Paolo Vignola Tra la concezione relativa ad una “fine della storia” e

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Pensieri dell’incontro. Rischio e urgenza dell’evento
tra Gilles Deleuze e Jacques Derrida
Paolo Vignola
Tra la concezione relativa ad una “fine della storia” e quel che può significare la “fine della
filosofia” esiste un legame intrinseco, rintracciabile nella chiusura del pensiero in se stesso, che gli
eventi mondiali di questi ultimi dieci anni hanno tuttavia avuto la possibilità di scalfire. Come è stato
possibile allora concepire questi pensieri della fine? Probabilmente in seguito ad un’intossicazione, ad
una mancanza di aria subita dal pensiero rinchiuso nella sua interiorità. Ciò che funziona come
ossigeno per il pensiero deve invece essere cercato al di fuori, nel presente delle nostre vite. Per
impedire però che l’esercizio del pensare si limiti ad un semplice e sterile commentario degli
accadimenti, per continuare cioè ad offrire un ruolo specifico ed attuale alla filosofia, è necessario
intendersi sul significato che si può dare all’espressione “nel presente”.
Per pensare nel presente si deve tener conto degli eventi e delle trasformazioni che hanno luogo nel
tempo in cui viviamo, e ciò contribuisce a determinare una dimensione etica per il ruolo della filosofia.
Ma questa inclusione del pensiero all’interno del presente non implica un venir meno della domanda
teoretica, una riduzione del compito filosofico, poiché è nel presente che possono essere scoperti i
segni del nuovo, le gemme dei cambiamenti che diverranno gli eventi di un tempo a venire. Non solo,
ma è proprio a partire dal qui ed ora delle singole esistenze che risulta possibile concepire il peso
teoretico e, assieme, l’istanza di sradicamento dall’attualità, di ciò che Nietzsche definisce il carattere
“intempestivo” (unzeitgemäss) del pensiero. Così, per agire contro il nostro tempo è necessario
pensare nel presente. Tale affermazione, se vogliamo cogliere la potenza dell’unzeitgemäss
nietzscheano, non può essere tuttavia slegata dal suo significato correlativo: pensare nel presente per
agire contro il nostro tempo, poiché «la filosofia si realizza nella opposizione tra inattuale e attuale, tra
il nostro tempo e ciò che è intempestivo»1.
Queste parole di Deleuze racchiudono il senso della sua interpretazione del pensiero nietzscheano
ma anticipano anche il suo stesso obiettivo filosofico, e ciò è chiaro se si ricorda che, per il professore
di Vincennes, «quel che ci costringe a pensare è il segno. Il segno è l’oggetto di un incontro […]
qualche cosa che usa violenza al pensiero, strappandolo al suo stupore naturale […]. Occorre essere
predisposto ai segni, aprirsi al loro incontro, aprirsi alla loro violenza»2. È a partire da questa
esteriorità costitutiva del pensare, dal «caso dell’incontro e dalla necessità del pensiero»3, che la
filosofia può darsi come obiettivo l’agire in favore di un tempo a venire, poiché la sua capacità
esclusiva sarà quella di raggiungere il nuovo incontrando i segni del presente. Se si ha sempre bisogno
di un incontro perché il pensiero si attivi, a maggior ragione tale necessità esiste nel pensare ciò che è
nuovo. Questo è vero al punto che, per Deleuze, pensare è sempre pensare il nuovo nella misura in cui
incontrare non è mai riconoscere. Ecco il compito etico di un pensiero attento al presente che si confonde con la dimensione teoretica dell’interrogarsi sulla propria natura.
Ora, se “pensare il nuovo” può apparire, agli occhi di Deleuze, una sorta di tautologia, per Derrida
il “nuovo” è precisamente ciò che è impossibile da pensare, poiché dipende sempre e necessariamente
dall’“evento dell’altro”, il quale per realizzarsi fugge da ogni possibile previsione, sapere o calcolo.
L’evento dell’altro, la sua venuta, è l’evento di un “tutt’altro” inafferrabile dalle maglie del concetto e
necessita di un ripensamento strategico da parte della filosofia. La strategia risiede nel pensare
un’invenzione letteralmente impossibile o, appunto, «l’invenzione dell’impossibile»4, che contesta il
significato stesso di invenzione così come è stato concepito nella tradizione filosofica. Se per
“invenzione possibile” intendiamo qualcosa nei termini della scoperta, della creazione, della
produzione o dello svelamento da parte di un soggetto, l’invenzione impossibile è l’invenzione
dell’altro intesa come “lasciar venire” la sua esperienza senza anticiparla in alcun modo. Se
nell’inventare «il possibile a partire dal possibile si rapporta il nuovo […] a un insieme di possibilità
presenti»5, pensare il nuovo senza anticiparlo o senza calcolarlo richiede un’invenzione del pensiero
fuori da ogni margine di possibilità. Richiede dunque un pensiero impossibile e tuttavia necessario, se
con il nuovo intendiamo il presente che è en train de se faire e che ci obbliga, legandoci alle sue
istanze etiche, a pensare l’ a venire.
Possiamo allora chiederci se tra queste due prospettive circa il “nuovo” vi sia opposizione solo
apparente oppure inconciliabile. Si tratta forse di un fenomeno di “differenze parallele”6, come Nancy
ha definito il rapporto tra Deleuze e Derrida? E, se fosse così, davvero queste due linee del pensiero
non si incontrerebbero mai?
Forse è proprio il tema dell’incontro a segnalarci un percorso proficuo per continuare ad esplorare
il significato di pensare nel presente. L’incontro “violento” con il segno, come descritto da Deleuze, si
situa su di un terreno prossimo all’incontro “effrazionante” dell’altro che Derrida ha più volte
richiamato all’interno della sua prospettiva etico-politica. Ma l’incontro stesso – sebbene virtuale
poiché soltanto sfiorato nella storia delle due carriere filosofiche – tra Deleuze e Derrida può farci
avanzare di qualche passo nel chiaroscuro del presente che viviamo e che ci sforziamo di pensare.
L’evento (e) l’impossibile
Partendo dalla considerazione che non sia giunta “la fine della storia” come dispiegamento del
concetto e come stadio finale dell’umanità, per Deleuze e Derrida non si può nemmeno parlare di una
“fine della filosofia”. Per entrambi la “fine della filosofia” è un falso problema, perché se dal lato
derridiano la decostruzione avviene nel quotidiano, come un processo inarrestabile che spinge a
pensare mantenendo ‘viva’ la filosofia, dal punto di vista di Deleuze la creazione di concetti, come
attività specificamente filosofica, ha il compito, a partire dalla seconda metà del Novecento, di
contrastare settori quali la promozione e la comunicazione commerciale che «si appropriano delle
parole “concetto” e “creativo”, e questi “ideatori [concepteurs]” costituiscono una razza sfrontata che
esprime l’atto di vendere come supremo pensiero capitalista, il cogito della mercanzia»7. L’importanza
del concetto filosofico risiede invece nella sua necessità: l’attitudine a rispondere a problemi reali,
poiché «il concetto è ciò che impedisce al pensiero di essere una semplice opinione, un parere, una
discussione, una chiacchiera»8.
Ciò che garantisce la possibilità della filosofia, del pensiero e, nel caso di Derrida, della
decostruzione è, in termini generali, quel che accade nel presente e smuove l’attività stessa del
pensare; potremmo dire che, tanto per Deleuze quanto per Derrida, l’evento abbia queste
caratteristiche. Non facciamoci però abbagliare dalla dinamica con la quale l’evento si sprigiona
davanti agli occhi dei due filosofi; cerchiamo invece di guardare assieme a loro – a rischio di
“ritornare con gli occhi rossi”9 – quel che succede per verificare se vedono effettivamente la stessa
cosa. Derrida, che si sforza di lasciare venire l’evento, lo ritiene inassimilabile alle maglie del
concetto; se vi sono dei concetti esistenti prima dell’evento, quel che accade ha la caratteristica di
sfuggirvi. Deleuze aspetta invece l’evento, attende di scorgerne il segno in quel che accade e, solo
allora, incomincia a creare il concetto. Evidentemente, se Deleuze aspetta l’evento per creare il
concetto, quest’ultimo non ha la natura di ciò che Derrida intende per concetti. E, a dire il vero, per
Deleuze il concetto non è un universale astratto che assimila e ordina i dati dell’esperienza sensibile
dall’alto della sua trascendenza, né una particolarità empirica, bensì una singolarità immanente
all’esperienza stessa ma incorporea, in grado di estrarre il virtuale dall’attuale, come l’evento che è
«reale senza essere attuale, ideale senza essere astratto»10. Da questo punto di vista, la creazione
concettuale di Deleuze si configura come una contro-effettuazione dell’evento, nel senso di
un’estrazione dell’evento puro e a-temporale dagli stati di cose nei quali si manifesta nel presente. Un
concetto dunque non rappresenta la realtà, né la ‘spiega’, ma “ritaglia” i contorni del senso che
l’evento porta con sé. Ecco dunque la diversa ma non del tutto inconciliabile prospettiva: per Derrida
l’evento è inafferrabile dalle maglie del concetto, mentre per Deleuze non esistono concetti che
precedano l’evenemenzialità ed ogni singolo evento produce una messa in variazione dei concetti. In
tal misura, il filosofo può pensare solo in funzione dei segni incontrati e la filosofia necessita che il
pensiero si predisponga, pur riuscendovi adeguatamente solo sotto “violenza”, a sintomatizzare il
presente nella sua concretezza.
«La filosofia non ha altro scopo che diventare degna dell’evento»11, si legge in Che cos’è la
filosofia?, e questa affermazione, seppur in apparenza possa accostarsi alla concezione derridiana
dell’evento, in realtà determina un attrito che, se ci sforziamo di rimanere contemporaneamente a
fianco dei due filosofi, non possiamo evitare di avvertire. Essere degni dell’evento, per il Deleuze
“stoico”, implica certamente un amor fati ma anche e soprattutto un lavoro di contro-effettuazione che
garantisce la libertà stessa dell’uomo di fronte a ciò che accade:
l’uomo libero […] ha colto l’evento stesso, perché non lascia che si effettui in quanto tale
senza operarne, in quanto attore, la contro-effettuazione. Soltanto l’uomo libero può allora
comprendere tutte le violenze in una sola violenza, tutti gli eventi mortali in un solo Evento,
che non lascia più posto all’incidente, che denuncia e destituisce sia la potenza del risentimento
nell’individuo sia quella dell’oppressione nella società.12
La libertà si manifesta nel contro-effettuare l’evento, ricavandone il senso e ritagliandone il
concetto. È il pensiero a trasformare – a trasfigurare – ciò che accade nella dimensione spaziotemporale (Chronos) in un evento puro, estraendo la sua dimensione eterna, extra-temporale (Aiôn),
che si ritrova alla superficie delle cose. Piano teoretico e piano etico si intersecano, ed essere degni di
ciò che ci accade, aprirsi all’evento, significa coglierne il valore extra-corporeo e comprendere, nel
dolore trasfigurato e divenuto segno, la forza che ci forza a pensare il nuovo.
Per Derrida invece, se l’evento scardina e decostruisce la facoltà di decidere, calcolare o progettare,
mediante l’effrazione lacerante dell’altro, anche la libertà deve subire il medesimo trattamento. La
libertà infatti, nell’ottica derridiana, è direttamente dipendente dall’ipseità, come «la facoltà o il potere
di fare ciò che si vuole, di decidere, di scegliere, di determinarsi, di autodeterminarsi, di essere
padrone e soprattutto padrone di sé (autos, ipse)»13. “L’essere libero di” significa per Derrida “il poter
decidere”, e quindi «non c’è libertà […] senza una qualche sovranità»14. È in decostruzione insomma
il pregiudizio positivo con il quale di norma si accompagna la “libertà”, in nome di un’urgenza più
drastica di quella relativa al bisogno di emancipazione o di auto-determinazione, vale a dire in vista
dell’arrivo dell’altro, nelle sue ingiunzioni più diverse e spaesanti. Si esplicita così la differente portata
dell’evento di fronte ai due filosofi: in Deleuze la libertà si manifesta nell’evento, nella possibilità che
l’individuo ha di contro-effettuare ciò che accade ed esserne quindi “degno”, mentre in Derrida
l’evento è precisamente ciò che toglie la libertà, consegnandoci all’effrazione dell’altro, in balìa di
un’ospitalità incondizionata nella quale l’ospitante diviene ostaggio dell’ospite.
Dal piano etico possiamo passare alla domanda che concerne più in generale il pensiero e
interrogare Derrida: “come possiamo pensare l’evento se esso è per definizione ciò che toglie la libertà
e che quindi coglie alla sprovvista ogni pensiero?”. La risposta potrebbe darsi in questi termini:
«l’evento è ciò che accade e che, accadendo, giunge a sorprendermi, a sorprendere e a sospendere la
comprensione: l’evento è in primo luogo ciò che in primo luogo non comprendo. L’evento è […] il
fatto che io non comprenda»15. L’incomprensibile al pensiero è la figura che meglio di altre rende
conto del significato di “impossibile”; è proprio concependo l’impossibilità come un’incomprensibilità
che, nel seguire Derrida, ci mettiamo al riparo sia dalle inflazionate iperboli barocche di molti suoi
commentatori, sia dalle critiche mosse alla decostruzione – derivanti il più delle volte dal fatto di non
aver letto attentamente i testi derridiani. Ciò che rimane incomprensibile o, meglio, ciò che non viene
compreso è, letteralmente, qualcosa che eccede, ed esso appartiene al reale nella misura in cui accade.
È (quel) reale che non viene compreso dai calcoli, dai progetti o dalle previsioni; reale che non viene
assimilato, che fa resto, che resiste. Ma se l’evento è ciò che accade, e se per Derrida è doveroso
esporsi all’evento, è necessario che tale esposizione sia incondizionale – cioè al di là di ogni
condizione, calcolo, etc. – affinché la venuta dell’altro possa manifestarsi come una eccedenza che
permette realmente “l’a-venire”.
Se l’evento è l’impossibile che non rimane utopico ma si fa reale, ed è anche “ciò che non
comprendo” pur attendendolo, esso è dunque un’eccedenza di reale che eccede il nostro possesso della
realtà fisica e cognitiva. Questa eccedenza è un’effrazione, quindi una violenza, “una violenza che ci
fa segno”, per dirla con Deleuze, ed è proprio seguendo questa linea “violenta” che possiamo far
comunicare nuovamente i due filosofi e farli incontrare sul tema stesso dell’incontro. L’incontro con
l’altro, l’effrazione di quest’ultimo, è l’incontro con il segno, il suo scontro violento. Ciò significa, per
entrambi, che il fatto di poter essere già autonomamente nella condizione ideale per poter pensare,
ossia che il pensare ci sia già dato e che sia una facoltà unilaterale del soggetto di imprimere senso alle
cose, viene ad essere decostruito dall’evento.
Per Deleuze il pensare incomincia con la violenza, con la forza della differenza trasportata da un
segno, ed il senso risulta un prodotto del campo di forze esterne al pensiero. Questa è la base
dell’“empirismo trascendentale”, mediante il quale Deleuze afferma la possibilità di pervenire alle
condizioni della singola esperienza reale, “condizioni che non siano più larghe del condizionato”16, e
non a quelle di ogni esperienza possibile17. In altri termini, non si pensa senza essere sensibili ai segni
che incontriamo, e l’empirismo trascendentale esamina le condizioni per cui dall’esperienza realmente
vissuta si generi il concetto, tramite una forzatura del pensiero. Le condizioni di possibilità, a cui fa
riferimento il trascendentale kantiano, sono sostituite dalle condizioni dell’esperienza reale in quanto
le prime, preformando il trascendentale, dandogli cioè la forma di un soggetto cosciente correlata a
quella di un oggetto, fanno in modo tale che del mondo si abbia soltanto una pseudoesperienza di cui è
dato conoscere a priori la forma a partire dall’interiorità del pensiero. Contro questa immagine che
definisce il pensiero come facoltà che opera astrattamente e indipendente dal segno, Deleuze spiega la
genesi del pensiero come risultato di un campo di forze, trasportate dal segno, che determinano
l’emergere del senso. Limite del trascendentale kantiano, che ricalcherebbe il trascendentale
sull’empirico, sarebbe il suo essere una forma vuota, condizione immaginaria di un’esperienza
solamente possibile, mentre per Deleuze le condizioni dell’esperienza suppongono esse stesse
un’esperienza in senso stretto18, che si manifesta come “costrizione”, incontro-scontro con il segno che
dà avvio al pensiero. Il pensiero, la violenza e la novità sono allora implicati nell’evento come
condizione reale dell’esperienza. Qui, inoltre, si raggiunge il nucleo deleuziano dell’opposizione tra
evento e Storia:
ciò che la storia coglie dell’evento è il suo realizzarsi in stati di cose o nel vissuto ma
l’evento nel suo divenire, nella sua consistenza propria, nella sua autoposizione in quanto
concetto, sfugge alla Storia. […] Pensare è sperimentare, ma la sperimentazione è sempre ciò
che sta facendosi – il nuovo, lo straordinario, l’interessante […]. La Storia non è
sperimentazione, ma l’insieme delle condizioni quasi negative che rendono possibile la
sperimentazione di qualcosa che alla Storia sfugge19.
Se, per quanto riguarda Deleuze, ci siamo spinti un po’ più in là del necessario nella descrizione del
rapporto tra pensiero ed evento, arrivando a mostrarne i confini con la Storia, la ragione risiede nel
legame che Derrida mostra quasi in continuazione tra la decostruzione del presente, come compito
stesso del pensiero, e l’apertura verso l’a venire – che, anticipiamo, non è il futuro del tempo
cronologico. Ripartiamo però dall’evento che, per Derrida, è un altro nome della decostruzione. La
decostruzione ha luogo, accade senza attendere una deliberazione o dipendere da un soggetto che ne
avrebbe l’iniziativa; non è quindi un atto e tanto meno una operazione. Non solo, «la decostruzione
non è una teoria, né una filosofia. Né una scuola, né un metodo. Neanche un discorso, un atto, una
pratica. È ciò che accade. […] La decostruzione è l’evento»20.
L’evento dell’altro smantella la nostra libertà, la libertà stessa di pensare l’evento, ma non viene
meno la necessità del pensiero. Anzi, è proprio attraverso la decostruzione che il pensiero viene
smosso, continua ad esercitarsi e l’impossibilità di una fine della filosofia è data dal fatto che la
decostruzione è innanzitutto «ciò che accade, quel che sta accadendo oggi in ciò che si chiama società,
politica, diplomazia, economia, realtà storica, e via dicendo».21 Vi è decostruzione laddove qualcosa
ha luogo, e Derrida afferma che «già da sempre una forma di decostruzione era all’opera nella storia,
[…] nella memoria occidentale nei suoi due continenti»22, esibendo in tal maniera una sorta di
continua posteriorità della riflessione filosofica rispetto al movimento decostruttivo.
Ecco la natura paradossale dell’evento: anche se “non pensiamo ancora”, anche se è impossibile
pensare l’evento, per Derrida la decostruzione è “già da sempre” in atto: con essa si incomincia a
pensare. Piuttosto che pensare a partire dal possibile, si tratta di avviare il pensiero a partire dalla sua
impossibilità, sforzarsi cioè di pensare a partire dall’altro, ma quest’altro può farci segno – può quindi
in-segnarci – solo mediante la forza, o un certo tipo di “violenza”, “spaesante” o “perturbante”
(unheimliche), che venga dall’esterno e che assilli tanto l’ipseità quanto la presenza del presente.
Gli eventi (e) i “senza fine”
La filosofia di Deleuze può essere definita al tempo stesso, proprio come quella di Derrida, una
filosofia della differenza, come risposta alla dialettica, e una filosofia dell’evento come avvenire
incalcolabile del nuovo che fa effrazione nel corso della storia. Entrambe le filosofie, come abbiamo
anticipato, si contrappongono al filone di radice hegeliana caratterizzato dal pensiero di una “fine della
storia”, che si sviluppa a partire dalla Fenomenologia dello spirito – dall’idea cioè del dispiegamento
dello spirito nel sapere assoluto – e che passando per il regno della libertà di Marx giunge alle
riflessioni, prima kojèviane e poi di Fukuyama, su di uno stadio finale della stessa umanità. A questa
serie di modelli di filosofia della storia basati sullo sviluppo di un’interiorità che si dà da sola le leggi
del proprio sviluppo, sia Deleuze che Derrida contrappongono l’evento come elemento di rottura del
telos storico e come opportunità di apertura nei confronti di un tempo non cronologico e della novità
singolare ed irriducibile, esterna ed estranea ad ogni orizzonte di attesa e di pensiero.
Nel 1992, nel proliferare dei discorsi sulla fine delle alternative all’economia di mercato e sulla
morte delle utopie, Deleuze pubblica un saggio su Beckett che, seppur implicitamente, vale come
rilancio e assieme trasformazione della posta in gioco sulle possibilità politiche di fine secolo. Ed è
proprio il “possibile” in quanto tale ad essere chiamato in causa, interrogato e criticato. L’esausto –
questo è il titolo del saggio – è colui che ha esaurito il possibile: «lo stanco non può più realizzare, ma
l’esausto non può più possibilizzare»23. Il possibile per Deleuze può essere “realizzato” o “creato” ma
si tratta di due statuti differenti. “Realizzare il possibile” ha il significato della realizzazione di un
progetto che non offre nulla di realmente nuovo alla situazione, mentre la creazione del possibile fa
riferimento alla dinamica dell’evenemenzialità rivoluzionaria che trasforma le condizioni di possibilità
dell’azione e le stesse possibilità di esistenza24. In altri termini, il “possibile” come apertura del
“nuovo” è reso possibile dall’evento. Il maggio ’68 per Deleuze ha precisamente i caratteri dell’evento
come emergenza del possibile, trasformazione delle possibilità di vita e irruzione del reale – dunque
non progettabile in precedenza – sulla scena della Storia:
il maggio ’68 è piuttosto dell’ordine di un evento puro, libero da ogni causalità normale o
normativa. […] è stato un fenomeno di veggenza, come se tutt’a un tratto una società vedesse
quel che contiene di intollerabile e vedesse inoltre la possibilità di qualcosa d’altro. È un
fenomeno collettivo sotto forma di: «Un po’ di possibile, altrimenti soffoco…». Il possibile
non preesiste, è creato dall’evento. È una questione di vita. L’evento crea una nuova esistenza,
produce una nuova soggettività25.
«Un po’ di possibile, altrimenti soffoco…», questa frase altro non è se non la formula dell’urgenza
con la quale Deleuze affronta ogni campo del pensiero: dalla storia della filosofia al rapporto con la
letteratura, con il cinema e con l’arte in generale; dalla politica alla ricerca sul senso stesso della
filosofia. Urgenza che contraddistingue la tensione verso il nuovo, l’impensato, l’inaspettato. Se il
possibile è precisamente l’ossigeno che serve al pensiero per continuare a prodursi o a sussistere,
l’evento è la folata di vento che apre inaspettatamente la finestra, fa circolare l’aria e mette così fine
alla fine stessa – della filosofia o della storia.
Vi è nella temporalità politica di Deleuze una chiara ispirazione bergsoniana, per cui dobbiamo
leggere la realizzazione del possibile nel presente come una semplice attualizzazione, mentre
l’apertura del nuovo rinvia alla dimensione virtuale dell’evento che non si esaurisce nella sua
attualizzazione. Da una parte allora possiamo riconoscere il maggio ’68 come una tappa definita nel
corso della storia, con un suo inizio, con le sue causalità e una sua fine; dall’altra però, l’evento del
maggio francese eccede le condizioni della storia, «si sgancia dalle causalità e rompe con esse: è una
biforcazione, una deviazione rispetto alle leggi, una condizione instabile che apre un nuovo campo di
possibilità»26. Nel senso di una esteriorità rispetto alla Storia, Deleuze e Guattari possono affermare
che “il maggio ‘68 non c’è stato” ma che esso agisce – continua ad agire! – come virtualità: ideale
senza essere astratto, reale senza essere attuale. Il fatto che l’evento scorra a fianco della Storia non
significa però che esso non incida sulle trasformazioni storiche; qui risiede il messaggio politico
deleuziano, caratterizzato dall’urgenza nei confronti dell’evento che chiama ad una responsabilità
“iperbolica” – per dirla con Derrida – nella quale la volontà stessa come facoltà di scegliere tra
alternative possibili è messa radicalmente in discussione. L’evento esaurisce il possibile e, al tempo
stesso, lo (ri)crea. Se «la messa in atto di un possibile procede sempre per esclusione, perché implica
preferenze e scopi variabili, che sostituiscono i precedenti […] tutt’altra cosa è l’esaurimento: le
variabili di una situazione si combinano a condizione di rinunciare ad ogni tipo di preferenza, a
qualsiasi organizzazione di obiettivi, a ogni forma di significato»27. Il punto di vista deleuziano sul
possibile e sull’evento non sembra allora incontrare quello di Derrida?
Derrida, in occasione della scomparsa di Deleuze, ha scritto un profondo e commovente ricordo del
loro rapporto, in cui il filosofo della différance – tra i vari ‘luoghi’ d’incontro – segnala anche la
comune intenzione di volgere intempestivamente il pensiero a Marx: «Quando scrivevo su Marx nel
momento peggiore, mi rassicurai un poco sapendo che anche lui progettava di farlo»28. Proprio in
questo ulteriore (ma ancora una volta virtuale) elemento d’incontro si dà lo strappo, il ritrarsi della
mano. Deleuze ritira la mano dal possibile incontro all’insegna di Marx, poiché smette di scrivere. La
mano si ritira, innanzitutto dalla scrittura, e non permette che si possa attingere da quel manoscritto
inedito – Grandeur de Marx – che verrà dato alle fiamme.
Eppure un incontro, all’insegna dell’intempestività, avviene. Praticamente nello stesso periodo in
cui Deleuze scrive il testo su Beckett, Derrida ‘affronta’ finalmente Marx. Il filosofo della différance
scrive infatti il testo di Spettri di Marx quando il comunismo cessa di apparire come l’orizzonte
insuperabile del secolo per diventare politicamente e culturalmente anacronistico: nel 1993 la
relazione presentata al convegno “Whither marxism?” presso l’Università della California ha il
significato di una risposta alla congiuntura storica che esprimeva una vera e propria congiura contro
Marx e il marxismo. Bisogna quindi intendere Spettri di Marx come una risposta politica ma anche, al
tempo stesso, una risposta all’evento in quanto tale. Una risposta29 che ha il valore di un performativo
politico, di un sì al ritornare degli spettri certamente, ma anche di una sfida nel senso di una congiura
“pratica e teorica” contro la congiura di un discorso dominante30, il quale vale come un ‘grande
racconto’ che ha l’obiettivo di dare valore di verità incontestabile all’egemonia neoliberale. Egemonia
che, per inserirsi nel continuum storico, deve scongiurare gli spettri del comunismo.
Ecco che la risposta offerta da Derrida assume i tratti dell’urgenza politica di fronte a ciò che
accade sulla scena internazionale, ed ha il carattere della responsabilità di fronte all’evento. Quale
evento però, dato che la congiuntura storica non ha una data precisa, ma si è realizzata mediante una
serie di pratiche politiche – tra cui la caduta del Muro di Berlino e la destrutturazione dell’Unione
Sovietica –, mediatiche e filosofico-culturali legate ai proclami sulla fine della storia e sul trionfo della
società liberale? Ebbene, per Derrida è necessario ritrovare il senso dell’evento a coté del continuum
storico, in quell’ora in cui l’uniformità di un presente ‘dominante’ si disgiunge in una pluralità di
tempi in reciproco disaccordo, e tale sarebbe il significato della frase dell’Amleto di Shakespeare,
“The time is out of joints”, che accompagna (gli) Spettri di Marx. L’ora degli spettri – che Marx nel
1848 aveva evocato (“Uno spettro si aggira per l’Europa…lo spettro del comunismo”31) e che nel 1993
assillerebbero i teorici della “fine della storia” come Fukuyama – marca l’interruzione del continuum
storico, aprendo il tempo verso un’altra dimensione della temporalità, non più cronologica o lineare,
ma “disaggiustata”, out of joints, appunto.
In questa singolare difesa dell’istanza marxiana, Derrida non evita di esibire una certa distanza dal
movimento di realizzazione rivoluzionaria delineato dallo stesso Marx, e sarebbe proprio tale distanza
a conferire la chance contro ogni congiura. Se nel Manifesto del partito comunista Marx nomina lo
spettro per annunciarne la presenza imminente o futura, per Derrida lo spettro è precisamente
un’istanza destabilizzante della presenza, potenza di rivoluzione del qui ed ora che non ammette una
realizzazione definitiva: «l’analisi di tipo marxista resta indispensabile, sembra però radicalmente
insufficiente là dove l’ontologia marxista […] comporta anch’essa, e deve comportare, le è necessario,
[…] un’escatologia messianica»32. È vero che Derrida approva dello spirito del marxismo «una certa
affermazione emancipatrice e messianica, una certa esperienza della promessa»33 ma, a differenza di
quel che ne poteva pensare Marx, essa non potrebbe darsi nella forma della presenza finalmente
realizzata. Il comunismo per Derrida deve insomma rimanere uno spettro, sottrarsi ai limiti della
teleologia e della escatologia, per darsi come evento inassimilabile, come contro-tempo rispetto alla
storia del pensiero e dei paradigmi dominanti. L’orizzonte del comunismo pensato da Derrida è allora
un orizzonte messianico ma privo del messianismo che contraddistingue ogni escatologia. Il
“Messianico senza messianismo” è la struttura dell’apertura incondizionale all’evento, quella che
Derrida ha anche chiamato la “risposta”, il “sì” alla venuta dell’altro senza calcoli o anticipazioni; esso
è quindi un’attesa “senza orizzonte d’attesa”. Nessuna sicurezza, nessuna salvezza definitiva possono
essere scorte dal punto di vista di questa promessa messianica, poiché «questa messianicità spoglia di
tutto […] procede nel rischio della notte assoluta»34.
Permettere che l’evento faccia irruzione, ossia lasciar venire l’altro, significa esporsi
all’imprevedibilità del rischio assoluto, quello della distruzione, della morte o del male radicale. Da
questo punto di vista non si può negare, e anzi è necessario sottolineare, che ogni mossa per far sì che
l’evento accada deve evocare anche la possibilità del male radicale. Questo è il rischio intrinseco della
stessa decostruzione in quanto esposizione incondizionale all’alterità, ma dobbiamo stare attenti a non
confondere il rischio con il male. Se la decostruzione espone al rischio del male assoluto, non significa
che essa sia il male. Piuttosto, è necessario comprendere che l’annullamento del rischio è
l’annullamento stesso dell’a-venire come possibilità che il radicalmente nuovo accada. L’esclusione
del male di fronte all’evento rappresenterebbe infatti una traccia di calcolo, un abbozzo di programma
e quindi in definitiva una esplicitazione e delimitazione dell’orizzonte di attesa, una chiusura di fronte
all’evento35.
Chances
Riflettendo sulla scomparsa di Derrida, Jean Luc Nancy ha evidenziato come «a scomparire non
fosse solamente un grandissimo filosofo ma la filosofia in quanto chance»36. Possiamo a questo punto
comprendere la grande affinità tra evento e filosofia che contraddistingue il lavoro derridiano, e ciò
che Nancy intende con chance può essere tradotto nell’apertura all’imprevedibile in grado di tenere
assieme l’urgenza etica di fronte a ciò che accade e il rischio di perdere ogni sicurezza consolidata –
filosoficamente, culturalmente e socialmente parlando. Ma tale apertura sembra essere, agli occhi di
Nancy, inaggirabile proprio per il pensiero filosofico dal momento che «è semplicemente e
assolutamente una realtà che la filosofia ha sempre rappresentato tutto il rischio del pensiero»37.
Inutile dire che il rischio anima anche l’intera filosofia di Deleuze, dal momento che le linee di
fuga – intese quali vettori di trasformazione (della soggettività, della composizione sociale, della realtà
economico-politica) che animano e danno il movimento ai Mille piani – da creatrici del cambiamento,
della resistenza all’oppressione, possono diventare mortali. Le linee di fuga corrono cioè il pericolo di
rovesciarsi in linee di abolizione o di autodistruzione del soggetto che le segue o dalle quali si fa
attraversare. La possibilità stessa del pensiero, a ben vedere, è sottoposta a questo rischio. Infatti, se il
soggetto incontra le forze che lo spingono a pensare, se dunque il pensiero si genera, è la sicurezza
stessa dell’esistenza del soggetto a vacillare, al punto che sarebbe da chiedersi “penso tuttavia sono?”
nel senso che, per Deleuze, il soggetto può ‘credere’ a se stesso solo fino a quando non riesce a
pensare realmente. Si tratta di una vera e propria schizofrenizzazione del cogito, in cui la linea di fuga
è una linea del divenire che conduce alla perdita dell’identità e al punto limite del pensiero: «non si
pensa senza diventare altro, qualcosa che non pensa, una bestia, un vegetale, una molecola, una
particella, che ritornano sul pensiero e lo rilanciano»38.
Il pericolo che accompagna le linee di fuga è la grande preoccupazione di Deleuze, il quale ha
sempre cercato di trovare il modo per piegarle nella direzione vitale. A tal proposito, è bene segnalare
che in Deleuze il rapporto tra la vita e la mortein partenza: l’identità, il soggetto, il pensiero. non è
affatto ‘semplice’, nel senso che i due termini non si separano così nettamente come potrebbe apparire
ad una lettura superficiale delle sue opere. Il dualismo delle opposizioni dicotomiche è evitato in nome
di una filosofia del divenire, il cui obiettivo è la decostruzione di ciò che è supposto essere.
Ora, una filosofia del divenire ha innanzitutto il problema di liberarsi da ciò che impedisce di
cogliere il movimento o il mutamento, e l’agente di tale impedimento è la Storia nel suo
dispiegamento lineare del tempo, la quale determina solamente l’insieme delle condizioni «a partire da
cui si devia per “divenire”, per creare cioè qualcosa di nuovo»39. È sul piano della Storia che si
registrano la vita e la morte degli elementi e, nondimeno, si condannano le linee di fuga per la loro
mancanza di avvenire, di progetto calcolato, per la loro pericolosità insomma. Altra cosa è pensare la
vita e la morte sul piano del divenire, dove la morte del soggetto può coincidere con lo sprigionamento
di potenze impersonali: la vita come piano d’immanenza composto da singolarità di ogni genere, in
continua connessione. È il caso in cui «la morte si rivolge contro la morte, in cui il morire è come la
destituzione della morte, in cui l’impersonalità del morire non segna più soltanto il momento in cui io
mi perdo fuori di me, ma il momento in cui la morte si perde in se stessa, e la figura che la vita più
singolare assume per sostituirsi a me40». È in un istante, in cui storia e divenire si sovrappongono, che
può accadere questa trasmutazione. Ma questo istante può essere pensato come il presente degli stati di
cose, che raccoglie nel suo svolgimento il passato e il futuro: questo è l’istante di Chronos, che dà
senso alla Storia e reprime la trasmutazione. Oppure si può pensare ad un istante – l’istante dell’Aiôn –
che deve essere afferrato per schivare il presente e permettere il divenire:
In un caso, è la mia vita che mi sembra troppo debole per me, che fugge in un punto
diventato presente in un rapporto assegnabile con me. Nell’altro caso, sono io che sono troppo
debole per la vita e la vita troppo grande per me41.
In questa debolezza del soggetto di fronte alla vita “troppo grande”, Deleuze coglie lo splendore
dell’evento e la possibilità di contro-effettuarlo, ossia di saper rispondere – con un sì – a ciò che
accade, fosse anche la propria morte. Il vitalismo di Deleuze raggiunge così, di fronte all’evento della
morte, il proprio momento etico fondamentale: dire sì alla vita, alla sua immensità, proprio quando
stiamo per lasciarla, per consegnarla agli altri. Pensare il nuovo, nel momento in cui il presente ci
sfugge o in cui siamo noi ad andarcene, implica un amor fati che è prima di tutto amore per la vita, per
il mondo.
Se è vero, come afferma Derrida, che la morte42 di ogni essere umano è una “fine del mondo”43, nel
singolo presente di questo evento è necessario, per il pensiero, credere. Ma credere non in un al di là,
guidati da una escatologia – religiosa o ideologica. “Credere al mondo” – come ha suggerito Deleuze –
, per avere la possibilità di pensarlo, di pensare nel presente, pensare con esso, al suo fianco, e non
“sentirsi soli a vagare nel buio”44.
Note con rimando automatico al testo
1 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, trad. it. di F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1992, p. 160.
2 G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, trad. it. di C. Lusignoli e D. De Agostini, Einaudi, Torino 2001, pp. 90-94.
3 Ivi, p. 94.
4 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, trad. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2008, p. 64.
5 Ivi, p. 63.
6 cfr. J. L. Nancy, “Le differenze parallele. Deleuze e Derrida”, trad. it. di L. Cremonesi e E. Romagnoli, in Id., Le differenze
parallele (a cura di L. Cremonesi e T. Ariemma), Ombre Corte, Verona 2008, pp. 75-94.
7 G. Deleuze, Pourparler, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 181.
8 Ibidem.
9 Cfr. G. Deleuze, Critica e Clinica, trad. it. di A. Panaro, Cortina, Milano 1996, p. 16.
10 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, trad. it. di A. De Lorenzis, Enaudi, Torino 2002, p. 12.
11 Ivi, p. 157.
12 G. Deleuze, Logica del senso, trad. it. di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano 1975, p. 136.
13 J. Derrida, Stati canaglia, trad. it. L. Odello, Cortina, Milano 2003, p. 46.
14 Ibidem.
15 J. Derrida, «Auto-immunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida», trad. it. di G. Bianco, in G. Borradori (a
cura di), Filosofia del terrore. Dialoghi con Jurgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 98.
16 Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 75.
17 Importante è ricordare che per Deleuze l’empirismo «non è affatto una reazione contro i concetti, né un semplice appello
all’esperienza vissuta […] ma esso tratta il concetto come l’oggetto di un incontro», G. Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. it. di
G. Guglielmi, Cortina, Milano 1997, p. 3.
18 Cfr. F. Zourabichvili, Le vocabulaire de Deleuze, Ellipses, Paris 2003, p. 35.
19 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 105.
20 J. Derrida, Come non essere post-moderni, trad. it. di G. Santamaria,, Milano, Medusa 2002, p. 45.
21 Ibidem.
22 J. Derrida, Memorie – per Paul de Man, trad. it. S. Petrosino, M. Odorici, Milano, Jaca Book 1995, p. 102.
23 G. Deleuze, L’esausto, trad. it. di G. Bompiani, Cronopio, Napoli 2005, p. 9.
24 Cfr. G. Deleuze, Critica e Clinica, cit., p. 15.
25 G. Deleuze, F. Guattari, “maggio ’68 non c’è stato”, in G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti (éd. Par D. Lapoujade), trad.
it. e cura di D. Borca, Einaudi, Torino 2010, p. 188.
26 Ibidem.
27 G. Deleuze, L’esausto, cit., p. 11.
28 J. Derrida, Ogni volta unica, la fine del mondo, a cura di P.A. Brault e M. Naas, Jaca Book, Milano 2006, p. 212.
29 J. Derrida, Marx & Sons, Paris, PUF/Galilée, 2002, p. 11.
30 Cfr. J. Derrida, Spettri di Marx, trad. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1996, passim.
31 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, in Idd., Opere complete, vol.VI, a cura di F. Codino, Editori riuniti, Roma
1973, p. 485.
32 J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 79.
33 Ivi, p. 115.
34 J. Derrida, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, in Aa.Vv., La religione, Laterza, RomaBari 1995, p. 20.
35 Il messianico senza messianismo, struttura universale dell’esperienza che non può ridursi a nessun messianismo religioso, non
deve essere inteso come una specie di ideale regolativo, né tanto meno come un’utopia, dal momento che per Derrida «la
messianicità […] è tutto tranne che utopica: essa è, per ogni qui ed ora, il riferimento alla venuta dell’evento più concreto e più reale,
vale a dire all’alterità più irriducibilmente eterogenea». J. Derrida, Marx & Sons, cit., p. 69 (trad. nostra).
36 J. L. Nancy, “La filosofia come chance”, trad. it. di L. Labbri, in Id., Le differenze parallele, p. 57.
37 Ivi, p. 58.
38 Ibidem.
39 G. Deleuze, Pourparler, cit., p. 225.
40 G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 137.
41 Ivi, pp. 135-136.
42 È impossibile in questo lavoro concentrarsi sul differente rapporto che Deleuze e Derrida intrattengono con il problema della
morte e, d’altronde, sulla tematica stessa della vita. Valga come sintetica indicazione il commento relativo offerto da Nancy: «Non è
affatto l’opposizione di un positivo e di un negativo. La vita dell’uno non esclude la morte dell’altro, che del resto non nega affatto la
vita del primo. Perché la vita del primo si differenzia e, differenziandosi, apre anche di se stessa la deiscenza della morte […]. E la
morte del secondo si differenzia da e “nella” morte stessa, aprendone in essa l’impossibilità alla quale, per “finire”, è impegnato il
differire di sé: il rapporto all’altro in quanto altro», J. L. Nancy, “Le differenze parallele”, cit., p. 84. Mi permetto inoltre di rinviare a
P. Vignola, Le frecce di Nietzsche. Confrontando Deleuze e Derrida, ECIG, Genova 2008, pp. 74-76, 113-125, 207-245 .
43 J. Derrida, Ogni volta unica la fine del mondo, cit.
44 Derrida intitola “dovrò vagare da solo” l’omaggio fatto a Deleuze, presente nella raccolta Ogni volta unica la fine del mondo, cit.
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