MOBBING E DANNO PSICHICO di Raffaele Castiglioni1, Elisabetta Ceppi Ratti2, Francesco De Ambrogi3 SOMMARIO : 1. Introduzione. - 2. Mobbing tra istituto giuridico e costrutto psicopatologico. - 3. Effetti del mobbing sulla salute psichica e cenni sui metodi valutativi. - 4. Aspetti medico-legali del mobbing. Consulenza tecnica. - 4.1. Inquadramento diagnostico. - 4.2. Nesso di causa. - 4.3. Temporaneità e permanenza del danno. - 5. Danno psichico da mobbing e formule descrittive altre di danno non patrimoniale. - 6. Allegazioni e prova. - 6.1. Inquadramento Allegazioni. - 6.2. Prove e onere della prova. 1. Introduzione Avversità lavorative e mobbing – laddove, invero in pochi casi, si realizza – sono causa di danni, patrimoniali e non patrimoniali. Ci occupiamo qui di una voce specifica di danno non patrimoniale; ossia il danno biologico psichico. La prima parte tratta del fenomeno mobbing sul piano naturalistico, tenendo conto, come chiave di lettura, della psicopatologia del lavoro. la seconda parte tratta dell’allegazione e della prova, sia del fattore, sia del danno psichico che si pretende essere conseguenza del fattore lesivo. Segue la terza parte, concernente gli aspetti medico legali. Ci si sofferma, in tema di inquadramento diagnostico, sull’uso del DSM (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e sui mal definiti confini tra salute e malattia. Si tratta poi del nesso di causa e della temporaneità o della permanenza del danno psichico. La quarta parte tratta dei principali effetti del mobbing sulla salute psichica; nonché – invero brevemente – delle più comuni e accreditate prassi valutative dei medesimi. Seguiranno, da ultimo, considerazioni tecniche sulla natura intercorrente tra le diverse formule descrittive del danno non patrimoniale. 2. Mobbing tra istituto giuridico e costrutto psicopatologico medico legale e avvocato, Milano psicologo del lavoro, Milano 3 psicologo psicoterapeuta, Milano 1 2 2 Legislazione: c.c. 2087 Giurisprudenza: Cass. Sez. Lav. 7.09.08, n. 222858 - Cass., Sez. Lav. 7.12.10, n. 24794 - Cons. Stato, Sez. VI. 17.02.12, n. 856 Bibliografia: Gilioli R. e coll. 2001 - Nocco 2008 - Cella 2009 Prima di trattare delle peculiari caratteristiche del danno psichico da mobbing è necessario circoscrivere il fenomeno in termini definitori, dal punto di vista della psicopatologia del lavoro. Punto di vista al quale, anche chi ritiene abbia scarso valore nell’individuazione della sua nozione giuridica, non può non riconoscere “…il meritorio ruolo di preparare gli operatori del diritto alla scoperta di questa nuova fattispecie di danno risarcibile…” (Nocco, 2008, 398) Resta di fatto indubbio che, ancor prima di porsi il problema dell’allegazione e della prova di un eventuale danno psichico da mobbing, ciò che risulta essenziale è allegare e provare il fatto che si ritiene lesivo. Tale osservazione può apparire superflua. Per vero, in troppe occasioni, in fase di primo colloquio, si sentono scriteriate espressioni quali “sono qui perché il mio avvocato vuol sapere se si può procedere”. Per tacere dei casi di coinvolgimento in giudizio già iniziato, in cui la consulenza tecnica è stata avviata ancor prima di concludere la fase istruttoria. In altri termini, nella prassi corrente, capita troppo sovente che l’operatore “tecnico” venga, impropriamente, interessato da richieste di “accertamento di mobbing” nell’ipotesi illusoria che una certificazione di stato psicopatologico compatibile con l’essere stato vittima di una dinamica mobbizzante sia prova provata della dinamica medesima. Quasi a dimenticare che oggetto d’indagine non è il soggetto interessato quanto piuttosto – almeno in prima battuta – l’ambiente lavorativo in cui il lavoratore – e sedicente vittima – si trova ad operare. “In effetti in qualsiasi causa in cui sia allegata una situazione di mobbing …il problema decisivo non sarà stabilire se sussista o meno il mobbing (di per sé non disciplinato e dunque di per sè privo di conseguenze giuridiche), ma se sussistano comportamenti del datore di lavoro che costituiscono inadempimento al contratto di lavoro in quanto lesivi dell’integrità fisica o della personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.) e quali conseguenze gli stessi abbiano provocato. Tuttavia bisogna riconoscere che l’attenzione che altre discipline …hanno riservato al fenomeno, se da lato ha avuto l’effetto di moltiplicare l’utilizzo più o meno proprio di questo concetto in ambito giudiziario e dunque anche il numero delle cause, ha però contribuito ad attirare l’attenzione degli operatori su alcune modalità lesive della personalità morale del lavoratore che prima erano sottovalutate; si è detto che il mobbing può dunque quanto meno costituire un utile "legal framework", una cornice legale cioè in cui si vanno ad inserire una serie di episodi che se considerati atomisticamente, sminuzzati in 3 tanti piccoli fatterelli, sembrerebbero privi di rilevanza, ma che visti nel loro insieme, unificati da questa cornice, assumono rilievo sia ai fini di stabilire se sia o meno esistito un comportamento complessivamente lesivo, sia ai fini di stabilire quanto esso sia stato grave” (Cella 2009, 06) Nello specifico, tra le svariate definizioni presenti in letteratura, piace ricordarne una storica, in quanto prima delucidazione sul fenomeno, comparsa su un giornale scientifico in Italia ad opera di Gilioli e collaboratori, ove il costrutto è ben descritto come “forma di violenza psicologica, ripetuta in modo iterativo, con modalità polimorfe, quasi sempre con intenzionalità lesiva, con la finalità/conseguenza dell’estromissione del soggetto vittima dal posto di lavoro” (Gilioli e coll. 2001, 61- 69) E’ pur vero che, parlando di violenza morale sul luogo di lavoro, non sempre è semplice circoscriverla. In ogni caso, anche se la soggettività nell’interpretazione degli eventi può rendere difficile l’individuazione di una dinamica mobbizzante è altresì vero che esistono, come vedremo nel dettaglio al paragrafo dedicato alle allegazioni, “parametri” il cui soddisfacimento permette di evidenziarne la presenza. In definitiva, sia concesso affermare, come già altre volte sostenuto, che ciò che rende il mobbing tale in termini di potenziale valore lesivo è proprio la co-presenza di determinate caratteristiche “situazionali”. Che poi esistano in ambito lavorativo altri generi di situazioni dis- stressogene, alcune volendo anche più “lesive” e come tali giuridicamente altresì rilevanti (es. molestia sessuale, demansionamento, licenziamento illegittimo, diffamazione, discriminazione sessuale ovvero razziale, sovraccarichi lavorativi disumani, mancato adempimento delle prescrizioni della sorveglianza sanitaria ecc. ) non vi è alcun dubbio. Ma non chiamiamole mobbing, perché niente hanno a che vedere con il costrutto in esame. Tutt’al più lo possono precedere, seguire o affiancare, costituendo importanti “aggravanti”, che nella loro diversa “ontologia giuridica” troveranno un personale spazio all’interno del ricorso. A conferma di come la giurisprudenza non solo di merito, ma anche di legittimità si sia sempre più ispirata ai dettami della psicopatologia del lavoro nel perimetrare le ipotesi di mobbing vogliamo lasciare la parola ad alcune sentenze della Suprema Corte: “Il mobbing …è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore. Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti … la volontà che lo sorregge diretta alla persecuzione od all'emarginazione del dipendente, e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico”. Inoltre, Lo specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi quale la mera dequalificazione. …Per la natura anche legittima dei singoli episodi e per la protrazione del comportamento nel tempo, nonché per l'unitarietà dell'intento lesivo, è necessario che da un canto si dia rilievo ad ogni singolo elemento in cui il comportamento si manifesta assumendo rilievo anche la soggettiva angolazione del 4 comportamento, come costruito e destinato ad essere percepito dal lavoratore. D'altro canto, è necessario che i singoli elementi siano poi oggetto d'una valutazione non limitata al piano atomistico, bensì elevata al fatto nella sua articolata complessità e nella sua strutturale unitarietà”. Infatti, “Se è vero …che il mobbing non può realizzarsi attraverso una condotta istantanea, è anche vero che un periodo di sei mesi è più che sufficiente per integrare l'idoneità lesiva della condotta nel tempo”. (Cass. Sez. Lav. n. 222858, 7.09.08) “Ai fini dell’integrazione del mobbing non è sufficiente una sola situazione conflittuale nei rapporti interpersonali, essendo invece necessario che vi sia una condotta vessatoria ‘reiterata e duratura’ finalizzata all’isolamento del lavoratore nel proprio contesto lavorativo ovvero alla sua estromissione dall’azienda, e che l’effetto di tali soprusi provochi nella parte lesa uno stato di disagio psichico e l’insorgere di un danno certo alla salute. In sostanza, perché possa integrarsi la condotta 3. mobbizzante occorre, in ogni caso, che la persecuzione sia sistematica e duratura, situazione che nella fattispecie non appare essersi verificata, essendosi gli episodi vessatori protratti solo per un periodo di qualche settimana a cavallo dell’estate” (Cass. Sez. Lav. n. 24794, 7.12.2010) “La ricorrenza di un’ipotesi di mobbing andrà esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme di circostanza addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare in singulatim, elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di ordinaria verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo …. E’ in primo luogo necessaria, quindi, che sia fornita la prova dell’esistenza di un sovrastante disegno esecutorio, tale da piegare alle sue dominanti finalità i singoli atti cui viene riferito” (Cons. Stato Sez. VI. n. 856, 17.02.2012) Allegazioni e prova. Ottimo memorandum il latinetto iudex iuxta alligata et probata iudicare debet; non tanto per il giudice, quanto, piuttosto, per l’avvocato. A fronte di cause bene istruite, troppe ve ne sono con allegazioni imprecise e mezzi di prova inadeguati. Cause inutili, votate al fallimento, che contribuiscono a ingombrare la già mal funzionate macchina della giustizia. 3.1. Allegazioni. Legislazione: c.c. 2118 e 2119. Bibliografia: Bianchi 2009 - Ege 2002 - Sims 2000 - Fornari 1997- Gilioli 2001 – Einarsen e coll. 2011 Fatti di lavoro e di vita, tempi, luoghi. Sono le carte da giocare. Ce le fornisce il lavoratore. Basta ascoltarlo con attenzione e con distacco critico. Chi, suo malgrado, si trova invischiato in vicende lavorative avverse, non sempre è obiettivo. Ritiene che tutti i mali vengano da lì; anche se, magari, il lavoro c’entra, sì, ma assai meno rispetto ad altre contingenze di vita. Infatti, 5 “La percezione della propria condizione psichica è soggetta a molteplici sorgenti di distorsione (biases). Il solo fatto di aver subito una lesione – o di credere di averla subita - amplifica di per sé la percezione del proprio malessere (effetto nocebo). Se poi la lesione è ascrivibile alla responsabilità di altri (e quindi evitabile), essa risulta ancor più insopportabile (avversione alle perdite)” (Bianchi 2009) Per questo si devono scandagliare con attenzione fatti “di lavoro e di vita”. Osservazione accurata e valutazione empatica dell'esperienza soggettiva, sono validi strumenti, mutuati dalla psicologia, per ricostruire la storia di vita. "Empatia come termine psichiatrico significa letteralmente 'sentirsi nei panni di un altro'. … Nella psicopatologia descrittiva il concetto di empatia è uno strumento che deve essere usato con abilità per misurare lo stato soggettivo di un'altra persona, impiegando come criterio le capacità dell'osservatore di avere esperienze emotive e cognitive” (Sims 2000, 30) E ancora: Comprendere è un modello che "mette in secondo piano le classificazioni e le categorizzazioni e privilegia l'ascolto per cogliere dal di dentro la conflittualità e la sofferenza umana. …[l’interlocutore] è qui collocato in una dimensione di intersoggettività attraverso la quale ci si sforza di mettere su di un piano di parità la comunicazione e la comprensione” (Fornari 1997, 126). Empatia e comprensione non sono collusione. Anzi. Sentiamo una lavoratrice, che così si lagna del suo lavoro: "… subisco continui soprusi da parte dei colleghi … alcuni mi sono penetrati in casa e hanno portato via dei documenti … il medico competente è d'accordo il medico di base … tutta una mafia … ho contattato degli avvocati, ma nessuno è motivato a fare qualcosa … sono stata da uno specialista per l'ipertensione … anche lui è stato contattato dall'ufficio … sono implicate le organizzazioni sindacali … il Ministero del Lavoro … mi sono accorta che tutto ciò che dicevo era spiato … c'era collegamento con le battute dei miei colleghi … una volta ho trovato la macchina senza i copricerchi … non so quanto sia attribuibile al lavoro … io penso di sì … sono segnali … anche in strada gli sguardi della gente sono strani … sembra sappiano di me … sono osservata … penso che mi mettano microspie in casa". Parole ricche di significato. Anche qui c'è comprensione; per il doloroso disagio. Ma è comprensione che porta a valutare l’opportunità di altri sbocchi: non l'avvocato, bensì lo psichiatra. La scelta ha duplice vantaggio: per la lavoratrice indotta a curare la sua persecutività patologica; e per l’apparato giudiziario, che non sciuperà risorse per un’altra inutile vertenza. Laddove non si tronchi subito il discorso come nel caso citato, si dovrà fare un lavoro di minuziosa ricostruzione storica; di fatti, tempi e luoghi, appunto. Numerose e disparate le fattispecie dannose. Le più comuni sono riconducibili a questi gruppi fondamentali: - recesso dal contratto di lavoro, ossia licenziamento e dimissioni disciplinate dagli artt. 2118 e 2119 c.c. e da leggi speciali; - dequalificazione professionale e mancato conferimento di incarichi e di mansioni; - mobbing e molestie sessuali. 6 Pericoloso e fuorviante ricostruire la storia lavorativa con il pregiudizio di trovare elementi di una sola fattispecie. Tale pregiudizio è una sorta di filtro che lascia passare solo gli elementi che, appunto, si sono prefigurati. Altri elementi, pure importanti, costitutivi di altre fattispecie dannose, rischiano di essere trascurati, a scapito, alla fine, di un ricorso mutilo nelle allegazioni, nelle prove e nelle domande. Troppo sovente si cerca in primis il “mobbing”, sorta di categoria mitica, troppo spesso usata a sproposito, anche quando nemmeno lontanamente si profila. Eppure, poche volte ricorre. Innanzitutto, “è facile confondere l'insoddisfazione e la tensione sul lavoro con il Mobbing: una recente ricerca inglese, per esempio, ha mostrato che la stragrande maggioranza delle persone intervistate che si reputavano vittime di Mobbing, in una realtà intendevano sottolineare il loro scontento di fronte a una condizione di lavoro sempre più difficile. La persona dunque può sentirsi immobilizzata, mentre in realtà è vittima di un altro tipo di conflitto, organizzativo, relazionale, quotidiano, generalizzato o altro. La corretta identificazione del Mobbing deve quindi essere lasciata all'esperto. Quando ci muoviamo in un settore che sembra essere prevalentemente basato sulla percezione, diviene difficoltoso poter affermare o addirittura dimostrare l'esistenza di un fenomeno come quello del Mobbing. Tuttavia, la cosa non è impossibile: in un conflitto relazionale esistono, e sono rintracciabili, caratteristiche peculiari che ci permettono di capire se si tratta di Mobbing o no” (Ege 2002, 46). In generale i principali parametri necessari per un corretto riconoscimento di una dinamica mobbizzante sono (Gilioli 2001, 61-69; Ege 2002): Contesto: la violenza morale lamentata deve avere come contesto l’abito occupazionale della sedicente vittima. Frequenza: risulta fondamentale che le riferite azioni ostili si verifichino con sistematicià, quantificabile in “almeno qualche volta al mese”. Durata: la violenza morale deve essere attuata per un periodo temporale considerevole, convenzionalmente definito pari ad almeno sei mesi; in alternativa, nei casi in cui la frequenza e l’intensità delle azioni siano particolarmente elevate tale criterio può essere ridotto a tre mesi (c.d. quick mobbing). Dislivello di potere tra gli antagonisti: è necessario che tra i protagonisti del conflitto esista un dislivello di potere, formale e/o informale. Intento persecutorio, direzionalità, intenzionalità: tra le diverse azioni vessatorie lamentate è necessario poter scorgere una strategia persecutoria che le colleghi. Tipologia di azioni, multiformità: le azioni vessatorie subite tipicamente sono polimorfe, ovvero devono avere natura diversa e colpire la persona sotto aspetti diversiAndamento secondo fasi, escalation del fenomeno: un meccanismo mobbizzante tende a procedere seguendo momenti evolutivi specifici. Quella sopra riportata è una possibile categorizzazione dei criteri di giudizio. In realtà esistono varie definizioni di mobbing, ognuna delle quali legata a specifici filoni di ricerca. Al di là delle 7 svariate descrizioni proposte (solo nella tradizione nordamericana tra il 1976 e il 2009 se ne contano ben diciassette) e della macro spiegazione del fenomeno, la maggior parte degli autori riconosce come fondamentale il fatto che esista un reale, o percepito, dislivello di potere tra sedicente vittima e presunto persecutore. Per contro, il fatto che l’intenzionalità sia una caratteristica definente il processo è ancora 3.2 dibattuto. Alcuni autori sostengono che l’intenzionalità sia un elemento chiave nel mobbing, altri ritengono il contrario. Comunque sia, la letteratura converge nell’evidenziare come il mobbing abbia molte conseguenze individuali come stress, problemi psicologici e alti livelli di sintomi psicosomatici. (Einarsen, Hoel, Zaps, Cooper 2011, 9-22). Prove e onere della prova. Legislazione: c.c. 1222, 2087, 2697, 2727 e 2729, c.p.c.421 Giurisprudenza: Cass. S.U. 4.5.2004, n. 9539. Bibliografia: Bianchetti 2001- Gaglio 1977 - Jervis 1975. Pacifico l’attuale e prevalente orientamento della dottrina e della giurisprudenza a favore della responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c. . Gli atti lesivi dei diritti del lavoratore sono atti di gestione del rapporto di lavoro, che, quand’anche non facciano parte di un disegno di deliberata e reiterata persecuzione – come il mobbing – trovano diretto riferimento normativo nella disciplina del rapporto di lavoro e da tale disciplina sono sanzionati laddove siano illeciti. La responsabilità datoriale va dunque ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti dalle norme che regolano il rapporto lavorativo, indipendentemente dalla natura dei danni subiti e dalle ripercussioni sulla salute, che trovano tutela specifica nell’ambito del rapporto obbligatorio (ex multis, Cass. SU, 4.5.2004, n. 9539). Stante la natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro, al lavoratore incombe il solo onere di provare l'esistenza del contratto subordinato e di allegare le circostanze degli abusi e delle vessazioni che ha subiti, mentre tocca al datore di lavoro provare di aver adempiuto diligentemente all'obbligo di protezione o di essersi trovato nell'impossibilità di adempiere per cause a lui non imputabili. Eccezione alla suddetta regola sono le obbligazioni negative – di non fare – il cui inadempimento consiste in un fatto positivo compiuto appunto in violazione del divieto (art. 1222 c.c.). In questi casi è onere del creditore dimostrare l'altrui inadempimento ovvero il compimento dell'azione vietata da parte del debitore. Notizie raccolte dai colloqui e documenti forniti sono materiale grezzo, da rielaborare, per dare forma ai fatti di causa, collocati nel 8 tempo e nello spazio e agiti dai protagonisti – lavoratore, datore, colleghi, familiari, con tanto di nomi e cognomi. Base per allegazioni precise e, di conseguenza, per definire i mezzi di prova. La prova è sempre difficoltosa, soprattutto quando si fonda solo su testimonianze. La pericolosità del teste è, in genere, nota. Infatti, potenziali testi sono spesso proprio i colleghi, che concorrono magari ad attuare le condotte datoriali illecite, o che, in ogni caso, sono conniventi e restii a rivelare i fatti per timore di ritorsioni. Tuttavia, “Le oggettive difficoltà nella prova del mobbing non possono … consentire il superamento dei precisi vincoli previsti dall'art. 2697 c.c. per evidenti ragioni; è invece possibile ed auspicabile che il giudice utilizzi i poteri istruttori previsti dall'art, 421 c.p.c. e faccia adeguato ricorso alle prove per presunzioni previste degli artt. 2727 e 2729 c.c.” (Bianchetti 2001, 2113) Proprio dalle difficoltà probatorie, per altro, potrebbe scaturire “una interessante sinergia in favore della vittima del mobbing: il consiglio di ‘prendere accuratamente nota di tutti gli attacchi (verbali e non), con date, luoghi e persone coinvolte’ con la finalità di ‘prepararsi alla battaglia’ contro il o i mobber, oltre ad essere un'attività particolarmente utile - se non indispensabile - per il buon esito di una controversia giudiziaria, costituisce spesso un ‘punto di svolta’ per il mobbizzato che, individuando una precisa linea di azione, può recuperare in parte l'autostima e superare lo smarrimento tipico di chi si sente ‘accerchiato’ ” (Bianchetti 2001, 2113). Venendo ora alle presunzioni in tema di danno psichico in caso di mobbing, un primo fatto notorio. Che esistano lavori interessanti, remunerativi e pienamente gratificanti, non c’è dubbio. C’è, però, ancor meno dubbio che il lavoro, lungi dal nobilitare, ha spesso nociuto. Fino a qualche decennio fa, le avversità lavorative coinvolgevano per lo più operai delle fabbriche. “Le cause patogene sono precise. Ripetitività dei gesti e parcellizzazione operativa conducono a una riduttività della persona; l'uomo e la donna diventano subalterni al ciclo produttivo anziché dominarlo. Da questa dipendenza si passa alla perdita del significato di lavoro, sino alla progressiva dequalificazione – più o meno inconscia – e la difetto di identità: l'atomizzazione della persona all'interno del ciclo produttivo porta all'anonimato di se stessi sino alla depersonalizzazione”. Inoltre “Ritmi e tempi di lavoro, orari prolungati, pendolarità, insufficienza delle pause di recupero, e di ristoro per i pasti, non provocano soltanto un'astenia muscolare: sono già un fatto patologico sia in senso psicofisico che economico” (Gaglio 1977, 159) Addirittura, “il fatto che molti operai facciano delle assenze ‘ingiustificate’ e improvvise dal luogo di lavoro viene designato come assenteismo: … Un medico del lavoro ha identificato qualche anno fa molto acutamente il problema, affermando che non si tratta tanto di chiedersi i perché dell’assenteismo, quanto piuttosto i perché di un enigma psicologico opposto: il presentismo ” (Jervis 1975, 185) Oggi il problema si è diffuso e riguarda operai, impiegati, quadri, dirigenti, siano essi dipendenti privati o funzionari di pubbliche amministrazioni, banche, assicurazioni, enti pubblici, ieri isole felici dove si percorreva l’intera vita lavorativa senza pensieri, sono divenuti luoghi di 9 vessazioni e fonte di patologie lavorative. Fra i ‘Problemi Psicosociali e Ambientali’ che sono causa di malattia o concorrono ad aggravare stati patologici preesistenti, il DSM elenca i “Problemi Lavorativi: disoccupazione; minaccia di perdere il lavoro; orario di lavoro stressante; condizioni di lavoro difficili; insoddisfazione lavorativa; cambiamento di lavoro; disaccordo con il principale o con i compagni di lavoro” (DSM-IV-TR 2001, p. 46). Provato un fatto illecito, dunque, è facile presumere che una ripercussione emotiva negativa l’abbia, con ogni probabilità, avuta. Nei casi in cui si pretende di aver subito anche un danno biologico di natura psichica, si rende invece necessario un lavoro istruttorio supplementare; ossia la minuziosa 4. ricerca di referti medici atti a ricostruire una storia clinica plausibile. Oltre all’ovvia prova documentale, è troppo spesso negletta, in questi casi, la prova testimoniale. Si pensa che le carte mediche dicano tutto e se ne demanda interpretazione e spiegazione ai consulenti tecnici. Errore gravissimo, perché i referti sono generalmente redatti senza preoccupazioni medico-legali, appunti estemporanei, il più delle volte approssimativi o incompleti. Perciò i referti devono essere accuratamente esaminati, con l’ausilio del consulente di parte, per verificarne, appunto, le incompletezze. Che potranno essere utilmente colmate chiamando a testi i medici. Aspetti medico-legali del mobbing. Consulenza tecnica. Legislazione: d.lgs. 23.2. 2000, n. 38 - l. 5.3. 2001, n. 57, c.c. 2059 Bibliografia: Giannini 1995 - Aspetti medico-legali, id est accertamento delle conseguenze e quantificazione. L'assunto evoca la favola del danno biologico psichico. Giustamente s'è detto – il detto vale ancora, dopo oltre tre lustri – che “il danno psichico è un po' come l'araba fenice: che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa” (Giannini 1995, 107) E' la qualificazione del danno come "biologico" a complicare il discorso. Il danno biologico consiste nella lesione dell'integrità psicofisica della persona, "suscettibile di accertamento medico-legale"; con sottesa limitazione a quello che è "malattia". Esiste definizione di legge – prima non c’era – a far tempo dal 2000 (si vedano i capostipiti, d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13 e l. 5 marzo 2001, n. 57, art. 5). Va bene per l'organico; assai meno per lo psichico, dove sfuggenti e impalpabili sono i confini fra sanità e malattia. Se il danno biologico è malattia, allora il danno biologico psichico è malattia psichica. L'actio finium regundorum si rivela qui 10 chiacchiericcio fallimentare; e abusivo. Abusivo, perché etichetta come malattia forme di disagio, anche pesante, che malattia non sono. Stati di sofferenza psichica non necessariamente sono malattia; ma possono essere danno. E' quello che il più delle volte si vede nei casi di mobbing; o, più latamente, di controversie lavorative. Vigeva, un tempo, altra favola: quella che il danno non patrimoniale fosse solo il danno morale; risarcibile, ex art. 2059 solo in casi di reato. Bugiardo corollario: il danno biologico – fisico o psichico – era il danno risarcibile per eccellenza e, se non c'era danno biologico, non c'era danno. Allora, per consentire il risarcimento di malesseri psichici si fingeva che fossero malattia; e, quindi, danno biologico. Vischioso trucco, sopravvive nel tempo. Così il danno biologico psichico ha avuto, troppa fortuna; e, troppo spesso, è uscito dai confini ben più ristretti che gli sarebbero toccati, per comprendere, aspetti di natura non strettamente patologica; con quantificazioni cervellotiche. Invece, anche forme di disagio, di sofferenza psichica, che non hanno dignità – ma quale dignità? – di malattia sono danno. La qualificazione giuridica – morale, esistenziale, edonistico, e 4.1. quant'altro – non compete al medico legale. L'indagine, sul piano clinico fenomenico, circa la sussistenza di una condizione psichica di disagio o di sofferenza, che possa qualificarsi, sul piano giuridico, come danno – biologico o no – invece, gli compete certamente, giacché si tratta pur sempre di ricercare l'alterazione di funzioni psichiche, il cui apprezzamento può farsi solo in sede specialistica. Scopo della consulenza tecnica, dunque, è sì rispondere ai quesiti del giudice; ma attraverso minutissima analisi del caso, in tutti i particolari, senza preventivo paraocchi selettivo dei soli – eventuali, il più delle volte – aspetti patologici. La letteratura delinea i canoni dell'indagine forense, insieme psichiatrica e medicolegale. Due le parti della corretta consulenza tecnica. Dapprima l'indagine clinica: colloquio, esame psichico, approfondimento psicodiagnostico, valutazione della documentazione medica. Poi la discussione medico-legale: diagnosi, accertamento del nesso di causa, definizione della temporaneità o della permanenza del danno, quantificazione. Tralasciamo l’indagine clinica di cui si tratterà, ci soffermiamo, invece, sulla discussione medico-legale delle risultanze cliniche. Inquadramento diagnostico. Bibliografia: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali 2001 - Bargagna e coll. 1998 - Othmer e Othmer 1999 - Fornari 1997 - Petti 1997 Accenniamo a due temi: l'uso del DSM e l'incertezza della distinzione fra salute e malattia psichica. 11 Per quanto riguarda il DSM – oggi DSM-IV-TR – capita ancora troppo spesso, da un lato, di sentir chiedere che cosa sia; dall'altro, di vederlo usato come una sorta di Bibbia della psichiatria. Scopo del DSM è "fornire descrizioni chiare delle categorie diagnostiche, allo scopo di consentire ai clinici ed ai ricercatori di diagnosticare, di comunicare, di studiare e di curare le persone affette dai diversi disturbi mentali". In effetti, "l'uso di tali criteri [diagnostici] fa innalzare la concordanza tra clinici" (DSM-IV-TR, 15). In effetti, "le conoscenze raccolte nel manuale DSMIV rappresentano uno strumento assai utile al fine di un inquadramento diagnostico rispondente alle attuali acquisizioni della psichiatria" (Bargagna e coll. 1998, 19). Per altro, "non ha alcun senso applicare pedissequamente i vari criteri di inclusione e di esclusione dopo la formulazione di una diagnosi 'privata' e 'personale', quasi un controllo 'a posteriori' per esaurire anche questa formalità a cui si affida poca credibilità e ancor meno capacità esplicativa dei fenomeni psicopatologici” (Othmer e Othmer 1999, introd. XI). Inoltre, il DSM espressamente avverte che "Quando le categorie, i criteri e le descrizioni del DSM-IV vengono utilizzate a fini forensi, sono molti i rischi che le informazioni diagnostiche vengano utilizzate o interpretate in modo scorretto. …Nel determinare se un individuo soddisfa uno specifico standard legale sono di solito necessarie più informazioni rispetto a quelle contenute in una diagnosi del DSM-IV” (DSM-IV-TR 2001, 11). In effetti, il perito che tende a "incasellare e classificare associazioni significative di sintomi e di segni" si appaga "sfogliando … il rassicurante dizionario americano (il D.S.M. nell'ultima o penultima versione), che tutto cataloga e numera, anche ciò che non è possibile (i Disturbi Non Altrimenti Specificati o Disturbi NAS”(Fornari 1997, 126). E lì si ferma. Incertissimi, in psichiatria, i confini fra salute e malattia. Alcuni giuristi (Petti 1997, 1) propugnano oggi il concetto – generale – di "salute" contenuto nel Preambolo alla Costituzione dell'O.M.S.: "La salute è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non consiste soltanto in una assenza di malattia o di infermità. Il possesso del migliore stato di salute costituisce uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano". Il DSM mentale" definisce il "disturbo "come una sindrome o un modello comportamentale o psicologico clinicamente significativo, che si presenta in un individuo, ed è associato a disagio (es. un sintomo algico), a disabilità (es. compromissione in una o più aree importanti del funzionamento), ad aumento del rischio di morte, di dolore, di disabilità o a una importante limitazione di libertà". Ma anche qui, ben lungi da statiche certezze, si ammette che "nessuna definizione specifica adeguatamente i confini precisi del concetto di disturbo mentale'". Inoltre, "non vi è nessuna presunzione che ogni categoria di disturbo mentale sia un'entità totalmente distinta, con confini assoluti che la separano dagli altri disturbi mentali o dalla normalità" (DSM-IV-TR 2001, 9). 12 In conclusione: restano labili i confini fra normalità e patologia psichica; il DSM può – non "deve" – essere un utile strumento per la diagnosi; certo, non deve essere un repertorio di etichette diagnostiche da usare per conferire maggiore – e falsa – dignità scientifica a qualsiasi caso; e, certo, non risolve il problema della distinzione fra norma e malattia. Invece, vige il deleterio pregiudizio che malattia psichica siano i quadri psicopatologici descritti nel DSM; e normalità tutti i fenomeni fuori dal DSM. E’ capitato di leggere in una sentenza che la “sindrome ansioso-depressiva reattiva” diagnosticata dal CTU e da lui qualificata come danno biologico temporaneo, tale non fosse poi 4.2. ritenuta dal giudice, perché la locuzione diagnostica “sindrome ansioso-depressiva reattiva” non ricorre nel DSM. Se il medesimo fenomeno clinico fosse stato etichettato come “Disturbo dell’Adattamento con Ansia e Umore Depresso Misti” il giudice sarebbe stato appagato nel suo pregiudizio e avrebbe accettato che il CTU qualificasse il quadro come danno. Ma “Disturbo dell’Adattamento con Ansia e Umore Depresso Misti” è etichetta diagnostica perfettamente sovrapponibile alla vecchia “sindrome ansioso-depressiva reattiva”. Il DSM non ha scoperto niente di nuovo. Nesso di causa. Bibliografia: Arieti e Bemporad 1980 - Barbui 2000 - Bargagna e coll. 1998 - Bertalanffy, 1968 - Palmieri e Zangani 1991 - Fiori 1985 - Cazzaniga e Cattabeni 1976 - Kraepelin 1907 Questi i classici criteri medico-legali per l'accertamento del nesso di causalità (materiale) tra fatto illecito e lesione, ovvero fra lesione e postumi: "criterio cronologico, criterio topografico, criterio di adeguatezza lesiva, qualitativa e quantitativa, criterio della continuità (e, correlativamente) della "sindrome a ponte", criterio dell'esclusione di altre cause" (Cazzaniga e Cattabeni 1976, 131 – conforme Palmieri e Zangani 1991, 20). Fiori individua nel loro ambito "categorie diverse con ruoli differenziati", distinguendo "due gruppi di criteri, il primo costituito dai criteri di possibilità scientifica (di idoneità lesiva) e di esclusione di altre cause; il secondo dai criteri topografico, cronologico, di continuità fenomenologica e di sindrome a ponte" (Fiori 1985, 29). Per il danno psichico i criteri funzionano quando funzionano. Non sempre forniscono la chiave del problema del nesso causale in termini di certezza. In molti casi ci si deve accontentare di un buon grado di probabilità (come, del resto, talvolta accade anche in tema di danno biologico fisico). Proprio in tema di mobbing (ma il principio vale in tutti i casi di danno psichico) s'è detto: "Allorquando si fa riferimento ai motivi che determinano l'insorgenza di sintomi di disagio psicologico e psichiatrico si 13 utilizzano i termini di 'causa' e 'fattore di rischio'. Per causa si intende un fattore necessario e sufficiente alla comparsa del disturbo. In psichiatria non si conoscono cause che determinano le malattie. I fattori di rischio sono tutti quegli elementi che aumentano la probabilità di insorgenza del disturbo. La presenza di fattori di rischio, dunque, non sempre porta come conseguenza il disturbo; in aggiunta, il disturbo può verificarsi pure in assenza del fattore in questione. In psichiatria si parla solamente di fattori di rischio; essi possono aumentare la probabilità di insorgenza di un disturbo, che quindi prima non era presente, ma possono anche aumentare la probabilità di una riacutizzazione di un disturbo già presente in passato" (Barbui 2000, 732). Parlando di nesso di causa, si deve toccare un altro problema: la preesistenza. La questione non va confusa con quella del nesso causale, ma vi è strettamente connessa. Il problema è noto fin dagli albori della psichiatria. Così scriveva Kraepelin, più di cent'anni fa: "Tanto meno un individuo è predisposto alla pazzia, tanto maggiore deve essere l'agente nocivo esterno che induce lo stato morboso; viceversa, esistono individui che divengono pazzi solamente sotto l'influenza dei piccoli eccitamenti della vita quotidiana, perché la loro forza di resistenza è troppo piccola per poterli 4.3. sopportare senza profondi (Kraepelin, 1907, 11). disturbi" La Guida Bargagna avverte oggi che la patologia psichica "più spesso … è il risultato di un insieme articolato di fattori, esogeni ed endogeni, con effetti di nocumento variabile da persona a persona" (Bargagna e coll. 1998, 19). Analogo concetto è espresso, con più articolata argomentazione: "Nella terminologia della teoria generale dei sistemi, la psiche non è un sistema chiuso, bensì un sistema aperto a influenze continue da parte di fattori che si verificano fuori dal sistema (Bertalanffy, 1968). Anche le strutture psicopatologiche sono dei sistemi aperti. Esse sono degli stati di vario grado di improbabilità, mantenuti da un'entropia psicologica negativa proveniente dall'esterno del sistema originale. Un sistema aperto come la psiche segue il principio dell'equifinalità; lo stato finale non è inequivocabilmente determinato dalla condizione iniziale. Ogni fase della vita si trova sotto l'influenza degli stadi precedenti, ma non in modi rigidi o ineluttabili. Intervengono altri fattori. Le prime esperienze concorrono a determinare la depressione soltanto quando, insieme ad altri fattori, facilitano lò a formazione di un'ideologia che condurrà a modelli di vita sfavorevoli" (Arieti e Bemporad 1980, 22). Temporaneità e permanenza del danno. Bibliografia: Gilioli e coll. 2001 - DSM-IV-TR 2001 - Bargagna e coll. 1998 - Castiglioni 1992 - AA. VV. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali 2001- S’è detto che "il disturbo psichico, comunque venga inquadrato e diagnosticato, non ha mai carattere di 'permanenza' e di 'immutabilità'" (Castiglioni 1992, 419) In condivisibile linea, la Guida Bargagna: "… nella maggior parte dei casi, i disturbi psichici insorti in correlazione con un ben 14 definito evento psico-traumatizzante vanno incontro a risoluzione nel tempo, in specie con un adeguato trattamento psicoterapeutico; per converso, quando un disturbo è persistente nel tempo, si tratterà verosimilmente di manifestazioni a genesi endogena" (Bargagna e coll. 1998, 19). Quanto, più specificamente, al mobbing e alle avversità lavorative "le conseguenze sulla salute che possono derivare da una condizione di mobbing dovrebbero essere comprese nell'insieme definito 'Reazioni ad Eventi'. Tali reazioni includono: - Disturbo dell'adattamento; - Disturbo acuto da stress; - Disturbo post-traumatico da stress" (Gilioli e coll. 2001, 66) Secondo il DSM: a) Il Disturbo dell'Adattamento "inizia entro 3 mesi dall'insor-genza di un fattore stressante, e non dura oltre 6 mesi dopo la cessazione del fattore stressante o delle sue conseguenze. Se il fattore stressante è un evento acuto (per es., licenziamento dal lavoro), l'insorgenza dell'anomalia è di solito immediata (o entro pochi giorni), e la durata è relativamente breve (per es., non più di pochi mesi" (DSM-IV-TR 2001, 725) b) Nel Disturbo traumatico da Stress Post- "… in circa la metà dei casi la remissione completa si verifica in 3 mesi, mentre molti altri hanno sintomi persistenti per 5. più di 12 mesi dopo il trauma" (DSM-IVTR 2001, 500) c) I sintomi del Disturbo Acuto da Stress "… vengono sperimentati durante o immediatamente dopo il trauma, durano almeno 2 giorni e si risolvono nelle 4 settimane successive alla conclusione dell'evento traumatico” (DSM-IV-TR 2001, 505) Esempio pratico. In una certificazione di malattia trasmessa all'INAIL dalla Clinica del Lavoro per Disturbo Post-Traumatico da Stress occupazionale, si specifica: "Evoluzione prevedibile della malattia: prognosi favorevole fino a completa guarigione, a condizione che vengano rimosse le cause professionali scatenanti e venga sottoposto ad adeguato trattamento". Ma si versa, qui, in tema di infortunistica del lavoro, dove il giudizio non è definitivo ed è suscettibile di revisioni. Si può così seguire l’evoluzione clinica. Diversa la situazione dell’accertamento in sede di responsabilità civile, dove la valutazione è una e definitiva. Forzatura in spregio alla fenomenologia naturale dei disturbi psichici. Effetti del mobbing sulla salute e cenni sui metodi valutativi Bibliografia: Buselli e coll. 2006 - Leymann 1990 e 1996 - Punzi 2007 - Brodsky 1976 - AA. VV. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali 2001 – Stracciari e coll. 2010 Gacono e Evans 2008 - Pope e coll. 2006. Le ripercussioni del mobbing sulla salute sono state osservate fin dai primi studi sul fenomeno (Leymann 1990 e 1996, 119-126 e 165-184). Le costellazioni di sintomi più comuni comprendono 15 disturbi dell’area emozionale, con sintomatologia ansiosa e/o depressiva. L’irritabilità, l’insofferenza, la variabilità dell’umore con prevalenza di umore depresso, la perdita di interesse per le attività ritenute significative, rappresentano un generale quadro depressivo che coinvolge anche la sfera sessuale. Preponderante è anche la presenza di astenia cronica: la costante attivazione psicofisica, in risposta alla protratta situazione stressante conduce all’esaurimento dell’energia. A tale attivazione spesso si associano disturbi del sonno che possono incrementare le condizioni di astenia cronica. Le alterazioni comportamentali e delle abitudini sono di contro scarsamente presenti, ad eccezione dell’irregolarità e dei disordini nell’alimentazione come ipo e/o iperfagia. Tutti questi sintomi sono tipici delle reazioni da stress, ciò che li caratterizza è che sono cronicizzati, come cronica è la situazione stressante. (Punzi 2007,267-283; Buselli e coll. 2006, 5-12). A queste si affiancano dolori cronici e, all’interno di un pattern depressivo, un senso di impotenza, un calo dell’autostima, ostilità nervosismo, ritiro sociale e vissuti persecutori (Brodsky 1976, 12 - 24 ). Giova precisare che la qualificazione “cronico” di un disturbo mentale, sta a significare che il disturbo dura per un periodo precisato, ovvero, oltre un certo periodo. Disturbo “cronico” non è sinonimo di danno “permanente”, inteso come danno che dura a vita. Dal punto di vista diagnostico la diagnosi di Disturbo dell’Adattamento è la più utilizzata per i casi di patologia mobbingcorrelate (Punzi 2007, 267 - 283). In ambito internazionale è sempre più messa in discussione l’opportunità di utilizzare la diagnosi di Disturbo PostTraumatico da Stress che si usa spessi per la sintomatologia di frequente riscontro nei casi di mobbing, caratterizzata da iperattivazione, pensiero ricorrente e intrusivo sulle tematiche lavorative, con incubi notturni e meccanismi di evitamento. A riguardo delle etichette diagnostiche appena citate si rimanda al paragrafo terzo per il dettaglio “criteriologico” secondo il Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali IV Edizione, che peraltro è noto non debba essere “applicato meccanicisticamente”. Infatti, “i criteri diagnostici specifici inclusi nel DSM-IV sono intesi come linee guida da integrare con il giudizio clinico, e non devono essere utilizzati alla stregua di un libro di cucina. Ad esempio il giudizio clinico può giustificare una certa diagnosi per un individuo anche se la presentazione clinica non è tale da soddisfare completamente i criteri per la diagnosi” (DSM - IV - TR, 2001, p. 10) Appare evidente come nell’ambito di una valutazione di un danno psichico da mobbing - e di qualsiai altro danno psichico - non sia sufficiente effettuare una diagnosi secondo DSM, bensì sia fondamentale integrare la valutazione con altre fonti informative anche di natura psicopatologica e psicologica. In particolare gli strumenti più comunemente utilizzati per la raccolta delle informazioni necessarie alla descrizione del quadro sindromico includono: - Il colloquio. Momento centrale 16 della consulenza, consente di ricostruire l’evento, di raccogliere i sintomi, di tracciare la storia di vita, prima e dopo l’evento. Quanto all’evento: “rappresenta il punto di partenza logico e cronologico dal quale tutta la procedura valutativa prende le mosse. …Molti soggetti, forse la totalità, arrivano alla consulenza già convinti che tutti i loro malesseri dipendono da ciò che è loro accaduto, a volte anni prima. Il nostro compito [di CTU] consiste nel mettere in questione queste convinzioni, verificandone – alla luce delle conoscenze scientifiche disponibili – l’effettiva plausibilità” (Stracciari, Bianchi e Sartori 2010, p. 34) - L’ esame psichico, ossia registrazione analitica di segni e sintomi, che si riscontrano all’atto del colloquio. - l’eventuale approfondimento psicodiagnostico, ossia l’uso di test. E’, talvolta, utile complemento all’osservazione clinica, se vi sono aspetti da chiarire, ad esempio sulla struttura di personalità, o se c’è sospetto di simulazione o esagerazione. Gli strumenti psicodiagnostici più comunemente utilizzati sono due: il MMPI-2 e il test di Rorschach. Entrambi forniscono informazioni sia sulla struttura di personalità che sulle manifestazioni cliniche. Inoltre entrambi presentano la possibilità di valutare eventuali stili di risposta connessi a tentativi di simulazione o di esagerazione sempre possibili in ambito forense. (Gacono e Evans 2008, 33 - 53). L’aspetto di maggiore interesse, così come nell’utilizzo dei criteri del DSM, è che tale strumenti dovrebbero essere utilizzati non tanto per giungere ad una etichetta diagnostica, quanto per arricchire la valutazione clinica. A fianco di questi due strumenti eventualmente ne possono essere affiancati anche altri per la valutazioni di specifici aspetti di particolare interesse. 6. Danno psichico da mobbing e formule descrittive altre di danno non patrimoniale Legislazione: d. lgs n. 209/2005. Giurisprudenza: Cass. S.U. n. 26972/2008 - Cass. n.14402/2011 - Cass. civ. 06 aprile 2011, n.7884. Bibliografia: Ziviz P. 2003, Ceppi Ratti E., De Ambrogi F. 2009 e 2012. Ricordiamo che, secondo le c.d. sentenze di San Martino, il danno non patrimoniale deve essere inteso come “categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie tantè che il riferimento a determinati tipi di pregiudizio in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, …) risponde a mere esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. Da cui è compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione” (Cass. S.U. n. 26972/2008, § 4.8) In altri termini, all’interno dell’unitaria categoria giuridica del 17 danno non patrimoniale è possibile enucleare, secondo la Suprema Corte, varie formule circostanziate quali: - un profilo descrittivo biologico, ossia “figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo agli artt. 138 e 139 d. lgs n. 209/2005, recante il codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella ‘lesione temporanea o permanente dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico legale che esplica un incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato’” (Cass. S.U. n. 26972/2008, § 2.13) - un profilo descrittivo morale, ossia “pregiudizio costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. (Cass. S.U. n. 26972/2008, § 2.10)”; in ogni caso “deve ...trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio patrimoniale. Ricorre …dove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, …senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra infatti nel danno biologico” (Cass. S.U. n. 26972/2008, § 4.9) - un profilo esistenziale, descrittivo “consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare)”, qui “vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all’esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi un autonoma categoria di danno” (Cass. S.U. n. 26972/2008, § 3.4.2) In altri termini, per usare una più recente definizione della Suprema Corte il profilo descrittivo esistenziale consiste in un “pregiudizio del fare aredittuale del soggetto determinante una modifica peggiorativa della personalità da cui consegue uno sconvolgimento dell’esistenza, ed in particolare delle abitudini di vita, con alterazioni del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione .:.E’ uno sconvolgimento, continua la Suprema Corte, foriero di scelte di vita diverse, lo sconvolgimento dell’esistenza obiettivamente accertabile” (cfr. Cass. n.14402/2011) Per queste ragioni è stato ulteriormente posto in rilievo come ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale debba tenersi in considerazione la sofferenza o patema d’animo “non solo quando la stessa rimanga allo stadio interiore o intimo, ma anche allorquando si obiettivizzi degenerando in danno biologico o in pregiudizio prospettante profili di danno esistenziale”. (cfr. Cass. civ. n.7884/2011) In buona sostanza, come ben deducibile anche dalla presa contezza del paragrafo terzo, nella valutazione di un danno biologico di natura psichica rilevano unicamente le alterazioni al facere e i risvolti sofferenziali consequenziali lo stato di malattia reattivo all’azione lesiva e non gli stravolgimenti esistenziali e gli stati di afflizione reattivi al fatti di causa in se è per sé considerati. Dimensioni queste ultime che tuttavia potrebbero rientrare a pieno titolo nella descrizione di un danno non patrimoniale da mobbing. Si tratta nello specifico, anche nell’ipotesi di presenza di un danno biologico di natura psichica, di 18 dover spesso riconoscere alla vittima di mobbing un danno alla professionalità inteso come inibizione all’autorealizzazione lavorativa, profilo di danno “nominalisticamente” definito al paragrafo 4.5 della Sentenza delle Sezioni Unite n. 26972/08, dov’è inteso come l’insieme delle compromissioni dello svolgimento della vita professionale del lavoratore In altri termini, “bisogna, constatare, come il comportamento vessatorio sia suscettibile, in quanto tale di incidere, prima che sul piano emotivo del soggetto perseguitato, sul vivere quotidiano del lavoratore. Ad essere colpito in prima battuta, appare sempre e comunque lo svolgimento della sua personalità nell’ambiente professionale, che inevitabilmente risulta condizionato in senso negativo dalla persecuzione. Si tratta a ben vedere di una compromissione dell’attività lavorativa, che risulta negativamente incisa nella sua veste di strumento di realizzazione dell’individuo” (Ziviz P., 2003, p. 26) I mobbizzati, inoltre, tipicamente, al di là di possibili pregiudizi esistenziali o biologici soffrono prima di tutto perché sentono lesa la loro dignità morale di Persona, poichè il senso dell’ingiustizia, che fa da cornice a tutta la loro doglianza porta ad un acutizzarsi del turbamento e del sentimento di offesa morale. Non a caso al fenomeno del mobbing è stata riconosciuta anche l’etichetta di molestia morale. Per altro, come dettagliatamente riportato in altro scritto, cui si rimanda per il dettaglio, tra le diverse formule descrittive di danno non patrimoniale paiono tratteggiarsi interconnessioni empiriche tipiche che possono ben orientare gli operatori del diritto nell’istruzione della causa, senza cadere in ipotesi di over e/o under compensation. In buona sostanza da un analisi qualitativa della storia clinica di soggetti interessati da dinamiche di mobbing e/o di stress lavorocorrelato, si osservano le seguenti tendenze (Ceppi Ratti E., De Ambrogi F., in corso di stampa): - Quanto il soggetto soffre a causa del peggioramento del proprio stato occupazionale (c.d. danno esistenziale professionale nella sua componente “morale”) pare spesso direttamente proporzionale al puro deterioramento dello stesso (c.d. danno esistenziale professionale propriamente detto). - L’entità del soffrire susseguente lo stravolgimento in peius della propria attività lavorativa (c.d. danno esistenziale professionale nella sua componente “morale”) pare avere di sovente ricadute amplificatorie sull’intensità della sofferenza legata al sentirsi lesi come “Persona” (c.d. danno morale puro), mentre non paiono esserci relazioni di senso contrario. Il soffrire per sentirsi lesi nella propria dignità di Persona e/o il soffrire per la degenerazione della propria situazione lavorativa (c.d. danno morale puro e/o danno esistenziale professionale nella sua componente morale) paiono essere importanti concause nella slatentizzazione di un ulteriore danno biologico di natura psichica risarcibile, mantenendo al contempo una loro individualità. Quindi da una prospettiva prettamente tecnica i confini delimitanti le diverse componenti del danno non patrimoniale paiono 19 netti e al contempo sfumati dalle diverse interazioni tra sottocategorie, quasi a dare un fondamento empirico alla tanto criticata reductio ad unum operata dalle Sentenze di San Martino. Chiaramente, in fase istruttoria, un posto di rilevo assumerà la presunzione, badando, tuttavia, a non cadere nell’ipotesi, dal nostro Legislatore chiaramente ricusata, del danno in re ipsa. In merito, un possibile suggerimento valutativo per profili di danno non patrimoniale extra biologici in caso di mobbing è, ad esempio, il c.d. Metodo Ismec (Ceppi Ratti E., De Ambrogi F., 2009), il quale si presenta come modus operandi che si pone appunto rispondente all’onere del danneggiato che, nel suo ricorrere alla prova presuntiva, è chiamato ad allegare tutti gli elementi che nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto. Nello specifico, la logica sulla quale si fonda il metodo di misurazione succitato è assai semplice, ma non semplicistica. In pratica l’entità del pregiudizio professionale esistenziale, nella sua natura ordinaria, è desunto come proporzionale al c.d. “peso assoluto del mobbing”, oggettivabile attraverso l’ancoraggio a indicatori appunto “oggettivi” quali la durata (D), frequenza (F), multiformità (F) delle azioni mobbizzanti e dislivello di potere (M.C.) tra il mobbizzato e il suo mobber i quali dovranno, come ovvio, essere adeguatamente allegati e provati. Diversamente, il pregiudizio morale puro è visto come, maggiormente, secondario alla gravità dell’offesa e dunque, verosimilmente, più legato all’entità psicotraumatizzante dell’azione lesiva (c.d. coefficiente di rilevanza psicotraumatizzante dello status occupazionale lamentato) e non solo al peso assoluto della condizione lavorativa in sé considerata. INDICE BIBLIOGRAFICO AA. VV. 2001 Diagnostic and statistical manual of mental disorders (4th ed., text rev.). Washington, DC: Author, p. XX, 9, 10, 11, 15, 46, 725, 500, 505. 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