Il manifesto dell`etica romantica

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Il manifesto dell’etica romantica
Ferruccio Andolfi
Religione ed etica
I Monologen (1800) sono presentati dal loro autore come un
«dono di Capodanno» offerto ad anime affini nel momento simbolico della svolta del secolo. Essi contengono il nucleo del pensiero etico di Schleiermacher nella forma lirica di meditazioni interiori, scandite in cinque parti («riflessione», «sondaggi», «mondo», «prospettiva», «gioventù e vecchiaia»), e non in quella sistematica, che presto Schleiermacher avrebbe adottato, del trattato
o della lezione accademica. Insieme ai Discorsi sulla religione, apparsi l’anno precedente, documentano la fase più propriamente
‘romantica’ del percorso del teologo berlinese: se è vero che alcuni dei suoi scritti posteriori (dalla Kritik der bisherigen Sittenlehre
alla Glaubenslehre) conterranno definizioni più precise dei termini usati e argomentazioni più stringenti, non raggiungeranno tuttavia la persuasività oratoria di quei due saggi, che appaiono tuttora al lettore d’oggi carichi di una particolare suggestività.
Più in particolare l’opera costituisce un documento significativo dell’individualismo morale della cultura romantica, non diversamente da come i Discorsi contenevano un riconoscimento
della legittimità degli innumerevoli modi individuali di rapportarsi religiosamente all’Assoluto, al di là di ogni codificazione
confessionale. L’individualismo, in entrambi i casi, viene temperato dal presupposto che le singole manifestazioni dell’animo
religioso o morale possano comporsi in un tutto armonico. Forse ciò è da riportare alle stesse esperienze che dischiusero a
Schleiermacher l’intuizione del valore della individualità: dap-
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prima la vita religiosa nella comunità di Herrnhut, e poi la frequentazione dei circoli romantici dominati da una intensa forma di «socievolezza» (Geselligkeit).
Prima di addentrarci in una ricostruzione della linea argomentativa di queste meditazioni, occorrerà dire qualcosa a proposito del nesso tra le due opere, ovvero del modo in cui
Schleiermacher concepisce il rapporto tra la dimensione religiosa e quella morale. Nei Discorsi egli mette in guardia da ogni
confusione: l’animo religioso non si occupa di questioni metafisiche né è interessato all’agire morale. Nel suo atteggiamento,
prevalentemente passivo, esso percepisce, attraverso gli organi
dell’«intuizione» e del «sentimento», l’Assoluto al quale appartiene (l’espressione «sentimento di dipendenza» apparirà più tardi, nella Dottrina della fede). Nei Monologhi, che sono dedicati alla
spiegazione del fenomeno della moralità, tutto appare viceversa
come compito che si rivolge al volere. Eppure tra questi due modi di trattazione non esiste contraddizione. Il territorio della morale, pur nella sua indubbia autonomia, resta avvolto da un’aura
sacra. Il raggiungimento della «coscienza dell’umanità» e la ricerca, in essa, della specificità del proprio compito avvengono
in un’atmosfera «devota», che ricorda appunto la prima formazione del teologo nella comunità dei Fratelli moravi1.
La dedica
Lo spirito dell’opera è già tutto intero nella pagina dedicatoria
che presenta questo sondaggio nella propria interiorità come un
dono prezioso che può aprire anche all’altro che lo riceve la strada della scoperta del proprio sé. La visione, che è insieme un’affer mazione, dell’individualità propria non solo non contraddice l’emergenza di altre spiccate individualità, come un individualismo più volgare ci ha abituati a pensare, ma la produce per
contagio. Chi è in grado di apprezzare il dono ne trae uno sti-
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molo per le proprie forze vitali e una gioia duratura. Il raccoglimento in se stessi è il presupposto necessario di ogni autentico
dono ed è insieme finalizzato a questa apertura altruistica. Dalle prime battute dell’opera il suo autore annuncia che intende
pensare questi due momenti come inseparabili.
Il mondo come comunità degli spiriti
La tonalità dei monologhi avrebbe potuto suggerire di tradurre il titolo del primo di essi, Die Reflexion, con “meditazione”.
Ma sebbene questo significato non sia assente, come prova anche la modificazione del titolo nella terza edizione dell’opera (Betrachtung), ho preferito mantenere il termine «riflessione», che allude alla tesi, sviluppata appunto in questo primo monologo, secondo cui il mondo esterno riflette il nostro essere interiore.
L’evento del Capodanno è un invito a meditare, come momento simbolico che richiama al fatto che ogni attimo nel corso
della vita ha una connessione diretta con l’Eterno e l’Infinito e
può costituire l’occasione per una fuoriuscita dal tempo e della
sue leggi. In tali circostanze il fervore delle opere tace e ci si appresta a inutili contemplazioni e fantasticherie, sacrificando l’operosità a cui indulgono gli «schiavi del tempo».
La prospettiva mondana di chi considera il mondo la cosa
principale e riserva allo spirito un piccolo spazio al suo interno
viene capovolta a favore dello spirito, «prima e unica realtà», che
crea il mondo come proprio specchio. L’impressione di essere
plasmati dal mondo è ingannevole, non c’è nulla di proveniente
dal mondo che operi effetti su di me, gli stessi sentimenti che
sembrano derivare dal mondo fisico risultano dalla mia libera
azione. Tuttavia questo primato dell’io non comporta alcuna
pretesa di onnipotenza. L’essere finito e individuale non si muove nel vuoto, si confronta pur sempre con un mondo che gli è
dato, lo plasma ed esercita un’influenza su di lui. Ma questo da-
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to non è altro che l’eterna comunità degli spiriti, che agiscono
l’uno sull’altro. La necessità nasce appunto da questo gioco di
interazioni e limitazioni. Un interprete autorevole come Friedrich Michael Schiele ha osservato che dove Schleiermacher si
esprime in modo appropriato, non riconosce come reale alcun
altro mondo che quest’unico «mondo degli spiriti»2. È su questo
avanzato terreno di un mondo spirituale risultante dall’azione di
molti che viene cercata una soluzione al classico problema di una
conciliazione tra libertà e necessità.
L’accordo tra questi due momenti può essere cercato in una
duplice direzione: o sottolineando come le circostanze esteriori
costituiscono non solo vincoli ma anche opportunità di crescita per un soggetto sempre attivo – sarà questo ad esempio il modo in cui Marx interpreta la relazione «dialettica» tra i singoli uomini e le circostanze materiali della loro vita, sotto il segno di una
trasformazione «rivoluzionaria» – oppure mostrando come lo
spirito costituisca esso stesso determinazioni fisse, leggi necessarie, senza uscire dal proprio terreno, sulla base di limitazioni
che nascono dal semplice intreccio delle azioni di molteplici soggetti (spiriti) interagenti. Probabilmente i due modi di considerare le cose, convenzionalmente definiti ‘materialistico’ e ‘ spiritualistico’, non sono totalmente incompatibili, se si bada al fatto
che entrambi vogliono tematizzare, sia pure con accenti diversi,
i limiti che il soggetto incontra sul terreno dell’azione. Le affinità sono oscurate da presupposti metafisici opposti. E tuttavia l’idea (marxiana) di un’essenza umana, reinterpretata materialisticamente, potrebbe integrare utilmente quella (schleiermacheriana) di una comunità di spiriti che si definiscono e limitano reciprocamente, circoscrivendo l’ambito delle possibilità umane.
L’idealismo di Schleiermacher è del resto temperato dall’idea
che non esista alcuna cesura tra le forme più elevate del pensiero e la vita empirica, tra la vita della mente e l’agire esteriore, che
è inseparabile dalla coscienza («il tuo essere… non può prescin-
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dere, senza distruggersi, dal suo agire né dal sapere di codesto
agire»). La sua saggezza è diversa da quella di chi esorta a contentarsi di un’unica cosa, la contemplazione di se stessi, concepita come alternativa a qualsiasi occupazione mondana.
Questo modello di stare nel mondo trascendendolo ad ogni
istante ispira anche la concezione dell’immortalità adombrata al
termine del primo monologo, in continuità con i Discorsi. Agli
uomini che «si contentano» di cercare l’immortalità dopo il tempo, anziché accanto ad esso, Schleier macher raccomanda di dare
inizio già ora alla loro vita immortale, nell’incessante movimento che dalle opere di questo mondo li porta alla contemplazione
di se stessi.
Storia di una conversione
La seconda meditazione è quella che contiene, nella forma
particolarmente efficace della confessione del percorso compiuto da un’anima, i motivi più caratteristici dell’etica schleier macheriana.
L’attingimento di una chiara «coscienza dell’umanità» che risiede in noi e ci solleva oltre il livello dell’animalità è rappresentato come accesso a un «terreno consacrato». Questo passaggio
è descritto come risultato di un’unica libera decisione piuttosto
che di tentativi di applicare regole, al modo quindi di una sorta di
«conversione» che rende irrevocabile lo stato di illuminazione
raggiunto. Schleiermacher si richiama alla propria esperienza
personale, rievocando il tempo di questa prima decisiva scoperta, dovuta più a contatti con uomini viventi che all’insegnamento dei filosofi. Gli anni trascorsi come precettore, tra il 1790 e il
1793, nel castello di Schlobitten presso la famiglia von Dohna lo
avevano infatti iniziato a una vasta e variegata esperienza dell’umano, di cui egli serba vivo ricordo. Una predica del capodanno 1792 e uno scritto «sul valore della vita» di poco poste-
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riore, pubblicato da Dilthey in appendice al suo Leben Schleiermachers, sviluppano questo tema e possono essere considerati un
preludio ai Monologhi3.
Ma in questi ultimi la coscienza dell’intera umanità, già di per
sé liberatoria in quanto rende inutile una coscienza (Gewissen) angustamente prescrittiva, cede subito il passo a una nuova scoperta, che è approfondimento ma anche rovesciamento della prima: quella della individualità incomparabile di ciascun essere.
Ancora autobiograficamente Schleier macher ricorda di essersi
contentato per lungo tempo della sola ragione e dell’«uguaglianza di un’unica essenza», da cui aveva creduto di poter far discendere un medesimo diritto e una medesima moralità. Una nuova illuminazione o «rottura» lo conduce alla sua intuizione più alta, per cui «ogni uomo deve rappresentare l’umanità a suo modo, con una mescolanza particolare dei suoi elementi». Se l’umanità gli era comparsa nella quiete della vita di
Schlobitten, il valore dell’individualità gli si manifesta a Berlino,
tra gli innovatori romantici che comincia a frequentare; o forse
meglio questi nuovi contatti lo aiutano a elaborare in principi etici le esperienze che aveva fatto molti anni prima nella Comunità
dei fratelli, dove «aveva imparato a conoscere una ricca vita di
pietà individualmente diversificata»4.
Cultura dell’io e socievolezza
Tuttavia questa «scoperta» che ogni uomo deve rappresentare l’umanità a modo proprio e non sottoporsi a un «dovere» universalmente cogente si colloca all’interno della persuasione,
umanistica e religiosa, che tutte queste differenti manifestazioni
rappresentino l’estrinsecazione dell’infinito potenziale dell’umanità e siano pertanto compatibili e attinte proprio per confronto con le altre possibili combinazioni. Per questo viene attribuita tanta importanza, qui come nel Saggio di una teoria del com-
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portamento socievole (1799)5, alla socievolezza come mezzo indispensabile per la propria for mazione (Bildung). «Io mi penso in
mille diverse configurazioni per distinguere meglio quella che mi
appartiene».
La storia del proprio io, insieme all’opinione degli amici più
intimi, permette a chi attende alla propria formazione di scorgere il profilo del suo essere caratteristico, che è insieme un compito. L’identità così raggiunta costituisce un solido elemento da
cui egli non si allontana più. Tra le infinite vocazioni Schleiermacher distingue due tipi principali. C’è chi come lui privilegia
l’otium concentrandosi sul processo della formazione di sé (Bildung) e chi invece esprime la propria natura creativa in opere artistiche. Al confronto tra questi due generi di esistenza egli era indotto dalla frequentazione dei circoli romantici. Si può anche
supporre che la distinzione tra i due percorsi e l’affermazione
che «chi vuole raggiungere qualcosa in un ambito deve rinunciare all’altro» costituissero una sorta di risposta alle sollecitazioni che riceveva da Schlegel ad impegnarsi direttamente in
qualche attività artistica produttiva. L’avversione per la produzione era la più grande mancanza di Schleiermacher agli occhi
dell’amico, che scriveva: «Io lo spingo e lo tormento tutti i giorni», ma doveva infine ammettere di non trovare in lui «nessun
vero interesse a fare qualcosa»6. Nei Discorsi sulla religione questa
«lacuna», cioè l’incapacità di percorrere la via che conduce alla
religione attraverso «il senso dell’arte», era stata ammessa dallo
stesso Schleiermacher come un tratto profondo del suo essere,
da trattare tuttavia «con rispetto»7.
Da questa opzione fondamentale deriva anche un diverso
rapporto con la socialità: mentre l’artista opera in solitudine, il
metodo di chi persegue la propria formazione esige la comunione con gli altri spiriti, in vista della contemplazione comparativa delle varie figure che l’umanità ha assunto e di una costruzione di sé attraverso un continuo «scambio del dare e ricevere».
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L’apertura della mente a tutto ciò che non si è, la presenza di amici ed esseri amati, è essenziale alla via intrapresa da Schleiermacher. La mancanza d’amore, cioè lo squilibrio tra il dare e il ricevere, sarebbe per lui distruttivo. Significherebbe ritornare, inariditi, sotto il giogo della legge e del dovere.
Bisogna guardarsi tuttavia dal disperdersi nella comunicazione. Sarebbe assai poco rispettoso dell’amico riversare su di lui
confidenze su argomenti insignificanti o anche metterlo a parte
di aspetti del proprio sé di cui non si sia già venuti in chiaro per
proprio conto. Un effettivo dono suppone una qualche preliminare presa di possesso di sé nel raccoglimento. In un appunto di
diario riportato da Dilthey, Schleiermacher così ironizza sulla
virtù convenzionale della Offenheit (apertura, schiettezza): «Aperto è chi dell’essere più triviale fa il dominatore di se stesso, o anche chi è fatto solo di porte e finestre»8.
Il concetto di amicizia si connette strettamente con quello di
un riconoscimento reciproco della propria Eigenheit. La vera amicizia esclude ogni sentimento impuro di tipo utilitario o compassionevole. Anche per questa idea di una associazione di anime elette Schleiermacher si pone all’interno di un tradizione che
conduce nella direzione delle amicizie stellari di Nietzsche e della «libera socialità» di Simmel. La Geselligkeit ha certo un carattere più ludico e superficiale dell’amicizia, che sostituisce al gusto
per l’«osser vazione» dei caratteri un più impegnativo «sentimento», ma intrattiene con essa uno speciale rapporto: le riunione socievoli sono luoghi di formazione di amicizie e, per
converso, queste possono divenire la base di legami socievoli.
Ad entrambe il teologo berlinese assegna una valenza etica9.
La meditazione sull’amicizia non è priva tuttavia di una nota
dolente, che dipende d’altronde dall’altezza stessa dell’ideale a
cui l’autore tende. Una comunione perfetta può essere approssimata solo in modo imperfetto, perché ciascuno vive innanzitutto nel proprio mondo. Grazie alla sensibilità e all’amore la
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comprensione reciproca delle personalità potrà compiersi, fino
a un certo grado, in una progressione infinita, che la morte s’incaricherà comunque di interrompere. L’amarezza è però subito
temperata dall’aspettativa di tornare, uscendo dal mondo, nel seno dell’Infinito.
Le istituzioni etiche
Il terzo monologo si apre con una critica dell’immagine illuministica del mondo coltivata dalla generazione attuale. L’uomo
maturo o l’umanità che si crede uscita da uno stato di minorità
tessono l’elogio del mondo, obliando ciò che fino a quel momento era desiderato. Quest’elogio lascia trasparire una viltà dell’anima, che rinuncia in nome di un miglioramento del mondo
che si suppone già avvenuto a speranze più ardite.
L’accresciuto dominio dell’uomo sulla natura è indubbio:
Schleier macher dichiara di condividere il sentimento di una comunione delle generazioni che compiono in successione, come
un unico organismo, le opere intraprese da quelle precedenti.
Tuttavia l’innalzamento progressivo del benessere, fosse pure a
beneficio di tutti, non lo soddisfa. Neppure per il bene altrui si
può accettare di dedicare tutte le proprie forze a ciò che non si
accetterebbe come meta suprema per se stessi. Questa meta non
può essere altro che una comunione di spiriti affini, ma per costituirla non giova nessuno degli strumenti utili a soddisfare i bisogni materiali.
Un processo degenerativo insidia la comunità spirituale quando è posta al servizio di quella terrena. Ciò si verifica sia nelle
amicizie come nell’amore coniugale, dove dominano il calcolo
e i rapporti utilitari. Lo Stato stesso, che dovrebbe procurare ai
suoi membri il grado più elevato di vita, è concepito come un
male necessario, che si apprezza a misura che la sua azione diviene meno percepibile10. Nelle istituzioni l’uomo cerca soltan-
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to, mediante i limiti posti dal diritto, la possibilità di esplicare in
modo sicuro le proprie limitate risorse, e non quella di potenziare la propria formazione interiore, che in quelle comunità crede anzi di incontrare un ostacolo.
Ma altre forme associative sono possibili e forse anche prossime a realizzarsi, benché ancora non se ne abbia un’idea precisa se non tra i pochi o molti spiriti affini che presentono un mondo migliore. Schleiermacher ha la fiera coscienza di appartenere
a codesta schiera di «congiurati per un mondo migliore» e ne dà
l’annuncio. Per questi eletti il reciproco riconoscimento non è
semplice, ma Schleiermacher esprime la fiducia che essi malgrado tutto possano alla fine palesarsi l’uno all’altro.
L’esile accenno alle forme etiche di questo terzo monologo
si sarebbe sviluppato più tardi in una trattazione sistematica e
oggettiva, che tuttavia non tradisce le intuizioni principali dello
scritto giovanile. Le istituzioni sociali continuano ad essere pensate sul modello della più naturale di esse, la famiglia, che contiene germinalmente gli elementi di tutte le altre. Esistono per il
singolo individuo etico e non come fini a sé a cui l’individuo debba subordinarsi. È significativo che al di là dello Stato, della Chiesa e della comunità del sapere l’ultima sfera dell’eticità sia identificata con la libera socialità (Geselligkeit), che abbraccia relazioni puramente individuali. Se nello Stato i sudditi sono uguali, nella socialità quanti ne partecipano conservano la propria specificità. Questo ingrediente del sommo bene resta inaccessibile a
un’etica universalistica che bada piuttosto alla somiglianza delle
singole persone morali11. D’altra parte la valorizzazione dell’individualità consente di conferire un nuovo spirito anche alle forme etiche che attualmente la reprimono.
A questa più articolata concezione delle forme etiche corrisponde un’articolazione della riflessione sui doveri dell’individuo, che cerca di contemperare l’obbligo fondamentale che questi ha di realizzare la propria specifica vocazione con quello di
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seguire la propria via all’interno di un contesto comunitario12. Il
compito morale, che in prima istanza era stato immaginato come
gravante sulle spalle di un singolo uomo, va pensato nella sua interezza, come un’impresa collettiva del genere umano e l’individuo va concepito come parte di una comunità. La formula del
dovere viene di conseguenza così variata: «ogni singolo individuo faccia ogni volta, con la sua forza morale interiore, il massimo possibile per assolvere in comunione con tutti l’intero compito morale». Il perfetto equilibrio tra i due momenti, personale
e sociale della vita morale, viene garantito a condizione che per
un verso, nel riconoscere la propria identità con gli altri, il singolo non venga mai meno all’esigenza complementare di rispettare la propria particolare indole, e che per altro verso in questa
fedeltà egli cerchi continuamente l’accordo con gli altri, evitando il rischio di una vita completamente «sfrenata». La relazione
non è però del tutto simmetrica, poiché «la comunità esiste soltanto in virtù del costante agire in essa degli individui» – come
loro «azione», dice Schleiermacher anticipando un motivo che
sarà tipico della sociologia simmeliana. È in definitiva l’individuo a riconoscere con un libero atto di volontà lo stato comunitario, ponendosi così a sua volta al di sopra di esso.
Uno sguardo in avanti: il destino e la decisione
In che cosa si fondano le speranze che Schleiermacher ha
espresso con tanta forza nei monologhi fin qui considerati? Non
sull’attesa dell’intervento di una superiore provvidenza, alla quale si appellano gli uomini convenzionalmente religiosi. La Aussicht della quarta meditazione lo esclude, come esclude che qualsivoglia «destino» possa prendersi gioco delle decisioni dell’uomo. A condizione naturalmente che si tratti realmente di decisioni, e non di un inconsistente avvicendarsi di sensazioni e desideri. Seguendo il filo della propria formazione, a partire da quel
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primo atto originario della volontà che lo costituisce, l’uomo resta padrone di sé, si sottrae a ogni potenza estranea. Se questa
costituzione dell’io era fatta risalire, nei Discorsi, all’intuizione e al
sentimento dell’universo, ora nei Monologhi si scopre che essa coincide con un atto libero della volontà, che mi induce a «diventare sempre più quel che sono». Finché resto aderente a questo
essere determinato nessuna circostanza esterna può davvero dominarmi, e viene piuttosto rimodellata sul calco di questo essere. L’impressione di subire il peso oppressivo del destino nasce
solo dalla messa in comune della libertà. Ma tutto ciò che proviene dall’agire comune degli uomini deve pur sempre passare
attraverso la mia libertà, o la mia peculiarità. L’azione che a ogni
momento sono capace di intraprendere mi dà la certezza di disporre di me stesso. Gli altri avrebbero potuto reagire in modo
attivo alla violenza esterna: se non l’hanno fatto è perché non l’hanno veramente voluto.
Per mostrare come ciò sia possibile Schleiermacher si appella alla sua esperienza personale di liberazione dalle angustie della vita comunitaria e più in generale dalla falsa concezione morale fino ad allora professata. Egli si dichiara convinto di aver finalmente raggiunto una propria salda peculiarità da cui non si
staccherà più e alla quale non sarà difficile connettere tutte le future acquisizioni di una cultura multiforme.
In questo quadro di certezze esistono tuttavia elementi indefiniti, aspettative concernenti aspetti cruciali dell’esistenza, quali la scelta dell’amata o la paternità, rispetto ai quali il proprio volere potrebbe trovarsi limitato dalla «libertà altrui« o dal «corso
del mondo». Schleier macher confida che la forza della volontà
possa superare molti ostacoli, ma il suo argomento decisivo è
che, se anche lo sforzo fosse vano e tutto ciò che è desiderato
fosse negato, nulla riuscirebbe comunque ad opporsi davvero
alla crescita della sua vita interiore». Se non altro la forza divina
della fantasia mette al riparo da ogni smentita della realtà.
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Questo nucleo profondo e immutabile di se stesso è anche ciò
per cui Schleiermacher vuole essere apprezzato dagli altri e per
cui reclama la loro considerazione. La comunione spirituale che si
instaura grazie al riconoscimento reciproco del valore fondamentale che ciascuno incarna è capace di vincere la distanza e anche la morte. «Non ho mai perduto nessuno che mi sia stato caro».
Di fronte alla morte degli amici la sicurezza di Schleiermacher
sembra tuttavia per un momento incrinarsi. È vero che per un
certo verso gli amici non muoiono perché continuano ad esercitare una permanente influenza su chi li ha avuti cari, il quale accoglie in sé la loro vita. Ma è altrettanto vero che è ormai impossibile esercitare un’azione su di loro. In questo senso ogni amico
che scompare è come se privasse chi gli sopravvive di una parte
della propria vita e quasi lo ‘uccidesse’. È questa una rappresentazione sottile e profonda del morire, inteso come un impoverimento delle relazioni e delle capacità di influenza sugli altri.
Schleiermacher ha trascritto questo passaggio del testo, come ricorda in una lettera alla sorella Charlotte, da un «piccolo libretto», in cui aveva preso nota di quest’idea, da lui stesso definita
oscura ma penetrante13.
Subito dopo Schleiermacher introduce però anche una diversa idea della morte: quella di una meta necessaria per ogni essere che abbia portato a compimento la propria individualità e a
cui non resti più aperto quindi nessun progresso possibile. Malgrado l’alta considerazione che egli ha di se stesso e degli spiriti
a lui affini, si rende conto che una condizione di assoluta perfezione appartiene propriamente solo a dio. Questo lo porta vicino a un pensiero inespresso, che più tardi Feuerbach avrebbe
svolto in una direzione a dire il vero assai poco religiosa: un essere totalmente perfetto, che non abbia bisogno di nulla, non ha
bisogno neppure di esistere, l’esistenza è una caratteristica esclusiva dell’essere bisognoso.
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Le età della vita
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Un altro pericolo da scongiurare è la vecchiaia ossia la previsione di un’età della vita convenzionalmente concepita come decadenza delle forze e dell’entusiasmo giovanile. Se tale dovesse
essere davvero, sarebbe preferibile la morte. Ma Schleiermacher
è convinto che la vita dello spirito sia attiva per l’intera durata
della vita e non sia una grandezza soggetta ad usura e logoramento. Il «pregiudizio» della vecchiaia dipende soltanto dall’errata concezione che l’anima dipenda da corpo. Anche se si dovesse essere oppressi da sofferenze, il semplice fatto di resistere
ad esse può essere fonte di un rinvigorimento dello spirito.
Alla vecchiaia, nell’ultimo monologo, non sono attribuiti però solo malanni ma anche specifiche virtù: la saggezza, la riflessività, la pienezza dell’esperienza. Ma anche questo è per
Schleiermacher un pregiudizio. I doni sono ripartiti diversamente tra gli uomini ma non tra le stagioni della vita. Così i frutti attribuiti all’età matura possono appartenere anche al fiore della giovinezza – e il giovane Schleiermacher li rivendica come
suoi. Ne risulta un intreccio delle età della vita e delle relative virtù, percorse da un unico processo formativo di incessante ricerca di se stessi. Per una vita piena occorre anticipare le virtù di
saggezza e riflessività della vecchiaia, senza sperperarsi in gioventù in una operosità senza meta, con l’unico scopo di agire, e
protrarre fino all’esaurimento delle forze fisiche la vivacità e la
tensione giovanile. Sull’evidenza del tempo che passa e sullo
sconforto che ne consegue prevale la certezza della libertà interiore, che nessuna forza esterna cioè sia capace di opprimere uno
«spirito libero».
È singolare come nelle pagine finali di questo piccolo gioiello della cultura romantica si preannuncino figure che avrebbero
trovato più tardi sviluppo in autori riconducibili a quella stessa
tradizione individualistica che Schleiermacher inaugura in questo simbolico Capodanno del 1800: se il Freigeist troverà in Nietz-
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sche un campione, l’individuo che amministra l’amore come una
«proprietà» (Eigenthum) di cui dispone a piacimento, senza lasciarsi imporre regole («Non lasciarti porre limiti al tuo amore…
È tua proprietà») prelude all’unico di Stirner – un unico per la
verità pieno di buoni sentimenti, mentre l’idea di «legge individuale» («la sua legge risiede solo in te») verrà messa a punto da
Simmel, con piena coscienza d’altronde del suo debito verso il
teologo berlinese.
Per un giusto apprezzamento di questo ‘sposalizio’ della gioventù e della vecchiaia vale la pena confrontare la posizione
espressa da Schleier macher in questa quinta meditazione con la
concezione lineare delle età della vita proposta da Hegel nel § 396
(aggiunta) dell’Enciclopedia. Qui la giovinezza corrisponde al soggettivismo idealistico dell’età moderna, alla pretesa di modellare
la realtà secondo la propria idealità; la maturità invece all’accettazione di impiegare produttivamente le proprie forze nella elaborazione della realtà, inserendosi in essa mediante il lavoro e la
professione; la vecchiaia infine rappresenta solo l’irrigidimento
irreversibile di questo precedente momento di adattamento, di
cui fa emergere d’altronde il significato virtualmente mortifero14.
Vorrei mettere l’accento ora, conclusivamente, su due questioni che emergono dalla ricostruzione fin qui condotta e che
sono state spesso al centro dell’attenzione dei critici. La prima
concerne il significato da assegnare al primato dell’io rispetto al
mondo e rimanda, dal punto di vista storico-filosofico, ai rapporti di Schleiermacher con Fichte. Questo primato non solo è
oggetto di formali e ripetute affermazioni, ma sembrerebbe implicato nello stesso metodo adottato di tipo introspettivo o monologico. La seconda questione riguarda il senso e la portata dell’etica individualistica, che Schleiermacher ha introdotto nel
campo delle concezioni della vita morale, in alternativa ai grandi modelli universalistici di Kant e dello stesso Fichte, e che pre-
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lude, con un proprio accento inconfondibile, ad altre grandi filosofie individualistiche in cui avrebbe trovato espressione l’intuizione della vita del secolo XIX.
Il primato dell’io
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Il primato dell’io rispetto al mondo ha dato adito di frequente ad accostamenti tra la dottrina di Schleiermacher e la filosofia
fichtiana dell’Io. Già il figlio di Fichte affermava che i Monologhi
non erano altro che l’espressione poetico-retorica della dottrina
della scienza. Il superbo tono di sfida con cui Schleiermacher affronta il destino e la rivendicazione allo spirito di una capacità
creatrice rispetto alla natura sono in effetti simili e sembrano
confortare l’idea di d’una dipendenza da Fichte. Ma le affinità finiscono qui.
La recensione che Schleiermacher pubblicò del saggio Die Bestimmung des Menschen, uscito nel 1800, a poca distanza dai Monologhi, esprime apprezzamento e riconoscenza per le nuove vedute introdotte da Fichte. Con cautela il recensore si limita a riportare ampi stralci del saggio e a misurare le riflessioni di Fichte restando all’interno della sua prospettiva 15. Tuttavia egli avanza il
dubbio che l’Io risulti in definitiva davvero capace di «abbracciare» ed «esaurire» «l’intero modo di pensare (Denkart) e l’intero sistema dello spirito», come Fichte pretenderebbe. Alla fine
del primo libro de La destinazione dell’uomo l’Io di Fichte appare
impaurito dal sistema della necessità naturale tracciato fino a
quel momento. Perché mai – si chiede Schleiermacher? E risponde: «Perché in quel sistema il suo amore dovrebbe andare
perduto insieme al suo interesse per se stesso, per la propria personalità come essere finito; perché esso non vuole essere assolutamente nulla in un altro e per un altro, ma solo qualcosa in e
per se stesso»16. La concentrazione esclusiva dell’io in se stesso,
la mancanza di consistenza dell’io finito, la perdita dell’amore:
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sono questi i punti critici che la filosofia dell’Io non ha risolto in
modo convincente e a cui viceversa Schleiermacher pensa di
aver dato risposta nei suoi Monologhi.
Se nella recensione la critica resta reticente, nei Monologhi, apparsi qualche mese prima, invece il confronto con la filosofia dell’Io fa emergere più nettamente le divergenze tra i due autori. In
particolare, in un passo del primo monologo Schleiermacher
manifesta l’intenzione di congiungere riflessione e vita, e tra i
«saggi» che invitano a tener separate dalla vita «le forme originarie e più elevate del pensiero» e mettono in guardia dall’audacia
di volerle congiungere è sicuramente da annoverare Fichte17.
Schleiermacher è interessato al superamento dell’opposizione e pone perciò i suoi monologhi nel contesto del dibattito su
realismo e idealismo. Egli rifiuta la separazione tra una sfera della vita, che sia governata dalla pura necessità naturale, secondo
l’analisi del primo libro della Destinazione dell’uomo, e di una sfera
trascendente, spirituale, nella quale trovi espressione il punto di
vista filosofico. Chi ragiona in questi termini oppositivi finisce,
a suo giudizio, per lasciare la vita reale o comune in balìa della
necessità. In questo senso si può leggere anche l’osservazione,
contenuta nella recensione del saggio di Fichte, a proposito del
suo titolo: «Come può interrogarsi circa la destinazione dell’uomo
– scrive il recensore – uno che crede, o almeno vuole credere, alla libertà e all’autonomia?»18.
Le stesse difficoltà che Schleiermacher aveva incontrato nello stabilire con Fichte, in occasione dei loro incontri berlinesi,
uno scambio di pensieri proficuo viene riportata a quella separazione, cioè alla mancanza di spirito della sua comunicazione
ordinaria. «Il suo modo di pensare naturale – osserva, deluso,
l’autore dei Monologhi – non ha niente di straordinario, e quindi, fino a che egli si pone nella comune prospettiva della vita (auf
den gemeinen Standpunkt), gli manca qualsiasi cosa che lo possa rendere per me un oggetto d’interesse»19.
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Nella ricostruzione del primo monologo ho già detto qualcosa circa il tentativo schleiermacheriano di ricomposizione dei
due livelli. L’originarietà degli atti spirituali è certamente affermata ma le limitazioni dell’agire esteriore sono ugualmente considerate, come risultato dell’interazione dei molti soggetti che
costituiscono la comunità degli spiriti. L’orizzonte “idealistico”
entro cui Schleiermacher intende muoversi gli impedisce invece
di avere coscienza dell’influenza che le circostanze esteriori esercitano sullo «spirito».
Quanto alla forma monologica adottata, che potrebbe suggerire l’idea di uno solipsismo autoreferenziale, c’è da dire che
essa non ha nulla a che vedere con un procedimento di tipo deduttivo che ponga a tema un’analisi della struttura dell’Io. Nell’inviare a un amico «il nuovo piccolo prodotto appena venuto alla luce» Schleiermacher lo descrive come un tentativo di «tradurre nella vita il punto di vista filosofico» degli idealisti e insieme di «presentare il carattere che corrispondere a tale filosofia».
«A questo scopo – egli dichiara – la forma prescelta mi è sembrata la migliore». Tuttavia l’autore presente che il suo tentativo
di mediare idealismo e mondo reale sarà totalmente frainteso,
perché né l’uno né l’altro «sono stati espressamente e formalmente dedotti»20. In effetti questa mancanza di fondazione teorica della vita reale, che viene tuttora rimproverata a Schleiermacher come indizio di «un’impresa non condotta a termine»21,
rappresenta un preciso e consapevole passaggio a una pratica
della filosofia che fa a meno di fondazioni. Entro quest’orizzonte questioni attinenti la vita, quali quelle dell’amore e della
propria «peculiarità», non possono essere sollevate, mentre è
proprio con esse che Schleiermacher vuole confrontarsi. Sottratto al mondo delle astrazioni non per questo il monologo di
Schleiermacher decade a journal intime, dove, come è stato osservato, «l’attenzione troppo diretta su se stessi sembra il cammino
peggiore per scoprire ciò che si è»22. Esso è piuttosto un raccon-
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to di vita riferito a sé nel contesto del «mondo», ovvero di tutte
le proprie esperienze, e indirizzato alla costituzione stessa di questo sé, secondo una modalità indicata come esemplare.
In questo senso è nel secondo monologo che bisogna cercare la chiave di lettura dell’intera opera23. È qui infatti che compare l’idea che all’interno di ogni individuo sia rintracciabile un
nucleo che funge da guida nella vita e nel comportamento morale. La concezione etica che vi si riscontra non potrebbe essere
più diversa da quella fichtiana. Come abbiamo visto, per la perfezione morale l’autore dei Monologhi raccomanda di abbandonare la coscienza generale dell’umanità per coltivare la formazione individuale. Ora invece in Fichte, come nota lo stesso
Schleiermacher nella Kritik der Sittenlehre, «il perfezionamento etico consiste proprio in ciò, che ciascuno cessi di essere qualcosa
di diverso da una parte omogenea della totalità. Infatti la ragione, che deve determinare ciascuno, è trasferita dall’individuo nella comunità, e non può essere altro che una ragione comune a
tutti; di modo che… ciascuno al posto dell’altro avrebbe dovuto anche fare la stessa cosa»24.
L’individualismo etico
In questo l’etica di Fichte non differisce sostanzialmente da
quella kantiana ed è accomunata in una stessa critica. Il confronto con Kant rapppresenta in effetti una delle chiavi più importanti per chiarire l’originalità dei Monologhi. Siamo talmente
abituati da una lunga tradizione educativa a considerare l’innovazione kantiana dell’autonomia e dell’universalità della legge
come il fondamento irrinunciabile su cui l’etica deve essere costruita da dimenticare che, quasi fin dal momento in cui fu formulata, questa concezione fu a sua volta contestata in nome di
un altro fondamento possibile. La reazione alla morale kantiana
si manifestò in due modi principali: in nome della felicità contro
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l’unilateralità di una virtù fondata sul dovere, e nella messa in discussione della universalità della legge.
Uno degli artefici di questa reazione fu appunto Schleiermacher. Il fatto che egli fosse un pastore protestante, un uomo religioso, va tenuto nel debito conto. Il rigorismo della legge morale, il fatto che essa non riuscisse a comporre in unità virtù e felicità e che attribuisse alla legge un carattere «più giuridico che
etico» dovette apparirgli in contrasto con i dettami dell’amore.
Deriva di qui l’orientamento monistico della sua etica, tesa a superare la scissione tra le mete dell’esistenza. Ma in lui si esprimeva in pari tempo una concezione personalizzata della salvezza, o della formazione di sé, che è anch’essa un portato della religione cristiana ed è stata trasmessa per suo tramite all’intera cultura occidentale, in ciò che essa ha di migliore.
L’ambiente culturale romantico, di cui Schleier macher fu attivo protagonista, doveva agire nello stesso senso, portandolo
ad apprezzare il principium individuationis. Nel Wilhelm Meister
(1796) Goethe scrive una frase che ben rispecchia l’idea di un
cosmo ordinato di individualità portatrici delle risorse complessive dell’umanità: «Solo tutti gli uomini formano l’umanità,
solo tutte le forze prese insieme costituiscono il mondo»25. Gli
interpreti di Schleiermacher, a partire da Schiele e Simmel, hanno giustamente insistito sull’affinità tra la sua visione del mondo e la rappresentazione di caratteri fortemente individualizzati
nell’opera di Goethe.
Prima della composizione dei monologhi, nel frammento
Über den Wert des Lebens, Schleiermacher aveva riconosciuto una
inevitabile scissione di virtù e felicità, una duplicità negli scopi
dell’esistenza. Ma ciò era dipeso, come ora riconosce, da un concetto troppo limitato di virtù come fonte di «regole» esplicite per
ogni caso della vita. La nuova conciliazione proposta nei Monologhi viene guadagnata attraverso un superamento di quella scissione, in un serrato confronto con la dottrina kantiana del do-
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vere. Ogni elemento imperativo e giuridico viene bandito, come
ogni soggezione a una legge, fino alla stupefacente dichiarazione: «non conosco più quel che gli uomini chiamano coscienza».
Ciò non significa d’altra parte una ricaduta nell’arbitrio anteriore alla legge ma la ricerca di una nuova forma di legalità, pensata in analogia alla «legge naturale», che regge la crescita organica
e i processi di autoformazione26. In questo senso si potrebbe dire – ed è stato detto27 – che siamo in presenza di un etica «descrittiva», che ricava le regole del comportamento dalla ricognizione di ciò che l’uomo, e anzi ciascun uomo è, imponendo obblighi di coerenza con questo suo essere. Simmel riprenderà questo tema, sottolineando a sua volta come questa forma di legge
morale legata alla singolarità di ciascuno non comporti alcuna
indulgenza, ma anzi provochi una più completa responsabilizzazione per i propri atti, tutti rilevanti ai fini della propria Bildung,
e rovescerà anzi sulla moralità kantiana l’accusa di lasciare fuori
del dominio morale, come «indifferenti», la quasi totalità delle
azioni, salvo le poche fattispecie su cui si può esercitare il test di
una possibile universalizzazione28.
Il carattere di novità del punto di vista etico ma anche ontologico introdotto da Schleiermacher può essere apprezzato a
pieno se lo si inserisce nella storia dell’individualismo moderno.
Nei molti saggi dedicati alla ricostruzione delle forme di individualismo, come nel fondamentale saggio teorico Das individuelle
Gesetz (1913), Simmel ha assegnato un significato cruciale alla figura di Schleiermacher. A suo giudizio egli inaugura il percorso
di un «individualismo della differenza» che nel secolo XIX approfondisce quello illuministico dell’uguaglianza fino a configgere con esso29. Una «appassionata avversione» lo rende insofferente all’individualismo del XVIII secolo, ben esemplato da
Kant, che «vedeva in ognuno l’uomo universale»30.
A Schleiermacher spetta il merito di aver dato per primo una
forma astratta all’«intuizione della vita» propria del secolo XIX,
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cioè di quel secolo in cui gli individui, una volta liberati in linea di
principio dalle istituzioni del privilegio e della disuguaglianza,
«vogliono anche distinguersi l’uno dall’altro», nella loro determinatezza e non scambiabilità. Per lui, scrive Simmel, «ogni essere è espressione e specchio della totalità intera, ogni uomo è
un compendio dell’umanità, ma lo è in una forma particolare,
incomparabile»31. Questa visione morale nasce da una rottura
con quella «filosofia dell’essere» che ricercava l’unità profonda
che collega le cose in ciò che esse hanno di uguale, e trova il suo
fondamento «metafisico» nell’idea che «l’universale ha la sua vita solo nella forma del particolare» e che «l’infinità dell’esistente
vive immediatamente e indissolubilmente nell’incomparabilità,
o, meglio, come incomparabilità di ogni forma individuale»32.
Nelle pagine dei Monologhi si possono trovare anticipate, anche
linguisticamente, molte delle figure che saranno svolte più tardi
da esponenti di questa più tarda e matura forma di individualismo della differenza: dalla «peculiarità» (Eigenthümlichkeit) e «proprietà» (Eigenthum) di Stirner allo «spirito libero» (freier Geist) di
Nietzsche. Ma mentre l’io stirneriano è proteso a staccarsi dalla
propria matrice comunitaria ‘naturale’ e a costruire al più forme
associative contrattuali, e quello nietzschiano a incorporare dentro di sé eroicamente tutto lo sviluppo cosmico e storico che l’ha preceduto, il singolo schleiermacheriano è sì individuale, come ogni altro reale, «eppure non si stacca egoisticamente dagli
altri, rimanendo senza sostegno», «è piuttosto una realizzazione
particolare della forza totale dell’Universo»33.
Leonessa, estate 2010
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Note
1. S. Eck, Die neue Moral, in F. Naumann, a cura di, Schleiermacher der Philosoph des
Glaubens, Berlin 1910, p. 118. Allo stesso autore si deve il saggio Über die Herkunft
des Individualitätsgedankens bei Schleiermacher, Universitàtsprogramm, Gießen 1908.
2. Cfr. infra, “Riflessione”, nota 8.
3. I due scritti sono stati pubblicati in appendice all’edizione Schiele dei Monologen (seconda edizione ampliata a cura di H. Mulert, Meiner, Hamburg 1914).
4. F. M. Schiele, Die Entstehung der Monologen, Introduzione alla edizione critica dei Monologen da lui curata, 2° ed. con ampliamenti di Hermann Mulert
1914, p. XXII.
5. F. D. E. Schleiermacher, Versuch einer Theorie des geselligen Betragens, 1799, ora
in Kritische Gesamtausgabe. I/2, de Gruyter, Berlin-New York 1984, pp. 165-184,
trad. it. in «La società degli individui», n. 25, 2006, pp. 125-144.
6. Cit. in R. Haym, Die romantische Schule, Berlin 1870, p. 446.
7. KGA, I/2, p. 262, trad. it. Discorsi sulla religione, in Scritti filosofici, Utet, Torino 1998, p. 175.
8. W. Dilthey, Denkmale der inneren Entwicklung Schleiermachers, in appendice a
Leben Schleiermachers, I, Berlin 1870, p. 81.
9. F. D. E. Schleiermacher, Ethik 1812-13, Meiner, Hamburg 1981, pp. 126130, trad. it. Etica 1812-13, in Scritti filosofici, cit., §§ 252 e 253: cfr. in merito il mio
Il significato etico della socievolezza in Schleier macher e Simmel, comparso nel n. 25,
2006 de «La società degli individui», pp. 145-157.
10. È probabile che per quest’ultimo aspetto Schleiermacher si riferisse in
particolare al saggio di A. von Humboldt, Ideen zu einen Versuch, die Grenzen der
Wirksamkeit des Staates zu bestimmen (1792).
11. Cfr. P. Hensel, Die neue Güterlehre, in F. Naumann, a cura di, Schleiermacher
der Philosoph des Glaubens, Berlin 1910, p. 101.
12. Cfr. F. D. E. Schleiermacher, Versuch über die wissenschaftliche Behandlung
des Pflichtbegriffs, in Sämtliche Werke, III, 2, pp. 350-378, trad. it. Sulla trattazione
scientifica del concetto di dovere, 1824, in Etica ed ermeneutica, Bibliopolis, Napoli
1985, pp. 193-208.
13. Ricavo la notizia da Schiele, cfr. infra, “Prospettiva”, nota 21.
14. Ho tradotto e commentato questo passo hegeliano sulle età della vita in
Il lavoro e la fine degli ideali. Un brano di Hegel sui giovani («Sociologia del lavoro», nn.
15-16, 1982, pp. 147-154). In esso si legge: «La vecchiaia è il regresso a una
mancanza d’interesse per la cosa; il vecchio si è immedesimato nella cosa e proprio a causa di questa unità con la cosa, in cui si perde l’opposizione, abbandona l’attività piena d’interesse per essa» (p. 151).
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15. Per l’analisi di questa vicenda e per una ricostruzione complessiva assai
documentata dei rapporti di Schleiermacher con Fichte si veda lo studio di
Christiane Ehrhardt, Religion, Bildung und Erziehung bei Schleiermacher, V & R Unipress, Göttingen 2005, pp.120-141.
16. Rezension von J. G. Fichte, «Die Bestimmung des Menschen», KGA
I/3, p. 246. Il fastidio per la lettura dell’opera di Fichte e per la tormentata stesura della recensione si manifesta più apertamente in alcune lettere dell’estate
1800. Il 28 giugno l’autore scrive a Schlegel: «Dannato e ingarbugliato libro
questa destinazione dell’uomo!» (KGA V/4, p. 114). E il 4 luglio comunica sollevato a Henriette Herz di aver concluso la recensione: «Evviva, in questo momento il mio Fichte è finito, e il disgraziato libro, che io non posso maledire
abbastanza, è riposto nel suo vecchio posto. Dio mi guardi dal riprenderlo più
in mano» (KGA V/4 p. 119).
17. Cfr. infra, p. 9). Il programma di «far passare nella vita il punto di vista filosofico» è ribadito in una lettera a Brinckmann del 4 gennaio 1800 (KGA V/3,
p. 316). Un anno dopo la pubblicazione dei Monologhi Schleiermacher scrive a
un collega (F. H. C. Schwarz) che «all’interno dell’idealismo nessuno potrebbe
essere in così netta opposizione come me e Fichte» e indica come principale
punto di differenza il rigetto da parte sua, presente già in modo sufficientemente chiaro nel primo monologo, della «totale separazione di vita e filosofia» (KGA
V/5, p. 75 s.). Ancora nel 1803 Schleiermacher dà questa caratterizzazione di
Fichte: «Chi separa così nettamente la filosofia e la vita, come fa Fichte, che cosa può mai essere? Un grande virtuoso unilaterale, ma non un uomo« (Schleiermacher’s Leben. In Briefen, a cura di L. Jonas e W. Dilthey, IV Bd., Berlin 1863, p. 93).
18. Rezension von J. G. Fichte, «Die Bestimmung des Menschen», KGA
I/3, p. 240 s.
19. Lettera a C. G. von Brinckmann del 4 gennaio 1800 (KGA V/3 p. 314).
«Prima che egli arrivasse – spiega Schleiermacher – avevo l’intenzione di parlare con lui della sua filosofia, e di manifestargli la mia opinione ch’gli non mi
sembra procedere nel giusto col suo modo di separare la prospettiva (Denkart)
comune da quella filosofica. Ma presto ho dovuto rinunciarvi vedendo quanto era impigliato nel modo di pensare comune. Dato che all’interno della sua filosofia non avevo critiche da muovere e l’ammirazione non è per me d’altra
parte oggetto di discorso, e al di fuori di essa non esistevano altri punti di contatto se non quelli più usuali, così non è potuto avvenire tra noi alcun avvicinamento». Per una formale distinzione in Fichte del punto di vista speculativo
da quello della vita si veda il saggio Zweite Einleitung in die Wissenschaftslehre für Leser, die schon ein philosophisches System haben (1797, Werke, Akademie Verlag, 1,3, p.
210 s.), dove si afferma conclusivamente: «L’idealismo non può mai essere modo di pensare (Denkart), ma è solo speculazione».
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20. Lettera a C. G. von Brinckmann del 4 gennaio 1800 (KGA V/3 p. 316).
21. C. Ehrhardt, op. cit., pp. 138-141.
22. A. Meschiari, Riprendersi la vita. Per un’etica del reincanto, Tassinari, Firenze
2010, p. 227.
23. Questa tesi è sostenuta da Brent W. Sockness in Schleiermacher and the
Ethics of Authenticity. The Monologen of 1800, in «Journal of Religious Ethics», 32,
3, 2004, pp. 477-517. Se il primo monologo, argomenta Sockness, sembra avvalorare un’immagine trascendentale dell’io, non troppo dissimile da quella
kantiano-fichtiana, un’immagine cioè sottile e «desostanzializzata», ad essa si
affianca, nel secondo monologo, un’immagine dell’io che il critico definisce,
ispirandosi a Charles Taylor, «espressivista», basata sull’idea che all’interno di
ogni individuo risieda in nuce un’essenza da scoprire e da sviluppare. Questa
essenza, egli aggiunge proiettando forse su Schleiermacher una preoccupazione «comunitarista» che non rende conto della sua intenzione principale, è
attinta dal grembo della comune umanità e sebbene sia coltivata creativamente da ogni singolo, è pur sempre qualcosa di «dato» originariamente all’io, il
quale cessa dunque di essere il prodotto di un’attività sovrana della libertà. La
convivenza, non del tutto riuscita, tra i due tipi di immagine sarebbe stata possibile, secondo Sockness, grazie all’ambiguità del concetto di Menschheit di cui
Schleiermacher fa uso: intendendola dapprima come «libera soggettività riflessiva», poi invece come «termine collettivo (specie umana) e principio di totalità quasi metafisico».
24. F. Schleiermacher, Grundlinien einer Kritik der bisherigen Sittenlehre, Berlin
1803, p. 83, poi in Werke. Auswahl in vier Bänden, a cura di O. Braun e Joh. Bauer,
Abt. III, Bd. 1, p. 64.
25. W. Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni di apprendistato, trad. it. Adelphi,
Milano 2006, p. 495.
26. Kant, osserva Schleiermacher nelle Grundlinien einer Kritik der bisherigen
Sittenlehre, presume di aver preso a suo modello l’idea di «legge naturale», ma è
ben lontano dall’averlo fatto davvero: questa infatti contempla connessioni organiche e pone, insieme all’universale, uno spazio per il particolare. La sua passione per l’uguaglianza gli impedisce di dare riconoscimento a qualsivoglia forma di «determinatezza», e quindi anche ad ogni richiesta di «piacere» che provenga dalla singola personalità. Il dovere di assumere come fine la felicità altrui
non fa che liberare il piacere dal collegamento con la peculiarità e corrisponde
piuttosto allo scopo «politico» di fornire una «legislazione sociale» (F. D. E.
Schleiermacher, Grundlinien einer Kritik der bisherigen Sittenlehre, Berlin 1803, poi
in Werke. Auswahl in vier Bänden, a cura di O. Braun e Joh. Bauer, Abt. III, Bd. 1,
pp. 62-65).
27. Di nuovo da Schiele, nell’Introduzione citata, p. XIX.
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28. G. Simmel, Das individuelle Gesetz, in Das individuelle Gesetz. Philosophische
Exkurse, a cura di M. Landmann, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1987, p. 201 s.,
trad. it. La legge individuale, Armando, Roma 2001, p. 76 s.
29. G. Simmel, Die beiden Formen des Individualismus, in Id., Gesamtausgabe, a
cura di O. Rammstedt, Bd. II, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1995, pp. 49-56 ; Das
Individuum und die Freiheit, in M. Landmann, M. Susman, a cura di, Brücke und
Tür, K. F. Koeler, Stuttgart 1957, pp. 212-219: entrambi tradotti in Id., Forme dell’indivisualismo, Armando, Roma 2001, pp. 35-45 e 47-60. Per l’influenza di
Schleiermacher sul pensiero di Simmel cfr. H. Kress, Schleiermachers Individualitätsgedanke in seinen Auswirkungen auf die Lebensphilosophie Georg Simmels, in K. V.
Seige, a cura di, Internationaler Schleiermacher-Kongress Berlin 1984, de Gruyter,
Berlin-New York 1985, pp. 1243-1266, trad. it. Il pensiero dell’individualità in
Schleiermacher e i suoi riflessi sulla filosofia della vita di Simmel, «La società degli individui», n. 7, 2000, pp. 31-56.
30. G. Simmel, Die beiden Formen des Individualismus, in Werke, cit., p. 53, trad.
it. cit. p. 40. Nelle Grundlinien (loc. cit.) troviamo detto che in Kant «la formula
di trattare l’uomo come fine in sé non viene riferita “agli uomini”, a ragione
del “momento individuale” che li contraddistingue, ma “trasferita all’umanità
in generale”».
31. G. Simmel, Die beiden Formen des Individualismus, loc. cit.
32. G. Simmel, Hauptprobleme der Philosophie (1910), de Gruyter, Berlin 19899,
pp. 61-63, trad. it. Problemi fondamentali della filosofia, Laterza, Roma-Bari 1996, p.
44 s. Simmel assume come rappresentante tipico di una filosofia monistica dell’essere Spinoza. Egli insiste sulla differenza tra la prospettiva di Schleiermacher e quella di Spinoza, che concepisce l’essere determinato come negatio di
una realtà totale onnicomprensiva, anziché nella sua positività.
33. G. Simmel, Hauptprobleme der Philosophie, cit., p. 61, trad. it. cit. p. 44.
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