INDICE Cap. 1: LA METACOGNIZIONE pag. 2 1.1 - INTRODUZIONE 1.2 – PRINCIPALI MODELLI METACOGNITIVI Cap. 2: LA MOTIVAZIONE pag. 7 2.1 – DIVERSI TIPI DI MOTIVAZIONE 2.2 - STILI DI MOTIVAZIONE E STILI DI DEMOTIVAZIONE Cap. 3: DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO pag. 17 3.1- DEFINIZIONE 3.2- DSA E I DISTURBI LEGATI ALLA METACOGNIZIONE 3.3- LA TEORIA ATTRIBUTIVA 3.4- STILI DI ATTRIBUZIONE NEI DSA 3.5- CONCLUSIONI RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI pag. 24 1 CAPITOLO 1 LA METACOGNIZIONE 1.1 INTRODUZIONE Per “metacognizione” si intende “l’insieme dell’attività psichica che presiede al funzionamento cognitivo”, o ancora una dimensione mentale “che va al di là” della cognizione. L’approccio metacognitivo nasce nella psicologia cognitiva agli inizi degli anni ’70, anche se è proprio negli ultimi 20 anni che la ricerca sulla MC ha catturato un interesse crescente soprattutto per il carattere diagnostico e riabilitativo che implica. Lo studio della MC si può far risalire principalmente a tre correnti teoriche: 1) nell’epistemologia genetica di Piaget; 2) nella teoria di Vygotskij, in particolar modo quando si affronta il concetto di zona di sviluppo prossimale; 3) nello Human Information Processi (HIP) della psicologia cognitiva. 1) La teoria MC prende spunto dalla teoria stadiale di Piaget, in quanto già il concetto di sviluppo stadiale presuppone una maturazione cognitiva che va da uno stadio all’altro. 2) Nella teoria di Vygotskij il concetto di sviluppo prossimale implica il fatto che il soggetto, se aiutato, può potenzialmente andare al di là, cioè progredire ad una conoscenza maggiore rispetto ad una di partenza. 3) Lo HIP influisce sulla teoria MC mediante i processi di controllo, cioè meccanismi di autoregolazione grazie ai quali il soggetto effettua un monitoraggio metacognitivo ed è in grado di valutare l’adeguatezza o meno della strategia messa in atto per un determinato compito. 1.2 PRINCIPALI MODELLI METACOGNITIVI Di seguito verranno illustrate le principali TEORIE METACOGNITIVE che si sono succedute nel tempo e che hanno portato contributi interessanti e fecondi per lo sviluppo di interventi rivolti al recupero e al sostegno di soggetti con difficoltà di apprendimento o deficit più gravi. 1) MODELLO DI FLAVELL Flavell per primo, nel 1971, ha formulato un abbozzo di modellizzazione della MC. Egli la definì come “l’insieme delle conoscenze circa i processi cognitivi”. 2 Dieci anni dopo, negli anni ‘80, la teoria venne ampliata e organizzata in tre componenti relative agli atti mentali: - LE CONOSCENZE - LE ESPERIENZE - L’UTILIZZO DI STRATEGIE - Le conoscenze MC si riferiscono al soggetto, al compito, alle strategie. Inoltre possono essere DICHIARATIVE (“sono a conoscenza del fatto che esistono varie strategie”), oppure PROCEDURALI (“so come applicare una certa strategia”). - Le esperienze sono idee, pensieri, sensazioni legate all’attività cognitiva e possono essere presenti prima – durante – dopo il determinato compito che si effettua. - Le strategie si possono modificare in rapporto agli obiettivi ed alla tipologia del compito, e per poterle utilizzare con flessibilità e competenza si presuppone si debbano conoscere prima. 2) MODELLO DI BROWN E COLL. Brown e coll. hanno costruito nel corso degli anni ’80, un modello MC relativo alla comprensione dei testi (lettura), scindendo le componenti relative alla CONSAPEVOLEZZA e al CONTROLLO. La consapevolezza al suo interno ha 3 componenti: 1- CONOSCENZE RELATIVE AL TESTO; riguardano cioè le informazioni sul grado di difficoltà del brano da leggere e sulle caratteristiche costitutive del testo (aspetto grammaticale, sintattico, semantico); 2- CONOSCENZE RELATIVE AL COMPITO; si è a conoscenza del fatto che è possibile leggere per scopi diversi tra loro; 3- CONOSCENZE RELATIVE AL SOGGETTO; inteso come “lettore” consapevole delle proprie abilità e strategie cognitive. Fra i processi di controllo abbiamo: - la predizione del livello di prestazione; - la progettazione della strategia - il monitoraggio nell’attività cognitiva; - la valutazione dell’adeguatezza della strategia utilizzata. 3 3) MODELLO DI PARIS E COLL. Il modello di Paris approfondisce le componenti di controllo introdotte da Brown introducendo due componenti al loro interno: 1) Autovalutazione della conoscenza,cioè la capacità del soggetto di valutare le proprie conoscenze riguardo ad un compito dato. Paris introduce il concetto di “conoscenza condizionale”, intesa come la capacità del soggetto di capire quando mettere in atto determinate strategie per la risoluzione di un compito e le cause della loro efficacia. 2) Autogestione, a sua volta composta da: - valutazione del soggetto delle peculiarità del compito e delle abilità che lo influenzano; - pianificazione, cioè la scelta della strategia migliore per risolvere il compito; - regolazione durante la realizzazione del compito. 4) MODELLO DI BORKOWSKI E COLL. Introduzione Gli anni ’80 si rivelano fecondi per lo sviluppo di varie teorie metacognitive. Ad integrazione dei modelli già esistenti, si introducono nuovi concetti legati agli stati personali e motivazionali, interagenti con gli stati cognitivi. I nuovi concetti di studio sono: LOCUS OF CONTROL “luogo” psicologico inteso dal soggetto come la fonte dei propri successi/insuccessi: STILE DI ATTRIBUZIONE atteggiamenti e convinzioni del soggetto riguardo alle strategie, alla loro utilità nel processo di apprendimento ed all’impegno e sforzo attivo di apprenderle e metterle in pratica in modo generalizzato. SENSO DI AUTOEFFICACIA riguarda la sensazione del soggetto di essere in grado di poter riuscire in un determinato compito. AUTOSTIMA percezioni, sentimenti ed opinioni che tutti abbiamo riguardo a noi stessi. MOTIVAZIONE è una componente dinamica che dà l’input al soggetto a compiere le proprie azioni: è la spinta verso l’apprendimento e l’uso delle diverse strategie. Borkowski e Muthukrishna, hanno sviluppato un particolare modello, secondo il quale a seconda 4 del compito da affrontare, deve essere utilizzata la strategia migliore possibile. In tal modo la riuscita nel medesimo provocherà nel soggetto un feed-back positivo che si dirigerà verso gli stati motivazionali, verso il senso di autoefficacia ed il piacere di apprendere. Ciò farà si che la motivazione positiva e il senso di autoefficacia alimentino l’utilizzazione di strategie. L’obiettivo quindi di tale modello è arrivare a possedere una più profonda consapevolezza strategica, in modo tale da portare il soggetto a dirigere i propri processi cognitivi verso la realizzazione dei compiti proposti. Qui di seguito verrà trattato il modello di Janes applicato alla didattica metacognitiva: MODELLO DI JANES Secondo Janes l’insegnante che opera a livello metacognitivo, interviene su 4 livelli: 1) conoscenze sul funzionamento cognitivo generale, 2) autoconsapevolezza del proprio funzionamento cognitivo, 3) uso generalizzato di strategie di autoregolazione cognitiva, 4) variabili psicologiche “sottostanti”. 1) L’insegnante per prima cosa fornisce all’alunno una “teoria della mente”, per renderlo consapevole dei propri processi cognitivi, delle proprie capacità e limitazioni che condizionano le prestazioni in un compito e le varie strategie che possono essere utilizzate per la riuscita in un compito; 2) fondamentali i concetti di autoanalisi, introspezione e autoconsapevolezza. Si analizza la dimensione interna dell’alunno, la capacità dello stesso di valutare le proprie capacità cognitive e i propri punti deboli. A tal riguardo è fondamentale il ruolo che ha l’insegnante di fornire a ciascuno dei propri alunni un feedback sociale. Lo studente infatti, qualunque livello di prestazione raggiunga, deve sentirsi incoraggiato come persona e fiducioso nelle proprie capacità. Inoltre l’insegnante dovrà fornire un resoconto obiettivo della prestazione di ciascun alunno, al fine di poter rimediare agli errori eventualmente commessi oppure in caso di riuscita, poter raggiungere di nuovo il successo nei compiti che seguiranno; 3) a questo livello lo studente è nelle capacità di gestire consapevolmente se stesso e poter sfruttare le strategie apprese nella riuscita dei compiti. Fisserà quindi l’obiettivo da raggiungere, dandosi delle istruzioni, adoperando accorgimenti necessari al compito, raccogliendo i risultati ottenuti e 5 rendendoli disponibili per una successiva valutazione: creerà cioè il proprio “Portfolio”; 4) a questo livello vengono prese in considerazione le variabili psicologiche sottostanti alla prestazione, poiché dipende da tali fattori il buon andamento del compito: a) Locus of control: i soggetti con locus of control distorto, attribuendo la responsabilità di insuccesso a cause esterne, assumono un atteggiamento negativo e di passività. L’obiettivo della didattica metacognitiva è quello proprio di re-instaurare il locus of control corretto. b) Stile di attribuzione: attraverso l’aiuto dei “training” si possono modificare gli stili di attribuzione negativi; c) Senso di autoefficacia: è essenziale programmare una didattica “basata sul successo”, per fornire all’alunno il senso di autoefficacia. d) Autostima: a volte il senso di autostima può venire intaccato a causa di suggerimenti sbagliati da parte dell’insegnante. E’ importante valutare bene ogni situazione e scegliere suggerimenti adeguati a seconda della persona. e) Motivazione: motivazione intrinseca (cioè proveniente dal soggetto stesso, con l’autopercezione delle proprie possibilità e capacità in un compito), e motivazione estrinseca, proveniente dall’esterno cioè dall’insegnante attraverso lodi, incoraggiamenti etc., fondamentali per la riuscita dell’alunno; tali motivazioni dovrebbero essere compresenti in una didattica metacognitiva. In conclusione si dovrebbe operare a tutti e quattro i livelli, ma date le loro interconnessioni e la circolarità delle loro dimensioni, pur operando ad un solo livello si possono ottenere risultati anche negli altri tre. 6 CAPITOLO 2 LA MOTIVAZIONE 2.1 DIVERSI TIPI DI MOTIVAZIONE La motivazione è la componente dinamica che accompagna ogni comportamento umano. I desideri, le avversioni, le emozioni, gli scopi, le intenzioni, possono essere considerati tutti fattori motivazionali, poiché spingono l’individuo ad agire in un determinato modo conforme a ciò che questo sente o prova in un preciso momento. La motivazione in relazione all’apprendimento, può essere definita come una disposizione cognitiva e affettiva di un soggetto verso il compito propostogli. Ma non è solo questa che spinge il soggetto ad agire; è importante avere chiari gli obiettivi e le modalità attraverso le quali raggiungere lo scopo prefissato. Esistono due tipi di motivazione: - motivazione estrinseca: le spinte motivazionali provengono dall’esterno dell’individuo; - motivazione intrinseca: le spinte motivazionali provengono dall’interno dell’individuo e lo guidano verso determinati comportamenti e azioni. All’interno della motivazione intrinseca troviamo diversi costrutti quali la curiosità epistemica, la motivazione di “effectance”, l’autodeterminazione, l’esperienza di flusso e l’interesse, che tratteremo qui di seguito: CURIOSITA’ EPISTEMICA La curiosità epistemica è un concetto che trae origine dalle teorie che spiegano la motivazione quale risposta ai vari bisogni dell’essere umano. I bisogni possono essere semplici, quali quelli fisiologici ed anche più complessi e legati ad aspetti socioculturali, quali l’essere stimati e approvati. Berlyne nel 1960 dà una definizione di “curiosità epistemica”, come un bisogno universale di conoscere ed apprendere che già si manifesta nei bambini piccoli. Il bambino infatti, ricerca attivamente le informazioni attraverso l’esplorazione dell’ambiente, spinto dal bisogno innato di conoscere e di ottenere informazioni. Berlyne inoltre attribuisce un ruolo fondamentale all’ambiente e alle caratteristiche degli stimoli che sono presenti nell’ambiente stesso. 7 Tali caratteristiche vengono definite da Berlyne, come proprietà “collative” dello stimolo e sono: gli elementi di novità, complessità, incongruenza rispetto alle aspettative del soggetto che si muove ad apprendere. Proprio gli aspetti di incongruenza e quelli di novità motivano il soggetto a conoscere. E’ importante considerare l’intensità della stimolazione, o la discrepanza dell’informazione; infatti solo stimoli di livello medio ottengono l’effetto di motivare il soggetto poiché se il livello dello stimolo è troppo alto, il soggetto incontrerà ansia e paura di fallire, mentre se il livello dello stimolo è troppo basso, il soggetto non si sentirà motivato ad apprendere. Stipek definisce tale situazione come “sorpresa ottimale”. Bruner propone una tecnica denominata “apprendimento per scoperta”, applicandola al campo dell’apprendimento. Partendo dal presupposto che il bisogno di esplorare e conoscere è innato negli esseri umani e quindi già presente nei bambini, proprio a questi si dà la libertà di esplorare e conoscere ambienti nuovi, lasciando che le informazioni da loro acquisite risultino apprese in modo del tutto naturale e non quindi imposte dall’esterno. MOTIVAZIONE DI “EFFECTANCE” Con il termine “effectance” ci si riferisce al bisogno di padroneggiare e controllare l’ambiente da parte dell’individuo, affinché questo si senta competente e capace di affrontare le situazioni. La Harter sviluppa una propria teoria che poggia sulla motivazione di “effectance”. Secondo tale teoria, il bambino se sostenuto dall’adulto nei suoi tentativi di padronanza sull’ambiente, ottiene rinforzi positivi che interiorizzerà e farà propri, permettendogli di sviluppare un sistema di autoricompensa. Al contrario se il bambino non viene sostenuto dall’adulto, ma anzi scoraggiato o disapprovato, questo si sentirà meno competente e più controllato dall’esterno e la motivazione di “effectance” diminuirà notevolmente. Inoltre di fronte a compiti nuovi, il bambino non si sentirà adeguato ad affrontarli, generando in lui ansia e paura di fallire. Tutto ciò lo porterà ad evitare i compiti e di conseguenza il bambino non svilupperà le proprie capacità creando una situazione di non – apprendimento. TEORIA DELL’AUTODETERMINAZIONE La teoria dell’autodeterminazione è proposta da Deci e Ryan, i quali affermano che l’autodeterminazione consiste nella libera scelta. Secondo tale teoria, il comportamento 8 autodeterminato è attivato dalla curiosità, spontaneità ed interesse e l’impegno dedicato al compito prescindendo dagli incentivi esterni o i risultati che si andranno ad ottenere. In questo modo il soggetto affronterà il compito solamente per le caratteristiche costitutive dello stesso. ESPERIENZA DI FLUSSO Csikszentmihalvi ha studiato l’esperienza di profondo coinvolgimento nella situazione e intensa concentrazione in un compito, definendola “esperienza di flusso” o “motivazione flow”. In questo tipo di esperienza infatti, il soggetto è motivato alla riuscita del compito non tanto per i possibili risultati, piuttosto per il piacere che prova nello svolgere il compito stesso. L’esperienza di flusso porta al soggetto un feedback immediato sulla riuscita delle proprie azioni, elevata concentrazione ed anche un’alterata percezione del tempo. Affinché si realizzi l’esperienza di flusso, il compito dovrà essere percepito dal soggetto come adeguato alle proprie abilità. Infatti se il compito è troppo facile o troppo difficile rispetto alle proprie abilità, il soggetto presenterà demotivazione e sarà inibito alla realizzazione del compito stesso. Esistono individui che vengono coinvolti in tale tipo di esperienza ed altri che per la paura del fallimento evitano compiti impegnativi, non riuscendo a provare la motivazione flow. INTERESSE Nel corso degli anni varie teorie si sono occupate del concetto di “interesse”. Agli inizi del ‘900 l’interesse era considerato la più importante motivazione all’apprendimento. Altre teorie considerano un comportamento determinato dall’interesse quando questo tende al soddisfacimento dei propri bisogni. Le teorie centrate sugli aspetti ambientali invece, considerano l’interesse come caratteristica di attività e oggetti piacevoli o stimolanti. Teorie contestualiste infine, riconducono all’interazione tra individuo e ambiente l’emergere dell’interesse. Krapp, Hidi e Renninger sostengono che il soggetto svilupperà interesse, tramite la ripetuta applicazione in una determinata attività e per le particolari caratteristiche costitutive della stessa. L’interesse tende a rimanere stabile nel tempo, di conseguenza correla con l’apprendimento più di altri tipi di motivazione. 9 Altre caratteristiche quali la novità, la chiarezza, il valore di immagine e il collegamento con elementi autobiografici in un determinato compito, incrementano l’interesse poiché costituiscono elementi di motivazione per il soggetto. I vari tipi di motivazione sopra descritti, sono relativi all’apprendimento; di seguito verranno considerate le teorie di Lewin e Atkinson relative alla motivazione alla riuscita. LA TEORIA DI LEWIN Lewin definisce la motivazione come “energia” che scaturisce da un conflitto e viene liberata nel momento in cui il conflitto si risolve. Tale energia crea degli obiettivi che necessariamente devono essere raggiunti per evitare il sovraccarico della medesima. Gli obiettivi da raggiungere possono essere di due tipi: bisogni autentici (bisogni veri e propri), quasi bisogni (quelli che si rifanno al completamento dell’obiettivo). Lewin inoltre distingue tre diversi tipi di conflitti: appetitivi: la persona deve scegliere tra due situazioni entrambe appetibili allo stesso modo; avversivi: la persona deve scegliere tra due situazioni che hanno entrambe lo stesso livello di valenza negativa e che quindi non attraggono; appetitivi-avversivi: la persona deve scegliere una situazione che presenta aspetti ambivalenti, cioè positivi e negativi insieme. Mentre gli aspetti positivi in un compito creano motivazione nel soggetto e danno luogo a dei gradienti di avvicinamento, invece gli aspetti negativi tendono a demotivare il soggetto, creando dunque gradienti di allontanamento. LA TEORIA DI ATKINSON Atkinson afferma che la motivazione alla riuscita è un aspetto innato, pertanto può essere osservato già nei bambini quando si cimentano a fare delle cose in cui non sono ancora capaci. La motivazione alla riuscita dipende da due aspetti tra di loro opposti e conflittuali: tendenza al successo: il soggetto tende a scegliere compiti di media difficoltà, per il raggiungimento dell’obiettivo. L’atteggiamento verso il compito è dunque di fiducia nella riuscita e provoca l’attivazione di strategie di soluzione e un senso di autoefficacia. Le emozioni che accompagnano tale tendenza sono dunque la soddisfazione, l’orgoglio e le possibilità di successo sono percepite come alte. 10 Tendenza ad evitare il fallimento:il soggetto tende ad affrontare compiti molto facili, per cui il successo è assicurato, oppure compiti molto difficili, in modo tale che la non riuscita è attribuita alla sfortuna, alla difficoltà del compito, alla mancanza di aiuto. L’emozione che viene elicitata dal soggetto è il sentimento di non riuscita, di mancanza di abilità. Atkinson propone un modello denominato “delle scelte a rischio”, per spiegare le modalità di scelta di una persona che decide se affrontare o meno un determinato compito. Se il soggetto ritiene il compito troppo facile, il suo grado di motivazione sarà basso e di conseguenza sarà meno motivato a realizzarlo, se il compito è troppo difficile il soggetto sarà sempre poco motivato per la possibilità di insuccesso, se invece il compito contiene difficoltà medio-alta, allora il soggetto sarà molto motivato e lo porterà a termine. 2.2 - STILI DI MOTIVAZIONE E STILI DI DEMOTIVAZIONE Esistono numerosi stili di motivazione con altrettante funzioni diverse. Alcuni hanno funzione di protezione dell’autostima e dell’immagine di sé, altri possono riguardare la percezione di controllo e di responsabilità dei propri risultati, altri ancora sono la risposta di bisogni innati o pressione esterne. In questo paragrafo ci occuperemo degli stili motivazionali riferiti all’apprendimento, tenendo conto del fatto che, questi stessi stili motivazionali possono essere a seconda di alcune caratteristiche più o meno funzionali all’apprendimento. La prima caratteristica presa in considerazione è il tipo di impegno: esiste infatti un impegno strategico caratterizzato dalla ricerca di strategie adeguate alla risoluzione del compito, ed un impegno non strategico che punta solamente sulla quantità di tempo spesa sul compito, ma non permette di concentrarsi sulle strategie atte a risolverlo. Un’altra caratteristica riguarda la contrapposizione fra impegno reale e impegno dimostrato: il soggetto dichiara di essersi impegnato poco in un compito quando in realtà non è cosi; in questo modo in caso di insuccesso la sua immagine pubblica verrà preservata in quanto la non riuscita sarà attribuita al suo scarso impegno, ma il senso di autoefficacia e di fiducia in sé verrà intaccato. Tale stile è considerato demotivante, poiché può portare il soggetto ad evitare di impegnarsi nel compito, esonerandolo dalle proprie responsabilità. 11 La terza caratteristica dell’impegno riguarda l’impegno come stato o come tratto: entrambi i tipi sono funzionali all’apprendimento, ma l’impegno come stato è il più motivante in quanto fa riferimento all’impegno applicato a seconda del compito, instaurando nel soggetto piacere e soddisfazione maggiori nell’esecuzione, mentre l’impegno come tratto riflette più il desiderio di riuscita in ogni caso a prescindere dal compito o dalle situazioni, stando a significare che il soggetto è in continua sfida con se stesso. Si può parlare di circolarità di relazione tra stili motivazionali e strategie di apprendimento. Infatti buone motivazioni sostengono l’impegno e portano a buoni risultati, i quali a loro volta sostengono la motivazione e promuovono l’acquisizione di strategie efficaci per la soluzione dei compiti. Viceversa qualora le motivazioni non siano presenti o siano inadeguate, portano a difficoltà strategiche e alla non riuscita nel compito, con la conclusione che possono influenzare negativamente la motivazione ad apprendere. I principali stili di motivazione sono di tre tipi: 1) il primo stile fa riferimento alle caratteristiche di autoregolazione: il soggetto autoregolato sviluppa uno stile che risulta essere altamente adattivo all’apprendimento: infatti questi si impegna nel compito, adottando strategie diverse a seconda delle situazioni e mantenendo un giusto livello di motivazione; ciò gli consente di avere un alto grado di autoefficacia e locus interno. Caratteristiche della riuscita nel compito sono l’impegno e la persistenza assunti. 2) Il secondo stile si riferisce al concetto di volontà: il soggetto che adotta questo tipo di stile possiede la capacità di far uso di strategie volitive, cioè quelle determinate strategie che consentono di mantenere o addirittura incrementare il livello di motivazione in un compito. Infatti ad un iniziale entusiasmo, spesso fa seguito un calo stesso della motivazione dovuto al protrarsi del tempo nello svolgimento del compito. A questo punto il soggetto mette in atto diverse strategie volitive che possono consistere in: adozione di obiettivi da raggiungere per gradi, cambiare tipo di strategia, essere in grado di utilizzare in modo flessibile le motivazioni di tipo intrinseco o estrinseco. Anche la metacognizione, cioè la capacità di ragionare sulle proprie strategie e le proprie capacità, aiuta il soggetto a mantenere la motivazione e a sostenere la volontà nel perseguimento del compito. 3) Il terzo stile si riferisce ad una classificazione di diversi stili proposta nel 1998 da Eronen, Nurmi e Salamela-Aro. 12 Gli studiosi operarono una classificazione sia per stili motivazionali che per stili demotivazionali. Essi infatti diedero importanza anche agli stili di demotivazione, ritenendo che fosse importante il capire il perché si formano e si mantengono anche se non sono funzionali all’apprendimento. I quattro stili di motivazione individuati dagli autori sono: a) Stile ottimistico: altamente adattivo all’apprendimento in quanto nel soggetto prevalgono sentimenti ottimistici su quelli pessimistici. Inoltre sono presenti buone capacità di organizzazione ed il soggetto si concentra sulle strategie da adottare, piuttosto che sui risultati che ritiene di poter ottenere, o sui giudizi che possono derivare dalla prestazione ottenuta. b) Stile difensivo-pessimistico: il soggetto presenta buone capacità di pianificazione, ma mantiene in sé emozioni negative o miste. Ciò lo porta ad avere aspettative di insuccesso e a temere il fallimento. E’ proprio la paura di non riuscita che genera nel soggetto la motivazione ad affrontare con volontà e tenacia, con strategia ed organizzazione le situazioni di apprendimento. c) Stile self-handicapping: è uno stile caratterizzato dalla poca pianificazione e concentrazione sul compito: ciò porta il soggetto ad avere emozioni negative e motivazioni e strategie poco efficaci per la realizzazione del compito. d) Stile impulsivo: anche questo tipo di stile non è funzionale all’apprendimento. Si differenzia dal precedente in quanto il soggetto può provare un buon entusiasmo iniziale, sostenuto da emozioni positive, ma poi si concentra poco e non si impegna alla realizzazione del compito a causa dell’assenza di spinte motivazionali e di strategie adeguate. Tale classificazione così esposta consente di distinguere due parametri di funzionalità: il successo e la soddisfazione. Mentre i primi due tipi di stile permettono di raggiungere alte probabilità di successo, si differenziano invece tra loro per il grado di soddisfazione: lo stile difensivo-pessimistico infatti, è accompagnato da ansia, timore e a volte insoddisfazione per i risultati raggiunti, mentre lo stile ottimistico si caratterizza per la soddisfazione dei risultati ottenuti, accompagnato da sentimenti positivi, quali la soddisfazione, l’orgoglio e in generale il senso di autoefficacia. Per il discorso della funzionalità si può affermare che lo stile ottimistico è funzionale nel mantenimento di un equilibrio emotivo positivo e di un adeguato senso di soddisfazione, mentre 13 lo stile difensivo-pessimistico consente buone prestazioni e stili di organizzazione funzionali; lo stile self handicapping aiuta a preservare l’immagine di competenza, infine lo stile impulsivo aiuta a sostenere l’inizio delle varie attività e l’entusiasmo nei compiti da realizzare. Ricapitolando possiamo affermare che mentre i primi due tipi di stili sono considerati stili di motivazione in quanto portano a risultati superiori di apprendimento, invece gli altri due tipi possono essere considerati stili di demotivazione poiché sono caratterizzati da poca strategia e da prestazioni che non sono adeguate al raggiungimento dello scopo. Verranno qui di seguito elencati i diversi stili di demotivazione sempre secondo la classificazione degli autori, tenendo però prima presente le varie caratteristiche che accompagnano detti stili: - la prima caratteristica è rappresentata dalla insufficiente o inadeguata adozione di strategie di apprendimento: mancando le strategie non si raggiungono i risultati sperati; dunque ciò può portare all’abbandono del compito o a considerare il compito noioso o poco interessante, non per le caratteristiche costitutive dello stesso, ma proprio perché il soggetto non è in grado di adottare strategie vincenti. - Una seconda caratteristica si riferisce alle convinzioni e attese negative: il soggetto presenta una bassa percezione delle proprie capacità e una marcata paura dell’insuccesso. - Troviamo infine una terza caratteristica che si riferisce ad aspetti legati all’ambiente. Un esempio è dato dalle relazioni insegnante-alunno o al clima scolastico. Di fronte al bambino che presenta difficoltà è naturale offrire aiuto anche se non richiesto. Ciò può provocare nel bambino sentimenti di inadeguatezza e convinzione di non essere competente. Tale situazione genera demotivazione e ritiro dall’impegno. Viceversa il bambino a sua volta può richiedere aiuto, generando quindi un circolo vizioso in cui l’aiuto offerto conferma le convinzioni del bambino di non essere capace. Inoltre occorre fare una distinzione tra demotivazione e assenza di motivazione. Mentre la prima fa riferimento a situazioni in cui almeno inizialmente è presente una qualche spinta o attrazione, accompagnate spesso anche da elementi conflittuali, l’assenza di motivazione invece fa riferimento a quelle situazioni in cui non sono presenti né attenzione, né impegno o ricerca di strategie per la realizzazione del compito. 1) Il primo stile di demotivazione è caratterizzato dalla noia e disinteresse: nelle situazioni di apprendimento tale stile a volte può essere presente. Il soggetto manifesta scarso interesse per il compito e appare poco motivato; in realtà questo suo atteggiamento negativo maschera la paura di 14 non riuscire nel compito, accompagnata dal timore di esporsi a critiche da parte dei genitori, degli insegnanti, o dei compagni stessi. Se tale stile persiste diventa poi stabile nel tempo, portando il soggetto a rifiutare le situazioni impegnative e a ricercare solo compiti molto facili. A ciò viene ad aggiungersi la mancanza di reali strategie di studio, che non vengono né cercate né attivate proprio in mancanza di compiti più complessi. Il perpetuarsi di tale situazione porta il soggetto a rinforzare l’immagine di sé negativa che consegue dunque a una situazione di demotivazione stabile ed al ritiro delle proprie energie e risorse. 2) Il secondo stile di demotivazione si caratterizza per manifestazioni e dichiarazioni di ansia in situazioni di apprendimento. L’ansia se eccessiva, è un elemento che ostacola il processo di apprendimento e incide negativamente sulla prestazione. Ciò può portare ad un circolo vizioso in quanto l’ansia porta a risultati negativi, i quali a loro volta innescano l’ansia che nuovamente causerà l’insuccesso in compiti successivi. 3) Il terzo stile di demotivazione è quello caratteristico del depresso: la depressione o la tendenza a sviluppare sintomi depressivi portano a sviluppare nel soggetto la percezione di non avere il controllo della situazione e di non avere le capacità necessarie alla riuscita nei compiti e che dunque i propri successi siano attribuiti all’esterno. Questi sentimenti conducono a disturbi dell’apprendimento e la percezione negativa di sé demotiva il soggetto ad apprendere. Atkison propone un’ulteriore classificazione degli stili motivazionali individuando quattro tipologie di individui che presentano stili di motivazione alla riuscita diversi: a) over-strivers: i soggetti che fanno parte di tale tipologia presentano al loro interno due tendenze contrapposte: alta tendenza al successo ed alta motivazione ad evitare il fallimento. Questi soggetti tendono ad impegnarsi molto e se da un lato cercano di ottenere il successo, dall’altro hanno paura di fallire. L’atteggiamento che dimostrano è difensivo in quanto non vogliono ammettere di avere dei limiti riguardo alle loro capacità. Di fronte ad un fallimento tendono ad attribuire le responsabilità a cause esterne, ma i sentimenti tipici che provano sono il senso di inadeguatezza e paura di non riuscire. Di solito gli over-strivers sono studenti brillanti e molto competitivi e la motivazione che li sostiene è data proprio dall’incontro delle due tendenze contrapposte; b) success-oriented: i soggetti che fanno parte di tale tipologia si trovano nella situazione motivazionale ottimale. Infatti la tendenza al successo sovrasta la paura di fallire. 15 L’individuo, spinto da una motivazione intrinseca, la curiosità, si impegna verso un miglioramento delle proprie capacità, ma non per dimostrare le proprie abilità. Inoltre presenta un atteggiamento rilassato, non è competitivo, han fiducia in se stesso ed il fallimento è considerato come un’esperienza da cui è possibile imparare nel processo di apprendimento; c) failure-avoiders: in questo caso è l’alta motivazione ad evitare il fallimento che sovrasta la tendenza al successo. I soggetti tendono dunque ad evitare situazioni in cui l’insuccesso è percepito come altamente probabile. Ciò non vuol dire che i soggetti di questa categoria non abbiano capacità o abilità adeguate, solo che non le mettono in atto proprio per la grande paura di non riuscire. La strategia difensiva che adoperano consiste nel ritiro dall’impegno oppure dimostrare disattenzione e noia, atteggiamenti negativi che gli permettono di salvaguardare la stima di sé di fronte agli insuccessi. Le emozioni che vengono elicitate sono di noia, ansia, paura, mentre vengono messe in atto strategie di protezione dell’autostima quali le strategie di self-handicapping di cui si è precedentemente parlato. d) Failure-acceptors: in questo caso la motivazione al successo e quella ad evitare il fallimento sono entrambe basse. I soggetti appaiono disinteressati, indifferenti, passivi e difficilmente stimolabili. Di fronte ad un insuccesso possono provare due differenti tipi di emozioni: rassegnazione, se il fallimento è attribuito all’incapacità, rabbia se il fallimento è attribuito a cause esterne come la mancanza di aiuto o la sfortuna. 16 CAPITOLO 3 DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO 3.1 DEFINIZIONE Con il termine “disturbo specifico dell’apprendimento” (DSA) corrisponde al termine inglese “Learning disabilities” (LD) utilizzato dai paesi anglosassoni, si fa riferimento a particolari situazioni in cui il soggetto presenta difficoltà di apprendimento in ambito scolastico, laddove le abilità intellettive adeguate all’età presentano un contrasto con il rendimento scolastico che risulta più basso dell’attesa. La specificità di tale disturbo è data proprio dalla discrepanza tra le prestazioni attese in base ai test intellettivi e quelle ottenute invece a livello scolastico. Il DSA è considerato un disturbo per definizione “specifico” e “settoriale”, in quanto contrasta con la diagnosi di una compromissione del pensiero e con un uso limitato e poco articolato delle competenze acquisite. Infatti i soggetti con DSA presentano disturbi funzionali generalmente di natura congenita che causano difficoltà nell’acquisizione e detenzione di alcuni processi cognitivi quali l’identificazione corretta di parole, numeri, oppure l’utilizzo di strategie adeguate all’apprendimento. Distinguere le cause che sottostanno a tale disturbo è molto complicato dal momento che sia fattori cognitivi che fattori emotivi possono concorrere a determinare tali difficoltà. Aiutare i soggetti che presentano disturbi specifici dell’apprendimento è un compito impegnativo ma non impossibile e la correzione della didattica è un punto di partenza per agire contro tali problematiche. 3.2 DSA E I DISTURBI LEGATI ALLA METACOGNIZIONE Per comprendere le caratteristiche legate ai disturbi dell’apprendimento, si è centrato lo studio sulle “capacità metacognitive” dei bambini con DSA. La metacognizione definita come “insieme dell’attività psichica che presiede al funzionamento psichico”, permette al bambino di riflettere e concentrarsi sulle proprie abilità e sul funzionamento della mente, consentendo altresì di avere un ruolo fondamentale nel funzionamento cognitivo del bambino che non presenta disturbi e in quello del bambino che ha difficoltà. 17 Sono stati eseguiti numerosi studi nel corso degli anni e i dati raccolti sono concordi nell’evidenziare nei DSA la presenza di un problema metacognitivo. Il deficit metacognitivo che è stato rilevato si riferisce all’uso delle strategie che nei DSA vengono messe in atto. Tale utilizzo non è qualitativamente diverso da quello dei bambini che non hanno problemi, il problema piuttosto è quantitativo. Infatti i bambini con DSA hanno difficoltà ad utilizzare più input cognitivi che avvengono simultaneamente, persistono nella scelta di una strategia che si rivela inefficace, oppure la abbandonano (anche quando ne hanno intuito una più efficace). Secondo Borkowski per aiutare i soggetti con ritardi mentali e quelli con DSA oltre all’insegnamento di una strategia adeguata dovrebbe associarsi un training metacognitivo ed uno attribuzionale. Dalle evidenze empiriche infatti si è notato che i soggetti con DSA raggiungevano punteggi più bassi dei loro coetanei con medesimo QI in prove sulla memoria, lettura, matematica e sulla riflessione su loro stessi. Si è osservato come i deficit cognitivi non erano legati ad una singola area, ma estesi anche ad altre aree. Da qui si è dunque ipotizzato che concorrono a tali disturbi numerosi fattori di ordine sociale e individuale (fattori cognitivi, in particolar modo linguistici e fattori emotivi). E’ pertanto necessario elaborare dei training per sviluppare la “sensibilità metacognitiva”, cioè un “atteggiamento metacognitivo” che aiuti il bambino a riflettere sulla natura della propria attività cognitiva in modo da poterla utilizzare in seguito; tale atteggiamento infatti, può aiutare il bambino anche quando questo non possiede le conoscenze metacognitive specifiche ed adeguate al tipo di problema proposto. Cornoldi nel 1995 ha posto l’attenzione sul ruolo di interazione tra conoscenza metacognitiva e processi metacognitivi di controllo. La conoscenza metacognitiva è la riflessione sulle proprie capacità cognitive, mentre i processi metacognitivi guidano il funzionamento cognitivo e sono in stretto rapporto con le “strategie” che il soggetto sceglie in base alle peculiarità del compito. Lo studioso attribuisce inoltre grande importanza alla capacità di “autoregolarsi”, cioè la possibilità da parte dell’individuo di essere flessibile e pertanto di modificare il proprio comportamento a seconda delle situazioni, tenendo sempre presente l’obiettivo primario della risoluzione del compito. 18 3.3 LA TEORIA ATTRIBUTIVA Le attribuzioni possono essere considerate come le percezioni che gli individui hanno riguardo alle cause degli eventi che accadono a se stessi (autoattribuzione) e agli altri (eteroattribuzione). Il processo attributivo nasce dal bisogno intrinseco dell’uomo di dare una spiegazione a tutti i fenomeni che interessano il mondo circostante nonché gli altri individui. Il bisogno di comprendere il mondo e le sue regole è stato individuato per la prima volta da Michette; in seguito Heider ha indagato gli effetti delle autoattribuzioni e delle eteroattribuzioni in relazione ai successi e ai fallimenti, concludendo che il successo attribuito a se stessi piuttosto che attribuito a cause esterne porta maggiore gratificazione, mentre l’insuccesso in un compito tende ad essere attribuito a cause esterne. Jones e Nisbett nel 1972 hanno definito come “errore fondamentale di attribuizione” o “bias edonico”, quel fenomeno secondo il quale in caso di successo attribuiamo a noi stessi la responsabilità ed in caso di insuccesso attribuiamo la responsabilità a cause esterne mentre succede il contrario per le eteroattribuzioni. Tale fenomeno è stato chiamato anche “bias edonico”, laddove “bias” si riferisce ad un errore di ragionamento, mirato alla protezione di sé (edonico). Ciò costituisce un sistema naturale di difesa messo in atto dall’uomo per proteggere la propria autostima. Una spiegazione di tale comportamento può essere data dal fatto che in realtà non possediamo le informazioni sufficienti atte a spiegare il perché si verificano determinati eventi, soprattutto quando dobbiamo giudicare gli altri. Per ovviare a questo errore di valutazione, Regan e Totten nel 1975, hanno introdotto il concetto di “empatia”, che può annullare o ridurre tale tendenza; al contrario condizionamenti culturali o stereotipi mentali possono ampliare il bias edonico. Il modello Anova di Kelley classifica le attribuzioni che il soggetto fa secondo tre parametri distinti: 1 – consenso: il soggetto tiene conto del fatto che anche altri si comportano così, o interpretano nella stessa maniera il comportamento dell’altro; 2 – consistenza: il soggetto tiene conto della situazione in cui avviene un determinato comportamento; 3 – specificità: il soggetto tiene conto del fatto se lo stesso comportamento è assunto anche per altre situazioni. Le attribuzioni vengono quindi fatte in base a questi tre parametri o sono le risultanti delle 19 interazioni fra di essi. Weiner e collaboratori hanno invece proposto una prospettiva più completa che esamina attentamente le attribuzioni interne. Le attribuzioni possono infatti essere distinte secondo tre dimensioni principali: a) locus of control : si può distinguere tra cause interne ed esterne alla persona secondo la prospettiva originaria di Heider; b) stabilità: tale dimensione introdotta da Weiner e colleghi tiene conto delle cause, indipendentemente dal locus, che possono presentare stabilità nel tempo e nelle diverse situazioni oppure possono essere instabili a seconda del contesto; c) controllabilità: alcune cause possono essere controllate dal soggetto, altre meno. E’ proprio dall’incrocio delle tre dimensioni che si ottengono otto tipologie di attribuzioni. Fra le attribuzioni alcune risultano più frequenti quali l’impegno, la fortuna, l’abilità ecc., altre risultano più funzionali all’apprendimento: impegno e abilità, altre ancora fungono da meccanismi di difesa per il soggetto (mancanza di abilità, aiuto). Abramson, Seligman e Teasdale nel 1978 hanno ulteriormente allargato lo studio sulle attribuzioni. Essi hanno distinto le attribuzioni in globali e specifiche. Mentre le prime si riferiscono alla generalità di possibili situazioni, le seconde si riferiscono alla specificità delle situazione. Possiamo trovare delle differenze tra la teoria di Atkinson e quella di Weiner. Atkinson infatti interpreta la motivazione al successo come forma di emozione anticipata di orgoglio. Dunque analizza la sua teoria in termini emotivi. Weiner invece interpreta la teoria attributiva in termini cognitivi: il soggetto è spinto o meno ad impegnarsi in base alle riflessioni che lo stesso fa circa la riuscita o meno del compito. L’emozione che ne scaturisce è dunque conseguenza e non causa della spinta motivazionale. Gli individui che tendono al successo generalmente attribuiscono all’impegno e alle loro capacità la riuscita in un determinato compito, così come attribuiscono il fallimento a cause esterne oppure all’impegno non profuso in modo adeguato; gli individui che invece sono orientati ad evitare il fallimento, attribuiscono il successo a fattori esterni e non controllabili quali la fortuna, l’aiuto o anche la mancanza di abilità. La prevalenza dell’una o dell’altra motivazione possono dipendere secondo la teoria attributiva proprio dalle attribuzioni che il soggetto fa circa i precedenti successi e fallimenti. 20 Infatti il soggetto che tende al successo ha un locus of control interno, mentre il soggetto che tende ad evitare il fallimento ha un locus of control esterno. 3.4 STILI DI ATTRIBUZIONE NEI DSA Nel paragrafo precedente si è parlato della teoria attributiva; qui di seguito verranno trattati i diversi stili attributivi, prestando particolare attenzione allo stile maggiormente ricorrente nei DSA. Generalmente uno stesso soggetto può assumere diversi stili di attribuzione a seconda della situazione e del compito. In modo specifico se andiamo a vedere esistono cinque fondamentali stili attributivi che sono quelli più frequenti e maggiormente usati in relazione all’apprendimento: 1) stile strategico: Il soggetto attribuisce all’impegno e in parte all’abilità la riuscita o meno del compito. E’ lo stile più funzionale all’apprendimento poiché permette di mantenere una buona stima di sé nonché buone aspettative di successo anche in caso di fallimento. Il termine “strategico” è inteso come ricerca, applicazione, flessibilità nell’uso di strategie differenti, mentre l’impegno inadeguato si riferisce ad un uso carente di strategie specifiche d’apprendimento. I soggetti che adottano tale stile hanno una alta consapevolezza delle proprie capacità unita ad una buona autostima; inoltre presentano alti livelli di interesse, curiosità e coinvolgimento nei compiti proposti; questo tipo di stile è però più frequente nei soggetti normali, molto meno nei soggetti con DSA; 2) stile depresso: è lo stile tipico dell’impotenza appresa, maggiormente presente nei soggetti con DSA, cioè una consapevolezza negativa che ne fa derivare passività, la quale deriva dalle ripetute esperienze fallimentari nello svolgimento delle attività scolastiche. Le continue esperienze fallimentari che sperimenta il bambino con DSA, comportano delle ripercussioni negative non solo sul piano delle abilità cognitive, ma anche sul piano psicologico; il bambino infatti a causa dei ripetuti insuccessi sviluppa la consapevolezza che gli eventi sono incontrollabili, stabili e immodificabili, pertanto è inutile impegnarsi o cercare di modificare la situazione. Ne deriva un circolo vizioso per cui la previsione di insuccesso porta conseguentemente al fallimento. Lo stile depresso si caratterizza inoltre per la mancanza di un atteggiamento strategico: non si ricercano strategie di apprendimento più adeguate, mentre le emozioni ricorrenti sono una bassa percezione di autoefficacia, di fiducia in sé, la tendenza ad evitare fallimenti e scarsa 21 curiosità e interesse nelle situazioni d’apprendimento. E’ fondamentale adottare una didattica metacognitiva che promuova in tali soggetti l’acquisizione di conoscenze metacognitive, unite a strategie di apprendimento funzionali ed efficaci; 3) stile negatore: il soggetto attribuisce il successo alle proprie capacita, mentre il fallimento a cause esterne, quali ad es. la difficoltà del compito, la sfortuna o la mancanza di aiuto. Tale attribuzione di responsabilità all’esterno però non favorisce nel soggetto la consapevolezza di impegnarsi maggiormente in seguito, poiché le cause non sono ricercate all’interno dell’individuo. Il soggetto dunque non ricerca l’impegno in questo tipo di stile, anche se la propria stima di sé non viene intaccata. Tuttavia tale atteggiamento non è funzionale all’apprendimento in quanto, l’abilità viene considerata come un tratto stabile e non modificabile e quindi in caso di insuccesso il soggetto non cercherà di impegnarsi maggiormente o di ricercare strategie adeguate; 4) stile pedina: il soggetto attribuisce sia i successi che gli insuccessi a cause esterne, instabile e poco controllabili. Pertanto in situazioni difficili il soggetto non si impegnerà affidandosi al caso, manifestando poca curiosità ed interesse nello svolgimento dei compiti; 5) stile dell’abile: il soggetto attribuisce il successo e l’insuccesso alle proprie abilità (definite come componenti stabili e non modificabili). L’attribuzione alla propria abilità però può indurre il soggetto a temere molto il fallimento; per questo motivo chi adotta tale stile è molto motivato a svolgere compiti che permettono la riuscita e conseguentemente ad evitare situazioni impegnative per la paura dell’insuccesso o per l’ansia che può scaturire per la percezione di non essere capaci. 3.5 CONCLUSIONI E’ stato rilevato che bambini che hanno difficoltà nell’apprendimento presentano associati dei deficit metacognitivi che non consentono la consapevolezza delle proprie abilità, il controllo del proprio funzionamento cognitivo e l’utilizzo di strategie adeguate all’apprendimento. Numerosi studiosi hanno cercato di approfondire tali disturbi e sono concordi nell’affermare che un intervento riabilitativo, fondato su training mirati a strategie metacognitive possano aiutare i soggetti al 22 recupero delle proprie funzioni, nonché a migliorare anche i soggetti che non presentano particolari difficoltà. Intervenendo sui soggetti con DSA si interrompe anche il circolo vizioso secondo il quale ai fallimenti ne seguono altri; infatti il bambino che presenta difficoltà sviluppa una percezione distorta riguardo alle proprie capacità, ritenendo impossibile un capovolgimento in positivo della propria situazione. E’ un compito fondamentale e doveroso instaurare o ripristinare nel bambino la corretta attribuzione di causalità, per cui attraverso l’impegno e l’adozione di strategie vincenti accompagnate dalla giusta motivazione, il bambino è in grado di affrontare compiti e situazioni nuove nell’ambito della didattica adeguati alla propria età e competenza. 23 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Abramson – Seligman – Teasdale, 1978 Learned helplessness in humans: Critique and reformulation Atkinson, 1964 An introduction to motivation Atkinson, 1974 Motivation and achievement Borkowski, 1994 Lo sviluppo della metacognizione nel bambino Boscolo, 1997 Psicologia dell’apprendimento scolastico Bruner, 1961 The act of discovery Bruner, 1997 La cultura dell’educazione Cornoldi, 1991 Memoria e metacognizione Cornoldi, 1995 Metacognizione e apprendimento Flavell, 1976 Metacognitive aspects of problem solvine Harter, 1978 Effectance motivation reconsidered Kelley, 1967 Attribution theory in social psycology Krapp, 1999 Interest, motivation and learning 24 Piaget Ricci, 2000 Manuale per l’integrazione scolastica Weiner, 1979 A theory of motivation for some classroom experiences Zanobini – Usai, 1995 Psicologia dell’handicap e della riabilitazione 25