A08 151 Fotografie: Sabina Branciamore Tutti gli elaborati grafici, dove non specificato, sono dell’autore Filippo Amara Un progetto urbano per Asmara Guido Ferrazza e i nuovi mercati della capitale eritrea, 1935–1938 Un caso di restauro del moderno tra interpretazione e progetto Copyright © MMVII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–1321–2 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: settembre 2007 ai miei genitori Mimmo e Lina Ringraziamenti Questo libro è il frutto del lavoro da me svolto nel corso dei tre anni del Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica di Palermo. È doveroso dunque ringraziare i membri del Collegio dei Docenti del Dottorato, le cui osservazioni, critiche e incoraggiamenti mi hanno consentito di giungere a compimento di questo percorso di ricerca: il professor Cesare Ajroldi, attuale coordinatore del Dottorato e cotutor della mia ricerca, che nell’ultima fase del lavoro mi ha aiutato a individuare i punti di forza, le debolezze e le omissioni del mio lavoro; e i professori Giuseppe Arcidiacono, Antonino Della Gatta, Ludovico Fusco, Giuseppe Leone, Tilde Marra, Antonino Marino, Emanuele Palazzotto, Renata Prescia, Andrea Sciascia, Marcello Séstito. Un ringraziamento particolare va al professor Pasquale Culotta, coordinatore del Dottorato sino alla sua prematura scomparsa nel novembre del 2006, che ha seguito come tutor la mia ricerca. Non è stato un percorso semplice — come spesso accade quando si ha a che fare con uomini dalla forte personalità — e pertanto non sono mancate le incomprensioni reciproche, e i momenti difficili. Quello che non è mai mancato è stato invece il desiderio di conoscere e sperimentare; di guardare al già fatto e ricominciare; di continuare a cercare. 7 8 Ringraziamenti È triste, dunque, non poter ascoltare, ancora una volta, le sue critiche rispetto ai modi in cui i ragionamenti progettuali hanno infine preso forma in questo libro: critiche acute, spesso dure, capaci di entrare dentro le cose e rivoltarle; di mostrare che le soluzioni, anche quelle più meditate, non sono mai davvero tali; ma di far vedere, allo stesso tempo, che è proprio nel restare aperte delle questioni che attengono alla disciplina architettonica che risiede lo specifico del nostro, paziente, cercare. Ringrazio, ancora, i professori Giuliano Gresleri e Pier Giorgio Massaretti della Facoltà di Architettura “A. Rossi” di Cesena, Università di Bologna, che in un lungo incontro all’inizio del mio lavoro di ricerca mi hanno aggiornato sullo “stato dell’arte” in materia di studi sull’architettura coloniale italiana, e il professor Sandro Raffone della Facoltà di Architettura dell’Università di Napoli “Federico II”, con il quale ho avuto un breve scambio epistolare, che mi ha suggerito alcuni possibili casi di studio per la mia ricerca. Ringrazio, last but not least, il professor Michele Sbacchi, con il quale collaboro all’attività di didattica e ricerca da lui svolta presso la Facoltà di Architettura di Palermo, che mi ha insegnato a guardare con ironia e cartesiano scetticismo alle cose che facciamo, e a riconoscere negli esiti imprevisti — anche negativi! — il motivo più interessante per continuare a farle. Un lavoro di ricerca implica sempre delle difficoltà: la scelta di studiare l’architettura coloniale italiana in Eritrea — la più giovane nazione africana, provata da decenni e decenni di guerra di indipendenza contro l’Etiopia — rischiava di comportare difficoltà davvero insormontabili se non avessi potuto contare sulla disponibilità — e la pazienza! — di alcune, preziose, persone: Ringraziamenti 9 Ludovico Serra, Primo Consigliere dell’Ambasciata d’Italia in Eritrea dal 2002 al 2006, che, attraverso telefonate, lettere di presentazione e incontri, mi ha messo in contatto con le Autorità a vario titolo coinvolte nella gestione del patrimonio architettonico di Asmara, rendendo infinitamente più semplici e rapide le mie ricerche; Semere Abey, ingegnere, Direttore del Dipartimento delle Infrastrutture della Zoba Maekel, che mi ha consentito di consultare i materiali custoditi presso l’Archivio del Municipio di Asmara — spiegandomi peraltro con precisione i criteri di classificazione adottati, e mi ha fornito le autorizzazioni necessarie per effettuare i rilievi grafici e fotografici nell’area dei mercati; Gabriel Tzeggai, architetto e urbanista, direttore del CARP (Cultural Assets Rehabilitation Project), che mi ha messo a disposizione i materiali da loro prodotti — mappe, cataloghi, progetti di restauro, ecc. — e mi ha fatto da guida in una delle mie prime visite ai mercati di Asmara, condividendo con me i suoi ricordi d’infanzia di quei luoghi e le sue osservazioni da progettista; Dawit Debessay, architetto e urbanista, consulente del CARP, che mi ha messo al corrente del lavoro di redazione delle linee guida per la conservazione del centro storico di Asmara da lui svolto negli ultimi anni; Medhanie Estifanos, ingegnere, Direttore dello Sviluppo Urbano presso il Ministero dei Lavori Pubblici dell’Eritrea, che mi ha consentito di consultare alcuni documenti custoditi presso l’archivio del Ministero; il Mufti dell’Eritrea, Sheik Alamin Osman, che mi ha autorizzato ad effettuare i rilievi della Grande Moschea, e Negash Sirai, direttore della Biblioteca Islamica di Asmara, che mi ha accompagnato durante il mio primo sopralluogo ufficiale alla Moschea e si è adoperato affinché io avessi la massima collaborazione da parte dei custodi – invero gentilissimi; Frà Ezio Tonini, appassionato custode — e vero e proprio “catalogo vivente”! — 10 Ringraziamenti della Biblioteca Pavoniana di Asmara, che mi ha messo a disposizione le numerose pubblicazioni degli anni Trenta lì conservate, e la sua profonda conoscenza del paese; Naigzy Gebremedhin, architetto, primo direttore del CARP — probabilmente il più attento e appassionato conoscitore dell’architettura moderna di Asmara, che mi ha raccontato le lunghe e complesse vicende che hanno portato al riconoscimento del valore storico, artistico e culturale del patrimonio costruito di Asmara e delle città eritree, e che in più occasioni ha accettato di discutere con me gli avanzamenti della mia ricerca. Nel corso della ricerca ho potuto contare sull’aiuto di molte persone, ciascuna delle quali ha contribuito concretamente a rendere migliore questo lavoro: un ringraziamento particolare va a Metkel Rezene, Mussiè Kidane, Isaias Abraham, giovani geometri diplomati alla Scuola Italiana di Asmara, oggi studenti all’Università di Asmara, che mi hanno aiutato a fare i rilievi dei principali edifici nell’area dei mercati — divenendo, in certe occasioni, dei veri e propri… mediatori culturali!; ringrazio Adriano Ogliari, professore del Liceo “Marconi” di Asmara, che mi ha aiutato nella campagna fotografica e nel rilievo della Grande Moschea, e che, in mia assenza, ha proseguito la ricerca documentaria; ringrazio la professoressa Maria Mignosa, che ha riletto le diverse versioni di questo libro, aiutandomi a rimettere insieme i tanti frammenti accumulati nel corso degli anni; ringrazio i miei amici e colleghi Regina Bandiera, Valerio Bellini, Manfredi Mancuso, che, in un momento particolarmente complesso, mi hanno aiutato a dare forma alle tante intenzioni che altrimenti sarebbero rimaste tali. Ringraziamenti 11 Ma l’intero lavoro di ricerca non sarebbe nemmeno stato pensato se Sabina Branciamore, mia compagna nella vita e nel lavoro, non avesse deciso, qualche anno fa, di fare un’esperienza di insegnamento presso la Scuola Italiana di Asmara. Scoprire l’Eritrea insieme con lei — e grazie a lei! — ha dato un sapore speciale ai periodi da me trascorsi in quel paese, e fatto nascere il desiderio di approfondirne la conoscenza; sapere di trovarla lì, ha fatto di tutti i miei viaggi in Eritrea di questi anni una sorta di ritorno a casa. Sabina ha discusso con me questo lavoro in tutte le sue fasi, aiutandomi a precisarne il tema, a riconoscere per tempo i vicoli ciechi in cui ho rischiato di cacciarmi, e infine a concluderlo. In un senso profondo, questo lavoro — un pezzo del nostro cammino — appartiene ad entrambi. Indice 17 Premessa Un viaggio, una ricerca 23 Introduzione Il Moderno italiano in situazione coloniale: conoscenza, conservazione, restauro Gli studi sull’architettura coloniale italiana moderna Asmara, Eritrea. Una città moderna nel Corno d’Africa Il restauro dell’architettura moderna nelle ex colonie italiane in Africa: la ridefinizione dell’area dei Mercati e la Grande Moschea di Asmara 23 26 35 45 Parte I L’attività progettuale di Guido Ferrazza ad Asmara 47 Capitolo I Architetto coloniale integrale Classicismo e mediterraneità: il dibattito sull’architettura coloniale italiana negli anni Venti e Trenta Il problema del costruire nell’impero 56 66 13 14 Indice 79 Capitolo II L’area dei Mercati di Asmara: un progetto urbano per la capitale dell’Eritrea 103 Parte II Il sistema dei Mercati di Asmara come progetto architettonico e urbano 105 Capitolo I Documenti e progetto Fonti indirette. Pubblicazioni di propaganda degli anni Trenta Fonti dirette. L’Archivio progetti del Municipio di Asmara Il progetto di ridefinizione dell’area dei Mercati I progetti per l’unificazione dei fronti della piazza della Moschea I progetti di trasformazione dei passaggi laterali della Moschea Repertorio fotografico 110 115 118 121 124 131 135 Capitolo II Le tracce fisiche del progetto 153 Capitolo III La Grande Moschea come cerniera urbana del sistema dei mercati Progetto preliminare. I principi architettonici e urbani dell’intervento Lo statuto teorico del progetto preliminare Coerenza tra linguaggio architettonico e costruzione Ornamento e decorazione Continuità dello spazio urbano attraverso l’architettura 154 155 166 169 177 Indice 181 182 186 187 189 199 203 211 15 Progetto definitivo. Il restauro del principio urbano attraverso il ripristino dei passaggi laterali della Grande Moschea Lo statuto teorico del progetto definitivo Le forme specifiche del restauro del principio urbano Ricostituzione della continuità tra gli spazi del sistema dei mercati Restituzione del carattere urbano dei passaggi laterali attraverso la riprogettazione degli edifici adiacenti Conclusioni Autonomia disciplinare e situazione postcoloniale Principi architettonici e progetto nel restauro del moderno Il restauro del Moderno nelle ex colonie italiane d’oltremare: trasformazioni culturali e resistenza dei principi architettonici Bibliografia ragionata Premessa Un viaggio, una ricerca Il viaggio è uno dei principali strumenti di conoscenza a disposizione dell’uomo. Non occorre volgere lo sguardo alla figura di Ulisse, che, nella cultura occidentale, introduce l’idea del viaggio come metafora della conoscenza, per vedere lo strettissimo legame che esiste tra il movimento del corpo verso una meta geografica e quello della mente verso una meta conoscitiva. Il viaggio è una ricerca; c’è una corrispondenza, infatti, tra le fasi del viaggio vero e proprio e quelle della ricerca: c’è un punto di avvio — un luogo fisico/lo stato dell’arte di una disciplina; un percorso — le strade/il metodo; una meta — un nuovo luogo fisico/un nuovo stadio della conoscenza. Nella ricerca architettonica il viaggio ha sempre occupato una posizione centrale: il viaggio, per tutto il periodo precedente alla riproducibilità tecnica delle immagini, è stato l’unico mezzo a disposizione degli architetti per imparare dagli esempi l’arte/la scienza del costruire. C’è 17 18 Premessa un viaggio all’origine del Rinascimento italiano: quello di Brunelleschi a Roma, alla ricerca della sapienza costruttiva degli antichi — del disegno e della costruzione. Ed è nel viaggio, forse, che possiamo ritrovare il senso più pieno della recherche patiente di Le Corbusier; una ricerca che porta il giovane Jeanneret in Grecia e in Italia, a “scoprire” la classicità, e che porterà Le Corbusier a riconoscere in quella classicità l’esprit nouveau a cui aspirava per l’architettura, che vedeva già presente in maniera naturale nelle realizzazioni dell’ingegneria meccanica: piroscafi, aeroplani, automobili — queste ultime associate al Partenone nelle pagine di Vers une architecture. Un viaggio lungo una vita, che gli farà attraversare il mondo, ed amarlo in tutte le sue forme — natura e artificio; e che saprà, di volta in volta, portare dentro la sua architettura. C’è un viaggio, all’origine di questa ricerca. Un viaggio che, nato per tutt’altri motivi, mi ha rivelato l’esistenza di un paese, l’Eritrea, appena uscito da una guerra di indipendenza dall’Etiopia durata trent’anni, povero di risorse ma ricco di tradizione; di un popolo poverissimo ma orgoglioso della sua riconquistata identità e della sua cultura; di una città, Asmara, tanto “italiana” nell’architettura quanto “eritrea” nella vita quotidiana, nei colori, negli odori. Un viaggio, una ricerca 19 Per un architetto è facile restare affascinato dalle città dell’Eritrea e da Asmara in particolare: realizzata quasi integralmente negli anni Trenta nella fase più aggressiva ed espansionista del colonialismo mussoliniano e miracolosamente intatta dopo anni di guerre e d’inevitabile incuria, si presenta oggi come una sorta di museo vivente della ricerca architettonica moderna. Una prima occasione di sistematizzazione di quanto avevo “scoperto” in occasione di quel mio primo viaggio mi è stata offerta da Pasquale Culotta, che, nel 2002, mi ha invitato a svolgere, presso il Laboratorio di Progettazione Architettonica da lui tenuto alla Facoltà di Architettura di Palermo, una lezione sull’architettura moderna italiana in Eritrea. In quella circostanza ho, per la prima volta, provato a vedere l’ingente patrimonio architettonico e urbano realizzato dagli italiani negli anni della loro permanenza in questo paese, dal punto di vista della scienza del progetto. Mi sono così reso conto che, al di là del valore delle singole opere, ciò che rendeva — e rende — di grande interesse disciplinare il “caso Eritrea” è lo strettissimo rapporto che intercorre tra l’architettura e la città; fatto, questo, in verità per niente scontato nel caso dell’architettura moderna, che, come è noto, nelle sue elaborazioni più avanzate degli anni Trenta, mette in discussione il concetto stes- 20 Premessa so di “forma urbana” quale si era definito sino alle soglie del XX secolo, arrivando a prospettarne la tabula rasa — perlomeno sul piano concettuale. Città come Asmara, ma anche come Dekamhare, Keren, Mendefera, e l’isola di Taulud a Massawa, mostrano nei fatti la possibilità dell’architettura moderna di convivere con un’idea di città che non operi radicali rotture con la cultura urbana tradizionale. Nei centri urbani dell’Eritrea la strada, la piazza e l’isolato convivono con l’edificio libero e la città-giardino, in un interessantissimo equilibrio di elementi e parti eterogenee. Un equilibrio eclettico e moderno, in cui tanto l’ecletticità — dei riferimenti, dei repertori stilistici — quanto la modernità — delle aspirazioni, delle pratiche progettuali, delle tecniche — si incontrano attraverso un naturale rapporto con la tradizione disciplinare, e, in alcune situazioni, con la cultura costruttiva locale. Due anni dopo, nell’ambito del Dottorato di ricerca in Progettazione architettonica dell’Università di Palermo, sotto la guida di Pasquale Culotta, ho avuto l’opportunità di continuare quel lavoro, questa volta entro un programma di ricerca rigoroso e strutturato: il Restauro del Moderno1. 1. Il Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica di Palermo (Sede Amministrativa: Università degli Studi di Palermo — Facoltà di Architettura; Sedi Consorziate: Università degli Studi di Napoli “Federico II” — Facoltà di Architettura, Università degli Studi di Reggio Calabria — Facoltà di Architettura), a partire dal XVI ciclo Un viaggio, una ricerca 21 Tornare in Eritrea, ad Asmara, e rivedere quella città e quelle architetture con uno sguardo orientato al progetto, all’individuazione dei principi architettonici e urbani alla base di quelle realizzazioni, ha radicalmente modificato il mio punto di vista: lo sguardo del turista curioso si è trasformato a mano a mano nell’osservare attento e partecipe dello studioso: attraversare quegli edifici e quegli spazi; misurarli con il corpo e con il ragionamento; disegnarli per restituirli alla scrittura propria del progetto di architettura, ripercorrendo in qualche modo a ritroso il processo progettuale dell’autore; confrontarli con i documenti per ritrovarne i principi; e infine — e durante — provare, attraverso il progetto, a re-instaurare quei principi, a rimetterli al centro della trasformazione continua che è per certi versi connaturata all’architettura. Il mio viaggio è, così, nel corso del tempo, diventato questa ricerca2. (a.a. 2001–2002) ha avviato un programma di ricerca sul Restauro del Moderno, nel cui ambito sono stati studiate opere e autori rappresentativi dell’architettura moderna italiana e internazionale tra gli anni Venti e Sessanta del Novecento (programma formativo e obiettivi del Dottorato sono reperibili in http://www.unipa.it/dispa/dottprogarch.htm). 2. Il presente lavoro costituisce una rielaborazione della tesi da me elaborata nel corso del XVIII ciclo del Dottorato, dal titolo: Guido Ferrazza: la Grande Moschea e la ridefinizione dell’area dei mercati di Asmara (1935–38). Un caso di restauro del moderno nelle ex colonie italiane in Africa, tutor prof. Pasquale Culotta, cotutor prof. Cesare Ajroldi. Introduzione Il Moderno italiano in situazione coloniale: conoscenza, conservazione, restauro Gli studi sull’architettura coloniale italiana moderna La cultura architettonica italiana contemporanea ha lungamente rimosso la questione del patrimonio architettonico e urbano coloniale. A parte l’ovvio legame con il regime fascista di gran parte delle realizzazioni riferibili a quel periodo, che, insieme con l’idea stessa di “colonialismo”, certamente ha contribuito a tale rimozione, un ulteriore ostacolo ad un riesame critico della produzione architettonica dell’Italia coloniale era oggettivamente costituito dalla quasi totale assenza di documenti relativi a quella produzione — oltre che dalla distanza e dalle complesse condizioni politiche delle ex colonie, in particolare di quelle dell’Africa Orientale (Eritrea, Etiopia, Somalia). É solo a partire dal 1987 che Giuliano Gresleri avvia, presso l’Istituto di Architettura e Urbanistica dell’Università di Bologna, una ricerca sistematica sull’architettura del colonialismo italiano, che ha 23 24 Introduzione come primo esito la pubblicazione, nel 1992, di un numero monografico della rivista «Rassegna», dedicato all’architettura nelle colonie italiane in Africa1. A questo segue, nel 1993, il volume Architettura italiana d’Oltremare, curato dallo stesso Gresleri insieme con Pier Giorgio Massaretti e Stefano Zagnoni2, catalogo della mostra tenutasi a Bologna presso la Galleria d’Arte Moderna nello stesso anno, in cui gli studi presentati su «Rassegna» vengono ampliati alla luce delle ulteriori fonti documentarie resesi nel frattempo disponibili. Questi studi hanno rivelato la presenza di un patrimonio architettonico e urbano di notevole consistenza, “complesso e contraddittorio” tanto sul piano delle procedure (dalla committenza alla realizzazione) quanto su quello degli esiti formali, ma spesso di grande interesse disciplinare: gli edifici e le città coloniali mostrano infatti le ricadute del dibattito teorico italiano che, negli anni tra le due guerre mondiali, verteva sulle modalità di ricezione delle istanze della modernità nella cultura architettonica nazionale. Il limite degli studi sin qui condotti, peraltro fondamentali, risiede nella mancanza di riscontro con la realtà costruita dei luoghi di cui si tratta; limite che diventa particolarmente evidente nel caso dell’Eritrea, 1. Architettura nelle colonie italiane in Africa, «Rassegna», n. 51/3, 1992. 2. G. GRESLERI, P. G. MASSARETTI, S. ZAGNONI, (a cura di), Architettura italiana d’Oltremare, Venezia 1993. Il Moderno italiano in situazione coloniale 25 primo possedimento coloniale italiano — “colonia primigenia” — eppure, sorprendentemente, quasi mai menzionata nell’ambito del dibattito architettonico degli anni Trenta sul tema del costruire in colonia, nemmeno in riferimento alle numerose architetture realizzate, da Assab, a Massawa, ad Asmara — le tre città succedutesi come capitale della colonia — a partire dalla fine dell’Ottocento. Gli unici (o quasi) materiali di rilevanza disciplinare disponibili in Italia sull’Eritrea sono, infatti, quelli relativi alla sua storia urbana, cioè la serie dei rilievi cartografici, dei piani regolatori e dei documenti a questi riferibili, succedutisi a partire dal 1895, ed è pertanto su questi che si sono basati gli studi condotti dal gruppo di Gresleri, mettendo in evidenza “l’aggiornatissima organizzazione territoriale e urbana”3 della colonia a partire dall’inizio del secolo. Allo stesso tempo la mancanza di fonti documentarie riferibili alle realizzazioni architettoniche ha fatto sì che quasi nessuna attenzione abbia potuto essere dedicata al modo in cui l’architettura ha dato corpo alla pianificazione urbana. Emblematico è il caso della città di Asmara, capitale dell’Eritrea, le cui architetture costituiscono un vero e proprio catalogo delle tendenze dei primi anni del XX secolo, conferendo alla città la sua caratteristica immagine “modernista”: solo nel suo scritto più recente Gresleri fa 3. G. GRESLERI, Architettura e città in “Oltremare”, in G. CIUCCI, G. MURATORE (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il primo novecento, Milano 2004, pp. 416–441 (p. 416). 26 Introduzione cenno al «numero impressionante di edifici di grande interesse che solo in anni recenti hanno destato l’attenzione della critica»4, citando i nomi e le realizzazioni di alcuni dei protagonisti del “miracolo asmarino”5 e pubblicandone alcune fotografie. Più approfonditi in questo senso sono gli articoli di Sandro Raffone, in particolare Il Razionalismo dimenticato in Africa Orientale, pubblicato su «Casabella» nel 1989, in cui per la prima volta le opere di architettura coloniale italiana moderna in Eritrea vengono poste all’attenzione della comunità scientifica attraverso la conoscenza diretta dei luoghi e una documentazione fotografica originale. Asmara, Eritrea. Una città moderna nel Corno d’Africa È certamente una sorpresa per il visitatore occidentale che si trovi oggi a passeggiare per Asmara, scoprire, sugli altopiani dell’Africa Orientale, una città che sembra provenire direttamente dall’Italia degli anni tra le due Guerre: edifici dai volumi semplici — cinema, residenze, stazioni di servizio, magazzini — allineati lungo ampi viali alberati nelle zone centrali della città, che lasciano il posto a ville immerse nel verde nelle aree limitrofe6. 4. 5. Ivi, p. 430. Ivi, p. 416. Figura 1. Asmara, scorcio di Harnet Avenue (foto 2003). Il Moderno italiano in situazione coloniale 27 In effetti non è raro trovare nelle ex–colonie europee esempi anche numerosi di architettura “modernista”; quello che è invece un caso quasi unico è la presenza di una intera città moderna, realizzata quasi interamente negli anni Trenta e praticamente intatta. Una collezione vastissima di edifici, ascrivibili alle principali linee di ricerca dell’architettura internazionale di quegli anni: cinema decò, stazioni di servizio futuriste, e soprattutto ville, residenze e alberghi razionalisti, ma anche numerosi edifici liberty o eclettici; pochi di questi di grande rilevanza artistica, ma quasi tutti di buon livello, e organizzati in una struttura urbana chiara e ben ordinata. Praticamente dimenticata per quasi tutta la seconda metà del Novecento, è solo a partire dalla metà degli anni Novanta che Asmara ritorna pian piano all’attenzione della comunità internazionale7, scien- Figura 2. 2001). Sede AGEA, Asmara, 1938 ca. (foto 6. La stessa sorpresa ritroviamo in un libretto pubblicato dal Ministero dell’Informazione britannico nel 1944, pochi anni dopo l’arrivo delle truppe alleate in Asmara, in cui si descrive «una città di ampi boulevard, di super–cinema, di edifici super–fascisti, di caffé, di negozi, di strade a doppio senso di circolazione e alberghi di prima classe». Cfr. G. DOWER, The First to be Freed, London 1944. L’autore prosegue, naturalmente, evidenziando anche le contraddizioni della città, e segnatamente le precarie condizioni di vita di larghissima parte della popolazione locale, di fatto segregata in bidonville periferiche caratterizzate dall’assenza di acqua corrente e fognature. 7. Cfr. M. CASCIATO, Asmara: architettura italiana d’oltremare, in «Docomomo Italia — giornale», n. 6, 1999: «Avvenimenti recenti hanno riportato l’attenzione sul futuro delle città costruite in Africa durante il periodo coloniale italiano, dagli anni ottanta del XIX secolo sino alla caduta del fascismo. Asmara, che oggi rappresenta il cuore vitale di una nazione in un 28 Introduzione tifica e non, grazie ad alcuni articoli pubblicati da Mike Street, un ingegnere inglese, sul settimanale “Eritrea Profile” e alle iniziative della Scuola Italiana di Asmara, che nel 1998 pubblica Asmara Style, in cui per la prima volta si tenta una ricognizione generale del patrimonio costruito della città e si pone il problema della sua conservazione8. Ciò che questi contributi mettono in evidenza è la rilevanza della città nel suo insieme e non come sommatoria di episodi architettonici. È la città, dunque, che deve essere conservata: un vero e proprio museo en plein air dell’architettura e dell’urbanistica moderne; una modernità non ortodossa e dogmatica, ma frutto della compresenza e della contaminazione, in grado di tenere insieme tradizioni e aspirazioni diverse. L’attuale stato di conservazione della città nel suo insieme è tale da rendere relativamente semplice un’operazione di salvaguardia del patrimonio costruito; le favorevoli condizioni climatiche, insieme con settore strategico del Corno d’Africa, con le sue architetture moderne offre motivi di riflessione. Il dibattito si dipana intorno alla questione teorica del riconoscimento di valore di quel patrimonio, una presa di coscienza che quindi segni il suo futuro in direzione della conservazione, e a quella operativa della messa a punto di un know–how tecnico–urbanistico che permetta la modernizzazione della città. Quest’ultimo passaggio fa balzare agli occhi quanto ben più complessa sia la questione quando la salvaguardia non si limiti a operare in favore del singolo edificio, ma si estenda al tessuto urbano. Come la conservazione può camminare di pari passo con quel continuo processo di trasformazione che investe anche quelle città costruite nella prima metà di questo secolo con l’intento di esprimere i principi estetici e etici del pensiero moderno?». Figura 3. B. SCLAFANI, Casa del Fascio, Asmara, 1940 (foto 2003). Il Moderno italiano in situazione coloniale Figura 4. R. DANIELE, Cinema Augustus, Asmara, 1938 (foto 2005). 29 la buona fattura degli edifici, hanno consentito alla gran parte di questi di giungere ad oggi praticamente intatti. Ma tutto questo non sarebbe stato sufficiente se non si fosse sommata una serie di circostanze, tragiche e fortuite allo stesso tempo: prima nella Seconda Guerra Mondiale, quando la sconfitta nella battaglia di Keren, nel 1941, determinò una rapida capitolazione dell’esercito italiano, risparmiando così Asmara dai bombardamenti; poi, dagli anni Sessanta, durante la lunga guerra di indipendenza dall’Etiopia — a cui l’Eritrea era stata annessa da una discutibile scelta di realpolitik dell’ONU, immediatamente dopo la scadenza del mandato britannico sulla nazione — quando la caduta del dittatore etiopico Menghistu, nel 1991, determinò di fatto la fine della guerra, rendendo inutile la battaglia per la conquista della capitale, che fu liberata, praticamente senza sparare un colpo. A questi fatti occorre aggiungere la sostanziale condizione di isolamento del paese a partire dagli anni Quaranta, inizialmente dovuta alle scelte dell’amministrazione britannica e poi alla guerra, che contribuì a rallentare, se non addirittura a bloccare, lo sviluppo della città, cristallizzando Asmara nell’aspetto che aveva alla fine degli anni Trenta. Con l’indipendenza del paese, sancita definitivamente da un referendum popolare nel 1993, l’Eritrea avviava una fase di rapido sviluppo 8. Cfr. L. ORIOLO (a cura di), Asmara Style, Asmara 1998. Il libro contiene anche una rielaborazione degli articoli di Mike Street precedentemente pubblicati su “Eritrea Profile”. 30 Introduzione economico e sociale che, per qualche anno, ha fatto guardare a questo piccolo paese africano come ad una sorta di modello possibile di crescita equilibrata per i paesi in via di sviluppo. Ciò era dovuto al grande entusiasmo del popolo eritreo e al prestigio apparentemente illimitato di cui godeva la nuova classe dirigente, formatasi sul campo della lotta di liberazione nei trent’anni precedenti. Il capo di stato, Isaias Afeworki, era considerato dalla comunità internazionale — USA in testa — un esempio di leadership illuminata. In quel contesto venivano avviate, grazie all’impegno di alcuni studiosi e appassionati — tra i quali occorre innanzitutto menzionare Naigzy Gebremedhin, architetto eritreo formatosi al MIT e rientrato in patria negli ultimi anni della guerra di indipendenza — diverse iniziative volte a favorire la riappropriazione da parte del popolo eritreo della propria identità culturale; grazie a questi l’esistenza del patrimonio costruito di Asmara e dell’Eritrea è tornata all’attenzione della comunità internazionale, attraverso una serie di mostre fotografiche, convegni, articoli. Tali iniziative culminavano nel 1999 con l’istituzione, da parte del governo eritreo, con il sostegno della World Bank, di un progetto denominato CARP (Cultural Assets Rehabilitation Project)9 con il quale si 9. «Il CARP è una iniziativa del Governo Eritreo e della gente dell’Eritrea per il riconoscimento dell’importanza della conservazione di tutti gli aspetti del patrimonio culturale della nazione come affermazione dei suoi attributi distintivi spirituali, materiali, intellettuali ed emozionali. La conservazione del patrimonio culturale è intrapresa attraverso quattro principali atti- Figura 5. BELTRAMI, Magazzini Spinelli, Asmara, 1938 (foto 2005). Il Moderno italiano in situazione coloniale Figura 6. M. MESSINA, Cinema Impero, Asmara, 1937 (foto 2005). 31 intendeva avviare una ricognizione a tutto campo del patrimonio culturale del paese in senso lato, provvedendo al suo riconoscimento, valorizzazione e conservazione, attraverso l’istituzione di archivi, centri di documentazione e l’avvio, per quanto concerne l’ambiente costruito, di una catalogazione degli edifici, volta alla loro conservazione e restauro. Inizialmente sotto la direzione di Naigzy, il CARP incominciava una campagna di catalogazione degi edifici “storici” di Asmara — vale a dire della sua architettura moderna, essendo Asmara stata quasi integralmente costruita negli anni Trenta — e, contestualmente, l’individuazione di un “perimetro storico” della città, da sottoporre a vincolo di conservazione totale in attesa di definire delle procedure per il suo recupero. L’attività del CARP relativa all’architettura ha sin qui prodotto alcuni importanti risultati, tra cui si segnala: l’individuazione dell’area di maggiore rilevanza storico–artistica della città di Asmara (Historical Perimeter) e di un sistema di regole e vincoli per la sua conservazione vità: conservazione dei monumenti; conservazione dell’ambiente costruito delle città dell’Eritrea, incluse Massawa ed Asmara; sostegno per le culture viventi (includendo la poesia, la danza e il folklore) e protezione di documenti attraverso lo sviluppo degli archivi nazionali e regionali. Parte del Dipartimento per la Cooperazione internazionale, le macro–politiche e il coordinamento economico, il CARP è guidato da un coordinatore a tempo pieno. Un comitato promotore di sette membri fornisce le linee–guida. La Banca Mondiale è partner del progetto». Cfr. E. DENISON, G.Y. REN, N. GEBREMEDHIN, Asmara. Africa’s Secret Modernist City, London–New York 2003, p. 8. 32 Introduzione (Planning Initiative for the Historical Perimeter of Asmara, aprile 2003), a cui ha fatto seguito la redazione di alcuni progetti–campione per il restauro di alcuni edifici di rilevanza storico–monumentale delle città di Asmara e Massawa (Poste Centrali, Teatro Comunale, ex–sede dell’Alfa Romeo ad Asmara; Palazzo Imperiale a Massawa); la realizzazione di un regesto dei materiali progettuali di rilevanza storica custoditi presso l’Archivio del Municipio di Asmara — il cosiddetto Green Book — in cui i documenti d’epoca vengono collegati agli edifici attualmente esistenti in città; la pubblicazione dei volumi: Asmara. A Guide to the Built Environment, Asmara 2003, e Massawa. A Guide to the Built Environment, Asmara 2005, entrambi a cura del CARP, che offrono una sintetica presentazione degli edifici e dei contesti urbani significativi delle due città, e di Asmara. Africa’s Secret Modernist City, London–New York 2003, a cura di Edward Denison, Guang Yu Ren, Naigzy Gebremedhin, in cui viene approfondita la storia urbana di Asmara dalle origini ad oggi e analizzati i più importanti edifici realizzati nei diversi periodi. Allo stato attuale, a causa della difficile situazione politica ed economica del paese, le attività del CARP hanno subito un rallentamento. Cionondimeno dei passi avanti sono stati fatti rispetto all’individuazione di procedure condivise per gli interventi entro il perimetro storico, Figura 7. G. PETTAZZI, FIAT Tagliero, Asmara, 1938 (foto 2002). Il Moderno italiano in situazione coloniale Figura 8. G. PETTAZZI, FIAT Tagliero, Asmara, 1938 (foto 2005). 33 e, attraverso dei consulenti internazionali, sono stati redatti alcuni progetti per il restauro e il riuso di alcuni dei più significativi edifici della città. Occorre però osservare che, al di fuori di un circostanziato e scientificamente fondato ragionamento sui modi e gli obiettivi del restauro, si corre il rischio di compromettere irreparabilmente il patrimonio che si intende tutelare: alcuni dei progetti prima menzionati, e alcuni “restauri” in corso di esecuzione, purtroppo, sembrano andare nella direzione sbagliata. Va osservato altresì che il pur meritevole lavoro del CARP non è sufficiente a garantire la conservazione dell’ambiente costruito di Asmara e dell’Eritrea in generale. Sino ad oggi la delimitazione del perimetro storico della città — e il sostanziale blocco di ogni attività edilizia al suo interno — ha evitato che la spinta speculativa riuscisse a distruggere quello che gli eventi bellici e il passare del tempo avevano risparmiato; ma è chiaro che questa non può essere una strategia efficace nel lungo periodo. Alcuni imprenditori privati sono attualmente impegnati in progetti di restauro di edifici inclusi nel perimetro storico di Asmara: emblematico è il caso della Fiat Tagliero, vera e propria icona della Asmara moderna. Si tratta di una stazione di servizio, progettata dall’ingegne- 34 Introduzione re Giuseppe Pettazzi nel 1938, caratterizzata da forme aerodinamiche e dalla presenza di due vere e proprie “ali” a sbalzo in cemento armato, della luce di circa 20 mt ciascuna. L’edificio, in disuso da qualche anno, è stato acquistato da un imprenditore eritreo del settore della ristorazione, che ne ha intrapreso il restauro e la trasformazione in ristorante di lusso. Dopo lunghe trattative con il CARP e con il Municipio di Asmara è stato trovato un accordo sulle trasformazioni ammissibili: in particolare, per rendere disponibile una superficie coperta, tale da rendere — agli occhi dell’imprenditore — remunerativo l’investimento, si è acconsentito alla chiusura degli spazi sotto le due ali con dei grandi infissi vetrati — spazi che così diventeranno la sala ristorante, e al frazionamento del piccolo volume posto al centro delle ali — da destinare a cucine e servizi. Si tratta, come è chiaro, di una soluzione di compromesso che, dietro una malintesa idea di reversibilità dell’intervento, snatura gravemente l’edificio, sia nella forma che nei rapporti con il contesto. I limiti dell’intervento, approvato e ad oggi in corso di esecuzione, sono peraltro noti ai membri del CARP, i quali hanno alla fine accettato questa soluzione per evitare che l’inutilizzo della struttura potesse indurre a soluzioni più drastiche e, questa volta sì, davvero “irreversibili”. Figura 9. FIAT Tagliero, lo spazio interno prima delle modifiche (foto 2003). Figura 10. FIAT Tagliero, lo spazio interno durante i lavori di trasformazione (foto 2005). Il Moderno italiano in situazione coloniale 35 L’assenza nel paese di una vera Scuola di Architettura costituisce senza dubbio un ostacolo alla formazione di una classe di tecnici dotata delle competenze adeguate a portare avanti un lavoro continuativo di conservazione e restauro del patrimonio costruito di Asmara. Il restauro dell’architettura moderna nelle ex colonie italiane in Africa: la ridefinizione dell’area dei Mercati e la Grande Moschea. Il presente lavoro — che si colloca all’interno del programma di ricerca sul restauro dell’architettura moderna che il Dottorato in Progettazione Architettonica di Palermo porta avanti ormai da diversi anni — attraverso l’esplorazione rigorosa di un metodo di ricerca e di progetto, dei suoi limiti e delle sue potenzialità, aspira ad essere, oltre che un contributo all’avanzamento disciplinare, un sostegno conoscitivo in direzione di un efficace processo di tutela e recupero di questo straordinario patrimonio architettonico e urbano. Ragionare sul restauro del Moderno in rapporto agli edifici costruiti in colonia implica un duplice livello di complessità: da una parte quello proprio del restauro come declinazione della disciplina del progetto, con i suoi assunti teorici e le sue procedure scientificamente fon- 36 Introduzione dati; dall’altra quella introdotta dalla specificità della situazione coloniale, che obbliga a prendere in considerazione questioni extradisciplinari, legate alla sostenibilità sociale e culturale di una operazione che restauri edifici o sistemi urbani i quali, per le popolazioni locali, hanno significato oppressione e sfruttamento, ma anche sviluppo. Se, per il primo livello, il presente studio ha potuto significativamente trarre profitto dai risultati sin qui conseguiti dal programma di ricerca di cui fa parte, per il secondo livello ci si è essenzialmente avvalsi del confronto con i rappresentanti della cultura locale ai vari livelli — tecnici, autorità civili e religiose, cittadini — cercando di comprendere il modo in cui, nel corso del tempo, si è modificato il rapporto con quelle architetture attraverso il loro uso quotidiano e le conseguenti necessarie trasformazioni apportate. Restaurare un edificio non può significare, infatti, riportarlo fuori dal contesto socio–culturale a cui oggi appartiene; tanto più nel caso dell’Eritrea, in cui l’idea stessa di “appartenenza ad un contesto” passa attraverso un lungo processo di riappropriazione/ridefinizione identitaria, sviluppatosi a partire dalla decolonizzazione e, in seguito, negli anni della guerra di indipendenza dall’Etiopia. Gli studi condotti in questi anni nell’ambito del Dottorato hanno messo in evidenza alcuni aspetti del restauro del moderno che ne costi- Il Moderno italiano in situazione coloniale 37 tuiscono lo specifico, differenziandolo dal restauro tout court: si tratta del rapporto tra edificio realizzato e documenti di progetto da un lato, e del rapporto tra autore, opera e contesto culturale dall’altro. L’indagine accurata di questi due aspetti è centrale rispetto all’individuazione del “nucleo teorico” dell’edificio oggetto di studio: cioè a dire i principi architettonici e urbani che lo informano, e che attraverso il progetto, in un processo di circolarità ermeneutica, vengono esplicitati e conseguentemente re–instaurati, reimmessi nella fisicità del manufatto attraverso una precisa serie di operazioni progettuali. È dunque essenziale, in questo processo, la disponibilità di documenti riferibili direttamente o indirettamente al progetto, nonchè la conoscenza della biografia intellettuale dell’architetto, pena il rischio di infondatezza dell’ipotesi interpretativa alla base dell’individuazione dei principi architettonici da restaurare. In questa ricerca si è dovuto fare i conti con la oggettiva scarsezza di materiali originali e con la loro difficilissima reperibilità; lunghe campagne di studio presso archivi e biblioteche, in Italia e in Eritrea, hanno portato al reperimento di un esiguo numero di documenti significativi direttamente riferibili all’oggetto di studio. È questa una condizione che accomuna la gran parte dell’architettura coloniale italiana: il brusco processo di decolonizzazione seguito alla sconfitta dell’Italia 38 Introduzione nella seconda guerra mondiale ha portato in molti casi alla dispersione, forse alla distruzione dei fondi archivistici. In questo senso si può dire che questo studio abbia messo alla prova la metodologia che si è andata consolidando nell’ambito del programma di ricerca, esplorandone i limiti: come risalire ai principi architettonici di un edificio non potendone confrontare la realizzazione con il progetto originale? O, in altre parole, come formulare l’ipotesi — il pregiudizio gadameriano — a partire dalla quale avviare il circolo ermeneutico che porta al riconoscimento dei principi? Solo in parte questa condizione riconduce il restauro del moderno al restauro dell’antico: se infatti la mancanza di documenti grafici riporta lo studioso ad una situazione frequentissima nell’architettura antica, la contestuale conoscenza dell’autore e/o del contesto culturale a cui riferire l’opera in esame, consente comunque di rintracciare modi, forme, figure pertinenti rispetto a quel contesto che, legittimamente, è possibile porre alla base dell’indagine progettuale. Nel caso in esame lo studio di quelle che potremmo definire “condizioni al contorno” del progetto — il dibattito sull’architettura coloniale, l’esperienza professionale del progettista in Italia e in colonia, le sue riflessioni teoriche sul problema del costruire in colonia — ha consentito di formulare ipotesi attendibili sulle scelte progettuali incorpo- Il Moderno italiano in situazione coloniale 39 rate nei manufatti, riconducendole a principi architettonici chiaramente enunciabili. La conoscenza del manufatto è centrale sul piano teorico — cioè dell’individuazione e del restauro dei principi — anche in edifici di cui si disponga di una esauriente documentazione progettuale: schizzi, diverse versioni del progetto, esecutivi, relazioni, ecc.; a maggior ragione lo è quando lo studio non può avvalersi di questi materiali. Il rilievo dell’edificio ed il suo ridisegno divengono allora il modo in cui lo studioso può ripercorrere all’inverso il processo di “traduzione dal disegno all’edificio” che è proprio dell’attività progettuale, individuando elementi e parti della composizione, rintracciando regole compositive e geometrie, riconoscendo i rapporti dell’edificio con il contesto. Questo processo è indispensabile sul piano teorico perché consente di ritrovare nel disegno e attraverso il disegno — che è la scrittura del progetto — i principi architettonici e urbani che si ritiene di aver colto nel manufatto. Il caso di studio affrontato in questo lavoro, ed impiegato come un vero e proprio “laboratorio” concettuale per la formulazione e la corroborazione delle ipotesi, è il restauro di un interessante — e praticamente sconosciuto — sistema di edifici realizzato sul finire degli anni 40 Introduzione Trenta ad Asmara da Guido Ferrazza, uno dei protagonisti dell’architettura coloniale italiana negli anni tra le due guerre mondiali. Se, come si è osservato, l’Eritrea è il luogo chiave per la comprensione delle diverse soluzioni che la cultura architettonica italiana andava individuando in merito alla questione del costruire in colonia — soluzioni che, significativamente, si intrecciavano con il più generale dibattito relativo alla “modernizzazione” della disciplina, di grande rilevanza sin dalla fine del XIX secolo; e se Asmara è il terreno privilegiato di indagine — sia per la ricchezza e la varietà del suo patrimonio architettonico, che per la peculiarità della sua struttura urbana, frutto dell’acquisizione di alcune istanze dell’urbanistica moderna all’interno di una prassi progettuale consolidata di ascendenza beaux–arts10 — allora il progetto di Ferrazza per il riassetto dell’area dei mercati di Asmara può essere assunto come esempio altamente rappresentativo del ruolo giocato, in questo contesto, dal progetto di architettura come strumento di consolidamento/trasformazione della struttura urbana e definizione del suo sistema di spazi aperti. Le diverse fasi della ricerca — scandite da più o meno lunghi periodi di permanenza in Eritrea — hanno in generale progressivamente svelato la presenza di un rilevantissimo patrimonio architettonico e urbano, in alcuni casi incredibilmente ben conservato, e praticamente sco10. Cfr. G. GRESLERI, L’architettura dell’Italia d’Oltremare: realtà, finzione, immaginario, in G. GRESLERI, P.G. MASSARETTI, S. ZAGNONI, (a cura di), op. cit., p. 30. Il Moderno italiano in situazione coloniale 41 nosciuto alla cultura architettonica internazionale, mettendone in luce alcune caratteristiche significative che costituiscono la ricaduta operativa — ma talvolta il punto di partenza — delle riflessioni teoriche dei vari Rava11, Pellegrini12, Piccinato13 e dello stesso Ferrazza14. In particolare si sono riscontrati: un atteggiamento aperto ma non pedissequamente imitativo nei confronti delle suggestioni provenienti dalle (poche) presenze dell’architettura locale; una grande attenzione alle questioni legate alla ventilazione e al soleggiamento degli edifici, che si traduce in un corretto orientamento (sia dell’edificio singolo che del tessuto urbano) e nell’uso adeguato di materiali e dispositivi architettonici per il controllo climatico (frangisole, verande, pensiline); una chiarissima “intenzione urbana” nell’architettura, che si manifesta nell’adozione di tipi e forme che rimandano alla tradizione urbana italiana: l’edificio porticato, la piazza, il viale alberato, il giardino, ecc; queste scelte hanno dato luogo a strutture urbane dotate, per così dire, di forti capacità autoregolative, in grado cioè di crescere in maniera ordinata anche in assenza di un aggiornato strumento urbanistico. 11. C.E. RAVA, Costruire in colonia (parte prima), in «Domus», agosto 1936; C.E. RAVA, Costruire in colonia (parte seconda), in «Domus», ottobre 1936. 12. G. PELLEGRINI, Manifesto dell’architettura coloniale, in «Rassegna di Architettura», n. 9, 1936. 13. L. PICCINATO, La casa in colonia. Il problema che si prospetta ai nostri architetti; La casa in colonia, parte seconda, La casa in colonia, parte terza, in «Domus», n. 9, 1936. 14. G. FERRAZZA, Il problema del costruire nell’impero, in «Rassegna di Architettura», n. 1, 1937. 42 Introduzione I principali centri urbani dell’Eritrea presentano un’architettura che, con poche eccezioni, esibisce queste caratteristiche. Ma è in particolare la questione della “intenzione urbana” dell’architettura che si è ritenuta determinante, e che ha condotto all’individuazione del caso di studio. Parlare di intenzione urbana dell’architettura significa affrontare il tema del rapporto tra costruzione dell’architettura e costruzione della città (che possiamo considerare una generalizzazione della classica categoria dell’analisi urbana “tipologia architettonica/morfologia urbana”); tema di per sé di grande importanza, che assume una rilevanza ancora maggiore in un contesto come quello delle colonie italiane dell’Africa Orientale, in cui la sostanziale assenza di una vera civiltà urbana — con alcune significative eccezioni in Etiopia — faceva sì che il principale compito dell’architetto fosse quello di fondare città. Molte delle architetture realizzate in colonia sono dunque, in un certo senso, architetture urbane per necessità: architetture fondative, a cui era demandato il compito di suggerire la presenza ed orientare la crescita della città in assenza di veri e propri tessuti urbani, preesistenti o progettati — molti dei piani regolatori predisposti per le città eritree rimasero, infatti, a lungo segni sulla carta. Asmara è per certi versi emblematica di questa condizione: la storia del suo sviluppo è infatti un intreccio di crescita spontanea e pianifica- Il Moderno italiano in situazione coloniale 43 zione; gli strumenti urbanistici hanno quasi sempre inseguito la realtà piuttosto che guidarla, ma la presenza di alcuni elementi permanenti nella struttura urbana ha comunque garantito un certo equilibrio nella crescita. La piazza del mercato ha, nella fattispecie, un ruolo generativo per il tessuto urbano — è presente sin dai piani del 1902–04 — e costituisce, con la sua forma rettangolare allungata in direzione est–ovest, una vera e propria “permanenza” nella struttura della città. Viene ridefinita una prima volta nel piano Cavagnari del 1914, che la fa attraversare da una striscia di spazi a verde ad essa perpendicolare, e infine da Ferrazza intorno al 1937, che le conferisce l’assetto attuale. Il piano Cafiero del 1939, ultimo piano regolatore elaborato per Asmara, registra sostanzialmente l’esecuzione degli edifici progettati da Ferrazza. Il progetto di Ferrazza è un articolato sistema di edifici e spazi aperti, che riconnette in uno schema unitario — una sorta di “croce latina” — l’antica piazza e lo spazio a verde introdotto da Cavagnari, destinando la prima al mercato degli eritrei e il secondo al mercato degli europei. Fulcro della composizione è l’edificio della Grande Moschea che, posta all’incrocio dei due bracci della croce, oltre a costituire il fondale del mercato degli europei, fa allo stesso tempo da elemento di separazione tra i due mercati e di connessione tra le due parti del sistema. 44 Introduzione Ciò avviene affiancando ai lati della Moschea due passaggi — oggi chiusi e annessi alla moschea — che attraversano l’isolato in continuità con le strade: in questo modo i due sistemi fluiscono l’uno nell’altro pur mantenendosi spazialmente e figurativamente indipendenti. L’indagine progettuale, articolata — secondo la metodologia messa a punto nel programma di ricerca del Dottorato — in “progetto preliminare” e “progetto definitivo”, ha confermato in prima istanza la forte connotazione in senso urbano dell’intervento di Ferrazza, rivelandone la vicinanza alle istanze del progetto urbano contemporaneo e mettendone in evidenza il principio architettonico che lo informa: la continuità dello spazio urbano attraverso l’architettura; ed in seguito ha definito le modalità specifiche di intervento attraverso le quali re–instaurare tale principio ove compromesso, individuando nella riapertura dei due passaggi laterali della Moschea l’azione sulla materia attraverso la quale restaurare il principio. Figura 11. G. FERRAZZA, La Grande Moschea, Asmara, 1938 ca. (Archivio del Touring Club Italiano, Milano). Parte I L’attività progettuale di Guido Ferrazza ad Asmara sul retro: La Grande Moschea, Asmara (foto 2005) Capitolo I Architetto coloniale integrale Guido Ferrazza è una delle figure centrali nella vicenda dell’architettura coloniale italiana: la sua attività professionale si svolge infatti per un lungo arco temporale nelle colonie italiane in Africa, dapprima in Libia, a partire dal 1927, poi nell’Africa Orientale Italiana, sino al 1942, anno della sua misteriosa fuga dall’Eritrea. Ferrazza nasce a Bocenago di Trento nel 1887, e si laurea nel 1912 presso la Scuola Speciale di Architettura del Politecnico di Milano, conseguendo, l’anno successivo, il diploma come professore di disegno architettonico presso l’Accademia delle Belle Arti di Bologna. La sua formazione avviene in un contesto accademico che, seppur critico nei confronti dell’Eclettismo, ne conserva l’orizzonte culturale; in quegli anni lo studio degli stili storici continuava ad avere, infatti, un peso decisivo nel curriculum dell’allievo architetto (il corso principale di architettura «altro non era che un corso in cui si studiavano gli stili del passato attraverso la copia e il rilievo»1); a questo si affiancavano 1. Cfr. F. ZANELLA, Alpago Novello, Cabiati e Ferrazza, 1912–1935, Milano 2002, p.15. 47 48 Parte I – Capitolo I altri insegnamenti a carattere grafico che testimoniano «quanto alla base della composizione architettonica ci fosse un continuo esercizio grafico, non solo di rilievo architettonico, ma soprattutto di schizzo dal vero dei monumenti»2. La pratica così acquisita nella traduzione grafica di elementi architettonici ai fini di un loro possibile impiego progettuale, diventerà uno degli strumenti attraverso i quali realizzare quella particolare mediazione tra linguaggio classico e tradizione locale che Ferrazza, insieme ai colleghi dello studio milanese Alpago Novello e Cabiati, metterà in atto sin dai primi lavori in Libia. La sua attività in colonia ha inizio nei primi anni Trenta, con gli incarichi per la redazione dei piani regolatori di Tripoli (1930–36) e Bengasi (1930–36), piani che coinvolgono i tre membri dello studio, i quali, nell’ambito di questi incarichi, eseguono numerosi progetti architettonici, la cui realizzazione è spesso affidata al solo Ferrazza, trasferitosi stabilmente in colonia sin dall’inizio degli anni Trenta. I progetti realizzati in Libia mostrano da subito la specificità — e la modernità — dell’approccio dell’architetto trentino: da una parte gli edifici denotano una grande attenzione al contesto urbano, ma non in termini di mera “ambientazione” (componente peraltro presente nella cultura architettonica nazionale di quegli anni e nella personale ricerca 2. Ibidem. Figura 1. G. FERRAZZA, Progetto per il Palazzo Governatoriale, Bengasi, 1928 (Archivio Alpago Novello, Centro Studi e Archivio della Comunicazione Parma). Architetto coloniale integrale Figura 2. G. FERRAZZA, progetto per la Casa del Fascio in via Roma, Bengasi, 1930–36 (Archivio Alpago Novello, Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università di Parma). 49 dei membri dello studio milanese), bensì come specifico lavoro sulla definizione architettonica dello spazio urbano; dall’altra rifuggono dalla polemica sullo “stile” di ascendenza boitiana, spostando appunto il problema dalla scelta dello stile adeguato, all’accoglimento, entro un repertorio consolidato, di elementi architettonici mutuati dalla tradizione costruttiva del luogo. Ciò che emerge, nell’architettura di Ferrazza, è, in definitiva, una sorta di separazione funzionale tra interno e involucro dell’edificio, dove l’indipendenza di quest’ultimo è strumentale alla sua possibilità di definizione dello spazio urbano, mentre il primo può, di volta in volta, assumere il carattere adeguato alla sua destinazione d’uso3. L’attenzione al contesto urbano, e più in generale al rapporto tra progetto architettonico e progetto urbano, caratterizza dunque il lavoro di Ferrazza in Libia, costituendo il più evidente elemento di continuità con il lavoro svolto in Italia negli anni precedenti; negli anni seguenti, trascorsi in Africa Orientale Italiana, gli si presenteranno numerose occasioni di portare avanti questo aspetto della sua personale ricerca architettonica. Guido Ferrazza giunge in Eritrea nel 1935, dove assume la guida dell’Ufficio Tecnico Municipale di Asmara. 3. Cfr. G. GRESLERI, Guido Ferrazza: tecnica, modi e forme dell’architettura dell’Italia d’oltremare, in L. MOZZONI e S. SANTINI (a cura di), L’architettura dell’Eclettismo. La diffusione e l’emigrazione di artisti italiani nel Nuovo Mondo, Napoli 1999, pp. 99–138 (p. 110). 50 Parte I – Capitolo I Il suo ruolo nelle trasformazioni urbane della città diviene centrale a seguito della controversa vicenda del “Concorso per il progetto di massima e la sistemazione architettonica e del piano regolatore del centro di Asmara”4, bandito il 24 luglio del 1937, al quale prendono parte i principali progettisti attivi in Eritrea in quegli anni — quegli stessi architetti che nel corso degli anni Trenta contribuiscono in maniera decisiva a conferire ad Asmara il suo volto moderno. Il concorso si poneva l’obiettivo di «risolvere in modo organico ampio e definitivo la questione della viabilità nel centro di Asmara e la questione della sistemazione edilizia di tutta la zona per ottenere il quale risultato non è posta al concorrente alcuna limitazione per i lavori in genere che si rendessero necessari allo scopo»5. A poco più di un anno dalla proclamazione dell’“Impero” si intendeva fare di Asmara una delle grandi città dell’Africa Orientale Italiana; ma la gestione del concorso fu tale da vanificare gli sforzi dei partecipanti e le ambizioni del concorso stesso. A questo, a cui prendeva parte anche Guido Ferrazza con una proposta denominata “Divina geometria”, venivano presentati sette pro4. Cfr. Concorso per il progetto di massima per la sistemazione architettonica e del piano regolatore del centro di Asmara, ACS, MAI, b. 103. Cfr. anche E. LO SARDO (a cura di), Divina Geometria, s.l., 1997, pp. 26–28 e 121–128. 5. Cfr. Concorso per il progetto di massima per la sistemazione architettonica e del piano regolatore del centro di Asmara, ACS, MAI, b. 103. Architetto coloniale integrale 51 getti; la commissione giudicatrice, nominata da S.E. il Governatore De Feo, riteneva di conferire il primo premio al progetto dal motto “Sannita”, che per mezzo di «una grande piazza circolare risolve in modo degno sia la questione importantissima della viabilità sia quella urbanistica di dare un ampio centro alla città, centro che, qualora la parte architettonica venga ulteriormente attuata in modo degno, offrirà quel carattere di sobria ma non fredda monumentalità che è richiesto dall’importanza che sempre più va assumendo la città»6. Il progetto di Ferrazza veniva ritenuto inadeguato a causa degli «ingenti movimenti di terra e [del]le pendenze che sebbene non possano dai disegni essere misurati esattamente, sembrano tuttavia eccessive»7. Non essendo disponibili gli elaborati progettuali non è possibile proporre una critica all’operato della giuria sotto il profilo disciplinare. Ma, certamente, gravi sospetti sulle reali motivazioni della giuria stessa nel conferire il primo premio al progetto “Sannita” derivano dal fatto che l’autore della proposta fosse ... l’ingegner Vincenzo De Feo (!), cioè il governatore della Colonia Eritrea, al quale peraltro, come vincitore, spettavano anche le 10.000 lire previste come premio. Ad ogni modo il concorrente secondo classificato presentava ricorso contro la decisione della giuria; il caso veniva esaminato dal Ministero dell’Africa Italiana che annullava le decisioni prese ad 6. Cfr. Verbale della seduta tenuta il 13 novembre 1937 [...], in ACS, MAI, b. 103. 7. Cfr. Ibidem. 52 Parte I – Capitolo I Asmara per vizi formali e sostanziali8. Lo scandalo sollevato dall’esito del concorso portava alle dimissioni del governatore De Feo, che il ministro Teruzzi sostituiva con Giuseppe Daodiace. Questi, aveva in mente di portare con sè in Eritrea un certo numero di architetti dotati di esperienza specifica nel costruire in colonia, tentando, senza successo, di coinvolgere anche Pellegrini, uno dei protagonisti del dibattito sull’architettura coloniale. La presenza di Guido Ferrazza, architetto coloniale di consolidata esperienza, alla guida dell’Ufficio Tecnico di Asmara è dunque in linea con gli intendimenti del nuovo governatore — che peraltro aveva già avuto modo di conoscere l’architetto trentino negli anni in cui era commissario in Libia. È in questa fase che Ferrazza tenta di riorganizzare il piano regolatore della città, a partire dal riordino dell’area dei mercati, nel cui ambito realizza i padiglioni dei mercati coperti e la Grande Moschea; progetta inoltre la nuova sede dei Telefoni e un ossario monumentale, oltre ad alcuni edifici residenziali; la sua attività progettuale non è limitata alla città di Asmara: si conoscono infatti i suoi progetti per un albergo a Massawa, e quelli per la sede della Banca d’Italia e per la Caserma della Marina ad Assab9. 8. Cfr. E. LO SARDO, Divina Geometria, in E. LO SARDO (a cura di), Divina Geometria, s.l., 1997, pp. 7–33 (p. 27). 9. Cfr. G. FERRAZZA, Curriculum vitae professionale, Archivio Ferrazza, Milano. Figura 3. G. FERRAZZA, progetto per la sede del Banco di Roma, Assab, 1938 (Archivio Storico dell’Università di Bologna — Sezione Architettura). Architetto coloniale integrale Figura 4. G. FERRAZZA, Caserma della Marina, Assab, 1939 (Archivio della Banca d’Italia, Roma). 53 Ferrazza non ha però la diretta responsabilità della stesura del Piano regolatore di Asmara, che nel 1938 il Ministero per l’Africa Italiana affida all’architetto Vittorio Cafiero. Questi, recandosi nella città Eritrea nel maggio dello stesso anno, si mette in contatto “con tutti quegli organi attraverso i quali fu possibile fare precise indagini per rendersi esattamente conto dei vari problemi da affrontare”10; Cafiero dunque si muove con estrema circospezione, consultando tutte le autorità e i tecnici locali, in modo da evitare attriti o risollevare malumori legati all’esito negativo del concorso; in particolare “l’Architetto Cafiero, con la collaborazione del locale Ufficio Opere Pubbliche e con quella dell’Ufficio Tecnico Municipale, potè a grandi linee tracciare e fissare i concetti generali informanti la progettazione delle varie soluzioni”11. In questo modo Ferrazza riesce a trasferire nel PRG i suoi progetti per la risistemazione dell’area dei Mercati: gli elaborati grafici del PRG, consegnato nel 1939, mostrano, infatti, la presenza dei padiglioni dei mercati coperti, della Grande Moschea e della piazza antistante, che, a quella data, erano tutti realizzati o in corso di ultimazione12. 10. Cfr. Arch. VITTORIO CAFIERO, Progetto del piano regolatore della città di Asmara, in ACS, MAI, b. 106. 11. Ibidem. 12. Rispetto a questa affermazione disponiamo solo di documenti indiretti: alcune fotografie rinvenute presso l’archivio del Municipio di Asmara, che mostrano i padiglioni dei mercati in fase di realizzazione, portano la data del 1938; la Guida della Consociazione Turistica Italiana del 1938 annovera la moschea e i mercati coperti tra gli edifici notevoli di Asmara. 54 Parte I – Capitolo I Non è stato possibile accertare sino a che data Ferrazza abbia diretto l’Ufficio Tecnico di Asmara; è certo però che, già dal 1937, Guglielmo Nasi, Governatore dell’Harar, Etiopia, coinvolge l’architetto triestino nella pianificazione urbana della regione. Ferrazza, tra alterne vicende, esegue i piani regolatori di Harar, di Dire Dawa e di Adama, e realizza in quelle città numerosi edifici pubblici e privati. Una qualche continuità della sua presenza in Eritrea è comunque testimoniata dalla redazione del piano per Assab nel 1940 e del rilevamento per il piano della città di Massawa. In ogni caso gli eventi bellici e la caduta della Colonia Eritrea interrompono la realizzazione del progetto per l’area dei mercati di Asmara e, di fatto, mettono fine alla carriera di Ferrazza come “architetto coloniale”. Le sue tracce in Africa Orientale si fermano a Ghinda, Eritrea, nel 1942, dove seguiva la realizzazione della fabbrica della “Società Siderurgica Milanese”. Prigioniero per qualche tempo degli inglesi, riesce a fuggire chiuso in una cassa, e a rimpatriare a bordo di una nave della Croce Rossa. Nel 1944 aderisce al CLN — Alta Italia, aprendo un nuovo capitolo del suo complesso percorso umano e professionale13. 13. Le notizie biografiche su Guido Ferrazza sono ricavate da: G. GRESLERI, Guido Ferrazza: tecnica, modi e forme dell’architettura dell’Italia d’oltremare, in L. MOZZONI E S. SANTINI (a cura di), op. cit., pp. 99–138; G.P. CONSOLI, I protagonisti, in Architettura nelle colonie italiane in Africa, «Rassegna» n. 51/3, 1992, pp. 53–61 (p. 56); F. ZANELLA, Alpago Novello, Cabiati e Ferrazza, 1912–1935, Milano 2002, p.171. Architetto coloniale integrale Figura 5. G. FERRAZZA, Circolo Coloniale, Harar, 1938 ca. («Annali dell’Africa Italiana», vol. 4, 1939). Figura 6. G. FERRAZZA, Circolo Coloniale, Harar, 1938 ca. («Annali dell’Africa Italiana», vol. 4, 1939). 55 56 Parte I – Capitolo I Classicismo e mediterraneità: il dibattito sull’architettura coloniale italiana negli anni Trenta. L’attività di Guido Ferrazza in colonia copre, come si è visto, tutti gli anni Trenta. Sono gli anni in cui il dibattito sull’architettura coloniale ridiviene centrale nella cultura architettonica italiana, incrociandosi in maniera significativa con la più generale questione dei caratteri dell’architettura moderna italiana. Il tema del dibattito è, a livello generale, legato alla diversa considerazione in cui il regime fascista tiene i possedimenti d’oltremare, che si traduce nella distinzione fra una colonia unitaria dell’Africa settentrionale, rispetto alla quale attuare una politica di “assimilazione”, e una colonia federale dell’Africa Orientale Italiana (AOI), oggetto invece di una politica di “differenziazione”. Questa condizione si riflette in un duplice atteggiamento nel dibattito stesso che accompagna la costruzione dell’architettura in quelle terre: da una parte il tentativo di rintracciare una comune matrice “mediterranea” nella tradizione costruttiva dei paesi affacciati su quello che la retorica del regime indicava come mare nostrum: “architettura di massa, bianca e luminosa, chiusa all’esterno, ricca di volumi e povera di decorazioni”14; dall’altra la ricerca di un linguaggio architettonico moderno, “non strettamente 14. L. PICCINATO, L’edilizia coloniale, alla voce Colonia, in Enciclopedia italiana, vol. X, Roma 1931, pp. 826–827. Architetto coloniale integrale 57 coloniale (…), espressione della (…) civiltà politica, sociale, artistica e tecnica”15 dell’Italia. Tra i due atteggiamenti esistono, come è noto, non solo contrapposizioni, ma anche legami e parziali sovrapposizioni16 che, nel dibattito architettonico nazionale, danno luogo a tentativi di sintesi più o meno compiute, come ad esempio nelle elaborazioni teoriche del Gruppo 7 — nelle quali i proclami radicali in favore dell’uso dei nuovi materiali sono temperati da una parte da una idea di ordine di ascendenza classica17, dall’altra dal riferimento alla mediterraneità dell’architettura spontanea delle coste del meridione d’Italia e delle sue isole, della Grecia e dell’Africa settentrionale; o ancora in quelle del gruppo di «Quadrante» — in cui più esplicitamente si mettono insieme i concetti di “mediterraneità” e quella di “classicità”, «intesi nello spirito, e non nelle forme o nel folklore»18. 15 Rapporto degli architetti Del Debbio, Ponti e Vaccaro sulla costruzione di Addis Abeba Italiana, in ACS–MAI, b. 103. Vedi anche G. GRESLERI, La “nuova Roma dello Scioa” e l’improbabile architettura dell’Impero, in G. GRESLERI, P.G. MASSARETTI, S. ZAGNONI (a cura di), op. cit., p. 177. 16. Cfr. S. DANESI, Aporie dell’architettura italiana in periodo fascista — mediterraneità e purismo, in S. DANESI, L. PATETTA (a cura di), Il Razionalismo e l’architettura in Italia durante il Fascismo, Milano 1996 (3° ed.), pp. 21–28. 17. Cfr. GRUPPO 7, Architettura I, in «Rassegna Italiana», n. 103, 1926, ora in M. CENNAMO (a cura di), Materiali per l’analisi dell’architettura moderna. La prima Esposizione Italiana di Architettura Razionale, Napoli 1973, p. 39 e ss. 18. Cfr. BOTTONI, CEREGHINI, FIGINI, FRETTE, GRIFFINI, LINGERI, POLLINI, BANFI, BELGIOJOSO, PERESSUTTI, ROGERS, Programma d’architettura, in «Quadrante», n.1, 1933. 58 Parte I – Capitolo I Nello specifico coloniale, il complesso intreccio tra aspirazione alla mediterraneità e richiamo alla classicità si esplica, ad esempio, nella dialettica tra le posizioni di Ottavio Cabiati19 — che promuovono l’adozione di forme architettoniche chiaramente identificabili come nazionali seppur vicine per questioni climatiche all’ambiente africano, cercando dunque di marcare la differenza con l’approccio eclettico dell’architettura coloniale di fine Ottocento; e quelle di Giovanni Pellegrini20, che rimanda, invece, alla adeguatezza delle soluzioni architettoniche prodotte dalle culture locali del Nord Africa; o ancora di Carlo Enrico Rava, estensore materiale di gran parte degli articoli di “propaganda razionalista” a firma Gruppo 7, che trasferisce quelle argomentazioni all’architettura coloniale, sostenendone il fondamento mediterraneo. Per chiarire i termini del dibattito possiamo prendere in esame il contributo di Rava, forse l’architetto moderno italiano che maggiormente si è sforzato, tanto sul piano teorico che su quello progettuale, di innescare un circolo virtuoso tra la riflessione sull’architettura coloniale e la più generale questione del rinnovamento culturale dell’architettura italiana. 19. O. CABIATI, Orientamenti della moderna architettura italiana in Libia, in «Rassegna di architettura», VIII, ottobre 1936, pp. 343–344. 20. G. PELLEGRINI, Manifesto dell’architettura coloniale, in «Rassegna di Architettura», VIII, ottobre 1936, pp. 349–367. Architetto coloniale integrale 59 Carlo Enrico Rava è autore, a partire dall’inizio degli anni Trenta, di numerosi scritti dedicati al problema del costruire in colonia. Di particolare interesse sono i sei articoli apparsi su «Domus» nel corso del 1931, all’interno di una rubrica denominata Panorama del razionalismo21. Di questi, due (il quarto, a sua volta diviso in due parti, e, significativamente, la conclusione) sono dedicati all’architettura coloniale. Nell’insieme, i sei articoli mostrano la sintesi fatta dall’autore di termini quali “moderno”, “razionale”, “mediterraneo”, “latino”, “coloniale”, che, nel rimandarsi reciprocamente, concorrono alla definizione della nuova architettura italiana. Apre la serie l’articolo Svolta pericolosa, in cui Rava delinea le principali tendenze del razionalismo europeo, mettendo in guardia — e qui è evidente la presa di posizione politica — dalla minaccia, proveniente dall’Unione Sovietica, del «livellamento assoluto delle varie forme architettoniche riportate ad un unico standard fisso e la rinuncia completa a qualsiasi caratteristica, non solo di individualità, ma di nazione e di razza, in favore di una sola estetica, quella dell’officina e della macchina»22; il razionalismo, agli occhi di Rava, sarebbe dunque ad un bivio: o appiattirsi sulle posizioni sovietiche o coltivare, entro una linea di ricerca condivisa, le individualità, le specificità. L’Italia 21. La rubrica, nel corso dei mesi, assume via via il nome di Specchio del razionalismo (marzo 1931) e infine Specchio dell’architettura razionale (novembre 1931). 22. C. E. RAVA, Svolta pericolosa, in «Domus», gennaio 1931, pp. 39–44. 60 Parte I – Capitolo I sarebbe chiamata «per fatalità di tradizione e di razza»23 a prendere la guida di questa seconda tendenza. Eppure, denuncia l’autore, anche i razionalisti italiani sembrano «troppo ligi ai dogmi di un Gropius o di un Le Corbusier»24, quando dovrebbero invece non solo limitarsi a comporre in maniera raffinata elementi mutuati dalla ricerca dei maestri internazionali, ma «creare secondo la loro razza, la loro cultura, la loro personalità», in modo da rispecchiare «il clima del loro tempo, il clima della modernità latina»; modernità questa che Rava giudica quasi un vero e proprio zeitgeist e non manca di riscontrare, già in opera, in alcune significative architetture europee e nordamericane25. È a questa modernità che deve riferirsi l’architettura coloniale italiana, la cui costruzione è a pieno titolo inscritta nel dibattito sull’architettura razionale. Rava prende così le distanze da un malinteso riferimento alla “romanità”, la cui autentica tradizione non deve essere cercata nelle rovine archeologiche (non dimentichiamo che il fascismo, per legittimare culturalmente la sua posizione in Libia, avvia numerose campagne di scavi volte a “dimostrare” l’importanza della presenza romana in Africa settentrionale), bensì nelle forme dell’architettura libica e in particolare: nello «schema della casa arabo–turca, la cui razionalissima pianta è la riproduzione esatta dell’antica casa classica 23. Ibidem. 24. Ibidem. 25. Cfr. C. E. RAVA, Spirito latino, in «Domus», febbraio 1931, pp. 24–29. Architetto coloniale integrale Figura 7. Casa araba nell’Oasi di Tripoli (in C. E. Rava, Di un’architettura coloniale moderna in «Domus», giugno 1931). Figura 8. Casa nell’Isola di Spetsa in C. E. Rava, Di un’architettura coloniale moderna in «Domus», giugno 1931). 61 e costituisce […] il tipo di casa che meglio corrisponde al clima ed alle esigenze della vita coloniale»26; nella «predisposizione per le forme semplici, cubi e parallelepipedi, piramidi tronche e calotte sferiche […] che fa pensare […] alle creazioni astratte dei recentissimi “costruttivisti” russi»27 — e, aggiungiamo, al gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi assemblati nella luce di Le Corbusier; nella mediterraneità, che, «apparenta l’italianissima architettura locale delle nostre colonie libiche a quella delle altre nostre coste mediterrranee, da Capri a Camogli»28. Eppure, lamenta Rava, questa tradizione è generalmente ignorata dall’architettura coloniale italiana, che è stata costruita in forme neostilistiche, dal moresco al floreale, dietro la pretesa che ciò sia giustificato dalla necessità, «come segno di dominio, [di] imporre nelle colonie l’architettura della madre patria»29. Niente di simile fanno infatti le potenze coloniali di lunga tradizione: come l’Inghilterra, che ha saputo trovare, nel bungalow, la forma specifica della sua architettura coloniale. L’Italia, conclude Rava, non deve imitare l’architettura araba 26. Cfr. C. E. RAVA, Di un’architettura coloniale moderna. Parte prima, in «Domus», maggio 1931, pp. 39–43, 89. 27. Ibidem. 28. Ibidem. 29. Cfr. C. E. RAVA, Di un’architettura coloniale moderna. Parte seconda, in «Domus», giugno 1931, pp. 32–36. 62 Parte I – Capitolo I come si potrebbe equivocare […], ma ritrov[are], attraverso questa, le tracce imperiture della latinità d’una architettura che è innanzitutto profondamente mediterranea. D’altronde, quella rinascita di uno “spirito mediterraneo” che da tempo era auspicata, sembra proprio ora delinearsi nel giovane razionalismo italiano: il momento per la creazione di una nostra architettura coloniale veramente moderna sembrerebbe dunque singolarmente propizio30. Rava assegna all’architettura coloniale un importante ruolo nel dibattito architettonico nazionale e internazionale. Seppur indulgendo nella retorica di regime nel rivendicare all’Italia la guida del rinnovamento dell’architettura internazionale in nome dello “spirito latino”, egli mostra con chiarezza la possibilità di una ricerca architettonica moderna in grado di riconoscere gli elementi progressivi della tradizione e rifonderli in una nuova unità. Come lo stesso autore sottolinea, le considerazioni svolte in materia di architettura coloniale sono riferite alle colonie mediterranee, «totalmente differenti essendo le condizioni delle nostre colonie dell’Africa Orientale»31 — anche se la nota sembra rispondere più che altro a una esigenza di rigore argomentativo, non essendo possibile trasporre automaticamente il ragionamento sui “caratteri ereditari” dell’architettura mediterranea alle aree del Mar Rosso, e tanto meno dell’altopiano eri30. Ibidem. 31. Cfr. C. E. RAVA, Di un’architettura coloniale moderna. Parte prima, in «Domus», maggio 1931, p. 40. Architetto coloniale integrale Figura 9. Villa tropicale su palafitte (in L. PICCINATO, La casa in colonia, in «Domus», giugno 1936). 63 treo ed etiopico. Ed infatti, tornando a ragionare di architettura coloniale nel 1936, a poche settimane dalla vittoria di Addis Abeba e dalla proclamazione dell’ “Impero”, Rava estende all’Africa Orientale l’impostazione proposta per le colonie mediterranee: «nell’architettura locale dei nostri possedimenti dell’A.O.I., lo scrivente ebbe occasione di rilevare interessantissimi spunti, che, fusi con le forme necessitate da particolari condizioni d’ambiente e di clima, potranno essere una base di ispirazione per le nuove opere che i nostri architetti avranno da costruire laggiù»32. Ancora una volta, cioè, Rava propone non la trasposizione di modelli, ma la loro riformulazione a partire dalle condizioni dei luoghi, con in mente un’idea di modernità che ha le sue radici nella tradizione, intesa come sedimentazione e progressiva messa a punto di tecniche, tipi e forme. Lo stesso rapporto con la tradizione ritroviamo nell’approccio al problema proposto da Luigi Piccinato, ancora sulle pagine di «Domus». Piccinato, nell’affrontare la questione della “casa in colonia”, amplia il raggio di indagine ai contesti tropicali, facendo ancora riferimento alle costruzioni locali e mutuandone indicazioni in termini di sistemi costruttivi e, soprattutto, di elementi architettonici. In particolare Piccinato mette in evidenza il ruolo della veranda posta tutto 32. C. E. RAVA, Problemi di architettura coloniale, in «Rassegna Italiana», maggio 1936, pp. 398–402. 64 Parte I – Capitolo I intorno all’edificio come dispositivo di controllo climatico, «non già un accessorio (così l’aveva considerata l’architettura dei colonizzatori del secolo scorso), ma piuttosto un importante elemento costitutivo, altrettanto necessario quanto gli ariosi ambienti di soggiorno»33. Riguardo ai problemi costruttivi, l’architetto si interroga sull’opportunità di avvalersi delle tecniche moderne piuttosto che dei sistemi locali; la risposta viene dall’economia della costruzione, dato l’elevato costo di trasporto associato a tutti i materiali non disponibili in colonia. Pertanto la conoscenza delle culture costruttive locali si rende necessaria al fine di ottimizzare ed integrare i metodi moderni: in tal senso Piccinato propone per l’Africa Orientale una sorta di temporanea “sospensione“ dell’architettura a favore di una «edilizia di sole baracche provvisorie da sostituire poi con case vere e proprie da costruirsi quando lo studio completo delle possibilità tecniche dei materiali della colonia stessa avrà precisato molti limiti ed aperto insieme tutti gli orizzonti»34. L’idea della radicale imposizione della cultura del popolo colonizzatore su quello colonizzato non è mai presa in seria considerazione negli scritti dei protagonisti del dibattito sull’architettura coloniale, restando una mera formulazione della propaganda fascista. Nemmeno nella rivista di regime «Architettura», organo del sinda33. L. PICCINATO, La casa in colonia. il problema che si prospetta ai nostri architetti, in «Domus», giugno 1936, pp. 12–17. 34. L. PICCINATO, Un problema per l’Italia di oggi, costruire in colonia, in «Domus», novembre 1936, pp. 7–10. Figura 10. Casa dell’Africa settentrionale (in L. PICCINATO, La casa in colonia, in «Domus», giugno 1936). Architetto coloniale integrale 65 cato nazionale fascista architetti, diretta da Marcello Piacentini, che per l’architettura coloniale chiede la «franca e piena affermazione dell’Architettura italiana moderna»35, il problema della costruzione viene scisso dalla conoscenza del contesto. La nuova architettura coloniale, infatti, «da un punto di vista tettonico, dovrà tener presenti rigorosamente le esigenze obiettive dell’ambiente»36; a tal fine viene indicata come prioritaria la conoscenza di dati climatologici, dati geologici e «argomentazioni circa il rapporto intercorrente tra codeste condizioni ambientali e le costruzioni dei primitivi esistenti in sito, allo scopo di poterne eventualmente trarre norme per i progetti»37. Nonostante i toni, che rispecchiano appieno il clima di esaltazione che seguiva alla “conquista dell’Impero”, non sfugge agli estensori dell’articolo l’importanza dell’insegnamento che può trarsi dallo studio delle soluzioni tradizionalmente sperimentate in un determinato contesto — soluzioni che vengono accuratamente separate dai possibili esiti neostilistici, descritti con sprezzo “ridicoli aborti architettonici”38. Come si vede, le diverse posizioni esaminate restituiscono un quadro abbastanza chiaro dei termini in cui si sviluppa il dibattito sull’architettura coloniale, tra ricerca disciplinare e propaganda politica; è in 35. Realizzazione costruttiva dell’impero. Appello agli architetti italiani, in «Architettura», fascicolo VI, giugno 1936, pp. 241–244. 36. Ibidem. 37. Ibidem. 38. Ibidem. 66 Parte I – Capitolo I questo contesto che si colloca la riflessione di Ferrazza sull’architettura coloniale. Come vedremo, l’architetto trentino, sulla scorta della sua grande esperienza costruttiva nelle diverse aree dei possedimenti coloniali italiani, pone con grande chiarezza i termini della questione, con poche concessioni alla retorica di regime, prospettando una soluzione che trova fondamento in un razionale equilibrio di tradizione, costruzione, economia. Il problema del costruire nell’impero Ferrazza pubblica nel 1937 l’articolo Il problema del costruire nell’Impero39. Si tratta di una versione riveduta ed ampliata dell’articolo pubblicato l’anno precedente sulle pagine di «Azione coloniale»40, e in seguito usato come base per una conferenza tenuta a Milano nel 1937 presso la sede del Sindacato Interprovinciale Lombardo degli Architetti, durante un suo breve periodo di permanenza in Italia. Lo scritto è di carattere generale, e precisa la posizione di Ferrazza 39. G. FERRAZZA, Il problema del costruire nell’Impero, in «Rassegna di Architettura», n. 1, 1937, pp. 19–22. Tutte le citazioni di questo paragrafo, dove non specificato, fanno riferimento a questo scritto. 40. G. FERRAZZA, Come costruire nell’Impero, in «Azione coloniale», n. 78, 1936, p. 3, e in «Case d’Oggi», n. 12, 1936, pp. 30, 32. Architetto coloniale integrale 67 nel dibattito sull’architettura coloniale, che, con la ripresa delle operazioni militari in Africa da parte del regime fascista, riacquista centralità nella cultura architettonica nazionale, riflettendosi sulla più generale questione dei caratteri dell’architettura moderna italiana. Ferrazza, alla luce della sua esperienza di architetto coloniale, consolidata da anni di pratica professionale in Libia insieme con Alpago Novello e Cabiati, imposta il suo ragionamento sull’architettura coloniale in termini costruttivi. In questo si pone in linea con l’impostazione predominante nel dibattito internazionale sull’architettura moderna: come è noto, infatti, l’affermazione dell’architettura moderna è, perlomeno nella percezione dei maestri e della critica militante degli anni Venti e Trenta, largamente legata all’introduzione dei nuovi materiali da costruzione — innanzitutto il cemento armato, il ferro, il vetro41 — e ai cambiamenti che questa determina sul piano disciplinare e produttivo. Ferrazza lega la «scelta del modo di innalzare fabbricati» alle condizioni economiche in cui questa avviene: «la scelta del modo vuol dire lo sperpero o meno, il buono od ottimo impiego dei mezzi finanziari, non certo illimitati, che la Madrepatria potrà mettere a disposizione». 41. Cfr. ad es. LE CORBUSIER, Verso un’architettura, Milano 1996 (Paris 1923); S. GIEDION, Bauen in Frankreich — Bauen in Eisen — Bauen in Eisenbeton, Leipzig–Berlin, 1928; e anche, in un contesto più generale, S. GIEDION, Spazio tempo e architettura. Lo sviluppo di una nuova tradizione, Milano 1954 (Cambridge, Mass. 1941). 68 Parte I – Capitolo I Ora, i materiali e le tecniche costruttive moderne, che nell’occidente a capitalismo industriale avanzato consentivano l’abbattimento dei costi e l’ottimizzazione dei processi produttivi nell’edilizia — aspetto questo sottolineato in più occasioni e con grande enfasi da Le Corbusier, nelle colonie italiane dell’Africa Orientale, a causa delle spese di importazione, sortivano l’effetto opposto, facendo lievitare i costi in maniera impressionante: pertanto, «l’uso dei materiali da costruzione che richiedano noli per migliaia di miglia marine e pedaggi alla Compagnia del Canale di Suez, oltre a centinaia di chilometri su automezzi con conseguente consumo di carburanti, gomme, ecc., deve essere bandito inesorabilmente»; che senso avrebbe, ad esempio, «adoperare del cemento al costo siderale […] sino a cinquecento lire al quintale, ed oltre, quale sarebbe se portato dai porti del Mar Rosso, per esempio, a Dessiè, Gondar, ecc.? […] Ciò vorrebbe dire sperperare, ma siccome ogni sperpero ha un limite, tali sistemi si risolverebbero nel non poter fare». Come si vede, il tema dello spreco — le gaspillage — che Le Corbusier impiega in molteplici occasioni42 a sostegno dell’uso delle nuove tecniche nell’architettura, in presenza di un diverso contesto economico, si trasforma, nel ragionamento di Ferrazza, nella messa al bando dei materiali moderni. Egli argomenta dunque non tanto contro il repertorio figurativo della 42. Cfr. F. TENTORI E R. DE SIMONE, Le Corbusier, Roma–Bari 1987, p. 241. Architetto coloniale integrale 69 nuova architettura, fatta di «schiette solette di cemento armato lanciate nel vuoto a formare taglienti sbattimenti di ombre, [di] vaste piattabande, [di] pilastri sottili e arditi slanci», quanto contro la concreta possibilità — tecnica ed economica — di realizzare tale repertorio in situazione coloniale. E allora, per evitare che l’architettura incorpori una contraddizione tra forma e costruzione, propone di “tornare al passato”: «per le costruzioni nobili, alle volte, agli archi e magari alle colonne, e di granito se vi piace. Per le umili case: ai muri spessi, magari legati con “cicca”, ai solai di legno o di tela, alle finiture … rustiche». Ciò non esclude in prospettiva, con la disponibilità dei materiali necessari, l’introduzione di forme moderne, che potranno «seguire e forse superare le arditezze raggiunte nei paesi arrivati». Ferrazza dunque vede la modernità in architettura come il frutto di un processo nel quale non può darsi separazione tra ricerca formale e metodi costruttivi, essendo la prima, in qualche modo, una conseguenza — seppur non automatica — dei secondi. Si contrappone così ad un approccio stilistico alla modernità: e pur ricorrendo più volte nel testo il termine “stile”, in riferimento agli aspetti formali dell’architettura, non manca di precisare la dipendenza di questo dalle condizioni materiali della costruzione. Pertanto, la ricerca di uno “stile coloniale” come fatto autonomo è un falso problema — un “problema mal posto”, come 70 Parte I – Capitolo I Figura 11. G. FERRAZZA, progetto per il cinema della ICAO., 1938 ca. («Annali dell’Africa Italiana», vol. 4, 1939). Architetto coloniale integrale Figura 12. G. FERRAZZA, progetto per la sede di residenza del Banco di Roma, Harar, 1938 (Archivio Storico dell’Università di Bologna — Sezione Architettura). 71 72 Parte I – Capitolo I avrebbe detto Le Corbusier: l’architettura coloniale troverà le sue forme proprie se saprà fare un passo indietro, rinunciando ad imporsi una figura moderna e ripartendo dall’esempio «dei vecchi popoli colonizzatori […]» — da qui il ritorno al passato — «i quali lasciarono edifici che, pur in abbandono, hanno resistito per secoli all’azione del tempo»; solo quando si determineranno le condizioni per l’impiego delle nuove tecniche «la conoscenza delle nuove forme costruttive ci aiuterà a dare un’impronta alle nuove opere in Colonia e a far nascere un vero stile coloniale». Ferrazza assume dunque una posizione che, per certi aspetti, potrebbe essere definita “tradizionalista”43: il termine non si riferisce però ad un atteggiamento reazionario o passatista; descrive, piuttosto, la posizione di numerosi architetti italiani degli anni Trenta, che, non sposando le posizioni delle avanguardie più radicali del Movimento Moderno internazionale, provarono a percorrere una via alternativa al moderno; una via non di rottura con il passato, quanto piuttosto di evoluzione, di rivitalizzazione della cultura architettonica tradizionale e di recupero dei suoi valori universali. È la via che percorsero, ciascuno con le proprie specificità, architetti come Muzio, Ponti, Piacentini, ecc. Il discorso di Ferrazza, naturalmente, va visto anche in relazione alle politiche autarchiche perseguite dal regime fascista, che rendevano per 43. Cfr. G. PIGAFETTA, I. ABBONDANDOLO, M. TRISCIUOGLIO, Architettura tradizionalista. Architetti, opere, teorie, Milano 2002. Architetto coloniale integrale 73 così dire “politicamente” — oltreché economicamente — impraticabile un’architettura basata su materiali disponibili solo attraverso l’importazione dall’estero. Muovendo da tali presupposti e facendo appello alla sua vasta esperienza, Ferrazza individua così le modalità di costruzione specifiche per le principali regioni dell’Africa orientale, prendendo in esame le tre aree climatiche fondamentali: il Bassopiano orientale, lungo il mar Rosso, il Bassopiano occidentale, verso il Sudan, e l’Altopiano; e mentre per le regioni del Bassopiano vengono prescritte precise norme relative alla protezione dell’edificio dalle avversità climatiche — «tetto doppio, ventilazione artificiale, […] logge» — nel caso dell’Altopiano, grazie al «clima mite, primaverile, che non conosce né il gelo né le temperature torride», non viene data alcuna indicazione specifica. Dell’uso delle nuova tecniche costruttive — in particolare del cemento armato — Ferrazza parla esplicitamente, a proposito di Massawa, sul Mar Rosso. Due ordini di motivi ne giustificano l’adozione: la relativa economicità rispetto ad altre zone dell’Africa orientale, essendo Massawa il principale porto dell’Eritrea; la forte esposizione della zona ad eventi sismici distruttivi, il più recente dei quali, nel 1922, aveva causato ingenti danni, indicando, per il corretto impiego 74 Parte I – Capitolo I della struttura intelaiata in cemento armato in quel contesto climatico, cinque punti: I) Che il telaio di cemento armato sia limitato al nucleo centrale dell’edificio e abbia la minore cubatura unitaria possibile. II) Che tanto le travi quanto i pilastri siano rivestiti di materiali coibenti […]. III) Che l’edificio sia protetto da una veranda di legno (non di cemento armato) libera almeno su tre lati e di conveniente larghezza onde permettere il soggiorno. IV) Che i locali abbiano il massimo possibile di circolazione d’aria, con due pareti almeno che si possano aprire interamente. V) Che il solaio di copertura abbia un’ampia camera d’aria stagna e sia sempre protetto da materiali refrattari. Solo un edificio progettato da Ferrazza a Massawa è, allo stato attuale, conosciuto. Si tratta dell’albergo CIAAO (Compagnia Italiana Alberghi Africa Orientale), che mostra, per quanto è possibile desumere dall’osservazione della sua rappresentazione prospettica44, una chiara applicazione dei punti sopra menzionati. Cionondimeno, un certo numero di edifici attualmente esistenti a Massawa esibisce una concezione che appare derivare direttamente dalle osservazioni di Ferrazza — il che, più che suggerirne l’attribuzione al progettista trentino, mette in evidenza il forte legame che le riflessioni di quest’ultimo hanno con 44. G. FERRAZZA, Grande Albergo a Massaua, 1937, Archivio Ferrazza. Vedi anche: Architettura nelle colonie italiane in Africa, «Rassegna» n.51/3, 1992, p. 56. Figura 13. G. FERRAZZA, progetto per l’Albergo CIAAO, Massawa, 1938 (Archivio privato Ferrazza, Milano). Architetto coloniale integrale 75 la pratica costruttiva e l’osservazione. I cinque punti proposti da Ferrazza, più che costituire un contributo innovativo all’individuazione della corretta soluzione per l’uso del cemento armato in aree a clima torrido, propongono infatti una sistematizzazione di esperienze pregresse, personali e non. E, d’altra parte, proprio in questo risiede la forza delle sue proposizioni: nel fondare sull’esperienza della costruzione la riflessione teorico–normativa — architettura come mestiere45. L’insieme delle osservazioni sviluppate nello scritto viene impiegato, in conclusione, per tornare ad affrontare in maniera puntuale “il problema dello stile”. Ferrazza ritiene che siano gli esiti formali di alcune tecniche costruttive locali a poter avere un ruolo nella definizione dello stile dell’architettura coloniale italiana moderna: «le grosse intelaiature che circondano le finestre» o «le fasciature orizzontali di legno messe a basamento della muratura», elementi tratti dall’architettura delle chiese copte — «uniche opere degne di rilievo» — che l’architetto dichiara di aver provato a riprendere «in qualche edificio particolare, all’Asmara a Cheren e altrove». È in effetti possibile riscontrare la presenza di questi elementi archi45. Cfr. il ragionamento svolto da Giorgio Grassi sulla figura e l’opera di Tessenow: «Tessenow dà l’impressione di rasentare sempre pericolosamente il luogo comune. Ma non si tratta di compiaciuto anticonformismo; per Tessenow infatti la risoluzione architettonica più ovvia è anche quella più prossima alla certezza. E di qui occorre sempre partire. […] Tessenow sa altrettanto bene che introdurre il discorso sul rinnovamento formale in architettura vuol dire introdurre un elemento particolarmente illusorio; e tanto più dannoso in quanto […] si riduco- 76 Parte I – Capitolo I tettonici in edifici coloniali realizzati in Eritrea negli anni Venti e Trenta, anche se non attribuibili a Ferrazza. In particolare ricordiamo la chiesa di ‘Nde Mariam, cattedrale copta di Asmara, la cui tecnica muraria a fasce orizzontali alternate di pietra scura e mattoni in laterizio, seppur priva di elementi lignei, insieme con le evidenti riquadrature rosse delle bifore, richiamano le descrizioni di Ferrazza; il quale, comunque, ritiene che questi aspetti «non possono in alcun modo infliggerci preoccupazioni stilistiche». In questa affermazione possiamo riconoscere tanto un obbligato allineamento alle posizioni che il regime fascista prendeva in quegli anni rispetto all’imposizione di una immagine “italiana” alle nuove città imperiali, quanto la sua personale posizione culturale rispetto al problema dell’architettura coloniale come stile; Ferrazza pone infatti la questione dello “stile coloniale” in termini ben distanti da quelli di ascendenza eclettica (peraltro presente nella formazione dell’architetto) in cui il tema era stato affrontato sino ad allora: non si tratta di adottare in maniera coerente un sistema formale compiuto a cui si riconosce dignità di stile (“composizione stilistica”); e neanche di individuare uno stile adeguato alla destinazione di no le forme stesse al ruolo di suggestioni retoriche»; in G. GRASSI, L’architettura come mestiere (introduzione a H. Tessenow), (1974), in G. GRASSI, L’architettura come mestiere e altri scritti, Milano 1989, pp. 157–183 (p. 166). Una “vicinanza” tra Tessenow e Ferrazza nel modo di intendere l’architettura è ravvisata da Giuliano Gresleri: cfr. G. GRESLERI, Guido Ferrazza: tecnica, modi e forme dell’architettura dell’Italia d’oltremare, in L. MOZZONI e S. SANTINI (a cura di), op. cit., p. 104. Architetto coloniale integrale 77 un certo edificio (“storicismo tipologico”); né, tanto meno, di combinare liberamente elementi provenienti da repertori formali eterogenei (“pastiches”)46. Ferrazza aspira piuttosto ad uno “stile” che emerga dalla costruzione; una posizione questa che, nel mantenere ferma l’aspirazione ad una classicità non di maniera, fondata sulla «corrispondenza tra sistema costruttivo ed elementi architettonici»47 lo avvicina semmai alle posizioni più radicali del Movimento Moderno internazionale48. Piuttosto che il possibile riferimento stilistico all’architettura locale, Ferrazza ritiene significativo il rapporto con il paesaggio, con il quale «dobbiamo (…) trovare rapporti armoniosi» — anche se qui l’argomentazione appare piuttosto superficiale, limitandosi ad evocare delle immagini: «le tipiche ambe, montagne terminate da ampi tavolieri, i coni dei vulcani spenti, ecc.». Lo scritto si chiude con un ultimo richiamo alla costruzione come principio fondativo dell’architettura: «soprattutto dovremo tenere 46. Cfr. L. PATETTA, Alcune considerazioni sull’architettura dell’eclettismo, in L. MOZZONI e S. SANTINI (a cura di), op.cit., pp. 1–30. 47. Cfr. A. MONESTIROLI, Continuità dell’esperienza classica (1983), in A. MONESTIROLI, La metopa e il triglifo. Nove lezioni di architettura, Roma–Bari 2002, pp. 3–14 (p. 7). 48. Cfr. ad es. M. STAM, Modernes Bauen 1, in «ABC — Beiträge zum Bauen», n. 2, 1924, ora in J. GUBLER (a cura di), ABC 1924–1928. Avanguardia e architettura radicale, Milano 1994, p. 53: «La costruzione moderna realizza nuovi sistemi, obbedendo all’obbligo dell’economia. L’architetto affronta il compito — libero da tradizioni estetiche — incurante di pervenire alla bellezza formale — e vi trova la soluzione giusta, elementare». 78 Parte I – Capitolo I conto delle effettive possibilità dei materiali e trarne partito estetico e razionale»; una affermazione che, alla luce del testo che la precede, racchiude il senso e il riferimento della problematica modernità di Guido Ferrazza. Come si vede la posizione di Ferrazza si sottrae al dibattito sull’architettura coloniale in termini di classicismo o mediterraneità, spostando allo stesso tempo i termini della contrapposizione tra neoclassici e razionalisti sul piano dell’adeguatezza; ed approdando così, attraverso un ragionamento basato sul senso comune e sul mestiere, ad una posizione disciplinariamente avanzata. Capitolo II L’area dei Mercati di Asmara: un progetto urbano per la capitale dell’Eritrea Figura 1. UFFICIO AGRARIO SPERIMENTALE, Piano Regolatore della Città di Asmara, 1907 (Istituto Italiano per l’Africa e l'Oriente). In evidenza l’area dei mercati. La rilevanza della città di Asmara per la cultura architettonica risiede nel suo costituire un insieme urbano ben ordinato, in cui l’architettura moderna, proprio in virtù di questo ordinamento, gioca un ruolo importante nella definizione della forma urbana, trovando con naturalezza dimensione, posizione, rapporti tipo–morfologici, carattere. Guido Ferrazza, nella sua breve permanenza in Eritrea, ha dato un importante contributo al consolidamento di questo equilibrato rapporto tra architettura e città che caratterizza Asmara: Ferrazza è infatti, come abbiamo visto, ingegnere capo del Municipio di Asmara1, ed è in questa veste che, sin dal suo insediamento, mette mano al riordino dell’area dei mercati della città. In tutte le città coloniali eritree la posizione della piazza del mercato ha un valore fondativo: i piani regolatori redatti dall’Ufficio Centrale del Genio Civile dell’Eritrea a partire dagli anni Dieci si basano su un 1. Cfr. G. FERRAZZA, Curriculum vitae professionale, Archivio Ferrazza, Milano. Il curriculum, insieme ad altri documenti, è stato ritrovato da Giuliano Gresleri presso Carla Griffini Ferrazza, nuora dell’architetto. 79 80 Parte I – Capitolo II Figura 2. UFFICIO CENTRALE DEL GENIO CIVILE, ING. O. CAVAGNARI, Asmara, Piano Regolatore di massima, 1913 (Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente). In evidenza l’area dei mercati. L’area dei Mercati di Asmara Figura 3. VITTORIO CAFIERO, Piano Regolatore di Asmara, 1938 (Archivio Centrale dello Stato Ministero dell’Africa Italiana). In evidenza l’area dei mercati. 81 82 Parte I – Capitolo II tracciato ortogonale organizzato a partire proprio dalla piazza del mercato; in maniera più semplice nei centri minori, come Adi–Cayeh, Segheneiti, Mendefera e più ricca e articolata nelle città più grandi o con maggiori prospettive di crescita, come Agordat, Keren o, appunto, Asmara2. Ad Asmara la presenza della piazza del mercato è registrata, nella posizione che ha conservato sino ai nostri giorni, già nella cartografia del 1895; la sua figura pressocché definitiva viene assunta intorno agli anni Dieci, e consolidata da Odoardo Cavagnari nel primo vero piano regolatore per la città, redatto nel 1913, che ne fa il principale spazio pubblico di Asmara. L’area dei mercati prende, nel progetto di Cavagnari, la forma di un lungo rettangolo esteso secondo la direzione est–ovest, intersecato ortogonalmente a circa 2/3 della dimensione maggiore da un sistema di giardini, che si attesta, a nord e a sud, sulle due principali strade urbane — le attuali Nakfa Avenue e Harnet Avenue, e concluso a est da una esedra verde, ai piedi della cattedrale copta di Enda Mariam; circa all’incrocio dei due bracci si trova la Grande Moschea. È su questo impianto che Ferrazza avvia il suo progetto di ridefinizione del sistema di spazi pubblici ed edifici. Il progetto di Ferrazza, nelle sue operazioni fondamentali, può esse2. Cfr. S. ZAGNONI, L’Eritrea delle piccole città, 1897–1936, in G. GRESLERI, P.G. MASSARETTI, S. ZAGNONI (a cura di), op. cit., p. 154. L’area dei Mercati di Asmara 83 re così descritto: — ridefinizione dell’invaso della piazza del mercato originaria attraverso la riprogettazione degli edifici perimetrali, concepiti su due livelli con un fronte porticato unificato; — ridefinizione del braccio nord–sud attraverso l’unificazione dei fronti, basati in questo caso sulla ripetizione di un motivo ad arcate a tutta altezza; — introduzione, all’interno dei due bracci ortogonali, di un sistema di padiglioni (gli edifici dei mercati coperti e la nuova Moschea, progettati a partire dal medesimo sistema di elementi e proporzioni) alternati a spazi verdi. Ferrazza conferma sostanzialmente l’impianto urbano di Cavagnari a partire dal potenziamento della funzione mercato, che adesso si estende al braccio nord–sud, precedentemente destinato a verde, ed ora destinata al mercato per gli italiani. Gli anni in cui l’intervento viene progettato e iniziato a realizzare sono quelli immediatamente precedenti la promulgazioni delle leggi razziali, con le quali, nel 1938, il regime fascista sancisce ufficialmente la sua adesione alla politica segregazionista dell’alleato nazista. Pur cominciando dunque ad essere più pressanti gli orientamenti verso una chiara separazione, sociale e dunque spaziale, tra colonizzatori e indi- 84 Parte I – Capitolo II geni — orientamenti invero sempre presenti, seppure non rigidamente, sin dall’inizio dell’impresa coloniale italiana — prevale ancora l’idea dell’opportunità di un certo grado di integrazione tra le popolazioni. È in questa ottica che ragiona Ferrazza — con il sostegno istituzionale del Governatore Daodiace — nell’affrontare il progetto. Pertanto la riorganizzazione dell’area dei mercati in due entità distinte, destinate l’una — quella più antica — agli eritrei, l’altra alla comunità italiana ed internazionale, avviene secondo una logica che va più in direzione della (possibilità di) integrazione che della separazione: Ferrazza, insomma, continua a vedere nel mercato il principale punto di incontro tra le diverse componenti della città, etniche e religiose. La complessità del programma — per funzioni e per tipi di intervento — diviene per l’architetto l’occasione per una attenta articolazione dello spazio urbano: il dispositivo architettonico attraverso cui Ferrazza realizza l’integrazione tra i due bracci del sistema dei mercati è costituito dai due passaggi pubblici che l’architetto prevede ai lati della nuova Moschea, ricostruita sul sedime della vecchia — e dunque a fondale dell’area del mercato degli italiani. Questi passaggi, sottolineati da quattro portali, quasi dei “baldacchini” — due per lato — sormontati da cupolette, sono posti in continuità con le strade che corrono in direzione nord–sud, che in questo modo li attraversano raggiungen- L’area dei Mercati di Asmara 85 1 2 3 4 5 Figura 4. Rilievo dell’area dei Mercati di Asmara con indicazione degli interventi progettati da G. Ferrazza: 1. Mercato delle Granaglie; 2. Grande Moschea; 3. piazza monumentale; 4. Mercato dei Generi Alimentari; 5. Mercato del Pesce. 86 Parte I – Capitolo II do il braccio est–ovest del sistema. Ferrazza restituisce così unitarietà al complesso dei mercati, senza comprometterne l’autonomia programmatica delle parti. Si tratta dunque di un progetto di grande impegno e di notevole interesse sia sotto il profilo architettonico che urbano, costituendo un esempio di reciproca definizione di spazi urbani e di edifici, in una logica che può significativamente accostarsi a quella del progetto urbano contemporaneo. Come è noto, Manuel de Solà Morales ha individuato, all’interno della ricerca del Moderno, una via alternativa a quella percorsa dai CIAM per quanto riguarda il progetto della città. L’urbanistica dei CIAM, che ha nella Carta d’Atene la sua esposizione più compiuta — seppur tardiva e fortemente condizionata dalle posizioni del suo estensore materiale, Le Corbusier, vedeva la città moderna essenzialmente come entità separata dalla città tradizionale. Le “quattro funzioni” — abitare, lavorare, divertirsi, circolare — che il IV CIAM aveva impiegato come categorie analitico–descrittive della situazione urbana degli anni Trenta per mostrarne limiti e contraddizioni ed evidenziare la necessità di un nuovo approccio al problema della crescita delle città, al momento in cui venivano poste alla base del progetto della città L’area dei Mercati di Asmara 87 moderna mostravano i limiti del loro trasferimento lineare dal piano cognitivo–esplicativo al piano normativo3. Solà Morales, nel criticare l’ortodossia della “città funzionale”, mette in evidenza la presenza, nell’ambito della riflessione teorica e della pratica progettuale del Moderno, di una linea di ricerca che non abbandona la città concreta, ma vede nel confronto con essa il campo di applicazione dell’architettura moderna. È questa una diversa maniera di pensare l’urbanistica, che faceva tesoro della specifica condizione di ogni parte urbana, avendo come prospettiva la grande città come artefatto complesso, sempre più ricco e differenziato […]. La nozione di metropoli moderna non comportava la riduzione schematica come principio del suo disegno. Al contrario, il potenziale urbanistico proprio dell’idea di metropoli ha prodotto la progressiva incorporazione culturale di temi e nuovi aspetti della città […]. È così, figlio della complessità e della sovrapposizione, che il “progetto urbano” nasce e si configura come il momento progettuale più adeguato, ricco, variato e capace per la progettazione della città moderna4. Solà Morales riconosce questo atteggiamento di apertura nei confronti della città concreta nel lavoro di un certo numero di architetti 3. Cfr. P. G. Gerosa, I testi della città funzionale, in P. Di Biagi (a cura di), La Carta d’Atene, Roma 1998, pp. 73–105. 4. M. de Solà Morales, Un’altra tradizione moderna, in «Lotus», n. 64, 1989, pp. 6–31 (p. 8). 88 Parte I – Capitolo II moderni, operanti in contesti spesso molto diversi ma accomunati da un «effettivo amore per la città preesistente» che sostiene la tensione «a cercarne la trasformazione più rigorosa»5. Cita così le opere di Dudok, Oud, De Klerk, Berlage, che, in Olanda, «prospettano uno stile di progettazione urbana che si annuncia come una nuova intromissione in un contesto esistente»6; ma anche quelle di De Finetti, Lancia e Muzio a Milano (architetti, questi, appartenenti al medesimo contesto culturale in cui si forma ed opera Ferrazza), Saarinen e Markelius a Helsinki, Plecnik a Lubiana, che «trattano la città come campo aperto alla nuova architettura, senza che quest’ultima perda mai la propria connotazione di strumento di strutturazione urbana»7. Il progetto urbano moderno è, in ultima analisi, il frutto di una disposizione ermeneutica nei confronti della città esistente, volta a cogliere nelle sue stratificazioni, sovrapposizioni, contraddizioni, continuità e discontinuità, un deposito di materiali disponibili alla rielaborazione e alla trasformazione — anche radicale. È questo un modo di operare che ritroviamo lungo tutto il corso della storia dell’architettura e della città: un esempio significativo è il Rinascimento italiano, momento di grande spinta innovativa, in cui la riflessione sulla città, nei suoi esiti più radicali, prende le forme della 5. Ivi, p. 8. 6. Ibidem. 7. Ibidem. L’area dei Mercati di Asmara 89 “città ideale”, ma si attuerà, come teorizzato da Alberti, nell’«inserimento di frammenti nuovi, edifici, piazze o strade, nel contesto antico […], unico metodo per evitare che l’atteggiamento razionalista agisca contro la storia»8, e non tanto nelle tardive realizzazione dei modelli teorici. Il progetto per Pienza di Bernardo Rossellino è in questo senso un esempio della possibilità di produrre una radicale trasformazione dell’esistente attraverso l’introduzione di pochi elementi strategici che agiscono da catalizzatori della nuova forma urbana. Solà Morales vede tre campi d’azione privilegiati per il progetto urbano: i tracciati stradali, i tessuti, gli spazi urbani; cioè a dire gli elementi costitutivi della struttura urbana. La strada può divenire, in questo senso, uno strumento di unificazione di parti eterogenee — edifici, spazi aperti; i tessuti possono essere trasformati per sottrazione o addizione di elementi; gli spazi urbani, infine, possono essere reinterpretati intervenendo, ad esempio, sulla loro figura e sul disegno del suolo. Questi temi vengono sistematicamente esplorati da Guido Ferrazza nel suo progetto per il riordino dell’area dei mercati di Asmara: i tracciati stradali vengono infatti assunti come struttura di connessione tra spazi urbani ed edifici, e il tessuto urbano esistente viene integrato dall’inserimento di un sistema di padiglioni e aree a verde nelle due grandi piazze perpendicolari, il cui spazio viene così ricalibrato e differen8. B. Zevi, Saper vedere la città, Torino 1997 (1960), p 13. 90 Parte I – Capitolo II ziato, nonchè riarticolato nell’orografia per mezzo di scavi e basamenti. Ferrazza introduce in questo modo un frammento di città moderna dentro la città esistente, operando in continuità con l’esistente: manovrandone cioè gli elementi costitutivi della struttura urbana, e perseguendo così l’obiettivo della modernizzazione in maniera in qualche modo naturale, senza ricorrere a contrapposizioni di natura “ideologica” né tanto meno “stilistica”. Ad un livello più generale, potremmo dire strategico, Solà Morales individua cinque punti che caratterizzano il progetto urbano moderno; anche questi possono essere facilmente rintracciati nel progetto di Ferrazza, del quale costituiscono in effetti una sorta di descrizione retroattiva: «1. Posizione strategica nella città, con importanti effetti indotti oltre l’area di intervento»: il sistema dei mercati occupa, come si è detto, il nucleo di fondazione di Asmara; le attività del mercato — botteghe artigiane, piccoli esercizi commerciali di vario genere, magazzini — si diffondono per tutto il tessuto urbano circostante, facendo dell’intera area un vero e proprio quartiere commerciale. «2. Complessità e interdipendenza del suo programma funzionale; superamento del progetto monografico in un programma complesso di L’area dei Mercati di Asmara 91 varie parti [...] interdipendenti»: la Moschea, i mercati coperti, gli edifici perimetrali e gli spazi intermedi sono progettati come un sistema di parti concettualmente correlate ma architettonicamente autonome. Le diverse funzioni — religiosa, commerciale, residenziale, ricreativa — si integrano nello spazio urbano in modo da produrre una continuità di uso nell’arco della giornata. «3. Dimensione intermedia, significativa per la città ma capace di svilupparsi in un progetto esecutivo unitario»: il progetto di Ferrazza ridefinisce una intera parte di città, consolidandola sia nella forma che nella funzione; l’intervento non è stato portato a termine nella sua interezza a causa degli eventi bellici, ma le parti esistenti sono state progettate e realizzate nel giro di pochi anni. «4. [Adozione di una] architettura urbana»: tutti gli edifici progettati da Ferrazza in quest’area, a prescindere dalla destinazione funzionale, sono pensati come pezzi della costruzione della città. Significativo in tal senso è l’impiego di parti architettoniche come portici, gallerie, passaggi coperti, che, nel determinare una varietà di spazi urbani intermedi tra esterno e interno, fanno degli edifici il vero strumento di definizione dello spazio urbano. «5. importante componente pubblica negli investimenti e negli usi collettivi del programma»9: il progetto, pensato per riqualificare l’inte- 92 Parte I – Capitolo II ra area dei mercati di Asmara, era interamente finanziato dallo stato per quanto riguarda la realizzazione degli edifici pubblici — i padiglioni dei mercati coperti e la Moschea — mentre affidava all’iniziativa privata la realizzazione degli edifici perimetrali del sistema delle piazze. L’attenzione al rapporto tra architettura e città, ed in particolare all’architettura come principale strumento di costruzione della città, attraversa, in effetti, tutta la carriera di progettista di Guido Ferrazza, e risale agli anni del Club degli Urbanisti, il gruppo milanese costituitosi in occasione del concorso per idee per un nuovo piano regolatore per Milano del 1926–27, e formato da alcune tra le personalità decisive nel processo di rinnovamento architettonico in Italia negli anni tra le due Guerre, tra cui: Alpago Novello e Cabiati, soci con Ferrazza dello studio professionale in cui l’architetto triestino svolse la sua attività sino alla trasferta in Africa Orientale; e poi De Finetti, Muzio, Lancia, Ponti e altri10. Il progetto presentato dal gruppo al concorso, denominato Forma Urbis Mediolani, è emblematico dell’idea di città sottesa al loro lavoro: forma urbana in opposizione alla griglia ordinatrice indifferenziata dell’urbanistica ottocentesca; «spazio urbano pensato come risultato di 9. Cfr. M. DE SOLÀ, Progetto urbano, in M. DE SOLÀ (a cura di MIRKO ZARDINI), Progettare città / Designing Cities, «Lotus Quaderni» n. 23, Milano 1999, pp. 58–79 (p.64). Si tratta dello stesso articolo pubblicato in «Lotus», n. 64, lievemente riscritto in alcune parti, tra cui quella sopra citata. 10. Cfr. ad es. G. CIUCCI, Gli architetti e il fascismo, Torino 1989, p. 61. L’area dei Mercati di Asmara Figura 5. G. FERRAZZA, A. ALPAGO NOVELLO, O. CABIATI, progetto per il mercato, Tripoli, 1930–36 (Archivio Alpago Novello, Centro Studi e Archivio della Comunicazione Parma). 93 94 Parte I – Capitolo II Figura 6. G. FERRAZZA, A. ALPAGO NOVELLO, O. CABIATI, progetto di sistemazione dell’area antistante il Palazzo del Governatore, Bengasi, 1928–35 (Archivio Alpago Novello, Centro Studi e Archivio della Comunicazione Parma). L’area dei Mercati di Asmara 95 attente disposizioni volumetriche, di calibrati accostamenti delle partiture architettoniche o anche solo del semplice avanzare e arretrare delle superfici»11. Il piano, infatti, pur affrontando il problema della progettazione urbana a partire dalla questione della circolazione, mette in relazione i tracciati viari con la morfologia urbana e quindi con l’architettura, studiando le implicazioni reciproche attraverso una serie di tavole prospettiche sui luoghi interessati dal riassetto viario12. Progettare la città «per singoli punti, ricondotti al disegno di insieme»13, è la strategia che Ferrazza, insieme con Alpago Novello e Cabiati mette in atto nei suoi progetti in Libia, a partire dal primo, importante incarico per il piano regolatore generale di Tripoli, 1930–36. Tale strategia è esplicitata nella serie di tavole prospettiche che accompagnano gli elaborati planimetrici del piano, in cui, con modalità grafiche diverse in relazione all’obiettivo — schizzi a fini progettuali, rappresentazioni più accurate per la presentazione pubblica — vengono indagate le diverse parti della città interessate da interventi progettuali puntuali14. Anche in colonia, dunque, i tre architetti milanesi continuano a portare avanti la ricerca avviata con Forma urbis Mediolani, che assume l’architettura, nel suo rapporto con la rete viaria, come strumento di 11. 12. 13. 14. Ivi., p. 62. Cfr. F. ZANELLA, op. cit, pp.122–123. Ibidem. Ibidem. 96 Parte I – Capitolo II controllo della forma urbana. Simili modalità di intervento si ritrovano nel contemporaneo piano per Bengasi, dove all’attenzione per la forma urbana si associa l’attenta definizione architettonica delle parti emergenti15. Guido Ferrazza interviene sull’area dei mercati di Asmara secondo modalità consolidate, ridefinendo gli spazi urbani attraverso il calibrato inserimento di nuovi elementi. Un ruolo decisivo è demandato agli edifici, dalle cui relazioni reciproche e con il contesto preesistente dipende il risultato complessivo. Come accennato più sopra, Ferrazza progetta un sistema di padiglioni all’interno dei due bracci del sistema dei mercati: il Mercato delle Granaglie nel braccio est–ovest, relativamente autonomo; il Mercato del Pesce, il Mercato dei Generi Alimentari e la Grande Moschea nel braccio nord–sud, strettamente correlati. Gli edifici mostrano un chiaro riferimento a quel “classicismo mediterraneo” fatto di elementi e parti dell’architettura classica — talvolta integrati da riferimenti alle culture costruttive e figurative locali —, aggregati in edifici volumetricamente semplici e tipologicamente rigorosi, che caratterizza certa architettura coloniale italiana a partire dalla metà degli anni Venti (ad es. in Libia, dove, come abbiamo visto, Ferrazza matura la sua esperienza di “architetto coloniale”), e che trova 15. Ibidem. L’area dei Mercati di Asmara Figura 7. Il Mercato dei Generi Alimentari, l’ingresso visto dalla strada che attraversa l’edificio (foto 2004). 97 ampio spazio nel dibattito teorico sulle riviste di architettura degli anni Trenta. Ma ciò che è più importante di questi edifici è l’attenzione che Ferrazza presta ai rapporti che essi stabiliscono con i percorsi urbani. Di particolare interesse è il modo in cui la scelta tipologica compiuta per il padiglione del Mercato dei Generi Alimentari si combina con la morfologia urbana. L’edificio è definito da un impianto basilicale centralizzato dalla presenza di una cupola all’incrocio tra l’asse maggiore, di distribuzione — lungo cui si attestano i banchi per la vendita — e l’asse minore, di accesso; Ferrazza posiziona il padiglione allineandone l’asse minore con le due strade che conducono alla piazza in cui è situato: in questo modo il sistema di accesso all’edificio diviene, a scala urbana, sistema di attraversamento, ristabilendo la continuità che la collocazione dell’edificio avrebbe altrimenti interrotto. Ancora, ad un’analisi metrica più attenta, emerge come l’allineamento sia calibrato in maniera tale da “compensare” lo sfalsamento tra le due strade preesistenti, la cui continuità risulta in definitiva accentuata anziché indebolita. Una strategia analoga viene messa in atto nel progetto della Grande Moschea. In questo caso la funzione non rende possibile far passare letteralmente i percorsi dentro l’edificio; Ferrazza concepisce pertanto la 98 Parte I – Capitolo II Moschea come una sala a pianta pressoché quadrata, affiancata da due passaggi pubblici che, in elevazione, ne completano il fronte. Tali passaggi, che contengono gli ingressi secondari alla sala di preghiera, sono allineati alle strade che attraversano longitudinalmente i bordi del braccio nord–sud della piazza: in questo modo, il sistema dei percorsi a scala urbana diviene parte integrante del sistema di accesso e circolazione nell’edificio. Far passare lo spazio urbano attraverso l’edificio è dunque un principio costitutivo dell’intero intervento di Ferrazza, che ne rafforza l’interpretazione in termini di progetto urbano. Guido Ferrazza, nel breve periodo trascorso alla guida dell’Ufficio Tecnico del Municipio di Asmara, contribuisce al rinnovamento del nucleo centrale della città, ponendo le premesse per una sua crescita equilibrata. La modernità del suo intervento non è da ricercarsi nel ricorso alla sperimentazione linguistica o costruttiva, come avviene in altri importanti edifici realizzati ad Asmara — uno su tutti la già citata stazione di servizio Fiat Tagliero, vera e propria “macchina volante” in cemento armato. Ferrazza persegue una idea di modernità che poco ha a che vedere con l’avanguardia figurativa, ponendosi, come osservato in preceden- Figura 8. La Grande Moschea, passaggio laterale est, 1938 ca. (Pavoni Social Center — Biblioteca, Asmara). L’area dei Mercati di Asmara Figura 9. G. FERRAZZA, sede della Banca d’Italia, Bengasi, 1936 (Archivio della Banca d’Italia, Roma ). 99 za, in continuità piuttosto che in opposizione rispetto alla tradizione disciplinare. Occorre dunque, anche seguendo le indicazioni rintracciabili nel suo scritto sul costruire in colonia, guardare alla razionalità delle scelte costruttive e tipologiche, e al modo in cui si traducono in forma architettonica, per comprendere come l’opera di Ferrazza in Asmara, e più in generale in colonia, sia ascrivibile a pieno titolo alla modernità. Ferrazza come abbiamo visto identifica la modernità con la razionalità costruttiva e non con la sperimentazione tout court; da qui la sua posizione apparentemente di retroguardia — peraltro rivendicata esplicitamente con una qualche compiaciuta ironia —, che prospetta il “ritorno al passato” in opposizione ad una superficiale e acritica adesione al “linguaggio moderno”, pur non escludendo in linea di principio la possibilità di esiti figurativamente più avanzati per la ricerca architettonica al momento in cui i materiali adeguati si rendano effettivamente (cioè economicamente) disponibili16. Gli edifici realizzati da Ferrazza in colonia aspirano ad una essenzialità della forma17 che è frutto di un procedimento di astrazione ope16. Cfr. G. Ferrazza, Il problema del costruire nell’Impero, in «Rassegna di Architettura», I, 1937. 17. «Le opere di Ferrazza in Eritrea ed Etiopia si contraddistinguono per una insistita ricerca di semplicità, per una tendenza all’essenziale nelle forme mescolata ad una grande ricchezza tipologica: si tratta quindi di una sperimentazione continua [frutto della mediazione tra] tradizione locale (…) e le difficili condizioni economiche e costruttive». Cfr. G.P. CONSOLI, I protagonisti, in Architettura nelle colonie italiane in Africa, «Rassegna» n. 51/3, 1992, p. 56. 100 Parte I – Capitolo II rato a partire dalla adeguatezza della costruzione: modernità senza avanguardia. Se guardiamo all’intervento sull’area dei mercati nel suo insieme, possiamo riconoscere la modernità dello spazio urbano da lui progettato nella chiarezza geometrica degli invasi definiti dagli edifici e nella regolarità del sistema di portici che avrebbe dovuto circondare l’intero perimetro della croce di piazze; cioè a dire, per riprendere le parole di Manuel de Solà Morales, nell’adozione consapevole di una architettura urbana, che diviene una vera e propria cornice architettonica per le attività del mercato. Solo una parte del progetto di Ferrazza fu effettivamente realizzata, il che rende ancora possibile vedere come questi spazi dovevano apparire all’inizio del secolo, delimitati da edifici ad un piano dotati di portici con sottili colonne con capitello, che già da allora dovevano funzionare da elemento unificante dello spazio. Ciononostante, e a dispetto della assoluta mancanza di manutenzione, le piazze dei mercati di Asmara e i suoi edifici conservano ancora oggi, con grande chiarezza, la composta monumentalità dell’intervento dell’architetto trentino. Nel corso del tempo, come è ovvio, alcune trasformazioni sono intervenute a modificare l’assetto che l’area dei Mercati aveva alla fine Figura 10. Piazza del Mercato, edifici porticati preesistenti all’intervento di G. Ferrazza (foto 2005). L’area dei Mercati di Asmara Figura 11. Piazza del Mercato. Edifici porticati realizzati secondo il modello di G. Ferrazza (foto 2005). 101 degli anni Trenta; modificazioni che hanno interessato ora i singoli edifici, ora gli spazi urbani, e che non sempre sono andate in una direzione coerente con il disegno generale del progetto di Ferrazza. In particolare, come si chiarirà più avanti, la chiusura dei due passaggi laterali della Grande Moschea e la loro trasformazione in spazi interni annessi alla sala di preghiera, determinando una cesura tra le due parti del sistema dei Mercati, ha gravemente compromesso l’unitarietà del disegno urbano originario — causando nei fatti quella segregazione, spaziale e per certi versi sociale, che il progetto originario aveva sapientemente saputo evitare. L’indagine progettuale, nella sua caratteristica duplicità di strumento analitico e trasformativo, mettendo in luce i principi architettonici e urbani dell’intervento di Ferrazza, ha reso evidente come il restauro di quei principi passi per il ripristino dei passaggi laterali nella loro originaria funzione urbana. Parte II Il sistema dei Mercati di Asmara come progetto architettonico e urbano sul retro: il Mercato dei Generi Alimentari, Asmara (foto 2003). Capitolo I Documenti e Progetto Uno dei più evidenti elementi distintivi della produzione architettonica del XX secolo, rispetto a quella precedente, è la cospicua mole di documenti disponibili, direttamente o indirettamente riconducibili alle realizzazioni: schizzi concettuali ed illustrativi; disegni progettuali di varie versioni e a scale diverse; modelli; immagini fotografiche del luogo precedenti alla realizzazione, del cantiere, della realizzazione stessa; relazioni di progetto, e ancora, in alcuni casi, pubblicazioni su riviste specializzate, accompagnate da scritti critici sull’edificio. A questo si aggiunge il fatto che spesso si conoscono numerosi progetti e realizzazioni dello stesso architetto, del quale è altresì noto il profilo biografico — formazione, esperienze lavorative, collaborazioni, altre attività, ecc. Si tratta, come si vede, di documenti certamente eterogenei, che pertanto occorre saper interpretare in modo da poterne trarre indicazioni per la conoscenza dell’edificio dal punto di vista del progetto architettonico — obiettivo, questo, centrale sul piano disciplinare. Numerosi sono i fattori che concorrono al determinarsi di questa 105 106 Parte II – Capitolo I condizione di grande disponibilità di documenti, alcuni contingenti, altri strutturali. Tra i fattori contingenti c’è senz’altro la breve distanza temporale che ci separa dalle opere di cui ci occupiamo, progettate e realizzate in gran parte negli anni tra le due guerre mondiali. Ciò rende relativamente semplice il reperimento di fonti documentarie: gli archivi privati degli architetti — spesso ancora integri, seppur di non semplice consultabilità — e quelli degli uffici tecnici dei comuni presso cui sono stati realizzati gli edifici, custodiscono in molti casi una documentazione pressoché completa del progetto. A questo si aggiunge la “riproducibilità tecnica” degli elaborati grafici e fotografici che ne ha oggettivamente facilitato la conservazione. Tra i fattori strutturali occorre invece tenere presente la sempre maggiore centralità del progetto nel “modo di produzione” dell’architettura. Non che il progetto fosse, per così dire, estraneo alla disciplina architettonica dell’era premoderna, ma è chiaro che l’aumento della complessità dei compiti dell’architetto, sempre più spesso chiamato a gestire e a far convergere una gamma di competenze via via più specialistiche, ha contribuito a fare del progetto il momento centrale del processo produttivo dell’architettura sul piano della sua organizzazione, sia tecnica (ciascuno dei sottosistemi che costituiscono l’edificio Documenti e progetto 107 necessita di un progetto specifico: struttura, impianti, arredi, ecc.) che burocratica (ciascuna fase dell’iter progettuale, dall’ideazione alla realizzazione, necessita di una specifica serie di elaborati). L’indagine sul sistema documentario riconducibile all’oggetto di studio acquisisce dunque un peso decisivo nello studio dell’architettura moderna. L’esistenza del “progetto originale” di un edificio rende possibile il confronto, per dirla in termini albertiani, tra disegno e costruzione, cioè tra il documento grafico, che si suppone contenere i principi architettonici del progettista e il documento costruito, che mostra la particolare maniera in cui tali principi hanno assunto forma fisica. La modernità del discorso di Alberti, come è noto, consiste nell’aver messo in luce l’indipendenza logica delle due categorie di cui si compone l’architettura, nonchè la priorità epistemologica del disegno sulla costruzione: «la forma della costruzione riposa interamente nel disegno stesso».1 Senza con questo voler negare l’importanza della costruzione fisica rispetto alla costruzione logica dell’architettura, (anche sotto il profilo euristico: il modo di realizzare un edificio — tecnica costruttiva, materiali — può suggerire una certa soluzione sul piano progettuale), 1. Cfr. L.B. ALBERTI, L’architettura, Milano 1989 (Firenze 1485), Libro I, cap. I, p. 12. 108 Parte II – Capitolo I Alberti ha reso evidente che il progetto costituisce il fatto teorico centrale dell’architettura, e non una mera applicazione, più o meno automatica, di un certo sistema di regole. La ricaduta di questa posizione sul ragionamento progettuale legato al restauro del moderno è rilevantissima: se nel progetto risiede il contenuto teorico dell’architettura, allora è attraverso l’indagine sul progetto che è possibile risalire, in maniera attendibile, ai principi architettonici della costruzione. La disponibilità di documenti relativi al progetto originale di una data opera — o a questa riconducibili — fornisce così allo studioso un paradigma interpretativo che lega l’edificio realizzato al ragionamento progettuale che lo ha prodotto, e dunque ai suoi principi architettonici. Il riconoscimento di tali principi nel corpo dell’edificio è, come si vedrà meglio più avanti, il momento fondativo del progetto di restauro che, ponendosi in continuità con il ragionamento progettuale dell’autore dell’opera, si configura, in ultima analisi, come restauro dei principi architettonici e urbani dell’edificio. Come si è accennato nell’introduzione di questo lavoro, i documenti disponibili relativi al progetto di Guido Ferrazza per il riordino dell’area dei mercati di Asmara sono in numero assai esiguo. In particolare non è stato possibile ritrovare i disegni di progetto dei padiglioni dei Documenti e progetto 109 mercati — con l’eccezione di un disegno prospettico dell’edificio del Mercato dei Generi Alimentari — e della Grande Moschea. Questa condizione ha in qualche modo costituito uno degli aspetti di specificità di questa ricerca: la mancanza dei disegni di progetto — in realtà parzialmente surrogata da altri documenti progettuali — sembrerebbe in effetti ricondurre il restauro del moderno al caso più generale e conosciuto del restauro architettonico degli edifici antichi. Ciò, come si è potuto constatare “in corso d’opera”, è vero solo parzialmente: se da un lato, infatti, l’assenza dei disegni autografi ha reso impossibile il confronto tra il progetto e lo stato di fatto degli edifici e del sistema urbano, dall’altro la conoscenza delle condizioni contestuali della realizzazione, associata a quella dell’autore e delle sue altre realizzazioni in situazione coloniale, ha garantito la base scientifica necessaria ad una interpretazione fondata della costruzione. L’indagine sulle fonti d’epoca è stata condotta essenzialmente su due fronti: quello delle pubblicazioni di propaganda delle politiche coloniali del fascismo e quello dei fondi archivistici del Ministero delle Colonie (ora presso l’Archivio Centrale dello Stato) e del Municipio di Asmara. 110 Parte II – Capitolo I Fonti indirette. Pubblicazioni di propaganda degli anni Trenta L’Eritrea ed Asmara non sono mai state seriamente prese in considerazione dalla pubblicistica specialistica architettonica. Nonostante l’imponente sforzo compiuto dal regime fascista per dotare questo paese di tutte le opere necessarie per renderlo a tutti gli effetti “Italia d’Oltremare”, la relativa rapidità con cui tutto questo accadde — intorno alla metà degli anni Trenta — insieme con la sostanziale rimozione operata sino a quel momento, aveva fatto sì che nessuno tra gli architetti impegnati nel dibattito disciplinare nazionale fosse mai stato impegnato, direttamente o indirettamente, in Eritrea. Per questo motivo, sino a pochi anni fa, la cultura architettonica nazionale e internazionale ignorava non solo i nomi dei progettisti protagonisti della costruzione delle città eritree, ma l’esistenza stessa di quelle città — e di Asmara in particolare — come vero e proprio “giacimento” dell’architettura moderna. Al contrario, sulle pubblicazione di propaganda a sostegno delle politiche coloniali dell’Italia, l’Eritrea trova ampio spazio; in particolare, come si è detto, a partire dalla metà degli anni Trenta, quando Asmara, alla vigilia della campagna d’Etiopia, diviene una sorta di laboratorio per le future realizzazioni nelle città dell’ “Impero” mussoliniano. Documenti e progetto Figura 1. Panorama di Asmara («Annali dell’Africa Italiana», vol.4, 1939). Figura 2. M. MESSINA, Cinema Impero, Asmara, 1937 («Annali dell’Africa Italiana», vol.4, 1939). 111 Di grande interesse per la ricostruzione della cronologia delle realizzazioni architettoniche nelle città eritree sono gli «Annali dell’Africa Italiana», che documentano con continuità (ed enfasi) le conquiste del regime fascista in direzione della “civilizzazione” di quelle terre. Il numero 4 della rivista, in particolare, è dedicato integralmente alla Costruzione dell’Impero2. Pubblicato alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, costituisce in qualche modo il riassunto delle realizzazioni e delle intenzioni del regime fascista nelle colonie africane. Grande attenzione viene rivolta alle vicende del Piano Regolatore di Asmara. Trattandosi di una pubblicazione di regime, volta ad offrire una rappresentazione di grande efficienza dell’azione coloniale italiana, non viene fatto cenno alla vicenda del concorso per il PRG, il cui esito, come abbiamo accennato in precedenza, porta alla destituzione del Governatore dell’Eritrea, ingegnere De Feo, risultato vincitore del concorso. L’estensore dell’articolo rende conto dunque del lavoro svolto dall’Ufficio delle Opere Pubbliche ai fini dell’adeguamento del piano regolatore del 1913 — essenzialmente rivolto all’adeguamento della viabilità e alla ridefinizione della zonizzazione in senso più marcatamente segregazionista — e quindi del nuovo piano regolatore redatto da Vittorio Cafiero tra il 1938 e il 1939. Grande enfasi viene posta sulle realizzazioni edilizie, delle quali si 2. «Gli Annali dell’Africa Italiana», a. II, vol. IV, 1939. 112 Parte II – Capitolo I offre un resoconto per ciascuno dei Commissariati in cui è suddivisa la colonia Eritrea — anche se in nessun caso viene indicato il progettista. Il capitolo dedicato al Commissariato dell’Hamasien, entro cui ricade Asmara, fa cenno tuttavia, per quanto riguarda la ridefinizione dell’area dei mercati, solo alla realizzazione del padiglione del Mercato delle Granaglie. Di grande interesse è invece la documentazione fotografica pubblicata, che mostra gran parte degli edifici dell’Asmara moderna appena ultimati — certamente la più completa mai pubblicata in quegli anni. Tra questi troviamo gli edifici realizzati da Ferrazza nell’area dei Mercati: il padiglione del Mercato dei Pesce, che mostra il portico interamente aperto, diversamente da oggi; il padiglione del Mercato dei Generi Alimentari che, in una delle foto, è ancora in costruzione (manca in particolare la cupola in vetrocemento); il Mercato delle Granaglie, sul cui fronte si legge l’anno di ultimazione, il 1937 e i cui prospetti laterali (oggi chiusi) sono ancora permeabili. Mancano, curiosamente, immagini specifiche della Moschea; forse la realizzazione di un grande edificio monumentale per la popolazione locale non avrebbe riscosso grande consenso nella madrepatria delle leggi razziali? Figura 3. C. MARCHI, Palazzo dell’Ala Littoria, Asmara, 1938 («Annali dell’Africa Italiana», vol.4, 1939). Figura 4. Sede della AGEA, Asmara, 1938 ca. («Annali dell’Africa Italiana», vol.4, 1939). Documenti e progetto Figura 5. G. FERRAZZA, Mercato delle Granaglie, Asmara, 1937 («Annali dell’Africa Italiana», vol.4, 1939). Figura 6. G. FERRAZZA, Mercato del Pesce, Asmara, 1937 ca. («Annali dell’Africa Italiana», vol.4, 1939). 113 114 Parte II – Capitolo I Figura 7. G. FERRAZZA, Mercato dei Generi Alimentari, Asmara, 1937 ca. («Annali dell’Africa Italiana», vol.4, 1939). Figura 8. G. FERRAZZA, Mercato dei Generi Alimentari, Asmara, 1937 ca. («Annali dell’Africa Italiana», vol.4, 1939). Documenti e progetto 115 Fonti dirette. L’Archivio Progetti del Municipio di Asmara La maggior parte dei documenti relativi alla costruzione degli edifici dell’Asmara moderna — quelli realizzati negli anni Trenta, e in particolare dopo il 1937 — sono attualmente custoditi presso l’Archivio del Department of Infrastructures della Municipality of Asmara. L’archivio è stato gestito con una certa continuità nel corso del tempo. Questo perché, sia negli anni dell’amministrazione militare britannica, sia in seguito negli anni della federazione con l’Etiopia e infine sotto la dittatura di Menghistu, l’Ufficio Tecnico del Comune è stato guidato in larga parte da tecnici italiani o da personale locale di formazione italiana — geometri formatisi presso la Scuola Italiana di Asmara, che è sempre rimasta attiva, anche negli anni della guerra di indipendenza. Cionondimeno è ipotizzabile che una parte della documentazione sia andata dispersa nel corso del tempo: certamente all’avvicinarsi della capitolazione della Colonia Eritrea sotto l’attacco delle forze alleate, di cui i comandi militari dovevano avere chiaro sentore sin dall’inizio delle ostilità, è probabile che molti documenti relativi alle opere pubbliche — edifici governativi, infrastrutture, ecc. — siano stati portati via dall’Eritrea, o distrutti, in modo da non cadere in mani nemiche. Inoltre, negli anni del regime di Menghistu, gli archivi dell’Ufficio 116 Parte II – Capitolo I Tecnico di Asmara e dell’Ufficio per le Opere Pubbliche sono stati più volte spostati da un luogo all’altro per rendere disponibili gli edifici alle esigenze del governo etiopico. All’atto della liberazione di Asmara da parte della resistenza eritrea un gran numero di documenti provenienti dall’Ufficio Tecnico sono stati ritrovati all’interno di baracche provvisorie nell’area dell’attuale Ministery of Public Works — molti seriamente danneggiati3. Dopo l’indipendenza dell’Eritrea i materiali provenienti dai vari archivi sono confluiti in parte presso il Ministery of Public Works — soprattutto progetti infrastrutturali — e in parte presso il già menzionato Department of Infrastructures della Municipality of Asmara. Quest’ultimo archivio è stato riorganizzato in tempi recenti da un gruppo di tecnici dello stesso Dipartimento, con la collaborazione del CARP. L’archivio funziona adesso secondo un sistema basato su ZIP codes, che consentono di individuare l’area in cui si trova un determinato edificio, e plot numbers, grazie ai quali è possibile risalire al file in cui i materiali riferibili a quell’edificio sono custoditi4. A parte alcuni errori derivanti dalla scarsa comprensione della lingua italiana da parte dei tecnici preposti alla classificazione dei documenti, il limite più evidente del criterio di organizzazione dell’archivio è la mancata 3. Le notizie riportate sono il frutto di una conversazione con l’architetto Gabriel Tseggai, attuale direttore del CARP. 4. Le informazioni sulle modalità del riordino dell’archivio sono state fornite dall’ingegner Semere Abay, direttore del Department of Infrastructures – Municipality of Asmara. Documenti e progetto 117 istituzione di una collocazione separata per gli edifici di rilevanza storica. Così accade che i progetti di importanti edifici realizzati negli anni Trenta — talvolta belle tavole acquerellate o eleganti prospettive a carboncino — si trovino nella stessa cartella insieme con progetti recenti relativi ad opere di manutenzione straordinaria o alla realizzazione di nuove cubature. Ciò è certamente utile perchè consente di seguire le successive trasformazioni di un edificio o dell’area in cui insiste, ma allo stesso tempo rende assolutamente precaria la conservazione dei disegni originali delle opere realizzate. Alcuni di questi disegni versano già in condizioni di deperimento, ed è probabile che nel giro di pochi anni vadano definitivamente perduti, a meno che l’azione del CARP non si sposti in maniera mirata sulla conservazione degli archivi di architettura. Ad ogni modo, presso l’archivio non sono presenti i progetti relativi alle opere realizzate precedentemente al 1937, tranne alcune eccezioni; inoltre sono reperibili solo i progetti presentati da privati per l’approvazione. Un certo numero di progetti di edifici pubblici realizzati nella ex Colonia sono in effetti conservati presso il Ministery of Public Works, sempre ad Asmara, ma nessuno di questi è riferibile a opere di pregio. 118 Parte II – Capitolo I Il progetto di ridefinizione dell’area dei mercati L’area dei mercati di Asmara, come si è detto, può essere descritta come l’incrocio di due lunghe piazze ortogonali. Il braccio est–ovest di questa croce è la parte più antica del mercato, tradizionalmente luogo di incontro e scambio tra eritrei e italiani, la cui presenza è registrata sin dalle prime cartografie della città. Quest’area, la cui forma è già perfettamente definita nel piano Cavagnari del 1913, è oggetto di un progetto di ridefinizione da parte dell’Ufficio Tecnico Municipale di Asmara. Un’immagine fotografica rinvenuta presso l’Archivio del Municipio di Asmara e datata 1937 consente ragionevolmente di attribuire il progetto a Guido Ferrazza, all’epoca capo dell’Ufficio Tecnico5. La fotografia mostra un modello del progetto, il cui confronto con lo stato attuale rivela il rapporto tra le intenzioni del progettista e l’effettiva realizzazione. Il modello si riferisce alla parte della piazza immediatamente a est della Moschea. È costituito da quattro edifici porticati uguali, da due elevazioni, che fronteggiandosi due per lato ne definiscono il perimetro, e da due spazi a verde attrezzato, ciascuno con al centro una fontana e in testa un teatrino all’aperto che sfrutta la natura5. Presso l’Archivio del Municipio di Asmara non esiste in realtà un vero e proprio archivio fotografico: le fotografie d’epoca, di cui ormai non è possibile ricostruire la provenienza, sono custodite in alcune buste dove sono classificate per dimensione (!), e in alcuni album. Figura 9. Prospetto lungo la piazza del mercato realizzato in conformità alle indicazioni del progetto dell’Ufficio Tecnico Municipale di Asmara, 1958 (Archivio del Municipio di Asmara, cartella 176-37-x9). Documenti e progetto Figura 10. Prospetto lungo la piazza del mercato realizzato in conformità alle indicazioni del progetto dell’Ufficio Tecnico Municipale di Asmara, 1942 (Archivio del Municipio di Asmara, cartella 126-28-x9). Figure 11 e 12. Prospetto lungo la piazza del mercato realizzato in conformità alle indicazioni del progetto dell’Ufficio Tecnico Municipale di Asmara, 1952 (Archivio del Municipio di Asmara, cartella 176-37-x14). 119 120 Parte II – Capitolo I Figura 13. UFFICIO TECNICO MUNICIPALE, Bozzetto della sistemazione di Piazza Italia, Asmara 1937 (Archivio del Municipio di Asmara). Documenti e progetto 121 le pendenza del suolo. Rispetto al progetto, gli edifici realizzati mostrano alcune variazioni nel ritmo del portico — oltre ad evidenti, più recenti, superfetazioni; non c’è più traccia invece delle sistemazioni a verde, per le quali non è possibile dire se siano o meno state effettivamente realizzate. Ampi spazi verdi sono attualmente presenti alle spalle della Moschea, e nel tratto ovest della piazza, ma non è possibile stabilire se la loro realizzazione sia collegata al progetto del 1937 o se sia frutto di un intervento successivo. I progetti per l’unificazione dei fronti della piazza della Grande Moschea Figura 14. Edificio all’angolo est della piazza della Moschea, 1938 ca. (foto 2005). La parte del sistema dei mercati di Asmara in cui si trovano i due padiglioni del Mercato dei Pesce e dei Generi Alimentari, insieme con la Grande Moschea, è, dal punto di vista del carattere, relativamente indipendente dall’insieme a cui appartiene; gli spazi aperti risultano più definiti e articolati e i padiglioni più complessi sotto il profilo tipo–morfologico: è la parte più urbana del sistema. Cionondimeno — e forse proprio a causa del più forte carattere urbano — appaiono evidenti le incompletezze nella realizzazione: in 122 Parte II – Capitolo I Figura 15. V. DI GIOVINE, progetto di edificio sul fronte est della piazza della Moschea “eseguito secondo il modello approvato”, 1946 (Archivio del Municipio di Asmara, cartella 194-44-x3). Figura 16. Lotto della piazza della Moschea su cui si sarebbe dovuto realizzare l’edificio in progetto (foto 2005). Figura 17. G. ARATA, prospetto “conforme al modello ordinato dal Governatore” 1942 (Archivio del Municipio di Asmara, cartella 194-39-x24). Figura 18. G. ARATA, frammento di edificio realizzato sul fronte ovest della piazza della Moschea (foto 2005). Documenti e progetto Figura 19 e 20. C. MARCHI, Palazzo Gheresadik, angolo ovest della piazza delle Moschea, 1939 (foto 2005). (Archivio del Municipio di Asmara, cartella 176-3t-x10). 123 particolare si fa riferimento alla mancata unificazione formale e dimensionale dei fronti della lunga piazza che dalla Moschea raggiunge Harnet Avenue, tagliata a metà da Nakfa Avenue — unificazione che invece avviene sui fronti che definiscono lo spazio urbano alle spalle della Moschea, caratterizzati da un sistema di portici. L’esistenza di un disegno unificante anche per l’invaso in questione può però intravedersi nella presenza di alcuni edifici caratterizzati dalla comune partizione architettonica del prospetto. Presso l’Archivio del Municipio di Asmara è stato ritrovato, nel corso della ricerca, un certo numero di documenti relativi alla costruzione degli edifici che definiscono i fronti di questa piazza; documenti che hanno messo in luce, seppur indirettamente, l’effettiva esistenza di un disegno complessivo. In particolare, un documento relativo al progetto di uno degli edifici prospicienti la piazza della Moschea testimonia l’esistenza di un progetto generale di unificazione formale dei fronti della piazza stessa, voluto dal governatore Daodiace6. Il progetto in questione, un piccolo edificio per negozi e abitazioni, presenta infatti un prospetto basato su un ordine gigante di archi, analogo a quello che caratterizza l’isolato sul fronte opposto della stessa 6. Cfr. Archivio del Municipio di Asmara, cartella 194–39–x24. Una nota scritta a mano e non firmata, sul frontespizio del fascicolo 1326 dice: «Ordinare di costruire la facciata verso via Trentino e largo Duca d’Aosta conforme al modello ordinato dal Governatore, S.E. Daodiace». Il progetto dell’edificio in esame è datato 11 agosto 1942 ed è firmato dal geometra Giuseppe Arata. 124 Parte II – Capitolo I piazza7; disegno che ritroviamo anche in un progetto non realizzato per l’isolato accanto a quest’ultimo8, nonché nell’edificio all’angolo tra la piazza del Mercato e Nakfa avenue9. Disponiamo dunque di un ulteriore sostegno indiretto all’ipotesi che Ferrazza, durante gli anni della sua direzione dell’Ufficio Tecnico di Asmara, abbia concepito per quest’area un progetto urbano complesso, basato sulla ridefinizione dei fronti delle piazze dei mercati e sull’introduzione al loro interno di un sistema di padiglioni e spazi aperti; un progetto di grande impegno e di lungo respiro con il quale ridefinire e orientare lo sviluppo di quella parte di città. I progetti di trasformazione dei passaggi laterali della Moschea Che il sistema dei mercati di Asmara fosse visto da Ferrazza come un insieme unitario articolato nei due lunghi vuoti che si incrociano alle spalle della Moschea è confermato proprio dal progetto di quest’ultimo edificio, che, come si è detto in precedenza, prevedeva due passaggi 7. Di questo edificio non si è trovata documentazione, ma risulta realizzato in alcune fotografie probabilmente risalenti alla fine degli anni trenta, custodite — seppur non rigorosamente catalogate — presso il Municipio di Asmara. 8. Cfr. Archivio del Municipio di Asmara, cartella 194–44–x3, Progetto di fabbricato ad uso abitazioni da erigersi sul lotto n.44 – Asmara, piazza A. di Savoia – via Abruzzi, progettista ing. Vincenzo Di Giovine, approvato in data 15 gennaio 1946. Nella relazione tecnica, alla voce “elementi architettonici” si dice: «è stato eseguito il prospetto tipo approvato per piazza della Moschea». Documenti e progetto 125 laterali coperti che mettevano in comunicazione i due spazi urbani. Ciò è testimoniato, oltre che dalle fotografie d’epoca, da due ulteriori documenti, relativi proprio alla chiusura dei due passaggi per ampliare lo spazio interno della Moschea10. Il primo, datato 12 giugno 1943, è una istanza presentata dalla Comunità Musulmana di Asmara all’Ufficio Tecnico del Municipio, per la copertura dei corpi laterali della Moschea con una soletta di cemento armato. Dalla relazione tecnica del progettista Giuseppe Arata, si apprende che la copertura, da realizzarsi nello spazio intermedio tra le due cupolette del passaggio, sarebbe stata poggiata su «una serie di pilastri ed archi, perfettamente uguali, sia nel loro disegno che nella loro composizione, a quelli già esistenti»11; era previsto l’inserimento nella soletta di lucernari in vetro retinato, per garantire luminosità alla zona coperta; inoltre «delle otto finestre esistenti sui fianchi dell’attuale Moschea e prospicienti sulle aree da coprire, quattro verranno aperte per essere adibite a porte, in modo da poter collegare il salone centrale di preghiera a questi due nuovi che si verrebbero a creare»12. Il tutto, precisa il progettista, senza produrre alcuna modifica ai 9. Cfr. Archivio del Municipio di Asmara, cartella 176–3t–x10, Progetto di fabbricato in Asmara in Corso del Re – Largo Puglie – Via Sicilia, progettista arch. Carlo Marchi, approvato in data 15 febbraio 1939. 10. Cfr. Archivio del Municipio di Asmara, cartelle 194–39–x15 e 194–39–x16. 11. Cfr. Relazione tecnica, in Archivio del Municipio di Asmara, cartella 194–39–x16. 12. Ibidem. 126 Parte II – Capitolo I Figura 21. G. ARATA, Progetto di copertura e di sistemazione dei corpi laterali della Moschea di Asmara, 1943 (Archivio del Municipio di Asmara, cartella 194-39-x15). Documenti e progetto Figura 22. G. ARATA, Progetto di copertura e di sistemazione dei corpi laterali della Moschea di Asmara, 1943 (Archivio del Municipio di Asmara, cartella 194-39-x15). 127 128 Parte II – Capitolo I Figura 23. G. ARATA, Progetto di copertura e di sistemazione dei corpi laterali della Moschea di Asmara, 1944 (Archivio del Municipio di Asmara, cartella 194-39-x16). Documenti e progetto Figura 24. G. ARATA, Progetto di copertura e di sistemazione dei corpi laterali della Moschea di Asmara, 1944 (Archivio del Municipio di Asmara, cartella 194-39-x16). 129 prospetti della Moschea. I disegni che accompagnano la relazione tecnica sono quanto di più attendibile si disponga per risalire allo stato di fatto originario della Moschea e dei due passaggi laterali. Incrociando la descrizione fornita nella relazione con i disegni in pianta e sezione, si deduce che originariamente i due prospetti laterali della Moschea presentavano ciascuno due porte, che fungevano da ingressi secondari, in corrispondenza delle cupolette, e quattro finestre in corrispondenza dello spazio a cielo aperto che illuminavano la sala di preghiera. Il piano di calpestio dei passaggi laterali è inclinato, e raccorda le quote delle strade su cui si affacciano i due fronti della Moschea. Pur prospettandosi nella relazione la possibilità di adibire gli spazi così modificati a sale di preghiera aggiuntive, non ne viene proposta la chiusura e nemmeno la ridefinizione del piano di calpestio. L’intervento viene approvato dalla Commissione Edilizia in data 22 giugno 1943, con la condizione che «le pareti a levante e a ponente dei passaggi [...]» — cioè a dire le pareti di addossamento agli edifici adiacenti — «vengano lasciate aperte e protette con musciarabie [...] per una migliore ventilazione degli ambienti»13. Infine l’1 luglio 1943 viene data la definitiva autorizzazione all’esecuzione dei lavori. L’anno successivo, in data 26 gennaio, viene presentato, sempre da 13. Cfr. Al Commissariato di Governo dello Hamasien, in Archivio del Municipio di Asmara, cartella 194–39–x16. 130 Parte II – Capitolo I Giuseppe Arata a nome della Comunità Musulmana di Asmara, un ulteriore progetto di trasformazione dei passaggi laterali della Moschea. Il progetto prevede l’eliminazione della pendenza di raccordo tra le due quote dell’attraversamento: il piano di calpestio resta alla quota più alta, e si raccorda con la quota del prospetto sud attraverso una scalinata. Inoltre si propone la realizzazione di un piccolo edificio in addossamento al passaggio laterale a ovest, simile, perlomeno nella sezione, a quello attualmente esistente. A questo elaborato non è associata una relazione di progetto, ma i disegni mostrano chiaramente la presenza delle scale che raggiungono il piano di calpestio dei passaggi nella posizione attuale. Dunque è sulla base di questo progetto che sono state eseguite le modifiche all’edificio originale. I disegni non mostrano ancora la presenza di tamponamenti a chiusura dei passaggi, che dunque, ancora in questa versione, sono da considerare come spazi aperti. Non sono disponibili, presso l’Archivio del Municipio, ulteriori documenti relativi alle trasformazioni dei due passaggi laterali. La loro definitiva annessione allo spazio interno della Moschea può riscontrarsi già in alcune fotografie databili agli anni Sessanta, in cui si nota la presenza di grandi serramenti a chiusura degli archi che sostengono le cupolette. Documenti e progetto 131 Repertorio fotografico Figura 25. Il Mercato dei Generi Alimentari in costruzione, 1937 ca. (Archivio del Municipio di Asmara). Presso l’Archivio del Municipio di Asmara è stato possibile reperire alcune fotografie di documentazione dei cantieri dei due edifici dei mercati14. Le immagini mostrano con chiarezza che le operazioni interessarono l’intero spazio che si estende da Harnet Avenue alla Grande Moschea, ridefinendo in maniera unitaria l’intero invaso. Altre fotografie mostrano invece alcune caratteristiche costruttive degli edifici, altrimenti di complessa identificazione, vista l’impossibilità pratica di eseguire sondaggi fisici o strumentali. In particolare da un’immagine relativa al Mercato dei Generi Alimentari si evince che la struttura portante dell’edificio è mista: pilastri realizzati in muratura di mattoni cotti sostengono un lungo architrave in cemento armato sul quale sono ricavate le aperture circolari che portano luce alle botteghe. Dalla stessa immagine è possibile osservare che il tetto a padiglione del Mercato dei Pesce è realizzato a capriate, anche se non è possibile stabilire se si tratta di strutture in elementi lignei o metallici. Poche immagini riguardano l’edificio della Grande Moschea, nessuna delle quali documenta la configurazione originale del prospetto posteriore. Non ci sono immagini dell’interno. Come già osservato a proposito delle foto pubblicate nelle riviste di propaganda, emerge 14. Come specificato in precedenza, le fotografie non sono catalogate. 132 Parte II – Capitolo I Figura 26. Il Mercato del Pesce in costruzione, 1937 ca. (Archivio del Municipio di Asmara). Documenti e progetto 133 chiaramente la presenza di un diverso partito decorativo del fronte principale della Moschea, basato sugli elementi classici dell’architettura, e presumibilmente realizzato in elementi lapidei. Figura 27. Il Mercato dei Generi Alimentari in costruzione, 1937 ca. (Archivio del Municipio di Asmara). Capitolo II Le tracce fisiche del progetto La quasi totale assenza dei documenti grafici del progetto originale di Ferrazza per il sistema dei Mercati e per l’edificio della Grande Moschea fa dell’indagine sul costruito il principale riferimento per l’individuazione dei principi architettonici dell’intervento. Questa condizione di assenza di documentazione progettuale riconduce in qualche modo questo caso di studio alla tradizione disciplinare del restauro architettonico, in cui ci si confronta nella maggior parte dei casi con fabbriche di cui non è noto nè il progettista nè il progetto. D’altra parte però, come abbiamo visto, alcune differenze sostanziali rispetto alle condizioni operative tipiche del restauro degli edifici antichi permangono: innanzitutto è noto l’autore del progetto, così come è nota la maggior parte della sua attività progettuale; inoltre, nel caso specifico, si dispone dei progetti relativi ad alcune trasformazioni operate nel corso del tempo sull’edificio della Moschea. Dunque, a partire dalla base documentaria disponibile, è possibile interpretare in maniera rigorosa le scelte progettuali riscontrabili nel- 135 136 Parte II – Capitolo II l’edificio realizzato, e proporre una strategia generale di intervento scientificamente fondata, che abbia nella coerenza con i principi progettuali dell’opera la sua base logica. Attraverso il rilievo si opera una sorta di ri–traduzione dalla costruzione al progetto, che riconduce la realizzazione — ed i suoi principi architettonici — entro il linguaggio specifico dell’elaborazione progettuale: il disegno. Il rilievo dunque, lungi dall’essere la neutra rappresentazione di uno “stato di fatto”, consente di ripercorrere il processo progettuale, ri–conoscendo gli elementi della composizione e le regole di aggregazione messe in atto dal progettista. In questo senso il rilievo — criticamente inteso — è parte del progetto di restauro, ed in particolare della sua fase più connotata sotto il profilo interpretativo: il progetto preliminare. Il rilievo ha preso in considerazione i tre edifici che costituiscono il sistema di padiglioni che articola lo spazio compreso tra la Moschea e Harnet Avenue — il Mercato del Pesce, quello dei Generi Alimentari e la stessa Moschea — nonchè gli spazi esterni da questi definiti. Il rilievo ha messo in luce l’unitarietà del sistema sul piano progettuale: dal punto di vista del linguaggio architettonico gli edifici condividono il medesimo sistema di materiali ed elementi; dal punto di vista della Le tracce fisiche del progetto Figura 1. G. FERRAZZA, Mercato del Pesce (foto 2005). Figura 2. G. FERRAZZA, Mercato dei Generi Alimentari (foto 2005). 137 composizione gli edifici si basano sulle stesse regole di aggregazione (simmetrie bilaterali e allineamenti assiali) e sullo stesso sistema di misure; dal punto di vista della strategia di posizionamento, reciproco e rispetto alle preesistenze, gli edifici operano in direzione dell’integrazione tra spazio urbano e spazio architettonico, attraverso un attento uso degli spazi intermedi e di attraversamento. Il Mercato del Pesce è costituito da una grande sala a doppia altezza di forma rettangolare, a cui si addossano sui lati corti due spazi di servizio di piccola dimensione, e sui lati lunghi due portici. L’accesso alla grande sala — lo spazio destinato alla vendita — avviene mediante una serie di aperture che si fronteggiano sui lati lunghi; gli spazi di servizio — depositi e magazzini frigoriferi per la conservazione del pesce — sono accessibili sia dall’interno della sala che dall’esterno. Lo spazio della sala è illuminato da una corona di aperture rettangolari disposte sulla parte alta dei muri perimetrali, che si eleva al di sopra degli elementi in addossamento — portici e spazi di servizio. Il soffitto è piano, mentre il tetto è a padiglione. Il Mercato dei Generi Alimentari può essere descritto planimetricamente come un doppio anello di botteghe che si attesta all’esterno lungo un portico e all’interno lungo una galleria. Volumetricamente, 138 Parte II – Capitolo II invece, le botteghe rivolte verso la galleria, e la stessa galleria, sono allocate all’interno di una grande sala di forma rettangolare molto allungata, centralizzata dalla presenza di una cupola disposta all’incrocio dei due assi della figura di base. Il volume della sala emerge rispetto a quello costituito dal portico e dalle botteghe che su di esso si affacciano, e risulta intersecato dal volume che definisce l’attraversamento dell’edificio secondo la sua dimensione minore. All’incrocio dei due volumi emerge la cupola vitrea con il suo doppio tamburo ottagonale. La Grande Moschea costituisce allo stesso tempo il fondale della lunga piazza che si attesta su Harnet Avenue e l’elemento di passaggio tra questa — la piazza originariamente dedicata al mercato degli italiani — e gli altri spazi del sistema dei Mercati, destinati alla comunità locale e per questo separati dal viale principale. L’edificio è estremamente semplice sia planimetricamente che volumetricamente: una pianta pressoché quadrata, con lo spazio coperto dalla cupola circondato da due anelli di colonne, distinti in sezione dalle diverse altezze del soffitto. L’angolo sud–est della pianta è occupato dall’attacco a terra del minareto — in realtà non ben integrato nella composizione. La cupola in effetti non occupa esattamente il centro della pianta, ma risulta traslata verso l’ingresso di una campata; pertanto gli anelli Figura 3. G. FERRAZZA, il minareto della Grande Moschea (foto 2005).. Le tracce fisiche del progetto Figura 4. A. LOOS, progetto per il Chicago Tribune 1922. 139 di colonne circondano lo spazio cupolato per tre lati su quattro. In realtà la centricità dello schema planimentrico si recupera se si considera il pronao — addossato al fronte dell’edificio al termine della scalinata che ne riconnette il piano di calpestio alla quota stradale — come parte integrante della pianta: così facendo la fila di colonne del pronao ricolloca virtualmente la cupola al centro dell’edificio. Ai due lati della sala di preghiera, e in continuità con le strade perpendicolari al fronte dell’edificio, si trovano i due passaggi che collegano lo spazio antistante la Moschea con quelli alle spalle, reintegrando in un unico sistema urbano il mercato degli italiani e quello degli eritrei. Dal punto di vista volumetrico l’edificio può descriversi come un semplice parallelepipedo articolato dalla presenza del pronao, dei quattro “portali” che segnano i passaggi laterali, affiancandosi — quasi come dei baldacchini — ai due fronti principali della Moschea, e dal minareto, che emerge dal prospetto principale in forma di enorme colonna dorica — una citazione (involontaria?) del progetto di Loos per il Chicago Tribune. I tre edifici sono disposti nello spazio urbano in modo da definirlo in sottospazi differenziati; si tratta dunque di un esempio di sistema a padiglioni, seppur peculiare in ragione della sua forte connotazione in 140 Parte II – Capitolo II 1 2 3 4 5 6 7 Figura 5. Rilievo del braccio sud dell’area dei Mercati: 1. Mercato del Pesce; 2. Mercato dei Generi Alimentari; 3. piazza; 4. piazza della Moschea; 5. fontana monumentale; 6. Grande Moschea. 7. passaggi laterali. Le tracce fisiche del progetto Figura 6. La piazza su Harnet Avenue (foto 2005). Figura 7. La piazza su Nakfa Avenue (foto 2005). 141 senso urbano; ma, dove l’autonomia del sistema si manifesta generalmente in termini di separazione dalla città — separazione spesso enfatizzata dalla presenza di recinti, qui il posizionamento del sistema rispetto al tessuto urbano fa sì che i singoli padiglioni, insieme con gli edifici preesistenti, contribuiscano in maniera molto calibrata alla definizione degli spazi aperti: — il Mercato del pesce, arretrando rispetto al filo stradale di Harnet Avenue, definisce una piazza aperta; — la distanza tra il Mercato del pesce e quello dei generi alimentari definisce la figura di uno spazio aperto che ha le caratteristiche della piazza, seppur diversa dall’altra in quanto non aperta su un viale, ma intermedia tra due edifici. Immagini d’epoca testimoniano l’uso di questo spazio come ulteriore area per la vendita, popolata da bancarelle e persone — diversamente da quanto accade oggi, con l’area impiegata come parcheggio; — il Mercato dei generi alimentari, arretrando sensibilmente rispetto a Nakfa avenue, definisce un ulteriore tipo di spazio aperto, in questo caso caratterizzato dalla presenza di uno spazio a verde con una fontana al centro; — il sistema degli spazi aperti si estende al di là di Nakfa avenue, sino alla Grande Moschea, con una ulteriore piazza, questa volta desti- 142 Parte II – Capitolo II nata alle adunate dei fedeli musulmani per la preghiera. Questa piazza, mantenendo la quota del piano di posa dei due edifici dei mercati, viene a configurarsi come un vero e proprio scavo, dal momento che la quota della strada a monte è di circa tre metri più alta. In questo modo si ottiene da un lato l’adeguato isolamento dello spazio aperto rispetto agli spazi di circolazione (strada e marciapiedi), accentuando dall’altro l’effetto scenografico della facciata della Moschea, che, pur non molto alta, acquista una certa imponenza nella visione dal basso. La descrizione degli edifici e degli spazi aperti da essi definiti è effettuata, nel rilievo, attraverso una serie sistematica di sezioni trasversali e longitudinali che, alle diverse scale, rivelano da una parte i rapporti tra gli edifici e lo spazio urbano, dall’altra quello tra le parti degli edifici stessi, nonché le loro variazioni. La sequenza delle sezioni a scala urbana mostra l’interazione tra gli spazi aperti e gli spazi intermedi degli edifici. Per rendere più precise queste osservazioni sono stati contestualmente effettuati i rilievi dei fronti edificati sullo spazio urbano in cui si trovano gli edifici; inoltre, a integrazione e verifica del supporto cartografico prodotto dal Municipio di Asmara, sono state rilevate le dimensioni degli spazi aperti tra gli edifici, nonché dei marciapiedi e delle Figura 8. G. FERRAZZA, piazza monumentale della Grande Moschea (foto 2005) Figura 9. La piazza tra i due mercati, foto d’epoca (Pavoni Social Center — Biblioteca, Asmara). Le tracce fisiche del progetto Figura 10. Ridisegno con indicazione dell’allineamento del Mercato dei Generi Alimentari rispetto al tessuto urbano. 143 sezioni trasversali delle strade. Questa operazione ha consentito di spiegare quello che sin qui era stato ritenuto un possibile errore di posizionamento dell’edificio in fase di realizzazione. Il padiglione del Mercato dei Generi Alimentari è attraversato, lungo la sua dimensione minore, da una “strada interna” che mantiene, all’interno dell’edificio, il collegamento tra le due strade la cui continuità veniva ad essere interrotta dal posizionamento del volume costruito. Ora, osservando l’edificio dalle due strade, si nota il mancato allineamento dello stesso con gli assi stradali, difficile da spiegare rispetto ad una situazione urbana che, nella restituzione cartografica, presenta un sistema di strade allineate e ortogonali. In realtà la verifica sul campo ha messo in luce un consistente disassamento tra le due strade che attraversano l’edificio, nonché la loro non perfetta ortogonalità rispetto alla piazza in cui l’edificio è collocato. Pertanto il mancato allineamento dell’asse minore dell’edificio con quello delle strade, lungi dall’essere un errore, è invece la conseguenza di una scelta progettuale: stabilire la continuità tra le due strade che attraversano la piazza e l’edificio, connettendo la scala urbana a quella architettonica; lo scarto tra i due assi stradali viene compensato così all’interno del padiglione, mediante il disassamento dello stesso. Il rilievo ha dunque prodotto materiale a sostegno della tesi dell’uni- 144 Parte II – Capitolo II tarietà del progetto di Ferrazza, suggerendo allo stesso tempo alcune direzioni possibili per l’intervento progettuale. Appare essenziale pensare al restauro degli edifici come a un aspetto del più generale problema del restauro dello spazio urbano — e, più in generale, della parte di città — in cui sono inseriti e che contribuiscono a definire. Figura 11. La piazza tra i due mercati (foto 2005) Le tracce fisiche del progetto Figura 12. Mercato del Pesce: a sinistra, decostruzione per elementi; al centro, rilievo; a destra, la sala del Mercato del Pesce (foto 2005). 145 146 Parte II – Capitolo II Figura 13. Mercato dei Generi Alimentari: a sinistra, rilievo; a destra, decostruzione per elementi; in alto, scorcio nord–est (foto 2005). Le tracce fisiche del progetto Figure 17 e 18. Gli ingressi est ed ovest allineati con le strade (foto 2005). Figure 19 e 20. Viste dell’ingresso dall’interno verso le strade a questo allineate (foto 2005). Figure 14, 15 e 16. Mercato dei Generi Alimentari, la galleria delle botteghe interne (foto 2005). Figure 21 e 22. L’incrocio tra la galleria interna dei mercati ed il passaggio urbano (foto 2005). 147 148 Parte II – Capitolo II Figura 23. Grande Moschea: a sinistra rilievo; in alto, fronte sud (foto 2005); in basso, decostruzione per elementi. Le tracce fisiche del progetto Figure 24, 25 26 e 27. Grande Moschea, la cupola della sala di preghiera (foto 2005). 149 150 Parte II – Capitolo II Figura 32. Figura 33. Figura 34. Figura 35. Figure 28, 29, 30 e 31. La sala di preghiera della Grande Moschea (foto 2005). Finestra (foto 2005). Ingresso principale (foto 2005). Il minbar (foto 2005). Il mihrab (foto 2005). Le tracce fisiche del progetto Figura 36. L’ingresso al passaggio ovest, attualmente alla quota della Grande Moschea (foto 2005). Figure 37 e 38. Passaggio laterale est (foto 2005). Figure 39 e 40. Passaggio laterale ovest (foto 2005). 151 152 Parte II – Capitolo II Sala di preghiera della Moschea Corpo laterale ovest 6 12 9. cupola in calcestruzzo armato 1. cupola in vetrocemento 5 1 12 9 10. soffitto a cassettoni in calcestruzzo 2 5 2. cassettoni in calcestruzzo 13 8 13 7 11. capitelli in calcestruzzo 12. colonne in calcestruzzo rivestito con tessere di ceramica 7 8 7 13 3. capitello e colonna in calcestruzzo 14 12 5. rivestimento dei paramenti murari e delle colonne interne: tessere in ceramica 13. colonne e rivestimento dei pilastri del pronao granito di Dekamare; capitelli in marmo di Carrara 10 4 5 6. pavimentazione interna della moschea: mattonelle in graniglia di marmo 2 3 3 5 15. pavimentazione della fontana monumentale: lastre di travertino 17 15 15 Piazza della Moschea 17. pavimentazione dei marciapiedi antistanti la Moschea: mattonelle di cemento 18 15 7. pavimentazione interna dei corpi laterali e del pronao: mattonelle in graniglia di marmo 14. soglia dei corpi laterali e dei gradini del pronao in granito di Dekamare 14 4. rivestimento dei paramenti murari e delle colonne interne: tessere in ceramica 15 17. pavimentazione dei marciapiedi antistanti la Moschea: mattonelle di cemento 17 16 8. ingresso principale alla Moschea portoni in legno Figura 41. La Grande Moschea: rilievo dei materiali. 18. parapetto della piazza antistante alla Moschea: elementi prefabbricati in cemento Capitolo III La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati Il progetto di riordino dell’area dei mercati di Asmara è il frutto di un calibrato equilibrio di elementi urbani — edifici, spazi aperti, percorsi — che, attraverso le relazioni reciproche e con il contesto, ridefinisce integralmente una parte di città. La Grande Moschea gioca, all’interno di questo sistema, un importante ruolo urbano: da una parte definisce il fondale del braccio nord–sud dei mercati — quello degli italiani, separandolo dal braccio est–ovest — dedicato agli eritrei, ma in realtà da sempre zona di incontro e scambio tra eritrei e stranieri; dall’altra, grazie ai due passaggi laterali, diviene elemento di (ri)connessione tra i due mercati, e, più in generale, di due parti di città. In questo senso l’edificio della Grande Moschea costituisce la vera e propria “cerniera urbana” del sistema. A partire da questa osservazione — sostenuta dall’analisi dei documenti e dal rilievo/ridisegno — ha preso le mosse l’indagine progettuale, che costituisce la parte sperimentale di questo lavoro. È evidente, Figura 1. Rilievo con indicazione dell’allineamento della Grande Moschea rispetto al tessuto urbano. 153 154 Parte II – Capitolo III infatti, che la chiusura dei corpi laterali della Moschea priva l’edificio della sua funzione urbana fondamentale, compromettendo il sistema di circolazione alla scala del sistema e rendendo necessario un progetto di restauro. Progetto preliminare. I principi architettonici e urbani dell’intervento Gli edifici dei Mercati Coperti e quello della Grande Moschea, pur non potendosi considerare, per così dire, una “traduzione architettonica” in senso stretto delle considerazioni sul costruire in colonia sviluppate da Ferrazza nei suoi scritti teorici, mostrano con chiarezza da una parte la sua esperienza di architetto coloniale — su cui tali scritti si fondano —, dall’altra la sua formazione in area milanese, legata alla frequentazione della scuola politecnica e all’attività svolta nell’ambito del “Club degli Urbanisti” insieme con Cabiati, Alpago Novello, Muzio e altri. A quest’ultimo aspetto si deve la sua attenzione ai rapporti urbani degli edifici, mentre ai suoi anni di lavoro in Libia può ricondursi l’attento equilibrio tra scelte costruttive e soluzioni formali. Il confronto tra il rilievo dello stato di fatto e i documenti — o meglio, l’interpretazione del rilievo che è stato possibile produrre a La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 155 partire dalla lettura dei documenti diretti e indiretti disponibili ha consentito di individuare due principi architettonici fondamentali a partire dai quali è possibile spiegare le scelte progettuali di Ferrazza: — coerenza tra linguaggio architettonico e costruzione; — continuità dello spazio urbano attraverso l’architettura. Lo statuto teorico del progetto preliminare Il progetto preliminare ha come obiettivo quello di mettere in luce, attraverso una lettura orientata al progetto dei documenti disponibili, i principi costitutivi dell’intervento di Guido Ferrazza sull’area dei mercati di Asmara. Il suo statuto all’interno della ricerca progettuale sul restauro del moderno è dunque ascrivibile ad una fase che, con la dovuta attenzione all’accezione del termine, può essere definita analitica. L’analiticità del progetto di architettura è una questione ampiamente esplorata da Giorgio Grassi nei suoi scritti teorici: l’analisi condotta sull’architettura (ad es. le classificazioni) individua gli elementi di questa: quegli elementi che nel procedimento diventano elementi della composizione. Credo che questo confronto fra analisi e progetto, fra elementi dell’ar- 156 Parte II – Capitolo III chitettura e elementi della composizione sia essenziale all’architettura, alla sua conoscenza e alla sua composizione.1 Grassi nega dunque la dicotomia analisi/progetto, vedendo il secondo in sostanziale continuità (logica, non temporale) con la prima; è nel progetto infatti che si coglie il portato conoscitivo dell’analisi: se attraverso quest’ultima si individua una «relazione che unisce tra loro architetture lontane nel tempo»2, è nel progetto che tale relazione (“costruzione logica”) viene esibita concretamente. Più in generale «analisi e progetto si uniscono fino a confondersi nella struttura logica stessa dell’architettura; [...] essi rappresentano due processi paralleli e sostanzialmente identici nel comune fine conoscitivo. Analisi e progetto coincidono pertanto sul piano logico»3. Grassi approfondisce il ragionamento istituendo un paragone tra opera di architettura e opera letteraria: se guardiamo quest’ultima «come una versione (...) di una determinata realtà, di una determinata idea fondamentale, allora quest’opera risulta inevitabilmente legata alle successive e queste ultime saranno sempre una spiegazione, un approfondimento di essa oltre che dei motivi che l’hanno prodotta»4. 1. 2. 3. 4. Cfr. G. GRASSI, Analisi e progetto (1969), in L’architettura…, op. cit, pp. 51–65 (p. 55). Ivi, p. 55. G. GRASSI, La costruzione logica dell’architettura, Padova 1967, p. 107. G. GRASSI, Analisi e progetto (1969), in op. cit., p. 55. La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 157 Il continuo rimando tra una data opera ed un certo numero di “architetture di riferimento” mette ben in evidenza il portato ermeneutico della posizione di Grassi: progettare significa allora reinterpretare, alla luce di un preciso “progetto di senso”, la serie di architetture di riferimento che definiscono il paradigma architettonico entro cui si opera. Grassi assegna alla classificazione un ruolo centrale sul piano epistemologico: dalla classificazione — delle architetture di riferimento — emerge la struttura logica dell’architettura, la sua costruzione. La classificazione non è però, nell’accezione che ne dà Grassi, un fatto neutro: classificare significa infatti organizzare dei materiali relativamente eterogenei secondo un determinato parametro. Ciò può dare luogo a una serie potenzialmente infinita di classificazioni; da qui la natura progettuale della classificazione e, simmetricamente, l’analiticità del fare progettuale: cioè a dire l’identità sul piano logico di analisi e progetto. Il ragionamento di Grassi non è esente da contraddizioni, e, come è stato osservato, non risolve del tutto la questione del passaggio tra analisi e progetto, che resta una delle questioni aperte dell’approccio neorazionalista all’architettura5. 5. Cfr. I. DE SOLÀ–MORALES, “Tendenza”: neorazionalismo e figurazione, in Decifrare l’architettura. «Inscripciones» del XX secolo, Torino–Londra–Venezia 2002, pp. 107–130 (p.118 e ss.). 158 Parte II – Capitolo III Cionondimeno l’idea di analiticità del progetto sgombra il campo da ogni possibile pretesa di autonomia del progetto dal momento analitico e di neutralità di quest’ultimo. Se, sul piano epistemologico, il progetto preliminare ha il compito di enucleare i principi architettonici di una data opera, allora è chiaro che non si può non attribuire a questa fase una componente di analiticità; tanto più che tra i materiali del progetto preliminare figurano in primo piano i documenti relativi al progetto dell’opera da restaurare, attraverso i quali è possibile formulare una ipotesi falsificabile sui principi architettonici dell’opera stessa. La falsificabilità dell’ipotesi scientifica è, come è noto, uno dei cardini dell’epistemologia popperiana: un’ipotesi non–falsificabile è priva di valore in quanto “sganciata” dall’esperienza. La non–falsificabilità implica infatti che non si diano condizioni possibili del reale in cui una certa ipotesi possa non essere vera. Ma ciò significa che, in ultima analisi, quell’ipotesi è indifferente alla realtà, e dunque è priva di capacità esplicativa e predittiva6. Il progetto preliminare ha, in questo senso, valore di ipotesi falsificabile: sulla base di una prima ricognizione dei materiali disponibili su 6. Cfr. K. POPPER, Logica della scoperta scientifica, Torino 1970 (Wien 1934, London 1959); vedi anche, tra gli altri, H. I. BROWN, La nuova filosofia della scienza, Roma–Bari 1999 (Chicago 1977), pp. 73–88. La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 159 una data opera oggetto di studio, lo studioso formula un’ipotesi sui principi architettonici che la informano, e sul modo in cui il progetto può restaurare quei principi, ove indeboliti — o negati. L’ipotesi del progetto preliminare ha capacità esplicativa, in quanto è in grado di rendere conto delle scelte progettuali operate dall’autore ed incorporate nell’opera; ed ha capacità predittiva, in quanto materiale essenziale per definire la direzione del progetto di restauro e prefigurarne i possibili esiti. Il progetto definitivo acquista, in questa prospettiva, valore di esperimento, attraverso il quale è possibile falsificare — o corroborare — l’ipotesi del progetto preliminare. La peculiare analiticità del progetto preliminare, intesa come capacità di quest’ultimo di far emergere elementi e principi costitutivi di un’opera attraverso il disvelamento in dimensione progettuale della sua costruzione logica, ha degli interessanti punti di contatto con il metodo ermeneutico delineato da Gadamer. Nel delineare gli elementi di una teoria dell’esperienza ermeneutica, Gadamer parla di progetto preliminare in riferimento alla prima significazione complessiva che un testo consente «sulla base del più immediato senso che [...] esibisce»7 all’interprete. «La comprensione di ciò 7. Cfr. H. G. GADAMER, Verità e metodo, Milano 1983 (Tübingen 1960), p. 314. 160 Parte II – Capitolo III che si dà da comprendere consiste tutta nell’elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo»8. Il procedimento descritto da Gadamer mostra con chiarezza la circolarità ermeneutica che si innesca tra progetto preliminare e progetto definitivo: il progetto preliminare consente una prima messa a punto di una strategia; il progetto definitivo sviluppa tale strategia conferendole forma architettonica. È chiaro che, in quanto circolare, questo meccanismo implica il continuo passaggio tra progetto preliminare e progetto definitivo, ogni volta ad un livello superiore di consapevolezza. Nel caso del restauro del moderno, il progetto preliminare è lo strumento attraverso il quale si perviene ad una prima descrizione dell’opera oggetto di studio: «l’interpretazione comincia con dei pre–concetti i quali vengono via via sostituiti da concetti più adeguati»9. La dimensione progettuale è quella che garantisce il raffinamento dell’interpretazione: «che cos’è che contraddistingue le pre–supposizioni inadeguate se non il fatto che, sviluppandosi, esse si rivelano insussistenti?»10. Il progetto, attraverso il confronto serrato con l’opera, fa emergere, per successive approssimazioni, gli «errori derivati da pre–supposizioni che non trovano conferma nell’oggetto»11. 8. 9. 10. 11. Ibidem. Ibidem. Ibidem. Ibidem. La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 161 Gadamer, con Heidegger, mette in guardia dall’abuso delle componenti pre–costitutive della situazione ermeneutica: «sono i pregiudizi di cui non siamo consapevoli quelli che ci rendono sordi alla voce del testo»12. Solo a partire dal riconoscimento della reciproca alterità tra testo e interprete — cioè distinguendo i principi costitutivi dell’opera dalle “intenzioni” del progettista che a questi tendono a sovrapporsi, è possibile pervenire ad un risultato saldamente fondato sull’oggetto. Occorre a questo punto chiedersi cosa debba essere assunto come “oggetto” del processo di interpretazione, nel caso del restauro del moderno: l’opera realizzata o il suo progetto? E, quindi, quali siano i principi architettonici da restaurare: quelli incorporati nella costruzione o quelli rintracciabili nel disegno? La domanda emerge da un insieme di questioni: la centralità del progetto nel processo produttivo dell’architettura moderna; l’importanza che, per la conoscenza dell’architettura moderna, assumono gli elaborati grafici del progetto — e con essi il sistema di documenti collegati; la frequente difformità riscontrabile tra progetto e realizzazione — non importa se dovuta ad alterazioni successive o a compromessi in fase esecutiva. 12. H.G. GADAMER, op.cit., p. 317. 162 Parte II – Capitolo III É chiaro che, sul piano epistemologico, il progetto è il fondamento dell’opera architettonica — ne è il presupposto necessario. Come, a partire da Alberti, è chiaro, nei lineamenta di un’opera architettonica riposa interamente “tutta la forma della costruzione”. Non bisogna però cadere nell’equivoco di pensare che l’architettura nel suo complesso risieda nei lineamenta: disegno e costruzione, anche per Alberti, sono entrambe condizioni necessarie, mentre nessuna di esse è sufficiente, presa singolarmente, affinché ci sia architettura. A ben guardare, nel momento stesso in cui un progetto viene realizzato, si sancisce chiaramente la separazione tra il fatto teorico (il progetto) ed il fatto materiale (l’edificio): se da un lato infatti l’edificio realizzato “incorpora” i principi architettonici del progetto in una specifica forma materiale, dall’altro la realizzazione rende evidente l’indipendenza del disegno dalla costruzione, in quanto ne sottolinea l’appartenenza a due domini separati13. Il processo di “incorporazione” nella materia dei principi architettonici, che si attua nel passaggio dal progetto all’edificio, avviene attraverso un processo di traduzione tra due linguaggi — quello grafico e quello architettonico. Si istituisce cioè una corrispondenza — conven13. Cfr. P. VALERY, Eupalino o l’architetto, Pordenone 1991 (Paris 1921), p. 61: «Gli oggetti fatti dall’uomo sono dovuti agli atti d’un pensiero. I princìpi sono separti dalla costruzione e quasi imposti alla materia da un estraneo tiranno che glieli comunica per il tramite di atti». La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 163 zionale e culturalmente determinata — tra gli elementi del disegno e quelli della costruzione. è questa corrispondenza che, nei diversi momenti storici, conferisce al progetto la sua capacità predittiva rispetto alla costruzione, cioè ne garantisce l’affidabilità come “notazione convenzionale” attraverso cui definire l’edificio nei suoi diversi aspetti14 — figurativi, funzionali, tecnologici. Questa corrispondenza, ancora, garantisce un certo grado di “reversibilità” della traduzione: è possibile cioè risalire al progetto a partire dalla costruzione. D’altra parte la reversibilità non è perfetta: nel primo processo di traduzione, quello dal progetto all’edificio, si determinano infatti dei necessari aggiustamenti, che hanno a che fare con le condizioni concrete della realizzazione; aggiustamenti che modificano il progetto da cui la costruzione deriva. Inoltre la stessa “biunivocità” della corrispondenza è imperfetta: il contesto culturale in cui avviene la traduzione dal disegno alla costruzione è certamente diverso da quello in cui avviene l’operazione inversa. Pertanto non è detto che certi dati rilevati nella retroversione fossero dati in gioco nel progetto originario. Pertanto la traduzione dalla costruzione al disegno non restituirà mai, di fatto, il progetto originario — pur potendo, in linea teorica e a certe condizioni, farlo. 14. Cfr. R. EVANS, Translations from Drawing to Building, in Translations from Drawing to Buildings and Other Essays, London 1997, pp. 153–193. 164 Parte II – Capitolo III Questa sostanziale irreversibilità della traduzione dal progetto all’edificio ha una rilevanza sul piano epistemologico: non si deve incorrere nell’errore di voler ricondurre l’edificio esistente al progetto, a meno di non voler trasferire sul piano ontologico la priorità del disegno sulla costruzione. L’edificio realizzato resta dunque l’oggetto dell’interpretazione. Nel caso del restauro del moderno, il primato epistemologico del progetto sulla costruzione può generare confusione nel momento in cui, grazie alla presenza degli elaborati grafici dei progetti, è possibile ripercorrere a rovescio il processo che va dal disegno alla costruzione. La possibilità di questa “inversione”, generalmente impraticabile per l’architettura antica, tende a conferire al progetto originale una sorta di “normatività retroattiva” che interferisce con la comprensione dell’opera costruita, facendola letteralmente sparire dietro i documenti e sostituendola con un simulacro di intenzioni di ripristino e/o di completamento. Vedendo nel progetto originale di un edificio una sorta di “idea platonica” a cui ci si aspetta che la costruzione debba necessariamente continuare a conformarsi nel corso della sua esistenza, si tende ad interpretare le difformità tra progetto e realizzazione come problemi da La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 165 emendare — una forma di “degrado” che colpisce non solo la materia ma soprattutto il progetto, inteso come “essenza” della costruzione. Il progetto originale di un edificio, nel momento in cui questo viene realizzato, deve essere visto piuttosto come una sorta di “intermediario” tra l’opera e il suo interprete, uno strumento attraverso il quale si rendono intelligibili i principi architettonici che il progettista ha posto alla base dell’opera; uno strumento che mantiene le tracce del processo progettuale e lo lega alla costruzione. In nessun caso l’esistenza del progetto originale di un edificio legittima di per sè il ripristino di quest’ultimo, ove si riscontrassero delle difformità della costruzione rispetto al progetto stesso. É solo attraverso il progetto (di restauro), nelle sue due fasi fondamentali — quella preliminare e quella definitiva — che è possibile stabilire, a partire dal riconoscimento dei principi architettonici dell’opera, ed in continuità con questi, le forme adeguate alla nuova situazione dell’opera. Il ripristino conforme al progetto originale è, in quest’ottica, solo una delle possibilità che si prospettano allo studioso. 166 Parte II – Capitolo III Coerenza tra linguaggio architettonico e costruzione Le scelte costruttive che emergono dall’analisi degli edifici realizzati da Ferrazza nell’area dei Mercati di Asmara possono essere analizzate alla luce dello scritto Il problema del costruire nell’Impero, in cui l’architetto, seppur ad un livello generale, affronta le tematiche dell’architettura coloniale proprio a partire dalle questioni costruttive. Come abbiamo già osservato, Ferrazza assume una posizione definibile come “tradizionalista”, che però viene sostenuta non ideologicamente, bensì a partire da una indagine sulla attuabilità di certe scelte architettoniche. L’architettura moderna, la cui figuratività è largamente dipendente dall’uso dei nuovi materiali da costruzione, viene giudicata inadeguata alla costruzione in colonia, dove i costi di importazione dei materiali e la scarsa qualificazione della manodopera disponibile la renderebbero antieconomica, e lontana, dunque, da quell’ideale di razionalità e funzionalità a cui aspirerebbe. Come per Loos, anche per Ferrazza «il carattere della modernità non discende da un principio astratto generale, ma si misura con le caratteristiche della società in cui si opera; […]. Al di fuori dei termini reali in cui le è dato di prodursi nessuna forma può essere considerata valida, originale, moderna»15. 15. A. ROSSI, Adolf Loos, 1870–1933, in «Casabella continuità», n. 233, 1959; ora in Scritti scelti sull’architettura e la città, Torino 1978, pp. 78–106 (p. 84). La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 167 Gli edifici che Ferrazza realizza ad Asmara mostrano la soluzione architettonica che l’architetto dà al suo appello a “tornare al passato”: una soluzione che, in conformità alle possibilità costruttive e alla disponibilità di materiali, impiega in maniera coerente un determinato repertorio linguistico, quello della tradizione classica. Non si tratta di un classicismo per così dire “ostentato” o di maniera: Ferrazza si avvale del repertorio classico per rispondere in maniera adeguata all’occasione progettuale. Questa scelta accomuna la maggior parte delle opere realizzate da Ferrazza in colonia — prima in Libia, poi in Eritrea, infine nella regione dell’Harar, Etiopia. La scelta del “linguaggio classico dell’architettura” da parte di Ferrazza è lontana dall’ideologia neostilistica, pur presente e in maniera determinante nel suo bagaglio culturale, che, lo ricordiamo, svolge i suoi studi presso il Politecnico di Milano, dominato agli inzi del XX secolo dalla figura di Boito. Il richiamo di Ferrazza alla classicità è piuttosto da riferirsi al discorso di Giovanni Muzio, lontano tanto dal “declinante eclettismo prebellico”16 che dalle “mode straniere”17. Sostiene Muzio: è possibile «utilizzare gli ultimi ritrovati tecnici esteri, ma senza per questo ricopiarne le forme estetiche, e tanto meno 16. Cfr. G. MUZIO, Alcuni architetti d’oggi in Lombardia, in «Dedalo», n. 15, Milano–Roma, agosto 1931; ora in E. PONTIGGIA (a cura di), Il ritorno all’ordine, pp. 101–104 (p. 103). 17. Ibidem. 168 Parte II – Capitolo III seguitare a illuderci che la tecnica possa supplire l’arte. [...] omogeneo però dev’essere lo spirito che guida gli artisti, e questa disciplina non può essere che classica»18; la polemica di Ferrazza contro l’architettura moderna (o meglio modernista) in colonia, fondata sulla sua sostanziale irrealizzabilità secondo criteri di economia a causa della sua dipendenza dai nuovi materiali per l’edilizia, indisponibili a prezzi ragionevoli nelle terre d’oltremare, non ha così come conseguenza un ritorno su posizioni eclettiche — che peraltro avevano contraddistinto gran parte delle realizzazioni coloniali sino agli anni Trenta. Ferrazza aspira all’adeguatezza; ad una architettura che sappia impiegare le risorse in maniera razionale, senza rinunciare alla sua arte; vede dunque nel classicismo una maniera chiara di far corrispondere costruzione e decoro, nel senso di una rappresentazione in forme stabili degli elementi della costruzione19. Dal momento che le condizioni concrete del costruire in colonia rimandano a materiali e tecniche costruttive tradizionali, Ferrazza riconosce nel sistema di elementi dell’architettura classica la soluzione appropriata al “problema dello stile”20 coloniale. Una soluzione che, naturalmente, ha contemporaneamente a che vedere con fatti inerenti alla disciplina progettuale e con le sue “condizioni 18. Ivi, p.104. 19. Cfr. A. MONESTIROLI, La metopa e il triglifo. Rapporto fra costruzione e decoro nel progetto di architettura, in La metopa e il triglifo. Nove lezioni di architettura, Roma–Bari 2002, pp. 81–115. 20. G. FERRAZZA, Il problema…, op. cit. La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 169 al contorno” di carattere politico: se da un lato la posizione di Ferrazza è certamente coerente con il suo personale percorso formativo e professionale, dall’altro sarebbe errato non intravedere, nelle scelte dell’architetto, l’influenza che può aver giocato la svolta “imperialista” nella politica coloniale del fascismo. Ad ogni modo Ferrazza non aderì in nessun caso al tronfio monumentalismo di certa architettura di regime, assumendo del richiamo alla “romanità” solo gli aspetti coerenti con la sua ricerca architettonica. Ornamento e decorazione Il classicismo di Ferrazza pone legittimamente il problema della effettiva ascrivibilità della sua opera al Moderno; tanto più che tale classicismo si attua anche nell’impiego del suo repertorio decorativo. Il problema della legittimità della decorazione e dell’ornamento nell’architettura moderna è uno dei temi che caratterizzano il dibattito disciplinare sin dall’inizio del Novecento. Il celebre scritto di Adolf Loos, Ornamento e delitto, pone la questione in maniera perentoria: «l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso»21; ma la polemica di Loos, genericamente intesa come incompatibilità dell’idea stessa di ornamento con la moderni21. A. LOOS, Ornamento e delitto (1908), in Parole nel vuoto, Milano 1991 (Wien–Müuchen 1962), pp. 217–228 (p. 218). Il corsivo è di Loos. 170 Parte II – Capitolo III tà in architettura, è in realtà indirizzata contro gli inventori di nuove decorazioni, viste come gratuite e prive di «alcun rapporto organico con la nostra civiltà»22 — ed in questo senso incapaci di esserne espressione. Ed infatti l’ornamento non è certamente bandito dalla sua architettura, a cominciare dalla Looshaus nella Michaelerplatz, che esibisce sul fronte principale una teoria di colonne doriche — prive peraltro di funzione portante. Come afferma Aldo Rossi, per Loos “l’ornamento è delitto non per un astratto moralismo, ma là dove si presenta come una forma di idiozia, di degenerazione, di inutile ripetizione. Al contrario la forma, che non è più geometria o semplice funzione, come nel caso paradigmatico della colonna dorica, viene usata come elemento della composizione»23. Loos ritiene infatti che «l’ornamento classico [crei] una disciplina in noi stessi e nelle nostre forme e conduca, nonostante le differenze etnografiche e linguistiche, all’unità delle forme e dei principi estetici»24: assegna cioè alla classicità un valore progressivo. La progressività delle norme classiche è ben evidente a Giorgio Grassi che le pone alla base dell’esperienza del razionalismo tedesco: 22. Ivi, p. 223. 23. A. ROSSI, L’architettura di Adolf Loos, in B. GRAVAGNUOLO, Adolf Loos, Milano 1981, pp. 11–15 (p.15). 24. A. LOOS, Ornamento ed educazione (1924), in op.cit., pp. 325–332 (p. 331). Figura 2. G. FERRAZZA, Mercato, Barce, Libia, 1932 («Annali dell’Africa Italiana», vol. 4, 1939). La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 171 «essi [i razionalisti] non potevano non tenere conto delle regole canoniche dell’architettura classica, dal momento che queste rappresentavano l’elemento unitario, più o meno apertamente riconosciuto, dell’architettura»25. Grassi vede infatti la semplificazione formale che caratterizza la ricerca del razionalismo come il frutto di un processo di individuazione di un sistema di elementi dotati di stabilità formale, insieme con le «relazioni fra essi che sembrano caratterizzate da forme permanenti»26. È questo un processo che porta alle radici dell’architettura, alla sua struttura logica; ed è nell’architettura classica, nei suoi elementi e nelle sue parti, che questa struttura è chiaramente esibita: «le regole classiche costituiscono un sistema logico di relazioni fra gli elementi dell’architettura, ma esse sono anche il sistema logico per eccellenza, esse rappresentano un vero e proprio “universo logico” nell’esperienza dell’architettura»27. In questo senso, quello che, in riferimento ad opere come il mercato di Barce in Libia (che fornisce il modello per il mercato dei generi alimentari di Asmara), è stato visto come un avvicinamento al “rigorismo razionalista”28 della ricerca architettonica di Guido Ferrazza, può essere interpretato come l’esito di un lungo ragionamento sui fondamenti della disciplina, che prende le mosse dall’adesione al gruppo dei 25. G. GRASSI, La costruzione logica dell’architettura, Venezia 1967, p. 142. 26 .Ivi, p. 141. 27. Ivi, p. 144. 28. F. ZANELLA, cit., p.45. 172 Parte II – Capitolo III neoclassici di area milanese e che, nel venire a contatto con le difficili condizioni del costruire in colonia, approda, depurandosi da ogni concessione neostilistica, ad un elementarismo quasi durandiano in cui gli elementi classici esibiscono la costruzione logica dell’architettura. L’adozione consapevole degli elementi dell’architettura classica porta così Ferrazza a risolvere il problema del costruire in colonia in termini che sono “l’opposto della questione dello stile”29; collocando la sua opera entro quella linea della modernità che ha le sue radici più antiche in Alberti, e attraverso J.–F. Blondel, Laugier, Boullée perviene, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, alla formulazione compiuta della teoria del rapporto kernform/kunstform — “nocciolo” e “rivestimento” — che ritroviamo, in forme diverse, nella “tettonica” di Bötticher e nella “teoria del rivestimento” di Semper: architettura come unità di nucleo formale e forma artistica, in cui la seconda costituisce la rappresentazione adeguata del primo; unità che sta alla base di quella “macchina per creare emozioni” che Le Corbusier vede nel Partenone, «prodotto di selezione applicato a uno standard stabilito»30, i cui elementi sono messi a punto, attraverso l’esperimento, nel corso del tempo e a più mani; la modanatura ha qui carattere di necessità: «non ci sono simboli attaccati a queste forme»31. 29. Cfr. W. OECHSLIN, Wagner, Loos e l’evoluzione dell’architettura moderna, Milano–Ginevra 2004, p. 39 e ss.. 30. Cfr. LE CORBUSIER, Verso un’architettura, Milano 1996 (Paris 1923), p. 106. 31. Ivi, p. 173. Figura 3. Il portico del Mercato dei Generi Alimentari (foto 2005). La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati Figura 4. La colonna del portico (foto 2005). 173 Non abbiamo sin qui stabilito un preciso confine nell’uso dei termini “ornamento” e “decorazione”32. Possiamo adesso operare una distinzione, associando la decorazione al decor33 vitruviano — la forma adeguata — e l’ornamento all’ornamentum34 albertiano — la bellezza ausiliaria o di completamento. La prima, in cui “gli elementi della costruzione assumono le loro forme rappresentative” ha carattere di necessità; la seconda, che si applica alle forme in sé compiute, è accessoria35. Quatremère de Quincy, ampliando il range semantico del termine “decorazione”, vede l’ornamento come un suo attributo, insieme con l’analogia e l’allegoria, assegnando alla decorazione analogica carattere di necessità. In questo senso, negli edifici realizzati da Ferrazza ad Asmara, la decorazione, incorporata nell’ordine architettonico — e in particolare nella colonna —, sussiste come analogia della costruzione; i fregi sul fronte principale della Moschea, oggi rimossi, 32. Cfr. ad es. F. COLLOTTI, Appunti per una teoria dell’architettura, Lucerna 2002, pp. 25–29; l’autore, pur individuando una possibile distinzione tra i termini — «più tettonica la decorazione, più tessile l’ornamento?» — preferisce condurre l’argomentazione associando i due termini e concedendogli un certo grado di intercambiabilità. 33. VITRUVIO, De architectura, a cura di P. Gros, Torino 1997, I, 2, 5, p. 29. 34. L.B. ALBERTI, L’architettura, Milano 1989, VI, 2, pp. 235–236. 35. Che la distinzione tra i due termini, seppur importante, sia problematica, emerge dal fatto che Vitruvio, parlando di decor fa riferimento all’adeguatezza di un certo ornamento, mentre Alberti, a proposito dell’ornamentum, ne riconosce l’utilità nel rivelare l’immagine dell’edificio senza contraddirne la struttura. 174 Parte II – Capitolo III costituiscono l’unico accenno all’allegoria; niente, infine, resta dell’ornamento36. L’architettura coloniale di Ferrazza attua dunque un rigoroso procedimento di astrazione che ha nella classicità contemporaneamente lo strumento e il suo esito, iscrivendosi così all’interno della ricerca del razionalismo, che costituisce una delle componenti fondamentali della modernità in architettura. L’uso “elementarista” dell’arco e della colonna tuscanica, insieme con la semplificazione volumetrica e la diffusa rinuncia all’ornamento sono i modi in cui Ferrazza declina la ricerca razionalista, pervenendo ad una austera monumentalità37. Sarebbe dunque errato, alla luce di queste considerazioni, vedere l’architettura di Ferrazza in colonia come una tardiva riproposizione dell’eclettismo storicistico degli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento; il classicismo dell’architetto trentino è un “ritorno al passato” solo nella misura in cui, nello stabilire un legame tra architettura e condizioni materiali della sua produzione, rivela l’inadeguatezza del neue bauen modernista alla situazione coloniale. 36. Il riferimento è alla definizione di “decorazione” data da Quatremère de Quincy: cfr. A.C. QUATREMÈRE DE QUINCY, Dizionario storico di architettura, a cura di V. FARINATI e G. TEYSSOT, Venezia 1992 (Paris 1832), pp. 181–190. 37. G. GRASSI, La costruzione logica dell’architettura, Venezia 1967, p. 143. Figura 5. L’arco dei passaggi laterali della Moschea (foto 2005). La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 175 In questo senso Ferrazza, nelle sue opere in colonia, percorre sino in fondo, e coerentemente, una via al moderno per certi aspetti alternativa — ma forse sarebbe meglio dire parallela — a quella del Movimento Moderno internazionale; una via che ritrova nella classicità un paradigma architettonico dotato di valore progressivo. Figura 6. Il Mercato dei Generi Alimentari in costruzione, 1937 ca. (Archivio del Municipio di Asmara). I due padiglioni dei Mercati Coperti e la Grande Moschea mostrano, dal punto di vista costruttivo, un equilibrato rapporto tra materiali e tecniche moderne e tradizionali: — negli edifici dei Mercati la struttura portante è mista: pilastri realizzati in muratura di mattoni cotti sostengono un lungo architrave in cemento armato sul quale sono ricavate le aperture circolari che portano luce alle botteghe. I materiali impiegati sono perlopiù locali: i dettagli in pietra — fusti delle colonne, rivestimenti dei pilastri, soglie — sono realizzati in granito di Dekamhare, con l’eccezione dei capitelli, in marmo di Carrara; i mattoni delle murature sono prodotti in loco, così come le tessere vitree dei rivestimenti e le mattonelle in graniglia di marmo delle pavimentazioni, essendo attive in Eritrea negli anni Trenta numerose fabbriche di laterizi, di piastrelle e di lavorazione marmi38. Gli elementi vitrei della cupola sono invece certamente di importazione. 38. Cfr. E. INFANTE, Rassegna tecnica delle industrie eritree, Asmara 1947. 176 Parte II – Capitolo III — l’edificio della Moschea è realizzato con le stesse tecniche e materiali dei Mercati coperti: le colonne e i capitelli della sala di preghiera sono in cemento armato — risultano attive ad Asmara alcune ditte specializzate proprio nella realizzazione di elementi decorativi in cemento armato39 —, diversamente da quelle del pronao, con i fusti in granito di Dekamhare e i capitelli in marmo di Carrara, in analogia a quelle dei portici dei padiglioni dei Mercati. Gradini e soglie sono in granito di Dekamhare. Il sistema strutturale a sostegno della cupola in elementi vitrei40 — identica a quella del Mercato dei Generi Alimentari ma di dimensione maggiore — è in cemento armato. Le pavimentazioni interne ed esterne sono in mattonelle di graniglia di marmo, realizzate in loco41. I quattro corpi cupolati che, due per lato, individuano i passaggi laterali della Moschea, presentano colonne in cemento armato che sostengono archi a tutto sesto in muratura, su cui poggia la cupola nervata in cemento armato. 39. Ibidem. 40. Un racconto ancora diffuso tra gli anziani frequentatori della Moschea vuole che la cupola, già realizzata, sia arrivata dall’Italia su una nave, trasportata da Massawa ad Asmara e quindi messa in opera. Sicuramente la realizzazione di una cupola trasparente deve aver suscitato all’epoca grande emozione tra gli eritrei: da qui, probabilmente, l’idea di questo suo arrivo quasi miracoloso dall’Italia. 41. Cfr. E. INFANTE, op. cit., p. 416. La pavimentazione fu eseguita dalla ditta Bonsignore Enrico — Lavorazione marmi. Figura 7. Il Mercato dei Generi Alimentari in costruzione, 1937 ca. (Archivio del Municipio di Asmara). La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 177 Emerge abbastanza chiaramente la continuità di questo lavoro di Ferrazza con le posizioni teoriche espresse nell’articolo Il problema di costruire nell’Impero: l’impiego dei materiali locali e di tecniche costruttive tradizionali si associa ad un limitato impiego delle tecniche e dei materiali moderni — il cemento armato, nel caso in questione. Continuità dello spazio urbano attraverso l’architettura Quello della continuità dello spazio urbano attraverso l’architettura è un principio progettuale, desumibile dall’indagine critica sul costruito, da cui emerge l’attenzione di Ferrazza a stabilire relazioni tra il tessuto urbano circostante e i nuovi edifici, in termini di continuità del suolo urbano attraverso gli edifici. Questo principio si manifesta in maniera estremamente chiara in due punti del suo progetto per l’area dei Mercati: — il Mercato dei Generi Alimentari, come abbiamo visto, è posizionato tra le due strade che attraversano la piazza del mercato; le strade vengono riconnesse facendole passare all’interno dell’edificio secondo la sua dimensione minore, compensandone in questo modo il disassamento. Il posizionamento dell’edificio aggiunge dunque una specifica 178 Parte II – Capitolo III Figura 8. G. FERRAZZA, La Grande Moschea, Asmara, 1938 ca., lavori di sistemazione della piazza (Archivio del Municipio di Asmara). Figura 9. Schema assonometrico della posizione dei corpi laterali della Moschea nel sistema urbano dei mercati. La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati Figura 10. Grande Moschea, il passaggio laterale est prima della chiusura, (Pavoni Social Center — Biblioteca, Asmara). Figura 11. Grande Moschea, il passaggio laterale est dopo la chiusura e l’annessione alla sala di preghiera (foto 2005). 179 180 Parte II – Capitolo III valenza urbana al suo sistema di accesso e circolazione, che diviene parte integrante della struttura urbana; — la Grande Moschea è posta a fondale della piazza del mercato; ma le due strade che corrono parallele sui lati lunghi della piazza attraversano i due passaggi pubblici posti ai lati della sala di preghiera; in questo modo l’edificio diviene lo strumento attraverso il quale riconnettere la circolazione tra le parti del sistema urbano, e dunque l’area del mercato degli italiani con quella degli eritrei. Si tratta, come si vede, di due declinazioni del medesimo principio urbano: ma, mentre nel caso dell’edificio del Mercato dei Generi Alimentari tale principio è ancora riconoscibile e operante, nel caso della Grande Moschea tale principio è stato negato dalle trasformazioni da cui l’edificio è stato interessato nel corso del tempo, che hanno portato alla chiusura dei due passaggi laterali, compromettendone la funzione riconnettiva a scala urbana. La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 181 Progetto definitivo. Il restauro del principio urbano attraverso il ripristino dei passaggi laterali della Grande Moschea I principi architettonici e urbani dell’intervento di Ferrazza individuati attraverso il progetto preliminare, assumono un peso diverso se visti alla luce dello stato di conservazione degli edifici e alla loro capacità di orientarne il progetto di restauro. Mentre infatti il principio di coerenza tra linguaggio e costruzione resta chiaramente leggibile negli edifici — essendo state apportate nel corso degli anni, perlomeno sotto questo aspetto, solo marginali modifiche al loro assetto, il principio di continuità dello spazio urbano attraverso l’architettura — vero e proprio principio urbano del progetto — è stato, come si è più volte rilevato, negato dalla chiusura dei corpi laterali della Moschea. In questo senso il progetto definitivo, con il quale si puntualizzano i modi specifici in cui un principio architettonico viene re–instaurato attraverso determinate operazioni sul corpo dell’edificio, prende le mosse proprio dalla questione del ripristino dei passaggi laterali della Moschea, ricercando, con gli strumenti e i metodi della progettazione architettonica, le forme appropriate di tale ripristino. 182 Parte II – Capitolo III Lo statuto teorico del progetto definitivo Abbiamo visto la peculiare maniera in cui il progetto preliminare consente di risalire, in un processo di circolarità ermeneutica, ai principi architettonici di un’opera, reimmettendoli allo stesso tempo in una prospettiva progettuale volta al loro restauro. Il progetto definitivo è, allora, lo strumento attraverso il quale vengono esplorate le potenzialità dell’impostazione emersa dal progetto preliminare. Come abbiamo osservato in precedenza, se consideriamo il progetto preliminare alla stregua dell’ipotesi scientifica, possiamo assegnare al progetto definitivo il valore di esperimento, attraverso il quale falsificare o corroborare tale ipotesi. Ma in che senso possiamo parlare di esperimento in relazione all’architettura? Il ruolo dell’esperimento nella valutazione delle teorie scientifiche è stato ampiamente discusso nella riflessione epistemologica sviluppatasi a partire dagli inizi del secolo scorso — basti pensare ai lavori degli esponenti del Circolo di Vienna o al fondamentale Logica della scoperta scientifica di Popper. In questo scritto Popper analizza, tra gli altri, il concetto di “esperimento cruciale”, inteso come esperimento “pro- La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 183 gettato per confutare (se è possibile) una teoria, e, più in particolare, […] per provocare una decisione fra due teorie in competizione tra loro, confutando (almeno) una di esse, senza, naturalmente, provare l’altra”42. È una condizione tipica, nell’attività progettuale, trovarsi di fronte a più alternative possibili, che, in prima istanza, appaiono ugualmente in grado di rispondere positivamente al complesso sistema di richieste che sta dietro il progetto. Alcuni architetti hanno fatto di questa condizione contingente la base di una precisa metodologia progettuale, come ad esempio Walter Gropius, che nel progetto di concorso per la casa per anziani Marie von Boschan Aschrott a Kassel, 1929–30, a partire da un gruppo di requisiti ritenuti irrinunciabili (vista, esposizione, ecc.), sviluppa una serie di varianti con diverse disposizioni e altezze dei corpi di fabbrica. Per successivi confronti e confutazioni delle diverse soluzioni, Gropius perviene infine alla soluzione ritenuta ottimale43. Senza volere generalizzare questo approccio, che del resto lo stesso Gropius non applicò così rigorosamente in nessun’altra occasione, è certamente importante osservare come una procedura di questo genere sia largamente basata su una concezione del progetto in termini di esperimento. 42. K. POPPER, Logica della scoperta scientifica, Torino 1998 (Wien 1934, London 1959), p. 307, nota *2. 43. Cfr. W. NERDINGER, Walter Gropius. Opera completa, Milano 1993, p. 142–143. 184 Parte II – Capitolo III Come si vede, l’esperimento così inteso non ha niente a che vedere con l’idea ingenua che da una serie abbastanza lunga di prove (“esperimenti”) possa derivarsi una legge generale — o, nel caso dell’architettura, una soluzione progettuale. Al contrario, l’esperimento, a grandi linee, “può essere visto come una domanda che viene posta in una determinata situazione, cui segue una certa risposta”44; è fondamentale dunque la domanda che si pone, perché è in relazione a questa che può essere interpretata la risposta. Il celebre esperimento attraverso cui Galileo scopre la legge di caduta dei gravi è l’esempio della corretta formulazione del problema: Galileo isola le grandezze fisiche coinvolte — distanza percorsa da un grave in caduta libera, tempo impiegato per percorrere quello spazio, situazione ideale di vuoto — e ipotizza che tra le grandezze in questione esista una relazione descrivibile matematicamente. Solo in virtù dell’esistenza dell’ipotesi l’esperimento è in grado di dare una risposta45. L’esperimento scientifico, modernamente inteso, si basa sulla traduzione di un enunciato fattuale — cioè un enunciato che mette in relazione la formulazione teorica del problema con delle grandezze misurabili —, in uno sperimentale — che definisce la forma in cui le grandezze stanno in relazione tra loro rapportandole alla situazione speri44. Cfr. M.L. DALLA CHIARA, G. TORALDO DI FRANCIA, Introduzione alla filosofia della scienza, p. 4–5, Roma–Bari 1999. 45. Cfr. ad es. P. ROSSI, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma–Bari 1997, pp. 143–147. La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 185 mentale. Ma ad uno stesso enunciato fattuale possono corrispondere diversi enunciati sperimentali46: dal momento che l’esperimento è la costruzione di un modello di un certo sistema di relazioni tra grandezze, nulla impedisce che di questo sistema di relazioni possano darsi più modelli. Ad esempio, gli esperimenti per verificare l’equivalenza di massa inerziale e massa gravitazionale furono compiuti da Galilei e da Newton mediante pendoli semplici, da Roll–Krotov–Dicke mediante bilance a torsione47. Se proviamo, con le dovute attenzioni, ad estendere queste considerazioni al rapporto tra progetto preliminare e progetto definitivo, possiamo riconoscere nel primo la formulazione dell’enunciato fattuale, nel secondo la sua traduzione in un enunciato sperimentale. Il progetto preliminare, cioè, individuando i principi architettonici e urbani dell’edificio da restaurare, delinea il campo di azione dell’esperimento; il progetto definitivo traduce i principi in operazioni specifiche da mettere in atto per restaurarli. Senza volere in questo modo operare una diretta traslazione alla teoria architettonica di questo ragionamento, concepire il progetto definitivo in termini di esperimento significa assegnargli un preciso ruolo teorico, specificando così ulteriormente la dimensione conoscitiva dell’attività progettuale nel suo complesso. 46. Cfr. G. BONIOLO, P. VIDALI, Filosofia della scienza, Milano 1999, pp. 332–345. 47. Ivi, p. 344. 186 Parte II – Capitolo III Il progetto definitivo è dunque logicamente distinto, ma non separabile dal progetto preliminare: i due momenti vanno visti insieme, come un processo unitario in cui il progetto preliminare costituisce la premessa teorica — la domanda — e il progetto definitivo la risposta sperimentale che la corrobora o la falsifica. Come si è detto sopra, ad un dato enunciato fattuale possono corrispondere diverse traduzioni sperimentali; riprendendo l’analogia, un dato progetto preliminare può allora dare luogo a diversi progetti definitivi. In questo senso l’aggettivo “definitivo” assume un significato ben preciso, non riferendosi più ad una condizione di raggiunta compiutezza dell’elaborazione, di non ulteriore perfettibilità, bensì alla corretta “definizione” dei termini della questione. Il progetto definitivo è il “problema ben posto”48: le risposte possibili sono molteplici. Le forme specifiche del restauro del principio urbano L’esplorazione progettuale condotta sulla Grande Moschea verte sul restauro del principio urbano — la riconnessione degli spazi urbani 48. Cfr. LE CORBUSIER, Verso un’architettura, Milano 1996 (Paris 1923), pp. 85–86: «la lezione dell’aeroplano non è tanto nelle forme create […]. […] è nella logica che ha presieduto all’enunciato del problema e che ha condotto alla riuscita della sua realizzazione». La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 187 attraverso l’architettura — che sta alla base del progetto di Guido Ferrazza. Il progetto preliminare ha messo in luce le parti fisiche dell’edificio su cui, nel corso del tempo, si sono prodotte modifiche che hanno alterato la chiarezza dell’intervento di Ferrazza: si tratta fondamentalmente dei due passaggi laterali della Moschea, attraverso i quali venivano messe in comunicazione le due parti del sistema dei mercati della città di Asmara. Il principio, come è emerso dall’indagine sui documenti e dal rilievo critico dell’esistente, risulta negato dalla chiusura di tali passaggi, trasformati in spazi di servizio della sala di preghiera. Ricostituzione della continuità tra gli spazi del sistema dei mercati Il restauro del principio urbano avviene attraverso una serie di operazioni, condotte sui passaggi laterali della Moschea, con le quali si intendono ripristinare le condizioni di intelligibilità del progetto architettonico e urbano sviluppato da Ferrazza: — demolizione dei muri perimetrali, delle coperture e dei relativi sostegni realizzati a chiusura dello spazio dei passaggi laterali; — riapertura degli archi; 188 Parte II – Capitolo III — ripristino della pendenza originaria dell’attraversamento; — ripristino delle aperture originali sui prospetti laterali della moschea; — ripristino delle scale di accesso alla moschea dai passaggi laterali. L’insieme di queste operazioni, come è chiaro, non è volto in nessun modo al ripristino dell’immagine originaria dei passaggi — la cui ricostituzione sarebbe comunque parziale — quanto piuttosto al ristabilimento della funzione urbana del dispositivo architettonico. Il ripristino a cui si fa riferimento non è dunque inteso in senso filologico: pur essendo disponibili i rilievi di massima degli elementi demoliti, non è scientificamente possibile risalire alla loro configurazione originaria. Del resto, ai fini del restauro del principio urbano dell’intervento di Ferrazza, non è necessario riproporre con esattezza le parti che le trasformazioni operate nella riconversione in spazi interni avevano eliminato, quanto piuttosto ricostituirne le relazioni. La liberazione dei passaggi laterali, dunque, pur liberando gli elementi architettonici predisposti da Ferrazza a segnare l’attraversamento, non li riconduce ad un ipotetico stato originale se non nella loro funzione urbana. Elementi quali la pavimentazione lungo il passaggio e le scale di accesso alla sala di preghiera, sono pertanto progettati a parti- Figura 12. La Biblioteca Islamica (foto 2005). La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 189 re dalla situazione attuale, senza alcun tentativo di riproporre le soluzioni adottate originariamente da Ferrazza. Restituzione del carattere urbano dei passaggi laterali attraverso la riprogettazione degli edifici adiacenti Figura 13. La Scuola Coranica (foto 2005). A queste operazioni, condotte direttamente sul corpo dell’edificio di Ferrazza, si aggiungono due interventi sugli edifici e gli spazi adiacenti ai passaggi laterali, necessari al fine del ripristino del carattere di attraversamento urbano di questi ultimi. Sul lato ovest è presente l’edificio della Biblioteca islamica, che riprende nel fronte su strada la dimensione dell’edificio preesistente, ma che presenta un corpo più alto nella parte mediana; sul lato est si trova il grande edificio della Scuola coranica, che, diversamente dalla biblioteca, non si addossa al corpo laterale, ma se ne separa per una fascia di circa tre metri, concepita probabilmente in un primo momento come passaggio in sostituzione di quello chiuso e in seguito chiuso anch’esso e adibito a spazio di servizio per la moschea e la scuola. La demolizione degli elementi aggiunti ai corpi laterali per annetterli alla sala di preghiera comporta la “riapparizione” dei due edifici ai lati, e dunque la riconfigurazione dei loro prospetti laterali come dei veri e propri fronti di via. 190 Parte II – Capitolo III Tra l’edificio della biblioteca islamica e il passaggio laterale della moschea, dopo la sua trasformazione in spazio di servizio della moschea stessa, si determina una situazione ambigua e irrisolta: il fronte longitudinale della bibiloteca è sostanzialmente cieco, mentre molte delle aperture realizzate nel muro perimetrale del passaggio laterale, in corrispondenza a quelle della moschea, sono false finestre. Le strategie percorribili sono due: la semplice ridefinizione del fronte longitudinale dell’edificio della biblioteca attraverso l’opportuna collocazione di un sistema di aperture; oppure la riprogettazione dell’edificio al fine di ottenere, anche attraverso l’intervento sulle quote interne, un più chiaro rapporto tra edificio e spazio di attraversamento. Si è ritenuto opportuno percorrere la strada della riprogettazione dell’edificio della biblioteca, conservandone la giacitura: ciò ha consentito di restaurare il principio urbano dell’attraversamento, esplorandone contestualmente le potenzialità. La nuova biblioteca dispone parte del suo sistema di accesso lungo il passaggio laterale: in corrispondenza dei portali si trovano gli accessi alla sala di lettura, a sud, e agli uffici amministrativi, a nord; lungo l’attraversamento, attraverso una sconnessione del corpo di fabbrica nella parte più a nord, è possibile accedere direttamente alla corte inter- Figura 14. Passaggio laterale ovest, schizzo di progetto. La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 191 na dell’edificio e quindi alla sala di lettura. L’edificio si affaccia sul passaggio con una terrazza a circa tre metri sopra il piano di calpestio. La sequenza delle sezioni trasversali lungo il percorso mostra così un sistema di variazioni spaziali ed altimetriche che rivela la complessità urbana del passaggio. Figura 15. Il giardino della Biblioteca Islamica, schizzo di progetto. L’edificio della scuola islamica, realizzato alla fine degli anni Sessanta, non si addossa direttamente al passaggio laterale — che nel frattempo era già stato trasformato in spazio di servizio della moschea — ma se ne distacca di qualche metro, in modo da potersi aprire anche sul lato ovest. Questo spazio interstiziale è attualmente usato per le abluzioni rituali dalla comunità islamica, in sostituzione della vasca nella piazza antistante la moschea, non più in uso. È possibile conservare tale spazio, ripensandolo come un giardino fruibile sia dalla moschea che dalla scuola: a questo fine esso può avere il carattere del giardino murato, configurandosi come una vera e propria stanza a cielo aperto, o quello della terrazza che si affaccia sul passaggio laterale e sulle strade. Si è approfondita la prima ipotesi, dal momento che l’effettivo andamento del suolo non consente una reale differenziazione altimetrica tra lo spazio del passaggio — inteso come attraversamento — e quello del 192 Parte II – Capitolo III giardino — inteso come spazio di sosta; ciò produrrebbe una sostanziale duplicazione del passaggio, che avrebbe come effetto quello di indebolirne il significato urbano, e dunque il principio progettuale ad esso sotteso. Il progetto prevede il mantenimento del piano del giardino murato alla quota della strada a nord del passaggio laterale. In questo modo la pendenza del piano di calpestio di quest’ultimo determina una separazione tra i due spazi; una parete traforata consente di intravedere il passaggio dal giardino e viceversa. Si prova così a ristabilire un rapporto tra passaggio laterale e edificio adiacente più vicino ai principi del progetto di Ferrazza, traendo allo stesso tempo spunto dall’esistente, per introdurre un diverso tipo di spazio all’interno dell’isolato urbano a cui appartiene la Moschea. Figura 16. Dettaglio del progetto della nuova pavimentazione dei corpi laterali, degli spazi esterni della Biblioteca Islamica e del giardino murato della Scuola Coranica. La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati 1 193 1 2 2 3 4 1 Figura 17. Progetto del braccio sud dell’area dei Mercati: 1. riconfigurazione dei fronti sulla piazza; 2. riapertura dei passaggi laterali; 3. nuova Biblioteca Islamica; 4. giardino murato. 194 Parte II – Capitolo III Figura 18. Passaggio ovest: rilievo con indicazioni delle modifiche apportate al progetto originario a partire dal 1943. In rosso le costruzioni, in giallo le demolizioni. Figura 19. Passaggio ovest, lato nord (foto 2005). Figura 20. Passaggio ovest, lato sud (foto 2005). La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati Figura 21. Passaggio est, lato nord (foto 2005). Figura 22. Passaggio est, lato sud (foto 2005). Figura 23. Passaggio est: rilievo con indicazioni delle modifiche apportate al progetto originario a partire dal 1943. In rosso le costruzioni, in giallo le demolizioni. 195 196 Parte II – Capitolo III 5 4 3 2 1 Figura 25. Il prospetto della biblioteca lungo il passaggio laterale, schizzo di progetto. 1 Figura 24. Progetto di riapertura del passaggio laterale est e nuova Biblioteca Islamica: pianta piano terra e sezioni sul passaggio laterale. 1. ingresso; 2. sala lettura; 3. giardino murato; 4. ingresso agli uffici; 5. deposito. La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati Figura 26. Il passaggio laterale est, schizzo di progetto. Figura 27. Progetto di riapertura del passaggio laterale ovest e nuovo giardino murato: pianta piano terra e sezioni sul passaggio laterale. 197 198 Parte II – Capitolo III 7 7 2 6 Figura 29. Addossamento del nuovo edificio al passaggio laterale ovest, schizzo di progetto. Figura 28. Progetto di riapertura del passaggio laterale est e nuova Biblioteca Islamica: pianta primo piano, prospetto sud e sezione sulla biblioetca. 2. sala lettura; 6. sala lettura all’aperto; 7. uffici. La Grande Moschea, cerniera urbana del sistema dei mercati Figura 30. Il giardino murato tra la scuola ed il passaggio laterale, schizzo di progetto. Figura 31. Progetto di riapertura del passaggio laterale ovest e nuovo giardino murato: prospetto sud e sezion sul giardino. 199 Conclusioni Autonomia disciplinare e situazione postcoloniale Principi architettonici e progetto nel restauro del Moderno In che senso è possibile parlare di specificità del restauro del moderno, sia rispetto al restauro tradizionalmente inteso, che rispetto al più generale ambito della progettazione architettonica? I diversi lavori sviluppati nell’ambito del programma di ricerca del Dottorato in Progettazione Architettonica di Palermo dedicato al Restauro del Moderno, hanno via via messo in luce alcune questioni epistemologiche e metodologiche che hanno costituito il quadro di riferimento entro il quale è stata condotta questa ricerca. In particolare, sul piano epistemologico sono emerse: — la rilevanza del sistema documentario collegato all’edificio oggetto di studio; — l’importanza del progetto, convenzionalmente articolato in progetto preliminare e progetto definitivo, come strumento privilegiato sul piano conoscitivo ed operativo; 201 202 Conclusioni — il restauro dei principi architettonici e urbani dell’edificio come obiettivo principale dell’intervento progettuale. Sul piano metodologico è stata puntualizzata: — la centralità del disegno, vera e propria scrittura del progetto, nelle sue varie forme (schizzo, rilievo, ridisegno) ai fini dell’individuazione dei principi dell’edificio; — l’impossibilità di una procedura generalizzata del progetto di restauro, che invece deve, caso per caso, trovare la sua specificità. Rispetto alle questioni in campo, questo studio ha esplorato in particolare il rapporto tra progetto preliminare e progetto definitivo, osservandoli ora come elementi costitutivi dell’attività progettuale — indagandone relazioni reciproche e specificità, ora come strumento conoscitivo e interpretativo tanto del dato fisico che del sistema documentario. Il progetto di restauro è infatti una attività fortemente connotata in senso ermeneutico; tanto più se si pone come obiettivo il restauro dei principi architettonici di un’opera — cioè di quello che possiamo definire come “contenuto teorico” dell’edificio. Tale contenuto è depositato nel progetto originale dell’edificio, la cui conoscenza, insieme a Autonomia disciplinare e situazione postcoloniale 203 quella dell’opera realizzata — che del progetto costituisce la traduzione — diviene dunque il punto di partenza per l’individuazione dei suoi principi costitutivi. La ricerca dei principi architettonici di un’opera è parte integrante del progetto di restauro, entro il quale si sviluppa in un meccanismo di circolarità ermeneutica: il progetto, per attuarsi su solidi fondamenti scientifici deve essere sostenuto dalla conoscenza storico–critica e materiale dell’opera; la conoscenza, a sua volta, non può darsi se non attraverso uno sguardo progettualmente orientato. È un processo, quello così descritto, di approssimazioni successive, attraverso il quale è possibile operare una sorta di “riduzione” dell’insieme costituito dall’opera e dal sistema documentario ad una ipotesi sui principi architettonici dell’oggetto di studio. È questa la fase che definiamo progetto preliminare, con la quale facciamo riferimento alla prima significazione complessiva che un testo consente «sulla base del più immediato senso che [...] esibisce»1 all’interprete. «La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nell’elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo»2. I principi architettonici possono essere individuati solo se l’esperienza conoscitiva avviene sub specie architecturae; solo se i 1. Cfr. H.G. GADAMER, op. cit., p. 314. 2. Ibidem. 204 Conclusioni dati, cioè, vengono ordinati in modo che abbiano senso rispetto ad un fine progettuale3: il progetto, cioè, è quello che tiene assieme l’azione del progettista dell’opera e quella del suo “restauratore”. Solo lo sguardo progettualmente orientato può trarre dai documenti materiali per l’architettura. A partire dall’individuazione dei principi architettonici dell’opera da restaurare è possibile associare tali principi alle sue forme specifiche e quindi ad una serie di operazioni da mettere in atto sulla materia: il sistema di relazioni che tiene insieme queste operazioni costituisce il progetto definitivo, attraverso il quale i principi — ove indeboliti o negati — vengono re–instaurati. In questa fase del processo progettuale è possibile riconoscere una procedura di tipo sperimentale: lo sviluppo del progetto, a partire da una precisa serie di operazioni, mette in luce la loro efficacia nel restaurare i principi, corroborando o indebolendo le ipotesi che lo sostengono. Attraverso il progetto è possibile dunque rilevare l’efficacia di determinate assunzioni, ed eventualmente riformularle in maniera più precisa. Il processo progettuale può essere rappresentato, nel suo insieme, come un meccanismo di retroazione: ogni passo genera informazioni che consentono di ripercorrere l’intero processo ad un livello più alto di consapevolezza, approfondendo la conoscenza dell’opera e dei princi3. Cfr. le note osservazioni di Vittorio Gregotti in merito al “modo di essere architettonico dell’esperienza”, in V. GREGOTTI, Il territorio dell’architettura, Milano 1966, pp. 101–140. Autonomia disciplinare e situazione postcoloniale 205 pi architettonici che la informano, fino a pervenire ad una formulazione progettuale adeguata all’obiettivo. Il restauro del Moderno nelle ex colonie italiane d’oltremare: trasformazioni culturali e resistenza dei principi architettonici Non è possibile, infine, non accennare alla questione del destino dell’architettura coloniale italiana in un paese, l’Eritrea, oggi indipendente. Non è questa la sede — né abbiamo le competenze — per affrontare un discorso sulla ridefinizione dell’identità nazionale in situazione postcoloniale e sulle forme di elaborazione/assimilazione/rimozione dell’eredità coloniale attraverso cui tale ridefinizione si attua. L’architettura e l’urbanistica, come è chiaro, costituiscono una parte importantissima di quella eredità, tanto più che in Eritrea l’origine del fenomeno urbano è strettamente collegata alla colonizzazione italiana. La città — e l’architettura che la costruisce — sono dunque in Eritrea il segno più tangibile e duraturo della presenza del colonizzatore4; presenza che simbolicamente resiste, nelle pietre, alla decolonizzazione. In realtà gli edifici di Asmara, costruiti dagli italiani per fare della 4. Cfr. M. FULLER, Edilizia e potere: l’urbanistica e l’architettura coloniale italiana, 1923–1940, in «Studi Piacentini», n. 9, 1991. 206 Conclusioni città un pezzo di Italia nelle terre d’Oltremare, sono, nel corso del tempo, rientrati nella storia continua dell’Eritrea, e oggi di “italiano” non hanno più nulla, se non l’atmosfera che evocano nei visitatori occidentali e il ricordo — per alcuni nostalgico — di una diversa vita che si svolgeva in città all’epoca della loro costruzione. È difficile dire in che senso le alterazioni che possiamo riscontrare in questi edifici siano il frutto di una capacità di spesa insufficiente a mantenerli in ordine che obbliga per così dire ad un uso maggiormente “creativo” delle “risorse scarse” — tra cui lo spazio abitativo; o piuttosto di un processo di riappropriazione culturale — oltre che fisica — che implica un necessario adattamento pratico e simbolico dell’eredità del colonizzatore al nuovo uso. La trasformazione dei passaggi laterali della Moschea sembra in effetti obbedire più ad una esigenza di ordine pratico piuttosto che a quella di una riappropriazione da parte della popolazione locale degli spazi urbani dell’ex colonizzatore italiano. Probabilmente per i musulmani di Asmara — numericamente all’incirca equivalenti ai cristiano–copti — la dimensione della Moschea era sin dall’inizio insufficiente; a pochi anni dall’inaugurazione della Moschea stessa la comunità islamica incarica infatti Giuseppe Arata di studiare la trasformazione dei passaggi laterali dell’edificio in una appendice della sala Autonomia disciplinare e situazione postcoloniale 207 di preghiera. Cosa che avviene puntualmente, neutralizzando in questa maniera l’ingegnoso progetto di Ferrazza, con il quale si mettevano in comunicazioni le due parti del mercato di Asmara. Per uno strano destino sono così gli eritrei di Asmara ad operare, a pochi anni dalla fine del fascismo, la segregazione spaziale del mercato degli eritrei — in verità da sempre “misto” — da quello degli europei. L’indagine sui principi architettonici del progetto di Ferrazza ha messo in luce l’importanza strutturale del sistema degli attraversamenti: il Mercato dei Generi Alimentari continua a funzionare e ad essere usato anche in virtù del passaggio al suo interno di una della strade di accesso alla piazza. Al contrario la chiusura dei passaggi urbani ai lati della Moschea ha di fatto contribuito a marginalizzare lo spazio a nord della stessa, divenuto a tutti gli effetti un retro. Restaurare il principio urbano del progetto di Ferrazza, cioè la continuità dello spazio urbano attraverso gli edifici, diviene dunque una esigenza non solo alla scala dell’edificio ma soprattutto a quella della città. Il ripristino dei corpi laterali della Moschea come passaggi urbani riassegnerebbe infatti allo spazio a verde alle spalle di quell’edificio una nuova centralità, reintegrandolo a pieno titolo nel sistema di piazze e spazi aperti che gravita intorno alla Moschea. È però difficile dire in che misura possa essere effettivamente messo 208 Conclusioni in opera un progetto di restauro dell’area dei mercati che passi attraverso la restituzione alla loro funzione urbana dei corpi laterali della Moschea: nel condurre questo studio abbiamo infatti potuto rilevare da una parte il grande interesse tanto dell’amministrazione comunale quanto della comunità islamica per un progetto di riqualificazione di quella parte di città; dall’altra per quest’ultima non sembra essere negoziabile la riapertura dei passaggi laterali della Moschea. Dal punto di vista politico la questione potrebbe essere risolta a partire dalla cessione alla comunità islamica di spazi limitrofi, ad esempio per ingrandire la biblioteca islamica trasformandola in un vero e proprio centro culturale. Ma naturalmente questo non risolverebbe il problema dell’insufficienza di spazio che si verrebbe a determinare all’interno della Moschea, una volta che questa venisse privata degli spazi annessi. E d’altra parte, se, con Vitruvio, descriviamo il fenomeno architettonico a partire dalle categorie della firmitas, della venustas e dell’utilitas, non possiamo non riconoscere, nelle trasformazioni subite dalla Moschea, un adeguamento dell’edificio alle esigenze di quest’ultima. Un adeguamento attuato, è vero, in forme che contraddicono il principio urbano costitutivo dell’intervento; ma, allo stesso tempo, un adeguamento che ha garantito all’edificio nel suo insieme quella continui- Autonomia disciplinare e situazione postcoloniale 209 tà nell’uso che lo ha conservato in buone condizioni sino ad oggi — consentendoci, in ultima analisi, di poterne ancora prospettare il restauro. La praticabilità del restauro non attiene dunque esclusivamente al piano disciplinare, essendo più in generale culturalmente determinata, in quanto obbliga alla formulazione di una lista di priorità che in alcuni casi può anche contravvenire a esigenze di carattere funzionale: nel caso specifico, la riapertura dei passaggi laterali renderebbe insufficiente la dimensione della Moschea. Affinché una simile operazione possa godere nel necessario consenso da parte della cittadinanza — e in particolare dalla comunità islamica — occorre pertanto che da parte di questa avvenga il riconoscimento del valore di monumento all’edificio della Moschea e al sistema dei mercati nel suo complesso di cui costituisce il fulcro. Riconoscimento che sul piano sociale e culturale si porrebbe a sostegno dell’istanza della sua conservazione, mentre dal punto di vista progettuale si tradurrebbe nell’assunzione che i principi architettonici e urbani dell’opera debbano essere re–instaurati nelle forme in cui l’autore li aveva originariamente tradotti. Sarebbe dunque errato pensare ad un trasferimento automatico delle conclusioni di uno studio alla realtà, in cui istanze diverse, composite 210 Conclusioni e spesso contraddittorie, si confrontano e definiscono le condizioni operative del mestiere dell’architetto: la scienza del progetto, nell’affrontare il problema del restauro del moderno, ne definisce, sul piano teorico, le forme specifiche in relazione all’oggetto di studio; ma la necessità della conservazione/restauro di un edificio è sempre culturalmente determinata, e non può provenire da ragioni interne alla disciplina. È possibile, naturalmente, promuovere le ragioni del restauro del moderno — ed in fondo la conservazione del patrimonio architettonico di Asmara diviene centrale solo al momento in cui un certo numero di persone comincia a porre il problema all’attenzione dell’opinione pubblica e degli addetti ai lavori. Ma è questa una azione che, in generale, come sappiamo dall’esperienza del DO.CO.MO.MO. in Europa, dà i sui frutti nel medio–lungo periodo; quando cioè da posizione elitaria comincia a diventare, gramscianamente, senso comune — perlomeno nel blocco storico dominante. Il problema è ancora più delicato in una situazione postcoloniale, in cui è necessario che il restauro di un edificio realizzato dall’ex colonizzatore non si traduca, agli occhi della popolazione locale, in una nuova forma di imposizione e dominio. I processi che portano al riconoscimento dell’eredità coloniale italiana come parte costitutiva dell’identità eritrea e dunque alla sua riap- Autonomia disciplinare e situazione postcoloniale 211 propriazione sono lunghi e passano per una lunga elaborazione. È una sorta di percorso naturale, che può essere sostenuto ma non imposto dall’esterno. Ma, d’altra parte, proprio la continuità nell’uso degli spazi urbani e degli edifici costruiti dagli italiani, attraverso aggiustamenti e manipolazioni più o meno evidenti, costituisce uno degli strumenti principali di questa riappropriazione. Solo riprendendosi la città e l’architettura gli eritrei impareranno a riconoscerle come proprie, e a desiderare di tutelarle. E questo, occorre dirlo, a prescindere dalle ragioni dell’architettura. Le Corbusier — che pure credeva fermamente alla capacità dell’architettura di orientare la società — a proposito delle manomissioni subite dai suoi edifici a Pessac, alterati dai residenti per adeguarli alle loro esigenze abitative, diceva: «è sempre la vita che ha ragione, e l’architetto che ha torto»5. 5. W. BOESIGER, Le Corbusier, Bologna 1977 (Zürich 1972), p. 27 Bibliografia ragionata La bibliografia che segue costituisce una sorta di “taccuino di appunti” intorno ai principali temi trattati in questa ricerca. Non vuole — né può — avere carattere di completezza, né tanto meno di compiutezza. La diversa estensione delle diverse sezioni in cui è suddivisa rispecchia dunque abbastanza fedelmente il grado di approfondimento che determinate questioni hanno avuto in questo studio. Maggiore attenzione, come è chiaro, è stata prestata alla ricostruzione del dibattito sull’architettura coloniale per come si è sviluppato nell’Italia degli anni Trenta. Questo ha reso necessari degli approfondimenti in merito alla più generale questione del rinnovamento dell’architettura italiana a partire dagli anni Venti, in relazione anche alla parabola del regime fascista e alle sue politiche coloniali. La figura di Guido Ferrazza, uno degli architetti maggiormente impegnato nelle colonie italiane in Africa, è a tutt’oggi da approfondire, in particolare per quanto riguarda la sua produzione nelle diverse 213 214 Bibliografia ragionata città dell’Africa Orientale: Asmara, Massawa e Assab in Eritrea; Harar e Addis Abeba in Etiopia. La problematica interpretazione della modernità in architettura che emerge dallo studio delle opere e degli scritti di Ferrazza ha portato ad approfondire quella che possiamo definire come la “via tradizionalista” alla modernità: una via che in Italia percorrono, a diverso titolo, numerosi protagonisti del rinnovamento disciplinare negli anni Venti e Trenta, tra cui molti degli architetti del cosiddetto Novecento, e che ha in Adolf Loos ed Heinrich Tessenow due dei principali protagonisti europei. Le particolari condizioni in cui si è sviluppata questa ricerca, innanzitutto la difficoltà nel reperire i pochi documenti disponibili in merito all’oggetto di studio, hanno portato ad approfondire la questione dei fondamenti teorici del progetto nel restauro del moderno. L’indagine si è concentrata sul rapporto tra il progetto preliminare e il progetto definitivo, intese come articolazioni del processo progettuale inteso nella sua duplice accezione conoscitiva e trasformativa. La sezione dedicata al restauro del moderno, tema che di questo lavoro costituisce il punto di partenza, riporta infine una selezione dei testi che hanno contribuito a definire l’orientamento generale rispetto alle scelte più direttamente progettuali. Bibliografia ragionata 215 Dal confronto tra le sezioni di questa bibliografia e i capitoli della tesi emergono dunque da un lato le basi scientifiche che hanno reso possibile affrontare gli argomenti trattati, dall’altro le “buone intenzioni” — di conoscenza, di approfondimento — rimaste in parte o del tutto tali. L’architettura e l’urbanistica moderne nelle colonie italiane, con riferimento all’Africa orientale: gli anni Trenta Letteratura d’epoca (1930–1940 circa) Studi monografici, saggi AA.VV. Corso di ingegneria coloniale, Napoli 1938 CARACCIOLO, E., Per una speciale edilizia dei quartieri residenziali nelle città coloniali, s.l., s.e., 1937 CIVICO, V., FIDORA, E., TADOLINI, S., Differenziazione dell’urbanistica coloniale secondo le caratteristiche della regione, in Atti del I Congresso INU, Roma 1937 DIEL, L., AOI. Cantiere d’Italia, Roma 1938 FORNACIARI, J. Nel piano dell’Impero, Bologna 1937 GALBIATI, L. Il piano generale dell’Impero. Urbanistica in Africa Orientale, in Atti del I Congresso INU, Roma, 1937 216 Bibliografia ragionata GOVERNO GENERALE AOI (a cura di), L’architettura e l’urbanistica in AOI, in Opere per l’organizzazione civile in AOI, Addis Abeba, 1939 INFANTE, E., Rassegna tecnica delle industrie eritree, Asmara 1947 PICCINATO, L., L’edilizia coloniale, alla voce Colonia, in Enciclopedia italiana, vol. X, Roma 1931 RAVA, C.E., Nove anni di architettura vissuta 1926 IV – 1935 XIII, Roma, 1939 SINDACATO FASCISTA ARCHITETTI – LOMBARDIA (a cura di), Problemi di architettura coloniale, Napoli 1936 SERRA ZANETTI, A., Edilizia nuova. Le costruzioni nell’AI, Bologna 1936 VALLE, C. Corso di edilizia coloniale (con particolare riferimento all’AOI), Roma 1938 Riviste di architettura in «Architettura» Realizzazione costruttiva dell’impero. 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