Kelsen: La democrazia come procedura

TEORIE NOVECENTESCHE DELLA DEMOCRAZIA /SCHEDA 2
Kelsen, La democrazia come procedura
Hans Kelsen (nato a Praga nel 1881 e morto a Berkeley nel 1973) è stato prima docente di Diritto pubblico e Filosofia
del diritto nelle Università di Vienna (dove fu a contatto con i neopositivisti del Circolo di Vienna), Colonia, Ginevra e
Praga, quindi (trasferitosi nel 1940 negli USA) nelle Università di Harvard e di Berkeley. Numerosi i suoi lavori di
scienza e filosofia del diritto, nonché di politologia. Ricordiamo alcuni volumi pubblicati anche in lingua italiana:
Lineamenti di una teoria generale dello Stato e altri scritti (1926), A.R.E., Roma 1933, Democrazia e cultura, Il Mulino,
Bologna 1955, I fondamenti della democrazia e altri saggi, ibidem 1965, e La democrazia, ibidem 1981. Altre opere
più propriamente giuridiche sono: Lineamenti di dottrina pura del diritto (1952), Teoria generale del diritto dello
stato (1952), La dottrina pura del diritto (1966). Da ricordare anche: Il problema della giustizia (1957) e Socialismo e
Stato (1978).
La concezione giuridica di Kelsen (come ha sintetizzato L. Caiani, nell’Enciclopedia filosofica, vol IV, coll 922-923), «si
caratterizza decisamente come una concezione formalistica, in quanto il concetto del diritto viene identificato nella
sua struttura puramente formale, e precisamente nel concetto della pura relazionalità; indipendentemente da tutto
ciò che costituisce da una parte il contenuto sociologico e dall'altra il contenuto ideologico-valutativo (e più
precisamente emozionale) che costituiscono rispettivamente l'oggetto e il movente della valutazione normativa. Tale
concezione qualificata in un primo tempo come dottrina "normativa" e in seguito come dottrina "pura" del diritto,
comporta evidentemente una chiara presa di posizione contro la dottrina del diritto naturale, in quanto,
considerando come speculativamente valido solo il concetto formale ovvero solo la struttura "logica" del diritto, nega
che si possano ravvisare uno o più "contenuti" giuridici universalmente validi e necessari». Insomma, il diritto come
ordinamento «è una struttura formale qualitativa della realtà sociale, distinta in quanto tale sia dalla realtà
sociologica sia dai moventi ideologici che costituiscono, come abbiamo detto, i contenuti di fatto e di valore della
proposizione normativa».
Kelsen è da considerarsi come un esponente del neo-positivismo giuridico soprattutto per «la netta distinzione tra
giudizi di realtà e giudizi di valore, da cui consegue la negazione del carattere della scientificità ad ogni discorso che
contenga giudizi del secondo tipo». Una tale concezione caratterizza anche le riflessioni che Kelsen sviluppa riguardo
alla democrazia, che è concepita all'insegna del relativismo politico come una procedura che consente variazioni tra
un massimo e un minimo di libertà, una procedura che permette la manifestazione di una pluralità di valori che non
sono assoluti ma appunto relativi.
Le pagine seguenti sono tratte dal citato volume I fondamenti della democrazia e altri saggi, Il Mulino, Bologna 1986,
pp. 172-174 e 193-194.
Il carattere razionalistico della democrazia
II carattere razionalistico della democrazia si manifesta soprattutto nella tendenza a fare dell'ordinamento giuridico
dello Stato un sistema di norme generali creato secondo una procedura organizzata proprio a questo scopo 1. Vi è la
chiara intenzione di determinare, mediante una legge prestabilita, gli atti individuali dei tribunali e degli organi
amministrativi in modo da poterli — per quanto possibile — calcolare e prevedere. Vi è un dichiarato bisogno di
razionalizzare il processo nel quale si manifesta il potere dello Stato. Questo è il motivo per cui si considera la
legislazione come funzione basilare dello Stato. L'ideale della legalità assume una parte decisiva: si pensa che gli
atti individuali dello Stato possano essere giustificati dalla loro conformità alle norme generali del diritto. La
certezza più che la giustizia assoluta è in primo piano nella coscienza giuridica. L'autocrazia 2, invece, disdegna una
siffatta razionalizzazione del potere. Essa evita, per quanto possibile, ogni determinazione degli atti dello Stato,
specialmente degli atti di un governante autocratico, compiuta mediante norme generali prestabilite che
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Ricordiamo che il presupposto di questa concezione è da rintracciare nel cosiddetto «formalismo giuridico», per cui «Kelsen identifica il diritto con una
struttura puramente formale che deve essere analizzata indipendentemente dai contenuti sociologici che costituiscono l'oggetto delle norme giuridiche e da
quelli ideologico-valutativi che costituiscono, di quelle stesse norme, le motivazioni. Sul piano metodologico ne deriva il cosiddetto "purismo" del diritto:
secondo Kelsen, l'attività scientifica del giurista deve finalizzarsi a una pura analisi strutturale del diritto positivo, indipendentemente da ogni indagine
sociologica, e da ogni giudizio di tipo politico o ideologico sulle sue articolazioni. Questa dottrina che si oppone alla tesi del diritto naturale, il quale riconosce
"contenuti" giuridici universalmente validi, ha suscitato ampie discussioni, incontrando larghi consensi ma anche vasti contrasti» Rossi, Le filosofie del
Novecento, Sansoni, Firenze 1974, p. 736).
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L'autocrazia è il potere assoluto, e il suo principio è che il principe è sciolto dalle leggi. La contrapposizione autocrazia-democrazia è fatta sulla base di tre
osservazioni, per cui la democrazia appare — in antitesi con l'assolutismo — caratterizzata dalla legalità, dalla pubblicità e dall'antiideologicità.
implicherebbero una restrizione del potere discrezionale. Si ritiene che l'autocrate, come legislatore supremo, non
debba attenersi alle leggi che egli stesso emana, princeps legibus solutus est.
[...] Poiché in una democrazia c'è bisogno della sicurezza del diritto, di legalità e di poter calcolare le funzioni dello
Stato, vengono stabilite delle istituzioni che controllano le suddette funzioni al fine di garantirne la legittimità. Di
conseguenza prevale il principio di pubblicità. La tendenza a svelare i fatti è tipicamente democratica e ciò porta ad
una interpretazione superficiale e malevola di questa forma di governo, al giudizio infondato che la corruzione sia più
frequente nel regime democratico che in quello autoritario; mentre — in verità — la corruzione è soltanto invisibile
nel secondo, dato che vi prevale il principio contrario. In un regime autocratico non vi sono né misure di controllo,
perché si presume che esse possano soltanto diminuire l'efficienza del governo, né pubblicità. Vi è solo lo sforzo
teso a nascondere tutto ciò che potrebbe nuocere all'autorità del governo e minare la disciplina dei funzionari e
l'ubbidienza dei cittadini.
Come si è fatto notare, gli atteggiamenti razionalistici e critici della democrazia si manifestano anche in una certa
avversione alle ideologie religiose e metafisiche che l'autocrazia utilizza allo scopo di mantenere il suo potere. La
lotta nella quale la democrazia supera l'autocrazia è in gran parte condotta in nome della ragione critica contro
ideologie che si ispirano alle forze irrazionali dell'animo umano. Tuttavia, dato che nessun governo sembra capace di
agire senza l'aiuto di talune ideologie che lo giustificano, anche i governi democratici le adoperano. Ma, di regola, le
ideologie democratiche sono più razionalistiche, più vicine alla realtà e perciò meno efficaci di quelle usate dai
governi autocratici.
La democrazia come relativismo politico
[...] Uno dei principi fondamentali della democrazia è che ognuno deve rispettare l'opinione politica degli altri,
giacché tutti sono uguali e liberi. Tolleranza, diritti della minoranza, libertà di parola e di pensiero, così caratteristici
della democrazia, non trovano posto in un sistema politico basato sulla credenza nei valori assoluti. Questa credenza
porta irresistibilmente — ed ha sempre portato — ad una posizione in cui colui che presume di possedere il segreto
del bene assoluto pretende di avere il diritto di imporre la sua opinione e anche la sua volontà agli altri, i quali, se
non sono d'accordo sono in errore. E, secondo questa concezione, essere in errore significa aver torto e quindi
essere punibili. Se si riconosce, invece, che solo i valori relativi sono accessibili alla conoscenza ed alla volontà
umana, allora è giustificato imporre un ordinamento sociale ad individui riluttanti solo se tale ordinamento è in
armonia con il maggior numero possibile di individui uguali, cioè con la volontà della maggioranza. Può accadere
che sia giusta l'opinione della minoranza e non quella della maggioranza. Unicamente perché esiste la possibilità,
che solo il relativismo politico può ammettere, che ciò che è giusto oggi sia errato domani, la minoranza deve aver
modo di esprimere liberamente la propria opinione e deve avere ogni possibilità di divenire maggioranza. Soltanto
se non è possibile decidere in modo assoluto ciò che è giusto e ciò che è errato è consigliabile discutere il caso e,
dopo la discussione, addivenire ad un compromesso.
Questo è il vero significato del sistema politico che chiamiamo democrazia e che possiamo opporre all'assolutismo
politico solo in quanto è relativismo politico 3
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[...] Il relativismo positivistico significa soltanto che i giudizi di valore in generale — senza i quali le azioni umane non sono possibili — ed in particolare il
giudizio che la democrazia è una buona o la migliore forma di governo, non può essere provata come assoluta per mezzo di una conoscenza razionale e
scientifica, una conoscenza che cioè escluda la possibilità di un giudizio di valore opposto. La democrazia, se realmente stabilita, è, anche dal punto di vista di
una teoria dei valori, relativistica, la realizzazione di un valore è in tal senso, sebbene il valore sia solo relativo, una realtà e non una mera finzione. Se qualcuno
preferisce la democrazia all'autocrazia perché la libertà per lui è il più alto dei valori nulla può avere per lui maggior significato della lotta in favore della
democrazia e contro l'autocrazia e ciò significa creare per sé e per coloro che condividono questo ideale politico le condizioni sociali che si considerano migliori.
Se coloro che preferiscono la democrazia sono sufficientemente numerosi, la loro lotta non è per nulla futile, può avere anzi grande successo. Essi non hanno
perciò il minimo motivo di accettare come inevitabile l'autocrazia. L'unica conseguenza di una teoria relativistica dei valori è: non imporre la democrazia a
coloro che preferiscono un'altra forma di governo, rimanere consci nella lotta per il proprio ideale politico che anche gli oppositori possono lottare per un
ideale e che questa lotta dovrebbe essere fatta nello spirito di tolleranza.
Una teoria dei valori relativistica non nega l'esistenza di un ordine morale e perciò non è — come talvolta si sostiene — incompatibile con la responsabilità
morale o giuridica. Essa nega l'esistenza di un unico ordine che possa pretendere di essere riconosciuto valido e, quindi universalmente applicabile. Essa
asserisce che vi sono parecchi ordini morali diversi l'uno dall'altro e che, di conseguenza, deve essere fatta una scelta tra loro. In tal modo il relativismo impone
all'individuo il difficile compito di decidere da sé ciò che è giusto e ciò che è errato, il che implica certamente una responsabilità molto seria, la responsabilità più
seria che un uomo possa assumere. Relativismo positivistico significa autonomia morale (nota di Kelsen).