L`evento (e) l`impossibile

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Pensieri dell’incontro
Rischio e urgenza dell’evento tra Gilles Deleuze e Jacques Derrida
di Paolo Vignola
Tra la concezione relativa ad una “fine della storia” e quel che può significare la “fine della
filosofia” esiste un legame intrinseco, rintracciabile nella chiusura del pensiero in se stesso,
che gli eventi mondiali di questi ultimi dieci anni hanno tuttavia avuto la possibilità di
scalfire. Come è stato possibile allora concepire questi pensieri della fine? Probabilmente in
seguito ad un’intossicazione, ad una mancanza di aria subita dal pensiero rinchiuso nella sua
interiorità. Ciò che funziona come ossigeno per il pensiero deve invece essere cercato al di
fuori, nel presente delle nostre vite. Per impedire però che l’esercizio del pensare si limiti ad
un semplice e sterile commentario degli accadimenti, per continuare cioè ad offrire un ruolo
specifico ed attuale alla filosofia, è necessario intendersi sul significato che si può dare
all’espressione “nel presente”.
Per pensare nel presente si deve tener conto degli eventi e delle trasformazioni che hanno
luogo nel tempo in cui viviamo, e ciò contribuisce a determinare una dimensione etica per il
ruolo della filosofia. Ma questa inclusione del pensiero all’interno del presente non implica un
venir meno della domanda teoretica, una riduzione del compito filosofico, poiché è nel
presente che possono essere scoperti i segni del nuovo, le gemme dei cambiamenti che
diverranno gli eventi di un tempo a venire. Non solo, ma è proprio a partire dal qui ed ora
delle singole esistenze che risulta possibile concepire il peso teoretico e, assieme, l’istanza di
sradicamento dall’attualità, di ciò che Nietzsche definisce il carattere “intempestivo”
(unzeitgemäss) del pensiero. Così, per agire contro il nostro tempo è necessario pensare nel
presente. Tale affermazione, se vogliamo cogliere la potenza dell’unzeitgemäss nietzscheano,
non può essere tuttavia slegata dal suo significato correlativo: pensare nel presente per agire
contro il nostro tempo, poiché «la filosofia si realizza nella opposizione tra inattuale e attuale,
tra il nostro tempo e ciò che è intempestivo»1.
Queste parole di Deleuze racchiudono il senso della sua interpretazione del pensiero
nietzscheano ma anticipano anche il suo stesso obiettivo filosofico, e ciò è chiaro se si ricorda
che, per il professore di Vincennes, «quel che ci costringe a pensare è il segno. Il segno è
l’oggetto di un incontro […] qualche cosa che usa violenza al pensiero, strappandolo al suo
stupore naturale […]. Occorre essere predisposto ai segni, aprirsi al loro incontro, aprirsi alla
loro violenza»2. È a partire da questa esteriorità costitutiva del pensare, dal «caso
dell’incontro e dalla necessità del pensiero»3, che la filosofia può darsi come obiettivo l’agire
in favore di un tempo a venire, poiché la sua capacità esclusiva sarà quella di raggiungere il
nuovo incontrando i segni del presente. Se si ha sempre bisogno di un incontro perché il
pensiero si attivi, a maggior ragione tale necessità esiste nel pensare ciò che è nuovo. Questo è
vero al punto che, per Deleuze, pensare è sempre pensare il nuovo nella misura in cui
incontrare non è mai riconoscere. Ecco il compito etico di un pensiero attento al presente che
si con-fonde con la dimensione teoretica dell’interrogarsi sulla propria natura.
Ora, se “pensare il nuovo” può apparire, agli occhi di Deleuze, una sorta di tautologia, per
Derrida il “nuovo” è precisamente ciò che è impossibile da pensare, poiché dipende sempre e
1
2
3
G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, trad. it. di F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1992, p. 160.
G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, trad. it. di C. Lusignoli e D. De Agostini, Einaudi, Torino 2001, pp. 90-94.
Ivi, p. 94.
necessariamente dall’“evento dell’altro”, il quale per realizzarsi fugge da ogni possibile
previsione, sapere o calcolo. L’evento dell’altro, la sua venuta, è l’evento di un “tutt’altro”
inafferrabile dalle maglie del concetto e necessita di un ripensamento strategico da parte della
filosofia. La strategia risiede nel pensare un’invenzione letteralmente impossibile o, appunto,
«l’invenzione dell’impossibile»4, che contesta il significato stesso di invenzione così come è
stato concepito nella tradizione filosofica. Se per “invenzione possibile” intendiamo qualcosa
nei termini della scoperta, della creazione, della produzione o dello svelamento da parte di un
soggetto, l’invenzione impossibile è l’invenzione dell’altro intesa come “lasciar venire” la sua
esperienza senza anticiparla in alcun modo. Se nell’inventare «il possibile a partire dal
possibile si rapporta il nuovo […] a un insieme di possibilità presenti»5, pensare il nuovo
senza anticiparlo o senza calcolarlo richiede un’invenzione del pensiero fuori da ogni margine
di possibilità. Richiede dunque un pensiero impossibile e tuttavia necessario, se con il nuovo
intendiamo il presente che è en train de se faire e che ci obbliga, legandoci alle sue istanze
etiche, a pensare l’ a venire.
Possiamo allora chiederci se tra queste due prospettive circa il “nuovo” vi sia opposizione
solo apparente oppure inconciliabile. Si tratta forse di un fenomeno di “differenze parallele” 6,
come Nancy ha definito il rapporto tra Deleuze e Derrida? E, se fosse così, davvero queste
due linee del pensiero non si incontrerebbero mai?
Forse è proprio il tema dell’incontro a segnalarci un percorso proficuo per continuare ad
esplorare il significato di pensare nel presente. L’incontro “violento” con il segno, come
descritto da Deleuze, si situa su di un terreno prossimo all’incontro “effrazionante” dell’altro
che Derrida ha più volte richiamato all’interno della sua prospettiva etico-politica. Ma
l’incontro stesso – sebbene virtuale poiché soltanto sfiorato nella storia delle due carriere
filosofiche – tra Deleuze e Derrida può farci avanzare di qualche passo nel chiaroscuro del
presente che viviamo e che ci sforziamo di pensare.
L’evento (e) l’impossibile
Partendo dalla considerazione che non sia giunta “la fine della storia” come dispiegamento
del concetto e come stadio finale dell’umanità, per Deleuze e Derrida non si può nemmeno
parlare di una “fine della filosofia”. Per entrambi la “fine della filosofia” è un falso problema,
perché se dal lato derridiano la decostruzione avviene nel quotidiano, come un processo
inarrestabile che spinge a pensare mantenendo ‘viva’ la filosofia, dal punto di vista di Deleuze
la creazione di concetti, come attività specificamente filosofica, ha il compito, a partire dalla
seconda metà del Novecento, di contrastare settori quali la promozione e la comunicazione
commerciale che «si appropriano delle parole “concetto” e “creativo”, e questi “ideatori
[concepteurs]” costituiscono una razza sfrontata che esprime l’atto di vendere come supremo
pensiero capitalista, il cogito della mercanzia»7. L’importanza del concetto filosofico risiede
invece nella sua necessità: l’attitudine a rispondere a problemi reali, poiché «il concetto è ciò
che impedisce al pensiero di essere una semplice opinione, un parere, una discussione, una
chiacchiera»8.
Ciò che garantisce la possibilità della filosofia, del pensiero e, nel caso di Derrida, della
decostruzione è, in termini generali, quel che accade nel presente e smuove l’attività stessa del
pensare; potremmo dire che, tanto per Deleuze quanto per Derrida, l’evento abbia queste
J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, trad. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2008, p. 64.
Ivi, p. 63.
6
cfr. J. L. Nancy, “Le differenze parallele. Deleuze e Derrida”, trad. it. di L. Cremonesi e E. Romagnoli, in Id.,
Le differenze parallele (a cura di L. Cremonesi e T. Ariemma), Ombre Corte, Verona 2008, pp. 75-94.
7
G. Deleuze, Pourparler, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 181.
8
Ibidem.
4
5
caratteristiche. Non facciamoci però abbagliare dalla dinamica con la quale l’evento si
sprigiona davanti agli occhi dei due filosofi; cerchiamo invece di guardare assieme a loro – a
rischio di “ritornare con gli occhi rossi”9 – quel che succede per verificare se vedono
effettivamente la stessa cosa. Derrida, che si sforza di lasciare venire l’evento, lo ritiene
inassimilabile alle maglie del concetto; se vi sono dei concetti esistenti prima dell’evento,
quel che accade ha la caratteristica di sfuggirvi. Deleuze aspetta invece l’evento, attende di
scorgerne il segno in quel che accade e, solo allora, incomincia a creare il concetto.
Evidentemente, se Deleuze aspetta l’evento per creare il concetto, quest’ultimo non ha la
natura di ciò che Derrida intende per concetti. E, a dire il vero, per Deleuze il concetto non è
un universale astratto che assimila e ordina i dati dell’esperienza sensibile dall’alto della sua
trascendenza, né una particolarità empirica, bensì una singolarità immanente all’esperienza
stessa ma incorporea, in grado di estrarre il virtuale dall’attuale, come l’evento che è «reale
senza essere attuale, ideale senza essere astratto»10. Da questo punto di vista, la creazione
concettuale di Deleuze si configura come una contro-effettuazione dell’evento, nel senso di
un’estrazione dell’evento puro e a-temporale dagli stati di cose nei quali si manifesta nel
presente. Un concetto dunque non rappresenta la realtà, né la ‘spiega’, ma “ritaglia” i contorni
del senso che l’evento porta con sé. Ecco dunque la diversa ma non del tutto inconciliabile
prospettiva: per Derrida l’evento è inafferrabile dalle maglie del concetto, mentre per Deleuze
non esistono concetti che precedano l’evenemenzialità ed ogni singolo evento produce una
messa in variazione dei concetti. In tal misura, il filosofo può pensare solo in funzione dei
segni incontrati e la filosofia necessita che il pensiero si predisponga, pur riuscendovi
adeguatamente solo sotto “violenza”, a sintomatizzare il presente nella sua concretezza.
«La filosofia non ha altro scopo che diventare degna dell’evento»11, si legge in Che cos’è
la filosofia?, e questa affermazione, seppur in apparenza possa accostarsi alla concezione
derridiana dell’evento, in realtà determina un attrito che, se ci sforziamo di rimanere
contemporaneamente a fianco dei due filosofi, non possiamo evitare di avvertire. Essere degni
dell’evento, per il Deleuze “stoico”, implica certamente un amor fati ma anche e soprattutto
un lavoro di contro-effettuazione che garantisce la libertà stessa dell’uomo di fronte a ciò che
accade:
l’uomo libero […] ha colto l’evento stesso, perché non lascia che si effettui in quanto tale
senza operarne, in quanto attore, la contro-effettuazione. Soltanto l’uomo libero può allora
comprendere tutte le violenze in una sola violenza, tutti gli eventi mortali in un solo Evento,
che non lascia più posto all’incidente, che denuncia e destituisce sia la potenza del risentimento
nell’individuo sia quella dell’oppressione nella società.12
La libertà si manifesta nel contro-effettuare l’evento, ricavandone il senso e ritagliandone il
concetto. È il pensiero a trasformare – a trasfigurare – ciò che accade nella dimensione
spazio-temporale (Chronos) in un evento puro, estraendo la sua dimensione eterna, extratemporale (Aiôn), che si ritrova alla superficie delle cose. Piano teoretico e piano etico si
intersecano, ed essere degni di ciò che ci accade, aprirsi all’evento, significa coglierne il
valore extra-corporeo e comprendere, nel dolore trasfigurato e divenuto segno, la forza che ci
forza a pensare il nuovo.
Per Derrida invece, se l’evento scardina e decostruisce la facoltà di decidere, calcolare o
progettare, mediante l’effrazione lacerante dell’altro, anche la libertà deve subire il medesimo
trattamento. La libertà infatti, nell’ottica derridiana, è direttamente dipendente dall’ipseità,
come «la facoltà o il potere di fare ciò che si vuole, di decidere, di scegliere, di determinarsi,
9
10
11
12
Cfr. G. Deleuze, Critica e Clinica, trad. it. di A. Panaro, Cortina, Milano 1996, p. 16.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, trad. it. di A. De Lorenzis, Enaudi, Torino 2002, p. 12.
Ivi, p. 157.
G. Deleuze, Logica del senso, trad. it. di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano 1975, p. 136.
di autodeterminarsi, di essere padrone e soprattutto padrone di sé (autos, ipse)»13. “L’essere
libero di” significa per Derrida “il poter decidere”, e quindi «non c’è libertà […] senza una
qualche sovranità»14. È in decostruzione insomma il pregiudizio positivo con il quale di
norma si accompagna la “libertà”, in nome di un’urgenza più drastica di quella relativa al
bisogno di emancipazione o di auto-determinazione, vale a dire in vista dell’arrivo dell’altro,
nelle sue ingiunzioni più diverse e spaesanti. Si esplicita così la differente portata dell’evento
di fronte ai due filosofi: in Deleuze la libertà si manifesta nell’evento, nella possibilità che
l’individuo ha di contro-effettuare ciò che accade ed esserne quindi “degno”, mentre in
Derrida l’evento è precisamente ciò che toglie la libertà, consegnandoci all’effrazione
dell’altro, in balìa di un’ospitalità incondizionata nella quale l’ospitante diviene ostaggio
dell’ospite.
Dal piano etico possiamo passare alla domanda che concerne più in generale il pensiero e
interrogare Derrida: “come possiamo pensare l’evento se esso è per definizione ciò che toglie
la libertà e che quindi coglie alla sprovvista ogni pensiero?”. La risposta potrebbe darsi in
questi termini: «l’evento è ciò che accade e che, accadendo, giunge a sorprendermi, a
sorprendere e a sospendere la comprensione: l’evento è in primo luogo ciò che in primo luogo
non comprendo. L’evento è […] il fatto che io non comprenda»15. L’incomprensibile al
pensiero è la figura che meglio di altre rende conto del significato di “impossibile”; è proprio
concependo l’impossibilità come un’incomprensibilità che, nel seguire Derrida, ci mettiamo
al riparo sia dalle inflazionate iperboli barocche di molti suoi commentatori, sia dalle critiche
mosse alla decostruzione – derivanti il più delle volte dal fatto di non aver letto attentamente i
testi derridiani. Ciò che rimane incomprensibile o, meglio, ciò che non viene compreso è,
letteralmente, qualcosa che eccede, ed esso appartiene al reale nella misura in cui accade. È
(quel) reale che non viene compreso dai calcoli, dai progetti o dalle previsioni; reale che non
viene assimilato, che fa resto, che resiste. Ma se l’evento è ciò che accade, e se per Derrida è
doveroso esporsi all’evento, è necessario che tale esposizione sia incondizionale – cioè al di là
di ogni condizione, calcolo, etc. – affinché la venuta dell’altro possa manifestarsi come una
eccedenza che permette realmente “l’a-venire”.
Se l’evento è l’impossibile che non rimane utopico ma si fa reale, ed è anche “ciò che non
comprendo” pur attendendolo, esso è dunque un’eccedenza di reale che eccede il nostro
possesso della realtà fisica e cognitiva. Questa eccedenza è un’effrazione, quindi una
violenza, “una violenza che ci fa segno”, per dirla con Deleuze, ed è proprio seguendo questa
linea “violenta” che possiamo far comunicare nuovamente i due filosofi e farli incontrare sul
tema stesso dell’incontro. L’incontro con l’altro, l’effrazione di quest’ultimo, è l’incontro con
il segno, il suo scontro violento. Ciò significa, per entrambi, che il fatto di poter essere già
autonomamente nella condizione ideale per poter pensare, ossia che il pensare ci sia già dato e
che sia una facoltà unilaterale del soggetto di imprimere senso alle cose, viene ad essere
decostruito dall’evento.
Per Deleuze il pensare incomincia con la violenza, con la forza della differenza trasportata
da un segno, ed il senso risulta un prodotto del campo di forze esterne al pensiero. Questa è la
base dell’“empirismo trascendentale”, mediante il quale Deleuze afferma la possibilità di
pervenire alle condizioni della singola esperienza reale, “condizioni che non siano più larghe
del condizionato”16, e non a quelle di ogni esperienza possibile17. In altri termini, non si pensa
13
J. Derrida, Stati canaglia, trad. it. L. Odello, Cortina, Milano 2003, p. 46.
Ibidem.
15
J. Derrida, «Auto-immunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida», trad. it. di G. Bianco,
in G. Borradori (a cura di), Filosofia del terrore. Dialoghi con Jurgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, RomaBari 2003, p. 98.
16
Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 75.
17
Importante è ricordare che per Deleuze l’empirismo «non è affatto una reazione contro i concetti, né un
semplice appello all’esperienza vissuta […] ma esso tratta il concetto come l’oggetto di un incontro», G. Deleuze,
Differenza e ripetizione, trad. it. di G. Guglielmi, Cortina, Milano 1997, p. 3.
14
senza essere sensibili ai segni che incontriamo, e l’empirismo trascendentale esamina le
condizioni per cui dall’esperienza realmente vissuta si generi il concetto, tramite una forzatura
del pensiero. Le condizioni di possibilità, a cui fa riferimento il trascendentale kantiano, sono
sostituite dalle condizioni dell’esperienza reale in quanto le prime, preformando il
trascendentale, dandogli cioè la forma di un soggetto cosciente correlata a quella di un
oggetto, fanno in modo tale che del mondo si abbia soltanto una pseudoesperienza di cui è
dato conoscere a priori la forma a partire dall’interiorità del pensiero. Contro questa immagine
che definisce il pensiero come facoltà che opera astrattamente e indipendente dal segno,
Deleuze spiega la genesi del pensiero come risultato di un campo di forze, trasportate dal
segno, che determinano l’emergere del senso. Limite del trascendentale kantiano, che
ricalcherebbe il trascendentale sull’empirico, sarebbe il suo essere una forma vuota,
condizione immaginaria di un’esperienza solamente possibile, mentre per Deleuze le
condizioni dell’esperienza suppongono esse stesse un’esperienza in senso stretto18, che si
manifesta come “costrizione”, incontro-scontro con il segno che dà avvio al pensiero. Il
pensiero, la violenza e la novità sono allora implicati nell’evento come condizione reale
dell’esperienza. Qui, inoltre, si raggiunge il nucleo deleuziano dell’opposizione tra evento e
Storia:
ciò che la storia coglie dell’evento è il suo realizzarsi in stati di cose o nel vissuto ma
l’evento nel suo divenire, nella sua consistenza propria, nella sua autoposizione in quanto
concetto, sfugge alla Storia. […] Pensare è sperimentare, ma la sperimentazione è sempre ciò
che sta facendosi – il nuovo, lo straordinario, l’interessante […]. La Storia non è
sperimentazione, ma l’insieme delle condizioni quasi negative che rendono possibile la
sperimentazione di qualcosa che alla Storia sfugge19.
Se, per quanto riguarda Deleuze, ci siamo spinti un po’ più in là del necessario nella
descrizione del rapporto tra pensiero ed evento, arrivando a mostrarne i confini con la Storia,
la ragione risiede nel legame che Derrida mostra quasi in continuazione tra la decostruzione
del presente, come compito stesso del pensiero, e l’apertura verso l’a venire – che,
anticipiamo, non è il futuro del tempo cronologico. Ripartiamo però dall’evento che, per
Derrida, è un altro nome della decostruzione. La decostruzione ha luogo, accade senza
attendere una deliberazione o dipendere da un soggetto che ne avrebbe l’iniziativa; non è
quindi un atto e tanto meno una operazione. Non solo, «la decostruzione non è una teoria, né
una filosofia. Né una scuola, né un metodo. Neanche un discorso, un atto, una pratica. È ciò
che accade. […] La decostruzione è l’evento»20.
L’evento dell’altro smantella la nostra libertà, la libertà stessa di pensare l’evento, ma non
viene meno la necessità del pensiero. Anzi, è proprio attraverso la decostruzione che il
pensiero viene smosso, continua ad esercitarsi e l’impossibilità di una fine della filosofia è
data dal fatto che la decostruzione è innanzitutto «ciò che accade, quel che sta accadendo oggi
in ciò che si chiama società, politica, diplomazia, economia, realtà storica, e via dicendo».21
Vi è decostruzione laddove qualcosa ha luogo, e Derrida afferma che «già da sempre una
forma di decostruzione era all’opera nella storia, […] nella memoria occidentale nei suoi due
continenti»22, esibendo in tal maniera una sorta di continua posteriorità della riflessione
filosofica rispetto al movimento decostruttivo.
Ecco la natura paradossale dell’evento: anche se “non pensiamo ancora”, anche se è
impossibile pensare l’evento, per Derrida la decostruzione è “già da sempre” in atto: con essa
si incomincia a pensare. Piuttosto che pensare a partire dal possibile, si tratta di avviare il
18
19
20
21
22
Cfr. F. Zourabichvili, Le vocabulaire de Deleuze, Ellipses, Paris 2003, p. 35.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 105.
J. Derrida, Come non essere post-moderni, trad. it. di G. Santamaria,, Milano, Medusa 2002, p. 45.
Ibidem.
J. Derrida, Memorie – per Paul de Man, trad. it. S. Petrosino, M. Odorici, Milano, Jaca Book 1995, p. 102.
pensiero a partire dalla sua impossibilità, sforzarsi cioè di pensare a partire dall’altro, ma
quest’altro può farci segno – può quindi in-segnarci – solo mediante la forza, o un certo tipo
di “violenza”, “spaesante” o “perturbante” (unheimliche), che venga dall’esterno e che assilli
tanto l’ipseità quanto la presenza del presente.
Gli eventi (e) i “senza fine”
La filosofia di Deleuze può essere definita al tempo stesso, proprio come quella di Derrida,
una filosofia della differenza, come risposta alla dialettica, e una filosofia dell’evento come
avvenire incalcolabile del nuovo che fa effrazione nel corso della storia. Entrambe le filosofie,
come abbiamo anticipato, si contrappongono al filone di radice hegeliana caratterizzato dal
pensiero di una “fine della storia”, che si sviluppa a partire dalla Fenomenologia dello spirito
– dall’idea cioè del dispiegamento dello spirito nel sapere assoluto – e che passando per il
regno della libertà di Marx giunge alle riflessioni, prima kojèviane e poi di Fukuyama, su di
uno stadio finale della stessa umanità. A questa serie di modelli di filosofia della storia basati
sullo sviluppo di un’interiorità che si dà da sola le leggi del proprio sviluppo, sia Deleuze che
Derrida contrappongono l’evento come elemento di rottura del telos storico e come
opportunità di apertura nei confronti di un tempo non cronologico e della novità singolare ed
irriducibile, esterna ed estranea ad ogni orizzonte di attesa e di pensiero.
Nel 1992, nel proliferare dei discorsi sulla fine delle alternative all’economia di mercato e
sulla morte delle utopie, Deleuze pubblica un saggio su Beckett che, seppur implicitamente,
vale come rilancio e assieme trasformazione della posta in gioco sulle possibilità politiche di
fine secolo. Ed è proprio il “possibile” in quanto tale ad essere chiamato in causa, interrogato
e criticato. L’esausto – questo è il titolo del saggio – è colui che ha esaurito il possibile: «lo
stanco non può più realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare»23. Il possibile per
Deleuze può essere “realizzato” o “creato” ma si tratta di due statuti differenti. “Realizzare il
possibile” ha il significato della realizzazione di un progetto che non offre nulla di realmente
nuovo alla situazione, mentre la creazione del possibile fa riferimento alla dinamica
dell’evenemenzialità rivoluzionaria che trasforma le condizioni di possibilità dell’azione e le
stesse possibilità di esistenza24. In altri termini, il “possibile” come apertura del “nuovo” è
reso possibile dall’evento. Il maggio ’68 per Deleuze ha precisamente i caratteri dell’evento
come emergenza del possibile, trasformazione delle possibilità di vita e irruzione del reale –
dunque non progettabile in precedenza – sulla scena della Storia:
il maggio ’68 è piuttosto dell’ordine di un evento puro, libero da ogni causalità normale o
normativa. […] è stato un fenomeno di veggenza, come se tutt’a un tratto una società vedesse
quel che contiene di intollerabile e vedesse inoltre la possibilità di qualcosa d’altro. È un
fenomeno collettivo sotto forma di: «Un po’ di possibile, altrimenti soffoco…». Il possibile non
preesiste, è creato dall’evento. È una questione di vita. L’evento crea una nuova esistenza,
produce una nuova soggettività25.
«Un po’ di possibile, altrimenti soffoco…», questa frase altro non è se non la formula
dell’urgenza con la quale Deleuze affronta ogni campo del pensiero: dalla storia della filosofia
al rapporto con la letteratura, con il cinema e con l’arte in generale; dalla politica alla ricerca
sul senso stesso della filosofia. Urgenza che contraddistingue la tensione verso il nuovo,
l’impensato, l’inaspettato. Se il possibile è precisamente l’ossigeno che serve al pensiero per
G. Deleuze, L’esausto, trad. it. di G. Bompiani, Cronopio, Napoli 2005, p. 9.
Cfr. G. Deleuze, Critica e Clinica, cit., p. 15.
25
G. Deleuze, F. Guattari, “maggio ’68 non c’è stato”, in G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti (éd. Par D.
Lapoujade), trad. it. e cura di D. Borca, Einaudi, Torino 2010, p. 188.
23
24
continuare a prodursi o a sussistere, l’evento è la folata di vento che apre inaspettatamente la
finestra, fa circolare l’aria e mette così fine alla fine stessa – della filosofia o della storia.
Vi è nella temporalità politica di Deleuze una chiara ispirazione bergsoniana, per cui
dobbiamo leggere la realizzazione del possibile nel presente come una semplice
attualizzazione, mentre l’apertura del nuovo rinvia alla dimensione virtuale dell’evento che
non si esaurisce nella sua attualizzazione. Da una parte allora possiamo riconoscere il maggio
’68 come una tappa definita nel corso della storia, con un suo inizio, con le sue causalità e una
sua fine; dall’altra però, l’evento del maggio francese eccede le condizioni della storia, «si
sgancia dalle causalità e rompe con esse: è una biforcazione, una deviazione rispetto alle
leggi, una condizione instabile che apre un nuovo campo di possibilità»26. Nel senso di una
esteriorità rispetto alla Storia, Deleuze e Guattari possono affermare che “il maggio ‘68 non
c’è stato” ma che esso agisce – continua ad agire! – come virtualità: ideale senza essere
astratto, reale senza essere attuale. Il fatto che l’evento scorra a fianco della Storia non
significa però che esso non incida sulle trasformazioni storiche; qui risiede il messaggio
politico deleuziano, caratterizzato dall’urgenza nei confronti dell’evento che chiama ad una
responsabilità “iperbolica” – per dirla con Derrida – nella quale la volontà stessa come facoltà
di scegliere tra alternative possibili è messa radicalmente in discussione. L’evento esaurisce il
possibile e, al tempo stesso, lo (ri)crea. Se «la messa in atto di un possibile procede sempre
per esclusione, perché implica preferenze e scopi variabili, che sostituiscono i precedenti […]
tutt’altra cosa è l’esaurimento: le variabili di una situazione si combinano a condizione di
rinunciare ad ogni tipo di preferenza, a qualsiasi organizzazione di obiettivi, a ogni forma di
significato»27. Il punto di vista deleuziano sul possibile e sull’evento non sembra allora
incontrare quello di Derrida?
Derrida, in occasione della scomparsa di Deleuze, ha scritto un profondo e commovente
ricordo del loro rapporto, in cui il filosofo della différance – tra i vari ‘luoghi’ d’incontro –
segnala anche la comune intenzione di volgere intempestivamente il pensiero a Marx:
«Quando scrivevo su Marx nel momento peggiore, mi rassicurai un poco sapendo che anche
lui progettava di farlo»28. Proprio in questo ulteriore (ma ancora una volta virtuale) elemento
d’incontro si dà lo strappo, il ritrarsi della mano. Deleuze ritira la mano dal possibile incontro
all’insegna di Marx, poiché smette di scrivere. La mano si ritira, innanzitutto dalla scrittura, e
non permette che si possa attingere da quel manoscritto inedito – Grandeur de Marx – che
verrà dato alle fiamme.
Eppure un incontro, all’insegna dell’intempestività, avviene. Praticamente nello stesso
periodo in cui Deleuze scrive il testo su Beckett, Derrida ‘affronta’ finalmente Marx. Il
filosofo della différance scrive infatti il testo di Spettri di Marx quando il comunismo cessa di
apparire come l’orizzonte insuperabile del secolo per diventare politicamente e culturalmente
anacronistico: nel 1993 la relazione presentata al convegno “Whither marxism?” presso
l’Università della California ha il significato di una risposta alla congiuntura storica che
esprimeva una vera e propria congiura contro Marx e il marxismo. Bisogna quindi intendere
Spettri di Marx come una risposta politica ma anche, al tempo stesso, una risposta all’evento
in quanto tale. Una risposta29 che ha il valore di un performativo politico, di un sì al ritornare
degli spettri certamente, ma anche di una sfida nel senso di una congiura “pratica e teorica”
contro la congiura di un discorso dominante30, il quale vale come un ‘grande racconto’ che ha
l’obiettivo di dare valore di verità incontestabile all’egemonia neoliberale. Egemonia che, per
inserirsi nel continuum storico, deve scongiurare gli spettri del comunismo.
26
27
28
Ibidem.
G. Deleuze, L’esausto, cit., p. 11.
J. Derrida, Ogni volta unica, la fine del mondo, a cura di P.A. Brault e M. Naas, Jaca Book, Milano 2006, p.
212.
29
30
J. Derrida, Marx & Sons, Paris, PUF/Galilée, 2002, p. 11.
Cfr. J. Derrida, Spettri di Marx, trad. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1996, passim.
Ecco che la risposta offerta da Derrida assume i tratti dell’urgenza politica di fronte a ciò
che accade sulla scena internazionale, ed ha il carattere della responsabilità di fronte
all’evento. Quale evento però, dato che la congiuntura storica non ha una data precisa, ma si è
realizzata mediante una serie di pratiche politiche – tra cui la caduta del Muro di Berlino e la
destrutturazione dell’Unione Sovietica –, mediatiche e filosofico-culturali legate ai proclami
sulla fine della storia e sul trionfo della società liberale? Ebbene, per Derrida è necessario
ritrovare il senso dell’evento a coté del continuum storico, in quell’ora in cui l’uniformità di
un presente ‘dominante’ si disgiunge in una pluralità di tempi in reciproco disaccordo, e tale
sarebbe il significato della frase dell’Amleto di Shakespeare, “The time is out of joints”, che
accompagna (gli) Spettri di Marx. L’ora degli spettri – che Marx nel 1848 aveva evocato
(“Uno spettro si aggira per l’Europa…lo spettro del comunismo”31) e che nel 1993
assillerebbero i teorici della “fine della storia” come Fukuyama – marca l’interruzione del
continuum storico, aprendo il tempo verso un’altra dimensione della temporalità, non più
cronologica o lineare, ma “disaggiustata”, out of joints, appunto.
In questa singolare difesa dell’istanza marxiana, Derrida non evita di esibire una certa
distanza dal movimento di realizzazione rivoluzionaria delineato dallo stesso Marx, e sarebbe
proprio tale distanza a conferire la chance contro ogni congiura. Se nel Manifesto del partito
comunista Marx nomina lo spettro per annunciarne la presenza imminente o futura, per
Derrida lo spettro è precisamente un’istanza destabilizzante della presenza, potenza di
rivoluzione del qui ed ora che non ammette una realizzazione definitiva: «l’analisi di tipo
marxista resta indispensabile, sembra però radicalmente insufficiente là dove l’ontologia
marxista […] comporta anch’essa, e deve comportare, le è necessario, […] un’escatologia
messianica»32. È vero che Derrida approva dello spirito del marxismo «una certa affermazione
emancipatrice e messianica, una certa esperienza della promessa»33 ma, a differenza di quel
che ne poteva pensare Marx, essa non potrebbe darsi nella forma della presenza finalmente
realizzata. Il comunismo per Derrida deve insomma rimanere uno spettro, sottrarsi ai limiti
della teleologia e della escatologia, per darsi come evento inassimilabile, come contro-tempo
rispetto alla storia del pensiero e dei paradigmi dominanti. L’orizzonte del comunismo
pensato da Derrida è allora un orizzonte messianico ma privo del messianismo che
contraddistingue ogni escatologia. Il “Messianico senza messianismo” è la struttura
dell’apertura incondizionale all’evento, quella che Derrida ha anche chiamato la “risposta”, il
“sì” alla venuta dell’altro senza calcoli o anticipazioni; esso è quindi un’attesa “senza
orizzonte d’attesa”. Nessuna sicurezza, nessuna salvezza definitiva possono essere scorte dal
punto di vista di questa promessa messianica, poiché «questa messianicità spoglia di tutto […]
procede nel rischio della notte assoluta»34.
Permettere che l’evento faccia irruzione, ossia lasciar venire l’altro, significa esporsi
all’imprevedibilità del rischio assoluto, quello della distruzione, della morte o del male
radicale. Da questo punto di vista non si può negare, e anzi è necessario sottolineare, che ogni
mossa per far sì che l’evento accada deve evocare anche la possibilità del male radicale.
Questo è il rischio intrinseco della stessa decostruzione in quanto esposizione incondizionale
all’alterità, ma dobbiamo stare attenti a non confondere il rischio con il male. Se la
decostruzione espone al rischio del male assoluto, non significa che essa sia il male. Piuttosto,
è necessario comprendere che l’annullamento del rischio è l’annullamento stesso dell’a-venire
come possibilità che il radicalmente nuovo accada. L’esclusione del male di fronte all’evento
rappresenterebbe infatti una traccia di calcolo, un abbozzo di programma e quindi in
31
K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, in Idd., Opere complete, vol.VI, a cura di F. Codino,
Editori riuniti, Roma 1973, p. 485.
32
J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 79.
33
Ivi, p. 115.
34
J. Derrida, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, in Aa.Vv., La
religione, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 20.
definitiva una esplicitazione e delimitazione dell’orizzonte di attesa, una chiusura di fronte
all’evento35.
Chances
Riflettendo sulla scomparsa di Derrida, Jean Luc Nancy ha evidenziato come «a
scomparire non fosse solamente un grandissimo filosofo ma la filosofia in quanto chance»36.
Possiamo a questo punto comprendere la grande affinità tra evento e filosofia che
contraddistingue il lavoro derridiano, e ciò che Nancy intende con chance può essere tradotto
nell’apertura all’imprevedibile in grado di tenere assieme l’urgenza etica di fronte a ciò che
accade e il rischio di perdere ogni sicurezza consolidata – filosoficamente, culturalmente e
socialmente parlando. Ma tale apertura sembra essere, agli occhi di Nancy, inaggirabile
proprio per il pensiero filosofico dal momento che «è semplicemente e assolutamente una
realtà che la filosofia ha sempre rappresentato tutto il rischio del pensiero»37.
Inutile dire che il rischio anima anche l’intera filosofia di Deleuze, dal momento che le
linee di fuga – intese quali vettori di trasformazione (della soggettività, della composizione
sociale, della realtà economico-politica) che animano e danno il movimento ai Mille piani –
da creatrici del cambiamento, della resistenza all’oppressione, possono diventare mortali. Le
linee di fuga corrono cioè il pericolo di rovesciarsi in linee di abolizione o di autodistruzione
del soggetto che le segue o dalle quali si fa attraversare. La possibilità stessa del pensiero, a
ben vedere, è sottoposta a questo rischio. Infatti, se il soggetto incontra le forze che lo
spingono a pensare, se dunque il pensiero si genera, è la sicurezza stessa dell’esistenza del
soggetto a vacillare, al punto che sarebbe da chiedersi “penso tuttavia sono?” nel senso che,
per Deleuze, il soggetto può ‘credere’ a se stesso solo fino a quando non riesce a pensare
realmente. Si tratta di una vera e propria schizofrenizzazione del cogito, in cui la linea di fuga
è una linea del divenire che conduce alla perdita dell’identità e al punto limite del pensiero:
«non si pensa senza diventare altro, qualcosa che non pensa, una bestia, un vegetale, una
molecola, una particella, che ritornano sul pensiero e lo rilanciano»38.
Il pericolo che accompagna le linee di fuga è la grande preoccupazione di Deleuze, il quale
ha sempre cercato di trovare il modo per piegarle nella direzione vitale. A tal proposito, è
bene segnalare che in Deleuze il rapporto tra la vita e la morte non è affatto ‘semplice’, nel
senso che i due termini non si separano così nettamente come potrebbe apparire ad una lettura
superficiale delle sue opere. Il dualismo delle opposizioni dicotomiche è evitato in nome di
una filosofia del divenire, il cui obiettivo è la decostruzione di ciò che è supposto essere in
partenza: l’identità, il soggetto, il pensiero.
Ora, una filosofia del divenire ha innanzitutto il problema di liberarsi da ciò che impedisce
di cogliere il movimento o il mutamento, e l’agente di tale impedimento è la Storia nel suo
dispiegamento lineare del tempo, la quale determina solamente l’insieme delle condizioni «a
partire da cui si devia per “divenire”, per creare cioè qualcosa di nuovo»39. È sul piano della
Storia che si registrano la vita e la morte degli elementi e, nondimeno, si condannano le linee
di fuga per la loro mancanza di avvenire, di progetto calcolato, per la loro pericolosità
insomma. Altra cosa è pensare la vita e la morte sul piano del divenire, dove la morte del
Il messianico senza messianismo, struttura universale dell’esperienza che non può ridursi a nessun
messianismo religioso, non deve essere inteso come una specie di ideale regolativo, né tanto meno come un’utopia, dal
momento che per Derrida «la messianicità […] è tutto tranne che utopica: essa è, per ogni qui ed ora, il riferimento alla
venuta dell’evento più concreto e più reale, vale a dire all’alterità più irriducibilmente eterogenea». J. Derrida, Marx &
Sons, cit., p. 69 (trad. nostra).
36
J. L. Nancy, “La filosofia come chance”, trad. it. di L. Labbri, in Id., Le differenze parallele, p. 57.
37
Ivi, p. 58.
38
Ibidem.
39
G. Deleuze, Pourparler, cit., p. 225.
35
soggetto può coincidere con lo sprigionamento di potenze impersonali: la vita come piano
d’immanenza composto da singolarità di ogni genere, in continua connessione. È il caso in cui
«la morte si rivolge contro la morte, in cui il morire è come la destituzione della morte, in cui
l’impersonalità del morire non segna più soltanto il momento in cui io mi perdo fuori di me,
ma il momento in cui la morte si perde in se stessa, e la figura che la vita più singolare assume
per sostituirsi a me40». È in un istante, in cui storia e divenire si sovrappongono, che può
accadere questa trasmutazione. Ma questo istante può essere pensato come il presente degli
stati di cose, che raccoglie nel suo svolgimento il passato e il futuro: questo è l’istante di
Chronos, che dà senso alla Storia e reprime la trasmutazione. Oppure si può pensare ad un
istante – l’istante dell’Aiôn – che deve essere afferrato per schivare il presente e permettere il
divenire:
In un caso, è la mia vita che mi sembra troppo debole per me, che fugge in un punto
diventato presente in un rapporto assegnabile con me. Nell’altro caso, sono io che sono troppo
debole per la vita e la vita troppo grande per me41.
In questa debolezza del soggetto di fronte alla vita “troppo grande”, Deleuze coglie lo
splendore dell’evento e la possibilità di contro-effettuarlo, ossia di saper rispondere – con un
sì – a ciò che accade, fosse anche la propria morte. Il vitalismo di Deleuze raggiunge così, di
fronte all’evento della morte, il proprio momento etico fondamentale: dire sì alla vita, alla sua
immensità, proprio quando stiamo per lasciarla, per consegnarla agli altri. Pensare il nuovo,
nel momento in cui il presente ci sfugge o in cui siamo noi ad andarcene, implica un amor fati
che è prima di tutto amore per la vita, per il mondo.
Se è vero, come afferma Derrida, che la morte42 di ogni essere umano è una “fine del
mondo”43, nel singolo presente di questo evento è necessario, per il pensiero, credere. Ma
credere non in un al di là, guidati da una escatologia – religiosa o ideologica. “Credere al
mondo” – come ha suggerito Deleuze –, per avere la possibilità di pensarlo, di pensare nel
presente, pensare con esso, al suo fianco, e non “sentirsi soli a vagare nel buio”44.
40
G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 137.
Ivi, pp. 135-136.
42
È impossibile in questo lavoro concentrarsi sul differente rapporto che Deleuze e Derrida intrattengono con il
problema della morte e, d’altronde, sulla tematica stessa della vita. Valga come sintetica indicazione il commento
relativo offerto da Nancy: «Non è affatto l’opposizione di un positivo e di un negativo. La vita dell’uno non esclude la
morte dell’altro, che del resto non nega affatto la vita del primo. Perché la vita del primo si differenzia e,
differenziandosi, apre anche di se stessa la deiscenza della morte […]. E la morte del secondo si differenzia da e “nella”
morte stessa, aprendone in essa l’impossibilità alla quale, per “finire”, è impegnato il differire di sé: il rapporto all’altro
in quanto altro», J. L. Nancy, “Le differenze parallele”, cit., p. 84. Mi permetto inoltre di rinviare a P. Vignola, Le frecce
di Nietzsche. Confrontando Deleuze e Derrida, ECIG, Genova 2008, pp. 74-76, 113-125, 207-245 .
43
J. Derrida, Ogni volta unica la fine del mondo, cit.
44
Derrida intitola “dovrò vagare da solo” l’omaggio fatto a Deleuze, presente nella raccolta Ogni volta unica la
fine del mondo, cit.
41
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