Perché Schmitt? (ed. it) Articolo apparso in francese in Le débat”, 2004, 131, pp. 138-146; La discussione ora aperta nella rivista Cités mi ricorda la discussione italiana della prima metà degli anni Ottanta sull’utilità o sulla necessità del confronto teorico con il pensiero schmittiano. L’occasione che ha dato luogo all’estendersi della discussione pubblica fu un convegno su Schmitt da cui è stata ricavata una pubblicazione dal titolo significativo, “La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt”, che in una sua lettera Schmitt ha definito una “echte Diskussion” del suo pensiero 1. Allora fece scandalo l’organizzazione di un tale convegno e il fatto che esso raccogliesse in una comune discussione su un personaggio noto per il suo coinvolgimento nelle vicende della Germania nazista una serie di intellettuali e di studiosi considerati di “sinistra”. Il fatto che tale convegno non fosse legato a particolari occasioni o ricorrenze, come spesso avviene nel mondo accademico, ma, costituisse piuttosto per l’organizzatore, così come per la quasi totalità degli studiosi intervenuti, un momento di discussione e riflessione importante, non solo sul giurista tedesco, ma anche su un tratto del proprio percorso teorico, mostra la rilevanza attribuita a quello che io chiamerei un attraversamento del pensiero schmittiano. La meraviglia indispettita che allora ha suscitato (ribadita anche da una intervista di Habermas apparsa in una rivista italiana) e che rieccheggia in talune prese di posizione anche oggi 2 è assai spesso frutto di un atteggiamento che è bene esemplificato da un volume di Ilse Staff, che vide la luce un decennio dopo, dedicato alla recezione di Schmitt in Italia3. Qui l’analisi del dibattito italiano si accompagna al tentativo di dare una risposta al perché proprio nella sinistra si sia diffuso questo interesse per il giurista tedesco; e tale risposta è rintracciata nella individuazione di un presunto scopo pratico e di una finalità politica a cui la valorizzazione del pensiero del discusso giurista tedesco sarebbe funzionale. Ora non è negabile che l'incontro con il pensiero schmittiano sia anche stato sollecitato dal tentativo – in alcuni casi legato ad un impegno pratico-politico - di acquisire armi per la comprensione della realtà politica al di là dello stordimento ingenerato dalle utopie e dalle ideologie e dall'inganno prospettico prodotto dallo scambiare la politica reale con ciò che si vorrebbe essa fosse. Qualcuno ha anche forse avuto la pretesa di meglio capire come agire nell'ambito della politica. Tuttavia il lavoro della Staff ha il risultato di fare, attraverso le interpretazioni di Schmitt, lo spaccato di un dibattito culturale-politico, ma ben poca luce porta sul senso che l’attraversamento del pensiero schmittiano viene ad assumere o meno per la comprensione di rilevanti questioni nell’ambito delle tematiche politiche e del pensiero politico. Un tale atteggiamento, che è del resto diffuso nel senso comune, si basa sulla convinzione della linearità del rapporto teoria-prassi, secondo cui la prassi sarebbe non solo sorretta, ma dedotta 1 Cfr. G. Duso (ed.) La politica oltre lo stato: Carl Schmitt, Arsenale, Venezia 1980. La lettera a cui alludo mi fu inviata con il timbro postale del 4/8/1981, in seguito al ricevimento del volume in questione: tale lettera presenta diversi motivi di interesse, tra cui la dichiarazione delle ragioni della sua opposizione alla mia proposta di traduzione di un volumetto che io intendo come un classico: “Römischer Katholizismus und politische Form”, poi tradotto da Carlo Galli, e la sua intenzione di scrivere una Teologia politica III. Le considerazioni qui avanzate e i rimandi alle ricerche successive sui temi della decisione, della teologia politica e della rappresentanza indicano come la prospettiva del rapporto con il pensiero schmittiano si sia maturata e sia anche in parte mutata in relazione a quanto risulta dal volume collettaneo qui ricordato. 2 Da allora si sono moltiplicati i lavori e il pensiero di Schmitt è diventato, come un classico del pensiero contemporaneo, oggetto di un lavoro scientifico, al di là dei dibattiti e delle mode culturali (ricordo tra i tanti il monumentale lavoro di Galli e quello di Nicoletti in Italia e quelli di Kervégan e Beaud in Francia). Ciò è avvenuto anche in Germania (è da ricordare la riedizione della importante monografia di Hofmann, che risale al 1964 ed è giunta già alla terza edizione), a differenza di quello che succedeva negli anni Settanta e Ottanta, a causa di una autocensura ben comprensibile se si tengono presenti le vicende storiche di questo paese. 3 Cfr. I.Staff, Staatsdenken im Italien des 20. Jahrhunderts - Ein Beitrag zur Carl Schmitt - Rezeption, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden 1991. 1 dalla teoria, e il pensiero è inteso come immediatamente funzionale all’azione o, ancora più precisamente, come copertura ideologica di un intento pratico. Questo presupposto è utilizzato sia per interpretare e giudicare il pensiero di Carl Schmitt, sia per decifrare la dimensione culturale di coloro che su tale pensiero hanno esercitato una riflessione, ritenendola un importante passaggio del proprio lavoro teorico. Nel contesto di un tale approccio la comprensione che Schmitt ha del politico e delle categorie giuridiche è identificata con una presa di posizione funzionale alle sue scelte e alla consonanza di queste ultime, almeno per un certo periodo, con il nazionalsocialismo: questa sua condotta diventa il punto di partenza per confrontarsi con il suo pensiero, o meglio per evitare il confronto, mediante un pre-giudizio. Un tal modo di intendere il rapporto del pensiero con la prassi è condizionato da un insieme di presupposti che sono tipici della concezione moderna della politica e dell’uso comune dei concetti. Non è questa l’occasione per tentare di chiarire e di criticare tali presupposti: si può tuttavia ricordare che questa riduzione – in cui è totalmente disconosciuta la dimensione del “filosofico” - del ruolo del pensiero a ideologia nei confronti di una certa prassi, si preclude a-priori la possibilità di un’analisi critica del pensiero che viene giudicato, non riuscendo perciò a intervenire nel merito specifico dei suoi contenuti. La stessa prestazione dell’interprete è in questo caso segno della debolezza di una posizione che è totalmente dipendente da scelte presupposte e che dunque, in quanto tali, restano esse stesse fuori dell’esercizio concreto del pensiero, a cui è invece connaturata la dimensione del “dar ragione”. Non si intende certo con queste considerazioni sostenere un totale distacco tra il pensiero e la prassi, ma piuttosto l’impossibilità di ridurre il pensiero di un autore, non solo alle sue azioni e al suo comportamento politico, ma neanche alla sua proposta politica e nemmeno al modo in cui egli interpreta il significato politico del suo stesso pensiero. L’ambito dell’agire, assieme a quello della proposta politica, implica una serie di coordinate, quali la capacità di comprensione del proprio tempo, della società e degli uomini con cui si vive, il senso del rischio dell’azione, le virtù necessarie all’agire bene, le capacità di governo delle situazioni: tutte cose che non sono certo deducibili dalla logica del pensiero. Alla luce di ciò mi pare una pseudo-questione quella spesso avanzata nelle interpretazioni del pensiero di Schmitt: se cioè l'incontro con il nazionalsocialismo sia stato per lui inevitabile, dato il suo modo di intendere il politico, o se sia stato fortuito e del tutto indipendente dal suo pensiero. Rifiutare la prima alternativa, non significa scegliere la seconda, perché ambedue dipendono da una scorretta impostazione della questione, che, o identifica immediatamente le due dimensioni dalle quali mai possiamo uscire, quella del pensiero e quella dell'agire, o le separa del tutto. Certo le scelte pratico-politiche sono in qualche modo orientate dal modo di pensare lo spazio politico e i concetti che lo connotano e ciò avviene anche per Schmitt; ma la questione è che tali scelte non sono semplici deduzioni dalla teoria, e che dunque non è possibile valutare sulla loro base il livello di comprensione della natura del politico e della forma dello Stato che si trovano nelle sue opere. L’analisi critica del liberalismo e dei concetti fondamentali delle costituzioni democratiche contemporanee è certo presente ed implicata nelle opzioni politiche di Schmitt, ma queste non sono la logica conseguenza di quella critica, e il giudizio negativo su di esse nulla dice sull’esistenza o meno di contraddizioni e aporie all’interno di quei concetti. Se ci si chiede in che cosa consista la forza del pensiero schmittiano e a che cosa serva il suo attraversamento sono costretto a ripensare a cose dette in un dibattito parigino che risale ad un decennio fa, organizzato nella sede dell’Istituto italiano di cultura e riguardante l’“attualità di Schmitt”. Rispondere a questa domanda, “se Schmitt sia o no attuale”, può coincidere con il tentativo di spiegare “perché abbiamo attraversato Schmitt” e perché siamo irrimediabilmente “al di là di Schmitt”. Naturalmente ciò non ha niente a che fare con l’essere o meno schmittiani: perché il problema non è qui quello di schierarsi politicamente, ma piuttosto quello di comprendere. Il lavoro filosofico-politico non è determinato dalle scelte, con cui si prende parte – dimensione per altro 2 questa da cui mai si può astrarre, come da quella del pensiero - ma da ciò che emerge con una sua forza nel comune esercizio del pensiero e nel dialogo. Prima di rispondere alla domanda sull’attualità di Schmitt, mi sembra utile ricordare, in quanto emblematici, due atteggiamenti presentatisi nel dibattito italiano degli anni Ottanta. Come si è sopra detto, la ripresa in ambienti della sinistra del pensiero schmittiano è stata in parte dovuta al fatto che in esso si è ravvisata una concezione realistica della politica, al di là della funzione legittimante propria spesso delle teorie politiche e di concezioni ideologiche che deformerebbero il nostro rapporto con la realtà. Un tale realismo reagirebbe innanzitutto nei confronti di un pensiero liberale o democratico (tralascio qui il problema della divergenza radicale di questi due termini in Schmitt e le motivazioni del loro intreccio nel dibattito contemporaneo), in cui la dimensione formale e legittimante delle procedure nasconderebbe la realtà dei processi e la conflittualità degli interessi che si affermano realmente attraverso e nonostante esse. Al di là di ciò che i concetti che stanno alla base delle costituzioni democratiche esplicitamente dicono, si presentano una serie di elementi non consaputi, o addirittura contraddittorii. Per ricordarne solo alcuni: il dominio che si esercita con e attraverso la funzione pubblica; il surplus che è proprio dell'esercizio del potere, nonostante il riconoscimento comune dell’uguaglianza; la contraddizione tra l’importanza attribuita ai cittadini che dovrebbero esprimere la loro volontà con il voto e la reale esclusione di essi dall’esercizio del potere e dalla determinazione della volontà pubblica; l’afasia della dimensione formale della costituzione e dei suoi principi fondamentali in relazione alle modalità effettive delle decisioni e alla loro dislocazione nei confronti dei luoghi ad esse istituzionalmente deputati; infine lo scarto esistente tra il significato e gli effetti reali delle azioni politiche e il piano formale e pubblico delle motivazioni. Sarebbe in tal modo la conflittualità tra i soggetti politici ad essere nascosta dietro la facciata di una razionalità formale e di un interesse comune. Gli esempi qui ricordati, di aspetti della realtà politica non compresi dalla concettualità formale dello Stato moderno e delle costituzioni, aprono una via all’attenzione nei confronti della riflessione schmittiana, specialmente quale si espone nella Dottrina della costituzione. Tuttavia, utilizzare il riferimento a Schmitt come esemplare di un atteggiamento realista, come spesso si è fatto in modo grossolano anche dibattito più immediatamente politico e giornalistico, mi sembra andare incontro a diversi inconvenienti, che riguardano sia il significato della realtà politica presente, sia il modo di pensare la politica, sia la comprensione dello stesso pensiero del giurista tedesco, quale ci è stato consegnato dall'insieme delle sue opere. Quest’ultimo viene infatti appiattito nella dimensione della forza, del conflitto e della decisione interpretata come qualcosa di arbitrario e di fattuale. In tal modo si intende ben poco del pensiero schmittiano, del significato che ha il diritto, del senso teoretico della secolarizzazine, del vero ruolo della decisione e del suo rapporto con la natura della rappresentazione. In ogni caso la riduzione del pensiero schmittiano a realismo politico fa di esso e, in quanto lo si assume, del proprio rapporto con la realtà, una Weltanschauung, una visione del mondo cioè legata a scelte soggettive, a una concezione presupposta, a un pre-giudizio che non ha certo i caratteri della oggettività e della verità che pretende. Una via in parte diversa e che forse può anche avere influenzato tali atteggiamenti, è stata quella di chi ha innalzato il realismo schmittiano ad arma scientifica, come cioè teoria delle costanti e delle regolarità della politica, all'interno delle quali il rapporto amico-nemico costituisce un punto centrale. Mi riferisco a Miglio, che ha introdotto con Schiera in Italia le opere di Schmitt attraverso la pubblicazione del Le categorie del politico4. Il pensiero schmittiano è in questo caso attraversato nella direzione della definizione di una nuova scienza politica su base realistica. La prestazione intellettuale di Miglio ha una sua rilevanza e ha svolto un ruolo notevole nella cultura italiana, per 4 C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P Schiera, Il Mulino, Bologna 1972. Per l’itinerario culturale di Miglio si veda la raccolta dal titolo significativo Le regolarità della politica, Giuffré, Milano 1988. 3 quanto riguarda l’analisi dei concetti politici e delle strutture costituzionali ed è certamente irriducibile a questa proposta di scienza della politica, che è solo accennata negli ultimi scritti. Quest’ultima suscita perplessità, innanzitutto per quanto riguarda il tentativo teoretico di intendere scientificamente lo spazio della pratica, che mi appare ben più problematico e irriducibile a "leggi scientifiche". Ma soprattutto perché non penso che Schmitt - e qui entriamo nel tema specifico del senso del suo pensiero - abbia colto ciò che è originario nel comportamento politico dell'uomo. Il rapporto amico-nemico, più che l’essenza originaria del politico, mi pare colga piuttosto il necessario presupposto della concezione giuridica e formale del politico, cioè dell’ordine che è proprio della forma politica moderna e della dottrina dello Stato: non dunque l’origine del politico, ma il presupposto, spesso non cosciente né tematizzato, della moderna concezione della politica. *** Questa ultima considerazione mi permette di avanzare, per quello che mi concerne, un altro modo di intendere l'importanza e la portata epocale del pensiero di Schmitt: ciò che ha reso per me necessario il suo attraversamento è l’utilità che questo itinerario offre – più forse di ogni altro nella direzione della comprensione della logica, del funzionamento e delle aporie dei concetti della forma politica moderna. Tale coscienza critica si rivolge anche contro il pensiero politico schmittiano e ne costituisce il superamento, ma viene acquisita seguendo quella radicalizzazione della forma politica che Schmitt è stato in grado di operare. Non si può negare che nel suo itinerario intellettuale vi sia anche una proposta teorica e politica, intrecciata, come si è detto, con la riflessione sui concetti; ma non è questo l'aspetto rilevante, quello che ancora è da pensare. Ciò che è da pensare non è la sua proposta, bensì la capacità da lui mostrata di intendere nella sua logica e nella sua crisi quell’insieme concettuale che ha segnato l'epoca dello jus publicum europaeum. E' questa l'epoca moderna, in cui la politica viene ad assumere, in rapporto ad una millenaria tradizione, un significato nuovo, in cui nasce un nuovo modo, che si pretende “scientifico” e oggettivo, di pensare la società, che ha al suo centro il concetto di potere o di sovranità. e in cui la nuova scienza del diritto naturale soppianta l'antica disciplina della politica - che ancora nel primo Seicento si configura, secondo un'impostazione aristotelica, non come dottrina del potere, ma come arte o scienza pratica diretta al vivere bene dell’uomo e della comunità, e ha perciò attenzione al problema centrale della virtù politica della prudenza (phronesis). Negli anni Venti e Trenta del Novecento, proprio quando la storia degli Stati sovrani comincia ormai a volgere irrimediabilmente al termine, si ha uno dei più importanti momenti di comprensione di questa costellazione concettuale moderna. Per intendere la costruzione teorica della forma politica moderna, non si tratta di assumere un’interpretazione o un’altra o di privilegiare alcuni autori invece di altri, ma di comprendere quali siano i concetti che si calano nel modo comune di intendere la politica e che costituiscono i principi basilari delle moderne costituzioni. E’ significativo che Schmitt si sia sempre dichiarato giurista, dal momento che la sua riflessione filosofica e politica ha come tema la forma politica moderna, cioè il politico inteso secondo la forma giuridica. Ma la rilevanza del suo pensiero consiste nel fatto che egli non si pone semplicemente all’interno del modo giuridico di pensare il politico, ma compie un atto radicale di pensiero mediante l’interrogazione di questa forma, la domanda sulle modalità effettive della sua produzione, il tentativo di esplicitarne i presupposti, l’evidenziazione di ciò che avviene nel concreto funzionamento di essa, al di là e attraverso le sue procedure formali e i principi che le motivano e le legittimano. Non è questo il luogo per articolare un discorso in proposito5. Si può solo sinteticamente ricordare che, se la rilevanza del pensiero schmittiano consiste nella sua capacità di comprendere e 5 Rimando, a questo scopo ai due saggi sulla rappresentanza e sulla teologia politica contenuti nel mio La rappresentanza: un problema di filosofia politica, Angeli, Milano 1988, e, per chiarire più sinteticamente il senso della 4 dar ragione dei concetti della forma politica moderna, ciò avviene in quanto riflette radicalmente su tale forma e sulla sua logica, e in quanto ne intende il cuore, costituito dal nesso tra il concetto di sovranità e quello di rappresentanza. Penso che il contributo schmittiano sia decisivo per intendere e ricostruire, anche nella sua genesi hobbesiana, il concetto moderno di rappresentanza politica, la sua logica, la sua funzione, che non è riducibile ad una semplice modalità tra altre di esercizio del potere, ma che trova la sua necessità nel compito di dare voce e azione ad un soggetto collettivo che sia inteso - e tale è quello moderno, statale, e lo stesso popolo quale grandezza ideale a cui lo Stato si riferisce - come costituito dalla indifferenziata molteplicità degli individui. La rappresentanza appare in tal modo essere l’indispensabile elemento formante della forma politica, l’elemento cioè che conferisce forma a ciò che altrimenti non ne ha, mancando dei lineamenti e dei contorni che configurano una realtà determinata. Attraverso le opere schmittiane, a cominciare da quelle dei primi due decenni del secolo, ci si può avvicinare a meglio comprendere la natura del concetto di rappresentanza e la sua logica, che in realtà è ben diversa da quanto spesso si ritiene. Se si volessero ricordare schematicamente solo alcuni elementi di tale concetto che confliggono con quanto può apparire nell’immaginario comune, ma forse anche nella funzione legittimante che il concetto svolge nelle costituzioni, si potrebbe innanzitutto ricordare che la rappresentazione è possibile in relazione a ciò che non è empiricamente presente: solo in quanto non presente qualcosa può essere rap-presentato. La cosa può apparire sconvolgente se viene relazionata a ciò che nello stato è da rappresentare, cioè il popolo e la sua volontà. Ciò che chiamiamo popolo, un soggetto cioè unitario e singolare, appare avere una dimensione ideale, non empiricamente presente, e una volontà non esprimibile, per quanto sopra si è detto, a prescindere da forme rappresentative. Inoltre nella rappresentanza moderna non si ha una trasmissione di volontà, ma una forma di autorizzazione, come è evidente nella matrice hobbesiana che segna irrimediabilmente la rappresentanza moderna, quella stessa rappresentanza che, a partire dalla Rivoluzione francese, abbandonato ogni riferimento alle differenze di ceto, ordine e associazione, si presenta come il modo per dare espressione all’unità politica, all’unica volontà del popolo o della nazione. In quanto processo di autorizzazione le procedure rappresentative formano bensì il potere dal basso, ma tale costituzione dal basso è l’altra faccia della determinazione della volontà dall’alto. Solo accennando a ciò ben si comprende come il concetto di rappresentanza politica venga problematizzato: proprio il concetto in cui consiste la legittimità dell’esercizio del potere e che dovrebbe mostrare la vicinanza del cittadino a quest’ultimo e le modalità di partecipazione alla cosa pubblica, in realtà è segno della separazione tra la volontà individuale e quella collettiva. Il segreto di tutto ciò sta nel fatto che la rappresentanza moderna è inscindibilmente legata all’unità politica, è cioè non rappresentanza di parti in una concezione plurale del corpo politico, ma rappresentanza dell’unica volontà del corpo collettivo che si fa legge. Tale essenza della rappresentanza permane nella forma della costituzione, al di là di ogni tentativo di dare voce al pluralismo. Se ci si chiede perché la riflessione schmittiana sulla rappresentanza sia apparsa più rilevante di quella di giuristi a lui coevi più democratici e pluralisti, la risposta non va forse cercata nei presunti intenti politici di chi su Schmitt ha riflettuto6, ma piuttosto nella comprensione dello stretto legame che la logica della rappresentanza moderna ha con il tema dell’unità politica. E tutto ciò non in quanto si voglia condividere la nostalgia schmittiana per il tema dell’unità e per la sostanzialità che segna a volte il suo concetto di popolo, ma, al contrario, proprio per mettere in crisi tale concezione dell’unità connaturata alla concettualità politica moderna. Se si comprendere il rapporto costitutivo che la prestazione schmittiana nella direzione della comprensione dei concetti politici moderni, a Teologia politica e logica dei concetti politici moderni, in La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 1999, pp.137-160 6 Significativo a questo proposito il titolo di una delle parti del libro della Staff: "Die italienischen Kommunisten auf dem Weg von historischen Kompromiß zum Eurokommunismus und die «Krise des Marxismus»", pp. 210 e ss. 5 rappresentanza moderna ha con l’elemento dell’unità politica, allora il compito, che può sembrarci invece oggi imprescindibile, di pensare veramente il pluralismo, appare ben più difficile di quanto si sia soliti ritenere. A questo scopo bisogna riuscire a superare questo concetto di rappresentanza, che condiziona la dottrina dello Stato e della costituzione. Con questa considerazione già si può intendere come l’attraversamento del pensiero schmittiano possa costituire la via del suo superamento, un superamento che comporta una più avveduta e forte dimensione di pensiero di chi opera aggiustamenti all’interno di questa concettualità, inconsapevole della logica che in essa opera. In tal modo si può anche rispondere alla domanda sulla attualità di Schmitt. Egli è attuale come lo sono i fondamentali concetti politici moderni…che in realtà da tempo si trovano in una crisi epocale, oltre che in una crisi logica. Anche se spesso ancora usati, essi sono tuttavia incapaci di farci intendere la realtà in cui viviamo e inefficaci nella funzione – che ne ha segnato la nascita - di legittimazione dell’obbligazione politica. Schmitt ci aiuta a scoprire la logica e le aporie sedimentate nella moderna teoria dello Stato: resta tuttavia legato nostalgicamente a tale forma. Otto Brunner ha inteso il concetto schmittiano di politico come il punto finale di una dottrina dello Stato7: ciò è da condividere. Infatti è ben vero che attraverso il concetto di politico Schmitt va alle radici del concetto di Stato, ma in tal modo non attinge, come molti pensano, un’essenza originaria del politico, ma, come si è detto, solo il presupposto della forma politica moderna. Allora condizionata dalla forma-stato rimane tutta la sua riflessione teorica, anche quella che mette in luce gli elementi esistenziali e i movimenti reali – non giuridici – che quella forma implica. I processi che abbiamo di fronte, da quelli spesso in modo troppo abbreviato e uniformante indicati con il termine di globalizzazione, a quelli della frantumazione e della regionalizzazione delle sovranità nazionali, a quelli dell’unificazione europea, non appaiono più coglibili (nel senso forte del termine Begreifen, adoperato da Hegel) mediante il contesto concettuale proprio della sovranità moderna. Su questo molti si possono ora trovare d’accordo. Ma l’accordo è più difficile da realizzare quando si porta l’attenzione sulla consapevolezza che una serie di elementi concettuali che spesso sono contrapposti al concetto di sovranità e di potere, quali quelli del ruolo fondamentale dei singoli individui e dei loro diritti e la funzione politica dell’uguaglianza e della libertà, in realtà hanno costituito la base teorica del concetto di sovranità. Se così fosse, allora il superamento del concetto di sovranità comporterebbe anche il superamento di quell’insieme di concetti che ad esso sono congiunti e che lo fondano, tenendo presente l’ammonimento schmittiano di non voler intendere le realtà nuove mediante concetti vecchi. Io credo che, paradossalmente, per intendere il nuovo bisogna avere uno sguardo che ha un orizzonte più vasto di quello dell’epoca moderna, e dunque che sa anche tornare a pensare anche tutto ciò che è spesso liquidato con il termine di premoderno, perché tale liquidazione rimane a-criticamente all’interno dei presupposti moderni. Per la comprendere la nostra realtà e per pensare i nodi problematici che ci stanno di fronte, quali quelli del pluralismo dei soggetti, del senso politico delle differenze e delle minoranze, della coesistenza e comunicazione di religioni e culture diverse, della cittadinanza come partecipazione, del necessario rapporto con l’altro che caratterizza un orizzonte di globalizzazione, per tutto ciò il lavoro teorico schmittiano non ci offre armi adatte, ma tuttavia ci aiuta, anche contro se stesso, a pensare in modo nuovo la politica, affrancandoci dagli schemi, che rischiano di diventare paraocchi, dei concetti politici moderni. 7 Cfr. la Premessa alla seconda edizione di Der Begriff der Politischen, ora Duncker & Humblot, Berlin 1991 3, p.14. Questo rimando è significativo per il contesto della presente riflessione e di un lavoro critico sui concetti in cui l’attraversamento di Schmitt è stato incrociato con quello della Begriffsgeschichte tedesca: il saggio sulla rilevanza di Schmitt in relazione ai concetti politici moderni (cfr. nota 5) è infatti all’interno di un testo che ha come sottotitolo “Storia concettuale come filosofia politica”. 6 7