Per saperne di più… Il Castello Il Castello, che ospita il Museo Archeologico Nazionale del Melfese, è costituito dal primitivo impianto normanno, ampliato con l’aggiunta di torri e di corpi di fabbrica minori nei successivi periodi svevo (ad esempio la Torre detta “Marcangione” e la grande Cisterna sotto il cortile posteriore), angioino (ambienti circostanti la “Sala del trono”, Torre Pentagonale e Fossato) ed aragonese. A partire dal periodo rinascimentale ha assunto sempre più il carattere di una residenza, secondo le esigenze della famiglia Doria, cui era stato ceduto dalla corte spagnola di Napoli, che lo ha posseduto fino alla metà del XX secolo (1954). Istituito nel 1976 come Museo del territorio, è oggi articolato su due piani delle restaurate sale del Corpo Centrale. Qui i ricchissimi rinvenimenti tombali e i materiali di abitato sono esposti secondo un allestimento cronologico e territoriale con approfondimenti tematici che restituiscono al visitatore un quadro completo della realtà antica. Cenni storici I primi nuclei abitativi, documentati sulla collina del Castello e nel centro moderno, risalgono al IX–V sec. a.C. La cultura materiale, costituita dalle produzioni ceramiche, dagli ornamenti e dalle armi, testimonia i rapporti con l’area apula e, in particolare, con la Daunia. Al IV-III sec. a.C. si datano le necropoli di Valleverde e Cappuccini che documentano la riorganizzazione dell’abitato in seguito alla pressione delle genti di stirpe osco-sannita, provenienti dalle limitrofe regioni dell’Appennino centrale. Prevalgono le sepolture a camera scavate nel tufo con corredi costituiti da vasellame a figure rosse, unguentari, cinturoni in bronzo. Dopo l’occupazione romana, il territorio si articola in insediamenti agricoli (vici e pagi) e in numerose ville, tra le quali quella di Albero in Piano, lungo il percorso della via Appia, presso Rapolla. Da qui proviene il celebre sarcofago in marmo asiatico, esposto a piano terra del Corpo Centrale del Castello. Rinvenuto verso la metà dell’Ottocento, questo monumento testimonia lo sviluppo dell’area anche in Età Romana Imperiale e costituisce uno dei più raffinati prodotti delle officine scultoree dell’Asia Minore. Riproduce, nella sua parte inferiore, una struttura architettonica costituita da nicchie che racchiudono una serie di divinità ed eroi risalenti a prototipi di età classica. Sul coperchio è raffigurata la defunta ai cui piedi era accovacciato un cagnolino (non più conservato). L’acconciatura permette di datare il sarcofago nella seconda metà avanzata del II sec. d.C. Fase arcaica e classica (VII-V sec. a.C.) Al primo piano sono esposti reperti riferibili alla fase arcaica e classica (VII-V sec. a.C.) dei siti indigeni e, in particolare, i corredi funerari di alcune sepolture principesche di Lavello e Melfi. La tomba 279 di Lavello, databile alla seconda metà del VII sec. a.C., pertinente ad un guerriero di alto rango armato di numerose lance, alcune delle quali da considerare probabile bottino di guerra, ha restituito una serie di vasi di produzione daunia a decorazione sub-geometrica bicroma, associati a bacili in bronzo provenienti dall’Etruria campana e a coppe a filetti, le più antiche attestazioni di contatti con la cultura greca. La presenza degli spiedi attesta la pratica del banchetto con le carni arrostite, pratica mutuata dall’ambito greco e diffusa tra le aristocrazie indigene. Ma è a partire dal VI sec. a.C. e per tutto il V che i rapporti con il mondo greco si intensificano, così come è ben documentato dai corredi funerari di Melfi-Chiuchiari e Pisciolo che rimandano a usi e costumi di matrice ellenica come il banchetto con le carni arrostite e il simposio, ben rappresentati da oggetti di pregio etruschi e greci, in primo luogo i vasi in bronzo, insieme all’introduzione di elementi della panoplia oplitica greca quali l’elmo corinzio, gli schinieri, la spada, la machaira e le lance (T.491 di Banzi). Notevole è anche un elemento decorativo di uno scudo, un episema in bronzo raffigurante la Chimera (Melfi-Chiuchiari). Nella fase di passaggio dall’Età Tardoarcaica a quella classica si registra un vero e proprio salto di qualità nel processo acculturativo. La documentazione relativa a tali trasformazioni è fornita in particolare dalle tombe emergenti di Melfi-Pisciolo e di Lavello. In quelle maschili si evidenzia l’aspetto rituale del simposio con il consumo del vino, l’abbandono del ruolo militare, l’abbondanza dei monili, questi ultimi presenti in numero e tipologia pressoché identici nelle due tombe (T.43 maschile e T.48 femminile di Melfi-Pisciolo). A Lavello viene ancora sottolineato l’aspetto guerriero, ma, accanto, sono altresì esibiti oggetti relativi alla paideia (flauto, strigile) e soprattutto un vero servizio per il sacrificio, costituito da phialai (coppe) di produzione greco-orientale in bronzo e argento e da un cucchiaio usato per mescolare il miele al latte (T.599). Dal sito di Banzi ricchi corredi funerari, fra i quali quello della tomba 534, mostrano chiari segni dell’adesione a modelli propri dell’ideologia greca, attraverso la presenza della corona d’oro, che rimanda all’eroizzazione del defunto, di vasellame e di strumenti attinenti alla sfera del simposio ultraterreno. Dallo stesso insediamento indigeno proviene il corredo funerario di un bambino di rango sociale elevato (T.419), che si caratterizza per la quantità e qualità degli oggetti che lo compongono: monili in oro e argento, pendenti in ambra, vasellame di importazione di grande prestigio, come il cratere attico a figure rosse su cui sono raffigurati due cavalieri (i Dioscuri), una brocchetta in pasta vitrea, una serie di vasi di produzione indigena, fra i quali un askos a forma di colomba. Tra le produzioni più particolari quelle di una “bottega” di ceramisti a Ripacandida, centro di cultura nord-lucana, con motivi figurati che riportano al pensiero di Pitagora. Su una brocchetta esemplare è la raffigurazione del viaggio celeste che conduce all’immortalità. Fase ellenistica (fine V-III sec. a.C.) Al secondo piano è esposto il materiale compreso tra la fine del V e il III sec. a.C. Dal corredo funerario di una deposizione femminile di alto rango (Ruvo del Monte, T.64) proviene uno splendido candelabro in bronzo, di fattura etrusco-campana, la cui cimasa rappresenta il mito di Eos, l’Aurora, che rapisce il fanciullo amato trasferendolo in una dimensione ultraterrena; lo stesso mito è rappresentato sul cratere protoitaliota a figure rosse della corrispondente tomba maschile (T.65). Da una deposizione femminile risalente al IV sec. a.C. di Lavello (T.955) proviene un corredo di vasi in terracotta e metallici afferente alla sfera del banchetto funebre a cui rimandano anche gli alari, gli spiedi, il colino e il graffione per le carni. La defunta era sepolta con ricchissimi oggetti dell’ornamento personale quali monili in oro, argento, ambra, pasta vitrea e bronzo. È questo il periodo in cui si registra un momento di profonda trasformazione socio-politica della comunità daunia di Lavello, ben evidenziata dagli scavi condotti nell’area dell’acropoli dell’abitato. L’importanza del gruppo familiare insediato in questo settore è testimoniata dalla ricchezza dei contesti tombali e dalla presenza di edifici destinati a funzione religiose e probabilmente politiche. A tali trasformazioni non è estraneo l’elemento sannita che, già infiltratosi nel corso del V sec. a.C., controlla il sito fino al momento della conquista romana avvenuta nel 318 a.C. Fra le grandi sepolture dell’acropoli si segnalano la tomba 607, che conteneva i resti di due donne deposte rispettivamente in posizione rannicchiata e supina (rito, quest’ultimo, tipico delle genti sannitiche), e la tomba 686 che ha restituito un pregevole elmo italico-calcidese associato ad altri elementi dell’armatura osco-lucana. Tra le tombe più recenti dell’acropoli una posizione di grande spicco occupa la tomba 669, riferibile ad un cavaliere che ha restituito un ingente complesso di vasi sia plastici in tecnica policroma di derivazione canosina che a figure rosse con decorazione sovraddipinta in più colori. Accanto alla ceramica si sottolinea la presenza dell’armamento in bronzo del defunto, dotato di corazza anatomica e di elmo di tipo romano; quest’ultimo elemento testimonia il processo di romanizzazione avviato all’interno delle élites indigene alla fine del IV sec. a.C. Sempre nel corso del IV sec. a.C. nell’area del Melfese vengono abbandonati alcuni nuclei di abitato e ne vengono occupati di nuovi: così a Melfi nelle località Valleverde e Cappuccini sono documentate necropoli strutturate con tombe a camera e alla cappuccina. Proprio dalla collina dei Cappuccini proviene un corredo funerario il cui pregio è dato da una corona in argento, mentre da Valleverde provengono due pissidi globulari a figure rosse raffiguranti la quadriga del sole. Il III sec. a.C. segna, in coincidenza con la formazione della colonia latina di Venusia (291 a.C.) per la quale le fonti parlano di 20000 coloni, la progressiva rapida scomparsa dei siti indigeni del Melfese, con l’eccezione di Banzi che continuerà a vivere come municipium romano. L’esteso abitato di Lavello, l’antica Forentum, ormai sotto il dominio di Roma attraverso gli alleati canosini, si restringe su un pianoro difeso naturalmente, mentre un cospicuo numero di tombe a camera del tipo canosino si dispone proprio lungo una strada di collegamento con Canosa. Fra queste si segnala la tomba 675, il cui corredo rimanda a rituali e costumi di matrice greca diffusi tra le élites daunie di questo periodo. I tre defunti, appartenenti allo stesso gruppo familiare, si connotano come guerrieri, assimilati ad eroi così come ben documentano le corone d’oro, e come cavalieri, per la presenza di morsi equini in bronzo; gli strigili in ferro, gli stili in osso, le pedine e gli astragali si riferiscono ad attività di tipo urbano, quali la palestra, la scrittura e il gioco. E sempre al III sec. a.C. si data una coppia di busti in argilla, femminile e maschile, provenienti da un santuario in località Gravetta di Lavello, incentrato su un sacello dotato di canalette per il deflusso delle acque e una serie di cisterne. La coppia si identifica con le divinità a cui è dedicato il culto all’interno del santuario. Si tratta, probabilmente, di una dea legata alle acque e alle sorgenti, assimilabile alla Mefitis lucana, alla quale è associata una divinità maschile della guerra. Allo stesso periodo si riferiscono una serie di statuine e vasi plastici di tipo canosino fra i quali una testa femminile con corona di foglie di edera e figure alate che rimandano a modelli delle principali botteghe di coroplastica del periodo ellenistico (Tanagra, Alessandria, Siracusa, Taranto).