PAIDEIA
CONCETTI E SIGNIFICATI DELLA STORIA DEL PENSIERO

Direttori
Michele L
Società Filosofica Italiana
Michele D C
Società Filosofica Italiana
Comitato scientifico
Francesco V
Società Filosofica Italiana
Carla P
Società Filosofica Italiana
Pierangelo C
Società Filosofica Italiana
Mario D P
Società Filosofica Italiana
Mario S
Università del Salento
Giangiorgio P
Università degli Studi di Padova
Adone B
Università degli Studi di Padova
Pedro Francisco M
Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”
Comitato di redazione
Carlo C
Ylenia D’A
Brian V
Marco R
Logo della presente collana:
© Andrea R A, Ground Plane Antenna
PAIDEIA
CONCETTI E SIGNIFICATI DELLA STORIA DEL PENSIERO
La possibilità che il fraintendimento, orizzonte costante della facoltà di comunicare, anziché essere un proficuo e inedito “impensato” o una piacevole
divagazione, costituisca il motivo principale del radicamento di pregiudizi
e preclusioni all’interno del “senso comune”, è un pericolo che l’umanità
non può concedersi nell’attuale momento storico.
Questa sezione della collana « Paideia », già impegnata nella promozione
del dialogo interculturale e nell’innovazione della didattica delle scienze
umane, nasce con l’intenzione di percorrere la storia del pensiero, per
individuare concetti e significati adottati comunemente nella sfera della
vita quotidiana che necessitano di una chiarificazione semantica che sia
univoca, ma non monolitica. Solo a partire da tale chiarificazione è possibile
lastricare la strada verso una eventuale e condivisa “risemantizzazione”,
quale ineludibile progetto per la futura casa comune.
Augusto Cavadi
Etica
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via Quarto Negroni, 
 Ariccia (RM)
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
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senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: aprile 
Indice

Capitolo I
Una parola “clava”

Capitolo II
Un’etica vale l’altra?

Capitolo III
Il metro per misurare la validità di un’etica
.. È bene ciò che è comandato da Dio?,  – .. È bene ciò che
è utile all’individuo (e possibilmente alla società)?,  – .. È
bene ciò che sentiamo, emotivamente, come gradevole?,  –
.. È bene ciò che la ragione ci prescrive come giusto?,  –
.. È bene ciò che ci rende, sia pur relativamente, felici?, .

Capitolo IV
La nostra etica è un cerchietto all’interno di un cerchio
più ampio

Capitolo V
Etica del lavoro

Capitolo VI
Etica dell’affettività

Indice


Capitolo VII
Etica della conoscenza

Capitolo VIII
Etica della politica

Capitolo IX
Etica della pratica religiosa

Capitolo X
Etica dell’economia
Capitolo I
Una parola “clava”
Ci sono parole evidentemente brutte che servono per offendere ed altre talmente dolci che sembrano inventate per essere
sussurrate ad orecchie amiche. Come usare affabilmente la
parola “ignoranza”, ad esempio, o con toni duri e sprezzanti
la parola “bellezza”? La maggior parte dei vocaboli registrati
in un dizionario non sono però in sé stessi né gradevoli né
sgradevoli: sono ambivalenti e assumono colori diversi, talora
opposti, a seconda di chi li usa, di quando li usa e soprattutto
di come li usa. “Etica” appartiene a questa ampia famiglia di
parole a doppio taglio: possono ammirare ed esaltare oppure
denigrare e condannare.
Di solito il gioco è sempre lo stesso: in caso di conflitto, io
sono portatore di un’etica e tu, invece, no. Si dà per scontato
che avere un’etica sia preferibile a vivere facendone a meno:
dunque si brandisce la (propria) etica come una clava per
picchiare l’altro, accusato di essere privo di (qualsiasi) etica.
Ma è davvero così? Per rispondere sensatamente, dovremmo prima metterci d’accordo su cosa intendiamo per etica.
E, per non perderci nel mare delle definizioni possibili, ci
concentriamo sulle due che mi sembrano comprenderne molte altre al proprio interno. Un primo grappolo di significati
rientra nell’etica come insieme di comportamenti pratici; una
seconda costellazione rientra, invece, nell’etica come insieme


Etica
di idee–guida che orientano i nostri comportamenti pratici. Se esaminiamo queste due grandi famiglie della parola “etica” non
possiamo non accorgerci di una verità lampante: nessuno di
noi è privo di etica (neppure se per caso volesse farne a meno).
Non siamo senza etica nel primo senso del termine perché
tutti, dalla mattina appena ci svegliamo alla sera sino a quando
ci addormentiamo, agiamo: scegliamo, decidiamo, subiamo,
ci adiriamo, aiutiamo, combattiamo, facciamo cose. . . Essere
senza etica — in questo primo significato: etica come pratica di
vita — sarebbe possibile se stessimo fermi e zitti per ventiquattro ore su ventiquattro. E forse neppure: perché quando non
agiamo esteriormente, quando non ci muoviamo fisicamente,
tuttavia agiamo interiormente (pensiamo, odiamo, amiamo,
proviamo desideri. . . ) e stabiliamo comunque dei rapporti
con gli altri e con l’Altro. Se proprio né con gli altri esseri
umani né con Dio, almeno con noi stessi!
Comunque, quando rimproveriamo a qualcuno di essere
un uomo senza etica, probabilmente non ci riferiamo all’etica
come insieme di usi, abitudini, costumi, pratiche di vita, bensì
all’etica come insieme di criteri di scelta, di princìpi ispiratori,
delle proprie pratiche di vita. Probabilmente vogliamo dirgli:
sei un essere umano che vivi alla giornata, senza un progetto
di vita! Eppure, anche in questo caso, come nel precedente, a
ben riflettere non è vero. I giudici dell’antimafia hanno un’etica, ma anche i mafiosi hanno una propria etica: hanno un
modo di concepire ciò che nella vita è importante e ciò che è meno
importante; hanno dei criteri in base ai quali accettano come
giuste alcune cose e rifiutano altre come sbagliate. Insomma:
c’è un’etica antimafiosa, democratica; ma c’è un’etica mafiosa,
oligarchica. C’è un’etica femminista e un’etica antifemminista; un’etica pacifista e un’etica bellicista; un’etica solidale e
un’etica individualista; un’etica confessionale e un’etica laica;
. Una parola “clava”

e così via. Dunque dovremmo imparare a chiamare le cose
con il vero nome: tra i popoli, tra le fasce sociali, fra i singoli
cittadini c’è una varietà di etiche, spesso anche in conflitto
reciproco, ma non c’è mai chi può vantarsi di avere un’etica
rimproverando all’altro di non averne nessuna. Per essere precisi, bisognerebbe dire: la mia etica è migliore della tua! Siamo
entrambi esponenti di un’etica (ossia di un modo di vedere ciò
che conta nella pratica): ma penso che la mia etica sia migliore,
sia preferibile alla tua, che però un’etica comunque lo è (forse
sbagliata, forse pericolosa, forse dannosa).
Capitolo II
Un’etica vale l’altra?
Ammettiamo che, come sembrerebbe da alcuni timidi segnali,
si stia imparando che la differenza vera non è tra chi ha un’etica
e chi non ce l’ha, ma fra chi ha adottato e fatto propria una
certa etica e chi ne ha adottato e fatto propria un’altra: fra chi,
ad esempio, segue un’etica (si potrebbe anche dire: un insieme
di norme morali) della tolleranza e chi segue un’etica dell’intolleranza; fra chi ha sposato un’etica del servizio pubblico e chi
ha sposato un’etica dell’utile privato; fra chi è convinto della
validità di un’etica universalistica e chi, invece, è convinto della
validità di un’etica localistica. . . Ebbene, in questa ipotesi positiva, si andrebbe però incontro a un rischio: l’indifferentismo etico.
Detto in parole semplici: il rischio di ritenere che, visto che ci
sono tante etiche quanti sono gli abitanti della Terra, un’etica
valga l’altra. Che non ci sia nessuna differenza, nessuna graduatoria. L’etica di Nerone equivale all’etica di Seneca; l’etica
hitleriana equivale all’etica gandhiana; l’etica razzista equivale
all’etica di un Martin Luther King o di un Nelson Mandela.
Perché ritengo che questo mettere tutte le etiche sullo
stesso piano, rinunziando a un giudizio critico, sia un pericolo
grave? Per tanti motivi. Ne dico uno solo: perché, se veramente ci convinciamo che un modo di vedere la vita pratica equivale
a qualsiasi altro, non ha più senso discutere e confrontarci.
Ognuno si tiene la propria etica e, siccome tende a metterla


Etica
in pratica ogni giorno, alla fine l’etica dei più forti si imporrà
sull’etica dei più deboli. In un calderone in cui tutte le concezioni morali si equivalgono (in questo libretto, come accade
spesso ma non sempre, considero sinonimi etica e morale),
non c’è più motivo di un dibattito pubblico: si lascia tutto lo
spazio al conflitto, alla lotta, allo scontro. E l’etica del violento,
del prepotente, prevarrà — senza neppure una possibilità di
essere messa in crisi — sull’etica del nonviolento, del mite.
È ovvio che ogni persona, ogni famiglia, ogni nazione
abbia una propria etica: in questo senso ogni etica è relativa
a un punto di vista, relativa a un tempo della storia, relativa
a un luogo della spazio. La relatività è la caratteristica di ogni
essere limitato, parziale, mortale: non–relativi, cioè “assoluti”,
possono essere, se mai, certi valori (come la giustizia, la libertà,
l’uguaglianza, la fraternità. . . ). Ma anche se esistessero dei
valori eterni, assoluti, non relativi a niente e a nessuno, la loro
traduzione nella storia sarebbe comunque “relativa” a certi
ambienti e a certi periodi. Anche i valori più sacri devono
accettare di sporcarsi, di mischiarsi con la polvere delle strade
dell’uomo, se vogliono essere incarnati.
Se il relativismo — o come preferirei: la relatività — dell’etica è inevitabile, né inevitabile né auspicabile è invece
l’indifferentismo. Ci sono mille modi di cantare l’amore di una
donna o di dipingere il tramonto del sole (due “valori” elevati,
nobili, pregiati): ma ciò non significa che il modo di cantare
la propria donna da parte di Petrarca o di Neruda sia dello
stesso livello del modo di cantare la propria donna da parte di
mio nonno o di un paroliere di musica popolare napoletana.
Così come un quadro di Leonardo da Vinci o di Van Gogh sia
interscambiabile con un quadro di mio zio o di un altro pittore
della domenica. Non sarebbe da cervelli sani dire: “Oggi è
sabato, ho due ore libere e dieci euro da spendere: vado ad
. Un’etica vale l’altra?

un cinema a caso, tanto per me qualsiasi film è indifferente!”.
Certo, se vuoi andare al cinema per stare in disparte con la
tua ragazza o per schiacciare in pace un pisolino, un film vale
l’altro; ma se vai al cinema per andare al cinema — per fare
un’esperienza estetica, intendo — non penserai mai che tutto
vada ugualmente bene, che tutto faccia brodo. . .
Detto altrimenti: le etiche sono di fatto molte, ma ciò non
significa che, dal punto di vista del giudizio che ne possiamo
dare, siano della stessa qualità. È infantile pensare che esista un’etica perfetta (in genere la propria) e che tutte le altre
siano sbagliate; ma altrettanto sciocco rinunziare a valutare
(mediante l’osservazione della vita, lo studio, il dialogo, la riflessione razionale. . . ) le diverse etiche che incontriamo, dalle
più vicine (l’etica della nostra famiglia o della nostra etnia)
alle più lontane (geograficamente o storicamente). Se ognuno
si tenesse dogmaticamente, passivamente, l’etica del proprio
ambiente di nascita, l’umanità sarebbe grosso modo all’età
della pietra: nessun Mosé avrebbe proposto le dieci “parole”
agli Ebrei, nessun Buddha avrebbe proposto il suo quadruplice “sentiero” agli Indiani, nessun Socrate avrebbe proposto ai
Greci la sua “terapia” per curare l’anima degli individui e delle
città. . . e così via sino ai nostri giorni. Una delle esperienze
che ho potuto osservare da vicino, non senza stupore, è come
alcuni ragazzi di famiglia mafiosa siano stati capaci di mettere
a confronto l’etica paterna e materna, condivisa da fratelli e
cugini, con altre etiche testimoniate da insegnanti o da compagni di scuola, da militanti politici o da preti. Non avrebbero
percorso nessun cammino se fossero stati convinti di essere al
% nella verità morale o, al contrario, dell’impossibilità per
sé stessi e per ciascun essere pensante di uscire, almeno lentamente e parzialmente, dalla “caverna” dei condizionamenti
familiari e sociali.
Capitolo III
Il metro per misurare
la validità di un’etica
Ognuno di noi, dunque, si trova nella condizione di poter
soppesare — se non vuole accontentarsi dell’etica ricevuta
attraverso l’educazione — varie ipotesi: certo, innanzitutto
l’etica familiare (perché escludere che, per un colpo di fortuna,
si sia nati nell’ambiente moralmente migliore del pianeta?),
ma anche l’etica dei vicini di casa musulmani; o l’etica liberal–
borghese del datore di lavoro; o l’etica francescana adottata
da un gruppo di suore che hanno rinnovato un antico eremo disabitato sulla montagna che domina il paese; o l’etica
edonistico–consumistica esaltata da alcuni personaggi pubblici di successo che si vantano d‘essere diventati modelli di
comportamento per intere generazioni. . . La lista potrebbe
allungarsi. Forse si potrebbe arrivare a sostenere, senza esagerazione, che esistono tante etiche — tanti modi di concepire la
vita e di viverla effettivamente — quanti sono gli esseri umani
in un determinato momento della storia.
In concreto, come soppesare queste diverse possibilità di
vivere? Con che criterio valutarle per poi scegliere la più convincente ai nostri occhi (o costruire una propria etica inedita)?
La storia ci presenta varie unità di misura, vari metri di giudizio, a cui solitamente uomini e donne ricorrono per orientarsi. Mi limito a cinque criteri principali (che, per altro, sono


Etica
poi interpretati a loro volta in versioni diversificate che non
possiamo esaminare in un breve testo di avviamento).
.. È bene ciò che è comandato da Dio?
Un primo criterio è la volontà divina: per chi lo sceglie, l’etica
migliore è l’etica che manifesta, e incarna, la volontà di Dio (o
degli dei). Gli esseri umani vaghiamo nella notte del dubbio
e dell’inquietudine, ma non siamo condannati a restarvi sino
alla morte: possiamo aprirci a una “rivelazione” superiore
che ci dice, con chiarezza e autorevolezza, che cosa è bene
e che cosa è male; che cosa bisogna fare e che cosa bisogna
evitare. Si tratta di uno scenario indubbiamente seducente:
chi di noi, se potesse, non seguirebbe comandamenti e divieti
provenienti dall’Essere supremo? Rifiutarsi di farlo sarebbe
stupido come un cliente che, avendo acquistato un elettrodomestico, si rifiutasse di leggere le istruzioni scritte per lui
proprio dagli inventori–produttori di quell’apparecchio. C’è
però una difficoltà non secondaria, anzi ce ne sono due. La
prima: chi mi dice che un Essere supremo esista e voglia parlarmi? Le scienze astrofisiche e biologiche ci rappresentano
un universo che — come già notava Pascal nel XVII secolo
— tanto ci parla di un Dio quanto ce lo nasconde. Ammesso
che qualcuno superi questa prima difficoltà (o con un processo
razionale o con un atto di fede), gli si para davanti una seconda
difficoltà: tante chiese e tanti partiti dicono di essere ispirati
da Dio e che la loro etica è la traduzione per il popolo delle
verità soprannaturali divine. Lo sostengono gli ebrei ortodossi
come i cristiani (specie i cattolici) e i musulmani; come lo
sostenevano gli antichi legislatori egiziani, greci e romani, per
non parlare degli esponenti degli Stati nazi–fascisti che qua-
. Il metro per misurare la validità di un’etica

lificavano “etico” lo Stato italiano o lo Stato tedesco perché,
secondo la loro convinzione, esso era “l’incarnazione di Dio
nella storia” e ciò che ordinava o proibiva lo Stato diventava
giusto o sbagliato per il solo fatto che era lo Stato a dichiararlo
tale.
.. È bene ciò che è utile all’individuo (e possibilmente
alla società)?
Per quanti non sono convinti di ricevere dal Creatore informazioni sulla struttura e il funzionamento dell’essere umano,
né direttamente né attraverso mediazioni storiche, si profila
un’alternativa: adottare, come criterio di giudizio delle varie
proposte etiche, l’utilità individuale e collettiva. Davanti a ogni
dilemma morale (pagare o non pagare le tasse? Restituire o
non restituire il denaro ricevuto in prestito? Instaurare o evitare una relazione extra–coniugale?. . . ), in questa prospettiva
dovremmo scegliere ciò che risulta più utile a noi (a noi come
singoli e, possibilmente, a noi come società). Si tratta di un
criterio in molti casi davvero istruttivo: non sempre, infatti, si
hanno tutti gli elementi per valutare una situazione né si può
rimandare, di un’ora o di un mese, la decisione.Tuttavia, se
per utile intendiamo ciò che è conveniente economicamente
o piacevole psicologicamente, dobbiamo ammettere che ci
sono casi in cui l’utile non coincide con ciò che riteniamo
giusto (eticamente). Non c’è dubbio, infatti, che da nessun
punto d vista può risultare utile, per il pescatore di Lampedusa,
accorrere in soccorso di un barcone in avarìa zeppo di africani
che tentano di sbarcare in Italia: egli può dover interrompere
la propria attività di pesca, cambiare programmi, ritornare a
casa a reti vuote; deve prevedere fastidiosi interrogatori con le

Etica
forze di polizia e addirittura rischiare la galera per favoreggiamento di sbarchi clandestini. Ciònonostante, ce la sentiremmo
di condannare come immorale, come eticamente riprovevole,
la sua scelta di soccorrere persone a rischio di naufragio, solo perché non utile, anzi francamente dannosa? È soprattutto
in queste situazioni–limite (come le chiamerebbe il filosofo
tedesco Karl Jaspers) che si manifesta l’insufficienza di ogni
utilitarismo etico (o, se si preferisce, di ogni etica fondata sul
principio dell’utilità).
.. È bene ciò che sentiamo, emotivamente, come gradevole?
Chi non si accontenta del criterio dell’utilità si appella, come sembrerebbe dalla domanda che io stesso mi sono posto
poche righe fa (“Ce la sentiremmo di condannare come immorale la scelta del pescatore di Lampedusa?”), al criterio del
sentimento. Ci sono decisioni, gesti, azioni che urtano contro
qualcosa di intimo, di pre–razionale, in ciascuno di noi: lo si
può chiamare il “cuore” o il “buon gusto” o la “sensibilità”
o con altri termini ancora. In etica saremmo molto vicini al
mondo dell’arte e, in genere, della bellezza: un quadro, un
film, un panorama ci piace o non ci piace; ci attira o ci respinge; provoca la nostra approvazione o il nostro rifiuto. Punto e
basta. Sarebbe impossibile spiegare perché un’impresa ci emoziona positivamente e un’altra ci emoziona negativamente:
proprio come avviene in fatto di musica o di cucina “sui gusti
non c’è da disputare”.
Anche questo criterio ha i suoi aspetti convincenti e per
milioni di persone è stato, è e sarà l’unico criterio efficace
nelle scelte morali: beato quel popolo dove la maggioranza