Welfare locale e risorse economiche. Continuare a costruire politiche di welfare nonostante la crisi ed i tagli alle finanze comunali Le teorie economiche concordano nell’affermare che i “paradigmi produttivi”, i modelli della produzione informano di sé, cioè danno forma alla organizzazione sociale di quel dato momento. Lo è stato per il modello produttivo della manifattura. Ma molti studi ne hanno dato conto rispetto al modello produttivo “fordista”. Schematicamente: il modello produttivo fordista, quello in cui noi siamo cresciuti e di cui ci siamo nutriti caratterizzato dalla grande fabbrica, ha dato forma di sé alla organizzazione della società per buona parte del ‘900. Pensiamo alla organizzazione delle città, all’urbanistica (grandi agglomerati di case come le grandi fabbriche). Pensiamo alla nostra cultura , all’organizzazione statuale (la democrazia parlamentare), alle politiche di welfare così come le abbiamo conosciute. Nel ‘900 c’è stata una alleanza tra economia e società. In questo senso basta guardare a due fattori: le banche: organizzate per favorire l’accesso al credito il welfare: organizzato per dare risposte lineari su tutto l’arco della vita (si diceva “servizi dalla culla alla bara”) Oggi siamo in una fase di grandi cambiamenti nuovo/i paradigmi produttivi non più la grande fabbrica ma globalizzazione sistemi a rete finanziarizzazione Tutto questo sta comportando forti cambiamenti nell’organizzazione della società, a tutti i livelli (vedi come è cambiato il linguaggio ad esempio). Siamo ancora in una fase di transizione ma si vedono già le trasformazioni in atto. Non è un caso che oggi il dibattito politico-economico affronti tematiche come: il ruolo dei singoli stati (dibattito sul superamento dello stato-nazione) l’organizzazione statuale in Italia (il federalismo) le modifiche da apportare al sistema di welfare il ruolo delle banche (non più produttrici di credito ma operatrici sostanzialmente in termini di finanziarizzazione per sé) Tutti questi cambiamenti hanno a che fare con: i flussi (quelli della globalizzazione delle reti) Ciò che possiamo cominciare ad osservare è che nel capitalismo della globalizzazione c’è una netta separazione tra economia e società (prima c’era invece una alleanza). Il luogo simbolo dello scontro tra capitale e lavoro non è più oggi la fabbrica, bensì il territorio. Il sociologo Aldo Bonomi afferma che “il territorio è lo scenario dove si determina la dinamica fra i flussi globali ed il portato delle culture locali”. E’dentro a questa nuova dinamica che vede la separazione degli interessi tra economia e società che dobbiamo ricollocare le azioni/trasformazioni che stanno avvenendo nell’organizzazione della nostra società a tutti i livelli. Oggi cominciamo ad intuirne alcuni passaggi. Dentro a questo scenario di cambiamento di prospettiva , bisogna cominciare a porsi alcune domande di senso. Nel “ pardigma fordista”, lo Stato Centrale (in un sistema di alleanze tra economia e società) ha organizzato il sistema di welfare diffuso, centralizzato, basato sui diritti dalla nascita alla morte (la Regione Lombardia con il PSSR del 1986 ha standardizzato tutti gli interventi ad es.) ha organizzato le forme democratiche della partecipazione (democrazia parlamentare, democrazia dei consigli di fabbrica, dei consigli di zona). Nel “paradigma Globalizzazione/flussi/luoghi” c’è una rottura/separazione dell’alleanza tra economia e società. In questo nuovo sistema c’è la messa in discussione del ruolo dello Stato, che non è più un ruolo cogente. E non è un caso che proprio in questo momento storico si parli di federalismo, nel momento in cui il territorio è “il luogo per eccellenza”. Ma questo passaggio non è neutro. Sta tutto dentro ad una crisi economica epocale. Dobbiamo cominciare a chiederci cosa dobbiamo fare perché questi processi/cambiamenti non si trasformino in una destrutturazione della risposta pubblica e del sistema delle garanzie sociali. Penso che il ragionamento sul “federalismo” vada ricollocato dentro questo processo di cambiamento (dal centro al luogo per eccellenza, cioè il territorio) ma cosa succederà se al sistema delle AALL verranno meno i 15-17 miliardi in meno previsti dai tagli delle manovre governative? Se vogliamo salvaguardare un sistema “locale” di risposte sociali pubbliche, se vogliamo che ci sia un sistema di garanzie e tutele diffuso, è necessaria una forte azione politico-amministrativa per il riconoscimento oggi dei LIVEAS LEPS perché solo a fronte dei diritti minimi garantiti per tutti ci possono poi essere welfare locali a misura di territorio. A questo si deve aggiungere una forte attenzione al tema dei “costi standard”. Penso che vada sviluppato un pensiero critico (e che vada anche governato) rispetto al processo di trasformazione in atto del ruolo dello Stato. Il welfare sta diventando materia di interesse dei privati (rottura dell’alleanza tra economia e società): da una parte il sistema delle assicurazioni, delle previdenze private, delle pensioni integrative dall’altra ci troviamo le istanze del privato sociale c’è poi il ruolo delle Fondazioni Bancarie Dobbiamo avere maggiore consapevolezza degli scenari che abbiamo davanti per poter fare delle scelte di senso: quali scenari di sussidiarietà? Quali scenari di diritto sociale? Il CNCA dice : “il welfare del 900 va rivisto, ma di quell’epoca vanno salvate la cultura professionale e le capacità di intervenire in maniera diffusa” Prima domanda di senso Diminuiscono le risorse mentre aumentano in maniera esponenziale i bisogni sociali In questa situazione possiamo ancora parlare di BISOGNO INDIVIDUALE? Nel “Paradigma Fordista” c’è stata una buona capacità di patrimonializzazione (molti sono riusciti a comprare la casa, ad investire i propri beni…). In questa situazione il “bisogno” è stato visto, sempre di più, come “ bisogno individuale”. Il ragionamento, anche politico e di politica sociale è stato: ci sono i servizi, ci si accede tramite una domanda, si paga in relazione alla propria capacità di spesa. Ma la povertà diffusa e le difficoltà generali ci permettono ancora di ragionare in questo modo? Oppure non è venuto il momento (tenuto conto di questo contesto) di rimettere al centro dell’attenzione delle nostre riflessioni la categoria del “bisogno collettivo”, riferito a quel determinato territorio? Ma questo ragionamento ci impone di mettere sotto critica l’impostazione del welfare “Lombardo” che è basato sui principi: della libertà di scelta dell’accesso ai servizi sulla base della capacità di spesa la liberalizzazione degli accreditamenti con la conseguente ipotesi di liberalizzare tutti gli interventi, prevedendone l’accesso attraverso i voucher (ciò succederà entro la fine dell’anno per le RSA). Dobbiamo semplicemente sapere che il sistema lombardo si sta spostando dal sistema dei servizi alla “DOMANDA” di servizi/prestazioni. Ma se non ci sarà più un sistema di servizi/prestazioni garantito per tutti, cosa faranno coloro, che pur liberi di scegliere, non avranno una sufficiente capacità di spesa per accedere alle prestazioni? E cosa succederà alla organizzazione territoriale con questo sistema basato solo sulla domanda? Di fatto viene compromesso il ruolo del Comune e dei Piani di Zona come soggetti amministrativi vicini ai propri cittadini. Ci sarà uno spostamento dei flussi di denaro dai Comuni alle ASL e dalle ASL agli utenti. Questo lo si vede già con la logica delle doti e dei vari buoni (famiglia, scuola, ecc). In questo senso possiamo intravedere una possibile disarticolazione del servizio pubblico e della capacità di governance dell’ente locale. Di fatto il sistema pubblico sarà sfiduciato: proviamo a pensare su quali basi gli operatori potranno fare programmazione e valutazione dei bisogni sociali. Ci sarà una disarticolazione del ruolo dei Comuni come entità territoriale vicina ai cittadini, che ne conosce e valuta i bisogni. E allora, di quale federalismo parliamo?, di quale welfare locale? Va sottolineato che questa tendenza c’è in Lombardia. Da un confronto effettuato con referenti delle regioni Toscana ed Emilia emerge che il sistema dei servizi alla persona hanno una organizzazione che mantiene la governance in capo ai Comuni e ai piani di zona. Una seconda domanda di senso: se prendiamo in considerazione gli espulsi dal mondo del lavoro il 30% dei giovani disoccupati le famiglie in difficoltà gli anziani non autosufficienti (dal punto di vista psico-fisico, ma anche economico) possiamo ancora, nel lavoro sociale, richiamarci per queste categorie di fragilità sociale alla “responsabilità individuale” (cosa che fa normalmente il servizio sociale)? Possono davvero questi soggetti farsi carico della gestione della propria vita in una condizione di deprivazione come quella in cui si trova oggi una platea sempre più vasta di persone? Una terza domanda di senso Le “marginalità sociali”. Nel welfare state (paradigma fordista) ci sono stati processi di deistituzionalizzazione. Si è lavorato per dare parola, visibilità a tanti soggetti fragili . Oggi il sistema sociale in mutamento sembra non solo non voler garantire loro protezione, ma soprattutto sembra non voler vederli più. Questo fenomeno, fino a qualche tempo fa prerogativa delle grandi città, sta cominciando ad avere una certa dimensione anche nei comuni di media dimensione. E non si tratta più dei soli stranieri. I nostri dati (Bilancio Sociale) ci dimostrano che sono più gli italiani che hanno usufruito dell’Asilo Notturno, delle mense delle Caritas ecc. Ma questo cosa significa? Semplicemente che potremmo andare incontro ad un problema di democrazia. Il non vedere i soggetti fragili (che sono in aumento) significa escludere una platea vasta di persone dalla presa di decisioni, dalla costruzione della società. E allora dobbiamo domandarci verso quale modello di società, complessivamente, ci stiamo dirigendo. COSA FARE Le domande di senso riferite alla situazione attuale mettono in evidenza la necessità di rimettere al centro dell’attenzione politica le questioni del welfare locale. In una fase di così forti difficoltà economiche, di scenari sociali nuovi, si rende necessario prendere in considerazione la possibilità di riprogettare i servizi, rinegoziare i rapporti (istituzionali e con il terzo settore), effettuare le valutazioni di impatto delle risposte sociali messe in campo. Nel Lodigiano stiamo operando in questo modo: con fatica, incontrando difficoltà sul piano politico, abbiamo unificato tutto il lodigiano di cui fanno parte 62 comuni (unico Piano di Zona per i tre distretti socio-sanitari; unico ente gestore per i servizi alla persona – Azienda Consortile) istituito nel 2009 e nel 2010 il “Fondo Provinciale Anticrisi” (Comune di Lodi, Provincia, Fondazione BPL, alcuni piccoli comuni, alcuni privati, CCIA) che ha distribuito complessivamente a coloro che sono rimasti disoccupati senza ammortizzatori sociali, un contributo di 200/400 € per 9 mesi a 548 persone/famiglie (più di 1 milione di €) abbiamo osservato l’esplosione della spesa degli “ad personam” . Con l’UPS locale, la UONPIA, le associazioni per la disabilità, come PdZ stiamo ragionando attorno ad una riorganizzazione di questo istituto per calmierare i costi (senza togliere il servizio ai bambini). Lo studio ed il confronto apre i margini per alcune negoziazioni importanti abbiamo fatto uno studio in due zone del lodigiano (una a nord e una a sud) per cercare di mettere in rete i servizi trasporti dei vari Comuni. Su questo abbiamo incontrato molte resistenze da parte del volontariato locale, ma è sempre più evidente che non sarà possibile sostenere i costi dei servizi trasporti sociali organizzati su singoli comuni (tutti hanno pulmini/macchine e tutti vanno negli stessi luoghi di cura, ecc) lavoriamo con il terzo settore e la cooperazione sociale “per problemi”. Quindi da anni non facciamo più i bandi, ma su quel singolo problema chiediamo al terzo settore/cooperative di dire cosa possono mettere/fare loro per risolvere il problema e sulla base delle possibilità che emergono si dà loro l’incarico (quindi non si fa un progetto ideale, ma lo si costruisce sulla base delle capacità, idee, potenzialità che vengono espresse dai soggetti territoriali) come comune di Lodi, da 4 anni, redigiamo un Bilancio Sociale insieme ad una quarantina di interlocutori del settore pubblico e del privato sociale. Il Bilancio Sociale viene utilizzato per la discussione politica (in giunta, in commissione consiliare, in un momento pubblico cittadino) e per la discussione, per settori di lavoro, con gli interlocutori stessi. Sempre di più è diventato elemento di trasparenza e partecipazione, oltre che strumento per valutare e programmare Per finire pongo un problema a mio avviso importante: la formazione degli operatori, sia del settore pubblico che di quello del privato sociale. Ritengo che la formazione, anche quella per le figure specialistiche, risenta ancora del paradigma fordista. A mio avviso c’è la necessità di ripensarla e rivederla sulla base dei nuovi scenari. Inoltre ci devono essere occasioni di formazione comune del personale degli enti pubblici con quelli del terzo settore. Il quadro di riferimento degli attori sociali è profondamente cambiato e necessariamente anche le capacità operative delle diverse figure professionali sociali devono trovarsi in sintonia (ed in alleanza) se si vogliono produrre impatti efficaci. Silvana Cesani Assessore Politiche Sociali Comune d Lodi