ad un atto dispositivo di un bene della comunione non esclude che anche egli risenta degli effetti dell’atto ove non abbia tempestivamente esercitato nel breve termine di un anno l’azione recuperatoria ai sensi dell’art. 184 c.c. Ciascun coniuge può sempre domandare il sequestro giudiziario dei beni della comunione in previsione dell’accertamento della consistenza della comunione. Tribunale di Modena, 7 maggio 2005 Anche in assenza di una sentenza di separazione passata in giudicato, ciascun coniuge può domandare il sequestro giudiziario dei beni della comunione, ivi compresi i depositi bancari, ove tale domanda sia preordinata ad anticipare gli effetti di un futuro giudizio di accertamento della consistenza della comunione; tuttavia, affinché il provvedimento non incida sulla gestione della comunione, la custodia va affidata congiuntamente ad ambedue i coniugi. La legittimazione congiunta in caso di comunione legale dei beni è richiesta solo per gli atti di straordinaria amministrazione. Cass. sez. I, 14 marzo 2005, n. 5526 Nell’ambito dei poteri di amministrazione e rappresentanza in giudizio spettanti disgiuntamente ai coniugi, ex articolo 180 del Cc, rientra la legittimazione attiva e passiva di ciascuno di essi a stare in giudizio per la tutela dei beni oggetto della comunione. La legittimazione congiunta dei coniugi in regime di comunione è richiesta relativamente ai soli atti di straordinaria amministrazione, mentre per l’ordinaria amministrazione può agire anche uno solo dei coniugi comproprietari del bene. Nell’ambito dell’ordinaria amministrazione è da ritenere compreso il corrispettivo per il godimento del bene, cui può essere equiparata, a tale limitato profilo, l’indennità per la requisizione, comprensiva delle voci di cui essa si compone in base al criterio di determinazione, in concreto adottato dal giudice. Nelle controversie aventi ad oggetto la validità dell’acquisto compiuto da un coniuge in comunione non è litisconsorte necessario l’altro coniuge. Cass. sez. I, 27 dicembre 2004, n. 24031 In tema di comunione legale dei beni tra coniugi nelle controversie aventi a oggetto la validità o l’efficacia del titolo di acquisto di un bene, individualmente compiuto da un coniuge in regime di comunione, l’altro coniuge, rimasto estraneo alla formazione dell’atto, e non intestatario del bene, non è litisconsorte necessario, costituendo l’inclusione del bene nella comunione legale un effetto ope legis. Il coniuge in comunione dei beni è litisconsorte necessario nel giudizio avente ad oggetto l’immobile in comunione. Cass. sez. I, 6 luglio 2004, n. 12313 Ancorché non abbia partecipato alla stipulazione del contratto, il coniuge in comunione legale dell’acquirente di un bene immobile è litisconsorte necessario nel giudizio, promosso dal curatore fallimentare del venditore, per la revocatoria fallimentare dell’atto di compravendita, giacché la richiesta pronuncia del giudice è destinata ad incidere necessariamente, e direttamente, anche sul diritto del coniuge comproprietario non stipulante (il quale non è assimilabile ad un semplice avente causa dell’altro coniuge autore dell’atto), essendo d’altra parte ininfluente la natura personale, e non reale, dell’azione revocatoria, posto che, ai fini del litisconsorzio, rileva esclusivamente, ed è pertanto sufficiente, la qualità di soggetto dell’unitario rapporto originato dall’atto dedotto in giudizio, senz’altro presente nella specie, posto che nella comunione legale (la quale, a differenza della comunione ordinaria, è una comunione senza quote) i coniugi non solo sono solidalmente titolari del diritto sul bene oggetto del contratto di acquisto, ma condividono entrambi (anche, perciò, chi non è parte dell’atto di acquisto) il medesimo titolo di acquisto. Le regole dell’amministrazione della comunione si applicano solo ai beni già in comunione. Cass. sez. II, 14 novembre 2003, n. 17216 In tema di regime patrimoniale della famiglia, la disciplina dell’amministrazione dei beni oggetto della comunione legale, di cui agli art. 180 ss. cod. civ., presuppone, per la sua operatività, che il bene sia già oggetto della comunione e. pertanto, non è applicabile nella fase dinamica pregressa dell’acquisto del bene alla comunione legale. Ne consegue che la regola dell’operare congiunto dei coniugi, la cui osservanza è necessaria ai fini della validità degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (art. 180, comma 2, e 184 cod. civ.), non vale per la stipulazione di un contratto preliminare di acquisto di un bene immobile (ancorché questo sia poi destinalo a cadere in comunione, una volta completarsi l’effetto reale con la conclusione del definitivo o con la sentenza ex art. 2932 cod. civ.-). stipulazione alla quale, quindi, ben può partecipare, in veste di promissario acquirente, un solo coniuge, senza il (e a prescindere dal) consenso dell’altro coniuge. Tale disciplina manifestamente non si pone in contrasto con gli art. 3 e 24 cosi., in relazione all’espressa inclusione (art. 180. comma 2, cod. civ.), nell’ambito di operatività dell’amministrazione dei beni della comunione legale, degli atti di acquisto di diritti personali di godimento; e ciò attesta, per un verso, la natura eccezionale della norma, assunta a tertium comparationis, di equiparazione degli alti di acquisto di diritti personali di godimento agli atti di straordinaria amministrazione dei beni della comunione, e considerato, per altro verso, che la tutela della famiglia non viene meno per effetto dell’acquisizione ope legis alla comunione del bene acquistato da uno solo dei coniugi. Le obbligazioni personali contratte prima del matrimonio non vincolano l’altro coniuge. Cass. sez. II, 30 ottobre 2003, n. 16361 Stante il disposto di cui all’articolo 189 del codice civile secondo cui i beni della comunione non rispondono delle obbligazioni contratte da uno dei coniugi prima del matri- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 49 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA monio, ove uno di questi abbia, con preliminare stipulato anteriormente al matrimonio, promesso in vendita a un terzo un immobile di edilizia popolare ed economica, di cui era assegnatario, la domanda di esecuzione specifica di quel contratto non può trovare accoglimento ove proposta, successivamente al matrimonio, nei confronti di entrambi i coniugi, nelle more divenuti proprietari dell’immobile stesso in regime di comunione legale. Il coniuge convenuto dall’altro coniuge nell’azione di esecuzione di un contratto non può eccepire l’annullabilità dell’atto di disposizione quando è prescritta l’azione di annullamento. Cass. sez. II, 27 ottobre 2003, n. 16099 L’azione di annullamento degli atti di disposizione di beni immobili o mobili registrati posti in essere da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro è soggetta alla prescrizione annuale prevista dall’ari. 184 cod. civ. e rispetto ad essa non trova applicazione, neppure in via analogica, la regola posta dall’ultimo comma dell’art, 1442 cod. civ. in tema di azione generale dì annullamento dei contratti, secondo cui l’annullabilità può essere opposta dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto, anche se è prescritta l’azione per farla valere. Gli atti di disposizione di beni in comunione familiare diversi dagli immobili e dai mobili registrati sono pienamente validi ed efficaci anche se compiuti da uno dei coniugi senza il consenso dell’altro. Cass. sez. I, 19 marzo 2003, n. 4033 Nei rapporti con terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, perché ciò avrebbe l’inconcepibile effetto di far entrare nella comunione degli estranei, può tuttavia disporre, in forza di detta titolarità solidale, dell’intero bene comune. Cessazione Gli acquisti effettuati da un coniuge dopo la sentenza di separazione sono esclusi dalla comunione ove sia stata proposta impugnazione per il solo addebito. Cass. sez. I, 31 maggio 2008, n. 14639 Secondo il condiviso ed ormai consolidato orientamento di questa Corte nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la richiesta di addebito, pur essendo proponibile solo nell’ambito del giudizio di separazione, ha natura di domanda autonoma; infatti, la stessa presuppone l’iniziativa di parte, soggiace alle regole e alle preclusioni stabilite per le domande, ha una causa petendi (la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio in rapporto causale con le ragioni giustificatrici della separazione, intollerabilità della convivenza o dannosità per la prole) ed un petitum (statuizione destinata a incidere sui rapporti patrimoniali con la perdita del diritto al mantenimento e della qualità di erede riservatario e di erede legittimo) distinti da quelli della domanda di separazione; pertanto, in carenza di ragioni sistematiche contrarie e di norme derogative dell’art. 329, secondo comma cod. proc. civ., l’impugnazione proposta con esclusivo riferimento all’addebito contro la sentenza che abbia pronunciato la separazione ed al contempo ne abbia dichiarato l’addebitabilità, implica il passaggio in giudicato del capo sulla separazione. Conseguentemente l’acquisto di un immobile effettuato da un coniuge dopo il passaggio in giudicato del punto relativo allo status non comporta l’acquisizione di quel bene alla comunione. 50 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 La comunione legale cessa con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione o con l’omologa della separazione consensuale. Cass. sez. I, 24 dicembre 2004, n. 23974 La comunione legale tra coniugi (in forza dell’articolo 191 del Cc) cessa con il passaggio in giudicato della sentenza che sancisce la separazione giudiziale o con il provvedimento di omologazione della separazione consensuale, atteso che solo gli indicati provvedimenti sono idonei a mutare lo status dei coniugi. E’, pertanto, privo di qualsiasi rilevanza, al detto scopo, il provvedimento con il quale il presidente del tribunale abbia - ai sensi dell’articolo 708 del Cpc - autorizzato i coniugi a vivere separati. La comunione legale si scioglie con la delibazione della sentenza di nullità. Cass. sez. I, 24 luglio 2003, n. 11467 La sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio rende applicabili, per effetto della delibazione, le norme regolanti casi e modalità di scioglimento della comunione dei beni tra i coniugi; comunione che continua a sussistere nella forma legale, al fine della divisione in parti eguali dell’attivo e del passivo (articolo 194, comma 1) per espressa volontà di legge, la cui ratio coincide con le motivazioni - parità tra i coniugi a tutela di quello economicamente più debole (Corte costituzionale 6/87) - ispiratrici della riforma del 1975 in materia di regime patrimoniale preferenziale della famiglia. Comunione de residuo Anche gli immobili se destinati all’esercizio di attività imprenditoriale di uno dei coniugi entrano in comunione de residuo. Cass. sez. I, 19 settembre 2005, n. 18456 I beni di cui all’articolo 178 cod. civ. devono qualificarsi sulla base dell’oggettivo criterio della loro effettiva finalizzazione, dopo il matrimonio, all’attività imprenditoriale di uno dei coniugi, mentre i beni ex articolo 179, lettera d), cod. civ. si caratterizzano per la loro stretta appartenenza alla sfera personale di un coniuge e sono strumentali allo svolgimento di un’attività libero-professionale. Nel primo caso il bene acquistato dal coniuge imprenditore entra nella comunione comunione de residuo; nel secondo caso, invece, i beni acquistati per la professione restano personali, salva l’eccezione di cui al comma 2 dell’articolo 179 cod. civ., che per l’esclusione dalla comunione di alcuni beni richiede quale ulteriore requisito la parteçipazione dell’altro coniuge all’atto di acquisto. I beni acquistati dopo il matrimonio e in costanza di comunione legale da uno solo dei coniugi e da lui destinati all’esercizio della sua impresa, sono sempre esclusi dalla comunione legale senza alcun bisogno che l’altro coniuge renda la dichiarazione prevista dall’art. 179, comma 2, cod. civ. Costituisce pertanto operazione ermeneutica ingiustificata e contra legem integrare l’articolo 178 cod. civ. con la previsione di cui all’ultimo comma dell’articolo 179 cod. civ. non essendo adattabile il requisito dell’assenso dell’altro coniuge all’esclusione al bene funzionale all’esercizio dell’attività imprenditoriale. L’aspettativa alla propria quota di beni che formano la comunione de residuo è tutelabile con l’inversione dell’onere della prova. Cass. sez. I, 12 settembre 2003, n. 13441 I redditi individuali dei coniugi, siano essi redditi di capitali o proventi della loro attività separata, non cadono automaticamente in comunione, ma rimangono di pertinenza del rispettivo titolare, salvo a diventare comuni, nella misura in cui non siano stati già consumati, al verificarsi di una causa di scioglimento della comunione. Nella comunione MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA de residuo, come questa Corte ha già precisato con la sentenza 10 ottobre 1996 n. 8865 ribadita dalla successiva sentenza 17 novembre 2000 n. 14897, sono compresi tutti i redditi percetti e percipiendi rispetto ai quali il titolare dei redditi stessi non riesca a dare la prova che sono stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione. Diritti di credito Le quote di partecipazione in una società di persone vanno considerate beni mobili e rientrano tra gli acquisti in comunione legale. Cass. sez. II, 2 febbraio 2009, n. 2569 La quota di partecipazione ad una società di persone non attribuisce al partecipante una posizione giuridica soggettiva qualificabile in termini di diritto di credito avente ad oggetto la restituzione del conferimento o di una quota proporzionale del patrimonio sociale, ma va ricondotta nella nozione di beni mobili fornita dagli art. 810 e 812, comma ult., c.c. Deriva da quanto precede, pertanto, che la iniziale partecipazione di uno dei coniugi ad una società di persone ed i suoi successivi aumenti - ferma la distinzione tra la loro titolarità e la legittimazione all’esercizio dei diritti nei confronti della società che essi attribuiscono al socio - rientrano tra gli acquisti che, a norma dell’art. 177, lett. a, c.c. costituiscono oggetto della comunione legale tra i coniugi, anche se effettuati durante il matrimonio ad opera di uno solo di essi e con beni personali, ove non ricorra una delle ipotesi previste dall’art. 179 c.c. La comunione legale concerne gli acquisti di diritti reali e non di diritti di credito come quelli scaturenti dal contratto preliminare. Cass. sez. II, 24 gennaio 2008, n. 1548 La comunione legale tra i coniugi di cui all’articolo 177 del cc riguarda gli acquisti, ovvero gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima e non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all’acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione, con la conseguenza che, nel caso di contratto preliminare stipulato da uno dei coniugi, nessun diritto può accampare l’altro coniuge, il quale non è neppure legittimato a proporre domanda di esecuzione specifica ex articolo 2932 del codice civile. L’acquisto di titoli effettuato in comune e pro indiviso entra in comunione ordinaria. Cass. sez. I, 10 settembre 2003, n. 13213 L’acquisto di titoli del debito pubblico che due coniugi in regime di comunione legale operano ciascuno a proprio nome, in comune e pro indiviso, ricevendone un titolo contestato, è soggetto alla disciplina della comunione ordinaria, con la conseguenza che il singolo contitolare non può disporne da solo per l’intero e costituirli in pegno. I diritti di credito non entrano in comunione. Cass. sez. II, 4 marzo 2003, n. 3185 La comunione legale tra i coniugi, di cui all’articolo 177 del codice civile riguarda gli acquisti, ovvero gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi i quali, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentale all’acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione. Deriva, da quanto precede, pertanto, che in caso di contratto preliminare di vendita stipulato da uno solo dei coniugi, l’altro non è legittimato a proporre domanda di esecuzione specifica, ai sensi dell’articolo 2932 del codice civile. Divisione La divisione dei beni in comunione si fa per quote uguali. Cass. sez. I, 24 luglio 2003, n. 11467 La divisione dei beni oggetto della comunione legale fra coniugi, conseguente allo scioglimento di essa per una delle cause indicate nell’articolo 191 del codice civile si effettua in parti eguali, secondo il disposto del successivo articolo 194 del codice civile, senza possibilità di prova di un diverso apporto economico degli acquirenti, non facendosi luogo all’applicazione della disciplina della comunione ereditaria. Esclusione del coacquisto E' sempre ammessa l'azione di accertamento dell'inesistenza dei presupposti che legittimano l'esclusione del coacquisto. Cass. sez. unite un. 28 ottobre 2009, n. 22755 Il coniuge non acquirente di un bene può successivamente proporre domanda di accertamento della comunione legale anche rispetto a beni che siano stati acquistati come personali dall'altro coniuge, non risultando precluso tale accertamento dal fatto che il coniuge non acquirente fosse intervenuto nel contratto per aderirvi. Salvi gli effetti della trascrizione della domanda, il sopravvenuto accertamento della comunione legale non è opponibile al terzo acquirente di buona fede. Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179, comma 2, c.c., si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l'esclusione del bene dalla comunione , occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall'art. 179, comma 1, lett. c, d ed f, c.c., con la conseguenza che l'eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dal fatto che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi. La mancata contestazione della natura personale del bene acquistato dall’altro coniuge può essere rimossa per errore di fatto o per violenza. Cass. sez. II, 8 marzo 2008, n. 6120 In caso di acquisto di un bene immobile o mobile registrato effettuato da uno dei coniugi dopo il matrimonio, l’articolo 179, comma 2 c.c., al fine di escludere la comunione legale richiede, oltre alla sussistenza di uno dei requisiti previsti dalle lettere c) d) ed f) del comma 1 dello stesso articolo, anche che detta esclusione risulti espressamente dall’atto di acquisto purché a detto atto partecipi l’altro coniuge. La mancata contestazione da parte di quest’ultimo in detta sede ovvero l’esplicita conferma, attraverso una propria dichiarazione, di quella dell’acquirente in ordine alla natura personale del bene di cui si tratta ha carattere ricognitivo e non negoziale; e tuttavia costituisce sempre un atto giuridico volontario e consapevole cui il legislatore attribuisce valenza di testimonianza privilegiata, ricollegandovi l’effetto di una presunzione iuris et de gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 51 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA iure di esclusione della contitolarità dell’acquisto. Il vincolo derivante da tale presunzione, peraltro, non è assoluto, potendo essere rimosso per errore di fatto o per violenza nei limiti a cui ciò è consentito per la confessione. Il coniuge che ha venduto un proprio bene può acquistare con il ricavato un altro bene escludendolo dalla comunione. Cass. sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197 In regime di comunione legale tra coniugi il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo accantonato sotto forma di deposito bancario sul proprio conto corrente e il coniuge in questione può utilizzare tali somme per l’acquisto di un bene personale per surrogazione reale ex art. 179, 1° co., lett. f, cod. civ. lorché l’altro coniuge partecipi al contratto. Da ciò consegue che, ove tale natura personale dei beni manchi (e tale mancanza si ha allorché il bene, senza essere di uso strettamente personale o destinato all’esercizio della professione del coniuge, venga acquistato con denaro del coniuge stesso, ma non proveniente dalla vendita di beni personali), la caduta in comunione legale non è preclusa da detta partecipazione e dichiarazione, tanto più che, nella pendenza di tale regime, il coniuge non può rinunciare alla comproprietà di singoli beni acquistati durante il matrimonio (e non appartenenti alle categorie elencate nel comma 1 dell’articolo 179 del codice civile) salvo che sia previamente o contestualmente mutato, nelle debite forme di legge e nel suo complesso, il regime patrimoniale della famiglia. Limiti e presupposti L’esclusione di un acquisto dalla comunione è possibile solo se all’atto partecipa anche il coniuge non acquirente. Cass. sez. I, 24 settembre 2004, n. 19250 In base a quanto previsto nell’ultimo comma dell’art. 179 cod. civ. “l’acquisto di beni immobili ... è escluso dalla comunione ... quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge”. Quindi, perché sia escluso l’acquisto in comunione, oltre alla sussistenza dei presupposti oggettivi richiesti dalla norma (acquisto di bene personale, professionale o di beni acquistati con il prezzo della vendita di altri beni personali), all’atto deve necessariamente partecipare il coniuge non acquirente chiamato ad assentire all’esclusione. In regime di comunione legale il coniuge non può rinunciare alla comproprietà dei beni in comunione. Cass. sez. I, 27 febbraio 2003, n. 2954 In regime di comunione legale dei beni, il coniuge non può validamente rinunciare alla comproprietà di singoli beni (non appartenenti alle categorie elencate dall’articolo 179 del codice civile) acquistati durante il matrimonio, salvo che venga previamente o contestualmente mutato, nelle debite forme di legge e nel suo complesso, il regime patrimoniale della famiglia. In diversa ipotesi, il regime di comunione legale, assunto come normale dalla legge, sarebbe modificabile ad nutum, secondo l’opzione estemporanea di ciascuno dei coniugi in relazione all’acquisto di singoli beni e ciò contrasterebbe con la funzione pubblicistica dell’istituto. L’esclusione di un acquisto dalla comunione è possibile solo se all’atto partecipa anche il coniuge non acquirente. Cass. sez. I, 27 febbraio 2003, n. 2954 In regime di comunione legale, la partecipazione alla stipula del coniuge formalmente non acquirente e l’eventuale dichiarazione di assenso, da parte sua, all’intestazione personale del bene, immobile o mobile registrato, all’altro coniuge, non hanno efficacia negoziale o dispositiva, sotto forma di rinuncia, del diritto alla comunione incidentale sul bene acquisendo, né sono elementi di per sé sufficienti a escludere l’acquisto dalla comunione, ma hanno carattere ricognitivo degli effetti della dichiarazione, resa dall’altro coniuge, circa la natura personale del bene, se e in quanto questa oggettivamente sussista, atteso che il secondo comma dell’articolo 179 del codice civile è norma limitativa dei casi di esclusione dalla comunione risultanti dalle lettere c), d) e f) del comma 1 dello stesso articolo, nel senso che essa, al fine di escludere la comunione legale, richiede, in caso di acquisto di un bene immobile o di un bene mobile registrato, oltre ai requisiti oggettivi previsti dalle citate lettere c), d) e f), che detta esclusione risulti espressamente dall’atto di acquisto, al- 52 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Non esiste una regola generale che preveda che i coniugi sono condebitori solidali per le obbligazioni contratte per soddisfare bisogni della famiglia. Cass. sez. III, 10 ottobre 2008, n. 25026 Nella disciplina del diritto di famiglia, introdotta dalla l. 19 maggio 1975 n. 151, l’obbligazione assunta dal coniuge, per soddisfare bisogni familiari, non pone l’altro coniuge nella veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi. Il suddetto principio opera indipendentemente dal fatto che i coniugi si trovino in regime di comunione di beni, essendo la circostanza rilevante solo sotto il profilo dell’invocabilità da parte del creditore della garanzia dei beni della comunione o del coniuge stipulante, nei casi e nei limiti di cui agli art. 189 e 190 c.c. Nelle cooperative a contributo statale la proprietà si acquista al momento della stipulazione del mutuo. Cass. sez. I, 11 giugno 2005, n. 12382 In ipotesi di alloggio di cooperativa edilizia a contributo statale, il momento rilevante al fine di stabilire l’acquisto della titolarità dell’immobile e, quindi, di verificare se esso ricade nella comunione legale, va individuato in quella della stipulazione, da parte del socio, del contratto di mutuo individuale. Solo in tal modo, infatti, assumendo la veste di semplice mutuatario, il socio acquista irrevocabilmente la proprietà dell’alloggio e l’edificio passa in regime di proprietà frazionata, cui partecipa la stessa cooperativa per le unità non ancora trasferite a singoli assegnatari. In regime di comunione legale non è possibile l’acquisto di un bene in comunione ordinaria se non modificando il regime patrimoniale. Cass. sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3647 Qualora i coniugi, soggetti al regime di comunione legale dei beni, procedano congiuntamente all’acquisto di un bene questo in tanto può essere in comproprietà tra gli stessi secondo le norme della comunione ordinaria (e non in regime di comunione legale, in quanto i coniugi abbiano, preventivamente, stipulato una convenzione derogatoria del loro regime ordinario. Litisconsorzio Nella comunione c’è litisconsorzio necessario tra i coniugi. Cass, sez. I, 7 marzo 2006, n. 4890 Nella comunione si ha litisconsorzio necessario, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, allorquando la decisione richiesta, indipendentemente dalla sua MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA natura (di condanna, di accertamento o costitutiva), è di per sé inidonea a spiegare i propri effetti, cioè a produrre un risultato utile e pratico, anche nei riguardi delle sole parti presenti, stante la natura plurisoggettiva e concettualmente unica e inscindibile sia in senso sostanziale, sia, alle volte, in senso solo processuale, del rapporto dedotto in giudizio, nel quale i nessi fra i diversi soggetti, e tra questi e l’oggetto comune, costituiscono un insieme unitario, con conseguente immutabilità del rapporto medesimo ove non vi sia la partecipazione di tutti i suoi titolari. Il coniuge il quale abbia venduto in nome proprio a terzi un’azienda commerciale facente parte della comunione legale può agire da solo per la giudiziale risoluzione del contratto in danno dell’acquirente senza che il contraente inadempiente possa opporgli la mancata integrazione del giudizio nei confronti dell’altro coniuge, in quanto la predetta attività processuale è speculare a quella negoziale sulla cosa comune che il coniuge ha validamente compiuto da solo, salvi gli effetti nell’ambito della comunione previsti dall’articolo 184, comma terzo, Cc, e la pronunzia sulla relativa domanda sarebbe utilmente emessa nei confronti del solo coniuge stipulante, essendo irrilevante a tal fine ogni questione indotta dall’accertamento giudiziale nei rapporti interni tra coniugi ai sensi della disposizione citata. ricostituire, ad istanza dell’altro, la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, di pagare l’equivalente del bene secondo i valori correnti all’ epoca della ricostituzione della comunione, senza stabilire alcuna sanzione di annullabilità o di inefficacia per l’atto compiuto in assenza del consenso del coniuge, atto che resta, pertanto, pienamente valido ed efficace. Responsabilità È inammissibile il ricorso del coniuge contro l’annullamento del concorso vinto dalla moglie. Consiglio di Stato, V sez. 31 agosto 2007, n. 4541 La comunione dei beni non legittima l’opposizione del marito contro la decisione del giudice amministrativo che annulla l’assunzione della moglie. Il marito in regime di comunione dei beni non è titolare di alcuna legittima aspettativa alla conservazione, nella sfera giuridica dell’altro coniuge, della fonte dalla quale proviene il reddito che finisce nel patrimonio familiare. A condizione, però, che non si tratti di un bene o di un’azienda compresi, fin dal matrimonio, nella comunione legale prevista dal codice civile. Riconciliazione Il coniuge in comunione legale del promissario venditore non è litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal promissario acquirente. Cass. sez. II, 28 ottobre 2004, n. 20867 Nel giudizio conseguente alla domanda, avente natura personale, proposta dal promissario acquirente ex art. 2932 cod. civ. per l’esecuzione specifica di un contratto preliminare di vendita immobiliare concluso con un soggetto, in veste di promittente venditore, coniugato in regime di comunione dei beni, non sussiste la necessità di una integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge del promittente venditore il cui consenso è stato pretermesso, non ricorrendo una situazione sostanziale caratterizzata da un rapporto unico ed inscindibile con pluralità di soggetti, e non rivestendo quindi il coniuge che non ha partecipato all’atto la qualità di litisconsorte necessario. Natura La comunione legale è una comunione indivisa e senza quote. Cass. sez. I, 19 marzo 2003, n. 4033 La comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza di quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei. Ne consegue che nei rapporti con i terzi ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune, ponendosi il consenso dell’altro coniuge (richiesto dal secondo comma dell’articolo 180 Cc per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato, si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall’articolo 184 Cc. Per ciò che concerne, invece, gli atti di disposizione su beni mobili, l’articolo 184, terzo comma, Cc non prevede detto consenso, limitandosi a porre a carico del coniuge che ha effettuato l’atto in questione l’obbligo di La riconciliazione non fa nascere il regime della comunione legale se i coniugi, prima di separarsi, erano in regime di separazione dei beni. Cass. sez. I, 11 dicembre 2003, n. 18936 Il ripristino automatico dell’originario regime patrimoniale legale di comunione, tra coniugi separatisi, in conseguenza di successiva riconciliazione ex articolo 157 del Cc, non può essere opposto ai terzi che hanno acquistato in buona fede, a titolo oneroso, dal coniuge che risultava unico ed esclusivo titolare dell’immobile alienato, per averlo egli, a sua volta, acquistato in regime di separazione dei beni regolarmente annotato a margine dell’atto di matrimonio. Rimborsi e restituzioni Ciascuno dei coniugi, intervenuto lo scioglimento della comunione, può chiedere la divisione del patrimonio comune e il rimborso delle somme prelevate dal proprio patrimonio personale e utilizzate per spese comuni. Cass. sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896 Intervenuto lo scioglimento della comunione legale per effetto della separazione dei coniugi, ciascuno di essi può domandare la divisione del patrimonio comune, da effettuare secondo i criteri stabiliti dagli articoli 192 e 194 del Cc. Perciò i rimborsi e le restituzioni tra coniugi si possono chiedere solo dopo lo scioglimento della comunione, in sede di divisione dei beni comuni. Gli immobili conferiti in comunione non sono oggetto di restituzione. Cass. sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354 In occasione dello scioglimento della comunione legale ciascuno dei coniugi - a norma dell’art. 192, comma 3, cod. civ. - può chiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale e impiegate in spese e investimenti del patrimonio comune, non anche il valore degli immobili, provenienti dal patrimonio personale, conferiti alla comunione (nella specie un immobile, oggetto di preliminare di acquisto da parte di uno dei coniugi anteriormente al matrimonio, era stato, successivamente a questo, intestato a entrambi in regime di comu- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 53 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA nione: in applicazione del principio di cui alla massima la Suprema Corte ha confermato la pronunzia dei giudici di merito che avevano escluso il diritto del coniuge acquirente al rimborso delle somme impiegate per l’acquisto. I rimborsi e le restituzioni possono effettuarsi solo al momento dello scioglimento della comunione, in sede di divisione dopo il passato in giudicato della sentenza di separazione. Cass. sez. I , 15 settembre 2004, n. 18564 In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento dello scioglimento della comunione in sede di divisione dei beni comuni, momento che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge che amministra i beni comuni non amministra beni appartenenti all’altro coniuge, ma pur sempre beni comuni destinati al mantenimento della famiglia. CONGEDI PARENTALI Fratelli Anche i fratelli possono usufruire dei congedi parentali in caso di inabilità dei genitori. Corte cost. 16 giugno 2005, n. 233 E’ costituzionalmente illegittimo l’articolo 42, comma 5, del Dlgs 26 marzo 2001 n. 151 (“Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000 n. 53”), nella parte in cui non prevede il diritto di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi con soggetto con handicap in situazione di gravità a fruire del congedo ivi indicato, nell’ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all’assistenza del figlio handicappato perché totalmente inabili. Genitori adottivi L’indennità di maternità spetta anche ai genitori adottivi nei tre mesi successivi all’ingresso del minore nella famiglia. Corte Cost. 23 dicembre 2003, n. 371 L’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che nel caso di adozione internazionale l’indennità di maternità spetta nei tre mesi successivi all’ingresso del minore adottato o affidato, anche se abbia superato i sei anni di età; è invece inammissibile la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 72, in relazione all’ipotesi dell’adozione nazionale. I riposi giornalieri spettano anche ai genitori adottivi nel primo anno dall’ingresso del minore nella famiglia. Corte cost. 10 aprile 2003, n. 104 54 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Il primo comma dell’art. 45 del D.lgs 151/01 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53) è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che i riposi di cui agli artt. 39, 40 e 41 si applichino, anche in caso di adozione e di affidamento, “entro il primo anno di vita del bambino” anziché “entro il primo anno dall’ingresso del minore nella famiglia”. Handicap Anche il coniuge di una persona disabile ha diritto al congedo retribuito. Corte cost. 8 maggio 2007, n. 158 E’ costituzionalmente illegittimo l’articolo 42, comma 5, del D.lgs n. 151 del 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno alla maternità e alla paternità a norma dell’art. 15 delle legge 8 marzo 2000, n. 53) nella parte in cui non prevede l’estensione del diritto al congedo straordinario retribuito, al coniuge del soggetto gravemente disabile. Indennità di maternità L’indennità di maternità spetta solo dopo l’iscrizione negli elenchi dei lavoratori autonomi. Cass. sezione lavoro, 12 ottobre 2005, n. 19792 L’indennità giornaliera di maternità di cui alla legge n. 546 del 1987 (“Indennità di maternità per le lavoratrici autonome”), spettante per i due mesi antecedenti alla data presunta del parto, nonché per i tre mesi successivi alla data effettiva del parto, non può essere erogata a partire da una data anteriore a quella in cui è stata proposta la domanda di iscrizione negli elenchi, ovvero da una data ancora precedente che tenga conto dei termini di legge entro i quali detta domanda è consentita, salva, in questo secondo caso, la prova della assenza di ogni attività lavorativa svolta dalla lavoratrice madre prima della domanda di iscrizione. Il termine annuale di prescrizione dell’indennità di maternità decorre dalla data in cui l’indennità è dovuta. Cass. sez. lavoro, 14 febbraio 2004, n. 2865 Il termine annuale di prescrizione dell’indennità di maternità di cui all’art. 15 1. 30 dicembre 1971 n. 1204, la quale matura di giorno in giorno e si risolve in un complesso di diritti a ratei giornalieri, decorre dal giorno in cui tali ratei sono dovuti, dovendosi tenere, presente, a tali fini, che: a) una volta presentata tempestiva domanda amministrativa, l’obbligo di pagamento. dei ratei decorre per l’ente previdenziale dal giorno di maturazione degli stessi, sicché il silenzio-rifiuto del medesimo ente si perfeziona con il decorso di centoventi giorni dalla data di presentazione della domanda, per i ratei maturati contestualmente o precedentemente alla stessa e tempestivamente richiesti, e dal giorno di maturazione di ciascun rateo per quelli maturati successivamente alla domanda amministrativa; b) il procedimento amministrativo derivante dalla presentazione di ricorso avverso il provvedimento di diniego (o il silenzio-rifiuto) dell’ente ha effetto sospensivo del termine di prescrizione. Licenziamento Costituisce giusta causa di licenziamento la prestazione di attività lavorativa nel periodo di congedo parentale. Cass. sez. Lavoro, 16 giugno 2008, n. 16207 Ove si accerti che il periodo di congedo consentito nei MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA primi otto anni di vita del figlio dall’art. 32 comma 1 lett. b del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, sia utilizzato dal padre lavoratore non per il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza ad un pieno inserimento nella famiglia ma per l’esercizio di una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione propria del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento. Padre Anche il padre libero professionista può beneficiare, in sostituzione della madre, dell’indennità di maternità. Corte cost. 11 ottobre 2005, n. 385 Sono costituzionalmente illegittimi gli articoli 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151 (“Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53”) nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l’indennità di maternità, attribuita solo a quest’ultima. DIRITTI DELLA PERSONA DIRITTO COMUNITARIO Diritti di soggiorno I genitori hanno il diritto di soggiornare con il figlio minore. Corte di giustizia CE, 19 ottobre 2004, n. 200 Il godimento del diritto di soggiorno da parte di un bimbo in tenera età implica necessariamente che tale bimbo abbia il diritto di essere accompagnato dalla persona che ne garantisce effettivamente la custodia e, quindi, che tale persona possa con lui risiedere nello Stato membro ospitante durante tale soggiorno. Pertanto, quando, come nella causa principale, l’art. 18 trattato Ce e la direttiva 90/364/Cee conferiscono al cittadino minorenne in tenera età un diritto di soggiorno a tempo indeterminato nello Stato membro ospitante, le stesse disposizioni consentono al genitore, che ha effettivamente la custodia di tale cittadino, di soggiornare con quest’ultimo nello Stato membro ospitante. In circostanze come quelle della causa principale, l’art. 18 trattato Ce e la direttiva 90/364/Cee conferiscono al cittadino minorenne in tenera età di uno Stato membro, coperto da un’adeguata assicurazione malattia ed a carico di un genitore, egli stesso cittadino di uno Stato terzo, le cui risorse siano sufficienti affinché il primo non divenga un onere per le finanze pubbliche dello Stato membro ospitante, un diritto di soggiorno a durata indeterminata sul territorio di quest’ultimo Stato. In un caso siffatto, le stesse disposizioni consentono al genitore che ha effettivamente la custodia di tale cittadino di soggiornare con quest’ultimo nello Stato membro ospitante. Respirazione assistita Giochi vietati È inammissibile il ricorso cautelare per interrompere un trattamento di respirazione assistita a mezzo di ventilatore artificiale. Tribunale di Roma, sez. I, Ordinanza 16 dicembre 2006 E’ inammissibile il ricorso con cui un paziente sottoposto a trattamento di respirazione assistita a mezzo di ventilatore artificiale chieda che si ordini ai medici di interrompere il trattamento, in quanto manca una definizione condivisa ed accettata dei principi in materia di accanimento terapeutico con la conseguenza che il diritto a chiedere l’interruzione del trattamento non appare concretamente tutelabile. In assenza perciò di previsione normativa degli elementi concreti di natura fattuale e scientifica di ciò che va considerato accanimento terapeutico non sono ipotizzabili né un’azione tipica né una tutela cautelare anticipatoria. Tutela del nome La tutela civile del nome è invocabile sia dalle persone fisiche che dalle persone giuridiche. Cass. sez. I, 11 agosto 2009, n. 18218 La tutela civilistica del nome e dell’immagine, ai sensi degli artt. 6, 7 e 10 cod. civ., è invocabile non solo dalle persone fisiche ma anche da quelle giuridiche e dai soggetti diversi dalle persone fisiche e, nel caso di indebita utilizzazione della denominazione e dell’immagine di un bene, la suddetta tutela spetta sia all’utilizzatore del bene in forza di un contratto di “leasing”, sia al titolare del diritto di sfruttamento economico dello stesso. (Principio affermato dalla S.C. in una fattispecie in cui una società, senza ottenere il consenso dell’avente diritto e senza pagare il corrispettivo dovuto, aveva indebitamente riprodotto nel proprio calendario l’immagine e la denominazione di un’imbarcazione altrui, usata a fini agonistici o come elemento di richiamo nell’ambito di campagne pubblicitarie o di sponsorizzazione, inserendo nella vela il proprio marchio). È lecito vietare i giochi finalizzati a “giocare ad uccidere”. Corte di giustizia CE, sez. I, 14 ottobre 2004, n. 36 Secondo il giudice del rinvio il divieto di sfruttamento commerciale di giochi che comportano la simulazione di atti di violenza contro persone ed in particolare la rappresentazione di omicidi, corrisponde al livello di tutela della dignità umana che la Costituzione nazionale intende assicurare sul territorio della Repubblica federale di Germania. Vietando la variante del gioco finalizzata a colpire bersagli umani e dunque a “giocare ad uccidere”, il provvedimento controverso non ha ecceduto quanto necessario per conseguire l’obiettivo perseguito dalle autorità nazionali competenti. Infatti i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza. A tal fine, la Corte si ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alle indicazioni fornite dai trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo a cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito. La convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riveste, a questo proposito, un particolare significato. Il rispetto dei diritti fondamentali, imponendosi sia alla Comunità che ai suoi Stati membri, rappresenta un legittimo interesse che giustifica, in linea di principio, una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario, ancorché derivanti da una libertà fondamentale garantita dal trattato, quale la libera prestazione di servizi. Ne consegue, che il provvedimento nazionale in questione incide in modo giustificato sulla libera prestazione di servizi. Matrimonio Non è conforme al diritto comunitario la legislazione nazionale che vieti il matrimonio ai transessuali. Corte di giustizia CE, 7 gennaio 2004, n. 117 L’art. 141 del trattato Ce osta, in linea di principio, ad gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 55 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA una legislazione che, in violazione della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, impedisce ad una coppia di soddisfare la condizione del matrimonio, necessaria affinché uno di essi possa godere di un elemento della retribuzione dell’altro. Spetta al giudice nazionale verificare se, in un’ipotesi quale quella di cui alla causa principale, una persona possa invocare l’art. 141 del trattato Ce affinché le si riconosca il diritto di far beneficiare il proprio convivente di una pensione di reversibilità. Ai sensi della normativa nazionale inglese, il diritto alla pensione di reversibilità è riconosciuto solo al coniuge superstite; di conseguenza, uguale diritto non compete al convivente transessuale che non abbia potuto contrarre matrimonio a causa delle disposizioni della medesima normativa nazionale, che pur riconoscendo la nuova identità ai transessuali, tuttavia esclude la modificabilità del certificato di nascita e vieta loro di contrarre matrimonio. La decisione di riservare determinati benefici alle coppie coniugate, escludendone tutti coloro che convivono senza essere sposati, è affidata al legislatore nazionale, senza che un soggetto possa far valere alcuna discriminazione fondata sul sesso (vietata dall’ordinamento comunitario); tuttavia nel caso in esame la disparità di trattamento riguarda non il riconoscimento di una pensione di reversibilità, ma una condizione preliminare indispensabile e preordinata alla concessione di questa, ossia la capacità di contrarre matrimonio. Tale restrizione viola l’art. 12 CeDU che riconosce ai cittadini dell’unione una capacità matrimoniale non condizionata dalla diversità di sesso. Risulta, dunque, non conforme al diritto comunitario (art. 12 CeDU e Dir. n. 75/117/Cee ed art. 141 trattato Ce) una legislazione nazionale che vieti il matrimonio ai transessuali, in ciò realizzando una indebita disparità di trattamento basata sull’identità sessuale. I regolamenti europei non sono applicabili quando il cittadino di uno Stato membro e il cittadino di un Paese terzo hanno contratto un matrimonio di comodo. Corte di giustizia CE, 23 settembre 2003, n. 109 Per poter fruire dei diritti previsti dall’art. 10 del regolamento (Cee) del Consiglio 15 ottobre 1968 n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità, il cittadino di un Paese terzo, coniugato con un cittadino dell’Unione, deve soggiornare legalmente in uno Stato membro nel momento in cui avviene il suo trasferimento in un altro Stato membro verso cui il cittadino dell’Unione emigra o è emigrato. L’art. 10 del regolamento n. 1612/68 non è applicabile quando il cittadino di uno Stato membro e il cittadino di un paese terzo hanno contratto un matrimonio di comodo, al fine di eludere le disposizioni relative all’ingresso e al soggiorno dei cittadini di paesi terzi. Nel momento in cui un cittadino di un primo Stato membro, coniugato con un cittadino di un Paese terzo con il quale vive in un secondo Stato membro, ritorna nello Stato membro di cui ha la cittadinanza per ivi esercitare un’attività lavorativa subordinata, se il suo coniuge non fruisce dei diritti previsti dall’art. 10 del regolamento Cee n. 1612/68, non avendo soggiornato legalmente nel territorio di uno Stato membro, le autorità competenti del primo Stato membro devono tuttavia, per valutare la domanda di ingresso e di soggiorno di tale coniuge nel territorio di quest’ultimo Stato, tener conto del diritto al rispetto della vita familiare ai sensi dell’art. 8 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre del 1950. 56 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Parità di trattamento Sono contrarie al principio di parità di trattamento quelle norme che si basano sul sesso per condizionare l’acquisizione di diritti durante il congedo per maternità. Corte di giustizia CE, 13 gennaio 2005, n. 356 Un regime previdenziale integrativo che, nel corso di un congedo legale di maternità, subordina l’acquisto di una rendita assicurativa alla percezione o meno di redditi imponibili durante tale congedo non è compatibile con il diritto comunitario. Ai sensi dell’art. 6, n. 1, lett. g), della direttiva del Consiglio del 24 luglio 1986, 86/378/Cee, modificata dalla direttiva del Consiglio 20 dicembre 1986, 96/97/Ce, nelle disposizioni contrarie al principio della parità del trattamento sono da includere quelle norme che si basano direttamente o indirettamente sul sesso per interrompere il mantenimento o l’acquisizione dei diritti durante i periodi di congedo di maternità o di congedo per motivi familiari prescritti in via legale o convenzionale e retribuiti dal datore di lavoro. È vietata qualsiasi discriminazione tra lavoratori fondata sul sesso. Corte di giustizia CE, 27 maggio 2004, n. 285 Il principio della parità delle retribuzioni tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile, sancito dall’art. 141 del trattato Ce e dall’art. 1 della direttiva 75/117, implica che per uno stesso lavoro o per un lavoro cui è attribuito pari valore è vietata ogni discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda gli elementi e le condizioni della retribuzione, a meno che tale differenza di trattamento non sia giustificata da un obiettivo estraneo a qualsiasi appartenenza ad un determinato sesso o non sia necessaria per raggiungere l’obiettivo perseguito. DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO Legge applicabile Nei rapporti patrimoniali tra coniugi non può prevalere la legge nazionale del marito. Corte cost. 4 luglio 2006, n. 254 L’art. 19 comma 1, delle disposizioni preliminari al codice civile - abrogato con decorrenza dal 31 dicembre 1996 dall’art. 73 della legge 31 maggio 1995, n. 218 ma applicabile ai giudizi instaurati anteriormente - secondo cui “i rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalla legge nazionale del marito al tempo della celebrazione del matrimonio”, è costituzionalmente illegittimo, in relazione agli articoli 3, comma 1 e 29, comma 2, della Costituzione, atteso che realizza una discriminazione nei confronti della moglie per ragioni legate esclusivamente alla diversità di sesso. Riconoscimento automatico L’omologazione straniera della separazione tra coniugi è automaticamente riconosciuto nel nostro ordinamento. Cass. sez. I, 21 ottobre 2005, n. 20464 Il provvedimento straniero di omologazione della separazione consensuale, pronunciato al termine di una procedura di giurisdizione volontaria, è suscettibile di riconoscimento automatico, senza ricorso ad alcun procedimento, nonostante la sua inidoneità a divenire res iudicata, posto che l’articolo 66 della legge 218/1995 non esige tale condi- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA zione, ma soltanto che il provvedimento straniero di giurisdizione volontaria non sia contrario all’ordine pubblico interno, sia pronunciato nel rispetto dei diritti essenziali della difesa e provenga da un’autorità competente secondo i criteri corrispondenti a quelli propri dell’ ordinamento italiano. DIRITTO PENALE DELLA FAMIGLIA Abbandono di minore (art. 591 c.p.) Il reato di abbandono di minore presuppone che vi sia un rischio di un pericolo per l’incolumità del minore. Cass. pen. sez. V, 16 aprile 2007, n. 15147 Ad integrare il delitto di cui all’articolo 591 Cp è necessario che dalla condotta derivi un pericolo anche potenziale per l’incolumità della persona incapace. Non si configura l’abbandono di minore se manca l’esposizione del minore a pericolo. Cass. pen. sez. V, 29 novembre 2006, n. 39411 Non è configurabile il reato di abbandono di minore ai sensi dell’art. 591 c.p. nei confronti di una madre il cui figlio minore venga sorpreso nella flagranza di reato o che riveli una conseguita attitudine alla commissione di reati. Per la configurabilità dell’abbandono occorre, infatti, che le omissioni di vigilanza del genitori integrino per ricorrenza e sistematicità violazioni di doveri giuridici tali da esporre il minore ad una situazione di pericolo, anche potenziale, per la sua incolumità. della Repubblica, non può più ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, sia pure distortamente finalizzato a scopi ritenuti educativi. Alterazione di stato (art. 567 c.p.) Non è incostituzionale la previsione di una pena molto elevata per il reato di alterazione di stato. Corte cost. 23 marzo 2007, n. 106 E’ inammissibile la questione di costituzionalità dell’art. 567 c.p. sotto il profilo della eccessività della pena (da conque a quindici anni) in quanto la determinazione del trattamento sanzionatorio per condotte penalmente rilevanti rientra nella discrezionalità del legislatore, salvo il sindacato di costituzionalità su scelte normative palesemente arbitrarie o radicalmente ingiustificate, tali da evidenziare un uso distorto di tale discrezionalità che nella fattispecie non è dato ravvisare. Il falso riconoscimento di figli naturali costituisce reato di alterazione di stato. Cass. sez. VI, 4 luglio 2005, n. 24586 Risponde del reato di alterazione di stato ex articolo 567, secondo comma, del Cp, ed è pertanto punibile con la reclusione da cinque a quindici anni, chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità. Applicando rigorosamente e letteralmente la norma appena menzionata, la Cassazione (sentenza 24586/05) ha confermato la decisione con cui la Corte d’appello di Catanzaro aveva condannato un uomo, in concorso con altri, per aver falsamente dichiarato come propri all’ufficiale di stato civile due gemelli, partoriti da una donna con cui aveva avuto una precedente relazione, terminata però prima del concepimento dei bambini. Abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.) Appropriazione indebita (art. 646 c.p.) I mezzi pedagogici non possono mai consistere in atti di violenza. Cass. sez. VI, 3 novembre 2005, n. 39927 Non può ritenersi che costituiscano mezzi educativi tutti quei mezzi, di qualunque specie, che vengano usati a tale fine, ma soltanto quelli per loro natura a ciò deputati. Il ricorso ad un mezzo oggettivamente non consentito, anche se utilizzato con scopo emendativo, non rientra neppure nella previsione dell’articolo 571 Cp, ma integra, a seconda degli effetti che produce, altre ipotesi incriminatici. Non può ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, sia pure distortamente finalizzato a scopi ritenuti educativi. Cass. penale, sez. VI, 3 maggio 2005, n. 16491 E’ culturalmente anacronistica e giuridicamente insostenibile un’interpretazione degli articoli 571 e 572 Cp fondata sulle concezioni ideologiche espresse nella relazione al codice penale proprie di una superata epoca storico-sociale, impregnata di valori autoritari anche nelle strutture e nelle funzioni della famiglia. Va, per contro, ribadito che nell’ordinamento italiano, incentrato sulla Costituzione della Repubblica e qualificato dalle norme in materia di diritto di famiglia (introdotte dalla legge 151/75) e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei bambino (approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge 176/91), il termine correzione, utilizzato dall’articolo 571 Cp, va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento al connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. E poiché da tale processo va bandito ogni elemento contraddittorio rispetto allo scopo ed al risultato che il nostro ordinamento persegue, in coerenza con i valori di fondo assunti nella Costituzione Commette appropriazione indebita il coniuge separato che non restituisce oggetti all’altro coniuge. Cass. penale, sez. II, 10 giugno 2009, n. 37498 Risponde del reato di appropriazione indebita il coniuge che non restituisce gli oggetti personali e l’automobile all’altro coniuge, allontanatosi dalla casa familiare senza ritirarli all’esito della separazione personale. Atti sessuali (art. 609 c.p.) Anche il bacio può essere fonte di responsabilità. Cass. sez. III, 2 luglio 2007, n. 25112 Il bacio sulla bocca può assumere valenza sessuale, sicché integra il reato di cui all’art. 609 bis c.p., se dato senza il consenso o con abuso della posizione di inferiorità del soggetto passivo, o il reato di cui all’art. 609 quater c.p., se dato a soggetti infraquattordicenni oppure a soggetti infrasedicenni legati da un rapporto di subordinazione con il soggetto agente. Atti sessuali con minorenni (art. 609 quater e 609 septies c.p.) Anche l’affidamento di fatto rende procedibile d’ufficio il reato di atti sessuali con minorenni Cass. penale, sez. III, 20 giugno 2008, n. 25214 A rendere procedibile d’ufficio ai sensi dell’art. 609 septies comma 4 n. 2 c.p. il reato di atti sessuali con un minorenne è sufficiente l’affidamento di fatto di un minore non essendo richiesto un affidamento formale. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 57 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Bigamia (art. 556 c.p.) La bigamia è un reato permanente. Cass. penale, sez. VI, 27 maggio 2003, n. 23249 Il reato di bigamia è permanente e la permanenza si protrae per tutto il periodo di coesistenza dei due matrimoni, venendo a cessare ove sia pronunciata sentenza definitiva di cessazione degli effetti civili di uno di essi. Circonvenzione di incapaci (art. 643 c.p.) Per il reato di circonvenzione di persone incapaci non va necessariamente dimostratato lo stato di infermità della vittima. Cassazione penale, sez. II, 7 dicembre 2006, n. 40383 In tema di circonvenzione di persone incapaci (articolo 643 del Cp), l’incapacità del soggetto passivo costituisce un presupposto del reato e, pertanto, il giudizio di colpevolezza può fondarsi solo sull’assoluta certezza della sua sussistenza. Al riguardo, lo stato di infermità o deficienza psichica del soggetto passivo non deve necessariamente consistere in una vera e propria malattia mentale, ma può sostanziarsi in tutte le forme in cui vi siano un’incisiva menomazione delle facoltà di discernimento o di determinazione volitiva, un abbassamento intellettuale e delle capacità di critica, tali da diminuire i poteri di difesa contro le insinuazioni e le insidie e da rendere possibile l’intervento suggestivo dell’agente; deve cioè essere esclusa la capacità del circonvenuto di avere oculata cura dei propri interessi. Corruzione di minorenne (art. 609 quinquies c.p.) Corrompe un minore chi lo fa assistere ad atti sessuali. Cass. penale, sez. III, 25 febbraio 2009, n. 15053 Integra il delitto di corruzione di minorenne la condotta consistente nell’invitare la vittima ad assistere a proiezioni pornografiche accompagnate da atti di esibizionismo e di autoerotismo. (Fattispecie nella quale il reo non si limitava a mostrarsi nudo al minore ma lo invitava a toccarsi durante la proiezione dei film pornografici). Detenzione di materiale pedopornografico (art. 600 quater c.p.). Non sono punibili per detenzione gli autori del materiale pedopornografico. Cass. penale, sez. III, 14 gennaio 2008, n. 1814 Devono escludersi dal novero dei soggetti attivi del reato di cui all’articolo 600-quater del cp coloro che hanno prodotto il materiale pedopornografico, in relazione ai quali la detenzione costituisce un post factum non punibile. Il rapporto tra il reato di pornografia minorile e quello di detenzione di materiale pornografico è regolato infatti dalla espressa clausola di riserva di cui all’art. 600-quater, comma 1, del cp, la quale risolve il conflitto apparente di norme in favore dell’applicazione della fattispecie più grave. Favoreggiamento personale (art. 384 c.p.) Il favoreggiamento personale del convivente more uxorio costituisce reato. Corte cost. 20 aprile 2004, n. 121 E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 307 e 384 del codice penale, nella parte in cui “non includono nella nozione di prossimi congiunti anche il convivente more uxorio, oltre al coniuge, separato di fatto o legalmente”. In particolare la Corte sottolinea, conformemente del resto alla sua precedente giurisprudenza, come esistano nell’ordinamento ragioni 58 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 costituzionali che giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi, trovando il rapporto coniugale tutela diretta nell’art. 29 della Costituzione, mentre il rapporto di fatto fruisce della tutela apprestata dall’art. 2 della Costituzione ai diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali. Furto e non punibilità (624, 625, 649 c.p.) La causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p. si applica anche al convivente more uxorio. Tribunale di Latina, 28 novembre 2003 La “ratio” della causa personale di esclusione della punibilità ex art. 649 c.p., è costituita dalla protezione dell’unità familiare, interesse prevalente su quello del singolo a vedere tutelato il patrimonio nonché su quello dello Stato a vedere affermata la propria autorità. Ne consegue che, nel momento in cui lo stesso ordinamento: a) riconosce e tutela un’altra forma di aggregazione familiare come quella delle unioni di fatto, che a loro volta costituiscono, come la famiglia fondata sul matrimonio, il punto centrale della convivenza civile; b) riconosce, ammette e garantisce la dissolubilità del vincolo coniugale, tanto da far venir meno quel connotato di “stabilità e certezza” che ne costituiva l’elemento differenziale rispetto alla convivenza “more uxorio”, diventa evidente che l’unica “ratio” dell’esclusione della punibilità deve essere ravvisata nella tutela non della famiglia in quanto tale, così come rappresentata dall’art. 29 cost., ma dei vincoli affettivi la cui durevolezza genera una stabile situazione di convivenza; da cui l’applicazione della disposizione contenuta nell’art. 649 c.p., anche al convivente della persona offesa. Può essere applicata la causa di esclusione della punibilità, prevista dall’art. 649 c.p., al convivente “more uxorio” che abbia commesso il reato di furto, utilizzando il procedimento dell’”analogia iuris” previsto dall’art. 12 comma 2 delle preleggi, in quanto le norme disciplinanti le cause di esclusione della punibilità non hanno natura eccezionale. Imputabilità Ai fini dell’imputabilità anche i gravi disturbi della personalità e non solo le malattie mentali rientrano nel concetto di vizio di mente (art. 88 e 89 c.p.). Cass. sez. unite penali, 8 marzo 2005, n. 9163 Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente (art. 88 e 89 c.p.), rientrano nel concetto di “infermità”, non solo le vere e proprie malattie mentali, ma anche i “gravi disturbi della personalità”, pur se non inquadrabili nel novero delle malattie mentali, a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da escludere o da far scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica condotta criminosa. Imputabilità (art. 97 c.p.) Il minore di 14 anni non è imputabile e non può essere processato. Cass. penale, sez. I, 4 febbraio 2009, n. 5998 La sentenza di condanna pronunciata contro un minore non imputabile, perché di età inferiore ai quattordici anni al momento del fatto (ai sensi dell’art. 97 c.p.), è giuridicamente inesistente. Deve osservarsi infatti che la situazione di colui che non ha compiuto i 14 anni al momento del fatto rende impossibile la costituzione “ab initio” di un valido rapporto processuale. La predetta inesistenza deve essere pertanto dichiarata dal giudice dell’esecuzione, nonostante la formazione del giudicato. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Inosservanza dell’obbligo di istruzione (art. 731 c.p.) Sussiste la responsabilità dei genitori per omissione della necessaria vigilanza indipendentemente dal fatto che la scuola segnali le ripetute assenze del figlio. Cass. penale, sez. III, 4 settembre 2007, n. 33847 L’obbligo imposto a chiunque sa rivestito di autorità o incarico della vigilanza sopra un minore di impartirgli o fargli impartire l’istruzione obbligatoria, implica anche l’obbligo di vigilare e controllare il minore per assicurarsi che questi si rechi realmente a scuola per ricevere l’istruzione. Specialmente di fronte a lunghe ingiustificate assenze da scuola - come è provato essere accaduto nel caso di specie - la sussistenza dello elemento soggettivo del reato non può essere esclusa dalla mancata prova della conoscenza delle comunicazioni inviate dalla autorità scolastica, atteso che la colpa, sufficiente per la configurabilità della contravvenzione in esame, è riscontrabile già nell’avare, senza giusto motivo, omesso di adempiere il proprio dovere di sorveglianza e di vigilanza sul minore e di assicurarsi che questo si rechi a scuola per ricevere l’istruzione. Maltrattamenti (art. 572 c.p.) Risponde di maltrattamenti il marito abitualmente violento. Cass. penale, sez. VI, 14 luglio 2009, n. 38125 Risponde del reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p., il marito che continuamente percuote ed ingiuria la moglie, ostenta infedeltà, e impedisce alla medesima di rientrare nella casa familiare all’esito di un ricovero in ospedale, in quanto tale quadro probatorio, rappresentato con motivazione adeguata e priva di carenze o vizi logici, rappresenta quella situazione di abitualità di sofferenze fisiche e morali, che determinando nel soggetto passivo una condizione di vita costantemente dolorosa e avvilente. Per integrare il reato di maltrattamenti occorre un dolo unitario di sopraffazione. Cass. penale, sez. VI, 26 febbraio 2009, n. 14409 La mera pluralità di episodi vessatori (nella specie, trattavasi di percosse, ingiurie e minacce) non è di per sé sufficiente a integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, in assenza di un dolo che abbracci ed unifichi le diverse azioni e che ricolleghi a unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e psichica del soggetto passivo. Anche nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore può sussistere il reato di maltrattamenti. Cass. penale, sez. VI, 18 febbraio 2009, n. 21537 In tema di reato di maltrattamenti, rientra nel rapporto d’autorità di cui all’art. 572 c.p. il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, in quanto caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al primo nei confronti del secondo. Il mobbing non può essere assimilabile ai maltrattamenti in famiglia ove le dimensioni dell’azienda superino quella della consueta collettività familiare. Cass. penale, sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594 Non è possibile assimilare il fenomeno del mobbing ai maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p., al fine di riconoscere la responsabilità penale in capo al datore di lavoro a fronte di continui e sistematici comportamenti ostili, umilianti e lesivi della dignità personale del lavoratore, qualora tali situazioni si presentino all’interno di grandi strutture aziendali. L’analogia non può trovare applicazione in quanto l’articolata organizzazione aziendale non implica una stretta ed intensa relazione diretta tra datore e dipendente tale da determinare una comunanza di vita assimilabile a quella che caratterizza il consorzio familiare. Il reato di maltrattamenti è possibile in qualsiasi contesto di relazioni implicanti una consuetudine di familiarità tra persone ma non in caso di mobbing verificatosi in un complesso aziendale non avente tale caratteristica. Cass. penale, sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594 La formulazione letterale delle disposizioni ex artt. 571 e 572 c.p. consente la ricondurre, nell’ambito dei delitti contro l’assistenza familiare, fattispecie aventi una portata che supera i confini della famiglia, comunque essa venga intesa, legittima o di fatto. Invero, rilevato che entrambe le succitate disposizioni codicistiche indicano come soggetto passivo delle rispettive previsioni anche la persona sottoposta all’autorità dell’agente o a lui affidata per l’esercizio di una professione o di un’arte, è chiaro il riferimento a rapporti implicanti una subordinazione passiva, sia essa giuridica o di mero fatto. Stante la incidenza sulle nozioni di subordinazione ed autorità, nonché di affidamento, nella corrispondente situazione ben può farsi rientrare anche il rapporto che lega il datore al lavoratore, sebbene debba, in ogni caso, aversi a tal fine riguardo al carattere di familiarità di siffatto rapporto, quale determinate la sussistenza di relazioni abituali ed intense, di consuetudini di vita tra i soggetti, di soggezione dell’uno all’altro e di fiducia riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo, destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, in quanto parte più debole. La carenza, nella specie, dei suddetti caratteri nell’ambito del rapporto lavorativo in discussione, determina la non configurabilità del delitto ex art. 572 c.p. (invero, l’inserimento della lavoratrice nella complessa realtà aziendale non implicava, di fatto, alcuna stretta ed intensa relazione tra datore di lavoro e lavoratore). Nel quadro del delitto di “Maltrattamenti in famiglia” il rapporto di autorità richiesto dall’art. 572 c.p., avuto riguardo alla ratio della richiamata norma, deve comunque essere caratterizzato da “familiarità”, deve comportare relazioni abituali e intense, consuetudini di vita tra i soggetti, la soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), la fiducia riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo, destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perché parte più debole. È soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para- familiare che può configurarsi, ove si verifichi l’alterazione della funzione del medesimo rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti. Il mobbing in tal caso non configura reato di maltrattamenti. Il reato di maltrattamenti non può essere scriminato da differenti tradizioni culturali. Cass. penale, sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 22700 Le differenti tradizioni che regolano i rapporti familiari in società culturalmente diverse non eliminano il disvalore del fatto di maltrattamenti, né sono di per sé idonee a giustificare l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche. Può sussistere il reato di maltrattamenti anche tra coniugi separati. Cass. penale, sez. VI, 21 gennaio 2009, n. 16658 La fattispecie criminosa dei maltrattamenti infraconiugali può e deve ravvisarsi anche in situazioni di separazio- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 59 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA ne e di sopravvenuta interruzione della convivenza, allorché la condotta del soggetto agente realizzi gli elementi strutturali tipici dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 572 c.p. attraverso ripetute e insistite manifestazioni di offensività e di aggressività attuate in danno del coniuge separato. Per integrare il reato di maltrattamenti occorre un dolo unitario di sopraffazione. Cass. penale, sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 9531 Affinché sia integrato il reato di cui all’art. 572 c.p., secondo il significato riconducibile al termine “maltrattare”, è necessario che, come più volte affermato dalla giurisprudenza, l’agente eserciti, abitualmente, una forza oppressiva nei confronti di una persona della famiglia (o di uno degli altri soggetti indicati dall’art. 572 c.p.) mediante l’uso delle più varie forme di violenza fisica o morale. Non risponde, perciò, del reato di maltrattamenti il coniuge che reiteratamente picchia, ingiuria ed umilia l’altro coniuge se manca la prova della abitualità nella inflizione delle sofferenze fisiche o morali. Il reato di maltrattamenti non è escluso dall’intenzione di agire per pretese finalità educative. Cass. penale, sez. VI, 24 aprile 2008, n. 16982 Nel reato di maltrattamenti è sufficiente il dolo generico, che consiste nella volontà dell’agente di sottoporre la vittima a sofferenze fisiche o morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazione di vessazioni che ne avviliscono la personalità. Deve escludersi che l’intenzione dell’agente di agire esclusivamente per pretese finalità educative possa far venir meno il dolo. Costituisce maltrattamenti e non abuso dei mezzi di correzione il fatto di impedire alla figlia di frequentare coetanei o di uscire di casa, Cass. penale, sez. VI, 12 settembre 2007, n. 34460 Può costituire reato di maltrattamenti impedire ad una figlia minore di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa se non per andare a scuola o a fare la spesa. L’accusa riguardava gli atteggiamenti violenti tenuti per futili motivi dal padre nei confronti della propria figliuola, nata nel 1978, fin da quando aveva quattro o cinque anni, alla quale, tra l’altro, era stato impedito di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa se non per andare a scuola o a fare la spesa, e si fonda sulle dichiarazioni rese dalla ragazza il 4 luglio 1997 con specifico riferimento all’intollerabile regime di vita, avallate da quanto riferito dalla cugina anch’essa persona offesa rispetto alle ingiurie e lesioni personali. Il regime di prevaricazione e violenza cui è stata sottoposta la persona offesa, tale da rendere intollerabili le condizioni di vita, non si concilia con le caratteristiche del delitto di abuso dei mezzi di correzione e disciplina, che presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi correttivi, che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi in abuso a cagione dell’eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura. Il delitto di maltrattamenti può essere realizzato anche mediante la commissione di atti sessuali. Cass. penale, sez. III, 12 giugno 2007, n. 22850 Ove nell’ambito della famiglia o dall’affidatario di fatto siano commessi abusi sessuali, con il reato sessuale concorre il delitto di maltrattamenti in famiglia (articolo 572 Cp) quando le condotte sono reiterate nel tempo in modo da configurare un’azione in grado di ledere anche l’integrità psichica della vittima (minorenne, nel caso di specie). L’articolo 572 Cp punisce un’ipotesi di reato abituale, costituita da una serie di fatti che acquistano rilevanza penale per la reiterazione nel tempo. Se i singoli fatti con- 60 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 figurano ipotesi di reato, bisogna stabilire se vi sia assorbimento o concorso: secondo la giurisprudenza prevalente, affinché si configuri il concorso apparente di norme (con la conseguente necessità di individuare l’unica norma applicabile alla fattispecie), è necessaria l’identità del bene tutelato dalle due norme che devono, dunque, disciplinare tutte «la stessa materia». Il delitto di maltrattamenti può essere realizzato anche mediante la commissione di atti sessuali che, però, per non integrare un reato autonomo in concorso con quello ex articolo 572 Cp, non devono configurare le fattispecie poste a tutela della libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale (cfr. Cassazione, quinta sezione, giugno 1983, Menduri). Così come si ammette il concorso con il sequestro di persona e la riduzione in schiavitù non si può escluderlo nel caso in cui l’atto sessuale, oltre a causare sofferenze fisiche e psichiche alla vittima, ne lede anche la libertà di autodeterminazione (cfr. 32363/02). Il dolo nei maltrattamenti è generico. Cassazione penale sezione VI, 1° febbraio 2007, n. 4139 Ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia è richiesto il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità. Costituisce reato impiegare un minore nella mendicità. Cassazione penale sezione VI, 30 gennaio 2007, n. 3419 Integra il reato di maltrattamenti di cui all’articolo 572 cp. l’impiego abituale di un minore nel commercio ambulante o nell’accattonaggio che lo costringa in una condizione di degrado fisico o psichico persistente. Il reato di maltrattamenti può consistere anche nel disinteresse sistematico verso un figlio minore. Cassazione penale, sez. VI, 30 gennaio 2007 n. 3419 Il reato di cui all’articolo 572 del Cp è a forma libera e può essere integrato non soltanto da condotte commissive , ma anche da condotte omissive . (La Corte ne ha fatto discendere la conseguenza che può rientrare tra le condotte omissive idonee a integrare il reato e quo la condotta della persona che costantemente si disinteressi del minore affidato alle sue cure e alla sua vigilanza). Ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo del reato di cui all’articolo 572 del Cp non è richiesta una particolare finalità della condotta del reo, ma è sufficiente che sussistano la coscienza e la volontà di determinare nel soggetto passivo uno stato continuativo e abituale di sofferenza. Al riguardo, non è necessario che nell’agente vi sia una preventiva rappresentazione e volontà della situazione che andrà a determinarsi, ma è sufficiente che, nel momento in cui questa comincia a profilarsi con una certa consistenza, l’autore si renda conto che, persistendo nel suo comportamento commissivo od omissivo, infliggerà una ingiusta sofferenza al soggetto passivo. E’ ravvisabile il più grave reato di cui all’articolo 572 del Cp, e non quello di impiego di minori nell’accattonaggio, previsto dall’articolo 671 del Cp, allorquando l’accattonaggio risulti l’espressione di una complessa condizione riservata al minore e caratterizzata da mancanza di affettività familiare, da sofferenze fisiche e psicologiche, da mortificazioni di ogni genere. Il reato di lesioni e quello di minacce gravi non restano assorbiti nei maltrattamenti. Cass. penale, sez. VI , 23 giugno 2004, n. 28367 La diversa obiettività giuridica del reato di maltratta- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA menti e del reato di lesioni personali esclude l’assorbimento del secondo nel primo, rendendoli anzi concorrenti. La minaccia grave, posta in essere con un’arma, eccede la materialità del reato di maltrattamenti, cosicché concorre con questo e non ne è assorbita. Mancata esecuzione dolosa dei provvedimenti del giudice (art. 388 c.p.) Ostacolare la bigenitorialità costituisce reato. Cass. penale, sez. VI, 8 luglio 2009, n. 27995 In tema di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento giurisdizionale adottato in sede di separazione dei coniugi, il genitore ha il dovere di favorire il rapporto dei figli con l’altro genitore tenuto conto che entrambe le figure genitoriali sono essenziali per la crescita equilibrata del minore. Configura, pertanto, elusione dei provvedimenti del giudice civile ostacolare i rapporti tra padre e figlio. Costituisce reato anche una sola violazione al diritto di visita del genitore non affidatario. Cass. sez. VI, 11 novembre 2005, n. 41003 La legge non distingue tra episodi, marginali e non, di elusione dei provvedimenti concernenti l’affidamento dei minori. Pertanto anche una sola elusione di tali provvedimenti costituisce reato. Il coniuge affidatario ha il dovere di collaborare per l’esercizio del diritto di visita da parte dell’altro genitore. Cass. sez. I, 4 ottobre 2003, n. 37814 Il coniuge affidatario dei figli minori ha il dovere adottare i comportamenti strettamente indispensabili a consentire l’esercizio effettivo del diritto di visita al padre, fornendo, sul piano materiale e su quello del rapporto con la figlia minore, quell’apporto minimo in termini di coordinamento e cooperazione che è sempre necessario per garantire l’esecuzione secondo buona fede (id est: la non elusione) dei provvedimenti del giudice civile concernenti i minori.(Nella specie la Corte ha confermato la condanna del coniuge affidatario per il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, di cui all’art. 388 del codice penale, ricordando che in tale fattispecie criminosa la condotta del reo è libera ed è sufficiente ad integrare la previsione criminosa il semplice dolo generico, e cioè la coscienza e volontà di disobbedire al provvedimento del giudice). Minacce (art. 612 c.p.) Non c’è reato di minacce quando il comportamento asseritamente minatorio è teso ad un intento esclusivamente difensivo. Cassazione penale, sez. V, 27 febbraio 2007, n. 8131 Se è pur vero che una minaccia può essere commessa anche solo mostrando un’arma alla persona che si intende intimidire, è anche vero che non vi è minaccia nel mostrare un’arma quando l’autore intenda non già restringere la libertà psichica del minacciato, bensì prevenire un’azione illecita dello stesso, rappresentandogli tempestivamente quale reazione legittima il suo comportamento determinerebbe. Da ciò consegue che è palesemente illogica la motivazione della sua sentenza che ravvisi il reato di minaccia a carico di un soggetto che, pur avendo mostrato un’arma, aveva accompagnato tale comportamento con la pronuncia di una frase chiaramente dimostrativa del proprio intento esclusivamente difensivo, finalizzato a prevenire un’eventuale aggressione ai propri danni. Minore non imputabile (art. 97 c.p.) Del fatto commesso dal minore non imputabile può rispondere anche penalmente chi deve vigilare sulla sua condotta. Cass. penale, sez. IV, 14 maggio 2009, n. 26033 La persona a cui è stato affidato anche di fatto un minore, in quanto investita di una posizione di garanzia, risponde del fatto da questi commesso, avendo l’obbligo di impedire gli eventi dannosi causati dal minore. (Fattispecie relativa al delitto di lesioni colpose commesso, utilizzando uno “skateboard”, da minore infraquattordicenne ai danni di un passante). Offese alla religione (art. 403 c.p.) Il vilipendio delle persone che professano la religione cattolica e di quelle che professano altre religioni non può essere sanzionato in modo diverso (art. 403 c.p.). Corte cost. 29 aprile 2005, n. 168 E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 403 del codice penale (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone). L’art. 402 del codice penale (Vilipendio della religione dello Stato) era già stato dichiarato per gli stessi motivi incostituzionale con la sentenza 508 del 20 novembre 2000. Si ravvisano in queste questioni le stesse esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottostanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle altre confessioni religiose, già affermate da questa Corte nelle sentenze n. 329 del 1997 e n. 327 del 2002, riconducibili, da un lato, al principio di eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di religione sancito dall’art. 3 cost., dall’altro al principio di laicità o non-confessionalità dello Stato (per cui vedi sentenze n. 203 del 1989, n. 259 del 1990, n. 195 del 1993, n. 329 del 1997, n. 508 del 2000, n. 327 del 2002), che implica, tra l’altro, equidistanza e imparzialità verso tutte le religioni, secondo quanto disposto dall’art. 8 Cost., ove è appunto sancita l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge. Omicidio volontario (art. 575 c.p.) Poiché è prevedibile che un bambino malnutrito possa morire non è censurabile la decisione di condanna per omicidio volontario di due genitori che hanno maltrattato la figlia trascurandone i bisogni alimentari primari. Cass. penale, sez. I, 14 maggio 2008, n. 21329 Non è configurabile l’ipotesi aggravata di cui all’art. 572, comma 2, c.p. (morte come conseguenza non voluta dei maltrattamenti) - ma quella di omicidio volontario di cui all’art. 575 c.p. - nel caso in cui la morte della vittima, sottoposta a continui maltrattamenti, sia oggetto della sfera rappresentativa e volitiva dell’agente, oltre ad essere causalmente collegata alla condotta da questi posta in essere. (In applicazione di questo principio la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la sussistenza del delitto di omicidio volontario nella condotta di due conviventi che avevano omesso di somministrare il cibo ad una bimba, continuamente sottoposta a maltrattamenti e di cui avevano la responsabilità della cura ed educazione, correttamente ritenendo che rientra nella cognizione e nell’esperienza di qualsiasi individuo, pur se dotato di modeste facoltà cognitive e intellettive, che la mancata somministrazione di cibo ad un bambino è destinata a provocarne la morte). gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 61 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Reati contro la libertà sessuale (art. 609 septies c.p.) Ai fini della perseguibilità d’ufficio vi è connessione anche nei casi di connessione investigativa. Cassazione sez. III, 5 marzo 2007, n. 9250 Ai fini della perseguibilità d’ufficio dei delitti contro la libertà sessuale, la connessione “con un altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio” (articolo 609-septies, comma 4, n. 4, del Cp) non è solo quella processuale di cui all’articolo 12 del Cpp, ma anche quella materiale, essendo quindi sufficiente che tra il reato di violenza sessuale e l’altro perseguibile d’ufficio vi sia “connessione investigativa”. Ciò in quanto la ratio della disposizione deve individuarsi nelò venir meno dei motivi posti alla base della perseguibilità a querela dei reati in materia di libertà sessuale e, in particolare, dell’esigenza di riservatezza, giacchè l’indagine investigativa sul delitto procedibile d’ufficio comporta necessariamente l’accertamento degli altri e, quindi, la diffusione della notizia, non sussistendo più ragione per tutelare la riservatezza della persona offesa. Sottrazione di minori (art. 574 c.p.) Non commette reato il padre che sottrae per poche ore il minore affidato alla madre. Cass. Sez. V penale, 1 ottobre 2008, n. 37321 Affinché la condotta di uno dei due coniugi possa integrare l’ipotesi criminosa prevista dall’articolo 574 c.p., è necessario che il comportamento dell’agente porti ad una globale sottrazione del minore alla vigilanza dell’altro genitore, così da impedirgli l’esercizio della funzione educativa ed i poteri inerenti all’affidamento rendendogli impossibile l’ufficio che gli è stato conferito dall’ordinamento nell’interesse del minore stesso e della società (Cass., Sez. VI, 8 aprile 1999 - 16 giugno 1999, n. 7836). Il delitto di cui all’articolo 574 c.p. è plurioffensivo in quanto lede non soltanto il diritto di chi esercita la potestà del genitore , ma anche quello del figlio a vivere nell’habitat naturale (Cass. 7 luglio 1992, Bonato) con la conseguenza che per integrare il delitto contestato è necessario che l’agente prenda con sé il figlio, contro la volontà dell’altro genitore, per un periodo di tempo rilevante, tanto da impedire all’altro genitore di esplicare la propria potestà e di sottrarre il bambino dal luogo di abituale dimora. Il reato di sottrazione di incapaci può concorrere con quello di sequestro di persona. Cass. pen. sez. VI, 4 aprile 2007, n. 14102 Il reato di cui all’articolo 574 del Cp, che punisce la sottrazione di persone incapaci, può concorrere con il reato di sequestro di persona previsto dall’articolo 605 del Cp, poiché anche il minore è titolare del bene giuridico della libertà personale, costituzionalmente garantito, che può essere leso da qualsiasi apprezzabile limitazione della libertà stessa, intesa quale possibilità di movimento privo di costrizioni. La sottrazione e la ritenzione di un minore costituiscono entrambi reato di sottrazione di minore. Cassazione penale, sez. VI, 4 aprile 2007, n. 14102 Il delitto di sottrazione di persona incapace di cui all’articolo 574 Cp è configurabile anche da parte di un genitore nei confronti dell’altro, dal momento che entrambi i genitori sono contitolari dei poteri - doveri disciplinati dall’articolo 316 Cc .La norma incriminatrice in questione punisce, con la stessa pena edittale, tanto la “sottrazione” del minore degli anni quattordici alla potestà dei genitori quanto una “specie” della sottrazione stessa e cioè la “ritenzione” del minore contro la volontà dei genitori, che si realizza 62 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 con il ritenere indebitamente il minore che si trova nella disponibilità dell’agente per una causa lecita. Violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare è correlato alla prova della privazione dei mezzi di sussistenza. Cass. penale, sez. VI, 28 ottobre 2009, n. 42631 Ai fini della sussistenza del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570, comma 2, c.p., nel caso di mancata corresponsione, da parte del coniuge obbligato, dell’assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione, il giudice penale deve accertare se, a causa di tale comportamento, il coniuge beneficiario sia stato in concreto privato dei mezzi di sussistenza. Detto accertamento è diverso ed indipendente rispetto a quello compiuto dal giudice civile per la determinazione dell’assegno, in quanto l’illecito penale è correlato esclusivamente alla sussistenza dello stato di bisogno dell’avente diritto alla somministrazione dei mezzi indispensabili per vivere ed al mancato apprezzamento di tali mezzi da parte di colui che vi è obbligato per legge. Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare ha natura permanente se non è contestata una data specifica di commissione del reato. Cass. penale, sez. VI, 11 febbraio 2009, n. 7321 In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, quando la condotta è contestata con l’individuazione della sola data d’inizio, deve ritenersi che il reato è permanente e il termine di prescrizione decorre dalla data della sentenza di condanna di primo grado e non dalla data di emissione del decreto di citazione a giudizio, ovvero da quella del formale esercizio dell’azione penale. La violazione degli obblighi di assistenza sussiste anche quando al mantenimento dei figli adempia l’altro genitore. Cass. penale, sez. VI, 13 giugno 2007, n. 23086 In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, lo stato di bisogno e l’obbligo del genitore di contribuire al mantenimento dei figli minori non vengono meno quando questi siano assistiti economicamente da altri (Cass., VI, n. 715 del 1.12.2003). Inoltre quando la condotta violatrice dell’art. 570 cod. pen. si esplichi nell’omissione da parte del genitore non affidatario dei mezzi di sussistenza ai figli minori o inabili al lavoro, il reato sussiste anche se l’altro genitore provvede in via sussidiaria a corrispondere ai bisogni della prole (Cass., VI, n. 17692 del 9.1.2004). Sussiste il reato di violazione degli obblighi di assistenza versoi i figli anche quando i figli sono assistiti economicamente da terze persone. Cass. pen. sez. VI, 5 aprile 2007, n. 14203 Lo stato di bisogno e l’obbligo dei genitore di contribuire al mantenimento non vengono meno quando i figli siano in qualche modo assistiti economicamente da altri. Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare non è correlato al semplice inadempimento dell’obbligazione di mantenimento coniugale stabilita dal giudice della separazione. Cass. pen. sez. VI, Sezione VI, 4 aprile 2007 n. 14103 In regime di separazione personale tra coniugi, stante la diversa natura dell’assegno di mantenimento, volto a conservare la situazione patrimoniale quale era in seno al matrimonio, non vi è interdipendenza tra il reato di cui all’articolo 570, comma 2, n. 2, del Cp e l’assegno liquidato dal giudice civile sia che tale assegno venga corrisposto sia MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA che non venga corrisposto agli aventi diritto. Il provvedimento del giudice civile, infatti, non fa stato nel processo penale né in ordine alle condizioni economiche dell’obbligato né per quanto riguarda lo stato di bisogno degli aventi diritto, circostanze che devono essere entrambe accertate in concreto. Di conseguenza, la mancata corresponsione, specie ove parziale, dell’assegno di mantenimento non rende, per ciò solo, responsabile l’obbligato del reato di cui all’articolo 570, comma 2, n. 2, del Cp, mentre anche il completo adempimento dell’obbligo civile potrebbe lasciare spazio alla configurabilità del reato suddetto, dovendosi distinguere dalle nozioni civilistiche di “mantenimento” e di “alimenti” quella dei mezzi di sussistenza, che si identifica in ciò che è strettamente indispensabile, a prescindere dalle condizioni sociali o di vita pregressa degli aventi diritto, come il vitto, l’abitazione, i canoni per utenze indispensabili, i medicinali, le spese per l’istruzione e il vestiario. Anche l’inadempimento parziale dell’obbligo di pagare l’assegno divorzile costituisce reato. Cass. penale, sez. VI, 15 febbraio 2005, n. 5719 Anche un inadempimento parziale dell’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile è sufficiente a integrare gli estremi del reato previsto dall’articolo 12-sexies della legge 1° dicembre 1970 n. 898, atteso che, a norma della citata disposizione, il reato si configura per la semplice omissione della corresponsione dell’assegno nella misura disposta dal giudice, indipendentemente dalla circostanza che tale omissione comporti il venir meno dei mezzi di sussistenza per il beneficiario dell’assegno. L’inadempimento dell’obbligo di pagare l’assegno divorzile è sempre reato mentre l’inadempimento all’obbligo di pagare l’assegno di separazione è reato solo se in seguito alla condotta vengano a mancare i mezzi di sussistenza. Cass. penale, sez. VI, 15 febbraio 2005, n. 5719 La condotta presa in considerazione dall’articolo 12sexies della legge 1° dicembre 1970 n. 898, laddove, per il caso di scioglimento del matrimonio, viene punita la mancata corresponsione dell’assegno divorzile stabilito dal tribunale, rientra nel più ampio paradigma di cui all’articolo 570, comma 2, n. 2, del Cp, essendo nella prima ipotesi sufficiente accertare il fatto della volontaria sottrazione all’obbligo di corresponsione dell’assegno determinato dal tribunale e non occorrendo, quindi, che dall’inadempimento consegua anche il “far mancare i mezzi di sussistenza”, elemento invece necessario ai fini dell’integrazione della seconda fattispecie. Da ciò consegue che deve escludersi la violazione del diritto di difesa, per asserito difetto di correlazione tra accusa e sentenza, qualora all’imputato sia stato contestato il reato di cui all’articolo 570 del Cp, mentre ne sia affermata la penale responsabilità, poi, per quello di cui all’articolo 12-sexies. Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare non è sanzionatorio dell’inadempimento dell’obbligazione civile ma si realizza solo quando un coniuge fa mancare all’altro i mezzi di sussistenza. Cass. penale, sez. VI , 22 settembre 2004, n. 37137 L’inadempimento dell’obbligazione civile di mantenimento del coniuge, di fronte al quale l’avente diritto al mantenimento può tutelare i propri interessi dinanzi al competente giudice civile, non integra di per sé gli estremi della violazione degli obblighi di assistenza familiare nella previsione di cui al 2° comma n. 2 dell’art. 570 c.p. L’illecito in questione, infatti, è rapportato unicamente alla sussistenza dello stato di bisogno dell’avente diritto alla somministrazione dei mezzi indispensabili per vivere, nonché al mancato apprestamento di tali mezzi da parte di chi, per legge, vi è obbligato. Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare resta escluso quando il soggetto passivo non sia rimasto privo di mezzi di sussistenza. Cass. penale, sez. VI, 26 luglio 2004, n. 32508 L’obiettività del reato di cui all’articolo 570 del c.p. non coincide con l’omessa o con la parziale corresponsione dell’assegno di mantenimento stabilito in sede civile e resta perciò esclusa in ogni caso in cui, nonostante l’inadempimento totale o parziale da parte dell’agente, il soggetto passivo non sia rimasto privo di mezzi di sussistenza, come avviene nel caso in cui egli disponga di redditi personali sufficienti ad assicurare il soddisfacimento dei bisogni primari o nel caso in cui la minor somma corrisposta dall’obbligato sia comunque sufficiente a tal fine. Quando invece il soggetto passivo non disponga di redditi propri, come normalmente avviene nel caso di minori, e quando l’assegno sia di importo appena adeguato al fine di assicurare la sua sussistenza, la relativa decurtazione, arbitraria e dipendente da fatto volontario dell’obbligato, incide necessariamente sull’adempimento dell’obbligazione alimentare e integra gli estremi del reato, avendo l’effetto di far mancare i mezzi di sussistenza all’avente diritto. Anzi, in tal caso, sussisterebbe il reato anche in presenza della corresponsione integrale dell’assegno, quando il suo importo sia manifestamente inadeguato ad assicurare all’alimentando la soddisfazione degli stessi bisogni elementari dell’esistenza, cui l’obbligato ha l’onere di provvedere indipendentemente da qualsiasi statuizione del giudice civile e dai suoi limiti. Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare non è sanzionatorio dell’inadempimento dell’obbligazione civile ma si realizza solo quando un coniuge fa mancare all’altro i mezzi di sussistenza. Cass. penale, sez. VI , 27 marzo 2004, n. 14965 L’art. 570 c.p. pur avendo come presupposto l’esistenza di un’obbligazione assimilabile a quella alimentare, non ha carattere sanzionatorio dell’inadempimento del provvedimento del giudice civile che fissa l’entità dell’obbligazione, con la conseguenza che l’operatività o meno di tale provvedimento non assume alcun rilievo ai fini della configurabilità del reato, il quale, come si è detto, va visto soltanto in relazione alla situazione fattuale oggettiva, che deve evidenziare la violazione dell’obbligo legale di non fare mancare i mezzi di sussistenza a chi può pretenderli dal soggetto obbligato. Commette un unico reato chi fa mancare i mezzi di sussistenza a più familiari. Cass. penale, sez. VI, 10 novembre 2003, n. 42767 Il reato previsto dall’articolo 570, comma 2, n. 2, del codice penale, costituisce violazione degli obblighi di assistenza familiare più che violazione degli obblighi verso una persona determinata, con la conseguenza che, quando i soggetti beneficiari dell’assistenza siano più di uno e convivano in famiglia, il reato rimane unico. Commette violazione degli obblighi di assistenza familiare il genitore che omette di contribuire al mantenimento dei figli anche quando alla somministrazione di tali mezzi provveda il genitore affidatario. Cass. penale, sez. VI, 4 ottobre 2003, n. 37808 Lo stato di bisogno del minore, rilevante per la configurabilità del reato di cui all’articolo 570, comma 2, n. 2, del codice penale, a meno che questi non sia già provvisto di mezzi, è un dato oggettivo, causalmente dipendente dal gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 63 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA mancato adempimento degli obblighi di assistenza, in difetto di prova contraria, tanto che la responsabilità dell’obbligato sussiste anche se alla somministrazione dei mezzi di sussistenza provvede l’altro genitore. Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare sussiste quando si fanno mancare ai familiari i mezzi di sopravvivenza indipendentemente dalla violazione del provvedimento stabilito dal giudice civile. Cass. penale, sez. VI, 4 ottobre 2003, n. 37808 Ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 570, comma 2, n. 2, del codice penale occorre distinguere tra l’assegno stabilito dal giudice civile (nella specie, nella sentenza di separazione) e i mezzi di sussistenza, essendo questi ultimi del tutto indipendenti dalla valutazione del giudice civile: la nozione di mezzi di sussistenza rilevante ai fini penali, infatti, comprende solo ciò che è necessario per la sopravvivenza dei familiari, e cioè vitto, alloggio, vestiario, spese mediche, spese per l’istruzione ecc. Commette un unico reato chi fa mancare i mezzi di sussistenza a più familiari. La violazione di assistenza verso più familiari dà luogo ad una sola violazione della norma di cui all’art. 570 c.p. Cass. penale, sez VI, 21 luglio 2003, n. 30586 Il reato previsto dall’articolo 570, comma 2, n. 2, del codice penale, consistente nel far mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, accomuna nell’unità della tutela penale le categorie di congiunti in esso indicate in quanto complessivamente beneficiari degli obblighi di assistenza familiare. Pertanto la condotta di chi fa mancare i mezzi di sussistenza a più di detti congiunti, omettendo di corrispondere a ciascuno di loro - nella specie, figlio minore e coniuge - la somma mensile assegnatagli con provvedimento giudiziale, commette un unico reato e non una pluralità di reati in concorso formale o in continuazione fra loro. Il reato di cui all’art. 570 c.p. sussiste quando si fanno mancare i mezzi di sussistenza. Cass. penale, sez. VI , 19 giugno 2003, n. 26715 Il reato di cui all’articolo 570, comma 2, n. 2, del cp, che è correlato alla mancata somministrazione dei mezzi di sussistenza da parte dell’obbligato, non ha carattere sanzionatorio dell’inadempimento delle disposizioni stabilite nella sentenza di separazione, dovendo si distinguere tra la nozione civilistica di “mantenimento”, posta alla base della decisione del giudice civile, e la nozione penalistica di “mezzi di sussistenza”, rilevante ai fini della configurabilità del reato de quo. La nozione di “mantenimento”, infatti, è fondata sulla valutazione e sulla comparazione delle condizioni socio-economiche dei coniugi, mentre i “mezzi di sussistenza” sono del tutto indipendenti dalla valutazione del giudice civile e ricomprendono tutto ciò che è necessario per la sopravvivenza (vitto, vestiario, alloggio, medicinali ecc.) nel momento storico in cui il fatto è commesso. Ne consegue che il giudice penale, al fine di ritenere la configurabilità del reato suddetto, deve accertare se, per effetto della condotta dell’imputato, siano venuti a mancare ai beneficiari i mezzi di sussistenza. Il reato di cui all’art. 570 c.p. sussiste quando si fanno mancare i mezzi di sussistenza. Cass. penale, sez. VI , 18 giugno 2003, n. 26108 In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, occorre distinguere tra assegno stabilito dal giudice e “mezzi di sussistenza”, essendo questi ultimi del tutto indipendenti dalla valutazione operata in sede di giudizio ci- 64 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 vile: la nozione di mezzi di sussistenza comprende solo ciò che è strettamente necessario per la sopravvivenza dei familiari dell’obbligato, nel momento storico in cui il fatto avviene. Pertanto, nell’ipotesi di mancata corresponsione, da parte del coniuge obbligato, dell’intero importo dell’assegno stabilito in sede civile (nella specie, lire un milione, in luogo di lire un milione 300mila), il giudice penale, al fine di ritenere la configurabilità del reato di cui all’ articolo 570, comma 2, n. 2, del Cp, deve accertare se, per effetto di tale condotta, siano venuti a mancare i mezzi di sussistenza. Per la sussistenza del reato, quindi, occorre l’accertamento dello stato di bisogno dell’avente diritto alla somministrazione dei mezzi di sussistenza. Ma occorre, inoltre, anche l’accertamento rigoroso della concreta capacità economica dell’obbligato a fornirli: in vero, solo la prova certa di tale capacità in testa all’obbligato, ovvero del fatto che essa sia venuta meno per una volontaria determinazione del colpevole, può giustificare l’affermazione di responsabilità penale. Il reato di cui all’art. 570 c.p. sussiste anche quando all’assistenza del figlio provveda l’altro coniuge. Cass. penale, sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 57 L’obbligo di assicurare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore grava su entrambi i genitori, permane qualunque siano le vicissitudini dei rapporti coniugali e l’assolvimento di tale obbligo da parte di uno dei coniugi non esenta l’altro in alcun modo. Violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) La condotta costrittiva al rapporto sessuale, da parte di uno dei coniugi, nei confronti dell’altro, integra il reato di violenza sessuale, di cui all’art. 609 bis c.p. Cass. Sez. I penale, 3 aprile 2008, n. 13983 Integra il reato di cui all’art. 609 bis c.p. il comportamento del marito il quale costringe la moglie a rapporti sessuali contro la sua volontà. Anche il compimento insidioso dell’azione criminosa può costituire presupposto della violenza sessuale. Cassazione sez. III, 5 marzo 2007, n. 9250 La violenza richiesta dall’articolo 609bis del Cp non è soltanto quella che pone il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, tanto da concretarsi in un vero e proprio costringimento fisico, bensì anche quella che si manifesta nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, consentendo in tal modo di superare la contraria volontà del soggetto passivo. Ancora sul concetto di atti sessuali. Cassazione sez. III, 5 marzo 2007, n. 9250 Tra gli atti sessuali presi in considerazione dall’articolo 609bis del Cp devono essere inclusi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime della vittima, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo irrilevante, ai fini della consumazione del reato, che il soggetto attivo consegua la soddisfazione erotica. L’attitudine e la credibilità del minore a testimoniare sono giudizi preliminari rispetto alla valutazione dell’attendibilità della prova. Cass. penale, sez. III, 7 febbraio 2007, n. 5002 La valutazione del contenuto delle dichiarazioni del minore- parte offesa in materia di reati sessuali in considerazione delle complesse implicazioni che la materia stessa comporta, deve contenere un esame sia dell’attitudine psicofisica del teste a esporre le vicende in modo utile ed MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA esatto sia della sua posizione psicologica rispetto al contesto delle situazioni interne ed esterne. Proficuo, in proposito, è l’uso dell’indagine psicologica, che concerne due aspetti fondamentali: l’attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo e affettivo, e la sua credibilità. Il primo consiste nell’accertamento della sua capacità di recepire le informazioni, di raccordarle con le altre, di ricordarle e di esprimerle in una visione complessa, da considerare in relazione all’età, alle condizioni emozionali, che regolano le sue relazioni con il mondo esterno, alla qualità e natura dei rapporti familiari. Il secondo - da tenere distinto dall’attendibilità della prova, che rientra nei compiti esclusivi del giudice - è diretto a esaminare il modo in cui la giovane vittima ha vissuto e ha rielaborato la vicenda in maniera da selezionare sincerità, travisamento dei fatti e menzogna. senziale e negli elementi strutturali di base della norma incriminatrice, alle abrogate fattispecie degli articoli 110, 519, 520 e 521 del codice penale, unificate nel nuovo articolo 609-bis, rispetto alle quali si è verificato un ordinario fenomeno di successione di leggi penali incriminatrici nel tempo, disciplinato dal comma 3 dell’articolo 2 del codice penale. La violenza sessuale è reato quando si induce all’atto sessuale abusando delle condizioni fisiche e psichiche della vittima. Cassazione penale sezione III, 10 gennaio 2007, n. 222 Gli atti sessuali commessi abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa sono punibili ai sensi dell’articolo 609bis, comma 2, n. 1 cp. quando si induce la vittima all’atto sessuale abusando delle sue condizioni di inferiorità. È legittima la norma in base alla quale nei casi di violenza nei confronti di un minore di quattordici anni il colpevole non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa. Corte costituzionale, 24 luglio 2007, n. 322 La disposizione dell’art. 609-sexies codice penale è espressiva di una precisa scelta del legislatore: quella, cioè, di accordare una protezione particolarmente energica - in deroga alla disciplina generale in tema di imputazione soggettiva - ad un bene di indubbia pregnanza, anche nel quadro delle garanzie costituzionali (art. 31, secondo comma, Cost.) e di quelle previste da atti internazionali (tra cui, in particolare, la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con risoluzione del 20 novembre 1959; la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989; e, con specifico riguardo alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini, da ultimo, la Decisione quadro 2004/68/GAI del Consiglio dell’Unione europea del 22 dicembre 2003). Tale è, in specie, la “intangibilità sessuale” di soggetti - quali i minori infraquattordicenni - che, in ragione della loro immaturità fisio-psichica, per un verso, sono considerati incapaci di una consapevole autodeterminazione agli atti di natura sessuale (sulla legittimità costituzionale della relativa presunzione, sentenza n. 151 del 1973); e, per un altro verso, risultano particolarmente esposti ad abusi (con riferimento al previgente art. 539 codice penale., sentenze n. 209 del 1983 e n. 107 del 1957). La scelta derogatoria tiene conto segnatamente della facilità con la quale - non essendo, in molti casi, l’età infraquattrordicenne dell’offeso riflessa in modo certo nel suo aspetto esteriore - potrebbero essere allegate, dall’autore del fatto, vere o supposte situazioni di ignoranza o di errore, anche colposo, sull’età del minore: donde il timore che l’applicazione delle regole comuni possa determinare aree di impunità, ritenute pregiudizievoli per una efficace salvaguardia dell’interesse in questione. Va concessa l’attenuante di “minore gravità” quando la vittima è persona già corrotta? Cass. penale, sez. III, 17 febbraio 2006, n. 6329 La fattispecie di atti sessuali con minorenni si configura in ragione della particolare relazione interpersonale che intercorre tra l’autore del fatto e la giovane vittima. Lo stato di soggezione della vittima costituisce una componente dell’elemento oggettivo del reato e di per sé non può costituire una valida ragione per escludere l’applicabilità della circostanza attenuante dei “casi di minore gravità”. La ratio della norma incriminatrice consiste nella tutela del diritto del minore a un corretto sviluppo della propria personalità sessuale. La commissione del fatto in danno di minore che abbia avuto numerose esperienze sessuali impone di valutare l’effettiva entità della lesione subita da tale diritto. L’esclusione della predetta circostanza attenuante a effètto speciale deve essere motivata con riferimento ai complessivi connotati del fatto e non può essere basata sull’apodittica affermazione che questo è stato commesso in danno di minore e da parte di soggetto che si è avvalso dello stato di soggezione della vittima. E’ contraddittoria la motivazione che escluda l’attenuante a causa della minore età della vittima e nel contempo dia atto che la predetta aveva avuto in passato numerosi rapporti sessuali con uomini di ogni età. L’aggravante della violenza sessuale si applica anche all’omicidio commesso in occasione della violenza sessuale di gruppo. Cass. penale, sez. I, 22 febbraio 2005, n. 6775 La ratio dell’aggravante prevista dall’articolo 576, comma 1, n. 5, del codice penale è da ravvisare nell’intento di apprestare la rigorosa tutela degli interessi protetti, mediante un più severo trattamento sanzionatorio dei fatti in essa previsti, nel senso di punire con la pena dell’ergastolo l’omicidio allorché questo, denotando una più marcata attitudine criminosa dell’agente, sia contestuale alle aggressioni alla libertà sessuale della vittima. Detta aggravante si applica anche in riferimento al delitto previsto dall’articolo 609-octies del codice penale (violenza sessuale di gruppo), che, al di là dell’elemento specializzante e aggiuntivo della “partecipazione da parte di più persone riunite ad atti di violenza sessuale”, risulta sovrapponibile, nel nucleo es- Il reato di violenza sessuale sussiste anche quando la vittima è la moglie dell’autore della violenza. Cass. penale, sez. III, 29 gennaio 2004, n. 3343 Costringere la propria moglie ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà costituisce reato di violenza sessuale senza alcuna attenuante. Violenza sessuale (art. 609 sexies c.p.) Violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies c.p.) Il reato di violenza sessuale di gruppo, a differenza del concorso di persone nel reato di violenza sessuale, presuppone la necessaria presenza sul luogo del delitto degli autori di reato. Cass. penale, sez. III, 21 maggio 2008, n. 20279 Il reato di violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies c.p.), per la cui configurabilità è sufficiente che gli autori del reato siano soltanto due, integra una fattispecie autonoma di reato necessariamente plurisoggettivo proprio e consiste nella partecipazione da parte di più persone riunite ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis c.p. L’azione collettiva presuppone la necessaria presenza degli autori del reato al momento e sul luogo del delitto ma l’e- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 65 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA secuzione di questo non richiede necessariamente che ciascun compartecipe realizzi l’intera fattispecie concorsuale degli altri correi, ben potendo il singolo realizzare soltanto una frazione del fatto tipico di riferimento ed essendo sufficiente che la violenza o la minaccia provenga anche solo da uno solo degli agenti. Non è cioè richiesto il compimento da parte del singolo partecipe di una attività tipica di violenza sessuale, essendo estesa la punibilità (qualora sia comunque realizzato un fatto di violenza sessuale) a qualsiasi condotta partecipativa, purché tenuta in una situazione di effettiva presenza sul luogo e al momento del fatto. Proprio tale presenza distingue la commissione di atti di violenza sessuale di gruppo dal concorso di persone nel reato di cui all’art. 609 bis c.p. Infatti per la configurabilità del primo reato, non è sufficiente l’accordo della volontà dei compartecipi al delitto ma è necessaria la simultanea, effettiva presenza dei correi nel luogo e nel momento della consumazione dell’azione criminosa, in un rapporto causale inequivocabile. Ed è proprio la pluralità degli aggressori e la loro contemporanea presenza che producono effetti fisici e psicologici nella parte lesa, eliminandone o riducendone la forza di reazione. È legittima la mancata previsione dell’attenuante dei casi di minore gravità per il reato di violenza sessuale di gruppo. Corte cost. 26 luglio 2005, n. 325 La misura della sanzione penale scelta dal legislatore sfugge al sindacato di costituzionalità, salvo che sotto il profilo della ragionevolezza, censurabile allorché siano state previste pene diverse per fattispecie analoghe. Tale non è il caso della violenza sessuale di gruppo rispetto a quella monosoggettiva, con la conseguenza che deve ritenersi infondata, con riferimento all’art. 3 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 609 octies c.p. (“Violenza sessuale di gruppo”), nella parte in cui non prevede per tale reato l’applicabilità dell’attenuante dei “casi di minore gravità”, prevista invece per la violenza sessuale individuale. Violenza sessuale presunta (art. 609 quater c.p.) La testimonianza della vittima può essere assunta come prova del reato. Cass. sez. III, 2 luglio 2007, n. 25112 Secondo la dottrina e la costante giurisprudenza non vige nel nostro ordinamento il principio nemo idoneus testis in re sua, sicché la deposizione della persona offesa dal reato può essere da sola assunta come fonte di prova della responsabilità dell’imputato, anche se, essendo la persona offesa portatrice di un interesse confliggente con quello dell’imputato, le sue dichiarazioni vanno valutate con particolare rigore al fine di verificarne l’attendibilità intrinseca ed estrinseca. Violenza sessuale su minore di dieci anni (art. 609 bis e 609 ter c.p.) La pena accessoria della perdita della potestà genitoriale si estende ai figli estranei all’abuso sessuale. Cass. penale, sez. III, 16 maggio 2008, n. 19729 Benché non risultino precedenti giurisprudenziali né prese di posizione dottrinarie, non sembra dubbio che la pena accessoria della perdita della potestà genitoriale debba riferirsi a tutti i figli, e non solo al figlio che è vittima dell’abuso sessuale. E ciò sia per la formulazione letterale della disposizione normativa, che non fa alcuna distinzione al riguardo; sia per la ratio legislativa che la ispira, la quale intende sanzionare la indegnità del genitore in quanto tale e non in rapporto a questo o quel figlio deter- 66 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 minato. In altri termini, se un genitore ha gravemente mancato ai suoi doveri morali verso un figlio, egli è indegno di esercitare la sua potestà genitoriale anche nei confronti degli altri figli. DIRITTO PENALE MINORILE Consenso dell’imputato Nell’udienza preliminare minorile è richiesto il consenso dell’imputato per poter definire il giudizio con una formula che presuppone l’accertamento della responsabilità penale. Corte cost. 2 aprile 2004, n. 110 L’art. 32 DPR 22 settembre 1988, n. 448 contenente le disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, prevede al primo comma che “Nell’udienza preliminare, prima dell’inizio della discussione, il giudice chiede all’imputato se consente alla definizione del processo in quella stessa fase, salvo che il consenso sia stato validamente prestato in precedenza. Se il consenso è prestato, il giudice al termine della discussione, pronuncia sentenza di non luogo a procedere nei casi previsti dall’art. 425 del codice di procedura penale o per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto. Al secondo comma il medesimo art. 32 dispone che “Il giudice, se vi è richiesta del pubblico ministero, pronuncia sentenza di condanna quando ritiene applicabile una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva, In tal caso la pena può essere diminuita fino alla metà rispetto al minimo edittale” La sentenza della Corte costituzionale 9 maggio 2002, n. 195 aveva ritenuto incostituzionale il primo comma dell’art. 32 del DPR 448/88 nella parte in cui, in mancanza di consenso dell’imputato - diretto a rinunciare alle maggiori garanzie offerte dal contraddittorio delle parti sulla formazione della prova - preclude al giudice di pronunciare sentenze che presuppongono la responsabilità dell’imputato. Quindi quando l’imputato resta contumace, con ciò non potendosi acquisire all’udienza preliminare il suo consenso, non possono che essere emanati provvedimenti che non presuppongono la responsabilità. Con l’ordinanza n. 110/2004 la Corte costituzionale affronta il tema della costituzionalità della previsione del necessario consenso alle formule di proscioglimento del perdono giudiziale e della irrilevanza del fatto e alle sentenze di condanna e dichiara manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 1 e 2, del DPR 22 settembre 1988, n. 448 nella parte in cui, in mancanza di consenso dell’imputato (e, quindi, quando l’imputato rimane contumace) è precluso al giudice di pronunciare all’udienza preliminare sentenza di non luogo a procedere per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto, nonché di pronunciare, su richiesta del pubblico ministero, sentenza di condanna ad una pena pecuniaria ovvero ad una sanzione sostitutiva. Tutte ipotesi che presuppongono un accertamento di responsabilità del minorenne. Messa alla prova Il beneficio della sospensione del processo con messa alla prova è consentito solo nei casi in cui sia formulabile un giudizio prognostico positivo sulla rieducazione del minore. Cass. penale, sez. II, 10 aprile 2008, n. 15090 In tema di processo penale minorile il beneficio della sospensione del processo con messa alla prova (articolo 28 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA del DPR 22 settembre 1988, n. 448) è caratterizzato dalla funzione di recupero sociale e di rieducazione. In questa prospettiva, il beneficio è rimesso al potere discrezionale del giudice ed è consentito solo nei casi in cui sia formulabile un giudizio prognostico positivo sulla rieducazione del minore e sulla evoluzione della sua personalità verso modelli socialmente adeguati, apparendo la condotta deviante come manifestazione di un disagio solo temporaneo del minorenne, superabile attraverso l’impegno di un progetto di vita socialmente integrato. La relativa valutazione va fondata sul tipo di reato commesso, le sue modalità di attuazione, i motivi a delinquere, i precedenti penali del reo, la sua personalità, il suo carattere e ogni altro elemento utile per la formulazione dell’indicato giudizio. La messa alla prova può essere disposta anche nei confronti dell’imputato diventato maggiorenne. Cass. penale, sez. V, 4 luglio 2003, n. 28762 Nel processo minorile, ai sensi dell’articolo 28 del Dpr 22 settembre 1988 n. 448, quando ricorrano le condizioni ivi previste, il giudice può sospendere il processo e mettere alla prova, con le modalità e nelle forme prescritte, non solo chi sia tuttora minorenne, ma anche chi alla data del provvedimento abbia raggiunto la maggiore età e può poi dichiarare estinto il reato, quando ritenga che la prova abbia avuto esito positivo. Nel processo minorile, ai sensi dell’articolo 28 del Dpr 22 settembre 1988 n. 448, il giudice può disporre la messa in prova solo quando la valutazione del fatto e della personalità del suo autore inducano a ritenere concreta la prospettiva di una rieducazione dell’imputato. A tal fine, il giudice deve rivolgere la sua indagine alla ricerca di elementi che gli consentano di valutare se sia adeguato il ricorso a detto istituto nell’ottica della rieducazione e del positivo reinserimento nella società del minore; elementi da individuarsi: nel tipo di reato commesso, nelle modalità di attuazione di esso, nei motivi a delinquere, nei precedenti penali del reo, nella sua personalità, nel suo carattere e in quanto altro di utile per il raggiungimento di tale giudizio. E per acquisire le conoscenze necessarie alla decisione, il giudice può anche avvalersi dell’ampio ed elastico ventaglio di strumenti d’indagine offertogli dall’articolo 9 del Dpr 448/1988, eventualmente anche richiedendo ai servizi minorili di elaborare un progetto di rieducazione (articolo 27 del decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 272). Non può essere disposta la custodia cautelare del minorenne per furto in abitazione o con strappo. Cass. penale, sez. IV, 8 marzo 2005, n. 9126 In materia di procedimento a carico di minorenne, l’articolo 23 del Dpr 22 settembre 1988 n. 448 (“Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”) non prevede, tra i casi nei quali può essere adottata la misura della custodia cautelare, l’ipotesi di cui all’articolo 380, comma 2, lettera e-bis del Cpp, relativa ai reati di furto previsti dall’articolo 624-bis del Cp (furto in abitazione e furto con strappo), e, vigendo il principio di tassatività dei casi in cui può essere limitata la libertà personale, si deve escludere la possibilità di qualsivoglia interpretazione analogica, anche perché la fattispecie di cui all’articolo 624-bis del Cp è autonoma rispetto a quella dell’articolo 624 del Cp. (La Corte, in proposito, ha richiamato l’ordinanza della Corte costituzionale 24 aprile 2003 n. 137, che, sul punto, nel dichiarare manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale, ha rilevato che la situazione normativa denunciata - pur se frutto di una svista del legislatore - non si poneva in contrasto con le disposizioni costituzionali, né poteva dirsi manifestamente irragionevole, spettando comunque al legislatore intervenire per modificarla). La misura cautelare della permanenza in casa inflitta al minore non costituisce una misura di custodia cautelare ma è solo equiparata ad essa ai fini del computo della sua durata. Cass. penale, sez. II, 17 novembre 2003, n. 43901 Secondo la disposizione espressa e la ratio della norma di cui all’articolo 21 del Dpr 22 settembre 1988 n. 448, il minore al quale è imposta la misura della permanenza in casa viene considerato in stato di custodia cautelare ai soli fini della durata massima della misura e del calcolo della pena da scontare, mentre per il resto è considerato libero, anche se sottoposto a prescrizioni e obblighi. Ne deriva, da un lato, che il giudice non è tenuto a disporre la traduzione per l’udienza del minore sottoposto alla detta misura e, dall’altro, che l’allontanamento del minore dalla casa può assumere valenza (ad esempio, ai fini e per gli effetti di cui all’articolo 21, comma 5, dell’articolo 21 citato) solo quando è ingiustificato (e non lo è allorché il minore si allontani dalla casa proprio per recarsi all’udienza) e non è, in tal caso, comunque assimilabile né al reato di evasione né a quello di cui all’articolo 650 del codice penale. Misure cautelari Il minore imputato di tentato furto in abitazione può essere sottoposto a custodia cautelare. Cass. penale sez. IV, 10 settembre 2007, n. 34216 In tema di custodia cautelare nei confronti di imputati minorenni, l’art. 23 del DPR n. 448 del 1988 non prevede tra i casi in cui può essere applicata la custodia cautelare l’ipotesi di cui all’art. 380 c.p.p., comma 2, lett. e-bis (delitti di furto in abitazione e con strappo “ex” art. 624 bis c.p.); tuttavia, l’art. 23 succitato richiama l’art. 380 c.p.p., comma 2, lett. e), che prevede l’ipotesi del reato di furto aggravato “ex” art. 625 c.p., comma 1, n. 2, prima parte, e che corrisponde esattamente all’ipotesi di cui all’art. 6244 bis c.p., comma 3 (furto in abitazione o con strappo aggravato da una o più delle circostanze di cui all’art. 625 c.p., comma 1). Ne consegue che nell’ipotesi di tentato furto aggravato in abitazione è applicabile nei confronti di indagati minorenni l’arresto in flagranza e la custodia cautelare (Sez. V, ord. n. 5771 del 16012004, ud. del 16012004), e anche Sez. IV, sent. n. 6520 del 11022003 (cc. del 0412002), Cass. Sez IV 18/1/2003 n. 1581). DONAZIONE Donazione indiretta La donazione di denaro finalizzata all’acquisto di un immobile costituisce donazione indiretta dell’immobile. Tribunale di Bologna, 7 marzo 2005, n. 620 Nell’ipotesi di donazione di una somma di denaro cui faccia seguito l’acquisto di un immobile da parte del beneficiario, occorre distinguere l’ipotesi in cui tale somma venga utilizzata da quest’ultimo in virtù di una propria autonoma determinazione da quella in cui il donante fornisca il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile e questo sia l’unico specifico fine, se pur mediato, della donazione perché ove il denaro venga dato a quel precipuo scopo il collegamento tra l’elargizione della somma da parte del disponente e l’acquisto del bene da parte del beneficiario porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dello stesso immobile e gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 67 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA non di una donazione del denaro impiegato per il suo acquisto. Né la donazione indiretta di un immobile deve articolarsi in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipula, sottoscrizione di un contratto preliminare in nome proprio) essendo necessario, ma anche sufficiente, che sia provato il collegamento tra l’elargizione del denaro e l’acquisto e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto stesso. Il negotium mixtum cum donatione costituisce una donazione indiretta. Cass. sez. II, 29 settembre 2004, n. 19601 Nel c.d. “negotium mixtum cum donatione”, la causa del contratto ha natura onerosa, ma il negozio commutativo stipulato dai contraenti ha la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive una finalità diversa ed ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che ricevono la prestazione di maggior valore, con ciò realizzando il negozio posto in essere una fattispecie di donazione indiretta. Ne consegue che la compravendita ad un prezzo inferiore a quello effettivo non integra, di per sé, un negotium mixtum cum donatione, essendo all’uopo, altresì, necessario non solo la sussistenza di una sproporzione tra le prestazioni, ma anche la significativa entità di tale sproporzione, oltre alla indispensabile consapevolezza, da parte dell’alienante, dell’insufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto, funzionale all’arricchimento di controparte acquirente della differenza tra il valore reale del bene e la minore entità del corrispettivo ricevuto. La donazione indiretta di un immobile è valida anche senza l’atto pubblico e può essere revocata per ingiuria grave. Cass. sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333 La donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito, che è quello di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento, e può essere costituito anche da più negozi tra loro collegati, come nel caso in cui un soggetto, stipulato un preliminare di compravendita di un immobile in veste di promissario acquirente, paghi il relativo prezzo e sostituisca a sé, nella stipulazione del definitivo con il promittente venditore, il destinatario della liberalità, così consentendo a quest’ultimo di rendersi acquirente del bene ed intestatario dello stesso. Per la validità delle donazioni indirette non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 cod. civ., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ. che prescrive l’atto pubblico per la donazione. Non costituiscono ingiuria grave verso il donante, ai fini della revoca della donazione per ingratitudine ai sensi dell’art. 801 cod. civ., né il rifiuto di acconsentire alla richiesta del donante di vendita dell’immobile oggetto di donazione (tale richiesta equivalendo ad una pretesa di restituzione del bene, legittimamente rifiutata a prescindere dai motivi della stessa) né quei comportamenti di reazione legittima (poiché attuata attraverso gli strumenti offerti dall’ordinamento) a tale richiesta e ad altri atti in vario modo finalizzati a sostenerla. 68 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Revocazione L’infedeltà coniugale può assumere i connotati dell’ingiuria grave fonte di revocazione per ingratitudine della donazione. Cass. sez. II, 28 maggio 2008, n. 14093 L’ingiuria grave che l’art. 801 c.c. prevede quale causa di revocazione per ingratitudine della donazione consiste in un comportamento con il quale si rechi all’onore e al decoro del donante una offesa suscettibile di ledere gravemente il patrimonio morale della persona così da rivelare un sentimento di avversione che manifesti tale ingratitudine verso colui che ha beneficiato l’agente e che ripugna alla coscienza comune. Un comportamento di infedeltà coniugale protrattosi per vari anni, sfociato nell’abbandono della famiglia, può essere complessivamente considerato ingiuria grave. La donazione può essere revocata per fatti di grave avversione o animosità. Tribunale di Napoli, 14 giugno 2004 Per configurarsi la fattispecie dell’ingiuria grave, che è presupposto della revocazione della donazione, la condotta rilevante deve essere caratterizzata da una specifica manifestazione di avversione ed animosità nei confronti del donante, non essendo sufficiente al contrario una condotta meramente omissiva che per la sua neutralità non appare di norma idonea a dare conto dello specifico animus del soggetto inerte (nel caso deciso, ai convenuti si è imputato unicamente di essersi disinteressati delle sorti dell’attrice e di aver presentato domanda di interdizione del donante). EQUITÀ Ricorso per cassazione La sentenza emessa secondo equità è ricorribile in cassazione per violazione di norme di diritto. Corte cost. 6 luglio 2004, n. 206 L’equità non è una fonte autonoma ed alternativa alla legge (che come tale potrebbe sconfinare nell’arbitrio) e, quindi, il giudice di pace in sede di valutazione equitativa (nelle cause il cui valore non eccede 1100 euro) deve osservare i principi informatori della materia la cui violazione, traducendosi in violazione di principi di diritto, costituisce motivo di ricorso per cassazione (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.). FAMIGLIA DI FATTO Assegnazione della casa familiare In caso di cessazione della convivenza more uxorio il genitore affidatario dei figli naturali può chiedere l’assegnazione della casa familiare. Cass. sez. I, 26 maggio 2004, n. 10102 In tema di famiglia di fatto e nell’ipotesi di cessazione della convivenza more uxorio, l’attribuzione giudiziale del diritto di (continuare ad) abitare nella casa familiare al convivente cui sono affidati i figli minorenni o che conviva con figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti per motivi indipendenti dalla loro volontà è da ritenersi possibile per effetto della sentenza n. 166 del 1998 della Corte costituzionale, che fa leva sul principio di re- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA sponsabilità genitoriale, immanente nell’ordinamento e ricavabile dall’interpretazione sistematica degli art. 261 (che parifica doveri e diritti del genitore nei confronti dei figli legittimi e di quelli naturali riconosciuti), 147 e 148 (comprendenti il dovere di apprestare un’idonea abitazione per la prole, secondo le proprie sostanze e capacità) cod. civ., in correlazione all’art. 30 cost. Tale diritto è attribuito dal giudice al coniuge (o al convivente), qualora ne sussistano i presupposti di legge, con giudizio di carattere discrezionale, non suscettibile di sindacato in sede di legittimità se logicamente e adeguatamente motivato, tale da comprimere temporaneamente, fino al raggiungimento della maggiore età o dell’indipendenza economica dei figli, il diritto di proprietà o di godimento di cui sia titolare o contitolare l’altro genitore, in vista dell’esclusivo interesse della prole alla conservazione, per quanto possibile, dell’habitat domestico anche dopo la separazione dei genitori. Ne consegue che è legittimo, se congruamente motivato, il provvedimento del giudice di merito che, in relazione ad una ipotesi di cessazione della convivenza more uxorio, escluda ritenendola incongrua rispetto al fine di garantire ai figli la continuità dell’habitat domestico - l’eventualità di ridurre l’abitazione a una metà di quella sino ad allora goduta. Ingiustificato arricchimento Nei rapporti familiari di convivenza è ammissibile l’azione generale di arricchimento “senza causa” ove le prestazioni rese da un convivente a vantaggio dell’altro esorbitano dai limiti delle prestazioni rese nell’adempimento dei doveri morali e civili di solidarietà e di reciproca assistenza. Cass. sez. III, 15 maggio 2009, n. 11330 L’azione generale di arricchimento ha come presupposto l’arricchimento di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale. E’ tuttavia possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza. È ammissibile tra conviventi l’azione di arricchimento ingiustificato. Cass. sez. II, 13 marzo 2003, n. 3713 Nell’ambito dei rapporti di convivenza more uxorio la presunzione di gratuità delle prestazioni rese da una parte in favore dell’altra viene meno allorché risulti che la prestazione stessa esula dai doveri di carattere morale e civile di mutua assistenza e collaborazione, in relazione alle qualità e condizioni sociali delle parti e si configuri come mera operazione economica patrimoniale che abbia determinato un inspiegabile e illogico arricchimento del convivente con proprio ingiusto danno. de il beneficio quando sia accertata, insieme ai limiti di reddito previsti, la presenza nel nucleo familiare del conduttore di un soggetto ultrasessantacinquenne o, alternativamente, affetto da grave handicap, è necessario che tale presenza vi sia al momento della cessazione del contratto di locazione. Questo requisito temporale soddisfa i presupposti perché possa parlarsi di “nucleo familiare” che deve, infatti, intendersi come quello connotato da un grado di stabilità e continuità a prescindere da meramente eventuali relazioni di coniugio, parentela o affinità. E’ infondata, pertanto, la questione di legittimità costituzionale della norma suddetta nella parte in cui non indica il periodo minimo di convivenza dei soggetti indicati perché possa accordarsi il beneficio della sospensione dello sfratto. Il convivente non succede nel contratto di locazione se non vi sono figli minori. Corte cost. 11 giugno 2003, n. 204 E’ manifestamente infondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 l. n. 392 del 1978, nella parte in cui non prevede che, in caso di cessazione della convivenza more uxorio, al conduttore di un immobile ad uso abitativo succeda nel contratto di locazione il convivente rimasto nella detenzione dell’immobile, anche in mancanza di prole comune. Patrocinio a spese dello Stato I redditi del convivente more uxorio contribuiscono a determinare il reddito imponibile ai fini dell’ammissione in sede penale al beneficio del patrocinio a spese dello Stato. Cass. penale, sez. IV, 5 gennaio 2006, n. 109 Nella valutazione dei redditi previsti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in sede penale vanno considerati anche i redditi del convivente more uxorio. Risarcimento del danno biologico È ammissibile la richiesta di risarcimento del danno biologico riflesso per lesioni cagionate al proprio convivente in un incidente stradale ma si deve dimostrare la convivenza stabile e duratura. Cass. sez. III, 29 aprile 2005, n. 8976 Colui che chiede il risarcimento dei danni derivatigli dalla lesione materiale cagionata alla persona con cui convive dalla condotta illecita del terzo, deve dimostrare l’esistenza e la portata dell’equilibrio affettivo - patrimoniale instaurato con la medesima, e perciò, per poter esser ravvisato il vulnus ingiusto a tale stato di fatto, deve esser dimostrata l’esistenza e la durata di una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale, non essendo sufficiente a tal fine la prova di una relazione amorosa, per quanto possa esser caratterizzata da serietà di impegno e regolarità di frequentazione nel tempo, perché soltanto la prova della assimilabilità della convivenza di fatto a quella stabilita dal legislatore per i coniugi può legittimare la richiesta di analoga tutela giuridica di fronte ai terzi. Locazione FILIAZIONE Costituisce nucleo familiare ai fini della normativa sulla proroga delle locazioni quello nel quale vi sia stabilità e continuità nelle relazioni interpersonali. Corte cost. 12 febbraio 2004, n. 62 Per beneficiare ex lege della sospensione degli sfratti, prevista dall’art. 80, 20° comma della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria 2001) nella parte in cui preve- Dichiarazione giudiziale di paternità naturale Nell’accertamento della paternità naturale possono essere valide anche le testimonianze de relato come fonte sussidiaria di convincimento. Cass. sez. I, 25 gennaio 2008, n. 1733 gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 69 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA L’articolo 269 del cc, secondo il quale la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra questa e il presunto padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità naturale, non solamente non esclude che tali circostanze, possano essere valutate dal giudice del merito come elementi di conferma del proprio convincimento circa la sussistenza della paternità naturale, ma a maggior ragione non preclude l’utilizzazione, quanto meno come fonte sussidiaria di prova, di testimonianze de relato, la cui attendibilità e rilevanza vanno verificate in concreto nel quadro di una valutazione globale delle risultanze di causa, specialmente quando i fatti riferiti siano stati appresi dai terzi in epoca non sospetta. Per l’accertamento della paternità naturale non è necessario preventivamente dare la prova di una relazione sessuale tra la madre e il presunto padre. Cass. sez. I, 2 luglio 2007, n. 14976 In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, deve escludersi qualsiasi subordinazione dell’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici all’esito della prova storica sull’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre di quest’ultimo, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, secondo comma, cc, non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una sorta di gerarchia assiologica tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità naturale, né, conseguentemente, mediante l’imposizione al giudice di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, a seconda del tipo di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge. Una diversa interpretazione, si risolverebbe in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., in relazione ad un’azione volta alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo “status”. Alla dichiarazione giudiziale di paternità naturale può contraddire autonomamente chiunque vi abbia interesse. Cass. sez. I, 3 aprile 2007, n. 8355 In tema di azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale l’ultimo comma dell’articolo 276 del Cc (in base al quale alla domanda può contraddire chiunque vi abbia interesse) configura una forma di intervento principale autonomo, ai sensi dell’articolo 105, comma 1, del Ccp e non meramente adesivo. È incostituzionale la fase di ammissibilità nella dichiarazione giudiziale di paternità naturale. Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50 E’ costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’articolo 3 Costituzione (sotto il profilo della ragionevolezza), l’articolo 274 cod. civ. nella parte in cui subordina al previo esperimento di una procedura delibatoria di ammissibilità l’esercizio dell’azione di riconoscimento di paternità naturale ai sensi del precedente articolo 269 cod. civ. Il diritto al rimborso delle spese di mantenimento sopportate da un genitore prima della sentenza di accertamento della paternità naturale decorre dalla sentenza. Cass. sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 Precisato che la regola posta dall’articolo 445 del Cc con riferimento alla decorrenza dell’obbligazione alimentare non trova applicazione con riguardo all’obbligazione di mantenimento nei confronti dei figli, poiché l’adempimento di tale obbligo prescinde da qualsivoglia domanda e che nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò solo a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene 70 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 meno l’obbligo dell’altro genitore, per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità) naturale, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità) naturale, il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante al genitore che ha allevato il figlio, non è utilmente esercitabile se non dal momento dell’emissione della relativa sentenza. Deriva da quanto precede, pertanto, che detto giorno segna il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso. In caso di morte del presunto genitore l’azione per la dichiarazione di paternità maturale va proposta esclusivamente nei confronti dei suoi credi diretti e immediati e non di quelli indiretti. Cass. sez. unite, 3 novembre 2005, n. 21287 Contraddittori necessari, passivamente legittimati, in ordine alla azione per dichiarazione giudiziale di paternità naturale sono, ex articolo 276 cod. civ., in caso di morte del genitore, esclusivamente i “suoi eredi”, e non anche gli credi degli credi di lui od altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, cui è invece riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio a tutela dei rispettivi interessi. La prova della filiazione biologica nell’azione per la dichiarazione della paternità naturale può essere data con ogni mezzo. Tribunale di Messina, 19 luglio 2005 In tema di dichiarazione giudiziale di paternità il testo dell’art. 269 cod. civ. non pone alcuna limitazione in ordine ai mezzi con i quali può essere provata la paternità naturale, così consentendo che quella prova possa essere anche indiretta ed indiziaria e possa essere raggiunta attraverso una serie di elementi presuntivi, nel cui ambito assumono, in particolare, efficacia probatoria determinante la “fama” e il “tractatus”. Inoltre le indagini ematologiche ed immunogenetiche per la loro elevata affidabilità attuale possono fornire elementi di valutazione non solo per escludere ma anche per affermare il rapporto biologico di paternità. In seguito alla dichiarazione di paternità naturale, la madre ha diritto ad ottenere dall’altro genitore il contributo di mantenimento a decorrere dalla nascita del figlio. Cass. sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100 La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’articolo 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’articolo 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex articolo 148 cod. civ.. La relativa obbligazione si collega allo status genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’articolo 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Il figlio sedicenne deve acconsentire al riconoscimento quanto meno prima della decisione e, divenuto maggiorenne nel corso dell’azione per la dichiarazione della paternità naturale, può ricorrere personalmente per cassazione avverso la sentenza d’appello. Cass. sez. I, 14 maggio 2005, n. 10131 Il consenso del figlio che ha compiuto l’età di sedici anni, necessario (ex art. 273 cod. civ.) per promuovere o proseguire validamente l’azione, è configurabile come un re- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA quisito del diritto di azione, integratore della legittimazione ad agire del genitore, sostituto processuale del figlio minorenne. Detto consenso può sopravvenire in qualsiasi momento ed è necessario e sufficiente che sussista al momento della decisione; in mancanza, il giudice deve dichiarare, anche d’ufficio, l’improseguibilità del giudizio e non può pronunciare nel merito. Nonostante il carattere “personalissimo” (ex art. 270 cod. civ.) dell’azione del figlio per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, la sostituzione processuale di lui da parte della persona esercente la potestà genitoriale (nel caso di specie, la madre) non cessa automaticamente allorquando lo stesso raggiunga la maggiore età, se tale circostanza non sia dichiarata in udienza o, comunque, portata a conoscenza delle altre parti mediante notifica (art. 300, comma 1, c.p.c.). Ove, peraltro, il figlio, che abbia compiuto diciotto anni nel corso del giudizio di appello, provveda ad impugnare personalmente con ricorso per cassazione, essendone legittimato, la relativa sentenza, non può concorrere, al riguardo, anche la legittimazione del genitore già esercente la potestà, il quale conserva una propria legittimazione a ricorrere in cassazione soltanto allorché il “petitum” consista in pretese di carattere economico accessorie alla dichiarazione giudiziale di genitura naturale. In pendenza del giudizio di accertamento della paternità naturale è ammissibile la domanda di un assegno alimentare provvisorio. Tribunale di Catania, 22 marzo 2005 E’ ammissibile in pendenza del giudizio volto alla dichiarazione della paternità naturale una domanda di determinazione di un assegno provvisorio. La domanda viene qualificata non come ricorso ex art. 700 c.p.c. ma come ricorso ex art. 446 cod. civ. La Cassazione solleva (per la seconda volta) la questione di costituzionalità della fase di ammissibilità nel procedimento per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale promossa dal figlio maggiorenne. Cass. sez. I, 26 novembre 2004, n. 22351 In riferimento agli, articoli 2, 3, 24, 30 e 111 della Costituzione, non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 274 del codice civile. Posto, infatti, che la ratio del giudizio preliminare di ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale è quella di evitare ,la proposizione di azioni temerarie o infondate con intenti meramente ricattatori o vessatori nei confronti del preteso genitore (al quale fine, appunto, era stato predisposto un vaglio preventivo della domanda con procedimento strutturato in modo da garantire la segretezza dell’indagine) è innegabile che a una siffatta ratio non è sostanzialmente più rispondente l’istituto di cui all’articolo 274 del codice civile, come attualmente disciplinato, stante la pubblicità dell’udienza, innanzi alla Corte di cassazione, la quale porta inevitabilmente a conoscenza della generalità dei cittadini proprio quegli elementi di fatto che l’articolo 274 del codice civile vorrebbe sottrarre alla, conoscenza pubblica. Inoltre la reiterabilità, senza alcun limite temporale, della domanda di ammissibilità sulla base di elementi ulteriori, rispetto a quelli in presenza dei quali l’ammissibilità sia stata in precedenza negata, finisce paradossalmente con l’aggravare, anziché tutelare la posizione del convenuto, lasciandolo esposto, a tempo indeterminato, a nuove chiamate in giudizio ex articolo 274 del codice civile, mentre in. caso di, rigetto della domanda direttamente nel giudizio di merito egli sarebbe definitivamente cautelato dal giudizio di accertamento negativo della sua pretesa paternità. (La prima sezione della Corte di Cassazione aveva già sollevato la questione di costituzionalità nel 2003 (Cass. sez. I, 4 luglio 2003, n. 10625 in Giustizia civile, 2004, 1, 99 e in Famiglia e diritto, 2003, 538) ma la Corte costituzionale l’aveva dichiarata inammissibile (Corte costituzionale, 11 giugno 2004, n. 169 in Famiglia e diritto, 2004, 5, 451) sul presupposto che la Corte remittente avrebbe omesso di individuare correttamente la norma denunciata e le ragioni che la ispirano e non avrebbe tenuto conto della modifica che la stessa norma aveva subito per effetto della pronuncia additiva di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 341/1990). L’azione per la dichiarazione di paternità può essere promossa anche dopo dieci anni dal decreto di ammissibilità. Cass. sez. I, 8 settembre 2004, n. 18053 L’articolo 2953 cod. civ. regola gli effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi, quando sia intervenuta una sentenza di condanna passata in giudicato, con riferimento, cioè, ai provvedimenti giudiziari decisori e definitivi, stabilendo che soggetta al termine di prescrizione decennale è l’azione diretta a ottenere l’esecuzione di una pronuncia giudiziale che, dopo aver accertato l’esistenza di un diritto, ne abbia ordinato la realizzazione. Laddove, peraltro, non si verifichi l’ipotesi normativamente prevista, trova applicazione il regime prescrizionale proprio della situazione oggetto del giudicato. Deriva, da quanto precede, pertanto, che se la situazione stessa non è soggetta a prescrizione, perché essa si esaurisce nell’attribuzione alla parte istante di un potere di natura processuale ovvero involge diritti indisponibili, quali quelli relativi allo status di figlio, non è configurabile una prescrizione per l’azione derivante dal relativo giudicato. Dichiarata quindi, ai sensi dell’articolo 274 cod. civ., l’ammissibilità dell’azione diretta alla dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità) naturale è irrilevante che l’azione di merito sia proposta trascorsi dieci anni dal passaggio in giudicato della pronuncia di ammissibilità. Anche nel processo camerale per l’accertamento della paternità naturale alle parti compete di richiedere l’ammissione delle prove. Cass. sez. I, 28 luglio 2004, n. 14200 Il giudizio di merito relativo alla dichiarazione di paternità (e di maternità) naturale di minori è soggetto, a norma dell’art. 38 disp. att. Cod. civ., al rito camerale, ma, concernendo la controversia diritti soggettivi o status, ove il giudice ritenga insufficienti, ai fini probatori, le informazioni assunte anche officiosamente e necessario ricorrere alle fonti di prova disciplinate dal codice di rito, non può sostituirsi alla parte, esercitandone i poteri di allegazione, deduzione ed eccezione ad essa spettanti (nella specie, la Suprema corte ha ritenuto rituale l’ammissione di una prova testimoniale, richiesta dalla parte e poi oggetto di rinuncia, non sul presupposto di un potere officioso del giudice, ma sulla base del fatto che la prova stessa era stata chiesta anche dal pubblico ministero). Per l’accertamento della filiazione tutte le prove hanno lo stesso valore. Cass. sez. I, 22 luglio 2004, n. 13665 In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il principio della libertà di prova sancito, in materia, dall’art. 269, comma 2, cod. civ. non è derogato dal limite imposto al giudice dalla disposizione di cui al successivo comma 4 della stessa norma di legge, e non tollera, pertanto, surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una sorta di gerarchia assiologia tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità o la maternità naturale, né, conseguentemente, mediante l’imposizione al giudice di meri- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 71 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA to di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, a seconda del “tipo” di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova in materia pari valore per espressa disposizione di legge. L’obbligo di mantenimento decorre dalla nascita e non dalla domanda di accertamento della filiazione naturale. Cass. sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351 La sentenza di accertamento della filiazione naturale, in quanto dichiarativa dello stato biologico di procreazione, produce gli stessi effetti del riconoscimento e pertanto implica tutti i doveri propri della filiazione legittima, compreso quello di mantenimento posto dagli articoli 147 e 148 del Cc: tale obbligazione, che sì collega allo status genitoriale, decorre dalla nascita, e non dal giorno della domanda giudiziale, e tanto meno da quello della pronuncia della relativa sentenza, con la conseguenza che dalla stessa data decorre l’obbligo di rimborsare pro quota l’altro genitore che abbia integralmente provveduto al mantenimento del figlio. Per provare la paternità possono essere utilizzati tutti gli elementi probatori acquisiti. Cass. sez. I, 18 maggio 2004, n. 9412 In tema di giudizio per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale e di acquisizione della prova della paternità, la eventuale non risolutività e conclusività delle risultanze degli accertamenti immunoematologici, non è di ostacolo, di per sé, alla utilizzazione e valorizzazione, da parte del giudice, di tutto il residuo complesso degli elementi probatori acquisiti nel corso dell’effettuata istruttoria. La paternità naturale può essere dimostrata con ogni mezzo. Cass. sez. I, 29 aprile 2004, n. 8207 La dimostrazione della paternità naturale può essere fornita, ai sensi dell’articolo 269 del Cc con ogni mezzo. Il giudice del merito dotato di ampio potere discrezionale, pertanto, può legittimamente trarre il proprio convincimento in ordine all’esistenza di un rapporto di filiazione da risultanze probatorie e indiziarie, ivi comprendendo vuoi le sentenze emesse in altri giudizi civili o penali, da cui tale rapporto si evinca per altra via, vuoi gli elementi già acquisiti nel procedimento per l’ammissibilità dell’azione ex articolo 274 del Cc, purché proceda a una nuova e autonoma valutazione globale dì questi ultimi, vuoi, infine, lo stesso rifiuto del presunto padre di sottoporsi alla prova ematologia. Solo il grave pregiudizio che può derivarne al minore può legittimare il rigetto della domanda tardiva di riconoscimento. Cass. sez. I, 29 aprile 2004, n. 8209 Il riconoscimento del figlio naturale infrasedicenne già riconosciuto dall’altro genitore costituisce oggetto di un diritto soggettivo costituzionalmente garantito dall’articolo 30 della Costituzione entro i limiti stabiliti dalla legge. Anche alla luce degli articoli 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989 e resa esecutiva in Italia con la legge n. 187 del 1991 tale diritto può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi e irreversibili, tali da fare ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psicofisico del minore. L’interesse del figlio, di cui è parola al comma 4 dell’articolo 250 del Cc, in particolare, va valutato in termini di attitudine a pregiudicare, totalmente il diritto alla genitorialità, riscontrabile solo qualora si accerti l’esistenza di motivi del genere di quelli indicati. 72 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Disconoscimento Sono ammissibili le prove ematologiche anche senza previa prova sul celamento della gravidanza. Cass. sez. I, 6 giugno 2008, n. 15088 Nell’ipotesi di azione di disconoscimento della paternità promossa ai sensi dell’art. 235, comma 1, n. 3 seconda ipotesi (celamento della gravidanza), è ammissibile la prova ematologica anche senza previa prova dell’avvenuto celamento della gravidanza. Nell’azione di disconoscimento della paternità è sufficiente la prova genetica senza dover dimostrare anche l’adulterio della moglie. Cassazione, sezione I, 24 gennaio 2007, n. 1610 Come ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza 266/06 è illegittimo l’articolo 235 comma 1 n. 3 del cc., nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, subordina l’esame delle prove tecniche, da cui risulta “che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre”, alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. Nell’azione di disconoscimento possono essere chieste le prove genetiche senza dover prima necessariamente dimostrare l’adulterio della moglie. Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 235, primo comma, numero 3, codice civile, nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, subordina l’esame delle prove tecniche, da cui risulta «che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre», alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. Il termine di decadenza dell’azione per disconoscere la paternità deve decorrere dalla effettiva conoscenza della reale paternità. Corte europea dei diritti dell’uomo, 24 novembre 2005 Viola l’articolo 8 della Convenzione lo Stato membro che assoggetti l’azione di disconoscimento della paternità a un termine di decadenza indipendente dall’effettiva conoscenza da parte dell’attore sulla reale paternità del figlio. Il presunto padre naturale non può presentare opposizione di terzo avverso la sentenza di disconoscimento. Cass. sez. I, 9 giugno 2005, n. 12167 Promosso, a seguito del vittorioso esperimento di azione di disconoscimento di paternità, giudizio di ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale ai sensi dell’articolo 274 Cc, deve escludersi che, rispetto a tale giudizio, abbia carattere pregiudiziale la causa di opposizione di terzo, che il presunto padre naturale abbia intentato contro la sentenza di disconoscimento di paternità, e che, pertanto, sussistano i presupposti, di cui all’articolo 295 Cpc, per la sospensione del giudizio di ammissibilità. Per l’azione di disconoscimento il termine di un anno decorre dalla nascita e non da quando il marito, già a conoscenza dell’adulterio della moglie, ha acquisito la prova ematologica della altrui paternità. Cass. sez. I, 25 febbraio 2005, n. 4090 Il dies a quo di decorrenza del termine per la proposizione della domanda di disconoscimento della paternità va individuato nella nascita del figlio, atteso che - nell’ipotesi, pacificamente nella specie ricorrente, di conoscenza MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA del tradimento della moglie acquisita anteriormente alla nascita del figlio - è appunto da tale ultima data, e non da quella di raggiunta “certezza” negativa sulla paternità biologica, che inizia a decorrere l’anno entro il quale va introdotto il giudizio di disconoscimento da parte del padre ai sensi dell’articolo 235, comma 1 n. 3 e dell’articolo 244, comma 2, Cc, come additivamente emendato con sentenza 134/85 della Corte costituzionale. Anche perchè una diversa esegesi del suddetto articolo 244 - che, come sostanzialmente preteso dal ricorrente, differisse a tempo indeterminato l’azione di disconoscimento, facendone decorrere il termine di proponibilità dai risultati di una indagine (stragiudiziale) cui non è dato a priori sapere se e quando i genitori possano addivenire - sacrificherebbe in misura irragionevole i valori di certezza e stabilità degli status e dei rapporti familiari, a garanzia dei quali la norma è viceversa predisposta. Nel giudizio di disconoscimento della paternità è inammissibile l’intervento della persona che si dichiara padre naturale. Tribunale di Messina, 5 gennaio 2005 Nel giudizio di disconoscimento della paternità è inammissibile l’intervento della persona che si dichiara padre biologico, che non ha alcun interesse in termini giuridici ad intervenire nel giudizio, diretto soltanto a rimuovere lo “status” di figlio legittimo del minore. In nessun caso infatti è ammesso un riconoscimento in contrasto con lo “status” di figlio legittimo, e pertanto solo a seguito al passaggio in giudicato di una sentenza di disconoscimento di paternità il padre biologico può eseguire il riconoscimento. Non può essere nominato il curatore speciale per l’azione di disconoscimento su istanza del genitore naturale. Tribunale di Salerno, 29 novembre 2004 La nomina del curatore speciale, volta al promovimento dell’azione di disconoscimento della paternità, effettuata in violazione dell’art. 244 comma 4 cod. civ., è illegittima quando l’istanza è presentata dal padre naturale e non dal pubblico ministero, unico soggetto legittimato all’azione in favore del minore infrasedicenne. La Cassazione solleva la questione di costituzionalità delle norme sul disconoscimento che subordinano la prova genetica alla prova dell’adulterio. Cass. sez. I, 5 giugno 2004, n. 10742 Non è manifestamente infondata in relazione agli articoli 3 e 24 della Costituzione, sotto il profilo della limitazione del diritto di difesa e della ragionevolezza di tale limitazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 235, n. 3, cod. civ. nella parte in cui subordina la prova genetica ed ematologica alla prova dell’adulterio della moglie. Nell’azione di disconoscimento promossa oltre l’anno è onere dell’attore provare di essere venuto a conoscenza tardivamente dell’adulterio della moglie. Cass. sez. I, 3 giugno 2004, n. 10580 L’azione di disconoscimento della paternità, da parte del marito, è sottoposta a limiti temporali. Ne segue, pertanto, che a seguito della sentenza della Corte costituzione n. 131 del 1985 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 244, comma 2, del cc, nella parte in cui non dispone che in caso di adulterio della moglie il termine dell’azione di disconoscimento decorra dal giorno in cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio stesso, è onere dell’attore, ove l’azione sia stata proposta oltre il termine di un anno dalla nascita del figlio, e sia basata su una ipotesi di adulterio della moglie, fornire, in limine, la prova del momento in cui l’attore è venuto a conoscenza del preteso adulterio, al fine di consentire la verifica della tempestività dell’azione stessa. Solo raggiunta la prova dell’adulterio acquista rilevanza quella sulla incompatibilità genetica. Cass, sez. I, 23 aprile 2004, n. 7747 In tema di azione disconoscimento della paternità l’articolo 235 del Cc consente di superare la presunzione legale di paternità del marito, nonostante l’eventuale prosecuzione della convivenza e dei rapporti intimi con la moglie se l’attore fornisca, in primo luogo, la prova dell’adulterio e. subordinatamente a questa, la dimostrazione dell’assunto di esclusione della paternità, mediante la prova di incompatibilità genetica o sanguigna o di altro fatto utile allo stesso scopo. Deriva, da quanto precede pertanto, che una volta raggiunta la prova dell’adulterio gli altri elementi acquisiti al giudizio, come le testimonianze e lo stesso rifiuto di sottoporsi a indagini per la ricerca delle compatibilità emato-genetiche devono essere valutati dal giudice del merito al fine di escludere o confermare la paternità, a prescindere dal fatto che per un lungo periodo di tempo, comprendente le epoche di concepimento dei figli, la donna, pur intrattenendo rapporti sessuali con altro uomo avesse continualo a convivere con il marito. Il termine di un anno per il marito per proporre l’azione di disconoscimento del figlio decorre in caso di adulterio dalla sua certa acquisizione, se posteriore alla nascita del figlio. Cass. sez. I, 23 aprile 2003, n. 6477 Ai sensi dell’art. 244 cod. civ., come additivamente emendato con sentenza n. 134 del 1985 della Corte costituzionale, il termine annuale per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità decorre, in caso di adulterio, solo dal giorno della sua scoperta, se posteriore alla nascita del figlio. Ai suddetti fini, per scoperta deve intendersi la certa acquisizione di conoscenza, e non il mero sospetto, di un fatto non riducibile a mera infatuazione, relazione sentimentale ovvero anche frequentazione della moglie con un altro uomo e rappresentato, invece, da una vera e propria relazione, o da un incontro comunque sessuale, idoneo a determinare il concepimento del figlio che si vuole disconoscere. Perché inizi a decorrere il termine annuale per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, in caso di adulterio della moglie, è indispensabile la “scoperta” di questo, senza che sia sufficiente un mero stato di dubbio, circa la infedeltà. Dal giudicato di disconoscimento non è più dovuto il mantenimento. Cass. sez. I, 16 aprile 2003, n. 6011 Qualora sia stato accertato il difetto di paternità, la successiva richiesta di revoca dell’assegno di mantenimento posto a carico del presunto padre retroagisce sino al passaggio in giudicato della pronuncia ex art. 235 codice civile Questa naturale e del tutto peculiare retroattività della pronuncia di revisione si giustifica in quanto l’intervenuto accertamento giudiziale dell’assenza di qualsiasi reale rapporto di filiazione non può non rendere più che mai privo di giustificazione, sul piano della stessa coscienza sociale, il successivo proseguirsi di ogni tipo di contribuzione di mantenimento fondata sull’insussistente qualità di figlio. È inammissibile la confessione nelle azioni di status. Cass. sez. I, 26 marzo 2003, n. 4462 L’azione di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, al pari di quelle di disconoscimento o di dichiarazione giudiziale della paternità, gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 73 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA verte in materia di diritti indisponibili e non consente alcun tipo di negoziazione o anche di semplice rinuncia abdicativa, risultando stabilita solo per assicurare che i rapporti di famiglia e, massimamente quelli di filiazione, corrispondano a verità, a tutela di un interesse pubblico che trascende quello eventualmente contrario dei privati. Deriva, da quanto precede, pertanto, che in un tale giudizio è impossibile attribuire valore confessorio, sì da ricavarne la dimostrazione dell’insussistenza del rapporto di paternità biologica, alle eventuali dichiarazioni del figlio, secondo quanto dispone in linea generale l’articolo 2733 del Codice civile, il quale esclude che la confessione giudiziale costituisca prova contro colui che l’ha resa se verta su fatti relativi a diritti non disponibili. L’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, da parte del suo autore, a norma dell’articolo 263 del codice civile, postula la giudiziale dimostrazione dell’assoluta impossibilità che il soggetto che quale ha effettuato il riconoscimento sia il padre del soggetto riconosciuto come figlio. Legittimazione La legittimazione è possibile anche in caso di minore riconosciuto da un solo genitore. Corte d’appello di Roma, 11 maggio 2004, n. 2843 L’art. 284, n. 1 cod. civ. deve essere interpretato nel senso che la legittimazione per provvedimento giudiziale sia pienamente ammissibile anche qualora il minore legittimando sia stato riconosciuto da un solo genitore. La legittimazione del figlio naturale è possibile solo se il minore è riconosciuto da entrambi i genitori. Tribunale per i minorenni di Roma, 2 dicembre 2003 Ai fini della legittimazione del figlio naturale per provvedimento del giudice, costituisce presupposto fondamentale il preventivo riconoscimento del figlio da parte di entrambi i genitori. Prova ematologica Sono ammissibili le prove ematologiche anche senza previa prova sul celamento della gravidanza. Cass. sez. I, 6 giugno 2008, n. 15088 Nell’ipotesi di azione di disconoscimento della paternità promossa ai sensi dell’art. 235, comma 1, n. 3 seconda ipotesi (celamento della gravidanza), è ammissibile la prova ematologica anche senza previa prova dell’avvenuto celamento della gravidanza. Il decesso della madre e del presunto padre naturale non è di ostacolo all’esperimento di prove ematologiche previa esumazione della salme. Cass. sez. I, 16 aprile 2008, n. 10007 Va cassata la sentenza del giudice di merito che in un giudizio di accertamento della paternità naturale non abbia disposto la consulenza tecnica genetica diretta all’accertamento del rapporto di paternità naturale sul rilievo che l’avvenuto decesso da diversi anni della madre e del presunto padre naturale renderebbero le relative indagini oltre che dispendiose e difficoltose, quasi certamente insuscettibili di condurre a risultati di relativa certezza, attesi i progressi della scienza biomedica e tenuto conto che il decesso del presunto padre naturale nonché della madre non è di ostacolo all’esperimento di tale prova scientifica previa esumazione delle salme. Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., anche in assenza di prova di rapporti sessuali tra le parti. Cass. sez. I, 16 aprile 2008, n. 10051 L’art. 269 c.c., consente di utilizzare ogni mezzo di prova e non pone alcun limite in ordine ai mezzi attraverso i quali può essere dimostrata la paternità naturale, sicché il giudice di merito, dotato di ampio potere discrezionale al riguardo, può legittimamente fondare il proprio convincimento sulla effettiva sussistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze istruttorie dotate di valore puramente indiziario, senza che assuma carattere di indefettibilità neppure la dimostrazione dell’esistenza di rapporti sessuali tra la madre ed il preteso padre durante il periodo del concepimento. Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., anche in assenza di prova di rapporti sessuali tra le parti, in quanto proprio la mancanza di prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti tra le stesse parti intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del preteso genitore naturale, se non consente di fondare la dichiarazione di paternità sulla sola dichiarazione della madre e sull’esistenza di rapporti con il presunto padre all’epoca del concepimento, non esclude che il giudice possa desumere, appunto, argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, ed in particolare dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti biologici, e possa persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre (v. Cass., sent. n. 1733 del 2008, n. 6694 del 2006). Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice anche in assenza di prova di rapporti sessuali tra le parti. Cass. sez. I, 16 aprile 2008, n. 10051 L’articolo 269 c.c. che consente di utilizzare ogni mezzo di prova, non pone alcun limite in ordine ai mezzi attraverso i quali può essere dimostrata la paternità naturale. Il giudice del merito perciò può fondare il proprio convincimento sulla effettiva esistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze istruttorie dotate di valore puramente indiziario, senza che assuma carattere di indefettibilità neppure la dimostrazione dell’esistenza di rapporti sessuali tra la madre e il preteso padre durante il periodo del concepimento. Da quanto precede deriva che il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116 comma 2 c.p.c. anche in assenza di prova di rapporti sessuali tra le parti. Infatti proprio la mancanza di prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente acquisibili circa i rapporti intercorsi tra le parti e circa l’effettivo concepimento a opera del preteso genitore naturale, se non consente di fondare la dichiarazione di paternità sulla sola dichiarazione della madre, non esclude che il giudice possa desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti ed in particolare dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti ematologici e possa persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclsuivamente dalla condotta processuale del preteso padre. L’accertamento genetico della paternità attraverso una consulenza tecnica rientra nei poteri del giudice del merito il quale può ritenere superfluo l’esame ove abbia già acquisito 74 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA elementi sufficienti. Cass. sez. I, 16 aprile 2008, n. 10007 L’art. 269 c.c. non pone alcuna limitazione in ordine ai mezzi con i quali può essere provata la paternità naturale e, così, consente che quella prova possa essere anche indiretta ed indiziaria, a possa essere raggiunta attraverso una serie di elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell’id quod plerumque accidit, risultino idonei, per la loro attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità. In particolare, nell’ambito di queste circostanze indiziarie sono utilizzabili come elementi di giudizio il tractatus e la fama (consistendo il primo nell’effettivo rapporto fra l’asserito genitore e la persona a cui favore si chiede la dichiarazione giudiziale di paternità, nel senso che il padre l’abbia trattata come figlio e abbia provveduto in questa qualità al mantenimento, all’educazione e all’istruzione, e la seconda nella manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali), essendo gli stessi indicativi di quel possesso di stato di figlio naturale, al quale già il testo dell’abrogato art. 270 c.c. attribuiva l’idoneità a dimostrare la paternità naturale (Cass., Sez. I, 5 agosto 1997, n. 7193). L’ammissione della consulenza tecnica d’ufficio rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito (Cass., Sez. I, 28 febbraio 2006, n. 4407) e anche nel giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale (dove la consulenza tecnica non ha in realtà la semplice funzione di fornire al giudice la valutazione relativa a fatti già acquisiti al processo, ma costituisce essa stessa fonte di prova e di accertamento di situazioni di fatto), il ricorso alle indagini ematologiche e genetiche è rimesso alla valutazione del giudice, il quale può ritenerle superflue ove abbia già acquisito elementi sufficienti a fondare il proprio convincimento (Cass., Sez. I, 18 aprile 1997, n. 3342; Cass., Sez. I, 25 febbraio 2002, n. 2749). Qualora il presunto padre sia deceduto la prova della paternità naturale può legittimamente fondarsi sul rifiuto dei fratelli di lui a sottoporsi ad accertamenti immunoematologici. Cass. sez. I, 16 aprile 2008, n. 10051 Correttamente il giudice di merito, accertata l’esistenza di una relazione tra la madre e il presunto padre naturale, ritiene raggiunta la prova della paternità naturale di questo, deceduto anteriormente al giudizio, sulla base del rifiuto dei fratelli di lui a sottoporsi ad accertamenti ematologici. Infatti anche l’accertamento sui congiunti del presunto padre avrebbe potuto offrire, con la prova del rapporto di parentela, elementi tali da contribuire al convincimento del giudice. Il giudice può sempre desumere argomenti di prova dal rifiuto di sottoporsi agli accertamenti ematologici. Cass. sez. I, 25 gennaio 2008, n. 1733 In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale la mancanza di prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti tra le stesse parti intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del preteso genitore naturale, se non consente di fondare la dichiarazione di paternità sulla sola dichiarazione della madre e sull’esistenza di rapporti con il presunto padre all’epoca del concepimento, non esclude che il giudice possa desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, e in particolare dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti biologici, e possa perfino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con la dichiarazione della madre. Nell’azione di disconoscimento della paternità è sufficiente la prova genetica senza dover dimostrare anche l’adulterio della moglie. Cassazione, sezione I, 24 gennaio 2007, n. 1610 Come ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza 266/06 è illegittimo l’articolo 235 comma 1 n. 3 del cc., nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, subordina l’esame delle prove tecniche, da cui risulta “che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre”, alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. Nell’azione di disconoscimento possono essere chieste le prove genetiche senza dover prima necessariamente dimostrare l’adulterio della moglie. Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 235, primo comma, numero 3, codice civile, nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, subordina l’esame delle prove tecniche, da cui risulta «che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre», alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. Il rifiuto di sottoporsi ad esami ematologici è valutabile anche in assenza di prova di rapporti sessuali tra le parti. Cass. sez. I, 24 marzo 2006, n. 6694 Nel giudizio diretto ad ottenere una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., anche in assenza di prova di rapporti sessuali tra le parti, in quanto proprio la mancanza di prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti tra le stesse parti intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del preteso genitore naturale, se non consente di fondare la dichiarazione di paternità sulla sola dichiarazione della madre e sull’esistenza di rapporti con il presunto padre all’epoca del concepimento (secondo l’espresso disposto dell’ultimo comma dell’art. 269 c.c.), non esclude che il giudice possa desumere, appunto, argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, ed in particolare dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti biologici, e possa persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre. Le prove ematologiche sono ammissibili anche senza previa assunzione di altre prove ed hanno sicura rilevanza probatoria. Cass. sez. I, 22 luglio 2004, n. 13665 I principi di libero convincimento del giudice e di libertà delle prove, in forza dei quali tutti i mezzi di prova hanno pari valore, operano anche quanto all’azione di accertamento giudiziale della paternità e maternità naturale, senza limitazioni, sicché per tale azione il giudice non è tenuto a seguire alcun ordine gerarchico o cronologico nell’ammissione ed assunzione dei mezzi di prova ben potendo egli disporre, senza ulteriori passaggi, una consulenza tecnica d’ufficio di natura ematologico-immunogenetica, sulle cui conclusioni, unitamente agli altri elementi probatori acquisiti, può fondare la propria decisione. In materia di accertamento giudiziale della paternità e della maternità, le indagini ematologiche e immunogenetiche, in quanto ormai affidabili, possono fornire elementi di valutazione sia per escludere che per affermare il rapporto biologico di paternità, non rilevando il carattere probabilistico delle risultanze di tali indagini, comune a tutte le asserzioni delle gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 75 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA scienze fisiche e naturalistiche, cui è sempre immanente la possibilità di errore. La Cassazione solleva la questione di costituzionalità delle norme sul disconoscimento che subordinano la prova genetica alla prova dell’adulterio. Cass. sez. I, 5 giugno 2004, n. 10742 Non è manifestamente infondata in relazione agli articoli 3 e 24 della Costituzione, sotto il profilo della limitazione del diritto di difesa e della ragionevolezza di tale limitazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 235, n. 3, cod. civ. nella parte in cui subordina la prova genetica ed ematologica alla prova dell’adulterio della moglie. La mancanza di prova circa i rapporti sessuali tra i presunti genitori biologici non preclude ulteriori prove come quella ematologica potendo in tale contesto il giudice trarre argomenti di prova dal rifiuto dell’interessato a sottoporsi alla prova ematologica. Cass. sez. I, 3 aprile 2003, n. 5116 È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 269 cod. civ., (ove interpretato nel senso che la mancanza della prova di rapporti sessuali tra la madre ed il presunto padre nel periodo del concepimento non precluda l’esecuzione di ulteriori indagini e la valutazione degli altri elementi di prova), per supposto contrasto con l’art. 30, comma 4, cost., il quale dispone che la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità. Invero, la norma costituzionale in questione rimette al legislatore ordinario la fissazione delle norme e dei limiti per la ricerca della paternità naturale, senza stabilire vincoli di contenuto, e l’ultimo comma dell’art. 269 cod. civ. secondo cui la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre ed il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità naturale - costituisce di per sè una limitazione di carattere probatorio, ma non prescrive che l’esistenza di tali rapporti debba risultare in ogni caso da una prova specifica sul punto, dovendo anche tenersi conto del comma 2 della medesima disposizione, secondo cui la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo, e, inoltre, ogni valutazione sulla adeguatezza e sufficienza dei limiti probatori appartiene alla considerazione discrezionale del legislatore, non fissando la citata norma costituzionale alcun canone in proposito. L’art. 269 cod. civ., nella sua attuale formulazione, non pone alcun limite in ordine ai mezzi di prova della paternità naturale, prova che può quindi fondarsi su elementi indiziari; in particolare, la dimostrazione dell’esistenza di rapporti sessuali tra madre e preteso padre durante il periodo del concepimento non ha carattere di indefettibilità, con la conseguenza che anche in mancanza di prova circa tali rapporti, il rifiuto ingiustificato del preteso padre di sottoporsi agli esami ematologici costituisce comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c. E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale - per violazione degli art. 13, 15, 24, 30 e 32 cost. - del combinato disposto degli art. 269 cod. civ. e 116 e 118 c.p.c., ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell’espletamento dell’esame del Dna. Invero, dall’art. 269 cod. civ. non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa, e, inoltre, il rifiuto apriori- 76 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 stico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l’uso dei dati nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l’accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della l. 31 dicembre 1996 n. 675. Responsabilità per il mantenimento (art. 279 c.c.) Chi ha lo status di figlio legittimo può sempre agire nei confronti del genitore naturale per chiedere gli alimenti. Cass. sez. I, 1° aprile 2004, n. 6365 Poiché l’art. 279 cod. civ. esordisce con una locuzione ampia (“in ogni caso”) e prosegue ponendo l’accento su un dato oggettivo, costituito dall’impossibilità di proporre l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità, senza distinguere in alcun modo tra impossibilità assoluta o relativa, originaria o sopravvenuta, l’azione prevista nell’art. 279 cc è ammissibile anche quando l’impossibilità di agire per il disconoscimento è una impossibilità sopravvenuta, perché derivante dall’omesso esperimento, nei termini di decadenza previsti, dell’azione di disconoscimento. Riconoscimento di figlio naturale L’opposizione al riconoscimento tardivo può essere ammessa solo ove il riconoscimento possa compromettere gravemente lo sviluppo del del minore. Cass. sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4 L’interesse del figlio minore infrasedicenne al riconoscimento della paternità naturale, di cui all’articolo 250 del cc, è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto all’identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione al riconoscimento da parte dell’altro genitore, che lo abbia già effettuato il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi e irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, e in particolare della sua salute psicofisica. La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice di merito, le cui conclusioni, ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono a ogni sindacato di legittimità. Un egiziano può riconoscere in Italia un figlio naturale anche se il suo Paese riconosce solo la filiazione legittima. Cassazione sezione I, 28 dicembre 2006, n. 27592 Posto che, in tema di azione ex articolo 250, quarto comma cc., diretta ad ottenere una pronuncia sostitutiva del consenso dell’altro genitore, di diversa nazionalità, al fine di procedere al riconoscimento di figlio naturale, la relativa capacità del genitore è regolata dalla sua legge nazionale, tale legge non può trovare applicazione, alla stregua dell’articolo 16 legge 218 del 1995, quando sia contraria all’ordine pubblico internazionale. Pertanto, deve riconoscersi al cittadino egiziano la capacità di procedere in Italia al riconoscimento del figlio naturale nato da una relazione adulterina con una donna di diversa nazionalità che lo abbia già riconosciuto (e non abbia prestato il proprio consenso al riconoscimento da parte del padre), nonostante l’ordinamento egiziano non attribuisca alcuna azione al padre naturale per far valere il suo diritto di paternità, poiché una norma che si ispira ad un rifiuto di protezione della filiazione naturale contrasta con un principio di ordine pub- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA blico internazionale italiano, che alla filiazione naturale assegna comunque rilievo e tutela. Il tribunale per i minorenni, al fine di valutare la veridicità del riconoscimento del figlio naturale può disporre d’ufficio una consulenza tecnica ematologica. Cass. sez. I, 17 febbraio 2006, n. 3563 Il tribunale per i minorenni, al fine di valutare la veridicità del riconoscimento del figlio naturale compiuta da persona coniugata, ai sensi dell’articolo 74 legge 184/83, può disporre d’ufficio tutti i mezzi d’indagine che ritenga opportuni, ivi compresa una consulenza tecnica ematologica. Gli esiti degli accertamenti disposti dal tribunale per i minorenni nel corso del procedimento finalizzato ad accertare la veridicità del riconoscimento del figlio naturale (ex articolo 74 legge 184/83) possono essere utilizzati, concorrendo a formare il convincimento del giudice, nel diverso procedimento avente ad oggetto l’accertamento dello stato di adottabilità. Solo se lo sviluppo del minore possa rimanere compromesso può essere negata l’autorizzazione al riconoscimento tardivo del figlio naturale. Cass. sez. I, 11 febbraio 2005, n. 2878 La possibilità di riconoscere il figlio naturale minore di anni sedici, già riconosciuto da un genitore costituisce un diritto soggettivo primario dell’altro genitore, garantito dall’articolo 30 della Costituzione, nei limiti dell’articolo 250 del codice civile. Deriva, da quanto precede, pertanto, che l’unica lettura possibile della disposizione de qua in armonia con il dettato costituzionale è nel senso che l’autorizzazione può essere concessa dall’autorità giudiziaria solo se da questa possa derivare per il figlio un concreto beneficio, sia sotto il profilo morale che quello materiale, atteso che il diritto al riconoscimento è comprimibile (con la negazione dell’autorizzazione) solo nei limiti di una forte probabilità che lo sviluppo del minore sia compromesso per effetto del riconoscimento. L’interesse del minore al riconoscimento sussiste quando risulta che al minore non possa derivarne un pregiudizio e non già solo allorché venga concretamente dimostrato che il riconoscimento sia per lui vantaggioso. Cass. sez. I, 19 gennaio 2005, n. 728 In tema di filiazione naturale, in un contesto normativo come l’attuale, che reputa automaticamente conforme all’interesse del minore il riconoscimento allorché vi sia il consenso del genitore che lo ha reso per primo, deve escludersi - in mancanza di una espressa disposizione una interpretazione dell’art. 250, comma 4, cod. civ. che presuma la carenza di interesse nell’ipotesi di rifiuto dell’altro genitore, con conseguente necessità, in questa evenienza, di una prova concreta dell’esistenza, in capo al minore infrasedicenne, di un tale interesse al secondo riconoscimento. L’audizione del figlio in caso di procedimento per riconoscimento tardivo va disposta d’ufficio dal giudice. Cass. sez. I, 9 novembre 2004, n. 21359 Nel procedimento di cui all’art. 250 cod. civ., volto al riconoscimento del figlio naturale, con particolare riguardo alla parte della disposizione relativa al riconoscimento del figlio che non abbia compiuto i sedici anni, la prescrizione riguardante l’audizione del minore che sia già stato riconosciuto da uno dei genitori è rivolta a soddisfare l’esigenza di accertare se il rifiuto del consenso dell’ altro genitore, che per primo abbia proceduto al riconoscimento, risponda (o meno) all’interesse del figlio (e possa pertanto essere supplito). E poiché tale audizione è considerata la prima fonte del convincimento del giudice essa deve essere disposta anche d’ufficio, onde la sua omissione determina un vizio del procedimento; né essa è delegabile al consulente tecnico di ufficio, essendo riservata espressamente al giudice, proprio per la sua stretta funzionalità alla tutela dell’interesse di colui che non è ancora capace di una valutazione personale pienamente attendibile rispetto ad un evento suscettibile di incidere sul suo equilibrio e sulla sua vita di relazione. Dalla data del riconoscimento del figlio naturale decorre la prescrizione per richiedere il rimborso delle spese sostenute per il minore dalla nascita. Cass. sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 Quando al mantenimento abbia provveduto uno soltanto dei genitori, allo stesso spetta il diritto di agire in regresso per il recupero della quota relativa al genitore inadempiente, secondo le regole generali sul rapporto tra condebitori solidali: come si desume in particolare dall’art. 148 cod. civ. (richiamato dall’art. 261 cc.), che, prevedendo l’azione giudiziaria contro tale genitore, postula il diritto del genitore adempiente di agire nei confronti dell’altro; senza necessità di configurare, come ha erroneamente ritenuto la sentenza impugnata (la cui motivazione deve essere perciò corretta, limitatamente a questo punto, nell’esercizio del potere attribuito a questa Corte dall’art. 382, comma secondo, c.p.c.) un caso di gestione di affari. La prescrizione comincia a decorrere dall’intervenuto riconoscimento del figlio naturale. Il riconoscimento del figlio naturale è un diritto e può essere negato solo in presenza di motivi gravi e irreversibili. Cass. sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 Il riconoscimento del figlio naturale minore infrasedicenne, già riconosciuto da un genitore, è diritto soggettivo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’articolo 30 della Costituzione: in quanto tale, esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso atteso il diritto del bambino a identificarsi come figlio di un padre e di una madre e ad assumere una precisa identità. Ne consegue che il secondo riconoscimento ove vi sia opposizione dell’altro genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi e irreversibili tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione nello sviluppo psico-fisico del minore. Il raggiungimento della maggiore età dell’interessato comporta il venir meno della necessità del consenso del primo genitore al riconoscimento tardivo da parte dell’altro. Cass. sez. I, 3 gennaio 2003, n. 14 In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art. 250 cod. civ. che, nell’ipotesi di minore infrasedicenne, subordina la possibilità del secondo riconoscimento al consenso del genitore che detto consenso ha già effettuato, dispone altresì che al compimento del sedicesimo anno il minore divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del secondo genitore al riconoscimento, configurando il suo assenso quale elemento costitutivo della efficacia del riconoscimento stesso. Ne consegue che il raggiungimento da parte del minore della “maggiore età” ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio determina il venir meno della necessità del consenso del primo genitore al riconoscimento da parte dell’altro genitore e, in difetto, dell’intervento del giudice. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 77 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA FILIAZIONE NATURALE Dichiarazione giudiziale di paternità naturale Il diritto al mantenimento del figlio naturale decorre dalla nascita ma è subordinato alla domanda di parte. Cass. sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630 In seguito alla sentenza dichiarativa di paternità, il figlio acquisisce un differente status, comprensivo del diritto al mantenimento con efficacia retroattiva fin dalla nascita; ne consegue che da tale data decorre l’obbligo del genitore dichiarato di rimborsare in proprio l’altro genitore che abbia provveduto al mantenimento del figlio, ma la condanna al rimborso di tale quota per il periodo anteriore alla proposizione dell’azione non può prescindere da una espressa domanda di parte, proposta “iure proprio” e non in rappresentanza del figlio, nell’ambito della definizione di rapporti pregressi tra debitori solidali in relazione a diritti disponibili. L’azione per la dichiarazione di paternità va proposta al giudice di merito secondo le regole ordinarie. Cass. sez. I, 30 luglio 2009, n. 17733 A seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 274 c.c., l’azione per la dichiarazione della paternità naturale va proposta direttamente al giudice di merito secondo le regole ordinarie. Impugnazione per difetto di veridicità Nel caso di impugnazione di riconoscimento per difetto di veridicità il solo rifiuto di sottoporsi alle prove ematologiche non è sufficiente ad escludere la veridicità del riconoscimento. Cass. sez. I, 8 maggio 2009, n. 10585 L’impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento di un figlio naturale postula, a norma dell’art. 263 c.c., la dimostrazione dell’assoluta impossibilità che il soggetto che abbia inizialmente compiuto il riconoscimento sia, in realtà, il padre biologico del soggetto riconosciuto come figlio; pertanto, non è sufficiente che il figlio naturale rifiuti di sottoporsi alla prova del Dna per smentire l’avvenuto riconoscimento di paternità. Prova ematologica L’omessa motivazione quale vizio della sentenza sussiste solo se nel ragionamento del giudice si riscontra il mancato esame di punti decisivi della controversia. Cass. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14086 Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 n. 5 c.p.c., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte perché la citata norma non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico - formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (fattispecie in cui il giudice di merito aveva messo a fondamento della decisione le risultante si una ctu genetica contestata dai convenuti con argomentazioni riferibili a presunte indagini relative alla “fama” e al “tractatus”). 78 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Nella CTU genetica non debbono necessariamente essere eseguite tutte le indagini richieste dalle parti ove il CTU abbia acquisito la certezza in ordine al risultato. Cass. sez. I, 9 gennaio 2009, n. 282 In tema di indagini compiute dal consulente tecnico d’ufficio ai fini della dichiarazione giudiziale di paternità, ai sensi dell’art. 269 cod. civ., non ogni ipotesi prospettata dalle parti deve essere dal medesimo esaminata per pervenire al giudizio di certezza o di elevatissima probabilità della paternità, ma solo quelle che appaiano suffragate da solidi argomenti scientifici e concreti riscontri in fatto. (Nella specie, tale non è stata considerata dalla S.C. l’affermazione di un isolato genetico proprio di una comunità comunque integrata nel territorio nazionale da diversi secoli, il quale avrebbe potuto astrattamente influire sull’esito dell’accertamento scientifico ematologico-genetico che era pervenuto a conclusioni di pratica certezza). FONDO PATRIMONIALE Azione revocatoria La costituzione del fondo patrimoniale è soggetta a revocatoria ordinaria. Cass. sez. III, 17 gennaio 2007, n. 966 La costituzione del fondo patrimoniale può essere dichiarata inefficace nei confronti dei creditori a mezzo azione revocatoria ordinaria ai sensi dell’art. 2901 c.c. , mezzo di tutela del creditore rispetto agli atti del debitore di disposizione del proprio patrimonio. Il negozio costitutivo del fondo patrimoniale è un negozio a titolo gratuito. Cass. sez. I, 7 marzo 2005, n. 4933 Il negozio costitutivo del fondo patrimoniale, anche quando proviene da entrambi i coniugi, è atto a titolo gratuito, che può essere dichiarato inefficace nei confronti dei creditori a mezzo di azione revocatoria ordinaria, in quanto rende i beni conferiti aggredibili solo a determinate condizioni (art. 170 cod. civ.), così riducendo la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti. La costituzione del fondo patrimoniale è un atto a titolo gratuito. Cass. sez. I, 8 settembre 2004, n. 18065 La costituzione del fondo patrimoniale (nella specie mediante conferimento di beni di proprietà comuni di entrambi i coniugi) integra un atto a titolo gratuito e non di adempimento dell’obbligo giuridico di mantenere la famiglia e lo stesso, pertanto, in caso di fallimento dei conferenti, è soggetto alla disciplina di cui all’articolo 64 della legge fallimentare. Esecuzione Poiché non è la natura dell’obbligazione ma il fatto generatore di essa che identifica il collegamento con i bisogni della famiglia, anche il creditore extracontrattuale può agire in via esecutiva sul fondo patrimoniale. Cass. sez. I, 5 giugno 2003, n. 8991 Rientrano tra i debiti contratti nell’interesse della famiglia di cui all’art. 170 cod. civ. e per la coattiva riscossione dei quali i creditori possono procedere ad esecuzione sui beni del fondo patrimoniale e sui frutti di esso, anche le obbligazioni di natura non contrattuale e anche le obbliga- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA zioni da illecito. Qualora, quindi, per procedere all’acquisto di un immobile destinato ai bisogni della famiglia uno dei coniugi abbia indotto il precedente proprietario all’inadempimento di un contratto preliminare anteriormente stipulato e sia stato, in conseguenza della lesione, ritenuto responsabile delle aspettative contrattuali di detto terzo con condanna al risarcimento dei danni in favore dello stesso, quest’ultimo può agire esecutivamente nei confronti del ricordato immobile. Opponibilità La costituzione del fondo patrimoniale è opponibile solo se annotata. Cass. sez. I, 25 marzo 2009, n. 7210 L’atto costituivo del fondo patrimoniale, rientrando tra le convenzioni matrimoniali, è opponibile ai terzi solo a seguito dell’annotazione nei registri dello stato civile. Scioglimento L’alienazione o lo scioglimento del fondo patrimoniale in presenza di figli minori va autorizzata dal tribunale per i minorenni. Tribunale per i minorenni di Salerno, 12 novembre 2004 Se il fondo patrimoniale è costituito a vantaggio di un nucleo familiare di cui fanno parte uno o più figli minori, per il compimento di atti di alienazione di beni o per lo scioglimento del fondo, oltre all’accordo dei coniugi e del terzo costituente occorre l’autorizzazione giudiziale, di competenza del tribunale per i minorenni, che può essere concessa nei soli casi di necessità o utilità evidente, ai sensi dell’art. 169 c.c. Il tribunale per i minorenni non deve disporre il reimpiego del prezzo dell’alienazione del fondo patrimoniale. Tribunale per i minorenni di Perugia, 25 gennaio 2003 In presenza di autorizzazione all’alienazione di un bene facente parte del fondo patrimoniale, non può configurarsi un potere del giudice di disporre l’obbligo e le modalità di reimpiego del prezzo: tale obbligo, infatti, già previsto nella precedente disciplina del patrimonio familiare, non è stato riproposto dal legislatore della riforma, ad ulteriore testimonianza del carattere innovativo ed originale dell’istituto del fondo patrimoniale. IMPRESA FAMILIARE Diritto di prelazione L’art. 230 bis codice civile attribuisce al collaboratore non solo il diritto di prelazione ma anche il diritto di riscatto verso il terzo acquirente. Cass. sez. lavoro, 19 novembre 2008, n. 27475 Ritenuto che l’art. 230 bis c.c. rinvia all’art. 732 c.c., letteralmente, non per la disciplina dell’esercizio del diritto di prelazione, ma per il diritto di prelazione tout court, e ritenuto altresì che tale norma (sotto la rubrica “diritto di prelazione”) disciplina non solo l’esercizio del diritto di prelazione ma anche il possibile sviluppo di tale istituto verso il riscatto presso i terzi acquirenti (con la conseguenza che dal tenore letterale della norma emerge l’indicazione secondo cui il limite della responsabilità non è stato posto per discriminare la parte dell’art. 732 c.c. relativa all’esercizio della prelazione dalla parte relativa al riscatto, ma at- traverso entrambe le discipline), è da ritenere che con l’istituto sia stata accordata una più intensa protezione al lavoro familiare, favorendo nell’acquisto coloro che hanno dato un attivo contributo concreto all’impresa familiare: a fondamento dell’istituto sono, pertanto, rinvenibili principi ispirati alla tutela del lavoro cui la comunità familiare partecipa, con un particolare, pur se non esplicitato, “favor” per il lavoro femminile (nella specie, alla moglie già separata dal coniuge che aveva alienato a terzi l’azienda familiare, è stato riconosciuto, dal S.C, il diritto di prelazione e di riscatto ex art. 230 bis, comma 5 c.c.). Natura L’impresa familiare ha natura individuale. Cass. sez. lavoro, 18 gennaio 2005, n. 874 L’impresa familiare di cui all’art. 230-bis cod. civ., a differenza dell’impresa familiare coltivatrice, disciplinata dall’art. 48 l. 3 maggio 1982 n. 203, è un’impresa individuale e il familiare titolare della stessa, quindi, è l’unico soggetto passivo obbligato in relazione ai diritti di credito spettanti a ciascuno dei familiari che collaborano all’impresa stessa e esclusivo legittimato a resistere alle pretese fatte valere da costoro. Presupposti La tutela di cui all’art. 230 bis c.c. è correlata all’effettivo e concreto contributo fornito all’organizzazione dell’impresa e non al semplice lavoro casalingo. Cass. sezione lavoro, 16 dicembre 2005, n. 27839 a) La configurabilità della partecipazione all’impresa familiare del coniuge o di uno stretto parente del titolare è correlata all’effettivo e concreto contributo fornito all’organizzazione dell’impresa. Ne consegue che, in caso di impresa familiare costituita in base a specifici accordi (anziché per acta concludentia), deve escludersi il sorgere, a favore delle parti stipulanti, di una presunzione assoluta di collaborazione nell’impresa insuscettibile di prova contraria. E’ necessario, invece, che venga fornita la prova sia dello svolgimento da parte del partecipante di un’attività di lavoro continuativa (nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante, anche se non necessariamente a tempo pieno) sia dell’accrescimento della produttività dell’impresa procurato dal lavoro del partecipante (necessaria per determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi). b) Il lavoro casalingo prestato nell’adempimento dell’obbligo contributivo nascente dal matrimonio, pur avendo ottenuto così ampi riconoscimenti anche sul piano patrimoniale, non può di per sé solo ritenersi sufficiente anche a giustificare la partecipazione all’impresa familiare del coniuge che svolge esclusivamente lavoro domestico. Sarebbe, infatti, estremamente arduo e darebbe adito a soluzioni arbitrarie il quantificare in termini economici di partecipazione all’impresa, come prescrive l’articolo 230bis del Cc, un’attività la cui misura e intensità non sia in relazione all’apporto produttivo dato all’azienda, ma sia determinata esclusivamente dalla composizione della famiglia (la presenza o meno dei figli) e dalla misura delle prestazioni necessarie all’andamento della casa. Società Sussiste impresa familiare anche quando l’impresa è esercitata dal titolare in società di fatto con altri. Cass. sez. lavoro, 23 settembre 2004, n. 19116 Il coniuge che svolga attività di lavoro familiare in favore del titolare di impresa ha diritto alla tutela prevista dall’art. 230-bis cod. civ., al pari degli altri soggetti indicati dal gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 79 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA comma 3 di tale articolo, anche se l’impresa sia esercitata non in forma individuale ma in società di fatto con terzi, in tale ipotesi applicandosi la disciplina di cui all’art. 230bis cod. civ. nei limiti della quota societaria, atteso che la nozione di impresa familiare non comporta necessariamente l’esistenza di un soggetto imprenditoriale collettivo familiare, e che l’istituto ha natura residuale, venendo nel suo ambito regolati i diritti corrispondenti alle prestazioni svolte dal soggetto partecipante a favore del familiare che se ne avvale, anche quando questi utilizzi tale apporto per un’ attività economicamente svolta quale socio di una società di fatto (conforme Cass. sez. lavoro, 19 ottobre 2000, n. 13861; contra Cass. sez. lavoro, 6 agosto 2003, n. 11881). Non c’è impresa familiare ove il titolare dell’impresa è una società in nome collettivo. Cass. sez. lavoro, 6 agosto 2003, n. 11881 Non è applicabile la disciplina di cui all’art. 230 bis cod. civ. con riferimento all’attività lavorativa svolta nell’impresa commerciale, gestita da una società in nome collettivo di cui sia compartecipe il familiare del lavoratore. (contra Cass. Sez. lavoro, 19 ottobre 2000, n. 13861 in Foro it. 2001, I, 1226 e Corte d’appello di Messina, 16 febbraio 2000, in Foro It. 2001, I, 2345). Utili Il calcolo degli utili da attribuire al partecipante va fatto al netto delle spese di mantenimento e la maturazione degli interessi coincide con la cessazione dell’impresa. Cass. sez. Lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057 Il calcolo degli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare va effettuato al netto delle spese di mantenimento degli stessi, gravante sul familiare che esercita l’impresa e l’onere di provare la consistenza del patrimonio familiare come degli utili da distribuire grava, sulla base della regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ., sul partecipante che agisce per ottenere la propria quota di utili. La maturazione del diritto agli utili dell’impresa familiare dalla quale decorrono altresì rivalutazione e interessi ai sensi dell’art. 429 c.p.c, applicabile in ragione della riconducibilità della relativa controversia tra quelle di cui all’art. 409, n. 3) c.p.c. - coincide, di regola, con la cessazione dell’impresa medesima o della collaborazione del singolo partecipante, salvo diverso patto tra i partecipanti relativo alla distribuzione periodica degli utili, l’onere della prova del quale grava sul partecipante che ne afferma l’esistenza. Ed invero, secondo l’orientamento espresso dalla sentenza da ultima citata, dal quale il collegio ritiene di non doversi discostare, “come è stato rilevato anche in dottrina, il diritto di partecipazione previsto dall’art. 230-bis cod. civ. (che ne prevede espressamente, tranne il caso di accordo per la distribuzione periodica degli utili, la liquidazione alla cessazione della prestazione di lavoro o in caso di alienazione dell’azienda) non rappresenta un vero e proprio compenso dotato del carattere di corrispettività, ma assume il carattere di un diritto qualificabile solo a posteriori, in quanto condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda; si deve anche considerare che la destinazione naturale degli utili (in assenza di diverso accordo) non è la distribuzione tra i partecipanti, ma il loro reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni ai quali il familiare partecipa”. MANTENIMENTO DEI FIGLI Adeguamento automatico Il principio dell’adeguamento automatico dell’assegno di mantenimento vale anche per l’assegno di mantenimento per il figlio naturale. Cass. sez. I, 14 febbraio 2004, n. 2897 Il criterio di adeguamento automatico dell’assegno di mantenimento in favore dei figli di genitori divorziati, di cui all’articolo 6, comma 11, della legge n. 898 del 1970 (nel testo come sostituito dalla legge n. 74 del 1987) è estensibile anche ad altri casi analoghi, attesi la funzione eminentemente assistenziale degli emolumenti cui inerisce e gli scopi, comuni a tutti tali casi, di conservare inalterato il potere di acquisto degli assegni, di limitare il ricorso a procedure di revisione e di ridurre la conflittualità tra le parti. Correttamente, pertanto, tale criterio viene applicato in caso di assegno dovuto a carico del genitore dichiarato tale dal giudice per il mantenimento del figlio naturale. Adeguamento in unica soluzione Il mantenimento dei figli non può essere corrisposto in unica soluzione. Tribunale di Modena, 11 luglio 2005 L’adempimento in unica soluzione, dell’obbligo a contribuire al mantenimento della prole, anche ove lo si ammettesse unicamente con efficacia rebus sic stantibus, rischierebbe di pregiudicare l’interesse del figlio minore, e di porre tale soggetto in una situazione deteriore, rispetto a quella nella quale verrebbe a trovarsi in caso di fissazione di un assegno periodico di mantenimento, obbligatoriamente indicizzato almeno alla svalutazione monetaria, poiché sposterebbe sul genitore affidatario anche l’onere di agire, per la modifica delle condizioni di separazione, al fine di fare fronte alla, sempre possibile, perdita di valore del contributo del non affidatario. Art. 148 c.c. Il decreto ex art. 148 c.c. va impugnato in tribunale e non in Corte d’appello. Cassazione sez. I, 17 aprile 2007, n. 9132 Va impugnato davanti al Tribunale il provvedimento presidenziale sul contributo per il mantenimento del figlio minore emesso dal giudice ex art. 148 c.c. nei confronti del solo obbligato inadempiente: si applica, insomma, il modello dell’opposizione prevista per il decreto ingiuntivo e va invece esclusa la via del reclamo alla Corte d’appello. Il procedimento monitorio di cui all’art. 148 c.c. si applica anche ai figli naturali. Tribunale di Trieste, 21 marzo 2005 Lo speciale procedimento ex art. 148 cod. civ. si applica anche se riguardante i figli naturali riconosciuti. Il procedimento sommario per la tutela del diritto al mantenimento della prole è esperibile anche con riferimento a somme da corrispondersi direttamente a cura dell’obbligato principale. Il rimedio di cui all’art. 148 cod. civ. può essere legittimamente esperito anche laddove si lamenti la mera insufficienza delle somme corrisposte, non postulando la disposizione normativa come necessario l’inadempimento integrale. Il ricorso ai sensi dell’art. 148 c.c. è esperibile anche nei confronti degli ascendenti del genitore che non adempia. Tribunale di Taranto, 4 febbraio 2005 Il ricorso ai sensi dell’art. 148 cod. civ. è esperibile anche 80 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA nei confronti degli ascendenti del genitore che non adempia o non possa adempiere agli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione nei confronti della prole (nella specie, il padre dei minori si era suicidato). I provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 148 c.c. sono esenti dall’imposta di registro. Corte cost. 11 giugno 2003, n. 202 È illegittimo l’art. 8, lett. b), della Tariffa, parte prima, allegata al DPR 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), nella parte in cui non esenta dall’imposta ivi prevista i provvedimenti emessi in applicazione dell’art. 148 codice civile nell’ambito dei rapporti fra genitori e figli, in quanto l’esenzione, seppure posta a favore del destinatario delle somme, in realtà tutela il figlio minore per il cui mantenimento è disposta, con la conseguenza che la sua omessa previsione, quando si è in presenza di prole naturale, oltre ad essere irragionevole, con violazione dell’art. 3 Cost., si risolve in un trattamento deteriore dei figli naturali rispetto ai figli legittimi, in contrasto con l’art. 3 Cost e con l’art. 30 Cost sotto il profilo del principio di uguaglianza. Ascendenti L’obbligo di mantenimento che grava sugli ascendenti presuppone che entrambi i genitori non siano i grado di provvedere al mantenimento dei figli. Tribunale di Roma, 7 aprile 2004 L’obbligo degli ascendenti di pari grado di concorrere al mantenimento dei figli dei propri discendenti non subentra nel caso in cui uno solo dei due genitori versi in uno stato di impossibilità ma solo nel caso in cui anche i mezzi economici dell’altro genitore (sul quale grava l’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli per intero) non siano sufficienti. Assegni familiari Il genitore affidatario ha il diritto di percepire gli assegni familiari. Cass. sez. I, 2 aprile 2003, n. 5060 Il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto di percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto subordinato di cui questi sia parte, indipendentemente da quanto il coniuge non affidatario debba dare come proprio contributo fissato in sede di accordi per separazione consensuale omologata, a meno che diversamente sia espressamente stabilito negli accordi stessi. Domanda di parte Il mantenimento in caso di dichiarazione giudiziale di paternità naturale decorre dalla nascita e non può prescindere dalla domanda di parte. Cass. sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630 In seguito alla sentenza dichiarativa della paternità naturale il figlio acquisisce un differente status, comprensivo del diritto al mantenimento con efficacia retroattiva fin dalla nascita; ne consegue che da tale data decorre l’obbligo del genitore dichiarato di rimborsare in proprio l’altro genitore che abbia provveduto al mantenimento del figlio, ma la condanna al rimborso di tale quota per il periodo anteriore alla proposizione dell’azione non può prescindere da una espressa domanda di parte, proposta “iure proprio” e non in rappresentanza del figlio, nell’ambito della definizione di rapporti pregressi tra debitori solidali in relazione a diritti disponibili. Il mantenimento può essere disposto anche d’ufficio ma eventuali arretrati sono possibili solo su domanda di parte. Cass. sez. I, 16 ottobre 2003 n. 15481 L’obbligo dei genitori di mantenere la prole sussiste per il solo fatto di averla generata e prescinde da ogni statuizione del giudice al riguardo. Consegue da ciò che qualora il genitore affidatario del figlio minore consenta che il medesimo vada a vivere con l’altro genitore, è tenuto a concorrere al suo mantenimento anche prima e indipendentemente da un provvedimento di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio. In caso di inosservanza di tale obbligo, l’altro genitore potrà quindi agire per l’attribuzione di un assegno a partire dalla data della domanda e per il rimborso di quanto dovuto dall’onerato per il periodo precedente, tenendo al riguardo presente che, a differenza del primo provvedimento, che mirando a tutelare il minore, può essere adottato anche d’ufficio dal giudice, il secondo attiene alla definizione dei rapporti fra debitori solidali e presuppone, perciò, la formulazione di una specifica richiesta da parte dell’avente diritto. Figli maggiorenni Il mantenimento dei figli maggiorenni è soggetto al principio della domanda di parte. Cass. sez. I, 6 febbraio 2009, n. 2997 In tema di separazione, la statuizione relativa alla fissazione di un assegno mensile per il mantenimento dei figli maggiorenni, non autonomi economicamente e conviventi, a carico del coniuge con il quale non convivono, è soggetta al principio della domanda, diversamente da quanto deve dirsi per il caso di figli minorenni. Deve escludersi la colpa del figlio maggiorenne che rifiuti una sistemazione lavorativa non corrispondente alle sue aspirazioni e ai suoi interessi sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia. Cass. Sez. I, 24 settembre 2008, n. 24018 L’obbligo di mantenimento dei figli non cessa ipso facto con il compimento della maggiore età ma perdura fino a quando il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio abbia raggiunto l’indipendenza economica ovvero che il mancato svolgimento di una attività economica dipenda da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato da parte del figlio. Deve escludersi in proposito che siano di per sé ravvisabili profili di colpa nella condotta del figlio che rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini e i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia. L’obbligazione di mantenimento nei confronti dei figli maggiorenni viene meno allorché il figlio raggiunga una condizione di indipendenza economica. Cass. Sez. I, 28 agosto 2008, n. 21773 L’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni può ritenersi cessato quando sia fornita la prova (a carico del genitore onerato) che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica o è stato messo nelle condizioni concrete per conseguirla, ovvero che il mancato svolgimento di una attività lavorativa dipende da un suo comportamento colposo o inerte. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 81 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Il figlio maggiorenne in precarie condizioni psicofisiche ha diritto a percepire l’assegno fino a quando non è in grado di ottenere l’indipendenza economica. Cass. Sez. I, 11 giugno 2008, n. 15544 Il padre è tenuto a continuare a contribuire al mantenimento del figlio anche se questi è già maggiorenne, qualora condizioni oggettive riconducibili alla sue precarie condizioni psicofisiche, gli impediscono di raggiungere l’indipendenza economica. Non necessariamente viene meno il mantenimento del figlio che sia apprendista. Cassazione sezione I, 21 febbraio 2007, n. 4102 La mera prestazione di lavoro da parte del figlio occupato come apprendista non è di per sé tale da dimostrarne la totale autosufficienza economica, atteso che il complessivo contenuto dello speciale rapporto di apprendistato si distingue sotto vari profili, anche retributivi, da quello degli ordinari rapporti di lavoro subordinato onde, non essendo sufficiente il mero godimento di un reddito quale che sia, occorre altresì la prova del trattamento economico percepito nel medesimo rapporto di apprendistato ed in particolare dell’adeguatezza di detto trattamento, nel senso esattamente dell’idoneità di quest’ultimo, che pure deve essere proporzionato e sufficiente ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione ad assicurare in concerto all’apprendista, per la sua stessa entità e con riferimento anche alla durata, passata e futura del rapporto, l’autosufficienza sopraindicata. Il figlio maggiorenne ha diritto di essere mantenuto dai genitori anche se lavora, se è provato che ne abbia necessità. Cassazione sezione I, 19 gennaio 2007, n. 1146 Non va escluso il mantenimento dei figlio maggiorenne da parte dei genitori per la sola ragione dell’avvenuto reperimento di una attività lavorativa, se si prova che una patologia di una certa serietà influisce negativamente sull’autonomia economica del giovane. Il mantenimento del figlio maggiorenne non è dovuto se il figlio rifiuta ingiustificatamente le proposte lavorative del padre. Cass. sez. I, 6 novembre 2006, n. 23673 Non è censurabile il provvedimento con il quale la Corte d’appello, ritenuto ingiustificato il rifiuto della figlia maggiorenne nei confronti delle proposte lavorative formulate dal padre, abbia escluso che permanesse l’obbligo a carico del padre del mantenimento della figlia stessa, trentenne, convivente con al madre divorziata. L’obbligo di mantenimento per i figli maggiorenni cessa ove questi siano in condizioni di autosufficienza economica o non siano in colpa per non averla raggiunta. Cass. sez. I, 20 maggio 2006, n. 11891 L’obbligo del genitore separato di corrispondere l’assegno per il mantenimento dei figli non viene meno per effetto del conseguimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma può cessare o quando i figli divengano economicamente autosufficienti, ovvero quando pur avendone le capacità non si attivino per procurarsi un reddito. Ne consegue che il giudice di merito non può accogliere l’istanza di riduzione dell’importo dell’assegno di mantenimento, motivando col solo fatto che i figli dell’obbligato siano divenuti maggiorenni. Il limite massimo per il diritto al mantenimento dei figli maggiorenni è oggetto di apprezzamento del giudice caso per caso. Cass. sez, I, 7 aprile 2006, n. 8221 82 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Non essendo possibile prefissare un termine all’obbligo di mantenimento dei figli, dal momento che, una volta stabilito il criterio secondo cui l’obbligo stesso può protrarsi, questo si protrae, oltre il raggiungimento della maggiore età, per consentire il completamento degli studi o a causa delle note difficoltà di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, occorre determinare il limite di persistenza dell’obbligo anzidetto non astrattamente ma sulla base del concreto apprezzamento del fatto che il figlio, malgrado i genitori gli abbiano assicurato le condizioni necessarie per concludere gli studi intrapresi e conseguire il titolo indispensabile ai fini dell’accesso alla professione auspicata, non abbia saputo trarre profitto, per inescusabile trascuratezza o per libera scelta, delle opportunità offertegli, ovvero non sia stato in grado di raggiungere l’autosufficienza economica per propria colpa. L’obbligazione di mantenimento dei figli da parte dei genitori cessa con l’inizio dell’attività lavorativa del figlio. Cass. sez. I, 2 dicembre 2005, n. 26259 Il mantenimento del figlio maggiorenne convivente è da escludere quando quest’ultimo, ancorché allo stato non autosufficiente economicamente, abbia in passato iniziato a espletare un’attività lavorativa, così dimostrando il raggiungimento di un’adeguata capacità e determinando la cessazione del corrispondente obbligo di mantenimento a opera del genitore, senza che possa aver rilievo il sopravvento di circostanze ulteriori le quali, se pure determinano l’effetto di renderlo privo di sostentamento economico, non possono far risorgere un obbligo di mantenimento i cui presupposti erano già venuti meno, nel senso che il fondamento del diritto del coniuge convivente a percepire l’assegno de quo risiede, oltre che nell’elemento oggettivo della convivenza, nel dovere dell’altro coniuge di assicurare al figlio un’istruzione e una formazione professionale rapportate alle capacità di quest’ultimo, così da consentire al medesimo una propria autonomia economica, onde tale dovere cessa con l’inizio dell’attività lavorativa da parte di quello. La raggiunta maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza economica del medesimo non sono condizioni sufficienti a legittimare, ipso facto, in mancanza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell’assegno. Cass. sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975 Il diritto a percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di separazione, con sentenze passate in giudicato, può essere modificato o estinguersi (oltre che per accordo fra le parti), solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 C.P.C., con la conseguenza che la raggiunta maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza del medesimo non sono, di per sé, condizioni sufficienti a legittimare, ipso facto, in mancanza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell’assegno (Cass. 16 giugno 2000 n. 8235). Non ha più diritto all’assegno di mantenimento la figlia più che trentenne che rifiuta l’impiego fisso che il padre le ha trovato. Cass. sez. I, 18 gennaio 2005, n. 951 Il figlio maggiorenne di genitori divorziati, già titolare di un assegno di mantenimento, ha l’obbligo di attivarsi per trovare un lavoro e rendersi economicamente indipendente. Ne consegue che correttamente il giudice di merito revoca l’obbligo di mantenimento a carico del padre, ove risulti che il figlio abbia non solo colposamente omesso di terminare gli studi, ma anche immotivatamente rifiutato di accettare l’offerta di un posto di lavoro, a nulla rilevando che si trattasse di un lavoro fuori sede. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Non ha più diritto al mantenimento, ma semmai agli alimenti, il figlio maggiorenne in stato di bisogno nei cui confronti l’obbligo di mantenimento sia cessato. Cass. sez. II, 7 luglio 2004, n. 12477 Il mantenimento del figlio maggiorenne convivente è da escludere quando quest’ultimo, ancorché allo stato non autosufficiente economicamente, abbia in passato espletato attività lavorativa, così dimostrando il raggiungimento di un’adeguata capacità e determinando la cessazione del corrispondente obbligo di mantenimento da parte del genitore, atteso che non può avere rilievo il successivo abbandono dell’attività lavorativa da parte del figlio, trattandosi di una scelta che, se determina l’effetto di renderlo privo di sostentamento economico, non può far risorgere un obbligo di mantenimento i cui presupposti erano già venuti meno, ferma restando invece l’obbligazione alimentare, fondata su presupposti affatto diversi e azionabile direttamente dal figlio e non già dal genitore convivente. mantenimento corrente ma un credito per il pregresso mantenimento del figlio (dalla nascita), appartiene alla competenza del tribunale ordinario e non a quella del tribunale dei minorenni, anche qualora sia proposta cumulativamente a una domanda relativa all’affidamento del figlio stesso. Le controversie che concernono il solo mantenimento dei figli naturali sono di competenza del tribunale ordinario e non del tribunale per i minorenni Cass. sez. I, 25 agosto 2008, n. 21754, Cass. sez. I, 25 agosto 2008, n. 21755, Cass. sez. I, 25 agosto 2008, n. 21756 La competenza per i procedimenti diretti a richiedere il mantenimento per i figli naturali appartiene al tribunale ordinario e in assenza di una contestualità con la domanda di affidamento non si verifica alcuna attrazione al tribunale per i minorenni. Legittimazione attiva Il figlio maggiorenne responsabile per la sua non autosufficienza economica non ha diritto al mantenimento ma solo agli alimenti. Cass. sez. I, 16 marzo 2004, n. 5317 Il diritto al mantenimento, in favore del figlio, cessa, e viene sostituito dal diritto ai meri alimenti, solo quando il figlio maggiorenne economicamente non autosufficiente sia responsabile dì tale situazione, per non essersi procacciato un lavoro e per avere rifiutato tutte le occasioni di svolgimento di una attività retribuita, confacente alle sue condizioni sociali. Figli naturali I provvedimenti sull’affidamento e quelli contestuali sul mantenimento dei figli naturali sono di competenza del tribunale per i minorenni. Cass. sez. I, 8 giugno 2009, n. 13183 La legge n. 54/06 sull’esercizio della potestà in caso di crisi della coppia genitoriale e sull’affidamento condiviso, applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, ha corrispondentemente riplasmato l’art. 317 - bis c.c., il quale, innovato nel suo contenuto precettivo, continua tuttavia a rappresentare lo statuto normativo della potestà del genitore naturale e dell’affidamento del figlio nella crisi dell’unione di fatto, sicché la competenza ad adottare i provvedimenti nell’interesse del figlio naturale spetta al tribunale per i minorenni, in forza dell’art. 38, comma 1, disp. att. c.c., “in parte qua” non abrogato, neppure tacitamente, dalla novella. La contestualità delle misure relative all’esercizio della potestà e all’affidamento del figlio, da un lato, e di quelle economiche inerenti al loro mantenimento, dall’altro, prefigurata dai novellati art. 155 e ss. c.c. ha peraltro determinato - in sintonia con l’esigenza di evitare che i minori ricevano dall’ordinamento un trattamento diseguale a seconda che siano nati da genitori coniugati oppure da genitori non coniugati, oltre che di escludere soluzioni interpretative che comportino un sacrificio del principio di concentrazione delle tutele, che è aspetto centrale della ragionevole durata del processo una attrazione, in capo allo stesso giudice specializzato, della competenza a provvedere, altresì, sulla misura e sul modo con cui ciascuno dei genitori naturali deve contribuire al mantenimento del figlio. Per il credito di mantenimento pregresso è competente il tribunale ordinario. Cass. sez. I, 7 maggio 2009, n. 10569 La controversia tra genitori naturali concernente non il Il genitore separato con cui il figlio coabita è sempre legittimato a richiedere il mantenimento del figlio. Cass. sez. I, 27 maggio 2005, n. 11320 Il genitore, separato o divorziato, a cui il figlio sia stato affidato durante la minore età, pur dopo che il figlio (non ancora autosufficiente) sia divenuto maggiorenne, continua, in assenza di un’autonoma richiesta da parte di quest’ultimo, ad essere legittimato iure proprio ad ottenere dall’altro genitore il pagamento dell’assegno per il mantenimento del figlio, sempre che tra il genitore già affidatario e il figlio persista il rapporto di coabitazione. AI fine di ritenere integrato il detto requisito della coabitazione, basta che il figlio maggiorenne - pur in assenza di una quotidiana coabitazione, che può essere impedita dalla necessità di assentarsi con frequenza, anche per non brevi periodi, per motivi, ad esempio, di studio - mantenga tuttavia un collegamento stabile con l’abitazione del genitore, facendovi ritorno ogniqualvolta gli impegni glielo consentano, e questo collegamento, se da un lato costituisce un sufficiente elemento per ritenere non interrotto il rapporto che lo lega alla casa familiare, dall’altro concreta la possibilità per tale genitore di provvedere, sia pure con modalità diverse, alle esigenze del figlio. Il genitore con cui il figlio non autosufficiente economicamente continua a convivere oltre la maggiore età è sempre legittimato a richiedere iure proprio il mantenimento. Cass. sez. I, 19 giugno 2003, n. 9806 Il genitore già affidatario che continui a provvedere direttamente e integralmente al mantenimento dei figli divenuti maggiorenni e non ancora economicamente autosufficienti, resta legittimato non solo a ottenere iure proprio, e non già ex capite filiorum, il rimborso di quanto da lui anticipato a titolo di contributo dovuto dall’altro genitore, ma anche a pretendere detto contributo per il mantenimento futuro dei figli stessi. Nonostante il raggiungimento della maggiore età, qualora il figlio economicamente dipendente continui a vivere con il genitore che ne era affidatario rimane invariata la situazione di fatto oggetto di regolamentazione, per cui restano identiche le modalità di adempimento all’obbligazione di mantenimento da parte del genitore convivente, e la pretesa di quest’ultimo di ricevere dall’altro il contributo a suo carico trova ragione non solo nell’interesse patrimoniale del medesimo a non anticipare la quota della prestazione gravante sull’altro, ma anche nel munus a lui spettante di provvedere direttamente e in modo completo al mantenimento, alla formazione e all’istruzione del figlio. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 83 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Il genitore con cui il figlio non autosufficiente economicamente continua a convivere oltre la maggiore età è sempre legittimato a richiedere iure proprio il mantenimento. Cass. sez. I, 13 febbraio 2003, n. 2147 Il genitore, già affidatario il quale continui a provvedere direttamente e integralmente al mantenimento dei figli divenuti maggiorenni e non ancora economicamente autosufficienti resta legittimato non solo a ottenere iure proprio e non già ex capite filiorum il rimborso di quanto da lui anticipato a titolo di contributo dovuto dall’altro genitore, ma anche a pretendere detto contributo per il mantenimento futuro dei figli stessi. Mantenimento diretto Il giudice prevede la corresponsione di un assegno periodico di mantenimento per i figli soltanto ove necessario ma la previsione è opportuna quando è previsto il collocamento prevalente del minore presso un genitore. Cass. sez. I, 4 novembre 2009, n. 23411 Sussiste un obbligo per entrambi i genitori che svolgono attività lavorativa produttiva di reddito di contribuire al soddisfacimento dei bisogni dei figli minori, in proporzione alle proprie disponibilità economiche; tali, infatti, sono le indicazioni fornite dagli art. 147, 148 c.c. in diretta applicazione dell’art. 30 cost., e dall’art. 155 c.c., nell’attuale formulazione, sicuramente applicabile ai procedimenti relativi a minori figli di genitori non uniti in matrimonio, ai sensi dell’art. 4 l. n. 54/06. Il giudice può disporre, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico, al fine di realizzare tale principio di “proporzionalità”. La corresponsione di tale assegno si rivela quantomeno opportuna, se non necessaria, quando, come nella specie, l’affidamento condiviso preveda un collocamento prevalente presso uno dei genitori: assegno da porsi a carico del genitore non collocatario. Modalità di assolvimento L’obbligazione di mantenimento può essere assolta anche attraverso il lavoro casalingo. Cass. sez. I, 22 maggio 2009, n. 11903 Gli art. 148 e 155 c.c. nel disciplinare le modalità con cui i genitori devono assolvere l’obbligo di mantenere, educare e istruire i figli non prevedono alcuna limitazione e, dunque, è escluso che l’adempimento debba avvenire per forza attraverso un contributo in denaro. Pertanto, un genitore può assolvere il suo dovere anche attraverso l’apporto casalingo (nella specie, la Corte ha bocciato la tesi del padre divorziato, condannato a pagare l’assegno di mantenimento nei confronti di due figli che vivevano ancora con la madre, occupata come infermiera. Nel ricorso si sosteneva che l’attività domestica comunque prestata dalla donna in favore dei ragazzi, insieme al fatto di tenerli in casa con sé, non costituisse per la signora un motivo di esonero dai suoi obblighi). Motivi di revisione La rilevanza dei fatti precedenti alla sentenza di divorzio è coperta dal giudicato e non può essere messa a base di una richiesta di modifica. Cass. sez. I, 5 giugno 2009, n. 12982 Le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in 84 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. La raggiunta maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza economica del medesimo non sono condizioni sufficienti a legittimare, ipso facto, in mancanza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell’assegno. Cass. sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975 Il diritto a percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di separazione, con sentenze passate in giudicato, può essere modificato o estinguersi (oltre che per accordo fra le parti), solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 C.P.C., con la conseguenza che la raggiunta maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza del medesimo non sono, di per sé, condizioni sufficienti a legittimare, ipso facto, in mancanza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell’assegno (Cass. 16 giugno 2000 n. 8235). Prescrizione Il diritto all’assegno non si prescrive dalla data della sentenza ma dalle singole scadenze. Cass. sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975 In tema di separazione e di divorzio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, così come il diritto agli assegni di mantenimento per i figli, in quanto aventi oggetto prestazioni autonome, distinte e periodiche, non si prescrivono a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di divorzio, ma dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento. Quantificazione Il mantenimento in caso di dichiarazione giudiziale di paternità naturale è soggetto ai criteri di quantificazione dell’art. 155 c.c. Cass. sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630 L’articolo 155 novellato del codice civile la cui disciplina trova sicura applicazione ai sensi dell’art. 6 della legge n. 54 del 2006 “ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati” è applicabile anche alle controversie di natura economica collegate o conseguenti ad una dichiarazione giudiziale di paternità naturale. L’importo elevato dell’assegno di mantenimento per i figli non può essere ridotto solo con la motivazione che si tratta di un importo “diseducativo”. Cass. sez. I, 19 maggio 2009, n. 11538 In tema di assegno di mantenimento da corrispondere ai figli minorenni, il giudice del merito non può disporne la riduzione, pur trattandosi di una somma cospicua, sul solo rilievo che un assegno di importo elevato potrebbe risultare diseducativo; tale motivazione, infatti, seppur non illogica non è aderente al dettato normativo, che impone di determinare la contribuzione considerando le esigenze della prole in rapporto al tenore di vita goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori e le risorse ed i redditi di costoro. Il giudice deve valutare le potenzialità reddituali dei genitori e non solo le loro sostanze. Cass. sez. I, 15 maggio 2009, n. 11291 In sede di separazione, nel fissare il contributo che ogni genitore è chiamato a versare per determinare l’importo dell’assegno di mantenimento in favore del figlio, non rilevano soltanto le sostanze a disposizione dei due genitori; il MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA giudice del merito, infatti, deve valorizzare anche le potenzialità reddituali che sono state accertate in capo a ciascuno dei coniugi, tenendo conto delle rispettive capacità di lavoro, professionale o casalingo. Il mantenimento dei figli segue criteri diversi da quelli previsti per il mantenimento coniugale. Cass. sez. I, 4 maggio 2009, n. 10222 Lo squilibrio reddituale tra i genitori può costituire riferimento idoneo e sufficiente ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge più debole. Detto squilibrio costituisce, invece, mero punto di partenza per la determinazione dei contributi economici dovuti da ciascun genitore per il mantenimento della prole, ferma restando la necessità di integrare detto parametro con puntuali riferimenti alle necessità specifiche della prole stessa. Al contrario, si trasformerebbe surrettiziamente l’apporto per il mantenimento dei figli in un contributo anche per l’ex coniuge. I criteri di quantificazione vanno accertati con rigore. Cass. Sez. I, 21 maggio 2008, n. 13058 Il giudice deve determinare l’entità dell’assegno divorzile e di mantenimento in favore dei figli procedendo ad una rigorosa analisi dei criteri fissati dagli articoli 5 e 6 della legge 898/70 così come più volte precisati dalla giurisprudenza. cessità di cura ed educazione. Al riguardo, ai fini di una corretta determinazione del concorso dei genitori, il parametro di riferimento è costituito non soltanto dalle rispettive sostanze, in esse ricompresi i cespiti improduttivi di reddito, ma anche dalla capacità di lavoro professionale o casalingo con espressa valorizzazione non solo delle risorse economiche individuali, ma anche delle accertate potenzialità reddituali. Per determinare l’assegno per i figli deve aversi riguardo alla situazione patrimoniale complessiva di ciascun genitore. Cass. sez. I, 30 agosto 2004, n. 17402 Ai fini della determinazione dell’ammontare dell’assegno di mantenimento dovuto dai genitori in favore dei figli minori o comunque non economicamente autosufficienti, la capacità economica di ciascun genitore va determinata con riferimento al complesso patrimonio di ciascuno, costituito oltre che dai redditi di lavoro subordinato o autonomo, da ogni altra forma di reddito o utilità, quali il valore dei beni mobili o immobili posseduti, le quote di partecipazione sociale, i proventi di qualsiasi natura percepiti. Nell’ambito del giudizio di separazione non è necessario procedere a un accertamento dei redditi dei coniugi nel loro esatto ammontare, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle situazioni patrimoniali complessive di entrambi. Rapporti tra separazione e divorzio I genitori devono concorrere in modo proporzionale al mantenimento dei figli tenuto conto anche delle loro potenzialità di reddito. Cass. sez. I, 22 agosto 2006, n. 18241 Ai fini della corretta determinazione del rispettivo concorso dei coniugi negli oneri finanziari relativi al mantenimento dei figli, il contributo è costituito, secondo il disposto dell’art. 148 c.c., non solo dalle rispettive sostanze, ma anche dalla capacità di ciascun coniuge, con espressa valorizzazione, oltre che delle risorse economiche individuali, anche delle accertate potenzialità reddituali. Nel determinare l’assegno di mantenimento per un figlio il giudice non può ignorare gli obblighi di mantenimento verso altri figli naturali. Cass. sez. I, 16 maggio 2005, n. 10197 In sede di separazione personale tra coniugi, al fine di determinare l’ammontare dell’assegno di mantenimento dovuto per i figli nati in costanza di matrimonio, il giudice non può trascurare di considerare, nel valutare la capacità patrimoniale del genitore, anche gli obblighi di natura economica che incombono per legge sul medesimo genitore per il mantenimento di altro figlio, nato fuori del matrimonio. Anche per i figli vale il principio del diritto a mantenere il tenore di vita goduto in precedenza. Cass. sez. I, 22 marzo 2005, n. 6197 In seguito alla separazione e al divorzio la prole ha diritto a un mantenimento tale da garantirle un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia e analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza. Il dovere di provvedere al mantenimento, istruzione ed educazione della prole, inoltre, impone ai genitori, anche in caso di separazione o di divorzio, di far fronte a una molteplicità di esigenze dei figli, non riconducibili al solo obbligo alimentare ma inevitabilmente estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, all’adeguata predisposizione - fin quando la loro età lo richieda - di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le ne- Il giudice del divorzio può modificare l’assetto economico per i figli stabilito dal giudice della separazione. Cass. sez. I, 22 maggio 2009, n. 11905 L’identità di presupposti e finalità delle norme che regolano il concorso dei genitori nel mantenimento dei figli, rispettivamente, nel giudizio di separazione personale (art 155 c.c.) e nel giudizio di divorzio (art. 6 l. n. 898/70), non osta a che il giudice del divorzio, al fine della concreta entità del concorso di ciascun genitore, da stabilirsi anche in base alla valutazione comparativa delle rispettive possibilità economiche, abbia facoltà di rivedere e modificare il pregresso e non vincolante assetto stabilito in sede di separazione. Revisione dell’assegno La revisione dell’assegno di mantenimento per i figli non può avere decorrenza anteriore alla domanda. Cass. sez. I, 17 luglio 2008, n. 19722 In materia di revisione dell’assegno di mantenimento per i figli, il diritto di un coniuge a percepirlo ed il corrispondente obbligo dell’altro a versarlo conservano la loro efficacia sino a quando non intervenga la modifica di tali provvedimenti, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui di fatto sono maturati i presupposti per le modificazioni o la soppressione dell’assegno, con la conseguenza che, in mancanza di specifiche disposizioni, la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza dal momento dell’accadimento innovativo, anteriore nel tempo rispetto alla data della domanda di modificazione. Ricorso per cassazione I provvedimenti della Corte d’appello concernenti l’affidamento e il mantenimento dei figli hanno natura decisoria e sono ricorribili per cassazione. Cass. sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093 I provvedimenti concernenti il mantenimento ed i rapporti con i figli, incidendo sui diritti/doveri dei genitori relativi all’aspetto economico, all’affidamento, alla vigilanza gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 85 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA sulla loro istruzione ed educazione, alla possibilità di concorrere alla adozione delle decisioni di maggiore interesse per la loro vita (art. 155 c.c., comma 3), hanno natura decisoria e definitiva, senza che tali aspetti di decisorietà e definitività, da riferire alla situazione esistente al momento della decisione, vengano meno per essere essi suscettibili di revisione in ogni tempo, ai sensi dell’art. 155 c.c., comma ultimo. Essi, dunque, sono ricorribili per cassazione ex art. 111 cost. I provvedimenti concernenti i figli e il loro mantenimento avendo natura decisoria possono essere impugnati con ricorso straordinario per cassazione. Cass. sez. I, 30 dicembre 2004, n. 24265 Nell’ambito del giudizio di separazione personale dei coniugi i provvedimenti concernenti il mantenimento e i rapporti con i figli, in quanto incidano sui diritti-doveri dei genitori relativi all’aspetto economico, all’affidamento, alla vigilanza sulla loro istruzione ed educazione, alla possibilità di concorrere all’adozione delle decisioni di maggiore interesse per la loro vita hanno natura decisoria e definitiva, senza che tali aspetti di decisorietà e definitività, da riferire alla situazione esistente al momento della decisione, vengano meno per essere essi suscettibili di revisione in ogni tempo, ai sensi dell’articolo 155 del Cc. Ne segue, pertanto, che sono suscettibili di ricorso straordinario per cassazione i provvedimenti resi in sede di modifica delle condizioni della separazione (e del divorzio) riguardanti il mantenimento dei figli, l’affidamento e i rapporti con il genitore non affidatario. Ripetibilità In caso di revoca, l’assegno di mantenimento corrisposto per i figli non è ripetibile ma non può più agirsi in via esecutiva per la parte non corrisposta. Cass. sez. I, 25 giugno 2004, n. 11863 Il contributo per mantenere il figlio maggiorenne convivente, non in grado di procurarsi autonomi mezzi di sostentamento, che il coniuge divorziato , o separato - ha diritto di ottenere, iure proprio, dall’altro coniuge, è destinato, fino all’esclusione di esso o alla riduzione dell’ammontare, con decisione passata in giudicato, ad assicurare detto sostentamento del figlio beneficiario, per cui dalla eventuale decisione di revoca o riduzione non può derivare la ripetibilità delle somme già percepite dal coniuge avente diritto, non avendo egli l’obbligo di accantonarle in previsione dell’eventuale revoca o riduzione del corrispondente assegno, riconosciuto con provvedimenti giudiziali, ancorché non definitivi; peraltro i suddetti provvedimenti, ove caducati per effetto della definitiva decisione passata in giudicato, non legittimano l’esecuzione coattiva per ottenere l’assegno - o la parte di esso - non pagato, per il periodo in cui il provvedimento che lo aveva riconosciuto era ancora efficace. Spese straordinarie Le spese straordinarie vanno concertate solo ove implichino decisioni di maggiore interesse per i figli. Cass. sez. I, 28 gennaio 2009, n. 2182 In tema di separazione personale dei coniugi, poiché l’art. 155 cod. civ., nel testo in vigore prima della modifica apportata con la legge n. 54 del 2006, consente al coniuge non affidatario di intervenire nell’interesse dei figli soltanto con riguardo alle “decisioni di maggiore interesse”, non è configurabile a carico del coniuge affidatario alcun obbligo di previa concertazione con l’altro coniuge sulla determinazione delle spese straordinarie, nei limiti in cui esse 86 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 non implichino decisioni di maggior interesse per i figli; tuttavia, tale principio non è inderogabile, essendo sempre possibile che il giudice, ai sensi del secondo e del terzo comma della norma citata, determini, oltre che la misura, anche i modi con i quali il coniuge non affidatario contribuisce al mantenimento dei figli, in modo difforme da quanto previsto in linea di principio dalla legge. Il debito contratti dai genitori per spese finalizzate a soddisfare bisogni primari dei figli gravano su entrambi i genitori in via solidale. Cass. sez. III, 10 ottobre 2008, n. 25026 I debiti contratti da uno dei coniugi a favore del figlio minore gravano in via solidale anche sull’altro coniuge solo se finalizzati a soddisfare bisogni primari del figlio stesso. Quando invece la spesa non è stata sostenuta per soddisfare tali bisogni, della relativa obbligazione risponde solo quello tra i coniugi che l’ha contratta. (In applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la sentenza impugnata con cui era sta esclusa la solidarietà passiva tra i coniugi riguardo al pagamento della retta scolastica dovuta per l’iscrizione del figlio minore ad una scuola privata, compiuta da uno solo dei genitori, in base al rilievo che la frequentazione di una scuola privata non costituisce un bisogno primario della persona, posto che la necessità dell’istruzione può essere soddisfatta dalle scuole pubbliche). Surrogazione dell’ente pubblico La surrogazione dell’ente pubblico che corrisponde l’assegno per i figli nei diritti del genitore affidatario può essere stabilita solo da una legge statale. Corte cost. 18 marzo 2005, n. 106 E’ illegittima per violazione dell’articolo 117, comma 2, lettera l), della Costituzione la legge della Provincia di Bolzano che prevede la surrogazione legale della Provincia nei diritti di credito del genitore affidatario di figli minori cui non venga corrisposta da parte dell’altro genitore il contributo di mantenimento disposto in sede giudiziaria. La disciplina della surrogazione, infatti, deve farsi rientrare nella competenza statale esclusiva concernente l’”ordinamento civile” e non è riconducibile alla diversa materia della “assistenza e beneficenza pubblica” di esclusiva competenza provinciale. Trasferimenti immobiliari Il mantenimento verso i figli può essere adempiuto con un trasferimento immobiliare. Cass. sez. I, 21 febbraio 2006, n. 3747 L’obbligo di mantenimento dei figli minori, o maggiorenni non autosufficienti, può essere adempiuto dai genitori in sede di separazione personale o divorzio mediante un accordo, formalmente rientrante nelle previsioni, rispettivamente, degli articoli 155, comma 7, e 158, comma 2, e dell’articolo 711, comma 3, del Cc e degli articoli 4 comma 8, e 6, comma 9 della legge 898/1970, il quale, anziché attraverso una prestazione patrimoniale periodica, o in concorso con essa, attribuisca o li impegni ad attribuire ai figli la proprietà di beni mobili o immobili, e che tale accordo non realizza una donazione, in quanto assolve a una funzione solutoria-compensativa dell’obbligazione di mantenimento, ma costituisce applicazione del principio, stabilito dall’articolo 1322 del Cc, della libertà dei soggetti di perseguire con lo strumento contrattuale interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. L’accordo, recepito e condizionato dal provvedimento di separazione o di divorzio, non si limita in tal caso a determinare le concrete modalità della prestazione periodica di mantenimento, MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA ma comporta l’immediata e definitiva acquisizione al patrimonio dei figli della proprietà dei beni che i genitori, o il genitore, abbiano loro attribuito o si siano impegnati ad attribuire e, in questo secondo caso, il correlativo obbligo, sanzionato in forma specifica dall’articolo 2932 del Cc, è trasmissibile agli eredi del promittente, giacché trova il suo titolo non già nella prestazione di mantenimento, che, nei limiti costituiti dal valore dei beni attribuiti o da attribuire, è convenzionalmente liquidata e sostituita dall’impegno negoziale, ma nell’accordo che l’ha estinta. L’obbligazione di mantenimento verso i figli può essere assolta dalla promessa di intestazione di un immobile. Tribunale di Cagliari, 30 marzo 2005 Nella regolamentazione delle condizioni di divorzio concernenti il mantenimento della prole, un coniuge può obbligarsi nei confronti dell’altro a trasferire alla figlia minore la nuda proprietà di un immobile e il curatore speciale nominato per quest’ultima può dichiarare nel verbale di udienza di voler profittare della stipulazione, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1411 cod. civ. MATRIMONIO Affinità Non sono più affini, dopo il divorzio, due cognati i quali, quindi, possono sposarsi tra loro senza dispensa. Tribunale di Grosseto, 9 ottobre 2003 La pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio determina la caducazione del vincolo di affinità (collaterale) tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge. Dal complesso della normativa infatti si ricava che la permanenza dell’impedimento matrimoniale in caso di affinità in linea retta ex art. 87, primo comma, n. 4 cod. civ. costituisce una deroga rispetto alla regola generale secondo cui l’affinità viene meno con la pronuncia di divorzio, così come analoga deroga è prevista per l’ipotesi della nullità matrimoniale. Il numero 5 dell’art. 87 che concerne gli affini in linea collaterale non contiene, invece, l’indicazione della permanenza del vincolo di affinità dopo il divorzio. Matrimonio dello straniero Il tribunale può autorizzare il matrimonio dello straniero anche se non viene presentato il nulla osta. Corte cost. 30 gennaio 2003, n. 14 E’manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 116 del codice civile, sollevata dal Tribunale di Roma, in riferimento all’art. 2 della Costituzione, nella parte in cui impone allo straniero, il quale voglia contrarre matrimonio in Italia, la presentazione all’ufficiale dello stato civile di una dichiarazione dell’autorità competente del proprio paese, dalla quale risulti che nulla osta al matrimonio secondo le leggi alle quali egli è assoggettato. E’manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 116 del codice civile, sollevata in via subordinata dallo stesso Tribunale, nella parte in cui non prevede che, in mancanza della predetta dichiarazione, possa essere presentata al detto ufficiale documentazione idonea ad attestare la mancanza di impedimenti al matrimonio, secondo la legislazione cui il cittadino straniero è sottoposto. Trascrizione La vedova che trascrive tardivamente il secondo matrimonio non deve restituire all’INPS la pensione di reversibilità di cui ha beneficiato. Corte d’appello di Genova, 25 novembre 2005 La vedova che trascrive tardivamente il secondo matrimonio non deve restituire all’INPS la pensione di reversibilità di cui ha beneficiato. Non può essere trascritto in Italia il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Tribunale di Latina, 10 giugno 2005 Nè il legislatore del 1942 né quello del 1975 hanno fornito la definizione del matrimonio e, dunque, soccorrono al riguardo le singole disposizioni in materia e specificamente quelle sulla costituzione e validità del vincolo e sui suoi effetti. In tema, vengono innanzitutto in rilievo le norme costituzionali tra cui nello specifico l’articolo 29, che, testualmente, così recita:” La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”; da ciò discende, con riferimento all’articolo 2 della Costituzione il riconoscimento dell’esigenza fondamentale dell’uomo di realizzarsi nella comunità familiare, quale formazione sociale, fondamentale e preesistente, in cui si realizza la personalità dei singoli. Il costituente, nel riconoscere “i diritti della famiglia come società naturale”, ha inteso far riferimento al tradizionale rapporto di coniugio tra soggetti appartenenti a sesso diverso, secondo una concezione, che prima ancora che nella legge, trova il suo fondamento nel sentimento, nella cultura, nella storia della nostra comunità nazionale e tale principio, confermato anche dalle disposizioni in materia della legge ordinaria (articoli 89, 143 bis, 156 bis, 231,235, 262 Cc), deve ritenersi abbia assunto valenza costituzionale. Alla luce di quanto precede deve allora concludersi che elemento essenziale per poter qualificare nel nostro ordinamento la fattispecie “matrimonio” è la diversità di sesso dei nubendi ed in tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione che nel distinguere “in subiecta materia” la categoria dell’inesistenza da quella della nullità, ha precisato che ricorre l’ipotesi dell’inesistenza quando manchi quella realtà fenomenica che costituisce la base naturalistica della fattispecie, individuandone i requisiti minimi essenziali nella manifestazione di volontà matrimoniale resa da due persone di sesso diverso davanti ad un ufficiale celebrante (Cassazione 7877/00; 1304/90; 1808/76). Traendo le necessarie conclusioni dalle esposte premesse deve allora affermarsi la legittimità del rifiuto dell’Ufficiale dello stato civile di accogliere l’istanza di trascrizione in Italia di un matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso. Un coniuge non può differire ad una fase successiva al suo decesso la trascrizione del matrimonio religioso. Tribunale di Milano, 27 aprile 2005 L’attuale ordinamento non consente ad un coniuge di differire ad una fase successiva al suo decesso la trascrizione del matrimonio religioso. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 87 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA MINORI dell’assegno precedentemente non fissato. Prescrizione Le statuizioni della separazione possono estinguersi solo con il ricorso al procedimento di modifica. Cass. sez. I, 19 ottobre 2006, n. 22491 Il diritto a percepire l’assegno di mantenimento può essere modificato o estinguersi soltanto mediante la procedura di cui all’art. 710 c.p.c. con la conseguenza che il raggiungimento della maggiore età del figlio o la raggiunta autosufficienza economica dello stesso non sono di per sé, condizioni sufficienti a legittimare ipso facto, in assenza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell’assegno, ma determinano unicamente la possibilità per il genitore obbligato di richiedere l’accertamento di tali circostanze. Anche il conflitto di interessi sospende la prescrizione. Cassazione sezione I, 1° febbraio 2007, n. 2211 La sospensione della prescrizione dettata dall’articolo 2942, n. 1, cc. si verifica non soltanto quando il minore o l’interdetto siano privi di rappresentante legale ma anche quando il rappresentante legale si trova in conflitto di interessi con il minore. La sospensione della prescrizione dettata dall’art. 2942 n. 1. c.c. si verifica non soltanto quando il minore non emancipato o l’interdetto siano privi di rappresentante legale si trovi in conflitto di interessi con il rappresentato. Cassazione sez. I, 1° febbraio 2007 n. 2211 L’art. 2942 n. 1 c.c. stabilisce che la prescrizione rimane sospesa contro i minori non emancipati e gli interdetti per l’infermità per il tempo in cui non hanno rappresentante legale e per sei mesi successivi alla nomina del medesimo o alla cessazione dell’incapacità. La mancata previsione da parte dell’art. 2942 n. 1 c.c., tra le cause di sospensione della prescrizione, accanto all’ipotesi della mancanza del rappresentante legale, di quella del conflitto d’interessi tra il legale rappresentante e il minore, pare pertanto in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, che impone di trattare in modo uguale situazioni identiche, essendo evidente che non vi è alcuna differenza, dal punto di vista della tutela, tra le condizioni in cui versa il minore non emancipato o l’interdetto privo di legale rappresentante e la situazione del minore il cui legale rappresentante si trova in conflitto d’interessi con il minore. Rispetto della vita familiare Il genitore ha il diritto di ottenere provvedimenti idonei a riunirlo con il figlio. Corte europea dei diritti dell’uomo, 30 giugno 2005 L’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo tende essenzialmente a tutelare l’individuo dalle ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri introducendo obblighi positivi in relazione a un «rispetto» effettivo della vita familiare. Essendo ogni Stato obbligato ad emanare misure positive, il medesimo art. 8 implica il diritto di un genitore a ottenere provvedimenti idonei a riunirlo con il figlio e l’obbligo delle autorità nazionali di adottarli. MODIFICHE DELLA SEPARAZIONE E DEL DIVORZIO Assegno di mantenimento L’assegno può essere richiesto anche per la prima volta con il procedimento di modifica delle condizioni di divorzio. Cass. Sez. I, 21 maggio 2008, n. 13059 L’art. 9 della legge 898/70 che consente la revisione delle condizioni di divorzio per “sopravvenienza di giustificati motivi” può trovare applicazione, in difetto di espresse distinzioni, anche all’ipotesi in cui l’assegno divorzile sia stato originariamente negato o non abbia costituito oggetto di richiesta al momento della pronuncia di divorzio, con la conseguenza che è consentito al coniuge divorziato di richiedere, successivamente alla pronuncia di divorzio e in relazione all’art. 9 della legge 898/70, la determinazione 88 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Il tribunale può far decorrere la revisione dell’assegno divorzile dalla data della decisione. Cass. sez. III, 5 settembre 2006, n. 19057 Mentre l’assegno di divorzio, nella sua originaria quantificazione decorre dal momento della formazione del titolo in forza del quale è dovuto, cioè dal passaggio in giudicato della sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la variazione dell’ammontare dell’assegno medesimo disposta successivamente in esito al procedimento di revisione ai sensi dell’art. 9 della legge 898/1970, può decorrere dalla data della decisione su tale domanda di revisione, in applicazione del principio generale secondo il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio. La soppressione dell’assegno divorzile non può fondarsi di per sé sull’intervenuto acquisto di una eredità. Cass. sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367 Allorché a fondamento dell’istanza rivolta ad ottenere la soppressione del diritto al contributo economico sia dedotto il miglioramento delle condizioni economiche dell’ex coniuge beneficiario (nella specie dipendente dall’acquisto per successione ereditaria della proprietà o della comproprietà di beni immobili), il giudice, ai fini dell’accoglimento della domanda, non può limitarsi a considerare isolatamente detto miglioramento, attribuendo ad esso una valutazione automaticamente estintiva del diritto all’assegno, ma, assumendo a parametro l’assetto di interessi che faceva da sfondo al precedente provvedimento sull’assegno divorzile, deve verificare se l’ex coniuge titolare del diritto all’assegno abbia acquistato, per effetto di quel miglioramento, la disponibilità di mezzi adeguati, ossia idonei a renderlo autonomamente capace, senza necessità di integrazioni ad opera dell’obbligato, di raggiungere un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. Il giudice deve prendere in considerazione ogni elemento utile per verificare se le condizioni delle parti abbiano subìto modificazioni tali da richiedere una modifica dell’assegno per i figli o per il coniuge. Cass. sez, I, 2 febbraio 2006, n. 2338 In tema di revisione dell’assegno per il mantenimento dei figli, minori o maggiorenni non autosufficienti, nonché dell’assegno divorzile, al fine di verificare se ed in quale momento, successivamente alla sentenza di divorzio, sono sopravvenuti significativi mutamenti delle condizioni economiche degli ex coniugi, tali da giustificare l’aumento o la diminuzione dell’assegno, fino all’eventuale eliminazione, devono prendersi in considerazione tutti gli elementi atti ad incidere, in positivo o in negativo, sulla situazione patrimoniale e reddituale delle parti, sulla base di una rinnovata valutazione comparativa, quali esistenti al mo- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA mento della decisione, ancorché intervenuti in corso di giudizio, anche in sede di reclamo. La revisione dell’assegno di divorzio può sempre essere chiesta anche da coniuge che era rimasto contumace nel giudizio di divorzio. Cass. sez. I, 25 agosto 2005 n. 17320 Dopo la pronuncia del giudice del divorzio, nel caso di mancata attribuzione di un assegno, sia perché la domanda è stata respinta sia perché non è stata neppure proposta, la fissazione per la prima volta di un assegno potrà avvenire, non ai sensi dell’articolo 5 della legge 898/1970, ma ai sensi del successivo articolo 9, e pertanto solo se sopravvengono giustificati motivi, con l’avvertenza che tale sopravvenienza potrà riguardare soltanto l’indisponibilità di mezzi adeguati o comunque l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive ovvero le condizioni e il reddito dei coniugi. Tale principio deve essere applicato anche nel caso in cui il coniuge divorziato che chiede per la prima volta la determinazione dell’assegno sia rimasto contumace nel giudizio di divorzio. La contumacia, infatti, non determina una diversa portata della pronuncia di divorzio e, in particolare, non consente al giudice, adito ai sensi dell’articolo 9 citato, di riconoscere al coniuge che è rimasto contumace una posizione diversa da quella del coniuge che, essendosi costituito, non ha chiesto l’attribuzione di un assegno divorzile. La domanda di modifica dell’assegno implica una nuova valutazione comparativa tra i redditi delle parti. Cass. sez. I, 15 novembre 2004, n. 22163 La domanda di modifica dell’assegno divorzile, ai sensi dell’art. 9 della legge 898/70, implica una reiterata valutazione comparativa della situazione economica delle parti, tenendo conto dei redditi di ciascuna, allo scopo di assicurare, con il minore sacrificio possibile per l’obbligato, il mantenimento per il titolare dell’assegno del tenore di vita che l’art. 5 della stessa legge ha inteso garantire. Anche la decisione sulla revisione dell’assegno divorzile passa in giudicato. Cass. sez. I, 2 novembre 2004, n. 21049 Attribuito, con la sentenza di divorzio, in favore di uno degli ex coniugi, un assegno di mantenimento a carico dell’altro, il provvedimento con il quale il tribunale adito dichiara inammissibile l’istanza di revisione è suscettibile, ove non impugnato, di passare in cosa giudicata, con la conseguenza, pertanto, che è inammissibile una richiesta di revisione dell’assegno basata sulla prospettazione degli stessi fatti già valutati nel precedente procedimento ex art. 9 l. n. 898 del 1970. Decorrenza della decisione La decisione di revisione dell’assegno divorzile decorre dalla domanda e non ha natura retroattiva. Cass. sez. I, 22 maggio 2009, n. 11913 In materia di revisione dell’assegno di divorzio, il diritto a percepirlo di un coniuge ed il corrispondente obbligo a versarlo dell’altro, nella misura e nei modi stabiliti dalla sentenza di divorzio, conservano la loro efficacia, sino a quando non intervenga la modifica di tale provvedimento, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui di fatto sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell’assegno, con la conseguenza che, in mancanza di specifiche disposizioni, in base ai principi generali relativi all’autorità, intangibilità e stabilità, per quanto temporalmente limitata (“rebus sic stantibus”), del precedente giudicato impositivo del contributo di mantenimen- to, la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza anticipata al momento dell’accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione. Durata Il provvedimento che fissa l’assegno divorzile produce i suoi effetti finché non viene modificato o revocato. Cass. sez. I, 22 maggio 2009, n. 11913 Il provvedimento che fissa l’assegno divorzile, una volta passato in giudicato, produce i suoi effetti sin quando non intervenga un provvedimento giurisdizionale di modifica. Pertanto, sino a tale provvedimento - e con effetto dal momento della domanda (ovvero dal momento o dai momenti posteriori eventualmente fissati dal giudice) - il giudicato produce tutti i suoi effetti, in positivo e in negativo, così che l’assegno sarà dovuto sino a tale momento e, parimenti, sino a tale momento la sua attribuzione comporterà anche, ove se ne verifichino i presupposti, l’attribuzione di ogni diritto che vi si riconnetta, come quello alla pensione di reversibilità, in caso di morte dell’obbligato (art. 9, commi 2 e 3), ed alla quota dell’indennità di fine rapporto del coniuge obbligato (art. 12 bis). Modifiche concordate Le modifiche della separazione consensuale pattuite tra coniugi sono valide anche senza ricorrere al procedimento di cui all’art. 710 c.p.c. Cass. sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20290 In tema di separazione personale, le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omologazione, trovando fondamento nell’articolo 1322 del Cc, devono ritenersi valide ed efficaci, anche a prescindere dallo speciale procedimento disciplinato dagli articoli 710 e 711 del Cpc, senz’altro limite che non sia quello di derogabilità consentito dall’articolo 160 del Cc. Le pattuizioni, invece, convenute dagli stessi coniugi antecedentemente o contemporaneamente al decreto di omologazione, e non trasfuse nell’accordo omologato, sono operanti soltanto se si collocano, rispetto a quest’ultimo, in posizione di non interferenza o in posizione di conclamata e incontestabile maggiore (o uguale) rispondenza all’interesse tutelato attraverso il controllo di cui all’articolo 158 del codice civile. Motivi di revisione In sede di revisione non possono essere dedotti vizi del consenso o fatti coevi all’accordo di cui si chiede la revisione. Cass. sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093 In sede di revisione dell’assegno di mantenimento disposto nel corso di una separazione, non possono essere presi in considerazione, i vizi del consenso che abbiano in ipotesi inciso sul contenuto degli accordi raggiunti dai coniugi, né tutti quei fatti, preesistenti o coevi alla determinazione dell’assegno di mantenimento, che avrebbero potuto e dovuto essere dedotti in tale sede, in ragione del fatto che la pronuncia sull’assegno di mantenimento è idonea a dar luogo ad un giudicato, sia pur “rebus sic stantibus”, sul quale non possono incidere tutte le circostanze preesistenti alla formazione del titolo, in base al noto principio per cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile. Presupposti La svalutazione monetaria può avere incidenza sulla misura dell’assegno. Cass. sez. I, 25 maggio 2007, n. 12317 In relazione ad una domanda di revisione della misura gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 89 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA dell’assegno di divorzio, ai sensi dell’art. 9 della legge 898/1970, con la quale vengono fatti valere gli effetti negativi della svalutazione monetaria sull’assegno, determinato in misura fissa in sede di divorzio, il giudice deve accertare non soltanto i cambiamenti intervenuti nella situazione economica delle parti, ma anche l’incidenza della svalutazione monetaria sulle rispettive posizioni. L’assegno divorzile può essere sempre richiesto per la prima volta anche dopo il giudicato di divorzio. Cass. sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2339 La norma di cui all’articolo 9 della legge 898/1970, che consente la revisione, tra l’altro, delle condizioni di divorzio relative ai rapporti economici per sopravvenienza di giustificati motivi, può essere legittimamente applicata, in difetto di espresse distinzioni, anche d’ipotesi in cui l’assegno divorzile sia stato originariamente negato o non abbia costituito oggetto di richiesta al momento della pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, onde è consentito al coniuge divorziato di richiedere, successivamente a tale pronuncia e in relazione al citato articolo 9, la determinazione dell’assegno precedentemente non fissato; peraltro, anche in tal caso non deve essere compiuta una nuova determinazione della misura dell’assegno sulla base dei criteri indicati dall’articolo 5 della legge citata, in quanto il riferimento alla sopravvenienza dei giustificati motivi, contenuto nel suddetto articolo 9, implica l’essenziale valorizzazione delle variazioni patrimoniali intervenute successivamente al divorzio. L’assegno può essere sempre richiesto ove si manifestino anche dopo la separazione i presupposti per la sua attribuzione. Cass. sez. I, 11 novembre 2003, n. 16912 Con la separazione non viene meno il dovere dei coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia, nell’ambito dei quali vengono compresi i bisogni di vita individuali che assumono rilevanza esclusiva, in assenza di prole e, quindi, permane la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio. Tale continuità attribuisce al coniuge separato, cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ottenere dall’altro coniuge un assegno di mantenimento tendenzialmente idoneo ad assicurargli la conservazione del medesimo tenore di vita di cui godeva in costanza di matrimonio, con la conseguenza che, in forza di tale permanente solidarietà, il coniuge al quale non sia stato attribuito alcun assegno, qualora la sua situazione economica si sia deteriorata, o sia migliorata quella dell’altro coniuge, può chiedere la corresponsione di un assegno rapportato al tenore di vita che avrebbe avuto ove la separazione non fosse avvenuta. Può essere sempre richiesto con il procedimento di revisione un assegno divorzile anche se non previsto nella sentenza di divorzio. Cass. sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2198 Il deterioramento delle condizioni economiche di uno o di entrambi gli ex coniugi che consente il riconoscimento dell’assegno bene può verificarsi anche dopo il divorzio, potendo un assegno di divorzio, non concesso precedentemente essere riconosciuto in sede di modifica delle condizioni del pronunciato divorzio. È irrilevante, pertanto, al, fine di escludere il diritto all’assegno, che solo a distanza di 6 anni dalla data della sentenza non definitiva di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nelle more del giudizio sui provvedimenti di natura patrimoniali conseguenti alla prima decisione, sopravvenga una situazione di bisogno di uno dei coniugi. 90 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Procedimento Il procedimento di modifica delle condizioni di divorzio si differenzia dal procedimento di appello perché non ha lo stesso carattere devolutivo. Cass. sez. I, 24 marzo 2006, n. 6671 Il procedimento per la revisione delle statuizioni patrimoniali contenute nella sentenza di divorzio, di cui all’articolo 9 della legge 898 del 1970, è regolato, in via generale, dagli articoli 737 e seguenti del Cpc e, quanto alle forme, in parte da tale normativa, mentre nella parte non regolata è rimesso nel suo svolgimento - che è attuato con impulso di ufficio - alla disciplina concretamente dettata dal giudice che deve garantire il rispetto del principio del contraddittorio e di quello del diritto di difesa. Quanto al giudizio di secondo grado, nascente dal reclamo, esso costituisce un mezzo di impugnazione avente carattere devolutivo e come tale ha per oggetto la revisione della decisione di primo grado nei limiti del devolutum e delle censure formulate e in correlazione alle domande formulate in quella sede. Deriva da quanto precede, pertanto, che anche in difetto di un espresso richiamo deve ritenersi applicabile l’articolo 342 del Cpc relativo al principio della specificità dei motivi. Il decreto della Corte d’appello sulla revisione delle condizioni di divorzio è ricorribile per cassazione solo per violazione di legge. Cass. sez. I, 3 giugno 2004, n. 10554 Avverso il decreto con il quale la Corte di appello pronuncia in sede di reclamo sulla domanda di revisione delle condizioni di divorzio può proporsi ricorso per cassazione ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione solo per violazione di legge, mentre l’inosservanza dell’obbligo di motivazione è denunciabile in sede di legittimità solo quando questa si estrinsechi in argomentazioni non idonee a rilevare la ratio decidendi fra loro logicamente incomprensibili o perplesse e sempre che tali difetti emergano dal provvedimento in sé senza alcuna possibilità di verifica della sufficienza e razionalità delle argomentazioni svolte in relazione alle risultanze probatorie. Il decreto che accoglie una domanda di modifica dell’assegno di separazione è immediatamente esecutivo. Corte d’appello di Milano, 16 marzo 2004 Il procedimento di modifica delle condizioni di separazione personale e di divorzio ha natura di procedimento contenzioso, incidente su diritti soggettivi, ed è tuttavia soggetto al rito camerale. Il decreto conclusivo dei procedimenti camerali in primo grado è dotato di specifiche caratteristiche, che escludono la possibilità di un’applicazione analogica dell’art. 282 c.p.c. Nei procedimenti di modifica delle condizioni di separazione personale dei coniugi e di revisione delle condizioni del divorzio, il decreto deve, tuttavia, ritenersi, ope legis, immediatamente esecutivo in virtù dell’applicazione analogica dell’art. 4, comma 11, l. sul divorzio, attese l’identica natura delle situazioni sostanziali oggetto della controversia e l’esigenza di predisporre per esse una sollecita tutela. I provvedimenti di revisione dell’assegno di separazione pronunciati dal tribunale sono immediatamente esecutivi in forza del principio generale individuato nell’art. 4 comma 11 della legge sul divorzio. Corte d’appello di Milano, 25 febbraio 2004 I provvedimenti di natura economica pronunciati in camera di consiglio nel giudizio di revisione di prime cure di cui all’art. 710 c.p.c., sono immediatamente esecutivi a MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA norma di quanto dispone l’art. 4, comma 11, l. div., applicabile ai sensi dell’art. 23 l. div. e, pertanto, sono sottratti alla disciplina dell’efficacia dei provvedimenti camerali di cui all’art. 741 c.p.c. Ne deriva che la sospensione può essere disposta solo per gravi motivi, in applicazione di quanto disposto dall’art. 283 c.p.c. Il decreto della Corte d’appello in materia di rapporti tra coniugi è ricorribile per cassazione ex art. 111 cost. per violazione di legge. Cass. sez. I, 30 gennaio 2004, n. 1719 Il decreto con il quale la Corte d’appello decide, su reclamo delle parti, in merito alla richiesta di revisione delle condizioni inerenti ai rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi ha carattere decisorio e definitivo. Esso è, pertanto, ricorribile per cassazione ex articolo 111 della Costituzione e, conseguentemente, il sindacato in sede di legittimità è limitato alla sola violazione di legge. Il vizio di motivazione è, quindi, deducibile soltanto per carenza assoluta di motivazione ovvero quando viene prospettata unii- motivazione meramente apparente o perplessa, mentre non è censurabile la sufficienza e la razionalità della motivazione adottata. Anche nel giudizio di revisione dell’assegno divorzile le parti sono tenute a presentare la propria documentazione dei redditi sebbene il giudice non sia obbligato a disporre indagini patrimoniali e possa fondare il suo convincimento anche in altro modo. Cass. sez. I, 2 dicembre 2003, n. 18391 La disposizione di cui all’articolo 5, n. 9, della legge 898/1970, certamente applicabile anche nel procedimento di revisione dell’assegno, non impone al giudice l’obbligo di disporre indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita sulla base della mera contestazione delle parti circa le loro rispettive condizioni economiche, ma si traduce in una deroga alle regole generali in tema di onere della prova, nel senso che il giudice non può rigettare le richieste delle parti relative al riconoscimento e alla determinazione dell’assegno per la mancata dimostrazione da parte delle stesse degli assunti sui quali le loro richieste si fondano: ciò comporta che il giudice può avvalersi di tutti gli elementi di prova ritualmente acquisiti, può far ricorso a presunzioni e a nozioni di comune esperienza per l’accertamento delle condizioni economiche delle parti e non è tenuto ad ammettere o disporre ulteriori mezzi di prova quando ravvisi elementi sufficienti per la formazione del suo convincimento. A differenza dell’appello il procedimento di modifica non mira a un riesame della situazione ma solo a porre rimedio ad uno squilibrio successivo. Corte d’Appello di Roma, 31 ottobre 2003, n. 4579 L’articolo 9 della legge 898/1970 prevede che qualora sopravvengano giustificati motivi il giudice su istanza di parte può modificare i provvedimenti emessi in sede di divorzio. Da ciò consegue, quindi, che la richiesta non può mirare a una riforma della sentenza di divorzio, quasi fosse un appello ammesso oltre ogni termine, ma è volta a porre un rimedio a uno squilibrio creato si dopo la suddetta pronuncia nelle rispettive situazioni economiche delle parti. Il principio devolutivo dell’impugnazione vale anche in sede di reclamo dei provvedimenti di modifica della separazione e del divorzio. Cass. sez. I, 24 ottobre 2003, n. 16035 Il reclamo, anche nell’ambito del procedimento per la modificazione dell’assegno di divorzio, costituisce un mezzo di impugnazione, ancorché devolutivo, che ha a oggetto la revisione della decisione adottata in primo grado, nei limiti del devolutum e delle censure prospettate, in correlazione alle domande formulate in detta sede, potendo essere allegati fatti nuovi, ma non proposte domande nuove. In ragione della peculiarità del rito e della sua disciplina, quindi, possono essere prodotti nuovi documenti, senza limiti, anche se già menzionati in primo grado. Nel giudizio camerale di revisione sono ammissibili le domande riconvenzionali. Cass. sez. I, 24 ottobre 2003, n. 16035 Nel giudizio di primo grado, relativamente al procedimento di modificazione dell’assegno di divorzio non vigono le preclusioni previste per il giudizio di cognizione ordinario e possono, quindi, essere proposte per tutto il corso di esso domande nuove, anche riconvenzionali, in conformità delle direttive dettate dal giudice, nonché ammesse nuove prove, anche in correlazione con i fatti sopravvenuti dedotti nel corso del processo, che il giudice deve prendere in esame, ove dedotti, nei limiti delle domande proposte. Prova Per la riduzione dell’importo dell’assegno occorre dimostrare che il beneficiario non può conservare con i suoi redditi il tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale. Cass. sez. I, 6 febbraio 2004, n. 2252 L’aumentata o diminuita differenza fra i livelli di reddito degli ex coniugi non è sufficiente, di per sé, a giustificare variazioni nella misura dell’assegno, occorrendo altresì la verifica positiva di una diminuita attitudine del titolare a mantenere costante, con le sole risorse proprie o con l’eventuale aggiunta contributiva del coniuge nella misura anteriormente determinata, il tenore di vita raggiunto nel periodo di convivenza. In ogni caso, la valutazione comparativa dei rispettivi redditi si rende necessaria solo dopo che sia stata accertata la necessità di attribuire ex novo l’assegno o di aumentarne la misura, al solo fine di stabilire l’ammontare di esso. Ricorso per cassazione È ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge avverso i provvedimenti della Corte d’appello in tema di modifica delle condizioni di divorzio. Cass. sez. I, 30 novembre 2006, n. 25524 E’ ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge avverso i provvedimenti della Corte d’appello in tema di modifica delle condizioni di divorzio. In tal caso la violazione di legge è configurabile ove difetti materialmente la motivazione ovvero questa si estrinsechi in argomentazioni del tutto inidonee a rivelare la ratio decidendi o tra loro logicamente inconciliabili o oggettivamente incomprensibili. Non è ammissibile il regolamento di competenza avverso provvedimenti del tribunale concernenti l’affidamento dei figli. Cass. sez. I, 16 gennaio 2003, n. 586 Il decreto con cui il tribunale dichiara la propria incompetenza territoriale sulla domanda di modifica delle condizioni della separazione personale dei coniugi con riguardo alle modalità di affidamento del figlio minore, non è impugnabile con il regolamento di competenza (come non è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost.), non avendo - al pari del provvedimento di merito da adottarsi su tale domanda - carattere decisorio, neanche in ordine alla negazione della competenza, atteso che la negazione o l’affermazione di questa (come gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 91 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA pure della giurisdizione) è preliminare e strumentale alla decisione di merito e non ha una sua natura specifica, diversa da quest’ultima, tale da giustificare un diverso regime di impugnazione, né “fa giudicato” sulla competenza se non all’interno di quello specifico procedimento che termina con il decreto camerale. Sopravvenienze La richiesta di eliminazione dell’assegno per giustificati motivi comporta una nuova valutazione comparativa della situazione delle parti. Cass. sez. I, 26 maggio 2004, n. 10105 La domanda di soppressione dell’assegno divorzile, ai sensi dell’articolo 9 della legge 898/1970, in relazione alla sopravvenienza di “giustificati motivi” che si alleghi essere costituiti dal sopravvenire di maggiori redditi per il destinatario dell’assegno, implica una reiterata valutazione comparativa della situazione delle parti, tenendo conto dei redditi di ciascuna di esse, allo scopo di assicurare, con il minore sacrificio possibile per l’obbligato, il mantenimento, per il titolare dell’assegno, del tenore di vita che l’articolo 5 della legge stessa ha inteso, quanto meno in via tendenziale, garantire. Poiché il giudice adito con la domanda di revisione dell’assegno di divorzio non è chiamato alla pura e semplice rideterminazione dell’assegno stesso, la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno e dei criteri per la sua determinazione può essere presa in considerazione soltanto dopo che sia stato accertato il sopraggiungere di nuove circostanze di portata tale da rendere giustificata la revisione dell’assetto realizzato con il precedente provvedimento. NULLITÀ DEL MATRIMONIO Aspetti processuali Non sussiste l’obbligo della traduzione in italiano della sentenza ecclesiastica redatta in latino. Cass. sez. I, 15 settembre 2009, n. 19808 In tema di delibazione della sentenza di un tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità di un matrimonio In tema di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di un matrimonio, la circostanza che detto provvedimento sia redatto in latino non comporta l’obbligo della sua traduzione nella lingua italiana, ma solo la facoltà per il giudice di disporla per il caso in cui non conosca la lingua latina, ovvero sia insorta controversia tra le parti sul significato di determinate espressioni. Valide nel giudizio di nullità le prove sull’incapacità raccolte in altri procedimenti. Cass. sez. I, 16 gennaio 2009, n. 1039 In tema di nullità del matrimonio per incapacità di uno dei contraenti, dichiarato interdetto successivamente alle nozze, il giudice può fondare il proprio convincimento sullo stato di incapacità su prove raccolte in altri giudizi (nella specie, la Suprema corte ha confermato la sentenza di merito che aveva posto a fondamento della propria decisione la c.t.u. espletata nel processo civile di interdizione del coniuge di cui si tratta, nonché sulla perizia espletata nel procedimento penale a carico dell’altro coniuge per il reato di circonvenzione di incapace, pur se la sentenza di condanna non era ancora passata in giudicato. 92 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Tra il giudizio di nullità e quello di separazione vi è completa autonomia. Cass. sez. I, 18 maggio 2007, n. 11654 Non sussiste un rapporto di necessaria pregiudizialità tra il processo di nullità del matrimonio e quello di separazione personale, che sono autonomi l’uno dall’altro; infatti, prima della pronuncia di nullità, e anche in pendenza del relativo processo, i coniugi continuano ad essere trattati come tali, con reciproci diritti e doveri, mentre la sentenza di separazione non spiega efficacia di giudicato sul punto dell’esistenza e validità del vincolo matrimoniale (salvo che sulla relativa questione le parti abbiano chiesto una decisione con efficacia di giudicato ex art. 34 Cpc) e non preclude la dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio. Non è ricorribile per cassazione per violazione di legge il provvedimento con cui la Corte d’appello statuisce in via provvisoria sull’indennità. Cass. sez. I, 19 novembre 2003, n. 17535 Non è suscettibile di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., il provvedimento con il quale, in sede di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, la Corte d’appello disponga - a beneficio del coniuge in buona fede, ricorrendo i presupposti di legge - la corresponsione provvisoria dì una congrua indennità, trattandosi di provvedimenti aventi funzione strumentale e natura anticipatoria e privi, pertanto, dei requisiti della definitività e della decisorietà. Delibazione E’ delibabile la sentenza ecclesiastica che abbia annullato un matrimonio per difetto di consenso. Cass. sez. I, 15 settembre 2009, n. 19808 In tema di delibazione della sentenza di un tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario per difetto di consenso, la situazione di vizio psichico (“ob defectum discretionis iudicii”) da parte di uno dei coniugi, assunta in considerazione dal giudice ecclesiastico, siccome comportante inettitudine del soggetto ad intendere i diritti ed i doveri del matrimonio al momento della manifestazione del consenso, non si discosta sostanzialmente dall’ipotesi di invalidità contemplata dall’art. 120 c.c., cosicché è da escludere che il riconoscimento dell’efficacia di una tale sentenza trovi ostacolo nei principi fondamentali dell’ordinamento italiano. In tema di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di un matrimonio, la circostanza che detto provvedimento sia redatto in latino non comporta l’obbligo della sua traduzione nella lingua italiana, ma solo la facoltà per il giudice di disporla per il caso in cui non conosca la lingua latina, ovvero sia insorta controversia tra le parti sul significato di determinate espressioni. Il grave difetto di discrezione di giudizio è analogo alla situazione di incapacità naturale. Cass. sez. I, 15 settembre 2009, n. 19808 L’esistenza nel coniuge di “grave difetto di discrezione di giudizio”, ovvero di un vizio della volontà attinente in modo diretto all’incapacità personale del coniuge di partecipare efficacemente all’atto, escludendone quel minimo requisito psichico che si richiede per la validità del vincolo, è cosa ben diversa dalla riserva interiore di escludere uno o l’altro dei “bona matrimonii” e incide, invece, in modo negativo sulla validità del matrimonio anche nell’ordinamento civile sotto forma di incapacità naturale. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Non è contraria all’ordine pubblico la sentenza di nullità nel caso di difetto da parte dell’uomo della necessaria libertà interiore al momento di stipulare il matrimonio. Cass. sez. I, 8 luglio 2009, n. 16051 Non contrasta con i principi della buona fede e dell’affidamento, e comunque con l’ordine pubblico, la delibazione di sentenza ecclesiastica di nullità di matrimonio cattolico per mancanza di libertà interiore dell’uomo, che abbia espressamente manifestato la propria volontà matrimoniale anche dopo essere stato messo al corrente che la coniuge era sieropositiva e che la medesima aveva perduto, per aborto spontaneo, il feto concepito prima del matrimonio. In tema di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario per difetto di consenso, le situazioni di vizio psichico assunte dal giudice ecclesiastico come comportanti inettitudine del soggetto, al momento della manifestazione del consenso, a contrarre il matrimonio non si discostano sostanzialmente dall’ipotesi d’invalidità contemplata dall’art. 120 c.c., cosicché è da escludere che il riconoscimento dell’efficacia di una tale sentenza trovi ostacolo in principi fondamentali dell’ordinamento italiano. In particolare, tale contrasto non è ravvisabile sotto il profilo del difetto di tutela dell’affidamento della controparte, poiché, mentre in tema di contratti la disciplina generale dell’incapacità naturale dà rilievo alla buona o malafede dell’altra parte, tale aspetto è ignorato nella disciplina dell’incapacità naturale, quale causa d’invalidità del matrimonio, essendo in tal caso preminente l’esigenza di rimuovere il vincolo coniugale inficiato da vizio psichico. E’ ammissibile la delibazione della sentenza ecclesiastica che ha dichiarato la nullità per esclusione unilaterale da parte di un coniuge dell’obbligo di fedeltà quando la delibazione è chiesta dall’altro coniuge. Cass. sez. I, 25 giugno 2009, n. 14906 La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione da parte di uno soltanto dei coniugi di uno dei “bona matrimonii” (nella specie, obbligo di fedeltà) non può trovare ostacolo nell’ordine pubblico ove detta esclusione sia rimasta, inespressa, nella sfera psichica del suo autore, senza essere conosciuta o conoscibile dall’altro coniuge, quando sia il coniuge che ignorava, o non poteva conoscere, il vizio del consenso dell’altro coniuge a chiedere la declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica da parte della Corte d’Appello. Il decreto definitivo sulla nullità può intervenire anche nel corso del procedimento di delibazione. Cass. sez. I, 15 gennaio 2009, n. 814 In materia di delibazione della sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dal tribunale ecclesiastico, il decreto col quale il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica rende esecutiva tale sentenza non costituisce un presupposto processuale, bensì una condizione dell’azione; ne consegue che non è necessaria la sua esistenza nel momento in cui il giudizio di delibazione viene introdotto, potendo la sentenza ecclesiatica essere delibata purché tale decreto esista nel momento in cui la lite viene decisa. Non contrasta con l’ordine pubblico la sentenza ecclesiastica di nullità per esclusione manifestata del “bonum prolis”. Cass. sez. I, 15 gennaio 2009, n. 814 La sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità di un matrimonio concordatario per esclusione del “bonum prolis”, in una fattispecie in cui detta intenzione sia stata manifestata da un coniuge ed accettata dall’altro, non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano e può quindi essere dichiarata efficace nella Repubblica, sia in considerazione della diversità esistente tra i due ordinamenti sia per il fatto che l’ordinamento italiano non solo non prevede un principio essenziale di “non procreazione”, ma configura il matrimonio come fondamento della famiglia, finalizzato cioè alla promozione di una società naturale che comprende anche i figli. Sussiste una violazione del diritto delle parti di agire e resistere in giudizio solo in presenza di una compressione della difesa negli aspetti e requisiti essenziali garantiti dall’ordinamento dello Stato. Cass. sez. I, 11 febbraio 2008, n. 3186 Al giudice italiano non è precluso di provvedere ad un’autonoma e diversa valutazione del medesimo materiale probatorio secondo le regole del processo civile In sede di delibazione della sentenza di nullità matrimoniale emessa dal giudice ecclesiastico per esclusione del vincolo dell’indissolubilità “ex parte viri”, il giudice italiano è vincolato ai fatti accertati in quella pronuncia, non essendogli concesso né un riesame del merito né il rinnovo dell’istruttoria con acquisizione di nuovi materiali probatori; tuttavia, essendo diversa la natura dei due giudizi - quello ecclesiastico teso ad accertare la “voluntas simulandi” di un coniuge e quello italiano incentrato sulla necessità di verificare il profilo di conoscenza o conoscibilità di tale riserva unilaterale - al giudice italiano non è precluso di provvedere ad un’autonoma e diversa valutazione del medesimo materiale probatorio secondo le regole del processo civile, eventualmente disattendendo gli obiettivi elementi di conoscenza documentati negli atti del giudizio ecclesiastico. Non può essere delibata in Italia la sentenza ecclesiastica di nullità fondata sull’esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii non conosciuta né conoscibile dall’altro coniuge. Cass. sez. I, 6 luglio 2006, n. 15409 La declaratoria di esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico che ha pronunciato la nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno soltanto dei coniugi, di uno dei bona matrimonii, cioè la divergenza unilaterale fra volontà e dichiarazione, postula che tale divergenza sia stata manifestata all’altro coniuge ovvero che questi non l’abbia potuta conoscere a cagione della propria negligenza, atteso che, ove quella nullità venga fondata su una situazione unilaterale non conosciuta, né conoscibile, la delibazione della relativa pronuncia trova ostacolo nella contrarietà con l’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va compreso l’essenziale principio della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole. Il giudicato sul divorzio non impedisce la delibazione della sentenza ecclesiastica che non fa, comunque, venir meno l’assegno divorzile. Cass. sez. I, 4 marzo 2005, n. 4795 La sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario passata in giudicato non impedisce la successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, sempre che le parti nel giudizio di divorzio non abbiano introdotto esplicitamente questioni concernenti l’esistenza e la validità del vincolo. La dichiarazione di efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica non travolge, tuttavia, il capo della sentenza relativo all’assegno di mantenimento. È ammessa la delibazione della sentenza ecclesiastica che ha dichiarato la nullità per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii se non vi si oppone il coniuge in buona fede. Cass. sez. I, 28 gennaio 2005, n. 1822 La sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità del ma- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 93 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA trimonio concordatario, a causa dell’esclusione da parte di uno dei coniugi di uno dei bona matrimonii, quando tale esclusione sia rimasta nella sfera psichica del suo autore e non sia stata manifestata, ovvero conosciuta o conoscibile dall’altro coniuge, non può essere dichiarata esecutiva nell’ordinamento italiano, in quanto si pone in contrasto con l’inderogabile principio di ordine pubblico consistente nella tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole. Tale principio è tuttavia ricollegato a un valore individuale che appartiene alla sfera di disponibilità del soggetto ed è preordinato a tutelare questo valore contro ingiusti attacchi esterni. Al suo titolare va riconosciuto pertanto il diritto di scegliere la non conservazione del rapporto viziato per fatto dell’altra parte e, conseguentemente, non sussiste ostacolo alla delibazione della sentenza nel caso in cui il coniuge che ignorava, o non poteva conoscere il vizio del consenso dell’altro coniuge, chieda la dichiarazione di esecutività della sentenza ecclesiastica da parte della Corte d’appello. Gli eredi non possono chiedere la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio. Cass. sez. I, 20 novembre 2003, n. 17595 L’entrata in vigore della nuova disciplina di diritto internazionale privato, di cui alla legge 31 maggio 1995, n. 218, non ha comportato l’abrogazione del sistema (previsto dall’art. 8 dell’Accordo tra l’Italia e la Santa Sede del 18 febbraio 1984, di modifica del Concordato lateranense, reso esecutivo con la legge di autorizzazione alla ratifica 25 marzo 1985, n. 121) per la dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze di nullità del matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici; pertanto, nonostante l’art. 67, comma 1, della legge 218/95 conceda a chiunque vi abbia interesse la legittimazione a richiedere l’accertamento dei requisiti per il riconoscimento, in ipotesi di contestazione della sentenza straniera, deve essere esclusa - in forza dell’art. 8 del citato Accordo , che riserva alla domanda delle parti o di una di esse l’attribuzione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze di nullità del matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici - la legittimazione degli eredi del coniuge a chiedere la delibazione della sentenza ecclesiastica con cui è stata dichiarata la nullità del matrimonio concordatario contratto dal defunto. L’indagine della Corte d’appello ai fini della delibazione deve fondarsi sugli atti del processo canonico. Cass. sez. I, 19 novembre 2003, n. 17535 La declaratoria di esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico che abbia pronunciato la nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno solo dei coniugi, di uno dei bona matrimonii, cioè per divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione, postula che tale divergenza sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questi in effetti conosciuta ovvero che non gli sia stata nota esclusivamente a causa della sua negligenza, atteso che, qualora le menzionate situazioni non ricorrano la delibazione trova ostacolo nella contrarietà all’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va compreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole. Al riguardo, se, da un lato, il giudice italiano è tenuto a accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione in parola da parte dell’altro coniuge con piena autonomia - trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico - senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica, dall’altro lato la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare e agli atti del processo medesimo, eventualmente acquisiti, opportunamente rie- 94 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 saminati e valutati, non essendovi luogo in fase di deliberazione ad alcuna integrazione istruttoria. Continuano ad applicarsi ai giudizi di delibazione gli articoli 796-805 c.p.c. Cass. sez I, 30 maggio 2003, n. 8764 Al giudizio avente a oggetto la dichiarazione d’efficacia in Italia delle sentenze di nullità di matrimonio «concordatario», pronunciate dai tribunali ecclesiastici, si continuano ad applicare gli articoli da 796 a 805 del Cpc, atteso che l’abrogazione di tali disposizioni, sancita dall’articolo 73 della legge 218/1995, non è idonea a spiegare alcuna efficacia sulle norme dell’accordo tra Santa Sede e Repubblica italiana e dell’annesso protocollo addizionale, poiché queste sono coperte dal cosiddetto «principio concordatario». L’indagine della Corte d’appello ai fini della delibazione deve fondarsi sugli atti del processo canonico. Cass. sez I, 30 maggio 2003, n. 8764 Il giudice italiano nel dichiarare l’efficacia della sentenza del tribunale ecclesiastico, che abbia pronunciato la nullità del matrimonio concordatario, per esclusione, da parte soltanto di uno dei coniugi, di uno dei bona matrimonii, per un verso, è tenuto ad accertare l’oggettiva conoscibilità di tale esclusione da parte dell’altro coniuge, con piena autonomia di giudizio (trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico), senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica di nullità; per altro verso, la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alla sentenza delibanda e agli atti del processo canonico eventualmente acquisiti e opportunamente riesaminati e valutati, non essendo ammessa, in sede di delibazione, alcuna integrazione di attività istruttoria. Non può essere delibata, perché contraria all’ordine pubblico, la sentenza ecclesiastica che ha dichiarato la nullità del matrimonio per esclusione unilaterale di uno dei tre bona matrimonii. Cass. sez I, 30 maggio 2003, n. 8764 La dichiarazione di efficacia della sentenza del tribunale ecclesiastico, che abbia pronunciato la nullità del matrimonio concordatario, per esclusione, da parte soltanto di uno dei coniugi, di uno dei bona matrimonii (cioè per divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione) postula che siffatta divergenza sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questo effettivamente conosciuta, ovvero che non gli sia stata nota soltanto a causa della sua negligenza, atteso che, ove tali situazioni non ricorrano, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà nell’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va compreso il principio fondamentale della buona fede e del legittimo affidamento incolpevole. Il giudice italiano nel dichiarare l’efficacia della sentenza del tribunale ecclesiastico, che abbia pronunciato la nullità del matrimonio concordatario, per esclusione, da parte soltanto di uno dei coniugi, di uno dei bona matrimonii, per un verso, è tenuto ad accertare l’oggettiva conoscibilità di tale esclusione da parte dell’altro coniuge, con piena autonomia di giudizio (trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico), senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica di nullità; per altro verso, la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alla sentenza delibanda e agli atti del processo canonico eventualmente acquisiti e opportunamente riesaminati e valutati, non essendo ammessa, in sede di delibazione, alcuna integrazione di attività istruttoria. Il giudice italiano non può, per contrarietà all’ordine pubblico, dichiarare l’efficacia della sentenza del tribunale ecclesiastico, che abbia pronunciato la nullità del matrimonio concordatario, per esclusione, da parte soltanto di MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA uno dei coniugi, di uno dei bona matrimonii Tale ostacolo alla delibazione della sentenza ecclesiastica, peraltro, non può essere ravvisato quando il coniuge che ignorava o non poteva conoscere il vizio del consenso dell’altro coniuge chieda la declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica in Italia, ovvero, costituitasi, non vi si opponga (non essendo, peraltro, a tal fine, sufficiente la contumacia). L’indagine della Corte d’appello ai fini della delibazione deve fondarsi sugli atti del processo canonico. Cass. sez. I, 6 marzo 2003, n. 3339 In tema di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, l’accertamento della conoscenza o conoscibilità del fatto (nella specie: apposizione, da parte di un coniuge, di una condizione al matrimonio attinente alla determinazione della residenza familiare) che ha determinato la mancanza o il vizio del consenso matrimoniale da parte di un coniuge, il giudice della delibazione è tenuto ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità di tale esclusione da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, rispetto al giudice ecclesiastico, anche se la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alle sentenze ecclesiastiche e agli atti del processo canonico eventualmente prodotti, non potendosi fare luogo, in fase di delibazione, ad alcuna integrazione di attività istruttoria. Non può essere delibata, perché contraria all’ordine pubblico, la sentenza ecclesiastica che ha dichiarato la nullità del matrimonio per esclusione unilaterale di uno dei tre bona matrimonii. Cass. sez. I, 6 marzo 2003, n. 3339 Il principio secondo il quale la delibabilità delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale per ogni tipo di vizio o mancanza del consenso, attengano ai bona matrimonii ovvero consistano nell’apposizione di una condizione, trova ostacolo nel principio di ordine pubblico costituito dalla ineludibile tutela dell’affidamento dell’altro coniuge, ove l’esclusione dei bona matrimonii ovvero l’apposizione di una condizione, siano rimasti nella sfera psichica di uno dei nubendi, non essendo stati manifestati all’altro e non avendoli questi conosciuti, non essendo conoscibili con la normale diligenza. Effetti patrimoniali Nella valutazione degli effetti patrimoniali della nullità del matrimonio il giudice civile non può ampliare il giudicato ecclesiastico. Cass. sez. I, 16 novembre 2005, n. 23073 Ai fini dell’attribuzione di responsabilità ex art. 129 bis cod. civ. del coniuge in malafede il giudicato ecclesiastico fa stato in ordine agli accertamenti di fatto che costituiscono il presupposto della decisione finale ed anche se il giudice può fare uso della facoltà di desumere elementi di convincimento dalle risultanze della sentenza medesima ciò può avvenir solo in ordine a punti non coperti dal giudicato. In conseguenza di ciò, l’indennità di cui all’art. 129 bis cod. civ. può essere attribuita solo ove dalla sentenza ecclesiastica risulti o sia desumibile la mala fede del coniuge cui la nullità è imputabile. Rapporti tra nullità, separazione e divorzio Il giudicato sull’assegno divorzile non viene travolto dalla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio. Cass. sez. I, 5 giugno 2009, n. 12982 Una volta che nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordata- rio venga accertata la spettanza, a una delle parti, dell’assegno di divorzio, e una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’art. 2909 c.c. anche nel caso in cui successivamente a essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio. La pronuncia che abbia comunque affermato il venir meno dell’efficacia della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio e del conseguente diritto all’assegno divorzile, in ragione dell’intervenuta delibazione della sentenza ecclesiastica, non può essere oggetto di riesame allorché su di essa si sia formato il giudicato. Le convinzioni religiose non possono ritardare la sentenza di divorzio. Cass. sez. I, 23 gennaio 2009, n. 1731 Non osta alla pronuncia di sentenza non definitiva di divorzio, proseguendo il giudizio per le determinazioni accessorie, la circostanza che uno dei coniugi, invocando le proprie convinzioni di cattolico praticante, abbia chiesto che sul vincolo si pronunci preliminarmente il giudice ecclesiastico, già adìto, atteso che la pronuncia non definitiva in parola è espressamente prevista dalla legge e che tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario innanzi al giudice ecclesiastico e quello di divorzio non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità. Tra il giudizio di nullità e quello di separazione non vi è alcuna pregiudizialità. Cass. sez. I, 15 gennaio 2009, n. 814 Il riconoscimento degli effetti civili della sentenza di nullità di matrimonio concordatario, pronunciata dai Tribunali Ecclesiastici, non è precluso dalla preventiva instaurazione di un giudizio di separazione personale tra gli stessi coniugi dinanzi al giudice dello Stato Italiano. Ciò è dato dal fatto che il giudizio e la sentenza di separazione personale hanno petitum, causa petendi e conseguenze giuridiche del tutto differenti da quelli del giudizio e della sentenza che dichiara la nullità del matrimonio. La dichiarazione di nullità del matrimonio determina la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione. Corte d’appello di Roma, 15 giugno 2005 La dichiarazione di nullità del matrimonio che intervenga nel giudizio di separazione determina la cessazione della materia del contendere in ordine alla separazione, a cui i coniugi, che non sono più tali, non hanno più interesse, ma lascia sopravvivere i provvedimenti economici che sono legati allo status di coniugio, i suddetti provvedimenti, in quanto dipendenti dal vincolo matrimoniale avranno sorte diversa a seconda che il matrimonio sia stato celebrato da coniugi consapevoli dell’invalidità del matrimonio medesimo o da coniugi - ovvero da un coniuge - in buona fede: nel primo caso l’efficacia ex tunc della declaratoria di nullità del matrimonio, determina la caducazione ex tunc dei provvedimenti ex articolo 708 del Cpc; nel secondo caso i principi del matrimonio putativo determinano, in applicazione dell’articolo 128 del codice civile, l’efficacia ex nunc della pronuncia di nullità. La delibazione della nullità del matrimonio non fa venir meno l’assegno di divorzio già stabilito con sentenza passata in giudicato. Cass. sez. I, 4 marzo 2005, n. 4795 Una volta che nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario venga accertata la spettanza, a una delle parti, dell’assegno di divorzio, e una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi del- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 95 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA l’articolo 2909 del Cc anche nel caso in cui successivamente a essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio. Se il divorzio non è ancora passato in giudicato, la delibazione della sentenza di nullità produce la cessazione della materia del contendere del processo di divorzio e travolge l’assegno divorzile attribuito. Cass. sez. I, 25 giugno 2003, n. 10055 Pronunciata in primo grado, sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, con condanna di uno dei coniugi al pagamento di un assegno periodico in favore dell’altro, la Corte d’appello che accerti l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità di quel matrimonio deve dichiarare cessata, tra le parti, la materia del contendere in ordine alla domanda di divorzio con revoca di ogni statuizione, anche di ordine economico, contenuta nella sentenza del primo giudice. Non vi è alcuna interferenza tra il giudicato di nullità e quello di separazione. Cass. sez. I, 6 marzo 2003, n. 3339 Il giudizio e la sentenza di separazione personale dei coniugi hanno un petitum e una causa petendi e conseguenze del tutto diversi rispetto al petitum, alla causa petendi e alle conseguenze del giudizio e della sentenza che dichiari la nullità del matrimonio, quale è quella ecclesiastica. Deriva, da quanto precede, pertanto, che tra il giudizio di separazione e quello di nullità non sussistono le ragioni ostative previste dall’articolo 64 della legge n. 218 del 1995, la cui ratio è quella di stabilire, in relazione alla giurisdizione adita, il criterio della prevenzione al fine di evitare la contrarietà di giudicati in relazione alla medesima res litigiosa. ORDINI DI PROTEZIONE Allontanamento del figlio Il tribunale può disporre l’allontanamento da casa della figlia (maggiorenne) che rende invivibile la vita familiare e può disporre in suo favore il pagamento di un assegno temporaneo. Tribunale di Messina, 24 settembre 2005 Deve essere disposto l’allontanamento dall’abitazione familiare, ai sensi dell’articolo 342 bis Cc, del figlio maggiorenne che, a causa del disagio psichico, metta in pericolo l’incolumità fisica e morale degli altri membri della famiglia; in tal caso, tuttavia, il giudice deve disporre le adeguate cautele per assicurare anche alla persona allontanata, se non autosufficiente, il mantenimento e la prosecuzione degli studi. Durata Gli ordini di protezione hanno durata temporanea e perdono comunque di efficacia al momento dei provvedimenti presidenziali di separazione e di divorzio. Cassazione sezione I, 15 gennaio 2007, n. 625 Il decreto di concessione dell’ordine di protezione contro gli abusi familiari, posto che ha una durata temporanea che non può superare il limite massimo di sei mesi, prorogabile solo per gravi motivi, perde di efficacia qualora nel procedimento di separazione personale dei coniugi, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, siano 96 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 pronunciati i provvedimenti provvisori previsti rispettivamente dall’articolo 708 cpc. e dall’articolo 4 della legge 898/70 ed è volto a tutelare non interessi individuali ma l’interesse sociale alla tranquillità delle famiglie. Finalità L’ordine di allontanamento del coniuge dalla casa familiare può essere finalizzato a fare rientrare in casa la moglie ed i figli che si sono provvisoriamente alloggiati altrove. Tribunale di Messina, 16 giugno 2004 L’ordine di allontanamento del coniuge dalla casa familiare può essere finalizzato a fare rientrare in casa la moglie ed i figli che si sono provvisoriamente alloggiati altrove al fine di non subire la condotta pregiudizievole, ed adottato anche a tutela della libertà morale della donna che avendo assunto l’iniziativa di separarsi dal marito, subisce da quest’ultimo, al fine di farla desistere dalla iniziativa, reazioni irose sproporzionate e pressioni morali, tra le quali una querela per abbandono del domicilio domestico, furto ed appropriazione indebita. L’ordine di protezione può essere adottato anche se è già stato presentato il ricorso per separazione, ma non si è ancora svolta l’udienza ex art. 707 c.p.c. ed adottati i provvedimenti ex art. 708 c.p.c. Presupposti Il presupposto degli ordini di protezione è un comportamento gravemente lesivo dell’integrità fisica o psichica. Tribunale di Bari, 29 luglio 2004 Può essere concesso l’ordine di allontanamento dalla casa familiare, in base alla legge 4 aprile 2001, n. 154, in presenza di una situazione di reciproca incomunicabilità ed intolleranza tra soggetti conviventi, di cui ciascuna delle parti imputa all’altra la responsabilità, quante volte i litigi, ancorché aspri nei toni, non siano stati aggravati da violenze fisiche o minacce in danno del ricorrente o non si siano tradotti in un vulnus alla dignità dell’individuo di entità non comune, vuoi per la particolare delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, vuoi per le modalità “forti” dell’offesa arrecata, vuoi per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo della sofferenza patita dall’offeso. Procedimento I decreti contenenti ordini di protezione non sono ricorribili per cassazione per alcun motivo. Cassazione sezione I, 15 gennaio 2007, n. 625 In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari nei casi di cui all’articolo 342bis cc. il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare non è impugnabile per cassazione né con ricorso ordinario, stante l’espressa previsione di non impugnabilità contenuta nell’articolo 736bis cpc. introdotto dall’articolo 3 della legge 154/01, né con ricorso straordinario ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione, giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività. È inammissibile il ricorso per cassazione in materia di ordini di protezione. Cass. sez. I, 5 gennaio 2005, n. 208 E’ inammissibile il ricorso per cassazione proposto in relazione al decreto con il quale il tribunale abbia deciso il reclamo avverso l’ordine di protezione contro gli abusi familiari. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA PENSIONE DI REVERSIBILITÀ Aspetti processuali L’istituto erogante non è litisconsorte necessario nel giudizio per la ripartizione della pensione tra coniuge superstite ed ex coniuge. Cass. sez. I, 30 marzo 2004, n. 6272 La controversia fra il coniuge superstite e l’ex coniuge per la ripartizione, ai sensi dell’articolo 9 della legge 898/1970, delle quote sulla pensione di reversibilità, non comporta la necessaria presenza nella dell’istituto che eroga la pensione, come deve ritenersi nella diversa ipotesi di cui al comma 2 riguardante il diverso rapporto fra l’ex coniuge e l’istituto in assenza di un coniuge superstite. Ciò non toglie che anche nella prima ipotesi la parte possa avere interesse a coinvolgerlo nel giudizio affinché la sentenza faccia stato anche nei suoi confronti e si eluda il rischio che l’Istituto assuma una posizione di estraneità rispetto al contenuto della decisione. Il procedimento per ottenere la pensione segue il rito camerale e il provvedimento ha natura costitutiva del diritto e non dichiarativa. Cass. sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 I procedimenti aventi ad oggetto la quota di pensione di reversibilità sono assoggettati al rito camerale anche dopo l’entrata in vigore della legge 6 marzo 1987, n. 74 che ha soppresso l’ultimo comma dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, nel testo sostituito dalla l. n. 436 del 1978, il quale disponeva che nei procedimenti in oggetto il tribunale «provvede in camera di consiglio. Non ricorre alcuna ragione di incompatibilità tra procedimento camerale da un lato, natura contenziosa della controversia e forma di sentenza del provvedimento adottato dall’altro (conformi Cass. sez. I, 2 marzo 2001, n. 3037 e Cass. sez. I, 11 novembre 1991, n. 12029). La competenza nelle cause di attribuzione della pensione reversibilità al coniuge superstite appartiene al giudice ordinario. Corte d’appello di Roma, 16 ottobre 2003, n. 4368 In ordine alla controversia tra l’ex coniuge divorziato e il coniuge superstite avente a oggetto la ripartizione tra di essi della quota di pensione reversibile va affermata la competenza e giurisdizione del giudice ordinario, in quanto il relativo giudizio riguarda esclusivamente la quantificazione di siffatte quote in applicazione dei criteri stabiliti dalla legge 898/1970 e non involge profili concernenti il rapporto assicurativo e previdenziale con l’ente erogatore, che già corrisponda il relativo trattamento per intero al coniuge superstite e che sia stato chiamato in giudizio al solo fine di rendergli opponibile la sentenza. Diritti del coniuge divorziato Il coniuge divorziato titolare di assegno ha diritto in caso di morte dell’ex coniuge oltre alla pensione di reversibilità anche all’indennità integrativa speciale. Corte dei conti, sez. Liguria, 4 aprile 2005 Qualora un dipendente statale, dopo avere divorziato e contratto nuove nozze con una dipendente statale, abbia a decedere, il primo coniuge (divorziato) avente diritto ad una quota di pensione ha un autonomo diritto di carattere previdenziale a carico dell’ente erogatore e non un diritto patrimoniale gravante sul coniuge superstite: la pensione al coniuge divorziato deve, quindi, necessariamente essere commisurata al trattamento pensionistico spettante in astratto al coniuge superstite, e non già al trattamento pensionistico spettante in concreto a quest’ultimo, le cui vicen- de personali non si riflettono sull’an e sul quantum del diritto pensionistico del coniuge divorziato. Poiché l’indennità integrativa speciale, diretta ad adeguare la pensione al costo della vita, non può, in linea di principio, essere scorporata dalla pensione base, al coniuge divorziato va erogata, in aggiunta alla pensione base, una quota dell’indennità integrativa speciale (nella specie, nella misura del 60 per cento, in conformità, peraltro, ad una pregressa sentenza emessa dal Tribunale civile prima che l’ente erogatore sospendesse in toto la corresponsione dell’indennità al coniuge divorziato). Diritti del coniuge separato Il coniuge superstite che risulti separato con addebito senza l’attribuzione di un assegno alimentare non ha diritto alla pensione di reversibilità. Cass. sez. lavoro, 18 giugno 2004, n. 11428 La pensione di reversibilità, appartenente al più ampio genus delle pensioni ai superstiti, è una forma di tutela previdenziale nella quale l’evento protetto è la morte, cioè un fatto naturale che, secondo una presunzione legislativa, crea una situazione di bisogno nei confronti dei familiari viventi a carico del pensionato defunto i quali sono i soggetti protetti. Per effetto della morte del lavoratore la situazione pregressa della vivenza a carico subisce interruzione, ma il trattamento di reversibilità realizza la garanzia della continuità del sostentamento ai superstiti. In base a tali principi la pensione di reversibilità va riconosciuta non solo al coniuge separato in favore del quale il pensionato defunto era tenuto a corrispondere assegno di mantenimento, ma anche, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale con la sentenza 286/87 (Foro it., 1988, I, 3516), al coniuge separato per colpa o con addebito, quando a carico del coniuge poi defunto era stato posto un assegno alimentare in considerazione dello stato di bisogno dell’altro coniuge cui era stata addebitata la separazione (v. anche Corte cost. n. 284 del 1997, id., 1999,1, 1762). In tali situazioni la pensione di reversibilità costituisce la prosecuzione della funzione di sostentamento del coniuge superstite prima indirettamente adempiuta dalla pensione di cui era titolare il coniuge defunto, debitore dell’assegno (cfr. Corte cost. n. 777 del 1988, id., 1988,1, 3515, e n. 87 del 1995, id. Rep. 1995, voce Matrimonio, n. 212). In tale sistema, nell’ipotesi di coniuge defunto che non era tenuto al pagamento dell’assegno di mantenimento né di assegno alimentare in considerazione dello stato di bisogno dell’altro coniuge, come nel caso di specie, in mancanza del presupposto della «vivenza a carico», non sussistendo una precedente funzione di sostentamento da proseguire, deve escludersi il diritto del superstite alla pensione di reversibilità. Il coniuge superstite separato con addebito ha sempre diritto alla pensione di reversibilità indipendentemente dal fatto che sia o meno titolare di un assegno alimentare. Cass. sez. lavoro, 16 ottobre 2003, n. 15516 Con la sentenza n. 14 del 1980, la Corte costituzionale giudicò non fondata - in riferimento agli art. 3 e 38, comma primo e secondo, Cost.- la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24 della l. 30 aprile 1969, n. 153, il quale dispone, con riguardo al trattamento di reversibilità, che non ha diritto alla pensione il coniuge quando sia passata in giudicato la sentenza di separazione per sua colpa. La pensione di reversibilità ha, quindi, carattere e contenuto diverso dai mezzi assistenziali e previdenziali previsti nell’art. 38 della Costituzione. Caducata, quindi, l’esclusione disposta dalle norme dichiarate incostituzionali, il coniuge separato per colpa, o al quale la separazione sia stata addebitata, è equiparato in tutto e per tutto al coniuge supersti- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 97 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA te (separato o non) ai fini della pensione di reversibilità, che gli spetta a norma dell’art. 13 del R.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, nel testo sostituito dall’art. 22, l. 21 luglio 1965, n. 903. Irripetibilità È irripetibile il trattamento pensionistico percepito in base a provvedimento del giudice. Cass. sez. I, 10 ottobre 2003, n. 15164 Il principio di irripetibilità delle somme percepite in forza di provvedimenti ex articolo 708 del cpc, desunto dall’articolo 189 delle disposizioni di attuazione del cpc, e applicabile, per analogia alla riforma di sentenze provvisoriamente esecutive di divorzio, deve ritenersi applicabile anche in materia di ripartizione di trattamenti pensionistici ex articolo 9 della legge sul divorzio fra coniuge superstite e coniuge divorziato, nei limiti in cui detti trattamenti siano riconducibili a prestazioni che, per la loro misura e le condizioni economiche del percettore, possano ritenersi dirette ad assicurare unicamente i mezzi economici necessari per fare fronte alle esigenza di vita. Ciò, per un verso stante la funzione obiettivamente solidaristica della pensione di reversibilità ripartita fra i due ex coniugi; per altro verso in quanto il principio di irripetibilità desumibile dall’articolo 189, è applicabile per analogia in modo espansivo, quale espressione di un generale principio di intangibilità delle prestazioni pecuniarie percepite, senza dolo o colpa grave, in base a provvedimenti giurisdizionali attinenti al diritto di famiglia e diretti ad assicurare i mezzi economici per fare fronte alle esigenze della vita dei percipienti, così da essere normalmente consumate per adempiere a tale loro destinazione. Presupposti e decorrenza Anche la quota di reversibilità ripartita tra l’ex coniuge e il coniuge superstite, come la pensione, decorre dal primo giorno successivo al decesso. Cassazione sezione I, 31 gennaio 2007, n. 2092 Nel caso di concorso del coniuge superstite con quello divorziato, il diritto alla quota di reversibilità deve farsi decorrere dal primo giorno del mese successivo al decesso del coniuge assicurato o pensionato, considerato che in base all’articolo 9 legge 898/70, come sostituito dall’articolo 13 legge 74/1987, detta quota ha natura di credito pensionistico, onde la relativa decorrenza non può non corrispondere alle norme in materia là dove queste facciano riferimento appunto al primo giorno del mese successivo a quello del decesso anzidetto. La pensione di reversibilità all’ex coniuge non presuppone necessariamente la titolarità attuale dell’assegno divorzile. Cass. sez. lavoro, 25 marzo 2005, n. 6429 Il diritto del coniuge superstite (nel concorso con il diritto dell’ex coniuge) alla quota di pensione di reversibilità sussiste anche se se l’assegno divorzile non è goduto attualmente dal richiedente ma ne sussistono i presupposti. La pensione di reversibilità spetta se il richiedente gode in concreto dell’assegno divorzile. Cass. sez. lavoro, 2 settembre 2004, n. 17741 In caso di morte di uno dei coniugi, pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio l’attribuzione al superstite della totalità o di una quota della pensione di reversibilità, è subordinata alla percezione da parte del coniuge superstite dell’assegno divorzile. Il diritto alla pensione di reversibilità decorre dal primo giorno successivo a quello in cui si è verificato il decesso dell’ex co- 98 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 niuge ed è subordinato alla titolarità in concreto di un assegno di mantenimento stabilito anche successivamente. Cass. sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 L’art. 13 della legge n. 74 del 1987, regolando in via innovativa il trattamento economico del divorziato in caso di morte dell’ex coniuge, in concorso o meno con il coniuge superstite, gli ha attribuito non più la mera possibilità di conseguire un assegno assimilabile a quello pensionistico, ma la pensione di reversibilità od una quota di essa, fissando come condizioni di tale attribuzione la titolarità dell’assegno di divorzio, il mancato passaggio a nuove nozze e la preesistenza alla sentenza di divorzio del rapporto da cui trae origine il diritto dell’ex coniuge alla pensione. Per effetto di tale disciplina il diritto al trattamento pensionistico sorge nel coniuge divorziato in via automatica, con decorrenza dal primo giorno del mese successivo a quello in cui si è verificato il decesso dell’ex coniuge pensionato, in forza di un’aspettativa maturata, sempre in via automatica e definitiva, nel corso della vita matrimoniale, ed è quindi insuscettibile di essere modificato dagli eventi relativi al rapporto matrimoniale, trovando radice nell’apporto recato da ciascuno dei coniugi alla formazione non solo del patrimonio comune, ma anche di quello dell’altro coniuge, e nelle aspettative formatesi durante e per effetto del matrimonio. Il requisito della titolarità dell’assegno di divorzio si sostanzia nell’avvenuto riconoscimento del diritto all’assegno mediante specifica statuizione contenuta nella sentenza di divorzio o in altra pronunzia successiva, non essendo sufficiente la sola maturazione delle condizioni per il suo riconoscimento od una determinazione pattizia non recepita in un provvedimento giudiziale. In mancanza di coniuge superstite la pensione di reversibilità spetta interamente al coniuge divorziato con assegno. Cass. sez. I, 28 novembre 2003, n. 18220 In assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità questa, ai sensi dell’art. 9, comma 2, l. n. 898 del 1970, spetta interamente al coniuge divorziato, titolare di un autonomo diritto di natura previdenziale, a condizione che lo stesso non sia passato a nuove nozze, sia titolare di assegno di divorzio e che il rapporto di lavoro da cui deriva il trattamento pensionistico sia sorto anteriormente al divorzio. La concessione di usufrutto a titolo di mantenimento divorzile costituisce valido presupposto per il diritto alla pensione di reversibilità. Cass. sez. I, 12 novembre 2003, n. 17018 Qualora per decisione del tribunale, o per accordo dei divorziandi, sottoposto dal tribunale a necessaria verifica, sia stata determinata una forma di assegno di divorzio la cui erogazione non abbia a cessare per il decesso dell’obbligato (nella specie usufrutto su un immobile donato alla figlia nata dal matrimonio) nondimeno deve ritenersi soddisfatto il requisito della previa titolarità di assegno di cui all’articolo 5 della legge sul divorzio, per l’accesso alla pensione di reversibilità o, in concorso con il superstite, alla sua ripartizione, tale permanente erogazione non rilevando in alcun modo sull’an debeatur del credito ma solo sulla misura della quota. Il diritto alla pensione di reversibilità è subordinato alla titolarità attuale di un assegno di mantenimento. Corte d’appello di Roma, 16 ottobre 2003, n. 4368 Il diritto del coniuge divorziato a una quota del trattamento di reversibilità dell’ex coniuge deceduto, costituisce non soltanto un diritto avente natura e funzione di prosecuzione del precedente assegno di divorzio, ma un autonomo diritto al trattamento di reversibilità che l’ordinamento MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA gli attribuisce, condizionandolo alla mancanza di passaggio a nuove nozze da parte dello stesso e alla titolarità dell’assegno di cui all’articolo 5 della legge 898/1970, e cioè dell’assegno la cui somministrazione fosse stata disposta con la sentenza di divorzio, sul presupposto della mancanza di mezzi di mantenimento adeguati. Pertanto in tale ipotesi la pensione di reversibilità ha uno dei suoi necessari elementi genetici nella titolarità attuale dell’assegno di divorzio. Ripartizione tra coniuge superstite ed ex coniuge Il criterio della durata legale del matrimonio non è l’unico criterio per la ripartizione della pensione di reversibilità. Cass. sez. I, 9 aprile 2009, n. 8734 A norma dell’art. 9 della legge n. 898/1970, relativamente alla ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge, il criterio della durata del rapporto matrimoniale di ciascun coniuge non si pone come unico ed esclusivo parametro al quale il giudice deve conformarsi automaticamente, potendo essere corretto da altri criteri da individuare anche nell’ambito dell’art. 5 della stessa legge. La decisione giudiziale riguardante la ripartizione della pensione di reversibilità tra l’ex coniuge divorziato e il coniuge superstite al momento del decesso deve essere resa, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, nel testo vigente, con sentenza. Ne consegue che il provvedimento assunto dal giudice di secondo grado con decreto conserva la natura e il valore di sentenza, e può essere impugnato con ricorso per cassazione per vizi motivazionali, ex art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., anche prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40. Per ripartire la pensione di reversibilità conta solo la durata legale del matrimonio. Cass. sez. I, 23 aprile 2008, n. 10575 La ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso fra coniuge divorziato e coniuge superstite aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, deve essere effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei rispettivi matrimoni, anche ponderando (alla luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale n. 419 del 1999) ulteriori elementi, correlati alla finalità solidaristica che presiede al trattamento di reversibilità, da individuare facendo riferimento all’entità dell’assegno di divorzio riconosciuto all’ex coniuge ed alle condizioni economiche dei due, nonché alla durata delle rispettive convivenze prematrimoniali (Cass. 10 maggio 2007 n. 10669, Cass. 9 marzo 2006 n. 5060, Cass. 7 marzo 2006 n. 4868, Cass. 30 marzo 2004 n. 6272); b) gli ulteriori elementi - da utilizzare eventualmente quali correttivi del criterio temporale e da individuare nell’ambito dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970 - sono funzionali allo scopo di evitare che il primo coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per il mantenimento del tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l’assegno di divorzio ed il secondo sia privato di quanto necessario per la conservazione del tenore di vita che il “de cuius” gli aveva assicurato in vita. In quest’ambito, se deve escludersi che l’applicazione del criterio temporale si risolva nell’impossibilità di attribuire una maggiore quota di pensione al coniuge il cui matrimonio sia stato di minore durata, resta fermo il divieto di giungere, attraverso la correzione del medesimo criterio temporale, sino al punto di abbandonare totalmente ogni riferimento alla durata dei rispettivi rapporti matrimoniali (Cass. 31 gennaio 2007 n. 2092). La previsione normativa contenuta nell’art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970, secondo cui la durata del rapporto costituisce il criterio per la ripartizione della pensione tra coniuge divorziato e coniuge superstite, va ri- ferita alla durata dei rispettivi matrimoni, coincidente con la durata legale dei medesimi, vale a dire, quanto al coniuge divorziato, fino alla sentenza di divorzio (Cass. 10 maggio 2007 n. 10669; vedi anche Cass. 7 marzo 2006 n. 4868, Cass. 10 ottobre 2003 n. 15164). Ai fini della ripartizione della pensione di reversibilità tra ex coniuge e coniuge superstite può tenersi conto anche di elementi diversi dalla semplice durata del matrimonio. Cass. sez. I, 9 maggio 2007, n. 10638 A norma dell’art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970, nel testo novellato dall’art. 13 l. n. 74 del 1987, la ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge devo essere compiuta “tenendo conto della durata del rapporto” matrimoniale di ciascun coniuge. Tale criterio, sulla base degli elementi interpretativi individuati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 419 del 1999, deve ritenersi non si ponga come. unico ed esclusivo parametro al quale conformarsi automaticamente ed in base ad un mero calcolo matematico, potendo essere corretto da altri criteri, da individuare nell’ambito dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970 (Caso. 29 gennaio 2002, n. 1057), tenuto conto del carattere solidaristico proprio della pensione di reversibilità e in relazione alle particolarità del caso concreto (Case. 10 ottobre 2003, n. 15164), fermo restando che alla durata del matrimonio “può essere riconosciuto valore preponderante e il più delle volte decisivo” (Corte cost., sentenza n. 419 del 1999) nella ripartizione della pensione. Deve quindi tenersi anche conto delle condizioni economiche di entrambi gli ex coniugi (Casa. 9 marzo 2006, n. 5060), dell’assegno goduto dal coniuge divorziato (Cass. 16 dicembre 2004, n. 23379; 5 maggio 2004, n. 8554; 19 febbraio 2003, n. 2471), dei periodi di convivenza prematrimoniale (Cass. 7 marzo 2006, n. 4867; 22 dicembre 2005, n. 28478; 16 dicembre 2004, n. 23379; 10 ottobre 2003, n. 15148), e di ogni altro elemento desumibile dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, ivi compreso il contributo dato da ciascun coniuge, durante i rispettivi matrimoni, alla famiglia. Non tutti tali elementi, peraltro, debbono necessariamente essere valutati in uguale misura, rientrando nella valutazione del giudice di merito la determinazione della loro rilevanza in concreto (Cass. 14 settembre 2004, n. 6272; 30 marzo 2004, n. 6272). La correzione del criterio di massima, dettato dal legislatore, della durata del matrimonio, peraltro, può essere compiuta unicamente e nei limiti necessari per evitare che il coniuge divorziato sia privato dei mezzi necessari a mantenere il tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare (o contribuire ad assicurare) nel tempo l’assegno di divorzio, ed il secondo coniuge del tenore di vita che il “de cuius” gli assicurava (o contribuiva ad assicurargli) in vita (Cass. 10 gennaio 2001, n. 282). E ciò, comunque, non con carattere di assolutezza, costituendo gli elementi desumibili dall’art. 5 anche il limite giuridico a tale aspettativa,che potrà restare parzialmente insoddisfatta a causa del concreto ammontare della pensione di reversibilità - rimanendo garantito a uno dei coniugi solo il soddisfacimento di minori esigenze di vita, sia in relazione alla del tutto esigua durata del suo matrimonio rispetto al matrimonio dell’altro coniuge, sia sulla base degli elementi di valutazione complessiva, fra i quali il contributo dato da un coniuge rispetto all’altro alla conduzione familiare, con particolare riferimento alla crescita ed educazione dei figli a lui affidati in regime di separazione e di divorzio. La pensione si ripartisce non soltanto in base al criterio della durata del matrimonio. Cass. sez. I, 9 marzo 2006, n. 5060 In ragione del carattere solidaristico della pensione di reversibilità e alla luce dei precetti costituzionali di egua- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 99 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA glianza sostanziale e solidarietà sociale, la ripartizione del trattamento pensionistico di reversibilità, in caso di concorso fra coniuge divorziato e coniuge superstite, aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata non solo sulla base del criterio della durata dei vari rapporti matrimoniali, ma anche ponderando altri elementi, correlati alle finalità che presiedono al diritto di reversibilità. L’indennità di fine rapporto è commisurata alla durata legale del matrimonio e può essere ripartita tra il coniuge superstite e l’ex coniuge. Cass. sez. I, 7 marzo 2006, n. 4867 Il coniuge nei cui confronti sia stato pronunciato il divorzio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sia titolare di assegno, a una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro all’atto della cessazione del rapporto di lavoro. La percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferita agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio. Detta percentuale deve essere valutata con riferimento all’intera durata del matrimonio sino alla data del suo scioglimento senza che rilevi il venire meno della convivenza o l’instaurarsi dello stato di separazione, di fatto o legale, specie tenuto presente che la cessazione della convivenza non comporta immediatamente e automaticamente il totale venire meno della comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi. Non può dubitarsi della natura patrimoniale dell’obbligo - previsto dall’articolo 12-bis della legge n. 898 del 1970 - a carico dell’ex coniuge di corrispondere all’altro ex coniuge la quota, spettatengli per legge, del trattamento di fine rapporto percepita all’atto della cessazione del rapporto di lavoro. In caso di morte del coniuge tenuto alla prestazione, pertanto, detto obbligo, qualora rimasto inadempiuto, rientra nell’asse ereditario, gravando sugli eredi del de cuius e, quindi, nell’eventualità quest’ultimo sia passato a nuove nozze, sul coniuge superstite. La ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite ed ex coniuge deve tener conto anche di criteri ulteriori rispetto a quello della durata del matrimonio. Cass. sez. I, 26 maggio 2005, n. 11217 In ragione del carattere solidaristico della pensione di reversibilità e alla luce dei precetti costituzionale di eguaglianza e solidarietà sostanziale, la ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, deve essere effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata del rapporto matrimoniale (ossia del dato numerico rappresentato dalla proporzione tra le estensioni temporali dei rapporti matrimoniali degli stessi coniugi con l’ex coniuge deceduto) anche ponderando ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al diritto di reversibilità, da utilizzare eventualmente quali correttivi del criterio temporale. Fra tali elementi, da individuarsi nell’ambito dell’articolo 5 della legge n. 898 del 1970, specifici rilievi assumono l’ammontare dell’assegno goduto dal divorziato dall’ex coniuge, nonché le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda, al fine di evitare che l’ex coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per mantenere il tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l’assegno di divorzio, e il secondo coniuge il tenore che il de cuius gli aveva assicurato in vita. Il riparto della pensione di reversibilità tra ex coniuge e coniuge superstite può tener conto della convivenza more uxorio del defunto con quest’ultimo che in via presuntiva può farsi decorrere dalla nascita del figlio. Tribunale di Bari, 24 maggio 2005 Nella determinazione della quota di pensione di reversi- 100 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 bilità, a fronte dell’elemento temporale costituito dalla durata legale del primo matrimonio, può valorizzarsi, a fini equitativi ed in funzione correttiva del calcolo aritmetico, l’elemento di una convivenza “more uxorio” che presuntivamente può farsi decorrere dalla nascita di un figlio, avvenuta antecedentemente allo scioglimento del matrimonio (inoltre, nella specie, ai predetti fini equitativi e comparativi, è stata considerata la situazione patrimoniale dei pretendenti). La ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite ed ex coniuge deve tener conto anche di elementi ulteriori rispetto a quello della durata del matrimonio. Cass. sez. I, 16 dicembre 2004, n. 23379 In tema di ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite ed ex coniuge, il criterio della durata dei rispettivi matrimoni non può avere valore esclusivo, dovendo il giudice tener conto in relazione alle particolarità del caso, anche di ulteriori elementi, quali l’ammontare dell’assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge, la convivenza prematrimoniale del coniuge superstite con quello defunto, nonché ogni altra circostanza che renda necessario correggere il criterio suddetto, al fine di non privare il primo coniuge dei mezzi necessari a mantenere il tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l’assegno di divorzio ed il secondo del tenore di vita che il de cuius contribuiva ad assicurargli in vita. La ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite ed ex coniuge va effettuata tenendo presente il criterio della durata legale del matrimonio integrato e corretto anche da altri elementi. La ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite ed ex coniuge deve tener conto anche di elementi ulteriori rispetto a quello della durata del matrimonio. Cass. sez. I, 13 maggio 2004, n. 9100 Ai fini della ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e il coniuge divorziato, il giudice deve necessariamente tener conto del preponderante e, secondo le circostanze, finanche decisivo elemento temporale costituito dalla durata legale dei rispettivi rapporti matrimoniali con il coniuge deceduto, ossia del semplice dato numerico rappresentato dalla rigida proporzione fra i relativi periodi di durata, senza che tuttavia l’applicazione di siffatto criterio implichi la mancata considerazione, in funzione di emenda o correzione del risultato conseguito, di ulteriori elementi di giudizio e, segnatamente, degli altri criteri di riferimento utilizzabili nella liquidazione dell’assegno di divorzio, afferenti alle condizioni economiche delle parti interessate e alle finalità assistenziali di quest’ultimo, nonché dello stesso ammontare dell’assegno di divorzio goduto dall’ex coniuge al momento della morte del titolare diretto della pensione, nonché all’eventuale durata della convivenza more uxorio che ha preceduto la celebrazione del secondo matrimonio. Il criterio della durata del matrimonio non è l’unico criterio per la ripartizione della pensione tra ex coniuge e coniuge superstite. Cass. sez. I, 12 novembre 2003, n. 17018 In caso di concorso tra coniuge superstite ed ex coniuge la pensione di reversibilità va suddivisa tenendo conto anche della pregressa convivenza prematrimonale con il coniuge superstite. In caso di ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge divorziato se, da un lato, non può non tenersi conto del dato cronologico costituito dalla durata dei rispettivi matrimoni, anche facendo a esso assumere valore preponderante, a esso vanno giustapposte, in sede di integrazione o correzione MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA degli effetti derivanti dalla rigidità dei dati numerici, tanto valutazioni tratte dall’applicazione dei criteri di cui all’articolo 5 della legge sul divorzio, quanto considerazioni afferenti l’esistenza di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge, le condizioni economiche delle parti interessate e lo stesso ammontare dell’assegno goduto all’atto del decesso. Il criterio della durata del matrimonio non è l’unico criterio per la ripartizione della pensione tra ex coniuge e coniuge superstite. Cass. sez. I, 10 ottobre 2003, n. 15148 Il giudice, chiamato a decidere la ripartizione della pensione di reversibilità fra coniuge superstite e coniuge divorziato nell’ipotesi prefigurata dall’articolo 9, comma 3, primo periodo legge 898/1970, nel testo sostituito dall’articolo 13 della legge 74/1987 deve: a) applicare, quale criterio preponderante e potenzialmente decisivo al predetto fine, quello della durata legale dei rispettivi rapporti matrimoniali; b) ove l’applicazione di tale criterio conduca a esiti iniqui rispetto alle particolari circostanze della concreta fattispecie, dedotte e dimostrate dalle parti, deve applicare criteri “correttivi” dei risultati stessi: quali quelli dettati per il riconoscimento e la determinazione dell’assegno di divorzio, ex articolo 5 della legge 898/1970; quello derivante dalla dedotta e dimostrata convivenza more uxorio con il coniuge deceduto; e, comunque, ogni altro criterio idoneo a ricondurre la situazione a equità conformemente alle circostanze stesse, avendo sempre riguardo, come criteri di orientamento e di chiusura, alla duplice funzione solidaristica realizzata in questo caso dalla pensione di reversibilità e all’ esigenza di tutelare, tra le due posizioni confliggenti, quella del soggetto economicamente più debole e più bisognoso. Il criterio della durata del matrimonio non è l’unico criterio per la ripartizione della pensione tra ex coniuge e coniuge superstite. Cass. sez. I, 10 ottobre 2003, n. 15164 Ai fini della ripartizione del trattamento di reversibilità fra coniuge divorziato e coniuge superstite, aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, il criterio della durata dei rispettivi matrimoni, di cui all’art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970 (nel testo novellato dall’art. 13 della legge n. 74 del 1987), non ha valore esclusivo, dovendo il giudice - in ragione del carattere solidaristico dell’istituto - valutare, in relazione al caso concreto, anche ulteriori elementi, quali l’ammontare dell’assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge, le condizioni di ciascun coniuge, e ogni altra circostanza inerente alla particolarità della situazione (cfr. Corte cost., sent. n. 419 del 1999); tra essi, assume rilievo anche la convivenza prematrimoniale del secondo coniuge con il de cuius, la quale può essere assunta dal giudice come elemento della sua valutazione complessiva, e giustificare una ripartizione della pensione di reversibilità diversa da quella proporzionale alla durata dei rispettivi rapporti matrimoniali. Il criterio della durata del matrimonio non è l’unico criterio per la ripartizione della pensione tra ex coniuge e coniuge superstite. Cass. sez. I, 19 febbraio 2003, n. 2471 L’articolo 9 della legge 898/1970 prevede che nella ripartizione della pensione di reversibilità occorre tener conto della durata del matrimonio. Tale criterio, peraltro, nel contesto normativo, non si pone come unico ed esclusivo parametro cui conformarsi automaticamente e in base a un mero calcolo matematico. Nel suo apprezzamento il giudice potrà, dunque, ponderare ulteriori elementi, correlati alla finalità solidaristica che presiede al diritto di reversibilità, da utilizzarsi, eventualmente, quali correttivi del risultato che conseguirebbe all’applicazione del mero criterio temporale. In quest’ottica, e al solo fine di evitare che l’ex coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per mantenere il tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l’assegno di divorzio, e il secondo coniuge del tenore di vita che il de cuius gli aveva assicurato in vita, anche l’esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge potrà essere considerata dal giudice del merito quale elemento da apprezzare, nel caso concreto, per una più compiuta valutazione delle situazioni. POTESTÀ GENITORIALE Atti di ordinaria amministrazione e atti di straordinaria amministrazione Non serve l’autorizzazione del giudice tutelare per iniziare una causa di risarcimento danni a favore di un minore. Tribunale di Milano, 30 dicembre 2003 Per iniziare una causa volta al risarcimento di danni patrimoniali sofferti da un minore soggetto alla potestà dei genitori, questi ultimi non necessitano dell’autorizzazione preventiva del giudice tutelare e ciò in quanto il risarcimento dei danni, mirando a far valere una pretesa creditoria del minore e quindi finalizzata alla tutela e alla conservazione del suo patrimonio non integra un atto eccedente l’ordinaria amministrazione. Gli atti di ordinaria amministrazione sono quelli utili al figlio minore, di valore non alto e che non comportano rischi. Cass. sez. III, 15 maggio 2003, n. 7546 In tema di amministrazione dei beni dei figli ex articolo 320 del codice civile, al di fuori dei casi specificamente individuati nella categoria degli atti di straordinaria amministrazione dal legislatore, vanno considerati di ordinaria amministrazione gli atti che presentino tutte e tre le seguenti caratteristiche: 1) siano oggettivamente utili alla conservazione del valore e dei caratteri oggettivi essenziali del patrimonio in questione; 2) abbiano un valore economico non particolarmente elevato in senso assoluto e soprattutto in relazione al valore totale del patrimonio medesimo; 3) comportino un margine di rischio concreto modesto in relazione alle caratteristiche del patrimonio predetto. Vanno invece considerati di straordinaria amministrazione gli atti che non presentino tutte e tre queste caratteristiche. La transazione è un atto di straordinaria amministrazione. Cass. sez III, 14 marzo 2003, n. 3795 La transazione dell’esercente la potestà genitoriale sui minori, costituisce atto di straordinaria amministrazione quando abbia per oggetto un danno che, per la natura ed entità, possa incidere profondamente nella vita presente e futura del minore danneggiato. Pertanto una transazione non autorizzata ai sensi dell’articolo 320 del Codice civile, dovrà ritenersi invalida nei confronti dei minori e tale invalidità è rilevabile d’ufficio da parte del giudice della cognizione. Provvedimenti del tribunale per i minorenni Se c’è conflittualità elevata tra i nuclei familiari non può essere accolta l’istanza dei nonni di incontri con i nipoti. Tribunale per i minorenni di Firenze, 27 dicembre 2004 Non può essere accolta la domanda proposta dai nonni gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 101 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA che lamentino ostacoli frapposti dai propri figli agli incontri con i nipoti, quante volte l’altissima conflittualità tra i due nuclei familiari rischi di introdurre elementi di disagio che possono compromettere l’armonico sviluppo del minore. Il tribunale per i minorenni può adottare misure di protezione del concepito imponendo alla gestante di seguire le direttive dl servizio sociale. Tribunale per i minorenni di Firenze, 28 agosto 2004 Qualora vi sia il rischio di pregiudizio per la legittima aspettativa del concepito alla nascita e alla vita come individuo sano, a causa delle condizioni e della condotta di vita irregolare della gestante, il giudice può imporre a quest’ultima tutte le prescrizioni occorrenti per la tutela del concepito stesso (nella specie, il tribunale per i minorenni ha prescritto alla gestante, persona in gravi condizioni psichiatriche, senza stabile dimora e dedita alla prostituzione, al settimo mese di gravidanza, di seguire le direttive del servizio sociale competente, e di adottare le cautele suggerite dalla scienza medica a tutela del concepito). Nei provvedimenti che limitano la potestà deve essere contenuto il termine della loro durata. Corte di Appello di Caltanissetta, 13 novembre 2003 La previsione di un termine finale di durata dei provvedimenti che incidono sull’affidamento dei minori - incidendo tali provvedimenti sull’ esercizio della potestà dei genitori si rende necessaria a seguito della sentenza 13 luglio 2000 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha rilevato la violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, con riferimento «al collocamento ininterrotto e privo di limite temporale dei bambini in una comunità». Pertanto, può derivare dalla richiamata interpretazione dell’art. 8 della Convenzione la necessità di prevedere un limite temporale di durata in tutti i casi in cui siano assunti provvedimenti che incidono, limitandola, sulla potestà genitoriale, perché l’omessa previsione di un termine finale di durata contraddice la dichiarata caratterizzazione «interinale» di tali provvedimenti. PROCEDIMENTO CIVILE MINORILE Competenza Il principio della perpetuatio iurisdictionis è applicabile anche ai procedimenti di decadenza della potestà parentale. Cass. sez. I, 8 maggio 2007 n. 10493 Il principio della perputuatio iurisidictionis (in virtù del quale la competenza territoriale del giudice adito rimane ferma, nonostante lo spostamento in corso di causa della residenza anagrafica o del domicilio del minore), è applicabile anche ai procedimenti di decadenza della potestà parentale e prevale su quello cosiddetto della “prossimità” (secondo cui territorialmente competente è il giudice del luogo in cui il minore abitualmente vive o si trova di fatto), per imprescindibili esigenze di certezza e di garanzia di effettività della tutela giurisdizionale, ogni qual volta il provvedimento in relazione al quale deve individuarsi il giudice competente sia il medesimo di cui all’istanza introduttiva. Viceversa, si applicherà il principio della “prossimità” quante volte sia richiesto un provvedimento nuovo e autonomo rispetto a quello pronunciato dal giudice originariamente competente. 102 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 I procedimenti sulla potestà sono di competenza del tribunale per i minorenni del luogo dove risiede il minore. Cass. sez. I, 31 gennaio 2006, n. 2171 In materia di provvedimenti relativi alla potestà genitoriale la competenza territoriale appartiene al tribunale per i minorenni del luogo dove il minore deve ritenersi dimori abitualmente al momento della domanda, senza che rilevino né i trasferimenti contingenti e temporanei o la mera residenza anagrafica del minore, né che il luogo in cui il minore abiti al momento di introduzione della domanda sia conseguenza della scelta unilaterale di uno dei genitori. Formula esecutiva A tutti i decreti camerali che hanno contenuto patrimoniale va apposta la formula esecutiva. Corte cost. 20 novembre 2009, n. 310 E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 ultimo comma della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (disposizioni in materia di separazione e affidamento condiviso dei figli) sollevata in riferimento agli articoli 3, 25 e 111 della Costituzione, essendo del tutto possibile, in via interpretativa, attribuire efficacia di titolo esecutivo ai provvedimenti a contenuto patrimoniale a favore dei figli naturali pronunciati dal tribunale per i minorenni. Ricorso per cassazione Sono ricorribili per cassazione per violazione di legge i decreti della corte d’appello nelle procedure ex art. 317 bis c.c. Cass. sez. I, 4 novembre 2009, n. 23411 Sono ricorribili per cassazione, nel regime dettato dalla legge n. 54/06, i provvedimenti emessi, ai sensi dell’art. 317 bis c.c., in sede di reclamo, relativi all’affidamento dei figli e alle relative statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare, anche nel caso di genitori non sposati. Sono ricorribili per cassazione per violazione di legge i decreti della corte d’appello nelle procedure ex art. 317 bis c.c. Cass. sez. I, 30 ottobre 2009, n. 23032 Sono ricorribili per cassazione, nel regime dettato dalla legge n. 54/06, i provvedimenti emessi, ai sensi dell’art. 317 bis c.c., in sede di reclamo, relativi all’affidamento dei figli e alle relative statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare, anche nel caso di genitori non sposati. I provvedimenti disposti dalla Corte d’appello ai sensi degli articoli 330 e 333 c.c. non sono ricorribili per cassazione nemmeno per violazione di legge. Cass. sez. I, 17 giugno 2009, n. 14091 Difettano dei requisiti di decisorietà e definitività e non sono ricorribili ai sensi dell’art. 111 cost. i provvedimenti adottati in sede di reclamo nell’interesse del minore, persino ove si intenda far valere, con il ricorso, la lesione del diritto processuale di azione. È inammissibile, pertanto, il ricorso per cassazione avverso il provvedimento (in sede di reclamo) emanato dal tribunale per i minorenni in tema di sospensione delle visite del minore ai nonni. Il procedimento, infatti, rientra nella giurisdizione volontaria, in quanto non volto a risolvere un conflitto tra diritti posti su un piano paritario, bensì preordinato all’esigenza prioritaria di tutela degli interessi del minore, come tale non suscettibile di tradursi in una decisione con attitudine al giudicato, neppure “rebus sic stantibus” perché modificabile e revocabile, non solo “ex nunc” per nuovi elementi sopravvenuti, ma anche “ex tunc”, per un riesame di merito o di legittimità delle originarie risultanze. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Non sono ricorribili per cassazione per violazione di legge i decreti con cui la Corte d’appello decide in materia di potestà. Cass. sez. I, 5 marzo 2008, n. 5953 I provvedimenti assunti a norma dell’art. 333 del codice civile dal tribunale per i minorenni costituiscono provvedimenti di giurisdizione volontaria non contenziosa, essendo preordinati all’esigenza prioritaria della tutela degli interessi dei figli minori e, ancorché emessi a seguito di reclamo, sono sempre revocabili e modificabili così da risultare inidonei ad assumere carattere di definitività ed efficacia di giudicato, con conseguente non proponibilità avverso di essi del ricorso ex art. 111 della Costituzione. I provvedimenti della Corte d’appello sulla potestà o previsti nell’art. 317 bis c.c. non sono ricorribili per cassazione a norma dell’articolo 111 della Costituzione. Cass. sez. I, 5 febbraio 2008, n. 2753 In tema di tutela dei minori, i provvedimenti riguardanti la potestà dei genitori naturali o relativi agli incontri del figlio con il genitore naturale non affidatario, ai sensi dell’art. 317-bis del codice civile resi dal giudice di secondo grado in esito a reclamo, non sono impugnabili con ricorso per cassazione a norma dell’articolo 111 della costituzione, perché sono privi dei requisiti della decisorietà e della definitività, essendo revocabili in ogni tempo per motivi originari o sopravvenuti e avendo la funzione non di decidere una lite tra due soggetti attribuendo a uno di essi un bene della vita, ma di controllare e governare gli interessi dei minori. È inammissibile il ricorso per cassazione avverso i decreti della Corte d’appello in materia minorile. Cassazione sezione I, 23 gennaio 2007, n. 1480 In tema di tutela dei minori, i provvedimenti emessi, in sede di reclamo, ai sensi dell’articolo 333 Cc, essendo sempre revocabili e modificabili, così da risultare inidonei ad assumere carattere di definitività ed efficacia di giudicato, non sono impugnabili con ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’articolo 111 Costituzione, neppure per fare valere la violazione di norme sulla competenza. I provvedimenti in materia di potestà sono ricorribili per cassazione per violazione di legge. Cass. sez. I, 30 dicembre 2004, n. 24265 E’ ammissibile il ricorso ai sensi dell’art. 111 comma 7 Cost. avverso i decreti della Corte d’appello resi in sede di modifica delle condizioni di separazione riguardanti il mantenimento dei figli,l’affidamento ed i rapporti con il genitore non affidatario, avendo tali decreti natura decisoria e definitiva, pur essendo suscettibili di revisione ai sensi dell’art. 155 ultimo comma codice civile. I provvedimenti in materia di potestà non sono ricorribili per cassazione neanche per violazione di legge. Cass. sez. I, 16 luglio 2004, n. 13161 Il provvedimento emesso dalla Corte di appello, sezione minorenni, in sede di reclamo di provvedimento adottato dal tribunale dei minorenni o a modifica di una propria precedente decisione in tema di diritto di visita dal genitore nei confronti dei figli minori, manca dei requisiti della decisorietà (intesa come risoluzione di una controversia su diritti soggettivi o status) e della definitività (intesa come mancanza di rimedi diversi e come attitudine del provvedimento a modificare con l’efficacia propria del giudicato quei diritti o quegli status), essendo revocabile o modificabile in ogni tempo, per motivi originari o sopravvenuti e avendo la funzione non di decidere una lite tra due soggetti, attribuendo a uno di essi un bene della vita, ma di controllare l’esercizio della potestà e governare gli interessi dei minori. È inammissibile il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti del giudice minorile in materia di potestà. Cass. sez. I, 29 aprile 2004, n. 8208 I provvedimenti resi dal giudice minorile ai sensi degli articoli 330, 332 e 333 del Cc, o che dettino (come nella specie) disposizioni per ovviare alla condotta di uno o di entrambi i genitori costituiscono espressione di giurisdizione volontaria non contenziosa, poiché non risolvono conflitti tra diritti posti su piano paritario, ma sono intesi a soddisfare l’esigenza prioritaria della tutela degli interessi della prole, laddove, pur restando soggetti alle regole generali del rito camerale (ancorché con le integrazioni e le specificazioni di cui all’articolo 356 del Cc) e pur potendo, quindi, essere adottati o confermati dalla Corte di appello in esito a reclamo, non sono idonei ad acquistare autorità di cosa giudicata, nemmeno rebus sic stantibus in quanto risultano modificabili e revocabili, non solo ex nunc, per la sopravvenienza di nuovi elementi, ma anche ex tunc per un riesame (di merito o di legittimità) delle originarie risultanze onde tali provvedimenti, palesandosi privi dei caratteri della decisorietà e della definitività, esulano dalla previsione dell’articolo 111 della Costituzione e non sono impugnabili con il ricorso straordinario per Cassazione. Non sono ricorribili per cassazione ex art. 111 cost. i provvedimenti concernenti i minori perché sono sempre revocabili. Cass. sez. I, 3 febbraio 2004, n. 1920 In tema di decadenza o di reintegrazione nella potestà, i provvedimenti di affidamento della prole e quelli emessi ai sensi dell’articolo 333 del Cc, nel quadro degli atti innominati incidenti sull’esercizio della potestà dei genitori, non sono ricorribili per cassazione, in quanto non sono assistiti dall’autorità del giudicato sostanziale, ma si caratterizzano per un’efficacia meno intensa, propria dei provvedimenti camerali di giurisdizione volontaria, i quali sono soggetti a modifica o a revoca da parte dello stesso giudice che li ha emessi. Non sono ricorribili per cassazione ex art. 111 cost. i provvedimenti concernenti i minori perché sono sempre revocabili. Cass. sez. I, 15 luglio 2003, n. 11026 In tema di decadenza o di reintegrazione nella potestà, i provvedimenti di affidamento della prole e quelli emessi ai sensi dell’articolo 333 del Cc, nel quadro degli atti innominati incidenti sull’esercizio della potestà dei genitori, non sono ricorribili per cassazione, in quanto non sono assistiti dall’autorità del giudicato sostanziale, ma si caratterizzano per un’efficacia meno intensa, propria dei provvedimenti camerali di giurisdizione volontaria, i quali sono soggetti a modifica o a revoca da parte dello stesso giudice che li ha emessi. PROCESSO CIVILE Appello e reclamo L’appello va notificato alla parte divenuta maggiorenne anche se la raggiunta maggiore età non è stata dichiarata o notificata nel corso del giudizio di primo grado. Cass. sez. unite, 28 luglio 2005, n. 15783 La legittimazione a compiere e ricevere gli atti del giudizio di impugnazione resta influenzata dalla nuova situazio- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 103 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA ne soggettiva di una delle parti. Perciò sia nel caso di evento - quale la raggiunta maggiore età del minore - verificatosi dopo la discussione, ma anche nell’ipotesi in cui l’evento è accaduto nella fase attiva del processo e non dichiarato né notificato, l’evento stesso riacquista alle soglie dell’appello la rilevanza propria della morte o di altro evento prima della costituzione in giudizio con la conseguente individuazione del destinatario della notificazione dell’impugnazione non nei suoi legali rappresentanti ma nella persona divenuta nel frattempo maggiorenne. Nel giudizio di appello di separazione e di divorzio sono inammissibili nuovi mezzi di prova salvo che la Corte non li ritenga indispensabili e salvo che la parte non li abbia potuti produrre in primo grado per causa a lei non imputabile. Cass. sez. I, 10 giugno 2005, n. 12291 Nel giudizio di appello, anche nelle controversie di divorzio (e di separazione personale dei coniugi) sono inammissibili nuovi mezzi di prova ancorché si tratti di prove documentali, salvo che il collegio ritenga tali mezzi indispensabili ai fini della decisione o la parte dimostri di non averli potuto produrre nel giudizio di primo grado, per causa a lei non imputabile. La violazione del divieto in parola, comunque, può essere ravvisata solo allorché una tale produzione abbia avuto rilievo decisivo ai fini della pronuncia, traducendosi in tale caso in un difetto di motivazione. (Nella specie, in applicazione del riferito principio la Suprema corte pur affermando l’irritualità della produzione di nuovi documenti in appello, ha affermato che non poteva pervenirsi alla cassazione della sentenza impugnata perché nell’ambito della motivazione il richiamo ai documenti inammissibilmente prodotti dall’appellante aveva assunto un aspetto meramente marginale). La produzione di documenti nel giudizio di divorzio in appello è possibile sino all’udienza di discussione in camera di consiglio. Cass. sez. I, 27 maggio 2005, n. 11319 Nel giudizio di divorzio, in grado di appello, soggetto al rito camerale ex articolo 4, comma 12, della legge n. 898 del 1970, l’acquisizione dei mezzi di prova e, segnatamente, dei documenti è ammissibile sino all’udienza di discussione in camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio, che costituisce esigenza irrinunciabile anche nei procedimenti in discorso. Deriva, da quanto precede, pertanto, che, assegnati distinti termini alle parti per il deposito di memorie e di documenti e per repliche nonché fissata udienza, in camera di consiglio, per l’audizione delle parti e la discussione del ricorso, deve essere cassata la sentenza che ha negato il diritto all’assegno divorzile in favore di una delle parti su fatti nuovi evidenziati dall’altra, mediante il deposito di documenti unicamente all’udienza di discussione pur in presenza di tempestiva eccezione di inammissibilità della produzione tardiva svolta dalla controparte specie ove il giudice non abbia consentito l’esplicarsi del contraddittorio mediante rinvio dell’udienza medesima e nella sentenza non siano state esplicate le ragioni di rigetto dell’eccezione di inammissibilità della produzione. Il divieto di ammissione di nuovi mezzi in appello riguarda anche le prove precostituite. Cass. sez. unite, 20 aprile 2005, n. 8203 Il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, stabilito dall’art. 345, 3° comma, c.p.c., nel testo sostituito dall’art. 52 l. n. 353 del 1990, riguarda anche le prove c.d. precostituite, quali i documenti, la cui produzione, pertanto, è subordinata, al pari delle prove c.d. costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, 104 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 che abbia impedito alla parte di produrli in primo grado ovvero alla valutazione della loro indispensabilità. Le Sez. unite risolvono con questa decisione - contestata dalla dottrina che ritiene sempre liberamente producibili i nuovi documenti (cfr Domenico Dalfino, Carlo Maria Barone, Andrea Proto Pisani in nota alla sentenza) - il contrasto tra due orientamenti contrapposti. L’orientamento prevalente ritiene che l’art. 345 c.p.c. (il quale prevede il divieto in appello di nuovi mezzi di prova salvo la sussistenza di una causa non imputabile alla parte e salvo che il collegio non li ritenga indispensabili) si applichi alle sole prove costituende e non riguardi le prove precostituite, cioè i documenti. L’altro orientamento, invece, ritiene che il divieto si applichi anche ai documenti. E’ quest’ultima l’interpretazione che le Sez. unite hanno privilegiato. Nel giudizio di impugnazione della separazione è ammissibile l’appello incidentale. Cass. sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309 Come precisato nella sentenza della Corte costituzionale n. 543 del 1989 e secondo l’indirizzo ripetutamente ribadito da questa Cassazione (Cass. 28 aprile 1995, n. 4720; Cass. 29 agosto 1998, n. 8654; Cass. 16 aprile 2003, n. 6011), è ammissibile l’appello incidentale nel procedimento camerale, mediante memoria da depositare, al più tardi, entro la prima udienza, anche indipendentemente dalla scadenza del termine per l’esperimento del gravame in via principale ex art. 334 c.p.c. Il reclamo avverso i provvedimenti del giudice tutelare si presenta al tribunale e non alla Corte d’appello. Cass. sez. I, 9 gennaio 2004, n. 122 La competenza a conoscere dei reclami avverso i provvedimenti del giudice tutelare è del tribunale ordinario o del tribunale per minorenni, a seconda dei casi (art. 45 disp. att. cod. civ.) e non della Corte d’appello. Prove raccolte in altro giudizio Il giudice può utilizzare prove raccolte in altri procedimenti. Cass. sez. III, 9 febbraio 2008, n. 4239 Il giudice del merito, in mancanza di qualsiasi divieto e in virtù del principio dell’unità della giurisdizione, può utilizzare anche prove raccolte in un diverso procedimento, svolto non solo tra le stesse parti, ma anche tra parti diverse, e pertanto può desumere dalle risultanze di esso i medesimi elementi sui quali fondare la sua decisione. Ricorso per cassazione I provvedimenti camerali di revisione dell’assegno emessi dalla Corte d’appello sono ricorribili per cassazione solo per violazione di legge. Cass. sez. I, 16 maggio 2005, n. 10229 Il decreto emesso in camera di consiglio dalla Corte d’appello a seguito di reclamo avverso i provvedimenti emanati dal tribunale (sempre in camera di consiglio) sull’istanza di revisione delle disposizioni relative alla misura e alle modalità dell’assegno, posto precedentemente a carico di uno dei coniugi dalla sentenza che aveva pronunciato la separazione, può essere impugnato avanti la Corte di cassazione solo con il ricorso straordinario per violazione di legge ex articolo 111 della Costituzione, essendo preclusa la proponibilità di un ordinario ricorso per cassazione dall’articolo 739, comma 3, del Cpc, applicabile a tutti i procedimenti in camera di consiglio anche di natura contenziosa, in forza dell’effetto estensivo previsto dall’articolo 742-bis del Cpc. Ne consegue che il suddetto ricorso straordinario può investire la motivazione del provvedimento solo per la- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA mentarne la radicale carenza o la mera apparenza e non già per dedurne eventuali lacune o inadeguatezze, riconducibili al n. 5 dell’articolo 360 del codice di procedura civile. È inammissibile il ricorso per cassazione avverso il diniego di interrompere l’alimentazione artificiale. Cass. sez. I, 20 aprile 2005, n. 8291 E’ inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso il decreto della corte d’appello che abbia rigettato la richiesta del tutore di interrompere l’alimentazione artificiale nei confronti dell’interdetto in stato vegetativo permanente che non sia stato notificato ad alcuno dei necessari contraddittori. È ammissibile il ricorso straordinario per violazione di legge avverso i provvedimenti in materia di affidamento dei figli. Cass. sez. I, 30 dicembre 2004, n. 24265 In consapevole contrasto con l’orientamento seguìto da alcune pronunce di questa corte che hanno ritenuto che i provvedimenti resi in sede di modifica delle condizioni della separazione o di divorzio riguardanti il mantenimento dei figli, l’affidamento ed i rapporti con il genitore non affidatario, in quanto modificabili e revocabili in ogni tempo, non siano ricorribili per cassazione (v. Cass. n. 9484 del 2002, Foro it., Rep. 2002, voce Separazione di coniugi, n. 70; n. 4499 del 2002, ibid., n. 69; n. 4988 del 1999, id., Rep. 1999, voce cit., n. 100; n. 8046 del 1998, ibid., n. 99; n. 8495 del 1997, id., Rep. 1998, voce cit., n. 103), ed in adesione al diverso indirizzo seguìto, tra le altre, da Cass. n. 5201 del 1999 (id., Rep. 1999, voce cit., n. 101); n. 6621 del 1991 (id., 1993, I, 1247); n. 2050 del 1988 (id., Rep. 1988, voce Matrimonio, n. 164), avverso provvedimenti siffatti è proponibile il ricorso straordinario di cui all’ art. 111 Costituzione. I provvedimenti della Corte d’appello in materia di sequestro ex art,. 156 cc non sono ricorribili per cassazione. Cass. sez. I, 21 dicembre 2004, n. 23713 È inammissibile il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il provvedimento della corte d’appello, con cui sia stata dichiarata inapplicabile al coniuge, separato solo di fatto, la previsione dell’ art. 156 comma 6 cod. civ., circa il pagamento diretto dell’assegno di mantenimento. Rito camerale A tutti i decreti camerali che hanno contenuto patrimoniale va apposta la formula esecutiva. Corte cost. 20 novembre 2009, n. 310 E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 ultimo comma della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (disposizioni in materia di separazione e affidamento condiviso dei figli) sollevata in riferimento agli articoli 3, 25 e 111 della Costituzione, essendo del tutto possibile, in via interpretativa, attribuire efficacia di titolo esecutivo ai provvedimenti a contenuto patrimoniale a favore dei figli naturali pronunciati dal tribunale per i minorenni. Anche per i decreti camerali è applicabile in difetto di notificazione il termine di un anno per l’impugnazione. Cass. sez. I, 26 agosto 2004, n. 17014 Il comma 1 dell’art. 327 c.p.c. (che fissa il termine dell’anno dalla pubblicazione della sentenza per la proposizione dei mezzi di impugnazione ordinari indipendentemente dalla notificazione), è analogicamente applicabile anche al di fuori delle situazioni di contumacia e nei giudizi che iniziano con ricorso. Il contraddittorio può esplicarsi con pienezza anche con la forma scritta. Cass. sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351 Nel procedimento camerale concernente diritti o “status” (riguardante, nella fattispecie, la dichiarazione giudiziale di paternità di minore) non è ravvisabile, nell’attività svolta dal giudice delegato dal collegio, alcuna espropriazione dei poteri riservati a quest’ultimo, né alcuna compromissione del diritto di difesa e del contraddittorio allorché i difensori delle parti non siano stati sentiti direttamente dal collegio, quando essi abbiano avuto la possibilità di depositare memorie scritte, atteso che il principio del contraddittorio non implica necessariamente oralità, ma può esplicarsi con pienezza anche attraverso la forma scritta. PROCREAZIONE ASSISTITA Diagnosi di preimpianto Appare incostituzionale il divieto della diagnosi di preimpianto previsto nella legge sulla procreazione assistita. Tribunale di Cagliari, 16 luglio 2005 E’ rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3 e 32 della Costituzione, la questione di legittimità dell’articolo 13 della legge 40/2004 (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”), nella parte in cui fa divieto di ottenere, su richiesta dei soggetti che hanno avuto accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, la diagnosi preimpianto sull’embrione ai fini dell’accertamento di eventuali patologie dell’embrione stesso, suscettibili di nuocere, se conosciute, alla salute fisica o psichica della madre. Divieto di congelamento Il divieto di congelamento degli embrioni presuppone anche il divieto di congelamento degli ovociti fecondati. Tribunale di Roma, 23 febbraio 2005 L’interpretazione dell’art. 14 legge 19 febbraio 2004, n. 40 non può prescindere dallo spirito complessivo della legge e dalle finalità dalla stessa perseguite; ciò consente di affermare che l’espressione letterale di embrione utilizzata dalla norma in parola sia sganciata dalla accezione e dai contenuti propri utilizzati nel mondo scientifico e che la volontà della legge sia quella di tutelare anche l’ovocita fecondato quale potenziale embrione, con la conseguenza che il divieto di congelamento dell’ovocita fecondato rientra nella previsione di divieto di congelamento dell’embrione. Per tali motivi va rigettata la richiesta di provvedimento d’urgenza avanzata da una coppia che ha fatto ricorso a tecniche di procreazione assistita, la quale chieda procedersi alla crioconservazione degli ovociti fecondati e non utilizzati, al fine di aumentare la possibilità di successo della terapia, in quanto nel divieto di crioconservazione degli embrioni, previsto dall’art. 14 l. n. 40 del 2004, devono ritenersi ricompresi anche gli ovociti fecondati. La legge sulla procreazione assistita non attribuisce un diritto ad avere un figlio conforme ai propri desideri. Tribunale di Catania, 3 maggio 2004 Non è configurabile un diritto della coppia di selezionare i nascituri in sani e malati, eliminando questi ultimi. La legge n. 40 del 2004 non incide su diritti fondamentali della persona, che non ha un diritto fondamentale a produrre un figlio conforme ai suoi desideri; non comprime diritti per gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 105 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA ragioni di ordine politico o amministrativo, ma per ragioni connesse alla tutela della vita, attuando un bilanciamento dei plurimi valori in gioco. Le questioni di costituzionalità prospettate con riguardo agli art. 2, 3, e 32, comma 2, cost., sono pertanto manifestamente infondate. È infondata, in relazione agli art. 2, 3, 32 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui obbliga a trasferire in utero tutti gli embrioni prodotti, anche se affetti da malattia genetica. Poiché l’art. 14, comma 1 della legge n. 40 del 2004 vieta la crioconservazione e la soppressione di embrioni, tutti gli embrioni prodotti debbono essere trasferiti nell’utero della donna, senza che sia possibile distinguere tra embrioni sani ed embrioni portatori di malattia genetica. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in merito all’obbligo legale d’impiantare, contestualmente tutti gli embrioni formati attraverso fecondazione in vitro, e l’implicito divieto di rifiutare quelli geneticamente malformati, in quanto non viola i diritti fondamentali della persona, e della donna in particolare, ed avendo fondamento nella tutela dell’embrione stesso e della salute collettiva. La l. n. 40 del 2004 tende alla tutela della vita, inclusa quella dell’embrione, e poiché i soggetti da proteggere sono numerosi (l’aspirante madre, l’aspirante padre, gli embrioni, la società) ed in potenziale conflitto di interessi tra loro, opera un bilanciamento fra di essi, sottraendolo alla decisione della sola futura madre. PROMESSA DI MATRIMONIO Restituzione dei doni Costituisce dono prenuziale il finanziamento da parte del fidanzato della futura casa familiare. Cass. sez. III, 15 febbraio 2005, n. 2974 Il finanziamento di opere di ristrutturazione di un immobile da destinarsi a futura residenza familiare, qualora il fidanzato disponente - a seguito della rottura del fidanzamento - non riesca a provare il diverso titolo costitutivo della pretesa restitutoria, può configurarsi quale dono prenuziale ai sensi dell’art. 80 cod. civ.: di conseguenza, la domanda giudiziale di restituzione deve essere proposta entro un anno dal rifiuto di celebrare le nozze, e, trattandosi di un termine di decadenza, quest’ultima può essere impedita dal riconoscimento del diritto proveniente da colui contro il quale il medesimo può essere fatto valere ex art. 2966 cod. civ. Le somme elargite allo scopo di ristrutturare l’immobile del futuro coniuge vanno restituite se il matrimonio non ci celebra. Tribunale di Napoli, 27 gennaio 2005 Nella nozione di “doni”, da restituire in caso di mancato matrimonio, vanno ricomprese tutte le attribuzioni a titolo gratuito effettuate tra promessi sposi in vista delle future nozze, a prescindere dal valore del bene donato (nella fattispecie, sono state ritenute tali le somme elargite allo scopo di ristrutturare l’immobile del futuro coniuge, da adibire a casa coniugale). Risarcimento È risarcibile la lesione delle aspettative di buone fede conseguenti alla promessa di matrimonio. Tribunale di Genova, 17 gennaio 2004 106 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Il fondamento dell’obbligo risarcitorio è posto non nell’inadempimento a una promessa vincolante (essendo al contrario pacifico che la promessa di matrimonio non ha effetti obbligatori) bensì in un comportamento lesivo delle aspettative di buona fede che nascono tra due persone in un rapporto di fidanzamento. REGIME FISCALE DELLA FAMIGLIA Presupposti Il presupposto impositivo è costituito dalla produzione dei redditi ed è inibito ad uno dei coniugi di modificare questo presupposto. Cass. sez. tributaria, 24 febbraio 2005, n. 3866 Il privato può sicuramente disporre sulla destinazione del reddito, derivante da una attività individuale, prevedendo che il regime di comunione dei beni fra coniugi si estenda anche ai proventi delle attività individuali dei coniugi, ma non può attribuire a tale pattuizione un valore di accertamento costitutivo dell’imputazione soggettiva della produzione del reddito. I proventi dell’attività separata di ciascun coniuge, anche in regime di comunione legale, sono a lui imputati in ogni caso per l’intero ammontare. Cass. sez. tributaria, 19 gennaio 2005, n. 1034 In tema di irpef l’art. 4, lett. a), secondo periodo, DPR 22 dicembre 1986 n. 917 (periodo aggiunto dall’art. 26 d.l. 2 marzo 1989 n. 69, convertito nella l. 27 aprile 1989 n. 154), stabilisce chiaramente che tra i redditi suddivisi tra i coniugi in regime di comunione legale non sono compresi quelli derivanti dall’attività separata di ciascuno di essi, che vanno imputati per intero al coniuge percipiente, senza che sia possibile interpretare la norma nel senso di escluderne dall’ambito applicativo i nuclei familiari monoreddito. Né tale regime fiscale può formare oggetto di questione di legittimità costituzionale in riferimento agli art. 3, 29, 31 e 53 cost., poiché la Corte costituzionale, con la sentenza n. 358 del 1995, pur avendo rilevato che l’attuale trattamento fiscale della famiglia penalizza i nuclei monoreddito, ha dichiarato l’inammissibilità di analoga questione (concernente l’art. 3 del DPR n. 597 del 1973), spettando unicamente al legislatore - per la pluralità e complessità delle scelte possibili - apprestare i rimedi per il necessario ristabilimento dell’equità fiscale in materia. Il regime fiscale della famiglia è impostato, per un verso, sull’esclusione della famiglia dai soggetti passivi di imposta e, per altro verso, sul principio dell’imposizione separata, cioè dell’imputazione del reddito al soggetto che lo produce. Cass. sez. tributaria, 26 aprile 2004, n. 7951 Il regime normativo della famiglia è impostato, per un verso, sull’esclusione della famiglia dai soggetti passivi di imposta e, per altro verso, sul principio dell’imposizione separata, cioè dell’imputazione del reddito al soggetto che lo produce, con esclusione dei familiari sprovvisti di redditi propri, mentre è fatto divieto del cd. cumulo del reddito dei coniugi - a seguito della relativa declaratoria di incostituzionalità - come del cd. “splitting”, ossia del metodo di calcolo che consiste, dapprima, nella “scomposizione in quote” della somma dei redditi prodotti dai membri della famiglia, in tante parti uguali quanti sono i familiari, e, poi, nella imputazione a ciascuno di essi della somma così ottenuta. Allo scopo di assicurare il rispetto del principio di capacità MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA contributiva e del principio di uguaglianza, riconoscendo rilevanti le diverse situazioni familiari (famiglia monoreddito e no, famiglia con prole e senza, famiglia con anziani o con handicappati e senza) ed attenuando gli effetti distorsivi bidirezionali del principio dell’imposizione separata per individui, il legislatore, con valutazioni discrezionali - sindacabili sotto il profilo della costituzionalità solo nei limiti dell’irragionevolezza o dell’irrazionalità o dell’arbitrio - ha utilizzato gli strumenti della detrazione dall’imposta e della deduzione dalla base imponibile, realizzando un sistema sinora sempre ritenuto, dal Giudice delle leggi, conforme alla Costituzione, persino allorché ebbe a reiterare il monito al legislatore di intervenire per “non consentire ulteriormente il protrarsi delle sperequazioni in danno delle famiglie monoreddito e numerose”; con la conseguenza che, in ragione della imputazione personale del reddito prodotto e del divieto dello “splitting”, ogni tentativo di scomposizione sarebbe arbitrario. REGOLAMENTO EUROPEO SULLA FAMIGLIA Dichiarazione di esecutività Il cambio di affidamento richiede sempre la dichiarazione di esecutività per essere eseguito. Cassazione sezione unite, 20 dicembre 2006, n. 27188 Nella disciplina del regolamento Ce 2201/2003 la decisione del giudice italiano che modifichi una precedente scelta e sostituisca l’uno o l’altro genitore nella qualità di affidatario del figlio minore, non autorizza il nuovo affidatario a prelevare e trasferire il minore stesso dallo Stato membro in cui risieda assieme al precedente affidatario, rendendosi a tal fine necessaria la dichiarazione di esecutività di cui all’articolo 28. RESPONSABILITÀ CIVILE Danno biologico Il danno biologico in caso di morte dopo un determinato intervallo di tempo determinato dall’evento lesivo va liquidato tenendo conto delle tabelle sulla inabilità temporanea e non quelle sull’invalidità permanente. Cass. sez. III, 9 ottobre 2009, n. 21497 Qualora le lesioni abbiano cagionato la morte del danneggiato dopo un apprezzabile intervallo di tempo, il danno biologico deve essere liquidato considerando l’inabilità temporanea. Infatti, quando il giudice adotta il criterio tabellare non può prendere come riferimento le tabelle per l’invalidità permanente, poiché queste ultime sono formate sulla base della vita media futura presunta. Il risarcimento va quindi commisurato al numero dei giorni di sopravvivenza della persona, tenendo conto che le lesioni ne hanno provocato la morte. Danno non patrimoniale La violazione dell’integrità fisica comporta sempre un danno non patrimoniale risarcibile. Tribunale Genova, sez. II, 16 ottobre 2009 In materia di danno non patrimoniale, la sussistenza di una violazione di diritto di rango costituzionale (il diritto all’integrità fisica), priva di ulteriori conseguenze dannose risarcibili (nel caso di specie, errore diagnostico), è uno dei casi tipici in cui l’art. 2059 c.c. autorizza il risarcimento di tale danno, svolgendo la funzione di assicurare una “reazione minima” dell’ordinamento ad una fattispecie che la costituzione stessa qualifica come illecita. Nel caso di specie, lo stato di sofferenza, pur privo di caratteri patologi, consistente in un pensiero negativo e prevalente, e tuttavia non irrazionale alla luce del rischio corso, si configura quale un danno non patrimoniale risarcibile, assimilabile ad un danno morale e liquidabile in via equitativa. Il danno non patrimoniale va risarcito nei casi previsti dalla legge e in caso di lesione di interessi costituzionalmente garantiti e presuppone che la lesione sia grave e che il danno non sia futile. Cass. sez. unite, 19 agosto 2009, n. 18356 In tema di responsabilità per fatto illecito, rientra tra i principi informatori della materia, ai quali è tenuto a uniformarsi il g.d.p. nel giudizio di equità, quello di cui al disposto dell’art. 2059 c.c. il quale, secondo una lettura costituzionalmente orientata, non disciplina un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella prevista dall’art. 2043 c.c., ma regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto dell’esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c., con la peculiarità della tipicità di detto danno, stante la natura dell’art. 2059 c.c., quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge ovvero ai diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria, e con la precisazione, in tale ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l’interesse leso e non il pregiudizio in conseguenza sofferto, e che la risarcibilità del danno non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave e che il danno non sia futile. Il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate e il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. Cass. sez. unite, 11 novembre 2008, n. 26972 Cass. sez. unite, 11 novembre 2008, n. 26973 Cass. sez. unite, 11 novembre 2008, n. 26974 Cass. sez. unite, 11 novembre 2008, n. 26975 Il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata danno esistenziale perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. È compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 107 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione Non sono meritevoli di tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale. Il danno morale non può essere liquidato in modo simbolico, automatico o pro quota come una lesione di minor conto. Cass. sez. III, 4 marzo 2008, n. 5795 Nel caso di accertamento di un danno biologico di rilevante entità e di duratura permanenza, il danno morale, come lesione dell’integrità morale della persona, non può essere liquidato in automatico e pro quota come una lesione di minor conto. Il danno morale è ingiusto così come il danno biologico e nessuna norma costituzionale consente al giudice di stabilire che l’integrità morale valga la metà di quella fisica. Il danno morale ha una propria fisionomia e precisi referenti costituzionali, attenendo alla dignità della persona umana e dunque il suo ristoro deve essere tendenzialmente satisfattivo e non simbolico. Il danno morale per morte del figlio va sempre integralmente risarcito. Cass. sez. III, 27 giugno 2007, n. 14845 Il danno morale ai genitori va risarcito integralmente anche se il figlio, un giovane professionista celibe morto in un incidente stradale, aveva compiuto una scelta di vita autonoma. E l’equità del giudice deve essere adeguatamente espressa, valutando tutte le circostanza note e non contestate. Se il fattore della convivenza familiare esalta maggiormente il vincolo comune, la comunione di affetti e di solidarietà può ben sussistere anche nel caso di una scelta di vita autonoma da parte del figlio: i legami spirituali sono altrettanto stretti e degni di essere tutelati. Il danno non patrimoniale va risarcito nei casi previsti dalle legge ordinaria e nei casi di lesione di valori tutelati dalla Costituzione. Cass. sez. III, 20 aprile 2007 n. 9510 Non forma oggetto di tutela una generica categoria di danno esistenziale nella quale far confluire fattispecie non previste dall’articolo 2059 del Cc e non ricavabili dall’interpretazione costituzionale, ma il danno non patrimoniale deve essere risarcito, oltre che nei casi previsti dalla legge ordinaria, anche nei casi di lesione di valori della persona umana costituzionalmente protetti, quali la salute, la famiglia, la reputazione, la libertà di pensiero. Come già affermato dalla recente sentenza n. 23918/2006, la responsabilità aquilana va ricondotta nell’ambito della bipolarità prevista dal “codice vigente” tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c. ) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.); ferma la tipicità prevista da quest’ultima norma, il danno non patrimoniale deve essere risarcito non solo nei casi previsti dalla legge ordinaria, ma anche nei casi di lesione di valori della persona umana costituzionalmente protetti (quali la salute, la famiglia, la reputazione, la libertà di pensiero) ai quali va riconosciuta la tutela minima, che è quella risarcitoria; ne consegue che non può formare oggetto di tutela una generica categoria di “danno esistenziale” nella quale far confluire fattispecie non previste dalla norma e non ricavabili dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c . Pertanto, qualora, in relazione ad una lesione del bene alla salute, sia stato liquidato il “danno biologico”, che include ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzio- 108 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 ne o nella perdita della capacità di produrre reddito, ivi compresi il danno estetico e il danno alla vita di relazione, non v’è luogo per una duplicazione liquidatoria della stessa voce di danno, sotto la categoria generica del “danno esistenziale” (in senso conf. Cass. 11761/06 e 15022/05). Mentre il danno biologico della persona deceduta in conseguenza ed immediatamente dopo un sinistro non è risarcibile iure ereditatis, è trasmissibile invece agli eredi il danno morale. Cass. sez. III, 19 febbraio 2007, n. 3760 In tema di risarcimento del danno, nel caso di lesioni mortali che abbiano determinato in capo alla vittima breve spazio di sopravvivenza (non importa se in stato di lucidità o di coma), ne è esclusa la risarcibilità iure hereditatis come danno reale non patrimoniale di natura biologica. Il danno morale subito dalla persona deceduta in seguito alla lesione penalmente rilevante è trasmissibile agli eredi come posta risarcitoria in virtù del principio informatore dell’integrale risarcimento di tale tipo di danno. Infatti, l’integrità morale della persona possiede valenza costituzionale di inviolabilità, da cui l’autonomia ontologica di tale danno, onde la doverosità di una adeguata considerazione ai fini del riconoscimento della posta risarcitoria non patrimoniale e della sua trasmissibilità iure hereditatis. Il danno esistenziale costituisce una componente autonoma del danno. Cassazione sez. III, 6 febbraio 2007, n. 2546 Il danno esistenziale, da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile) che alteri le abitudini e gli assetti relazionali propri del soggetto, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, non costituisce una componente o voce né del danno biologico né del danno morale, ma un autonomo titolo di danno, il cui riconoscimento non può prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo del giudizio sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. In mancanza, la richiesta fattane per la prima volta in appello è da ritenere nuova e inammissibile, ex articolo 345 del codice di procedura civile. (M. PIS) Il risarcimento per danno non patrimoniale può essere liquidato nel processo di separazione. Tribunale di Brescia, sez. II, 14 ottobre 2006 L’omossessualità del marito che determina la rottura del rapporto matrimoniale è fonte di responsabilità extracontrattuale nei confronti della moglie e il tribunale può liquidare il danno non patrimoniale con la sentenza di separazione. Il danno esistenziale da perdita di congiunto può essere provato anche attraverso presunzioni. Cass. sez. II, 12 giugno 2006, n. 13546 La prova del danno esistenziale da uccisione dello stretto congiunto, che deve essere accertato e liquidato anche quando venga genericamente chiesto il risarcimento del danno non patrimoniale, è a carico del danneggiato e può essere data anche a mezzo di presunzioni. Il danno esistenziale si può provare anche per presunzioni. Cass. sez. unite, 24 marzo 2006, n. 6572 In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamene ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell’integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio cori tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del dato re di lavoro comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex articolo 115 del Cpc, a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. La prova del danno da eccessiva durata del procedimento di divorzio deve essere molto rigorosa. Cass. sez. I, 4 ottobre 2005, n. 19354 Il nesso causale tra l’eccessiva durata di un procedimento di divorzio ed il venir meno di un nuovo progetto matrimoniale deve essere debitamente provato, non essendo un elemento probatorio sufficiente la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà sottoscritta da chi decise di troncare la relazione sentimentale.Il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia comprensiva di ogni ipotesi di ingiusta lesione di un valore inerente alla persona umana, costituzionalmente protetto, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica. Il danno esistenziale costituisce una voce del danno non patrimoniale. Il danno da lesione di interessi costituzionalmente protetti è un danno non patrimoniale tipico che va sempre dimostrato. Di conseguenza non esiste una categoria generica di danno cosiddetto esistenziale. Cass. sez. III, 15 luglio 2005, n. 15022 Il danno non patrimoniale è una categoria ampia, comprensiva non solo di quel che un tempo veniva chiamato “danno morale”, e cioè della mera sofferenza, ma anche di qualsiasi altro pregiudizio non suscettibile di valutazione economica. Il danno non patrimoniale, al contrario di quello patrimoniale è per definizione “tipico”: infatti non tutti i pregiudizi o disagi non pecuniari sono risarcibili, ma solo quelli espressamente dichiarati tali dalla legge, ovvero derivanti dalla lesione di valori inviolabili della persona. Poiché il danno non patrimoniale è essenzialmente tipico, cioè risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, non è concepibile nel nostro ordinamento alcuna generica categoria di danno non patrimoniale definibile come “danno esistenziale”, nella cui genericità e indefinitezza confluiscono pregiudizi patrimoniali atipici e perciò irrisarcibili alla stregua dell’art. 2059 cod. civ. Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, in quanto scaturente da un valore della persona costituzionalmente garantito, è sempre risarcibile ex art. 2059 cod. civ. Tale danno tuttavia non è mai “in re ipsa”, ma va debitamente dedotto e dimostrato, sia pure in base al notorio o a presunzioni semplici. La circostanza che l’attore si sia limitato a domandare il risarcimento dei “danni morali”, senza ulteriori specificazioni, non comporta di per sé la volontà di abdicare al risarcimento degli ulteriori e diversi danni non patrimoniali eventualmente patiti (segnatamente, i pregiudizi non patrimoniali costituiti dalla lesione di interessi costituzionalmente protetti), a meno che tale volontà non sia chiaramente ricavabile in via interpretativa dal contesto dell’atto di citazione. Sono risarcibili i danni morali ai nipoti per la morte del nonno. Cass. sez. III, 15 luglio 2005, n. 15019 Il danno derivante dalla morte di un congiunto (nella specie ascendente in linea retta), incidendo esclusivamente sulla psicologia, sugli affetti e sul legame parentale esistente tra la vittima dell’atto illecito e i superstiti, è riconoscibile soltanto attraverso elementi indiziari e presuntivi, che, opportunamente valutati con il ricorso a un criterio di normalità, possono determinare il convincimento del giudice. Le dichiarazioni rese dalla parte nell’interrogatorio libero di cui all’articolo 117 del Cpc, pur non essendo un mezzo di prova, possono essere fonte anche unica del convincimento del giudice di merito, al quale è riservata la valutazione non censurabile in sede di legittimità se congruamente e ragionevolmente motivata - della loro concludenza e attendibilità. L’offesa alla reputazione è risarcibile anche se non configura il reato di diffamazione. Cass. sez. III, 16 marzo 2005, n. 5677 Il comportamento di chi denigri un soggetto agli occhi del suo superiore gerarchico viola il precetto del neminem laedere ed espone l’agente al risarcimento dei danni provocati, anche se la sua condotta non integra gli estremi di una fattispecie di reato. L’onore è tra gli interessi protetti di rilievo costituzionale la cui lesione provoca una riparazione ai sensi dell’articolo 2059 del codice civile. Il danno non patrimoniale ha natura unitaria. Tribunale di Modena, 25 gennaio 2005 Il danno morale, quello da perdita del rapporto parentale e quello esistenziale appartengono ad unico genus, e ne è dunque possibile la liquidazione unitaria, a condizione che in essa il giudice tenga conto sia della sofferenza morale transeunte, sia del forzoso mutamento delle abitudini di vita della vittima. Il danno non patrimoniale non presuppone l’accertamento di un illecito in sede penale e non può essere identificato soltanto con il danno morale ma va inteso come categoria ampia e unitaria. Cass. sez. I, 15 gennaio 2005, n. 729 Il risarcimento del danno non patrimoniale non richiede che la responsabilità dell’autore del fatto illecito sia stata accertata in un procedimento penale in quanto l’interpretazione conforme a costituzione dell’art. 2059 cod. civ. (Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233) comporta che il riferimento al reato contenuto nell’art. 185 c.p., comprende tutte le fattispecie corrispondenti nella loro oggettività all’astratta previsione di una figura di reato; inoltre il danno non patrimoniale non può essere identificato soltanto con il danno morale soggettivo, costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento dell’animo transeunte, determinati dal fatto illecito integrante reato, ma va inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, senza soggezione al limite derivante dalla riserva di gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 109 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA legge correlata all’art. 185 c.p. (Cass. sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124). In applicazione di questi principi la Corte conferma la sentenza di merito, che aveva condannato il socio di una società cooperativa a risarcire agli amministratori della società il danno non patrimoniale loro cagionato con esposti lesivi della loro reputazione professionale, ritenendo irrilevante che la diffamazione non fosse stata accertata in sede penale. È risarcibile il danno morale patito dai genitori di un minore che riporta lesioni gravi. Tribunale di Ivrea, 4 aprile 2004 I genitori di un minore che ha riportato un danno biologico valutato nella misura del 16% di invalidità permanente hanno diritto al risarcimento del danno morale patito a causa delle lesioni occorse al loro congiunto, non essendo a ciò di ostacolo l’argomento della causalità diretta ed immediata di cui all’art. 1223 c.c, poiché detto danno trova causa efficiente nel fatto del terzo, sicché il suo carattere immediato e conseguenziale legittima il congiunto “iure proprio” ad agire contro il responsabile dell’evento lesivo. È risarcibile il danno morale patito dai genitori di un minore che riporta lesioni gravi. Tribunale di Ivrea, 4 aprile 2004 I genitori di un minore che ha riportato un danno biologico valutato nella misura del 16% di invalidità permanente hanno diritto al risarcimento del danno morale patito a causa delle lesioni occorse al loro congiunto, non essendo a ciò di ostacolo l’argomento della causalità diretta ed immediata di cui all’art. 1223 c.c, poiché detto danno trova causa efficiente nel fatto del terzo, sicché il suo carattere immediato e conseguenziale legittima il congiunto “iure proprio” ad agire contro il responsabile dell’evento lesivo. È risarcibile il danno morale per l’uccisione del padre subìto da chi al momento dell’evento non era ancora nato. Tribunale di Terni, 2 marzo 2004 È risarcibile il danno morale - per l’uccisione del padre subito da chi al momento dell’evento era concepito ma non ancora nato. Il danno non patrimoniale costituisce una categoria unitaria. Tribunale di Roma, 16 gennaio 2004 Deve escludersi che la vittima di lesioni, ovvero i prossimi congiunti della vittima di lesioni, possano conseguire il risarcimento di quattro distinte voci di danno: patrimoniale, biologico, morale e non patrimoniale, posto che tale quadripartizione - distinguendo tra un danno morale “soggettivo” inteso quale “transeunte patema d’animo” ed “altri danni non patrimoniali” derivanti dalla lesione di interessi costituzionalmente protetti e consistenti nello sconvolgimento delle abitudini di vita - non ha utilità ai fini della individuazione dei pregiudizi concretamente risarcibili, ma assume rilievo unicamente al momento della liquidazione, nel senso che di un eventuale sconvolgimento delle abitudini di vita della vittima si dovrà tenere conto, ma solo per graduare la liquidazione standard dell’unico danno non patrimoniale risarcibile ex art. 2059 e non per affiancare a quest’ultimo una ulteriore “posta” risarcitoria (nella specie, il tribunale ha escluso che gli attori, genitori di un bambino nato con una grave malformazione cardiaca e sottoposto a due interventi chirurgici dai quali è derivata una invalidità del 100% ascrivibile a colpa dei sanitari, possano esigere il risarcimento di danni diversi ed ulteriori rispetto a quelli patrimoniali, biologici e morali, fermo restando che nella liquidazione di questi ultimi è necessario tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, se debitamente allegate e provate). Il danno non patrimoniale costituisce una 110 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 categoria ampia, comprensiva di ogni e qualsiasi pregiudizio non suscettibile di essere valutato in denaro. Ne consegue che tutte le diverse e molteplici conseguenze non patrimoniali del fatto illecito (come la sofferenza morale, la rinuncia ad attività ludiche, la perdita di affetti, ecc.) debbono essere tenute presenti dal giudice per la liquidazione di un risarcimento unico, mentre resta escluso che ciascuna di tali conseguenze possa costituire un danno non patrimoniale a sé stante. In caso di morte compete ai congiunti iure proprio il risarcimento del danno esistenziale. Cass. sez. III , 11 novembre 2003, n. 16946 In caso di morte violenta di un prossimo congiunto, ai parenti superstiti compete iure hereditario il danno biologico sofferto dal defunto e iure proprio il danno esistenziale connesso con la perdita degli equilibri familiari. In caso di morte spetta ai prossimi congiunti il risarcimento per danno da perdita parentale. Cass. sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124 Il danno non patrimoniale derivante da «perdita parentale» è risarcibile in aggiunta al danno biologico e al danno morale, in quanto esso è fondato sulla lesione di diritti costituzionalmente garantiti e al giudice spetta il compito di verificarne la sussistenza sulla base dei principi sui quali si configura l’illecito civile. L’interesse al risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione del congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale si concreta nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli art. 2, 29 e 30 cost. Esso si colloca nell’area del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 cod. civ., in raccordo con le suindicate norme della Costituzione e si distingue sia dall’interesse al “bene salute” (protetto dall’art. 32 cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (protetto dall’art. 2 cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno morale soggettivo). È sempre ammissibile il risarcimento del danno non patrimoniale. Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233 È infondata, nei sensi di cui in motivazione, la q.l.c. dell’art. 2059 cod. civ., sollevata in riferimento all’art. 3 cost., nella parte in cui non consente la liquidazione del danno non patrimoniale nei casi in cui la responsabilità dell’autore del fatto, corrispondente ad una fattispecie astratta di reato, venga affermata in base ad una presunzione di legge. La disposizione censurata, infatti, deve essere interpretata nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito alla astratta fattispecie di reato - tenuto conto della evoluzione giurisprudenziale in tema di danno risarcibile e stante il principio della unicità delle giurisdizioni definitivamente consacrato nell’art. 75 c.p.p. -, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui in sede civile la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge. Il danno da perdita del rapporto parentale si colloca nell’area del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. e si distingue sia dall’interesse al “bene salute” (protetto dall’art. 32 cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (protetto dall’art. 2 cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno morale soggettivo). Cass. sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA L’interesse al risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione del congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale si concreta nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli art. 2, 29 e 30 cost. Esso si colloca nell’area del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 cod. civ., in raccordo con le suindicate norme della Costituzione e si distingue sia dall’interesse al “bene salute” (protetto dall’art. 32 cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (protetto dall’art. 2 cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno morale soggettivo). La liquidazione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale in capo al congiunti della vittima, che deve avvenire in base a valutazione equitativa ai sensi degli art. 1226 e 2056 cod. civ., tenendo conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza (quali ad es. le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti ecc.), potrà avvenire anche unitamente a quella del danno morale transeunte senza che possa ravvisarsi una duplicazione di risarcimento trattandosi di poste risarcitorie distinte, spetterà poi al giudice assicurare il giusto equilibrio tra le varie voci di danno che concorrono a determinare il complessivo risarcimento. In relazione alla questione cruciale del limite, al quale l’art. 2059 cod. civ. assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale mediante la riserva di legge (originariamente esplicata dal solo art. 185 c.p.), deve escludersi, allorquando vengano in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, che il risarcimento del danno non patrimoniale, che ne consegua, sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p.: ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’art. 2059 cod. civ., è l’ingiusta lesione di un interesse alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica. In particolare, una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite, se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti. Il danno non patrimoniale per perdita del rapporto parentale è risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. in via equitativa. Cass. sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828 Unica possibile forma di liquidazione di ogni danno privo, come il danno biologico ed il danno morale, delle caratteristiche della patrimonialità è quella equitativa, sicché la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura di tale danno e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico. è dunque escluso che si possa far carico al giudice di non aver indicato le ragioni per le quali il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare - costituente la condizione per il ricorso alla valutazione equitativa di cui all’art. 1226 cod. civ. - giacché in tanto una precisa quantificazione pecuniaria è possibile, in quanto esistano dei parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può mai essere provato nel suo preciso ammontare, fermo restando il dovere del giudice di dar conto delle circostanze di fatto da lui considerate nel compimento della valutazione equitativa e dell’iter logico che lo ha condotto a quel determinato risultato. L’unica possibile forma di liquidazione di ogni danno privo delle caratteristiche della patrimonialità è quella equitativa, sicché la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura del danno e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico. Il risarcimento del danno non patrimoniale da compromissione del rapporto parentale, che andrà liquidato tramite adeguata valutazione equitativa ai sensi degli art. 1226 e 2056 cod. civ., potrà essere riconosciuto in capo ai congiunti della vittima anche in aggiunta al danno morale soggettivo contingente senza che possa ravvisarsi una duplicazione di risarcimento, poiché spetterà al giudice assicurare il giusto equilibrio tra le varie voci di danno che concorrono a determinare il complessivo risarcimento. Tutte le volte che si verifichi la lesione di un interesse costituzionalmente protetto, il pregiudizio conseguenziale integrante il danno morale soggettivo (patema d’animo, sofferenza contingente) è risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato. Il riconoscimento dei “diritti della famiglia” (art. 29, comma 1, cost.) va inteso non già, restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, generando bensì bisogni e doveri, ma dando anche luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati. Allorché il fatto lesivo abbia profondamente alterato quel complessivo assetto, provocando una rimarchevole dilatazione dei bisogni e dei doveri ed una determinante riduzione, se non annullamento, delle positività che dal rapporto parentale derivano, il danno non patrimoniale consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita del genitore in relazione all’esigenza di provvedere perennemente ai (niente affatto ordinari) bisogni del figlio, sopravvissuto a lesioni seriamente invalidanti, deve senz’altro trovare ristoro nell’ambito della tutela ulteriore apprestata dall’art. 2059 cod. civ. in caso di lesione di un interesse della persona costituzionalmente protetto. Il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale. Il danno esistenziale non è in re ipsa ma va provato. Corte d’appello di Milano, 14 febbraio 2003 Il danno da lesione di valori costituzionali non è in re ipsa ma deve essere provato dall’attore (Contra Cass. sez. III, 3 aprile 2001, n. 4881; Cass. sez. III, 10 maggio 2001, n. 6507). Danno patrimoniale L’invalidità permanente può comportare anche un danno patrimoniale che spetta al danneggiato dimostrare anche in via presuntiva attraverso attraverso per esempio le precedenti dichiarazioni dei redditi. Cass. sez. III, 1 ottobre 2009, n. 21062 L’invalidità permanente, totale o parziale, che segue ad un incidente comporta senz’altro un danno biologico ma non configura necessariamente anche un danno patrimo- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 111 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA niale. Spetta al giudice valutare se e in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento della specifica attività lavorativa della vittima del sinistro e, dunque, sulla capacità di produrre reddito, nonché verificare se ed in quale misura in tale soggetto persista o residui, dopo e nonostante l’infortunio subito, una capacità ad attendere ad altri lavori, confacente alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. Solo se dall’esame di detti elementi risulti una riduzione della capacità di guadagno e del reddito effettivamente percepito, questo è risarcibile sotto il profilo del lucro cessante. La relativa prova incombe al danneggiato e può essere anche presuntiva, purché sia certa la riduzione della capacità di lavoro specifica. In particolare per il professionista il danno patrimoniale da invalidità permanente ed inabilità temporanea, conseguite ad un sinistro stradale, va liquidato, ai sensi dell’art. 4 l. n. 39/77, sulla base delle risultanze delle dichiarazioni dei redditi presentate dal danneggiato nei tre anni precedenti il sinistro e non della dichiarazione di un solo anno. Le risultanze di tali dichiarazioni fondano comunque una mera presunzione “juris tantum” sull’entità del reddito percepito dal danneggiato. Anche se il minore danneggiato non esercita attività lavorativa non può per questo escludersi un danno futuro di natura patrimoniale. Cass. sez. III, 30 settembre 2009, n. 20943 In tema di risarcimento di danno patrimoniale subito da una persona minore o comunque in età giovanile, qualora sia accertata non una “micro permanente” ma una percentuale superiore di invalidità permanente, la mera circostanza che il soggetto danneggiato, all’epoca dell’incidente, non avesse una specifica capacità professionale e non svolgesse attività lavorativa non autorizza ad escludere un danno futuro solo sulla base di ciò e senza ulteriori indagini. Al contrario il Giudice, con giudizio prognostico fondato su basi probabilistiche, deve valutare se ed in che misura i postumi permanenti ridurranno la futura capacità di guadagno di detta persona, tenendo conto in primo luogo della percentuale di invalidità medicalmente accertata, della natura e qualità dei postumi stessi, dell’orientamento eventualmente manifestato dal danneggiato medesimo verso una determinata attività redditizia, degli studi da lui portati a termine, dell’educazione ricevuta dalla famiglia nonché delle presumibili opportunità di lavoro che si presenteranno al danneggiato anche in relazione al prevedibile futuro mercato del lavoro; ed in secondo luogo della posizione sociale ed economica di quest’ultima; nonché di ogni altra circostanza rilevante (ferma restando la possibilità per colui che è chiamato a rispondere di dette lesioni di dimostrare che il minore, da quel particolare tipo di invalidità, non risentirà alcun danno o risentirà danni minori rispetto a quelli prospettati). In assenza di riscontri concreti dai quali desumere gli elementi suddetti, (e, perciò, in mancanza della possibilità di ricorrere alla prova presuntiva), la liquidazione potrà avvenire attraverso il ricorso al triplo della pensione sociale. La scelta tra l’uno o l’altro tipo di liquidazione costituisce un giudizio tipicamente di merito ed è, pertanto, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata. In caso di morte del coniuge il danno patrimoniale va calcolato sulle spese fisse di gestione familiare. Cass. sez. III, 28 agosto 2009, n. 18800 In tema risarcimento del danno patrimoniale in favore del superstite del coniuge morto in un sinistro stradale, la somma da liquidare va calcolata sulle spese fisse di gestione familiare, cioè quelle che non si sono contratte dopo la morte del coniuge e che il superstite ha dovuto sostenere 112 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 da solo, come le uscite legate all’alloggio. Deve essere quindi esclusa sia la parte di reddito, pure conferita alla comunione, che il defunto utilizzava per i propri consumi sia la “quota sibi”, cioè quella spesa per esigenze voluttuarie che non passava dalla cassa comune. La casalinga svolge attività suscettibile di valutazione economica e pertanto ha diritto al ristoro del danno patrimoniale. Cass. sez. III, 19 marzo 2009, n. 6658 La casalinga, pur non percependo reddito monetizzato, svolge un’attività suscettibile di valutazione economica, che non si esaurisce nell’espletamento delle sole faccende domestiche, ma si estende al coordinamento della vita familiare, per cui costituisce danno patrimoniale e come tale, autonomamente risarcibile rispetto al danno biologico, quello che la predetta subisce in conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa (nella specie, la Corte ha accolto il ricorso di una casalinga avverso la sentenza della Corte di merito che le aveva riconosciuto solamente il danno biologico e morale). Famiglia e responsabilità civile Dalle modalità del fatto illecito può essere desunta la responsabilità dei genitori. Cass. se. III, 20 ottobre 2005, n. 20322 Ai fini della affermazione di responsabilità dei genitori ex art. 2048 cod. civ., l’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su un minore può desumersi, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell’art. 147 cod. civ.; non è, invece, ammissibile il contrario: e cioè che dalle modalità del fatto illecito possa desumersi l’adeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata. Le violazioni dell’art. 143 c.c. possono essere fonte di risarcimento. Cass. sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801 Nell’ambito dell’articolo 2059 Cc trovano collocazione e protezione tutte quelle situazioni soggettive relative a perdite non patrimoniali subite dalla persona, per fatti illeciti determinanti un danno ingiusto e per la lesione di valori costituzionalmente protetti o specificamente tutelati da leggi speciali. Nel contesto generale ampio, quindi, della responsabilità per lesione di diritti fondamentali della persona, è configurabile la responsabilità aquiliana nell’ambito dei rapporti coniugali e familiari. È ammissibile la richiesta di risarcimento del danno biologico riflesso per lesioni cagionate al proprio convivente in un incidente stradale ma si deve dimostrare la convivenza stabile e duratura. Cass. sez. III, 29 aprile 2005, n. 8976 Colui che chiede il risarcimento dei danni derivatigli dalla lesione materiale cagionata alla persona con cui convive dalla condotta illecita del terzo, deve dimostrare l’esistenza e la portata dell’equilibrio affettivo - patrimoniale instaurato con la medesima, e perciò, per poter esser ravvisato il vulnus ingiusto a tale stato di fatto, deve esser dimostrata l’esistenza e la durata di una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale, non essendo sufficiente a tal fine la prova di una relazione amorosa, per quanto possa esser caratterizzata da serietà di impegno e regolarità di frequentazione nel tempo, perché soltanto la prova della assimilabilità della convivenza di fatto a quella stabilita dal legislatore per i coniugi può legittimare la richiesta di analoga tutela giuridica di fronte ai terzi. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Il genitore affidatario che ostacolo il diritto di visita è responsabile dei danni cagionati all’altro genitore. Tribunale di Massa, 27 gennaio 2005 L’impedire l’esercizio del diritto di visitare la propria figlia, da parte dell’ex coniuge, diritto previsto e stabilito dalle condizioni di separazione omologate dal giudice, configura, in capo all’altro coniuge, un danno consistente in un turbamento neuro - psichico, atteso che il rifiuto illegittimo ed ingiustificato di poter incontrare la figlia determina dolore, ansia e angoscia e gli impedisce, tra l’altro, la possibilità di assolvere i propri doveri verso la figlia, determinando quindi una condanna, ex art. 538 c.p.p., al risarcimento del danno, da liquidarsi di fronte al giudice civile. Il genitore affidatario che ostacolo il diritto di visita è responsabile dei danni cagionati all’altro genitore per la perdita del rapporto parentale. Tribunale di Monza, 5 novembre 2004 Il genitore non affidatario che si vede impedire dal genitore affidatario ogni apprezzabile relazione con il figlio minore ha diritto al risarcimento del danno morale ex art. 2059 cod. civ., in quanto il comportamento lamentato integra la lesione di un diritto personale costituzionalmente garantito e rappresenta quindi un fatto costitutivo del diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, sotto l’aspetto sia del danno morale soggettivo (patema d’animo) sia dell’ulteriore pregiudizio derivante dalla privazione delle positività derivanti dal rapporto parentale. l genitore che trascura o rifiuta il figlio è responsabile dei danni cagionati. Tribunale di Venezia, 30 giugno 2004 Il figlio che venga trascurato o rifiutato dal genitore subisce l’ingiusta privazione di un rapporto che la Costituzione gli garantisce e la violazione del diritto fondamentale all’apporto morale ed esistenziale del genitore: una tale lesione, pur trascendendo l’ambito strettamente patrimoniale, pur non generando patologie apprezzabili e rilevanti sul piano psicopatologico idonee a configurare un danno biologico, comporta il risarcimento del danno esistenziale. La consapevolezza di non essere mai stati desiderati come figli produce un danno esistenziale che va risarcito. Il figlio mai riconosciuto, che non ha potuto beneficiare della figura del padre naturale, subisce l’immotivata e dolorosa privazione di un apporto che la nostra Carta fondamentale garantisce pienamente all’art. 30. Anche se mancano segni evidenti sul piano psicopatologico che potrebbero, invece, configurare il danno biologico. In altre parole, ad essere leso in questo caso è un diritto fondamentale del figlio all’educazione e all’assistenza non solo economica, lesione risarcibile e riconducibile nell’alveo del cosiddetto danno esistenziale. Non costituisce illecito risarcibile il mancato riconoscimento di figlio naturale. Tribunale di Belluno, 23 marzo 2004 Il mancato riconoscimento del figlio naturale non costituisce un fatto illecito da cui scaturisce un danno ingiusto risarcibile (nella specie è stata respinta la domanda di risarcimento del danno esistenziale proposta dalla madre nei confronti del padre naturale per il mancato riconoscimento del figlio naturale). Non è risarcibile il danno di chi lamenti che un sinistro stradale gli ha cagionato la fine della convivenza more uxorio. Tribunale di Genova, 4 gennaio 2004 La circostanza che le lesioni patite dal danneggiato a seguito di un sinistro stradale abbiano determinato la fine di un regime di convivenza “more uxorio”, non comporta la risarcibilità ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., poiché trattasi di danni estranei alla serie causale delle conseguenze di un evento lesivo. Natura della responsabilità La responsabilità dell’ospedale e del medico ha natura contrattuale. Cass. sez. III, 25 febbraio 2005, n. 4058 La responsabilità dell’ente ospedaliero, gestore di un servizio pubblico sanitario, e del medico suo dipendente per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica, inserendosi nell’ambito del rapporto giuridico pubblico (o privato) tra l’ente gestore e il privato, che ha usufruito del richiesto servizio, ha natura contrattuale di tipo professionale. Ne consegue che la responsabilità diretta dell’ente e quella del medico, inserito organicamente nella struttura del servizio, sono disciplinate in via analogica dalle norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione professionale medica in esecuzione di un contratto di opera professionale, senza che possa trovare applicazione nei confronti del medico la normativa prevista dagli articoli 22 e 23 del Dpr 3/1957, con riguardo alla responsabilità degli impiegati civili dello Stato per gli atti compiuti in violazione dei diritti dei cittadini. Se il medico non rileva gravi malformazioni nel feto si può presumere che sussista una sua colpa di natura contrattuale se la donna non interrompe la gravidanza. Cass. sez. III, 21 giugno 2004, n. 11488 L’omessa rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni nel feto, e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, deve ritenere circostanza idonea a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza. In tema di responsabilità della struttura sanitaria per inesatta esecuzione della prestazione medica, posto che la relazione che si instaura tra medico (nonché tra struttura sanitaria) e paziente dà luogo ad un rapporto di tipo contrattuale (quand’anche fondato sul solo contatto sociale), in base alla regola di cui all’art. 1218 cod. civ. non compete al paziente provare la colpa né, tanto meno, la gravità di essa, dovendo il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel caso di cui all’art 2236 cod. civ.) essere allegate e provate dal medico. La responsabilità per la nullità del matrimonio è cosa diversa dalla responsabilità per fatto illecito. Tribunale di Bari, 8 giugno 2004 La domanda di risarcimento ex art. 129 bis e 2043 sono alternative, in quanto fondate su presupposti diversi ed ispirate ad un diverso regime relativo all’onere della prova. La prima, ex art. 129 bis cod. civ., è basata sulla malafede di chi abbia sottaciuto al coniuge la causa di invalidità del matrimonio e mira ad ottenere un’indennità che prescinde dalla prova del danno subito; la seconda, invece, è basata sulla condotta anche solo colposa del soggetto tenuto a preavvertire l’altro coniuge della causa invalidante e mira ad ottenere un risarcimento che reintegri il patrimonio dell’istante della ingiusta “deminutio” subita e presuppone la prova del danno e della sua misura. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 113 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Perdita di chances La irragionevole durata del processo può causare anche un danno patrimoniale da perdita di chances. Cass. sez. I, 28 settembre 2005, n. 18953 La irragionevole durata del processo, oltre un danno non patrimoniale, può causare anche un danno patrimoniale da perdita di chance, liquidabile in via equitativa dal giudice. Il termine semestrale di decadenza entro il quale deve essere proposta la domanda di equa riparazione, ex articolo 4 legge 89/2001, decorre non già dal momento in cui sia stata pubblicata la decisione del giudizio presupposto, ma dal successivo momento in cui la pronuncia sia divenuta non più impugnabile. Sulla liquidazione del danno da irragionevole durata del processo non può avere alcune incidenza la considerazione degli oneri che esso comporterà per l’erario. Per il risarcimento delle chances perdute bisogna dimostrare la sussistenza di una probabilità non trascurabile di conseguire un risultato utile. Corte d’appello di Roma, 15 febbraio 2005 La chance non costituisce una mera aspettativa di fatto, ma un’entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, quale danno futuro, con riguardo alla concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato risultato. Ai fini della risarcibilità è necessario, quindi, che il soggetto che agisce dimostri la sussistenza di una probabilità non trascurabile di conseguire il risultato utile anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni, ma pur sempre allegando specifiche circostanze di fatto. Prova del danno In tema di risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale il danno va provato e non è in re ipsa. Cassazione sez. III, 13 febbraio 2007, n. 3086 Anche in tema di risarcimento del danno da responsabilità aquilana occorre che sia provata l’esistenza di questo danno di cui si chiede il risarcimento, non potendo ritenersi che il danno sia in re ipsia, cioè coincida con l’evento, poiché il danno risarcibile è pur sempre un danno conseguenza anche nella responsabilità aquilana, giusti i principi di cui agli articoli 1223 e 2056 del Cc, e non coincide con l’evento, che è invece un elemento di fatto, produttivo del danno. Responsabilità dei genitori Ove sussistano oggettive carenze educative i danni provocati dal minore per inosservanza delle norme della circolazione stradale possono comportare la responsabilità dei genitori. Cass. sez. III, 14 marzo 2008, n. 7050 Ai sensi dell’art. 2048 c.c. i genitori sono responsabili dei danni cagionati dai figli minori che abitano con essi, sia per quanto concerne gli illeciti comportamenti che siano frutto di omessa o carente sorveglianza, sia per quanto concerne gli illeciti riconducibili a oggettive carenze nell’attività educativa che si manifestino nel mancato rispetto delle regole della civile coesistenza, vigenti nei diversi ambiti del contesto sociale in cui il soggetto si trovi ad operare. L’eventuale allontanamento del minore dalla casa dei genitori non vale di per sé ad esimere i genitori stessi da responsabilità, ove l’illecito comportamento del figlio sia riconducibile non all’omissione della contingente e quotidiana sorveglianza sul comportamento di lui, ma alle suddette oggettive carenze educative. In quest’ultimo ambito rientrano i danni provocati dalle manifestazioni di indisciplina, negligenza o irre- 114 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 sponsabilità, nello svolgimento di attività suscettibili di arrecare danno a terzi, fra cui in particolare l’inosservanza delle norme della circolazione stradale. Responsabilità del notaio Il notaio è responsabile professionalmente se non procede alle visure catastali. Cass. sez. II, 2 marzo 2005, n. 4427 Il notaio non può invocare la limitazione di responsabilità prevista per il professionista dall’articolo 2236 del Cc con riferimento al caso di prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, in quanto il mancato espletamento di una attività preparatoria importante, quale la visura dei registri immobiliari, non integra un’ipotesi di imperizia, cui soltanto è indirizzata la previsione normativa in parola, ma negligenza o imprudenza, e cioè violazione del dovere della normale diligenza professionale media esigibile ai sensi del comma 2 dell’articolo 1176 del Cc, rispetto alla quale rileva anche la colpa lieve. Responsabilità medica Il risarcimento dei danni per nascita indesiderata spetta anche al padre. Cass. sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20320 In tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del ginecologo all’obbligazione di natura contrattuale gravante su di lui spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione, non rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all’interruzione della gravidanza, atteso che, sottratta alla madre la possibilità di scegliere a causa dell’inesatta prestazione del medico, agli effetti negativi del comportamento di quest’ultimo non può ritenersi estraneo il padre, che deve perciò ritenersi tra i soggetti protetti dal contratto col medico e quindi tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze sul piano risarcitorio. La responsabilità per nascita indesiderata presuppone la prova della sussistenza delle condizioni che avrebbero legittimato l’interruzione della gravidanza. Corte d’appello di Roma, 12 luglio 2005 Il risarcimento del danno per il mancato esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza, non consegue automaticamente all’inadempimento dell’obbligo d’esatta informazione, che il sanitario è tenuto ad adempiere sulle possibili anomalie o malformazioni del nascituro, necessitando anche la prova della sussistenza delle condizioni previste dalla legge n. 194 del 1978 per ricorrere all’interruzione della gravidanza. In capo al concepito non è configurabile un diritto a non nascere o a non nascere se non sano. Ne consegue che, verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere affetto da malformazione congenita per non essere stata la madre, per difetto d’informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto. Costituisce fonte di responsabilità per nascita indesiderata l’omessa diagnosi di malformazioni del feto. Corte d’appello di Perugia, 15 dicembre 2004 Il medico il quale ometta di rilevare gravi malformazioni MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA del feto, impedendo alla donna l’esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza, causa alla gestante un danno ingiusto, lesivo di un interesse costituzionalmente protetto, risarcibile anche al di fuori dei limiti imposti dall’art. 2059 cod. civ. In caso di nascita indesiderata il comportamento colpevole del medico è fonte di responsabilità verso entrambi i genitori e non verso il nascituro. Cass. sez. I, 29 luglio 2004, n. 14488 Il concepito, anche se presenta gravi anomalie genetiche, non è titolare del diritto a non nascere, poiché la legislazione in tema di interruzione volontaria della gravidanza non prevede l’aborto eugenetico come diritto del nascituro, da far valere successivamente alla nascita, sotto il profilo risarcitorio per il mancato esercizio; ne consegue che non è responsabile verso il nascituro il medico che abbia omesso di informare la gestante delle malformazioni o patologie. Poiché in presenza di anomalie e malformazioni del nascituro la legge consente alla donna di evitarle il pregiudizio che da quelle condizioni del figlio deriverebbero al suo stato di salute, la mancata interruzione della gravidanza, determinata dal comportamento colpevole del sanitario, costituisce danno risarcibile sia alla madre che al padre. È il medico che deve provare che non è a lui imputabile l’omessa diagnosi di malformazione al feto. Cass. sez. III, 21 giugno 2004, n. 11488 Posto che l’omessa diagnosi di gravi malformazioni del feto da parte del medico ecografista costituisce inadempimento contrattuale, non compete alla gestante la prova della gravità della colpa del medico, ma spetta a quest’ultimo provare che l’impossibilità della prestazione sia derivata da causa a lui non imputabile. Posto che, in casi di gravi malformazioni del feto, si assume come normale e corrispondente a regolarità causale che la gestante, se informata correttamente e tempestivamente sulla gravità della patologia cui va incontro il nascituro, interrompa la gravidanza, il difetto di informazione da parte del medico per omessa diagnosi prenatale determina responsabilità per perdita del diritto di scelta di interruzione della gravidanza (nella specie, si è ritenuto che anche la parziale mancanza di un braccio integrasse una rilevante malformazione del nascituro). Costituisce fonte di responsabilità per nascita indesiderata l’omessa diagnosi di malformazioni del feto. Tribunale di Roma, 9 marzo 2004 Il medico il quale ometta di rilevare gravi malformazioni del feto, impedendo alla donna l’esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza, causa alla gestante un danno ingiusto, lesivo di un interesse costituzionalmente protetto, risarcibile anche al di fuori dei limiti imposti dall’art. 2059 c.c. Violazione del dovere di fedeltà La violazione del dovere di fedeltà può essere fonte di risarcimento di danni non patrimoniali. Tribunale di Venezia, 14 maggio 2009 Affinché la violazione del dovere di fedeltà fra coniugi rilevi sul terreno della responsabilità civile, dando luogo ad obblighi risarcitori, in particolare per quanto riguarda i danni non patrimoniali, occorrerà che il comportamento dello sposo “fedifrago” attinga certe soglie di intensità, tendenzialmente quelle del dolo o della colpa grave. In tal caso saranno risarcibili, quali capitoli negativi autonomi, sia il danno corrispondente ai disturbi psichici risentiti dalla vittima (nel caso specifico, la moglie), sia quello inerente alla lesio- ne della sfera della dignità, da cui siano derivate compromissioni nella sfera relazionale della stessa. RETTIFICAZIONE DI SESSO Autorizzazione Né il minore né i genitori per suo conto possono chiedere l’autorizzazione alla rettificazione di sesso. Tribunale di Catania, 12 marzo 2004 E’ inammissibile, per mancanza di legittimazione attiva, l’azione per la rettificazione di sesso proposta da un minore in quanto privo della capacità di agire; egualmente inammissibile è l’azione proposta dal genitore esercente la potestà trattandosi di azione strettamente personale. RICONCILIAZIONE Accertamento La riconciliazione è ricostituzione della comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi. Cass. sez. I, 6 dicembre 2006, n. 26165 La riconciliazione che interrompe lo stato di separazione si manifesta con la ricostituzione del consorzio familiare, attraverso il complesso dei rapporti materiali e spirituali fra i coniugi che caratterizzano il vincolo matrimoniale. L’accertamento dell’intervenuta riconciliazione costituisce un giudizio di fatto non censurabile in Cassazione. La convivenza sperimentale dopo la separazione non costituisce riconciliazione. Cass. sez. I, 6 ottobre 2005, n. 19497 Non è sufficiente, per provare la riconciliazione tra coniugi separati, per gli effetti che ne derivano, che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza a scopo sperimentale, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale. (Nella specie, in applicazione del principio di cui alla massima, la S.C. ha confermato la decisione dei giudici di merito che avevano escluso la effettiva volontà in ordine alla ripresa del rapporto coniugale, pur in presenza di ripristino della convivenza, ritenendo sussistente un “mero tentativo di conciliazione”, soprattutto da parte della moglie, avuto riguardo alla circostanza che la stessa intratteneva una relazione extraconiugale, “probabilmente mai interrotta” durante i mesi di convivenza con il coniuge). Solo la ripresa della comunione materiale e spirituale di vita costituisce riconciliazione. Cass. sez. I, 7 luglio 2004, n. 12427 Non è sufficiente, per provare la riconciliazione tra coniugi separati, per gli effetti che ne derivano, che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza a scopo sperimentale, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale. La dichiarazione di riconciliazione deve essere annotata nei registri di matrimonio. Tribunale di Monza 23 marzo 2004 La dichiarazione espressa di cui all’art. 157 cc per essere idonea a far cessare gli effetti della pronuncia di separa- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 115 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA zione deve essere sorretta da elementi fattuali - quale, ad esempio, l’effettiva ripresa della convivenza - atti a testimoniarne la valenza reale e non meramente astratta, ma anche da requisiti formali atti a renderla inequivoca e verificabile in qualunque momento, attesa la sua idoneità ad incidere sullo status personale dei coniugi, anche mediante la sua iscrizione e conservazione tra gli atti dello stato civile assumendo infatti rilievo al riguardo, la disposizione normativa contenuta nell’art. 63 lett. g) del DPR 3.11.2000, n. 396. La riconciliazione consiste nella restaurazione della comunione materiale e spirituale di vita. Cass. Sez. I, 16 ottobre 2003, n. 15481 Per aversi una vera e propria riconciliazione, non basta il ripristino od il mantenimento di frequenti rapporti, anche sessuali, persino nell’ipotesi in cui da questi sia concepito un figlio, ma occorre la restaurazione di un nucleo familiare. Effetti La riconciliazione dei coniugi ha effetti nei confronti dei terzi solo se dichiarata all’ufficiale di stato civile. Cass. sez. I, 5 dicembre 2003, n. 18619 Il ripristino del regime di comunione legale, a seguito della riconciliazione dei coniugi separati, in difetto di segnalazioni esterne dell’evento, non è opponibile ai terzi che abbiano acquistato in buona fede, a titolo oneroso, dal coniuge che risulti unico titolare del bene immobile alienato. La riconciliazione non fa nascere il regime della comunione legale se i coniugi, prima di separarsi, erano in regime di separazione dei beni. Cass. sez. I, 5 dicembre 2003, n. 18619 Il ripristino automatico dell’originario regime patrimoniale legale di comunione, tra coniugi separatisi, in conseguenza di successiva riconciliazione ex articolo 157 del Cc, non può essere opposto ai terzi che hanno acquistato in buona fede, a titolo oneroso, dal coniuge che risultava unico ed esclusivo titolare dell’immobile alienato, per averlo egli, a sua volta, acquistato in regime di separazione dei beni regolarmente annotato a margine dell’atto di matrimonio. RICONOSCIMENTO DELLE SENTENZE STRANIERE Intervento del pubblico ministero È obbligatorio l’intervento del pubblico ministero - che può quindi anche esercitarvi il potere di impugnazione - nel procedimento per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere di divorzio. Cass. sez. I, 16 dicembre 2003, n. 19277 Pur essendo venuta meno, in via generale, l’obbligatorietà della presenza del p.m. nelle cause di riconoscimento di sentenze straniere per effetto dell’abrogazione dell’art. 796 comma ultimo c.p.c. ad opera dell’art. 73 l. 31 maggio 1995 n. 218, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, il coordinamento di quest’ultima legge con le disposizioni del codice di rito civile che regolano la presenza del p.m. in specifiche tipologie di controversie, in ragione dei profili pubblicistici e dell’interesse generale sotteso a tali giudizi, rende pur sempre necessaria la partecipazione del p.m. nelle cause di riconoscimento di sentenze straniere di divorzio, ai sensi dell’art. 70 comma 1 n. 2 c.p.c. 116 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 La legge di riforma del diritto internazionale privato non ha abrogato, neanche tacitamente, l’art. 72. comma 4, c.p.c., che prevede il potere del p.m. di impugnare le sentenze che dichiarano l’efficacia o l’inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali. Il pubblico ministero deve sempre intervenire in sede di dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere di divorzio. Cass. sez. I, 6 giugno 2003, n. 9085 Pur venuta meno, in via generale l’obbligatorietà della presenza del pubblico ministero, per effetto dell’abrogazione a opera dell’articolo 73, della legge n. 218 del 1995, dell’articolo 796, ultimo comma, del cpc, il coordinamento della legge di riforma con le disposizioni del codice di rito che regolano la presenza del pubblico ministero in specifiche tipologie di controversie, in ragione dei profili pubblicistici e dell’interesse generale sotteso a tali giudizi, rende pur sempre necessaria la partecipazione del pubblico ministero nelle cause di riconoscimento di sentenze straniere di divorzio, ai sensi dell’articolo 70, comma 1, n. 2, del codice di procedura civile. Presupposti L’art. 65 della legge 218/1995 prevede un meccanismo complementare - rispetto a quello previsto nell’art. 64 - per il riconoscimento dei provvedimenti in materia di famiglia. Cass. sez. I, 28 maggio 2004, n. 10378 La disciplina del riconoscimento delle sentenze straniere in Italia, così come configurata dalla legge di riforma del sistema italiano di diritto privato italiano n. 218/1995, non ha delineato un trattamento esclusivo e “differenziato” delle controversie in tema di rapporti di famiglia riconducendole obbligatoriamente nell’ambito operativo della disciplina di cui all’art. 65 (e perciò anche dei suoi presupposti), ma ha descritto, con l’art. 64, un meccanismo di riconoscimento di ordine generale (riservato in sé alle sole sentenze), valido per tutti i tipi di controversie, ivi comprese perciò anche quelle in tema di rapporti di famiglia e presupponente il concorso di tutta una serie di requisiti descritti nelle lettere da a) a g) di questa ultima disposizione normativa. Rispetto ad un tale modello operativo di ordine generale, la legge ha affidato poi, all’art. 65, la predisposizione di un meccanismo complementare più agile di riconoscimento - allargato, di per sé e questa volta, alla più generale categoria dei “provvedimenti” - riservato all’esclusivo ambito delle materie della capacità delle persone, dei rapporti di famiglia o dei diritti della personalità - il quale, nel richiedere il concorso dei soli presupposti della “non contrarietà all’ordine pubblico” e dell’avvenuto “rispetto dei diritti essenziali della difesa”, esige tuttavia il requisito aggiuntivo per cui i “provvedimenti” in questione siano stati assunti dalle autorità dello Stato la cui legge sia quella richiamata dalle norme di conflitto. SEPARAZIONE CONSENSUALE Annullamento I vizi del consenso rendono annullabile con l’azione ordinaria la separazione consensuale Cass. sez. I, 30 aprile 2008, n. 10932 In tema di separazione personale fra i coniugi, il decreto omologativo di detta separazione, essendo privo dei caratteri della definitività e della decisorietà, poiché incide su di- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA ritti soggettivi, senza tuttavia decidere su di essi e non ha attitudine ad acquistare l’efficacia del giudicato sostanziale, non è impugnabile in cassazione ex art. 111 Cost., con la conseguenza che gli eventuali vizi di legittimità non si convertono in motivi di gravame e sono in ogni tempo deducibili nell’ambito della giurisdizione camerale. È ammissibile l’azione di annullamento per vizi del consenso della separazione consensuale. Cass. sez. I, 4 settembre 2004, n. 17902 E’ ammissibile per la separazione consensuale l’azione di annullamento disciplinata dagli articoli 1427 e seguenti del codice civile nell’ipotesi di vizi del consenso dei coniugi. Azione revocatoria È ammissibile l’azione revocatoria nei confronti dei trasferimenti immobiliari oggetto di accordi di separazione consensuale. Cass. sez. I, 12 aprile 2006, n. 8516 Sono revocabili, ove ricorrano i presupposti di legge, le disposizioni patrimoniali pattuite dai coniugi in sede di separazione consensuale (così come le successive modifiche), a nulla rilevando che le stesse siano state omologate dal Tribunale. contratto che trovano ragione nella specifica natura di questo, non esclude che possano applicarsi, nei limiti della loro compatibilità, le norme del regime contrattuale che riguardano in generale la disciplina del negozio giuridico o che esprimono principi generali dell’ordinamento, come quelle in tema di vizi del consenso e di capacità delle parti (peraltro richiamate in varie norme codicistiche relative alla materia familiare, come in tema di celebrazione del matrimonio e di riconoscimento dei figli naturali). Nel momento, tuttavia, in cui i coniugi convengono, nello spirito e nella prospettiva della loro intesa simulatoria, di chiedere al Tribunale l’omologazione della loro (apparente) separazione esse in realtà concordano nel voler conseguire il riconoscimento di uno status dal quale la legge fa derivare effetti irretrattabili tra le parti e nei confronti dei terzi, salve le ipotesi della riconciliazione e dello scioglimento definitivo del vincolo. In questa situazione la volontà di conseguire detto status è effettiva, e non simulata. Pertanto alla separazione consensuale è inapplicabile la disciplina della simulazione. SEPARAZIONE DEI BENI Incapacità Responsabilità L’incapace naturale non può separarsi consensualmente. Tribunale di Trapani, 11 giugno 2005 Deve escludersi che possa ritenersi validamente espressa la volontà di separarsi consensualmente da parte dell’incapace naturale, né l’ostacolo appare superabile con la nomina di un curatore. All’accordo di separazione sono, infatti, applicabili tutti i principi generali in tema di negozio giuridico, compresi quelli relativi all’annullamento per vizi della volontà. In regime di separazione dei beni il coniuge non contraente risponde solo delle obbligazioni assunte dall’altro in suo nome. Cass. sez. III, 6 ottobre 2004, n. 19947 Con riferimento alle obbligazioni assunte nell’interesse della famiglia, il coniuge non contraente è anch’esso personalmente, oltre che nei casi in cui abbia conferito all’altro coniuge, in forma espressa o tacita, una procura a rappresentarlo, solo quando sia configurabile una situazione tale da far ritenere, alla stregua del principio dell’apparenza giuridica, che l’obbligazione sia stata assunta in suo nome. Revoca del consenso Dopo l’udienza presidenziale non è più revocabile il consenso espresso sulle clausole della separazione consensuale. Tribunale di Messina, 4 ottobre 2005 Il consenso dei coniugi può essere legittimamente prestato, nel procedimento di separazione consensuale, soltanto dopo il fallimento del tentativo di conciliazione, ed il Presidente ne dà atto nel verbale secondo quanto prevede l’art. 711 c.p.c. comma 3; dopo il perfezionarsi di questo momento processuale il consenso prestato è irrevocabile. Ricorso per cassazione Non è ammissibile il ricorso per cassazione neanche per violazione di legge avverso il decreto di omologa Cass. sez. I, 30 aprile 2008, n. 10932 Atteso che il decreto di omologazione della separazione consensuale tra i coniugi manca dei caratteri della definitività e decisorietà, è inammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il provvedimento della Corte d’appello che pronuncia sul reclamo nei confronti del decreto in questione. Simulazione Non è ammessa la simulazione della separazione consensuale. Cass. sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 L’esclusione della natura contrattuale dell’accordo di separazione ed il suo inquadramento nella categoria negoziale, se comporta la non operatività delle norme proprie del SEPARAZIONE E DIVORZIO: ASPETTI PROCESSUALI Accertamenti di polizia tributaria Il potere del giudice della separazione o del divorzio di disporre indagini di carattere economico ha natura discrezionale. Cass. sez. I, 6 giugno 2008, n. 15085 La legge non attribuisce carattere obbligatorio agli accertamenti di polizia tributaria e il giudice ha il potere discrezionle di ammetterli o meno con motivazione che se non contraddittoria non è censurabile in cassazione. Appello L’appello nel giudizio di separazione deve essere trattato con il rito camerale. Cass. sez. I, 7 marzo 2008, n. 6196 Ai sensi dell’art. 23 della legge 74/1987, l’appello avverso le sentenze di separazione deve essere trattato con il rito camerale, il quale si applica all’intero procedimento, dall’atto introduttivo alla decisione in camera di consiglio; detto atto introduttivo, con la forma del ricorso, deve essere depositato in cancelleria nel termine perentorio di cui agli articoli 325 e 327 del codice di procedura civile, con la conseguenza che l’appello proposto con citazion, anziché con ricorso, può ritenersi tempestivo, in applicazione del princi- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 117 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA pio di conservazione degli atti processuali, solo se il relativo atto risulti depositato nel rispetto di detto termine. Se l’appello è introdotto con citazione l’atto deve essere depositato nei termini e non semplicemente notificato nei termini. Cass. sez. I, 7 marzo 2008, n. 6196 Ai sensi dell’art. 23 della legge 6 marzo 1987 n. 74, l’appello avverso le sentenze di separazione deve essere trattato con il rito camerale, il quale si applica all’intero procedimento, dall’atto introduttivo - ricorso, anziché citazione alla decisione in camera di consiglio; detto atto introduttivo, con la forma del ricorso, deve essere depositato in cancelleria nel termine perentorio di cui artt. 325 e 327 c.p.c, con la conseguenza che l’appello che sia proposto con citazione, anziché con ricorso, può ritenersi tempestivo, in applicazione del principio di conservazione degli effetti degli atti processuali, solo se il relativo atto “risulti depositato nel rispetto di tali termini” (così Cass. 10 agosto 2007 n. 17645, 17 novembre 2006 n. 24502 e 10 marzo 2006 n. 5304, 26 ottobre 2005 n. 20687, 22 luglio 2004 n. 13660). La mancata notifica del ricorso e del decreto di fissazione di udienza non rende improcedibile l’appello ma la Corte dovrà assegnare un nuovo termine per la notifica, che, se non rispetto, comporterà l’estinzione del giudizio. Cass. sez. I, 29 marzo 2007, n. 7790 In tema di appello avverso la sentenza di separazione personale tra i coniugi (o di divorzio ), ove il ricorso, tempestivamente depositato presso la cancelleria del giudice d’appello, non sia stato notificato alla controparte unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, l’appello non deve, per ciò solo, essere dichiarato inammissibile o improcedibile, considerato che la proposizione del gravame si perfeziona con il deposito del ricorso in cancelleria nel termine perentorio di cui agli articoli 325 e 327 del Cpc, mentre la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza costituisce momento esterno e successivo alla fattispecie processuale introduttiva del giudizio di impugnazione diretta a instaurare il contraddittorio. Nel caso, il giudice, in mancanza di costituzione dell’appellato, deve fissare, ex articolo 291 del Cpc, un nuovo termine per la notifica, che assume, per espressa previsione legislativa, carattere perentorio, sicché dal mancato adempimento, da parte dell’appellante, dell’ordine di rinnovazione della notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza non può discendere altro effetto che quello dell’inammissibilità della concessione di un nuovo termine e il giudice è tenuto, a norme dell’articolo 307 del Cpc, a dichiarare la cancellazione della causa dal ruolo e l’estinzione del giudizio, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. L’omessa notifica dell’atto di appello non rende l’appello inammissibile. Cass. sez. I, 22 febbraio 2006, n. 3837 In tema di procedimento di appello avverso una sentenza di divorzio va escluso che, nell’ipotesi in cui la parte appellante non abbia notificato il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza, l’appello debba per ciò solo essere dichiarato inammissibile, essendo il giudice tenuto a fissare, ex articolo 291 del Cpc, un nuovo termine per la notifica. Tale nuovo termine, peraltro, assume per espressa previsione legislativa carattere perentorio, sicchè del mancato adempimento da parte dell’appellante, dell’ordine di rinnovazione della notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza non può discendere altra conseguenza che quella dell’inammissibilità della concessione di un nuovo termine. 118 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Anche nel rito camerale è ammissibile l’appello incidentale. Cass. sez. I, 13 aprile 2005, n. 7696 Nel giudizio di appello da svolgersi con il rito della camera di consiglio (nella specie: appello in tema di separazione personale dei coniugi) è consentita la proposizione dell’appello incidentale con la presentazione di una memoria da depositarsi, al più tardi, nella prima udienza. (Nella specie la sentenza di secondo grado, cassata dalla Suprema Corte in applicazione del principio sopra esposto, aveva ritenuto inammissibile l’appello incidentale perché era stato proposto nella prima udienza e non, come prevede l’articolo 343 del Cpc, all’atto della costituzione in cancelleria nel termine perentorio di 20 giorni di cui all’articolo 166 del codice di procedura civile). L’intero giudizio di appello della separazione ha natura camerale. Cass. sez. I, 22 luglio 2004, n. 13660 In tema di impugnazione della sentenza di separazione personale tra coniugi, la disposizione secondo la quale (ex lege n. 74 del 1987) “l’appello è deciso in camera di consiglio” va interpretata nel senso che essa postula l’applicazione del rito camerale con riferimento all’intero giudizio di impugnazione, con la conseguenza che la proposizione dell’appello si perfeziona con il deposito del relativo ricorso in cancelleria, nel termine perentorio di cui agli art. 325 e 327 c.p.c. (costituendo, per converso, la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza un momento meramente esterno e successivo alla fattispecie processuale introduttiva del giudizio di impugnazione, funzionale soltanto all’instaurazione del contraddittorio). Tuttavia, ove l’appello sia stato introdotto con atto di citazione e non con ricorso, la nullità dell’impugnazione non risulta predicabile in applicazione del generale principio di conservazione degli atti processuali, sempre che l’atto viziato abbia i requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo, ed il relativo deposito nella cancelleria del giudice adito sia avvenuto entro i termini perentori fissati dalla legge. Anche il giudizio di rinvio conseguente alla cassazione di una sentenza di separazione o divorzio è soggetto al rito camerale. Cass. sez. I, 20 luglio 2004, n. 13422 Per effetto del disposto dell’articolo 394, comma 1, del codice di procedura civile, secondo cui in sede di rinvio sì osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al giudice al quale la Suprema corte ha rinviato la causa, il giudizio conseguente alla cassazione di una sentenza emessa dalla Corte d’appello in sede di impugnazione avverso la decisione resa dal giudice di primo grado in materia di separazione personale dei coniugi o di divorzio, si deve svolgere con il rito camerale e, pertanto, va instaurato con ricorso, onde la tempestività della riassunzione di detto giudizio, in relazione al termine di decadenza fissato dall’articolo 392, comma 1, del Cpc deve essere riscontrato aiuto riguardo alla data del deposito di quel ricorso nella cancelleria del giudice del rinvio. La riassunzione del processo con atto di riassunzione, anziché con ricorso, non determina - in forza del principio della conversione degli alti viziati nella forma - l’inammissibilità del relativo giudizio qualora questo, oltre a essersi svolto nella sede sua propria, sia stato trattato e deciso con il rispetto sostanziale di tutte le peculiarità del procedimento camerale, ovvero quando, nei termini perentori fissati dalla legge, la citazione, indipendentemente dalla sua notificazione alle altre parti, sia stata depositata in cancelleria, potendo il rapporto processuale ritenersi tempestivamente instaurato solo se un simile deposito risulti intervenuto nella pendenza dei termini sopra menzionati. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Il rito camerale non preclude l’appello incidentale nella separazione e nel divorzio. Cass. sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309 Il rito camerale previsto per l’appello avverso le sentenze di divorzio e di separazione personale non preclude la proponibilità dell’appello incidentale, anche indipendentemente dalla scadenza del termine per l’esperimento del gravame in via principale. Benché la determinazione della competenza territoriale sia una scelta discrezionale del legislatore è del tutto irragionevole quanto previsto nell’art. 4 della legge sul divorzio, nel testo modificato dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 secondo cui la competenza territoriale è determinata dal foro dell’ultima residenza comune dei coniugi. Tale norma va quindi dichiarata incostituzionale in riferimento all’art. 3 della Costituzione. La domanda di attribuzione al terzo dell’obbligo di pagamento dell’assegno di mantenimento può essere proposta per la prima volta in appello. Cass. sez. I, 19 dicembre 2003, n. 19527 In tema di assegno di mantenimento a seguito di separazione personale tra coniugi, la richiesta di emissioni dell’ordine a terzi, ai sensi dell’art. 156, comma 6. cod. civ., di versamento diretto a proprio favore di parte delle somme di denaro da essi dovute all’obbligato può essere proposta per la prima volta anche nel corso del giudizio di secondo grado, trovando nel caso applicazione il c.d. principio rebus sic stantibus, purché risulti sempre rispettato il principio del contraddittorio, a garanzia del diritto di difesa del coniuge obbligato in sede di accertamento della sua inadempienza. La competenza territoriale nel giudizio di divorzio è quella ordinaria del foro del convenuto e non dell’ultima residenza comune. Corte cost. 23 maggio 2008, n. 169 L’art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3 bis, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35 come convertito nella legge 14 maggio 2005, n.80), è incostituzionale limitatamente alle parole “del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza” per violazione del criterio di ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione. Nel corso del giudizio di appello legittimamente possono essere richieste modifiche dei provvedimenti. Corte d’appello di Roma, 7 agosto 2003, n. 3681 In materia di separazione o divorzio il divieto di proposizione di domande nuove in sede di gravame, previsto dall’articolo 345 del codice di procedura civile non può trovare rigida applicazione, dovendo essere correlato alla natura delle decisioni rese in sede di separazione e divorzio emesse rebus sic stantibus e prive del carattere della definitività irretrattabile, e contemperato con il riconosciuto diritto delle parti di chiedere in ogni tempo la revisione delle condizioni di separazione e divorzio nell’ipotesi di sopravvenienza di giustificati motivi, con conseguente possibilità, ove dette circostanze modificative sopravvengano in pendenza di giudizio, di dedurle legittimamente in sede di gravame. L’impugnazione del solo addebito fa passare in giudicato il capo della sentenza contenente la pronuncia di separazione. Cass. sez. I, 21 marzo 2003, n. 4124 La pendenza del giudizio di impugnazione sulla sola dichiarazione di addebito della separazione tra coniugi non impedisce la proponibilità dell’azione di divorzio, non pregiudicando l’impugnazione sulla pronuncia di addebito il passaggio in giudicato della pronuncia sulla separazione. Trattasi di capi autonomi della stessa sentenza in quanto tali assoggettabili all’applicazione generale dell’art. 329, comma 2, c.p.c. in tema di impugnazione parziale della sentenza e conseguente acquiescenza sulle parti non impugnate. Audizione del minore La mancata audizione del minore costituisce causa di nullità per difetto del contraddittorio. Cass. sez. unite, 21 ottobre 2009, n. 22238 La mancata audizione del minore senza una giustificazione plausibile determina nei procedimenti di separazione o di revisione delle condizioni di separazione un difetto di contraddittorio cui consegue la nullità della decisione. Competenza È incostituzionale la competenza territoriale in sede di divorzio determinata dall’ultima residenza comune dei coniugi. Corte cost. 23 maggio 2008, n. 169 Il giudice della separazione non ha competenza in materia di restituzione di spese condominiali. Cass. sez. I, 19 settembre 2005, n. 18476 Qualora un coniuge, facendo espresso riferimento e richiamo al provvedimento temporaneo e urgente di assegnazione della casa familiare all’altro coniuge, adottato nella sede presidenziale del giudizio di separazione personale, richieda il rimborso di quanto da lui spontaneamente e consapevolmente corrisposto a titolo di spese condominiali e di riscaldamento, nonché a titolo di imposte e tasse, la domanda che così viene proposta mira a esercitare un diritto che in detta situazione trova il suo presupposto, onde si è al di fuori dell’ambito del giudizio principale di separazione ex articolo 706 e seguenti del Cpc o del giudizio per la modifica delle conseguenti statuizioni ex articolo 710 del Cpc, considerato che siffatta domanda non presenta dirette connessioni con quelle statuizioni e attiene, piuttosto, alla sorte degli oneri sopra indicati, cosicché, pur trattandosi di abitazione familiare di coniugi in regime di separazione, la competenza del giudice determinata secondo le regole comuni non trova deroga in favore del giudice competente per la separazione o del giudice competente per la modifica dei relativi provvedimenti. Ai fini della competenza territoriale la residenza del convenuto non necessariamente va desunta dalla risultanze anagrafiche. Cass. sez. I, 5 agosto 2005, n. 16525 A norma dell’articolo 4 della legge 898/1970, come sostituito dall’articolo 8 della legge 74/1987, la domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio si propone al tribunale del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio oppure, in caso di irreperibilità o di residenza all’estero, al tribunale del luogo di residenza o di domicilio del ricorrente. La residenza del convenuto è segnata dal luogo abituale e volontaria dimora, ovvero dall’elemento obiettivo costituito dalla permanenza in tale luogo e dall’elemento soggettivo rappresentato dall’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni familiari e sociali, tenendo conto, al riguardo, che le risultanze anagrafiche offrono una mera presunzione, superabile alla stregua di ogni altro mezzo di prova, ivi inclusi quelli risultanti da atti e dichiarazioni della stessa parte, in grado di evidenziare in concreto la diversa ubicazione di detta dimora, laddove, allorché si dimostri o risulti che il terzo di buona fede fosse a conoscenza della mancata corrispondenza fra residenza anagrafica e residenza effettiva, non può operare, rispetto a esso, la più rigorosa disciplina di cui all’articolo 44 del Cc in gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 119 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA ordine all’opponibilità del trasferimento della residenza e, anzi, una simile conoscenza comporta l’obbligo di tentare e di eseguire le notificazioni nel luogo della reale ed effettiva dimora abituale, non già presso il luogo dove il destinatario risulti anagraficamente residente. Comportamento anteriore alla separazione Se la separazione è stata pronunciata senza addebito è precluso al giudice del divorzio prendere in considerazioni fatti precedenti alla sentenza di separazione. Cass. sez. I, 1° febbraio 2005, n. 1989 Il comportamento dei coniugi, anteriore alla separazione, resta superato e assorbito dalla valutazione effettuata al riguardo dal giudice della separazione. Ne deriva, pertanto, che ove questa sia stata pronunciata senza addebito (e con il riconoscimento del diritto a percepire un assegno di mantenimento in favore di uno dei coniugi) nell’accertamento delle ragioni della decisione, ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio può tenersi conto solo del comportamento della parte beneficiaria dell’assegno successivo alla separazione, quando esso si sia rilevato tale da precludere la ricostituzione della comunione spirituale e materiale dei coniugi. Connessione La mancanza di connessione tra più domande (separazione e restituzione somme) deve essere rilevata o eccepita entro la prima udienza di trattazione. Cass. sez. I, 24 aprile 2007 n. 9915 Proposta nei confronti dei coniugi, nell’ambito di un giudizio di separazione personale, soggetto al rito camerale, una domanda di restituzione di somme di denaro o di beni mobili, al di fuori delle ipotesi di connessione qualificata di cui agli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 del Cpc, la mancanza di una ragione di connessione idonea a consentire, ai sensi del comma 3 dell’articolo 40 del Cpc, la trattazione unitaria delle cause, può essere rilevata dal giudice non oltre la prima udienza, in analogia a quanto disposto dal comma 2 del medesimo articolo 40, di talché non può essere rilevata d’ufficio per la prima volta in appello al fine di dichiarare l’inammissibilità della domanda, esaminata e decisa nel merito in primo grado. Consulenza tecnica d’ufficio Non è censurabile la sentenza che recepisce per relationem le conclusioni di una CTU. Cass. sez. I, 4 maggio 2009, n. 10222 Non incorre nel vizio di carenza di motivazione la sentenza che recepisca “per relationem” le conclusioni e i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui dichiari di condividere il merito; pertanto, per infirmare, sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, tale motivazione è necessario che la parte alleghi le critiche mosse alla consulenza tecnica d’ufficio già dinanzi al giudice “a quo”, la loro rilevanza ai fini della decisione e l’omesso esame in sede di decisione; al contrario, una mera disamina, corredata da notazioni critiche, dei vari passaggi dell’elaborato peritale richiamato in sentenza, si risolve nella mera prospettazione di un sindacato di merito, inammissibile in sede di legittimità. Cumulo di domande La domanda di divorzio non è cumulabile con domande per le quali è previsto il rito ordinario. Cass. sez. I, 21 maggio 2009, n. 11828 120 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 L’art. 40 cod. proc. civ. consente nello stesso processo il cumulo di domande soggette a riti diversi soltanto in ipotesi qualificate di connessione (art. 31, 32, 34, 35 e 36), così escludendo la possibilità di proporre più domande connesse soggettivamente e caratterizzate da riti diversi: conseguentemente, è esclusa la possibilità del “simultaneus processus” tra l’azione di divorzio e quella avente ad oggetto, tra l’altro, la restituzione di beni mobili, essendo quest’ultima soggetta al rito ordinario, autonoma e distinta dalla prima. (Nella specie il ricorrente chiedeva pronunciarsi la cessazione degli effetti civili del matrimonio e la condanna di controparte alla restituzione dell’anello di fidanzamento). La domanda di divisione non è cumulabile con quella di divorzio. Corte d’appello di Roma, 15 giugno 2005 L’articolo 40 del Cpc consente nello stesso processo il cumulo di domande soggette a riti diversi solo in presenza di ipotesi qualificate di connessione, così escludendo la possibilità di proporre più domande connesse soggettivamente ai sensi dell’articolo 33 del Cpc e soggette a riti diversi; conseguentemente è esclusa la possibilità del simultaneus processus nell’ambito dell’azione di divorzio o di separazione soggette al rito della camera di consiglio con quelle di scioglimento della comunione di beni immobili, di restituzione di beni mobili o di restituzione e pagamento di somme di denaro, soggette al rito ordinario, trattandosi di domande non connesse a quella di divorzio, ma autonome e distinte. Più domande connesse solo soggettivamente non possono essere trattate con lo stesso rito. Cass. sez. I, 30 agosto 2004, n. 17404 L’articolo 40 c.p.c. (nel testo novellato dalla legge n. 353 del 1990) consente nello stesso processo il cumulo di domande soggette a riti diversi solo in presenza di ipotesi qualificate di connessione cosi escludendo la possibilità di proporre nello stesso giudizio più domande, connesse soggettivamente ai sensi dell’articolo 33 del c.p.c., ma soggette a riti diversi. Deriva, da quanto precede, pertanto, che ove sia stata proposta, nella forma del rito camerale, domanda diretta all’attribuzione di un assegno di divorzio deve essere cassato il provvedimento che oltre a statuire su tale richiesta abbia anche attribuito all’ex coniuge richiedente, una quota del trattamento di fine rapporto non sulla base dell’articolo 12 bis della legge n. 898 del 1970 sul divorzio, ma in applicazione di una scrittura privata sottoscritta dalle parti prima della pronuncia di divorzio. Non sussiste, infatti, alcun rapporto di consequenzialità, tra la domanda di riconoscimento del diritto alla percezione di un assegno divorziale e la domanda di riconoscimento a una quota del trattamento di fine rapporto fondata su una scrittura privata. Domanda di addebito La domanda di addebito è inammissibile se non contiene le ragioni della richiesta. Cass. sez. I, 31 maggio 2007, n. 12763 Nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la richiesta di addebito, pur essendo proponibile solo nell’ambito del giudizio di separazione, ha natura di domanda autonoma, presupponendo l’iniziativa di parte, soggiacendo alle regole e alle preclusioni stabilite per le domande, avendo una causa petendi (violazione dei doveri nascenti dal matrimonio in rapporto causale con le ragioni giustificatrici della separazione, intollerabilità della convivenza o dannosità per la prole) e un petitum (statuizione destinata a incidere sui rapporti patrimoniali con la perdita del diritto al mantenimento e della qualità di erede riservatario e di erede legittimo) distinti da quelli della domanda di separazio- MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA ne. Ne consegue che la mancata indicazione delle ragioni della richiesta di addebito, attraverso la formulazione di una riserva di successiva precisazione delle ragioni stesse, rende inabissabile la domanda. La domanda di addebito costituisce una domanda autonoma. Cass. sez. I, 10 marzo 2006, n. 5206 Nel giudizio di separazione personale dei coniugi la richiesta di addebito, pur essendo proponibile solo nell’ambito di tale giudizio, ha natura di domanda autonoma, in quanto non sollecita mere modalità o varianti dell’accertamento già devoluto al giudice con la domanda di separazione, né mira a semplici specificazioni o qualificazioni della pronuncia di separazione, ma amplia il tema dell’indagine su fatti ulteriori e indipendenti da quelli giustificativi del regime di separazione, e tende a una statuizione aggiuntiva priva di riflessi sulla pronuncia di separazione, dotata di propri distinti effetti. Ne consegue che anche a essa si applica l’articolo 277 del Cpc e sulla separazione personale può essere emanata sentenza parziale, proseguendo la causa per la pronuncia sull’addebito. La domanda di addebito ha natura di domanda autonoma. Cass. sez. I, 18 luglio 2005, n. 15157 Nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la richiesta di addebito, pur essendo proponibile solo nell’ambito del giudizio di separazione, ha natura di domanda autonoma; infatti, la stessa presuppone l’iniziativa di parte, soggiace alle regole e alle preclusioni stabilite per le domande, ha una causa petendi (la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio in rapporto causale con le ragioni giustificatrici della separazione, intollerabilità della convivenza o dannosità per la prole) ed un petitum (statuizione destinata a incidere sui rapporti patrimoniali con la perdita del diritto al mantenimento e della qualità di erede riservatario e di erede legittimo) distinti da quelli della domanda di separazione. Pertanto, in carenza di ragioni sistematiche contrarie e di norme derogative dell’articolo 329, secondo comma Cpc, l’impugnazione proposta con esclusivo riferimento all’addebito contro la sentenza che abbia pronunciato la separazione ed al contempo ne abbia dichiarato l’addebitabilità, implica il passaggio in giudicato del capo sulla separazione, rendendo esperibile l’azione di divorzio pur in pendenza di detta impugnazione. Domanda riconvenzionale È del tutto legittima la domanda riconvenzionale di assegno divorzile contenuta nella comparsa di risposta depositata all’udienza presidenziale. Cass. sez. I, 12 settembre 2005, n. 18116 Non sussiste improcedibilità della domanda riconvenzionale diretta a ottenere la condanna di controparte al pagamento di un assegno di divorzio, per essere la stessa contenuta nella comparsa di risposta elaborata per la comparizione dinanzi al presidente del tribunale nell’udienza di cui all’articolo 4 della legge n. 898 del 1970, qualora la comparsa stessa sia stata depositata oltre venti giorni prima dell’udienza di comparizione innanzi al giudice istruttore e, quindi, nei termini dell’articolo 167 del Cpc, per cui deve negarsi ogni decadenza per tardività ex articolo 168 del Cpc. Inoltre se è indubbio che il limite massimo per la proposizione della domanda riconvenzionale di assegno di divorzio è la prima udienza dinanzi al giudice istruttore non può negarsi la tempestività della richiesta di assegno proposta con la comparsa di risposta dinanzi al presidente, in tempo antecedente alla udienza di prima comparizione innanzi al giudice istruttore, di cui all’articolo 180 del codice di procedura civile. Giurisdizione e legge applicabile Attenendo il divorzio alle questioni di stato e non ai rapporti personali tra coniugi, tra due coniugi di diversa nazionalità, uno dei quali avente anche la cittadinanza italiana, la legge applicabile è quella italiana. Cass. sez. I, 27 aprile 2004, n. 8010 Alla domanda congiunta di divorzio presentata da due coniugi, uno dei quali avente anche la cittadinanza italiana, deve essere applicata la legge italiana, poiché ai fini dell’applicazione delle norme di diritto internazionale privato l’istituto del divorzio va qualificato come attinente non ai rapporti personali tra coniugi (per i quali trova applicazione l’articolo 18 delle preleggi, vigente all’epoca della presentazione della domanda) ma allo stato delle persone, in quanto con la sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale cessa tra le parti la reciproca qualità di coniugi. Nel processo di separazione c’è giurisdizione del giudice italiano se il ricorrente risiede in Italia. Cass. sez. unite, 3 febbraio 2004, n. 1994 Ai sensi dell’art.3 della legge 218 del 1995, nell’ipotesi in cui nessuno dei coniugi sia cittadino italiano e il matrimonio sia celebrato all’estero, sussiste la giurisdizione del giudice italiano a conoscere della domanda di separazione personale anche se il convenuto abbia la propria residenza all’estero, qualora l’attore sia, anche di mero fatto, residente in Italia. Impugnazione Gli eredi della parte defunta possono impugnare la sentenza di divorzio. Cass. sez. I, 17 luglio 2009, n. 16801 Avverso la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, intervenuta successivamente alla morte di una delle parti, è ammissibile l’appello della parte superstite, al fine di ottenere una pronuncia di cessazione della materia del contendere nella causa di divorzio, ormai priva di oggetto, essendo gli effetti civili del matrimonio già venuti meno, per la morte di uno dei coniugi, ai sensi dell’art. 149 cod. civ.; nel giudizio d’impugnazione, gli eredi della parte deceduta sono legittimati processuali ex art. 110 cod. proc. civ, in qualità di successori universali della parte deceduta, anche se ad essi non sia trasmesso o non sia trasmissibile il diritto controverso. (Dichiara cessata la materia del contendere, App. Perugia, 20/12/2004) Nel giudizio di appello di separazione che ha natura camerale non è necessaria la fissazione di una udienza per la precisazione delle conclusioni. Cass. sez. I, 17 giugno 2009, n. 14081 Qualora, in grado di appello, nel corso dell’udienza di prima comparizione delle parti, in tema di separazione personale dei coniugi, sia concesso un rinvio per la produzione del fascicolo di parte di primo grado e in questa nuova udienza il collegio si riservi la decisione, senza ulteriore rinvio, non sussiste la nullità della sentenza, atteso che non avendo in tale udienza le parti formulato nuove conclusioni sono rimaste ferme quelle in precedenza assunte. Specie tenuto conto - altresì - che nei procedimenti di natura contenziosa che si svolgono con il rito camerale (quale il giudizio di appello in materia di separazione dei coniugi) caratterizzati da esigenze di celerità e semplicità di forme, non sono applicabili gli art. 189 e 190 c.p.c., disposizioni proprie del processo ordinario, così che non è necessaria la fissazione di un’udienza per la precisazione delle conclusioni. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 121 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Anche il giudice di appello può richiedere informazioni alla pubblica amministrazione. Cass. sez. I, 13 maggio 2009, n. 11131 La richiesta d’informazioni, disciplinata dall’art. 213 c.p.c., non è un mezzo istruttorio precluso in appello dall’art. 345 c.p.c. Il ricorso a tale tipo di strumento rientra nella piena discrezionalità del Giudice, che può disporlo ogni qualvolta lo ritenga indispensabile ai fini della decisione. Intervento dei nonni E’ inammissibile nel procedimento di separazione l’intervento adesivo dei nonni. Cass. sez. I, 16 ottobre 2009, n. 22081 La legittimazione all’intervento ad adiuvandum presuppone la titolarità nel terzo di una situazione giuridica in relazione di connessione - da individuarsi in termini di pregiudizialità dipendenza - con il rapporto dedotto in giudizio, tale da esporlo ai cd. effetti riflessi del giudicato. Ciò posto, anche alla luce della novella di cui alla L. n. 54 del 2006 che notevolmente valorizza la posizione degli ascendenti e degli altri parenti di ciascun ramo genitoriale nei confronti del minore, non pare potersi riconoscersi la sussistenza di una posizione siffatta in capo ai menzionati soggetti nell’ambito dei giudizi di separazione o divorzio, poiché immutati quanto alla natura, all’oggetto, ai diritti ed alle posizioni anche in seguito alla citata novella. L’oggetto del giudizio di separazione personale, in quanto concernente l’accertamento delle condizioni per l’autorizzazione alla cessazione della convivenza e la determinazione degli effetti che da tale cessazione derivano nei rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi e nei confronti dei figli, incide e notevolmente delimita la individuazione dei soggetti legittimati ad agire in siffatto giudizio. La legittimazione compete, invero, unicamente ai coniugi, ai sensi dell’art. 150 c.c., tale da non potersi ravvisare la sussistenza di diritti relativi all’oggetto o dipendenti dal titolo dedotto nel processo che possano legittimare un intervento di terzi, ex art. 105, comma primo, c.p.c. o un interesse di terzi a sostenere le ragioni di una delle parti, sul quale fondare un intervento ad adiuvandum ai sensi del secondo comma della medesima norma di cui all’art. 105 c.p.c. miliare consequenziale all’allentamento del vincolo matrimoniale (onde vengono ad incidere soltanto sulle modalità di esercizio della potestà genitoriale e non postulano il pregiudizio o il pericolo di un pregiudizio per la prole medesima). Morte di un coniuge La morte di un coniuge nel corso del processo di separazione comporta la cessazione della materia del contendere. Cass. sez. I, 27 aprile 2006, n. 9689 La morte di uno dei coniugi sopravvenuta nel corso del giudizio di separazione personale comporta il venir meno della materia del contendere, travolgendo le pronunce emesse e non ancora passate in giudicato. (Enunciando il principio di cui in massima, la Corte, in un caso in cui l’evento era sopravvenuto alla notifica del ricorso per cassazione, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso stesso per sopravvenuta cessazione della materia del contendere). La morte di uno dei coniugi produce la cessazione della materia del contendere e il potere di impugnazione della sentenza di divorzio non è trasmissibile agli eredi. Cass. sez. I, 25 giugno 2003, n. 10065 La morte di uno dei coniugi produce lo scioglimento de! matrimonio e, quindi, ove sopravvenuta nel corso del giudizio di divorzio, comporta il venir meno della materia del contendere e travolge le eventuali pronunce in precedenza emesse e non ancora passate in giudicato . Il potere di impugnare, come quello di resistere alla impugnazione, di sentenza (in primo grado) di divorzio ha (come il sottostante potere di azione) natura personalissima e non è trasmissibile agli credi (nella specie, tale si dichiarava la donna sposala in seconde nozze dall’ex coniuge, dopo la pronunzia di primo grado, erroneamente trasmessa all’ufficiale di stato civile, prima del correlativo passaggio in giudicato); potendo, invece, gli eredi continuare a far valere nel processo soltanto quei diritti od obblighi di carattere economico, inerenti al patrimonio del loro dante causa eventualmente già dedotti in connessione con la domanda di divorzio e che, quindi, siano già stati acquisiti al suo patrimonio prima della morte. Litispendenza Mutamento del titolo Non può esserci litispendenza tra procedimento di separazione e procedimento de potestate. Cass. sez. I, 21 febbraio 2004, n. 3529 La litispendenza, che determina la competenza in base al criterio della prevenzione, sussiste solamente quando fra due o più cause vi sia, oltre all’identità dei soggetti, anche l’identità di petitum e di causa pretendi, di guisa che la stessa non è configurabile - stante la comunanza soggettiva soltanto parziale e la diversità oggettiva - tra il giudizio di separazione personale dei coniugi e il procedimento per la pronunzia di decadenza dalla potestà dei figli ex art. 330 cod. civ. nonché per l’emanazione degli ulteriori provvedimenti di cui all’art. 333 cod. civ.: infatti quest’ultimo procedimento, da un lato contempla espressamente il pubblico ministero tra i legittimati al relativo promovimento, e dall’altro, in ordine alla causa pretendi e al petitum, fa riferimento ad una condotta di uno o di entrambi i genitori necessariamente pregiudizievole al figlio (sia o non sia quest’ultima tale da dar luogo alla suindicata pronuncia di decadenza) ed ha ad oggetto l’emanazione degli anzidetti provvedimenti di cui agli artt. 330 e ss. cod. civ., laddove nel giudizio di separazione personale, le (eventuali) statuizioni relative ai figli minorenni, di cui all’art. 155 cod. civ., si inseriscono nel quadro di una regolamentazione della vita fa- Non è ammissibile dopo la separazione consensuale o giudiziale senza addebito chiedere l’addebito della separazione. Cass. sez. I, 20 marzo 2008, n. 7450 L’inammissibilità del mutamento del titolo della separazione prescinde completamente dal carattere preesistente o sopravvenuto, rispetto alla separazione consensuale, dei comportamenti costituenti violazione dei doveri coniugali, ma attiene alla stessa struttura e funzione dell’istituto della separazione personale dei coniugi. 122 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Obbligo di contestazione Anche nelle cause di separazione e divorzio sussiste l’onere di contestazione a carico delle parti. Cass. Sez. I, 27 febbraio 2008, n. 5191 Ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto) un onere di allegazione (e prova), l’altra ha l’onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata la controparte del relativo onere probatorio, senza che rilevi la natura di tale fatto. Non esiste per una parte un obbligo di contestazione delle circostanze dedotte dall’altra negli atti difensivi. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Cass. sez. I, 16 gennaio 2003, n. 559 Al fine di decidere circa la domanda di addebito della separazione il giudice è tenuto a esaminare la condotta di entrambi i coniugi, e le circostanze di fatto affermate da uno dei due non possono considerarsi provate perché l’altro non le ha contestate. marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, in rapporto agli artt. 156, comma 6, del codice civile e 8, comma 3, della legge n. 898 del 1970, nella parte in cui non prevederebbe la possibilità per il giudice in caso di inadempienza di disporre a carico del terzo l’ordine di pagamento dell’assegno. Poteri del giudice Prima udienza Anche in sede di separazione, come previsto per il divorzio, il giudice in caso di contestazioni sui redditi deve disporre indagini attraverso la polizia tributaria. Cass. sez. I , 17 maggio 2005, n. 10344 Anche in materia di separazione dei coniugi, con riguardo all’assegno di mantenimento, deve ritenersi applicabile in via analogica - stante l’identità di ratio, riconducibile alla funzione eminentemente assistenziale dell’assegno in questione - la norma dell’art. 5, comma 9, l. 1° dicembre 1970 n. 898, nel testo novellato dall’art. 10 l. 6 marzo 1987 n. 74, il quale, in tema di riconoscimento e determinazione dell’assegno divorzile, stabilisce che “in caso di contestazioni, il tribunale dispone indagini sui redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”. L’esercizio di tale potere di disporre indagini patrimoniali con l’avvalimento della polizia tributaria, che costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, e non può essere considerato anche come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche; tale discrezionalità, tuttavia, incontra un limite nella circostanza che il giudice, potendosi avvalere di siffatto potere, non può rigettare le istanze delle parti relative al riconoscimento e alla determinazione dell’assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali si fondano, giacchè in tal caso il giudice ha l’obbligo di disporre accertamenti d’ufficio, avvalendosi anche della polizia tributaria. Il giudice può ordinare la cancellazione dell’ipoteca iscritta dal coniuge creditore se non sussiste più il rischio di inadempimento. Cass. sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309 Posto che l’avente diritto, per sé o per i figli, oltre che dalla garanzia ex lege nascente dall’ipoteca giudiziale ai sensi dell’art. 2818 cod. civ., può essere tutelato nei rispettivi interessi da specifiche garanzie imposte al debitore dalla sentenza di divorzio o di separazione, quando vi sia il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento delle sue obbligazioni, si deve ritenere che la valutazione del creditore, ai fini dell’iscrizione ipotecaria, circa la sussistenza di siffatto pericolo resta sindacabile nel merito, onde la relativa mancanza, originaria o sopravvenuta, determina, venendo appunto meno lo scopo per cui la legge consente il vincolo, l’estinzione della garanzia ipotecaria già prestata e, di conseguenza, il sorgere del diritto dell’obbligato ad ottenere dal giudice, dietro accertamento delle condizioni anzidette, l’emanazione del corrispondente ordine di cancellazione ai sensi dell’art. 2884 cod. civ. Può il giudice del divorzio impartire al terzo in corso di causa l’ordine di pagare direttamente al beneficiario l’assegno provvisorio di divorzio? Corte cost. 20 aprile 2004, n. 126 E’ inammissibile la questione - sollevata dal Giudice istruttore di Avezzano nel corso di un procedimento di divorzio - di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 1° dicembre 1970 n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come modificato dall’art. 8 della legge 6 Nei giudizi di separazione la prima udienza di comparizione è quella davanti al giudice istruttore e non quella presidenziale. Cass. sez. I, 20 aprile 2006, n. 9170 All’esito delle modifiche apportate dall’articolo 8 della legge 74/1987 alla legge 898/1970, alla natura fin dall’origine contenziosa dei procedimenti di separazione giudiziale e di scioglimento del matrimonio non caratterizza l’udienza presidenziale di comparizione dei coniugi in termini corrispondenti a quelli dell’udienza prevista dall’articolo 180 del Cpc, con la conseguenza, fra l’altro, che, ai fini dei termini per la costituzione del coniuge convenuto a quelli di decadenza dello stesso per la formulazione delle domande riconvenzionali, ivi compresa quella di riconoscimento dell’assegno divorzile, quale udienza di prima comparizione, ex articoli 166, 167 e 180 del Cpc, deve intendersi esclusivamente quella innanzi al giudice istruttore nominato all’esito della fase presidenziale, senza, tra l’altro, porsi in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, considerata la specialità del procedimento di divorzio in ordine alla cosiddetta fase introduttiva. Prova In materia di addebito il giudice è vincolato alle prove richieste dalle parti. Cass. sez. I, 4 giugno 2008. n.14802 La regola, più volte enunciata da questa Corte, che ai fini dell’addebitabilità della separazione l’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve essere svolta dal giudice sulla base della valutazione globale nonché sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, e che la condotta dell’uno non possa essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, non significa affatto che in questa materia egli possa decidere prescindendo dalle allegazioni e dalle prove (ritualmente) offerte dalle parti; o che per acquisirle comunque egli non debba tener conto delle preclusioni in cui sia incorsa ciascuna di esse; ovvero dei singoli mezzi di prova offerti: essendo al giudice consentito di derogare alle regole generali sull’onere della prova solo nei casi in cui tale deroga sia giustificata da finalità di ordine pubblicistico; che ricorrono nell’ipotesi di provvedimenti relativi all’affidamento dei figli ed al contributo al loro mantenimento ai sensi dell’art. 155, settimo comma, cod. civ., ma non anche nell’ipotesi in cui si intenda dare dimostrazione della esistenza di comportamenti di uno dei coniugi contrari ai doveri derivanti dal matrimonio (Cass. 21293/2007; 12136/2001). L’inconsumazione del matrimonio che consente il divorzio può essere provata con ogni mezzo. Tribunale di Modena, 27 febbraio 2004 La mancata consumazione ai fini della pronuncia di scioglimento del matrimonio ai sensi dell’art. 3 comma 2 lett. f) l. 1 dicembre 1970, n. 898 può ritenersi provata, anche in assenza di un accertamento effettivo della circostanza, dalla mancata costituzione in giudizio della convenuta e dalla prova dell’accordo dei coniugi per la simulazione del matrimonio finalizzato all’acquisto della cittadinanza italiana da parte della moglie. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 123 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Provvedimenti presidenziali Nei giudizi di separazione e di divorzio, i provvedimenti diretti alla tutela degli interessi materiali e morali dei figli minori possono essere adottati sempre anche d’ufficio. Cass. sez. I, 28 gennaio 2008, n. 1775 Nei giudizi di separazione e di divorzio, i provvedimenti necessari alla tutela e alla cura degli interessi materiali e morali dei figli minori, comprendenti anche quelli di attribuzione e determinazione di un contributo di mantenimento a carico del genitore non affidatario, possono essere adottati d’ufficio, essendo rivolti a soddisfare preminenti esigenze e finalità pubblicistiche, onde restano sottratti sia al principio della domanda e l’eventuale richiesta del genitore affidatario volta a ottenere la condanna dell’altro genitore alla corresponsione del contributo anzidetto si risolve nella mera sollecitazione al giudice della separazione o del divorzio affinché eserciti il suo potere d’ufficio e non ricade, quindi, sotto il divieto dello ius novorum, né con riguardo al giudizio di primo grado, né con riguardo al giudizio di appello. Nel vigore delle norme anteriori alla riforma sull’affidamento condiviso del 2006 che ha introdotto il reclamo avverso i provvedimenti presidenziali, non sono reclamabili i provvedimenti presidenziali quando il giudice istruttore designato è diverso dal presidente. Tribunale di Genova, 10 maggio 2004 Nel processo di separazione coniugale non sono impugnabili con il reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c. i provvedimenti presidenziali adottati nell’interesse dei coniugi e della prole, quando lo stesso presidente abbia nominato giudice istruttore un altro magistrato. Non sono di norma reclamabili al collegio i provvedimenti del giudice istruttore nel corso della causa di separazione. Tribunale di Brindisi, 12 agosto 2003 I provvedimenti nell’interesse dei coniugi e della prole emanati dal giudice istruttore non hanno natura cautelare e perciò non sono in linea di principio reclamabili al collegio, ma i provvedimenti che il medesimo istruttore, nel contesto delle funzioni e dei poteri regolati dall’art. 708 c.p.c., adotta in via di urgenza al fine di fare fronte con tempestività a situazioni di pericolo imminente di un danno grave ed irreparabile prospettato da taluna delle parti, hanno natura cautelare e perciò sono reclamabili al collegio. Non sono reclamabili al collegio i provvedimenti del giudice istruttore nel corso della causa di separazione. Tribunale di Verona, 20 febbraio 2003 È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 708, 4° comma, c.p.c., nella parte in cui non prevede che i provvedimenti del giudice istruttore siano suscettibili di reclamo al collegio, in riferimento agli art. 3, 24, 29 e 30 Cost. Rapporti tra separazione e divorzio La pronuncia di divorzio non comporta la cessazione della materia del contendere nell’eventuale giudizio di separazione ancora in corso. Cass. sez. I, 28 ottobre 2005, n. 21091 La pronuncia di scioglimento del vincolo coniugale, operando ex nunc dal momento del passaggio in giudicato, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale che sia iniziato anteriormente e sia tuttora in corso, ove esista l’interesse di una delle parti all’operatività della pronuncia e dei conseguenti provvedimenti patrimoniali, come nel caso in cui persista 124 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 quello alla definitiva regolamentazione dell’assegno fino alla sentenza di divorzio. Ricorso per cassazione Le sentenze della Corte d’appello in materia di separazione e divorzio sono ricorribili per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c. ancorché emesse in camera di consiglio. Cass. sez. I, 9 maggio 2007, n. 10638 A norma dell’art. 360 c.p.c., infatti, tutte le sentenze, ancorché emesse a seguito di procedimento in camera di consiglio, sono ricorribili per i motivi ivi indicati, e quindi anche, ai sensi del n. 5 dell’articolo, per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Sentenza non definitiva E’ ammissibile la riserva di impugnazione avverso la sentenza non definitiva sull’assegno divorzile. Cass. sez. I, 12 febbraio 2009, n. 3488 In tema divorzio, la disposizione di cui all’art. 4, nono comma, della legge 1 dicembre 1970, n 898, nella formulazione introdotta dall’art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, secondo la quale, ai fini acceleratori della definizione del rapporto personale tra i coniugi, avverso la pronuncia sullo “status”, resa con sentenza non definitiva, è ammesso solo appello immediato, facendo eccezione alle regole generali del codice di rito e stante il tenore dell’art. 14 disp. prel. cod. civ., è insuscettibile di applicazione analogica; ne discende che è ammissibile la riserva facoltativa di ricorso avverso la sentenza non definitiva che quantifica ed attribuisce l’assegno divorzile. Nel vigore delle norme anteriori alla riforma processuale del 2005 che l’ha espressamente introdotta per la separazione, la sentenza non definitiva di separazione può essere sempre adottata ex art. 277, comma 2, c.p.c. Cass. sez. I, 31 ottobre 2005, n. 21193 In tema di separazione personale dei coniugi con richiesta di addebito, il giudice di merito, ex articolo 277, comma 2 del Cpc, può limitare la decisione alla domanda di separazione, se ciò corrisponda a un apprezzabile interesse della parte e non sussista per la domanda stessa la necessità di ulteriore istruzione, con l’effetto della formazione del giudicato sulla pronuncia parziale di separazione non impugnata e della proponibilità, in tale ipotesi, della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonostante il protrarsi della contesa sull’addebito. Anche avverso la sentenza non definitiva di separazione è esperibile soltanto appello immediato. Cass. sez. I, 18 luglio 2005, n. 15157 La disposizione di cui all’art. 4, comma 9, l. 1 dicembre 1970 n. 898, nella formulazione introdotta dall’art. 8 l. 6 marzo 1987 n. 74, in tema di procedimento di divorzio, secondo la quale, a fini acceleratori della definizione del rapporto personale tra i coniugi, la pronuncia sullo “status”, resa con sentenza non definitiva, è insuscettibile di appello differito, si rende applicabile anche ai giudizi di separazione personale, in virtù della disposizione di raccordo contenuta nell’art. 23 della legge n. 74 del 1987. Detta regola invero, ancor più che compatibile, è coessenziale al regime impugnatorio della sentenza parziale sulla domanda di separazione, atteso che una decisione siffatta non avrebbe ragione di essere anticipata ove, con lo strumento dell’appello differito, fosse consentito di bloccarne poi l’efficacia, mantenendola comunque legata ai tempi di decisione sul merito della domanda in ordine all’addebito, in tal modo MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA condizionando la legittima aspirazione a conseguire lo stato di separato, quale necessaria condizione precedente alla definitiva rescissione del vincolo matrimoniale, alle esigenze istruttorie relative a questioni accessorie ancora da definire. (Nell’enunciare il principio di cui in massima, la S.C. ha anche precisato che al giudice della domanda di divorzio spetta di valutare l’inammissibilità della riserva di appello differito avverso la sentenza parziale di separazione ai fini della verifica del presupposto dell’intervenuto giudicato sulla separazione). Nel vigore delle norme anteriori alla riforma processuale del 2005 che ha espressamente previsto la sentenza non definitiva di separazione, la disposizione dell’art. 4, comma 9, della legge 898/1970 in tema di sentenza non definitiva di divorzio è applicabile anche in separazione. Cass. sez. I, 18 luglio 2005, n. 15157 La disposizione dell’articolo 4, nono comma, della legge 898/1970, nella formulazione introdotta dall’articolo 8 della legge 74/1987, in tema di procedimento di divorzio, secondo la quale, a fini acceleratori della definizione del rapporto personale tra i coniugi, la pronuncia sullo status, resa con sentenza non definitiva, è insuscettibile di appello differito, è applicabile anche ai giudizi di separazione personale, per effetto della disposizione di raccordo contenuta nell’articolo 23 della legge 74/1987. Detta regola, invero, è coessenziale al regime impugnatorio della sentenza parziale sulla domanda di separazione, atteso che una decisione siffatta non avrebbe ragione di essere anticipata ove, con lo strumento dell’appello differito, fosse consentito di bloccarne l’efficacia, mantenendola comunque legata ai tempi di decisione sul merito della domanda in ordine all’addebito, in tal modo condizionando la legittima aspirazione a conseguire lo stato di separato, quale necessaria condizione precedente la definitiva rescissione del vincolo matrimoniale, alle esigenze istruttorie relative a questioni accessorie ancora da definire. Al fine della proponibilità della domanda di divorzio, che venga fondata su sentenza di separazione giudiziale ovvero su omologazione di separazione consensuale, e per il caso in cui vi sia stato in precedenza un altro procedimento di separazione, poi estinto, la comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale, in detta pregressa procedura, è idonea a segnare il giorno iniziale per il computo del prescritto periodo di ininterrotta separazione, tenuto conto che tale comparizione personale comporta la formale constatazione della volontà dei coniugi di cessare la convivenza, e che gli effetti della stessa non restano travolti dall’estinzione del relativo processo. Anche nel vigore delle norme anteriori alla riforma processuale del 2005 è pienamente ammissibile nel giudizio di separazione la sentenza non definitiva di separazione anche in presenza di domanda di addebito. Cass. sez. I, 10 giugno 2005, n. 12284 Nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la richiesta di addebito, pur essendo proponibile solo nell’ambito del giudizio anzidetto, ha natura di domanda autonoma, dal momento che tale richiesta presuppone l’iniziativa di parte e soggiace alle regole e alle preclusioni stabilite per le domande, e ha, inoltre, una causa petendi e un petitum distinti da quelli della domanda di separazione. Ne consegue che: a) il giudice di merito, in applicazione dell’articolo 277, secondo comma, del Cpc, può limitare la decisione della domanda di separazione, se ciò corrisponda a un apprezzabile interesse della parte e se non sussista per la domanda stessa la necessità di ulteriore istruzione, con l’effetto della formazione del giudicato sulla pronuncia parziale di separazione non impugnata e della proponibilità, in tale ipotesi, della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonostante il protrarsi della contesa sull’addebito; b) l’impugnazione proposta con esclusivo riferimento all’addebito contro la sentenza che abbia pronunciato la separazione e al contempo ne abbia dichiarato (o negato) l’addebitabilità, implica il passaggio in giudicato del capo della separazione, rendendo esperibile l’azione di divorzio pur in pendenza di detta impugnazione. Se le parti precisano le conclusioni per la sentenza non definitiva di divorzio il tribunale potrebbe anche emettere sentenza definitiva su tutto il resto. Cass. sez. I, 24 marzo 2005 n. 6359 Nel giudizio di divorzio, il tribunale, ancorché le parti, nell’udienza di comparizione davanti al giudice istruttore, abbiano chiesto fissarsi udienza di spedizione della causa in decisione solo in relazione alla domanda di divorzio, può legittimamente pronunciare, senza che il relativo provvedimento sia inficiato da nullità, sentenza non definitiva, con la quale, oltre a dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio, disponga l’affidamento del figlio minore a uno dei coniugi, regoli il diritto di visita dell’altro e ponga a carico di quest’ultimo un contributo per il mantenimento del minore stesso, in quanto l’articolo 4, comma 9, della legge 898/1970 non esclude che il tribunale si pronunci, in sede non definitiva, anche in ordine all’affidamento e al mantenimento della prole, tenuto anche conto che si tratta di provvedimenti che sono sottratti alla iniziativa e alla disponibilità delle parti e sono rivolti a soddisfare esigenze e finalità pubblicistiche e possono essere adottati d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio di merito. In caso di precisazione delle conclusioni sulla sentenza non definitiva di separazione o divorzio il tribunale non può decidere sulle altre questioni. Cass. sez. I, 17 dicembre 2004, n. 23567 Qualora il giudice del divorzio rinvii la causa per la precisazione delle conclusioni esclusivamente sulla domanda di divorzio - in tal modo esprimendo la propria valutazione in ordine alla necessità di compiere una qualche attività istruttoria al fine di giungere alla definizione delle questioni economiche - è precluso al collegio di pronunciare, oltre che sulla domanda di divorzio, anche sugli aspetti patrimoniali di questo. Deve escludersi, infatti, nel procedimento in esame, l’applicabilità della regola di cui all’art. 189, comma 2, c.p.c. in forza della quale la rimessione della causa al collegio investe quest’ultimo di tutta la causa anche quando avviene a norma dell’art. 187, commi 2 e 3 c.p.c. perché sia decisa, separatamente, una questione di merito avente carattere preliminare. La sentenza non definitiva di divorzio costituisce un poteredovere del giudice. Corte d’appello di Roma, 18 luglio 2003 La disposizione circa l’emissione di una pronuncia parziale sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio si configura come ipotesi normativa di applicazione del principio generale di cui all’articolo 277, comma 2, del codice di procedura civile con l’unico elemento distintivo della sostituzione all’istanza di parte e alla necessaria verifica della sussistenza di un apprezzabile interesse concreto di questa alla sollecita definizione della domanda, del riconoscimento al giudice del divorzio del potere-dovere di pronunciare d’ufficio sentenza non definitiva, a priori giustificata, in forza di valutazione generale e astratta operata dal legislatore, dalla rispondenza della pronuncia a un interesse pubblicistico insito nella sollecita definizione delle controversie. In aderenza a ciò i presupposti per una pronuncia non definitiva di divorzio ri- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 125 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA corrono in ogni caso in cui le domande connesse a tale pronuncia richiedano indagini istruttorie, non apparendo l’interesse riconosciuto dalla legge a una sollecita definizione dello status condizionato dalla presenza di diversi requisiti, né soggetto a termini di decadenza. Sequestro Il sequestro previsto nell’art. 156, comma 6, c.c. ha natura sanzionatoria e non cautelare. Cass. sez. I, 19 febbraio 2003, n. 2479 Il provvedimento di sequestro dei beni del coniuge, obbligato all’assegno di mantenimento previsto dall’art. 156, comma 6, codice civile, è provvedimento di natura atipica, differente da quello del sequestro conservativo, in quanto prevede un titolo esecutivo già formato in luogo del fumus boni juris ed un inadempimento dell’obbligato in luogo del periculum in mora. Nei confronti di tale mezzo, peraltro, non si esclude l’applicabilità del combinato disposto degli arti. 669 quaterdecies c.p.c. e 669 terdecices, comma 3, c.p.c., secondo il quale il procedimento da seguire per l’attuazione della misura de qua è quello camerale, ai sensi degli arti. 737 ss. c.p.c. Non è ravvisabile il carattere della decisorietà nei provvedimenti emessi dal giudice, in forma diversa dalla sentenza, per regolare l’attuazione delle misure cautelari, nonché nelle pronunce rese in sede di reclamo avverso detti provvedimenti, avendo questi ultimi natura strumentale ed essendo gli stessi inidonei ad assumere efficacia di cosa giudicata, sia dal punto di vista formale, che da quello sostanziale, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione proposto, avverso i medesimi, ex art. 111 Cost. In particolare, è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione, proposto contro un decreto motivato della Corte d’appello, reso in sede di reclamo avverso il provvedimento del tribunale che concede il sequestro previsto dall’art. 156, comma 6, codice civile, in materia di separazione personale dei coniugi, e dall’art. 8, ultimo comma, L. n. 898/1970, in materia di divorzio. Sospensione del processo Il processo civile non può essere sospeso fuori dei casi tassativamente previsti. Cass. sez. unite, 1° ottobre 2004, n. 14670 L’art. 295 c.p.c. - nel testo modificato dall’art. 33 della legge 26 novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile) - prevede come unico caso di sospensione necessaria del processo civile quello in cui il giudice che procede, o altro giudice, debba risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa. In base all’art. 42 c.p.c. (nel testo riformato dall’art. 6 della legge 353/90) i provvedimenti che dichiarano la sospensione sono impugnabili soltanto con regolamento di competenza. Sono perciò inammissibili perché costituenti un diniego di giustizia sia pure temporaneo, ipotesi di sospensione del processo al di fuori dei casi tipicamente previsti. Con la conseguenza che i provvedimenti di sospensione adottati al di fuori dei casi previsti dalle legge sono da considerare impugnabili anche essi con il regolamento necessario di competenza. Tentativo di conciliazione Il tentativo di conciliazione in sede di divorzio non costituisce un presupposto indefettibile. Cass. sez. I, 16 novembre 2005, n. 23070 Nel giudizio divorzile il tentativo di conciliazione, pur configurando un atto necessario per l’indagine sulla irre- 126 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 versibilità della frattura spirituale e materiale del rapporto tra i coniugi, non costituisce, tuttavia, un presupposto indefettibile del giudizio. La mancata comparizione di una delle parti, pertanto, non comporta l’obbligo della fissazione di una nuova udienza presidenziale, la quale può essere omessa quando non se ne ravvisi la necessità o la opportunità, e risulti la persistente volontà della parte non comparsa di conseguire la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Tutela cautelare È ammissibile la tutela d’urgenza nel giudizio di separazione fino all’udienza presidenziale. Tribunale di Napoli, 24 marzo 2005 Con riferimento al processo di separazione giudiziale dei coniugi, il ricorso alla tutela cautelare atipica ex art. 700 c.p.c. è da ritenere ammissibile fino all’udienza destinata alla pronuncia dei provvedimenti presidenziali nell’interesse dei coniugi e della prole. SEPARAZIONE GIUDIZIALE DEI BENI Rapporti con la separazione coniugale Il giudizio di separazione giudiziale dei beni è compatibile con quello di separazione personale dei coniugi. Cass. sez. I , 10 giugno 2005, n. 12293 Deve escludersi che il giudizio di separazione giudiziale dei beni, di cui all’articolo 193 del Cc presuppone necessariamente la prosecuzione della convivenza e del rapporto matrimoniale, ben potendo lo stesso essere coltivato in pendenza del giudizio di separazione personale dei coniugi. La situazione determinata dai provvedimenti adottati dal presidente del tribunale nell’ambito del giudizio di separazione personale dei coniugi, circa i diritti e gli obblighi dei coniugi stessi e quanto al dovere di contribuzione, non incide né interferisce sulla situazione considerata dall’articolo 193 del Cc per la diversa finalità di conseguire la separazione giudiziale dei beni nell’ambito del regime di comunione legale dei beni. Ne deriva, pertanto, che il giudice può pronunciare quest’ultima - qualora uno dei coniugi non contribuisce ai bisogni della famiglia - ancorché nel giudizio di separazione il giudice di quest’ultima non abbia posto a suo carico alcun obbligo contributivo. (In applicazione dei riferiti principi, la Suprema corte ha osservato, da un lato, che nella specie l’inadempimento all’obbligo del marito di contribuire ai bisogni della famiglia preesisteva al provvedimento presidenziale che aveva autorizzato i coniugi a vivere separati, e risaliva agli ultimi anni della convivenza, dall’altro, che - comunque - la successiva legittimità del suo comportamento, a seguito del provvedimento presidenziale che autorizzava il marito stesso a non concorrere nelle spese di mantenimento della moglie, aveva effetti e si esauriva nell’ambito del giudizio di separazione personale e con riguardo alle statuizioni in esso conseguibili, nonché dei profili anche penali a essa connessi). MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA SOTTRAZIONE INTERNAZIONALE DI MINORI Audizione dei minori Nelle procedure di rimpatrio il tribunale può procedere alla valutazione del punto di vista del minore con le modalità che ritiene più idonee. Cass. sez. I, 15 febbraio 2008, n. 3798 L’articolo 13, comma 2, della convezione dell’Aja del 1980 sulla sottrazione internazionale di minore riguarda un’ipotesi di esclusione dell’ordine di rimpatrio che ricorre allorché il minore vi si oppone, sempre che costui abbia raggiunto “un’età ed un grado di maturità” tali da giustificare il rispetto della sua opinione. Nell’indagine sul raggiungimento da parte del minore di un’adeguata capacità di discernimento, al fine di esprimere una volontà idonea a opporsi al rimpatrio, il giudice non è tenuto a procedere all’audizione del minore secondo modalità particolari (ad esempio, procedendo all’esperimento di una consulenza tecnica d’ufficio), purché le ragioni del rifiuto siano adeguatamente motivate. Concetto di residenza In tema di sottrazione internazionale di minori la nozione di residenza abituale del minore va individuata con riferimento al luogo in cui il minore anche di fatto, ha il centro dei propri legami affettivi. Cass. sez. I, 16 febbraio 2008, n. 3798 In tema di sottrazione internazionale di minori la nozione di residenza abituale del minore, prevista dall’art. 3 della convenzione dell’Aja del 1980, va individuata con riferimento al luogo in cui il minore, in virtù di una durevole e stabile permanenza, anche di fatto, ha il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, derivanti dallo svolgersi in detta località della sua quotidiana vita di relazione, il cui accertamento è riservato all’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede legittimità, se congruamente e logicamente motivato. Ordine di rimpatrio Il rimpatrio di un minore può essere negato solo per una delle cause ostative e non per altre ragioni di merito. Cass. sez. I, 7 marzo 2007, n. 5236 In tema di illecita sottrazione internazionale di minori, ai sensi della Convenzione dell’Aja 25 ottobre 1980, il giudizio sulla domanda di rimpatrio non investe il merito della controversia relativa alla migliore sistemazione possibile del minore; cosicché tale domanda può essere respinta, nel superiore interesse del minore, solo in presenza di una delle circostanze ostative indacate dagli articoli 12, 13 e 20 della Convenzione, fra le quali non è compresa alcuna controindicazione di carattere comparativo che non assurga - nella valutazione di esclusiva competenza del giudice di merito al rango di vero e proprio rischio, derivante dal rientro, di esposizione a pericoli fisici e psichici o a una situazione intollerabile. L’ordine di rientro può essere disposto in seguito a violazioni al regime di affidamento e non al diritto di visita. Cass. sez. I, 21 marzo 2005, n. 6014 In base alla Convenzione internazionale sulla sottrazione dei minori il trasferimento del minore all’estero può essere deciso legittimamente dal genitore affidatario. Pertanto la misura dell’’immediato rientro non può applicarsi al caso del mancato rispetto del diritto di visita. Al coniuge titolare di un tale diritto, oltre ad attivare la autorità del proprio Paese e quella dello Stato di nuova residenza dei minori, non resta che adire il giudice della separazione e chiedere di rivalutare le condizioni dell’’affidamento alla luce del sopravvenuto e non concordato trasferimento della residenza del minore. Perché sia rigettata la richiesta di restituzione occorre la prova specifica e non generica del rischio grave per il minore. Cass. sez. I, 16 luglio 2004, n. 13167 In tema di sottrazione internazionale del minore da parte di uno dei genitori, la sussistenza del rischio grave del danno fisico o psichico a cui il minore sarebbe esposto esige, perché sia rigettata la richiesta di rimpatrio, ai sensi del paragrafo 6.3.1. della convenzione de L’Aja del 1980, la prova specifica (non generica o eventuale) del rischio “grave” che il bambino possa venire a trovarsi in una situazione intollerabile. Presupposti Non sussiste sottrazione internazionale allorché uno dei genitori riconduca i figli nel luogo di residenza abituale. Cass. sez. I, 16 giugno 2009, n. 13936 Nel caso di allontanamento dalla residenza abituale di minori per un soggiorno in altro Stato, limitato nel tempo, sull’accordo di entrambi i genitori, non si ravvisa sottrazione internazionale dei minori, sulla base dell’art. 3, Convenzione dell’Aja 25 ottobre 1980, quando uno dei genitori, pur in contrasto con l’altro, riconduca i minori al luogo di residenza abituale. Sulla differenza di tutela per la sottrazione e la violazione del diritto di visita. Cass. sez. I, 4 aprile 2007, n. 8481 Dall’esame della Convenzione dell’Aja 25 ottobre 1980 si ricava che in questa, per le vicende relative alla sottrazione internazionale di minore, sono tracciati percorsi assai differenti in ragione della diversa natura del diritto del genitore che si assume leso. In particolare, in caso di violazione del diritto di custodia attribuito al medesimo genitore in via esclusiva o congiunta, obiettivo della Convenzione è quello di ripristinare la situazione preesistente alla sottrazione, consentendo al minore stesso di tornare prima che sia possibile, a vivere con il genitore al quale è stato illecitamente sottratto. Diversamente, nel caso in cui sia compromesso il diritto di visita del genitore non affidatario, l’obiettivo della Convenzione, difettando il presupposto della illiceità del trasferimento, è garantire a quest’ultimo, con l’ausilio dell’autorità centrale, l’effettività dell’esercizio del suo diritto o, in alternativa, alla luce del diverso contesto ambientale in cui egli sia stato trasferito. La Convenzione dell’Aja sulla sottrazione internazionale presuppone la violazione di una situazione di fatto di affidamento di un minore. Cassazione sezione I, 28 dicembre 2006, n. 27593 Presupposto per l’applicazione della Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori non è la violazione di un provvedimento giudiziario bensì la violazione dell’affidamento quale situazione di mero fatto da reintegrare con l’immediato ritorno del minore nel proprio stato di residenza abituale. I presupposti per l’adozione dell’ordine di rimpatrio immediato. Cass. sez. I, 18 marzo 2006 n. 6081 a) In tema di sottrazione internazionale di minori l’accertamento della capacità di discernimento del minore (al fine della sua audizione nel procedimento diretto al rientro im- gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 127 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA mediato del minore stesso) rientra nell’insindacabile giudizio del tribunale per i minorenni, senza che sussista l’obbligo per lo stesso - istituzionalmente competente per natura, composizione e funzioni a rendersi direttamente conto del grado di sviluppo intellettivo del minore - di disporre specifici messi di accertamento di tale capacità, come la consulenza tecnica d’ufficio, considerati anche i ritmi serrati in cui il procedimento è scandito, essendo la materia caratterizzata dall’urgenza di provvedere. b) In tema di sottrazione internazionale di minori ove il minore sia capace di discernimento non è in sé illegittimo che il tribunale dei minorenni - investito della domanda diretta a ottenere il ritorno nel Paese di provenienza del minore - provveda a sentire il minore e tragga dal di lui ascolto elementi da ponderare alla luce dell’intera istruttoria del caso, al fine della valutazione in ordine alla sussistenza del fondato rischio, per il minore medesimo, di essere esposto, per il fatto del suo ritorno a pericoli psichici o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile. In una tale evenienza, peraltro, all’opinione espressa dal minore, contraria al rimpatrio, può attribuirsi efficacia non di causa esclusiva del rigetto dell’istanza, bensì di elemento corroborante il convincimento in ordine alla sussistenza del pregiudizio psichico quale causa autonoma e sufficiente di deroga al principio generale del rientro immediato. c) L’articolo 13, ultimo comma, della Convenzione dell’Aja 25 ottobre 1980, in tema di sottrazione internazionale di minori e di opposizione alla domanda di rimpatrio, prevede che, nel valutare le circostanze di cui alla medesima disposizione, le autorità giudiziarie devono tener conto delle informazioni fornite dall’autorità centrale e da ogni altra autorità competente dello Stato di residenza del minore, riguardo alla sua situazione sociale. La norma convenzionale, se non intende attribuire alle informazioni provenienti dallo Stato di residenza del minore un valore peculiare o addirittura pozione rispetto alle prove raccolte nel procedimento diretto a accertare la sussistenza delle condizioni per l’emanazione dell’ordine di ritorno, impone - tuttavia - al giudice dello Stato richiesto, con una indicazione vincolante di natura processuale, di valutare anche dette informazioni. Deve, per l’effetto, essere cassato il provvedimento che abbia omesso totalmente di tenere conto delle informazioni fornite dalle Autorità dello Stato di residenza del minore. d) In tema di sottrazione internazionale di minori la persona che si oppone al rientro del minore deve specificare la ragione dell’opposizione, fornendone adeguata dimostrazione. Quanto precede, peraltro, non esclude che il giudice possa o debba accertare, con i mezzi a sua disposizione, trattandosi di materia dominata dall’interesse del minore e dall’impulso ufficioso, la reale sussistenza e le caratteristiche del motivo ostativo al rimpatrio, bene potendo il tribunale per i minorenni ricavare dall’istruttoria del caso da esso compiuta il convincimento della sussistenza di esso. e) L’articolo 13, comma 1, lettera b) della Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 in caso di sottrazione internazionale di minori non consente al giudice, cui sia richiesto di emettere un provvedimento di rientro nello Stato di residenza del minore illecitamente sottratto, di dare peso al mero trauma psicologico o alla semplice sofferenza morale per il distacco dal genitore autore della sottrazione abusiva, quando tali inconvenienti non raggiungono il grado del pericolo psichico o dell’effettiva intollerabilità da parte del minore. f) In tema di sottrazione internazionale di minori il regolamento Ce 27 novembre 2003 n. 220/2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale, entrato in vigore il 1° agosto 2004 e in applicazione dal 1° marzo 2005 è destinato a prevalere, nei rapporti tra gli Stati ne sono parti, su alcune convenzioni, tra cui la convenzione dell’Aja del 25 ottobre 128 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 1980, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 15 gennaio 1994 n. 64, nella misura in cui queste riguardino materie disciplinate da tale regolamento. Peraltro, qualora nel ricorso per cassazione, proposto successivamente al 1° agosto 2005 avverso il provvedimento in tema di sottrazione internazionale di minori, adottato in applicazione della Convenzione dell’Aja del 1980 non sia proposta alcuna censura di violazione del regolamento del 2003 (ancorché il provvedimento impugnato sia stato reso il 4 agosto 2005) la controversia non può essere esaminata alla luce del detto regolamento, senza che rilevi - in senso contrario - che nella memoria depositata in prossimità dell’udienza si faccia riferimento al regolamento stesso, atteso che con la memoria di cui all’articolo 378 del Cpc non può essere ampliato il contenuto dei motivi originari del ricorso. I principi generali in materia di sottrazione internazionale di minori. Cass. sez. I, 19 dicembre 2003, n. 19544 Ha natura discrezionale l’audizione del minore nelle procedure tese al suo rimpatrio. La convenzione dell’Aja sulla sottrazione internazionale tende alla reintegrazione di situazioni di fatto. Il concetto di residenza abituale del minore va riferito alla residenza in cui, grazie ad una stabile permanenza, anche di fatto, si trova il baricentro della sua vita di relazione. Spetta a chi si oppone al rientro dimostrare che il rimpatrio espone il minore a gravi rischi. Riconoscimento delle sentenze Sulle differenze tra la Convenzione sul riconoscimento delle decisioni in tema di affidamento e la Convenzione sulla sottrazione internazionale. Cass. sez. I, 7 marzo 2007, n. 5236 Le norme di cui alla Convenzione di Lussemburgo 20 maggio 1980, in materia di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento, e quelle di cui alla Convenzione de L’Aja 25 ottobre 1980, sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, entrambe rese esecutive con la legge di autorizzazione alla ratifica 64/1994, pur avendo la medesima finalità di tutela dell’interesse del minore dal pregiudizio derivante dai trasferimenti indebiti, hanno contenuto, funzione e condizioni di applicazione del tutto diversi: la Convenzione di Lussemburgo presuppone che, anteriormente al trasferimento di un minore attraverso una frontiera internazionale, sia stata adottata, in uno Stato contraente, una decisione esecutiva sull’affidamento ovvero che, successivamente al trasferimento, sia stato pronunciato un provvedimento sull’affidamento dichiarativo della illiceità del trasferimento stesso; è invece scopo esclusivo della Convenzione de L’Aja il ripristino dello status quo di residenza del minorenne, da cui deriva l’irrilevanza di un titolo di affidamento, se non al limitato e provvisorio fine di legittimare, alle condizioni stabilite dall’art. 3 della medesima Convenzione, la persona che svolge di fatto la funzione di affidatario a richiedere il rientro del minorenne. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA STATO VEGETATIVO PERMANENTE Interruzione delle cure Solo un curatore speciale e non il tutore è legittimato a richiedere l’autorizzazione all’interruzione di cure che protraggono lo stato vegetativo permanente dell’interdetto. Cass. sez. I, 20 aprile 2005, n. 8291 In mancanza di una specifica norma che attribuisca al tutore il potere di chiedere l’autorizzazione all’interruzione delle cure, che consentono la protrazione dello stato vegetativo permanente dell’interdetto, non può ritenersi che tale potere sia ricompresso tra quelli di cui il tutore è investito per legge, trattandosi del compimento di un atto cosiddetto personalissimo. In tale ipotesi, per evitare il conflitto di interessi tra il tutore e l’interdetto, è necessario nominare un curatore speciale ai sensi dell’articolo 78 del codice di procedura civile. In caso di stato vegetativo permanente non è previsto il diritto all’interruzione dell’alimentazione forzata. Corte d’appello di Milano, 18 dicembre 2003 In assenza di una disposizione legislativa, il giudice non può accogliere la richiesta del tutore dell’interdetto, che si trova in stato vegetativo permanente, di interrompere l’idratazione e l’alimentazione forzata. tra le ipotesi tassative di divieto di espulsione di cui all’art. 19 d.lg. n. 286 del 1998, le quali, essendo previste in deroga alla regola generale dell’obbligo di espulsione nelle fattispecie contemplate dall’art. 13 d.lg. cit., non sono suscettibili di interpretazione analogica o estensiva; nè, manifestamente, contrasta con principi costituzionali la previsione (contenuta nell’art. 19 cit.) del divieto di espulsione solo per lo straniero coniugato con un cittadino italiano e per lo straniero convivente con cittadini che siano con lo stesso in rapporto di parentela entro il quarto grado, atteso che essa risponde all’esigenza di tutelare da un lato l’unità della famiglia, dall’altro il vincolo parentale e riguarda persone che si trovano in una situazione di certezza di rapporti giuridici, che è invece assente nella convivenza “more uxorio”. L’esistenza di una condanna penale di per sé non legittima l’espulsione dello straniero. Corte di giustizia CE, 29 aprile 2004, n. 482 L’art. 3 della direttiva del Consiglio 25 febbraio 1964, 64/221/Cee, per il coordinamento dei provvedimenti speciali riguardanti il trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica, contrasta con una normativa nazionale che impone alle autorità nazionali di espellere dal territorio cittadini di altri Stati membri i quali siano stati condannati ad una pena restrittiva della libertà personale di almeno due anni. L’esistenza di una condanna penale può giustificare un’espulsione soltanto nei limiti in cui le circostanze che hanno portato a tale condanna provino un comportamento personale costituente una minaccia attuale per l’ordine pubblico. STRANIERI Espulsione Anche lo straniero clandestino ha diritto a presentare domanda di protezione. Cass. sez. I, 15 dicembre 2009, n. 26253 In tema di immigrazione, deve ritenersi illegittimo il provvedimento di espulsione dello straniero giunto sul territorio nazionale in condizioni di clandestinità, di cui all’art. 13, comma 2, lett. a) del D.lgs n. 286/1998, e di conseguenza, meritevole di accoglimento la spiegata opposizione dinanzi al Giudice di pace competente, nel caso in cui lo straniero lamenti la non collaborazione dell’Autorità nel ricevere la domanda di protezione e, qualora, nessun elemento agli atti indichi la sussistenza di un rifiuto alla richiesta di protezione, sussistendo, anche per il Giudicante, un obbligo di cooperazione istruttoria nell’accertamento dei fatti dedotti dallo straniero, che gli impone di fare una valutazione di verosomiglianza della ipotesi sottoposta e, in caso affermativo, di adottare iniziative istruttorie ex artt. 312 e 320 c.p.c. La convivenza “more uxorio” dello straniero con un cittadino non rientra tra le ipotesi di espulsione. Cass. sez. I, 24 febbraio 2004, n. 3622 In tema di espulsione dello straniero, l’art. 19 comma 2 lett. c) d.lg. n. 286 del 1998, nella parte in cui prevede il divieto di espulsione della straniera coniugata con un cittadino italiano, non è applicabile, in via analogica, allo straniero convivente “more uxorio” con un cittadino italiano, in quanto la norma, secondo l’interpretazione offertane dalla Corte costituzionale (ordinanza 313/2000), risponde all’esigenza di tutelare l’unità della famiglia e riguarda persone che si trovano in una situazione di certezza di rapporti giuridici che è assente nella convivenza “more uxorio”, non essendo possibile equiparare la famiglia legittima e la famiglia di fatto nella materia dell’immigrazione clandestina, disciplinata da norme di ordine pubblico, nella quale l’espulsione incontra i soli limiti strettamente previsti dalla legge, allo scopo di escludere facili elusioni della disciplina stabilita per il controllo dei flussi migratori. Ingresso e permanenza La relazione more uxorio dello straniero non è di ostacolo all’espulsione neanche se la convivente è incinta. Corte cost. 11 maggio 2006, n. 192 E’ legittima la norma in materia di immigrazione che prevede che il decreto di espulsione deve essere eseguito nonostante che lo straniero extracomunitario sia legato da una relazione more uxorio con una cittadina italiana in stato di gravidanza. La convivenza “more uxorio” dello straniero con un cittadino non rientra tra le ipotesi di espulsione. Cass. sez. I, 23 luglio 2004, n. 13810 La convivenza “more uxorio” dello straniero con un cittadino, ancorché giustificata dal tempo necessario affinché uno o entrambi i conviventi ottengano la sentenza di scioglimento del matrimonio dal proprio coniuge, non rientra Il tribunale per i minorenni può autorizzare l’ingresso e la permanenza di una donna straniera che intenda agire in giudizio in Italia per la dichiarazione di paternità naturale. Tribunale per i minorenni di Sassari, 31 gennaio 2003 Tra i gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, in base ai quali il tribunale per i minorenni può autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare del minore stesso (art. 31 comma 3 del d.lg. 25 luglio 1998 n. 286), rientra - alla luce della convenzione delle Nazioni Unite del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo - anche la possibilità per la madre naturale di coltivare l’azione per la dichiarazione di paternità nei confronti del padre naturale o dei suoi eredi. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 129 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Permesso di soggiorno Il familiare a carico può ottenere il permesso di soggiorno se prova di essere effettivamente a carico di un parente. Corte di giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, 9 gennaio 2007 La semplice dichiarazione dei congiunti presenti sul territorio di uno Stato di potersi fare carico del familiare che chiede il permesso di soggiorno non è sufficiente ad attestare che il richiedente abbia i requisiti per ottenere l’autorizzazione richiesta. La separazione legale giustifica la revoca del permesso di soggiorno. Consiglio di Stato, sez. IV, 28 febbraio 2005, n. 767 La ratio della normativa concernente il permesso di soggiorno relativo allo straniero che sia coniugato con cittadino italiano è da individuare non già nel semplice fatto del matrimonio, bensì nella convivenza familiare che normalmente caratterizza lo stato coniugale. Altrimenti il permesso sarebbe stato rilasciato per altro legittimo motivo. (studio, lavoro, turismo, affari, etc.). Lo straniero che chiede il permesso di soggiorno per motivi familiari deve dimostrare la convivenza con il coniuge cittadino italiano. Cass. sez. I, 8 febbraio 2005, n. 2539 Anche prima dell’inserimento del comma 1-bis dell’articolo 30 del decreto legislativo 286/1998 (che consente la revoca del permesso di soggiorno dello straniero in caso di mancata convivenza dei coniugi) al fine di ottenere il permesso di soggiorno per motivi familiari lo straniero coniugato con un cittadino deve coabitare con quest’ultimo. Al riguardo, inoltre, deve escludersi che sia onere dell’amministrazione dare la prova della mancanza di convivenza tra i coniugi, dovendosi la stessa presumere. L’azione dello straniero nell’opporsi al diniego del rilascio del permesso di soggiorno, infatti, si fonda sul suo diritto a ottenere tale permesso sì che la parte attrice deve dimostrare in tutti i suoi elementi le condizioni di legge, compreso quello positivo della convivenza con il coniuge cittadino italiano, non presumibile per l’esistenza del mero matrimonio nel sistema delle leggi sulla disciplina dell’immigrazione né rilevabile sulla base delle mere risultanze anagrafiche. Regolamento di giurisdizione Anche dopo le modifiche operate dalla legge 218/1995 sopravvive il regolamento di giurisdizione nei confronti dello straniero. Cass. sez. unite, 7 marzo 2005, n. 4807 Il regolamento preventivo di giurisdizione deve ritenersi ammissibile relativamente alle questioni sulla sussistenza o no della giurisdizione italiana nei confronti di soggetti stranieri, senza che vi osti la circostanza che l’art. 37 c.p.c. così come modificato dall’art. 73 l. 31 maggio 1995 n. 218, di riforma del diritto internazionale privato, che ne ha abrogato il comma 2 - menzioni il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei soli confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali, giacché il rinvio recettizio operato dall’art. 41 c.p.c. all’art. 37 c.p.c. per la determinazione del campo di applicazione del regolamento di giurisdizione deve intendersi ora riferito anche all’art. 11 legge n. 218, cit., che disciplina, appunto, la rilevabilità del difetto di giurisdizione del giudice italiano. Ricongiungimento La convivenza more uxorio non attribuisce il diritto al ricon- 130 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 giungimento familiare. Cass. sez. I, 17 marzo 2009, n. 6441 Anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, il cittadino extracomunitario legato ad un cittadino italiano dello stesso sesso da un’unione di fatto debitamente registrata nel suo Paese d’origine non rientra nella nozione di “familiare” di cui all’art. 30, comma 1, lett. c, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, e non gode pertanto del diritto al ricongiungimento familiare. Ai fini del diritto al ricongiungimento va considerato figlio minore “a carico” il minore il cui sostentamento è garantito dal genitore. Cass. sez. I, 9 giugno 2005, n. 12169 Ai fini del diritto al ricongiungimento familiare è sufficiente che il figlio minore di cui si chiede il ricongiungimento sia a carico del genitore istante a prescindere dalla normativa in tema di potestà. Nessun riferimento specifico ad altri concetti, come quello di “potestà” sui minori dei genitori, esclusiva o concorrente, può avere rilievo per negare il diritto dello straniero extracomunitario a riunirsi ai figli minori, quando al loro sostentamento egli provveda in via esclusiva. Il ricongiungimento dei genitori al lavoratore straniero è escluso quando nel loro Paese d’origine essi abbiano altri figli. Corte cost. 8 giugno 2005, n. 224 Il diritto alla convivenza dei figli con i propri genitori è inviolabile solo sino a quando i figli siano minorenni; negli altri casi è consentito al legislatore, al fine di tutelare altri valori di rilievo costituzionale, limitare tale diritto. Ne consegue che non è fondata, con riferimento agli art. 3 e 29 cost., la q.l.c. dell’art. 29, comma 1, lett. c), d.lg. 286/98, nella parte in cui consente allo straniero regolarmente dimorante in Italia di chiedere il ricongiungimento con i genitori solo se questi ultimi non abbiano altri figli nel Paese di origine o di provenienza, ovvero se gli altri figli siano impossibilitati al sostentamento dei genitori per documentati gravi motivi di salute. Ai fini del ricongiungimento familiare possono essere considerati familiari a carico anche i figli del proprio coniuge. Corte di giustizia CE, 30 settembre 2004, n. 275 La nozione di “familiare”, ai sensi dell’art. 7, comma 1, decisione n. 1/80 del Consiglio di associazione, relativa allo sviluppo dell’associazione istituita dall’Accordo di associazione tra la Cee e la Turchia, deve essere interpretata uniformemente a livello comunitario. Occorre, pertanto, far riferimento all’interpretazione data in materia di libera circolazione dei lavoratori cittadini degli Stati membri della Comunità, secondo la quale, ai fini del ricongiungimento familiare, l’espressione “il coniuge ed il loro discendenti minori di 21 anni o a carico” riguarda tanto i discendenti del lavoratore come quelli del coniuge. Ne consegue che, ai sensi del suddetto articolo, il figliastro minore di 21 anni di un lavoratore turco inserito nel mercato del lavoro è un familiare, e gode quindi dei diritti conferiti dalla decisione, dal momento che è stato autorizzato a raggiungere il lavoratore in uno Stato membro. Ricorso per cassazione È ammissibile il ricorso straordinario per cassazione in materia di autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare del minore straniero. Cass. sez. unite, 16 ottobre 2006, n. 22216 E’ ammissibile il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 della Costituzione avverso il decreto pronunciato in camera di consiglio con il quale la Corte d’appello decide in MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA ordine alla domanda di autorizzazione a entrare o a permanere temporaneamente sul territorio nazionale, proposta ai sensi dell’art. 31, comma 3, del decreto legislativo 286/1998 (Testo unico sull’immigrazione) dal familiare del minore straniero che si trova nel territorio italiano, per gravi motivi connessi cn lo sviluppo psicofisico di quest’ultimo. SUCCESSIONI Accettazione dell’eredità La proposizione di un’azione di rivendica da parte del chiamato all’eredità costituisce accettazione tacita dell’eredità. Cass. sez. II, 27 giugno 2005, n. 13738 L’accettazione tacita dell’eredità può desumersi, ex articolo 476 del Cc, dall’esplicazione di un’attività personale del chiamato con la quale venga posto in essere un atto di gestione incompatibile con la volontà di rinunciare all’eredità e non altrimenti giustificabile se non nell’assunzione della qualità di erede, cioè un comportamento tale da presupporre necessariamente la volontà di accettare l’eredità, secondo una valutazione obiettiva condotta alla stregua del comune modo d’agire di una persona normale. In tal senso è significativa la proposizione d’azioni giudiziarie intese alla rivendica o alla difesa della proprietà o ai danni per la mancata disponibilità dei beni ereditari, dato che al semplice chiamato è solo consentito, ex articolo 460 del Cc, esperire le azioni possessorie e compiere gli atti conservativi, di vigilanza e di temporanea amministrazione, mentre l’esperimento delle azioni intese al reclamo o alla tutela della proprietà sui beni ereditari e al risarcimento per la loro mancata disponibilità, presuppone necessariamente l’accettazione dell’eredità stessa, in quanto, trattandosi di azioni che travalicano il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente all’atto dell’apertura della successione e la mera gestione conservativa dei beni compresi nell’asse, il chiamato come tale non avrebbe il diritto di proporle, giacchè diversamente dimostra di aver accettato la qualità di erede. L’accettazione taciuta va desunta dal comportamento del chiamato all’eredità. Cass. sez. II, 29 marzo 2005, n. 6574 L’accettazione tacita dell’eredità, che si ha quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone la sua volontà di accettare e che non avrebbe diritto di compiere se non nella qualità di erede, può essere desunta anche dal comportamento del chiamato, che abbia posto in essere una serie di atti incompatibili con la volontà di rinunciare o siano concludenti e significativi della volontà di accettare; pertanto l’accettazione tacita dell’eredità può essere desunta dal comportamento complessivo del chiamato all’eredità che ponga in essere non solo atti di natura meramente fiscale, come la denuncia di successione di per se sola inidonea a comprovare l’accettazione tacita, ma anche atti che siano al contempo fiscali e civili, come la voltura catastale che rileva non solo dal punto di vista tributario ma anche sotto il profilo civile per l’accertamento, legale o semplicemente materiale, della proprietà immobiliare e dei relativi passaggi. Azione di riduzione con ogni mezzo. Cass. sez. II, 26 aprile 2007, n. 9956 Per opinione del tutto prevalente nella giurisprudenza di legittimità in materia, ai fini della prova della simulazione d’una vendita posta in essere dal de cuius onde dissimulare una donazione, l’erede può essere considerato terzo ed, in quanto tale, beneficiare delle agevolazioni probatorie previste dall’art. 1417 CC ove abbia proposto, contestualmente all’azione intesa alla dichiarazione della simulazione e facendo valere anche la sua qualità di legittimario sulla specifica premessa che l’atto dissimulato comporti una lesione del suo diritto personale all’integrità della quota di riserva spettantegli, un’espressa e concreta domanda di riduzione della donazione dissimulata, diretta a far dichiarare, in aggiunta all’appartenenza del bene all’asse ereditario, che la quota di riserva di sua pertinenza deve essere calcolata tenendo conto del bene stesso (Cass. 30.7.02 n. 11206, 24.2.00 n. 2093, 21.4.98 n. 4024, 29.5.95 n. 6031, 29.10.94 n. 8942, 4.4.92 n. 4140, 6.8.90 n. 7909, 21.12.87 n. 9507). Il termine di prescrizione dell’azione di riduzione decorre dalla data di accettazione dell’eredità da parte del chiamato in base a disposizioni testamentarie lesive della legittima. Cass. sez. unite, 25 ottobre 2004, n. 20644 Premesso che nessuna norma prevede che il termine (incontestabilmente quello decennale di cui all’art. 2946 cod. civ.) per esperire l’azione di riduzione decorra dalla data di apertura della successione, l’individuazione del termine di decorrenza della prescrizione dell’azione di riduzione può porsi solo con riferimento alla lesione di legittima ricollegabile a disposizioni testamentarie. Nel caso in cui la lesione derivi da donazioni tale termine decorre dalla data di apertura della successione, non essendo sufficiente il relictum a garantire al legittimario il soddisfacimento della quota di riserva. Diversa è la situazione che si presenta, invece, con riferimento alla ipotesi in cui la (potenziale) lesione della legittima sia ricollegabile a disposizioni testamentarie. In tal caso, infatti, il legittimario, fino a quando il chiamato in base al testamento non accetta l’eredità, rendendo attuale quella lesione di legittima che per effetto delle disposizioni testamentarie era solo potenziale, non sarebbe legittimato (per difetto di interesse) ad esperire l’azione di riduzione. La rinuncia all’azione di riduzione può essere oggetto di azione revocatoria a seguito della cui vittoriosa azione i creditori possono esercitare in via surrogatoria il diritto di accettare l’eredità. Tribunale di Gorizia, 4 agosto 2003 In presenza di una rinuncia non già all’eredità ma all’azione di riduzione, andranno verificati i presupposti di cui agli art. 2900 e 2901 cod. civ. L’accoglimento dell’azione revocatoria costituisce l’eliminazione dell’ostacolo costituito dalla revocata rinuncia alla possibilità di poter validamente supplire all’inerzia del debitore: conferisce quindi alle creditrici la legittimazione surrogatoria, in rappresentanza legale delle ragioni del rinunciatario inerte, finalizzata dinamicamente alla conservazione della garanzia patrimoniale generica, in funzione cautelare e non immediatamente satisfattiva. Dal suo accoglimento deriva invero l’assoggettabilità del diritto così acquisito alle iniziative esecutive delle creditrici. Il legittimario pretermesso acquista la qualità di legittimato all’eredità soltanto con la sentenza che accoglie la sua domanda di riduzione. Ciò rileva avanti tutto per escludere l’applicabilità dell’art. 524 cod. civ., (accettazione dell’eredità in via surrogatoria da parte dei creditori) che per contro presuppone una rinuncia all’eredità cui il convenuto non era invece legittimato. L’erede che agisce con l’azione di simulazione e con l’azione di riduzione è terzo rispetto all’atto e può provare la simulazione gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 131 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Azione surrogatoria Il futuro legittimario di una persona ancora in vita non può esercitare l’azione surrogatoria. Cass. sez. II, 15 novembre 2004, n. 21616 La possibilità di essere chiamato, in qualità di legittimario, alla successione mortis causa di altra persona ancora in vita non integra una situazione giuridica tutelabile in sé né si risolve in una ragione di credito idonea a legittimare l’interferenza nella sfera giuridica dell’altro soggetto (nel caso, esercitando un suo diritto, ad esso surrogandosi ex art. 2900 cod. civ.). Coniuge superstite Il conflitto tra il coniuge legatario ex lege e l’avente causa dall’erede sull’immobile oggetto del legato ex lege non si risolve in base alle norme sulla trascrizione. Cass. sez. III, 24 giugno 2003, n. 10014 Per effetto dell’apertura della successione, il coniuge superstite acquista sulla casa familiare un diritto reale di abitazione (art. 1022 cod. civ.). L’erede, al quale perviene per testamento la proprietà dell’immobile già adibito a residenza familiare, acquista su tale immobile un diritto di proprietà gravato dal menzionato diritto reale limitato di abitazione. Erede e legatario, quindi, acquistano dal comune dante causa. Anche quando i diritti di cui si discute sono acquistati a causa di morte è previsto che debbano essere trascritti (art. 2648 cod. civ.). Tuttavia, a proposito della trascrizione di questi acquisti non è riproposta dalla legge una disciplina degli effetti qual è quella indicata dall’art. 2644 cod. civ. Né questa gli può essere applicata, perché, la situazione dell’erede e del coniuge superstite, che acquistano il primo per testamento la proprietà dell’immobile adibito a residenza familiare e il secondo il diritto di abitazione sullo stesso immobile non presenta i tratti del conflitto tra acquirenti dal medesimo autore di diritti tra loro incompatibili. Sicchè, la trascrizione che l’erede faccia del proprio acquisto, prima della trascrizione che del suo venga eseguita da parte del coniuge legatario, come non può far prevalere l’acquisto del primo vanificando quello del secondo, così non può produrre l’effetto per cui le trascrizioni ed iscrizioni prese contro l’erede sulla piena proprietà siano da considerare per sé poste al riparo dall’acquisto del diritto di abitazione operatosi a favore del legatario, acquisto che sarebbe perciò reso inopponibile agli aventi causa dall’erede. Divisione Per l’attribuzione ad uno dei coeredi della quota maggiore di un immobile non comodamente divisibile si deve fare riferimento alla situazione esistente al momento della pronuncia. Cass. sez. II, 20 giugno 2007, n. 14321 In tema di immobili non divisibili l’articolo 720 Cc offre un criterio preferenziale in favore del titolare della quota maggiore: nella porzione di quest’ultimo il cespite viene compreso per intero con addebito dell’eccedenza. Ora, per individuare fra i coeredi chi è titolare della quota maggiore, e dunque applicare la norma, non si deve fare riferimento al momento dell’apertura della successione: bisogna tenere conto anche delle successive vicende negoziali e dell’eventuale concentrazione di quote dell’immobile in capo ai coeredi. Si deve far riferimento, in particolare, alla situazione esistente al momento della divisione e cioè a quella della relativa pronuncia giudiziale. La causa di divisione termina con l’assegnazione delle quote ereditarie. Cassazione sez. 17 gennaio 2007 n. 1048 132 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 Il processo di divisione ereditaria non può ritenersi definito sia quando non sia stato approvato il verbale di assegnazione delle quote ereditarie rispettivamente attribuite a ciascuno dei coeredi a norma dell’articolo 195 delle disposizioni di attuazione al Cpc, non essendo sufficiente a tal fine la mera approvazione del progetto divisionale. La collazione si compie all’interno delle operazioni di divisione dell’asse ereditario. Cass. sez. I, 8 settembre 2004, n. 18054 In tema di successioni “mortis causa”, la collazione del denaro si attua naturalmente per imputazione, sul presupposto necessario che si sia in precedenza proceduto ad un’operazione di divisione dell’asse ereditario, realizzandosi l’imputazione, appunto, attraverso un minor prelievo rispetto a quanto altrimenti spetterebbe “pro quota” al donatario sull’intero asse. Da ciò conseguono l’impossibilità di scindere logicamente i due momenti - quello della collazione e quello della formazione delle quote ereditarie spettanti a ciascun coerede - e perciò la necessità che la collazione si compia all’interno dell’operazione di divisione dell’asse ereditario (nella specie, gli eredi del “de cuius”, morto “ab intestato”, avevano chiesto che venisse ammesso, in prededuzione, il loro credito avverso il fallimento di un altro coerede che aveva ricevuto in vita alcune donazioni in denaro, delle quali si chiedeva operarsi la collazione. La S.C., nel confermare la sentenza di rigetto della domanda emessa dalla corte di merito, ha enunciato il principio di diritto di cui in massima). Esecutore testamentario Le funzioni di esecutore testamentario sono gratuite. Cass. sez. II, 30 agosto 2004, n. 17382 La gratuità dell’ufficio dell’esecutore testamentario nominato dal testatore, espressamente stabilita dall’art. 711 cod. civ. nonostante la probabile onerosità dell’attività, si giustifica con la possibilità per chi ne è investito di non accettare l’incarico, sottraendosi così ai relativi oneri, ovvero di espletarlo sopportandone le incombenze che vi sono connesse senza potere reclamare alcun compenso, a meno che questo non sia stato disposto dal testatore e salvo comunque il diritto di ripetere le spese sostenute per l’esercizio dell’ufficio. Ex coniuge Non è incostituzionale l’art. 583 c.c. nella parte in cui non riconosce l’ex coniuge erede legittimo in mancanza di altri successibili. Cass. sez. I, 25 febbraio 2004, n. 3747 La discrezionalità affidata dalla norma costituzionale al legislatore ordinario non incontra altri limiti che quello imposto dal principio costituzionale di tutela della famiglia ai sensi dell’art. 29 Cost., nonché, per quanto riguarda i figli e fratelli naturali, quello derivante dalla direttiva dettata dall’art. 30 comma 3 Cost. di equiparazione della filiazione naturale a quella legittima (v. sul punto Corte Cost. 1979 n. 55; 11989 n. 310; 1990 n. 184). È certamente vero che il legislatore della riforma del diritto di famiglia, innovando incisivamente la preesistente disciplina codicistica, ha attribuito rilievo preminente al vincolo di coniugio in relazione all’eredità, riconoscendo al coniuge la posizione di componente fondamentale della famiglia legittima tutelata dall’art. 29 Cost. e coerentemente regolando i suoi diritti successori. Ma è altrettanto vero che il venir meno in via definitiva del vincolo matrimoniale esclude la configurabilità nel rapporto tra i coniugi divorziati di una comunità familiare nei cui confronti la richiamata tutela costituzionale possa essere invocata. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Legittimari Le quote di riserva sono calcolate con riferimento al momento dell’apertura della successione. Cass. sez. unite, 12 giugno 2006, n. 13524 Ai fini dell’individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari e ai singoli legittimari nell’ambito della stessa categoria, occorre fare riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione e non a quella che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento (per rinuncia o prescrizione) dell’azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari. Rappresentazione Il discendente legittimo che succede per rappresentazione succede direttamente al de cuius e non al proprio rappresentante. Cass. sez. II, 7 ottobre 2004, n. 20018 In tema di successione per rappresentazione, il discendente legittimo o naturale (rappresentante), nel subentrare nel luogo e nel grado dell’ascendente (rappresentato) - che non possa o non voglia accettare l’eredità - succede direttamente al de cuius, sicchè immutato rimane l’oggetto della delazione dell’eredità che gli viene devoluta nella medesima misura che sarebbe spettata al rappresentato. giovandosi del più favorevole regime probatorio in ordine alla simulazione previsto nell’art. 1417 cod. civ. Ai fini della prova della simulazione di una vendita fatta dal de cuius il legittimario è terzo. Cass. sez. II, 18 aprile 2003, n. 6315 In tema di prova della simulazione della vendita posta in essere dal de cuius l’erede che attraverso l’azione ex 1414 cod. civ. miri a reintegrare la quota spettantegli quale legittimario, può ritenersi terzo rispetto all’atto impugnato, perché in tal modo egli difende un diritto proprio che gli spetta per legge e che lo pone, quindi, in una posizione antagonista rispetto al de cuius, con ciò giovandosi del più favorevole regime probatorio in ordine alla simulazione previsto dall’art. 1417 del codice civile. Testamento Chi impugna la validità del testamento per infermità è tenuto a provare l’infermità. Cassazione sez. II, 29 gennaio 2007, n. 1770 In tema d’incapacità di testare ex articolo 591 del Cc, nell’ipotesi di grave infermità mentale permanente del testatore, colui che impugna la validità del testamento è tenuto solo a provare l’esistenza di quella malattia, mentre colui che intende giovarsi del testamento deve dare la prova dell’esistenza di un intervallo di lucidità nel momento in cui furono espresse le ultime volontà. Retratto successorio Il retratto successorio può essere esercitato soltanto quando il compendio ereditario si trova ancora in comunione ereditaria. Cass. sez. II, 13 settembre 2004, n. 18351 Tenuto conto che la comunione ereditaria ha ad oggetto non soltanto la comproprietà o con titolarità di diritti ma il complesso dei rapporti attivi e passivi che formavano il patrimonio del de cuius al momento della morte, lo scioglimento dello stato di indivisione si verifica soltanto quando i condividenti abbiano proceduto con le operazioni previste dagli art. 713 ss. cod. civ. a eliminare la maggior parte delle relative componenti; in tal caso, poiché la comproprietà che ancora residui su alcuni beni ereditari si trasforma in comunione ordinaria, non ricorrono le condizioni per l’esercizio del retratto successorio, previsto dall’art. 732 cod. civ. esclusivamente in presenza di una comunione ereditaria. Nel caso in cui il coerede abbia alienato a un terzo uno o più beni determinati facenti parte dell’eredità, l’indicazione di beni determinati nel contratto non costituisce elemento decisivo per escludere l’ipotesi di trasferimento della quota ereditaria o di parte di essa, in quanto occorre tener conto di tutti gli elementi utili ai fini della interpretazione del contratto, per verificare se il bene oggetto della disposizione patrimoniale sia stato considerato come misura della partecipazione dell’acquirente alla comunione ereditaria, e non come quota parte in riferimento all’esito della divisione. Simulazione L’erede può provare con ogni mezzo la simulazione da parte del de cuius di un negozio traslativo apparentemente oneroso. Cass. sez. II, 27 giugno 2004, n. 10262 In tema di prova della simulazione in caso di vendita posta in essere dal de cuius, l’erede che, attraverso l’azione di simulazione ex art. 1414 cod. civ. miri a reintegrare la quota spettantegli quale legittimario, può ritenersi terzo rispetto all’atto impugnato - giacché in tal modo egli difende un diritto proprio che gli spetta per legge e che lo pone, quindi, in una posizione antagonista rispetto al de cuius - con ciò Le quote stabilite dal testatore vanno rispettate se l’equilibrio tra gli eredi può essere comodamente assicurato da conguagli. Cass. sez. II, 24 maggio 2004, n. 9905 In tema di divisione ereditaria, l’art. 733 - il quale stabilisce che le particolari norme poste dal testatore per la formazione delle porzioni sono vincolanti per gli eredi, salvo che l’effettivo valore dei beni non corrisponda alle quote stabilite dal testatore - va interpretato alla luce del favor testamenti, e cioè nel senso che la volontà del testatore rimanga vincolante ove sia compatibile con il valore delle quote, compatibilità riscontrabile tutte le volte che il perfetto equilibrio possa raggiungersi con l’imposizione di un conguaglio. TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI Diritto all’opposizione L’interessato non ha più diritto ad opporsi al trattamento dei dati raccolti in sede investigativa quando il rapporto degli investigatori è confluito negli atti di causa. Cass. sez. I, 15 luglio 2005, n. 15076 Il diritto dell’interessato di opporsi al trattamento dei dati raccolti dagli investigatori è differibile, nel massimo, sino all’inizio della fase giudiziale, perché tale differimento, in quanto mirato a consentire l’attività di raccolta delle informazioni demandata ai soggetti cui viene affidato lo svolgimento di attività investigativa, cessa di avere una ragion d’essere quando l’attività investigativa si esaurisce e il suo risultato viene condensato in un rapporto messo a disposizione del soggetto committente che lo versa negli atti di causa, cioè nel fascicolo processuale. In altri termini, una volta venute meno le esigenze di difesa (ivi inclusa la raccolta del materiale probatorio) che giustificano la temporanea compressione dei diritti dell’interessato, questi si riespandono, e per effetto del loro esercizio potrà ottenersi gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 133 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA persino la cancellazione dei dati personali, se raccolti in violazione delle regole procedimentali stabilite ieri dalla legge 675/1996 e oggi dal Dlgs 196/2003, non avendo più titolo - né l’investigatore, né il relativo committente - alla loro conservazione dopo il versamento nel fascicolo processuale del prodotto dell’attività investigativa svolta. Una volta operato tale versamento, è il giudice della causa l’autorità che ha il potere di prendere decisioni con riguardo all’uso/trattamento che il committente continuerebbe a fare, stavolta all’interno del giudizio, dei dati personali contenuti nel rapporto, se raccolti in violazione delle norme in materia di informativa. TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO DI LAVORO Anticipazioni Le anticipazioni sul trattamento di fine rapporto vanno detratte dalla percentuale dovuta all’ex coniuge. Cass. sez. I, 18 dicembre 2003, n. 19427 In tema di attribuzione, al coniuge cui è stato riconosciuto un assegno di divorzio, del diritto a una quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro, deve essere cassata la pronuncia del giudice del merito che ai fini della quantificazione di tale quota abbia preso in considerazione la durata del rapporto di lavoro, la corrispondente durata del rapporto matrimoniale nonché l’intera indennità percepita, senza dare alcun rilievo al momento in cui erano state versate varie anticipazioni (momento nella specie pacificamente anteriore, per due di esse, all’entrata in vigore della legge n. 74 del 1987), atteso che l’anticipo, una volta accordato dal datore di lavoro e riscosso dal lavoratore, entra nel suo patrimonio e non può essere revocato, così determinandosi la definitiva acquisizione del relativo diritto, su cui non può incidere l’eventuale mutamento della legislazione in materia. di separazione. Nell’ipotesi in cui l’indennità sia maturata in costanza di matrimonio, la stessa deve ritenersi normalmente utilizzata per i bisogni della famiglia, e nella parte in cui residua al momento della separazione costituisce elemento idoneo a determinare le condizioni economiche del coniuge obbligato e a incidere sulla quantificazione dell’assegno, mentre se matura in pendenza del giudizio di separazione resta operante il principio di piena disponibilità delle attribuzioni patrimoniali da parte del destinatario, nel rispetto delle norme generali fissate dall’ordinamento, salva la necessità di valutazione di tale attribuzione in sede di assetto economico della separazione. Il diritto dell’ex coniuge al trattamento di fine rapporto sorge anche in caso di decesso dell’ex coniuge. Cass. sez. I, 10 gennaio 2005, n. 285 L’art. 12 bis l. 898/70, introdotto dall’art. 16 l. 74/1987 - nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto ad una percentuale dell’indennità percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro - si applica anche nelle ipotesi in cui il trattamento di fine rapporto sia comunque spettante al lavoratore, anche se non ancora percepito, non assumendo alcun rilievo che il trattamento stesso sia divenuto esigibile per decesso del lavoratore, mentre il diritto suddetto non sorge ove l’indennità sia maturata e percepita dopo la pronuncia di separazione, ma anteriormente alla proposizione della domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nel qual caso la riscossione dell’indennità di fine rapporto da parte del coniuge separato può solo incidere sulla situazione economica del coniuge obbligato e legittimare una modificazione delle condizioni della separazione. L’art. 12 bis l. 898/70 - il quale attribuisce al coniuge titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto a una percentuale della indennità percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro - trova applicazione, per evidente identità di ratio, sia nelle ipotesi in cui il t.f.r. maturi in conseguenza della cessazione del rapporto di lavoro, sia quando maturi in conseguenza della morte del lavoratore. Diritto dell’ex coniuge All’ex coniuge titolare di assegno spetta il diritto ad una quota di TFR se questo matura dopo la domanda di divorzio. Cass. sez. I, 10 novembre 2006, n. 24057 Il diritto alla quota di indennità di fine rapporto di lavoro previsto dall’art. 12 bis della legge 898/1970 spetta ogniqualvolta tale indennità sia maturata al momento o dopo la domanda di divorzio e al richiedente sia attribuito l’assegno divorzile. Il diritto dell’ex coniuge alla quota di trattamento di fine rapporto percepito dall’altro spetta se tale trattamento è maturato dopo la domanda introduttiva di divorzio. Cass. sez. I, 29 settembre 2005, n. 19046 Il diritto alla quota dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge, anche quando tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio, richiamato dall’articolo 12bis della legge 898/1970, va interpretato nel senso che tale diritto sorge soltanto se il trattamento spettante all’altro coniuge sia maturato successivamente alla proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio, e quindi anche prima della sentenza di divorzio, e non anche se esso sia maturato e se sia stato percepito in data anteriore, come in pendenza del giudizio di separazione, potendo in tal caso la riscossione dell’indennità incidere solo sulla situazione economica del coniuge tenuto a corrispondere l’assegno ovvero legittimare una modifica delle condizioni 134 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 La quota di trattamento di fine rapporto di lavoro spettante all’ex coniuge può essere richiesta solo dopo che è maturato il diritto a percepire il TFR ed è inammissibile nel giudizio di divorzio la domanda di accertamento del diritto all’indennità di fine rapporto. Cass. sez. I, 23 marzo 2004, n. 5719 Nell’ambito del giudizio di divorzio è inammissibile, per difetto di interesse, la domanda proposta da un coniuge contro l’altro e diretta a ottenere una pronuncia - di mero accertamento - dichiarativa dell’esistenza e della titolarità del diritto a una quota dell’indennità di fine rapporto allorché questi cesserà la propria attività lavorativa, atteso che in caso di azione di accertamento l’interesse ad agire sussiste unicamente qualora vi sia l’esigenza di rimuovere una oggettiva e pregiudizievole situazione di incertezza dipendente da atti o fatti concreti e non da mere supposizioni. Conseguentemente il diritto di un coniuge alla quota di trattamento di fine rapporto percepito dall’altro sorge solo dopo che il TFR è stato effettivamente percepito; pertanto non è ipotizzabile in proposito un’azione di condanna condizionata. E’ inammissibile l’azione di accertamento del diritto al trattamento di fine rapporto prima che il diritto sia sorto. Difetta, infatti, l’interesse ad agire che, nell’azione di mero accertamento, è identificabile nell’esigenza di rimuovere un’oggettiva e pregiudizievole situazione d’incertezza, dipendente da atti o fatti concreti, non da mere supposizioni (Cass. Sez. unite. n. 565/2000 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA e n. 264/1996 e, fra le molte, Cass. n. 3157/2001, n. 6859/1993, n. 3461/1990). Il diritto alla percezione di una quota di TFR spetta se l’indennità matura dopo la domanda di divorzio. Cass. sez. I, 18 dicembre 2003, n. 19427 L’articolo 12-bis della legge n. 898 del 1970 (introdotto dall’articolo 16 della legge n. 74 del 1987) nella parte in cui attribuisce al coniuge cui è stato riconosciuto l’assegno di divorzio il diritto a una quota dell’indennità di fine rapporto, anche nel caso in cui tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio, deve essere interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge al momento o dopo la proposizione della domanda e, quindi, anche prima della sentenza di divorzio. Deriva da quanto precede, pertanto, che ove la domanda introduttiva del giudizio di divorzio risulti proposta nel 1990 e che l’indennità in questione è maturata nel 1993, anteriormente alla sentenza di divorzio, correttamente il giudice del merito attribuisce, all’altro coniuge il diritto al godimento di una quota di tale indennità. Il diritto del coniuge divorziato alla percentuale di trattamento di fine rapporto percepita dall’altro coniuge sorge se il diritto al trattamento di fine rapporto matura dopo la domanda di divorzio. Cass. sez. I, 17 dicembre 2003, n. 19309 Ai sensi dell’articolo 12 bis della legge 898/1970, il diritto alla quota dell’indennità di fine lavoro sorge anche se l’indennità stessa matura prima della sentenza di divorzio, ma la maturazione deve avvenire in un momento in cui tale sentenza può produrre i suoi effetti, ovvero, al più presto, al momento della proposizione della domanda, con la conseguenza che, se l’anzianità anzidetta matura anteriormente a siffatto momento, la medesima non dà diritto ad alcuna quota, perché vengono in rilievo, nel rispetto dei canoni fissati dall’ordinamento, i diversi principi che regolano la situazione e, segnatamente, quello della piena disponibilità delle attribuzioni patrimoniali da parte del destinatario delle stesse. Il diritto alla percezione di una quota di TFR spetta se l’indennità matura dopo la domanda di divorzio. Cass. sez. I, 8 ottobre 2003, n. 14997 L’articolo l2-bis della legge 898/1970 va interpretato nel senso che il diritto alla percezione di una quota del trattamento di fine rapporto spetta al coniuge richiedente anche prima della pronunzia della sentenza di divorzio purché il trattamento di fine sia stato corrisposto all’altro coniuge successivamente alla proposizione della domanda di divorzio. La percentuale di TFR va commisurata alla durata legale del matrimonio. Cass., sez. I, 25 giugno 2003, n. 10075 Come questa Suprema Corte ha affermato nella recente pronuncia n. 12995 del 2001, richiamando la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 23 del 1991 - la quale ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità della norma in esame nella parte in cui attribuisce al divorziato una percentuale fissa dell’indennità di fine rapporto percepita dall’ex coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, rapportandola alla durata del matrimonio e non a quella della convivenza - nella concreta disciplina delle misure in favore del coniuge più debole previste dalla legge in conseguenza e per il fatto del divorzio la durata del matrimonio costituisce parametro di rilievo centrale e corrisponde ad un criterio generale inteso non solo ad assicurare la certezza dei rapporti, ma anche, e soprattutto, a valorizzare la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matri- monio. La medesima Corte della legittimità delle leggi ha posto in luce la piena ragionevolezza dell’intendimento del legislatore, una volta effettuata la scelta di attribuire la quota dell’indennità in una percentuale predeterminata, di valorizzare il contributo che il coniuge più debole normalmente continua a fornire durante il periodo di separazione, soprattutto nel caso in cui sia affidatario di figli minori, ed al tempo stesso di ancorare il periodo di riferimento ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza. Tale orientamento, che va in questa sede ribadito, appare del tutto coerente con la natura e la funzione dell’istituto in discorso, che è connotato sia da profili di natura assistenzialistica, in quanto presuppone la spettanza dell’assegno divorzile, sia, e soprattutto, da aspetti di carattere compensativo, in relazione al contributo personale ed economico apportato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune (v. ancora sul punto Corte Cost. n. 23 del 1991). In questa prospettiva il legislatore del 1987 ha inteso aver riguardo, come si desume chiaramente dai lavori preparatori, all’apporto fornito dal coniuge più debole per tutta la durata del matrimonio alla maturazione di detta indennità, sulla base di una valutazione astratta, ma ancorata a dati di comune esperienza, pur subordinando l’acquisizione del diritto alla quota di essa alla percezione dell’assegno, quale indice della mancanza di redditi adeguati (v. in tal senso Cass. 1996 n. 2273, in motivazione). La previsione del diritto ad una quota di TFR riguarda la retribuzione in senso tecnico e non altre indennità. Cass. sez. I, 11 aprile 2003, n. 5720 La quota “dell’indennità di fine rapporto” spettante, ai sensi dell’art. 12 bis della Legge 1 dicembre 1970, n. 898 (introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74), al coniuge titolare dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze ha riguardo a quella parte della retribuzione, destinata al sostegno del nucleo durante la convivenza dei coniugi, percepita in forma differita. Tale previsione, riferita alla retribuzione in senso tecnico, tipica del rapporto di lavoro subordinato, pubblico o privato che sia, non può pertanto essere estesa ad istituti di diversa natura, preminentemente previdenziale ed assicurativa, aventi origine in regimi professionali di natura privata, come l’indennità di cessazione dal servizio corrisposta ai notai, accomunata agli altri trattamenti di fine rapporto solo dalla scadenza al momento della cessazione dell’attività. È pertanto manifestamente infondata La questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 bis della L. n. 898/1970 al riguardo sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto a situazioni di fatto diverse ben può il legislatore attribuire regimi diversi, ed in riferimento all’art. 38 Cost., il cui ambito attiene ai compiti dello Stato verso i più deboli e non impone oneri ai coniugi in quanto tali; né è configurabile violazione dell’art. 29 Cost., non venendo in rilievo il principio di parità nel matrimonio. Il diritto alla percezione di una quota di TFR spetta se l’indennità matura dopo la domanda di divorzio. Cass. sez. I, 18 marzo 2003, n. 3962 Il diritto a una quota del trattamento di fine rapporto, attribuito al coniuge divorziato ai sensi e nei limiti di cui all’articolo l2-bis della legge n. 898 del 1970, sussiste alla duplice condizione temporale che tale indennità maturi contemporaneamente o successivamente alla domanda introduttiva del giudizio di divorzio e comunque dopo l’entrata in vigore della legge n. 1987 del 1974. gennaio-febbraio 2010 | Avvocati di famiglia | 135 MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA TRUST Trust interno L’applicazione all’atto costitutivo di trust dell’imposta sulle donazioni non è generalizzabile ma va valutata caso per caso. Commissione tributaria provinciale di Lodi, sez. I, 12 gennaio 2009, n. 12 Poiché gli atti costitutivi di trust non sono tra quelli menzionati espressamente dall’art. 2 l. n. 286/2006, commi da 47 a 49, l’applicabilità agli stessi dell’imposta proporzionale sulle donazioni non può essere generalizzata, bensì valutata caso per caso, tenendo conto di quelli che sono la natura e gli effetti destinati a prodursi a seguito della costituzione dell’atto stesso. (Fattispecie nella quale la c.t.P. ha annullato l’avviso di liquidazione mediante il quale l’ufficio finanziario aveva applicato l’imposta di donazione - anziché quella di registro in misura fissa - ad un trust con finalità liquidatorie del patrimonio conferito e, quindi, in mancanza di alcun vincolo di destinazione). Manca nell’ordinamento italiano una norma che prevede l’intervento del giudice nell’ordinamento interno del trust. Tribunale di Crotone, sez. II, 29 settembre 2008 L’istanza volta ad ottenere dal Presidente del Tribunale, in conformità alle previsioni dell’atto istitutivo di un trust interno e della sua legge regolatrice, la nomina di un guardiano in sostituzione di quello dimissionario, è inammissibile a causa della mancanza, nell’ordinamento italiano, di una norma che tale intervento giudiziale preveda. Il giudice può dichiarare la decadenza del trustee per violazione degli obblighi di correttezza nella gestione del trust. Cass. sez. I, 13 giugno 2008, n. 16022 Qualora ciascuno dei coniugi divorziati, ambedue nominati “cotrustees” di un trust finalizzato alla tutela degli interessi dei figli minori, abbia agito per la rimozione dell’altro trustee, formulando un ventaglio di censure che attengono all’unitaria “causa petendi” dell’appropriata gestione patrimoniale, non incorre nel vizio di ultrapetizione la pronuncia che, a prescindere dai singoli episodi allegati dalle parti, dichiari la decadenza di entrambi dalla carica di trustee per violazione degli obblighi di correttezza nella gestione del trust. Il disponente non può riservarsi un potere di revoca del guardiano. Tribunale di Milano, 10 luglio 2007 Tipico dell’istituto del trust è che il disponente si privi di qualsiasi potere di amministrazione e questo non sarebbe realizzato se egli conservasse un potere di revoca completamente discrezionale dei guardiani, i quali, nel caso considerato, hanno non solo poteri consultivi, ma anche di promuovere la revoca del trustee. Il trust autodichiarato è legittimo e idoneo a rendere vincolati i beni su cui è costituito. Tribunale di Reggio Emilia, 14 maggio 2007 Il trust interno, istituito nella forma del trust autodichiarato secondo la legge di Jersey, è legittimo ed idoneo a segregare, nel patrimonio del disponente, i beni destinati alle finalità per le quali il trust è istituito, rendendo gli stessi beni vincolati non suscettibili di pignoramento da parte dei creditori personali del disponente-trustee. Il trust interno è pienamente ammissibile e sussiste l’obbligo di trascrizione dei diritti immobiliari trasferiti al trustee. Tribunale di Trieste, 23 settembre 2005 E’ superata la tesi della presunta irriconoscibilità del tru- 136 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2010 st interno, che è istituto recepito dall’ordinamento giuridico italiano con la ratifica legislativa della Convenzione dell’Aja del 1985 e consente di tutelare in modo pieno e soddisfacente interessi meritevoli di tutela perseguiti dalle parti. Gli elementi costitutivi del trust devono essere apprezzati nel singolo caso concreto, rispettando il principio di autonomia negoziale e verificando se la legge regolatrice prescelta è in contrasto con l’ordinamento giuridico interno o utilizzata in frode alla legge nazionale. Sono oggetto della pubblicità immobiliare non gli atti ma gli effetti da questi prodotti: sia in forza dell’articolo 12 della Convenzione (norma direttamente applicabile nell’ordinamento interno), sia per le disposizioni del sistema tavolare (Rd 499/1929), deve disporsi l’intavolazione del diritto trasferito al trustee (di impronta proprietaria ma vincolato al perseguimento di uno scopo, temporalmente e condizionatamente limitato) con l’annotazione delle condizioni e dei termini dell’atto di trust, per rendere ostensibili i limiti imposti e la legittimazione attribuita al trustee. È pienamente valido il trust cosiddetto interno. Tribunale di Bologna, 1° ottobre 2003 In pendenza di una causa di separazione il marito istituisce un trust conferendo ad una società fiduciaria il potere di disporre, amministrare e gestire alcuni beni immobili che venivano contestualmente trasferiti al fiduciario. La moglie chiede al tribunale in via primaria di dichiarare la nullità del trust e in subordine l’annullamento ex art. 184 cod. civ. relativamente ad uno di questi beni immobili che erano ancora in comunione legale essendo pendente la causa di appello sulla separazione. Risolto positivamente il problema della validità dell’istituzione del trust - e quindi rigettata la domanda proposta in via principale - il tribunale accoglie la domanda di annullamento ex art. 184 cod. civ. avendo il marito manente comunione disposto di un bene immobile senza il consenso della moglie. La decisione si segnala non solo per la conclusione, pacifica, circa l’annullamento dell’atto dispositivo da parte del marito del bene immobile in comunione legale, ma soprattutto per aver affrontato e risolto positivamente in modo molto approfondito il tema della ammissibilità nel nostro ordinamento del trust cosiddetto interno. Il problema è stato risolto in modo analogo da una ormai copiosa giurisprudenza di merito che viene indicata nella decisione. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Avvocati di famiglia Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Le sezioni territoriali dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Ancona Arezzo Ascoli Piceno Asti Avellino Avezzano Barcellona Pozzo di Gotto Bari Benevento Bolzano Brescia Cagliari Caltagirone Caltanissetta Campobasso Caserta Cassino Catania Chiavari Chieti Civitavecchia Crema Crotone Cuneo Firenze Foggia Frosinone Genova Isernia Grosseto La Spezia Larino Termoli Latina Livorno Lodi Lucca Macerata Massa Messina Milano Napoli Nocera Inferiore Nola Nuoro Palermo Parma Perugia Pesaro Pescara Pisa Pistoia Prato Reggio Calabria Reggio Emilia Rieti Roma Roma Sud Salerno Sassari Siracusa Tempio Pausania Teramo Torino Trani Treviso Udine Varese Velletri Verona Vibo Valentia