I bisogni psicologici del paziente, della famiglia e dell`equipe

9 febbraio 2011
Il trattamento palliativo e la gestione in équipe
del paziente terminale
I bisogni psicologici del paziente e della famiglia
Dott.ssa Alessia Busatto
Psicologo Clinico
PREMESSA
La diagnosi di terminalità rappresenta l’ultima e la più dolorosa prova esistenziale
che l’individuo deve affrontare. Essa non può che coinvolgere tutti gli aspetti di vita della
persona: il rapporto con il proprio corpo, il significato attribuito alla sofferenza, alla malattia
e alla morte, e non ultime le relazioni familiari, sociali e lavorative.
Proprio per la pluralità e la complessità di tali aspetti, il lavoro con i malati terminali
ci “obbliga” a mutare il nostro approccio di cura: dalla cura al prendersi cura (ossia
l’adozione del cosiddetto atteggiamento palliativo) attraverso la ridefinizione degli obiettivi
della presa in carico.
L’obiettivo delle cure palliative è infatti migliorare, per quanto possibile, la qualità
della vita dei malati in stato di inguaribilità e delle loro famiglie, agendo sullo stato di
“dolore totale” dal momento che non è più possibile intervenire sulla malattia di base.
COSA SIGNIFICA QUALITÀ DI VITA (Qol)?
Tra le numerose definizioni esistenti in letteratura, per la facilità d’intuizione, faccio
riferimento al Calman’s Gap.
Situazione ideale
attesa e desiderata
Calman’s Gap
Qualità
d i v i ta
Situazione reale
osservata
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Seguendo tale logica, la Qol è definibile come la differenza tra ciò che il malato è
adesso, con tutte le sue limitazioni funzionali e i problemi psico-sociali correlati alla
patologia, e ciò che il malato spera di tornare ad essere, nutrendo quindi continui desideri
e aspettative per il futuro, ambizioni e progetti.
Il concetto di Qol dunque è soggettivo ed evolve nel tempo: si modifica con l’avanzare
della malattia poiché peggiorano le limitazioni psico-fisiche del paziente e al contempo
cambiano le sue aspettative, che non sono più paragonabili a quelle di una persona sana.
È così che il malato, con sofferenza, deve affrontare un processo di adattamento a livelli di
funzionamento progressivamente più bassi.
Se pensiamo la Qol in questi termini, migliorando la situazione reale (ad es. con un
miglior controllo della sintomatologia generale e del dolore) e adattando le aspettative di
vita del paziente alle condizioni cliniche (ridimensionando la situazione ideale), la Qol
stessa sarà migliore.
Ecco perché l’equipe di cure palliative si dovrebbe impegnare almeno su due fronti:
1) la relazione, che include la comunicazione della verità;
2) la competenza, ossia la capacità di affrontare i problemi che si
presenteranno al malato (e alla famiglia) in modo che egli possa continuare a
vivere con dignità.
Non sono impegni semplici, di fatto per definire la complessità delle condizioni del fine vita
e la sofferenza globale del malato terminale è stata coniata l’espressione “dolore totale”.
Esso è caratterizzato da una molteplicità di fattori concomitanti:
Componente psicologica:
• Collera per la diagnosi
tardiva e il fallimento
terapeutico
• Stanchezza cronica e
insonnia
• Paura della malattia,
Componente
fisica:
• Dolore da cancro
• Dolore non
oncologico
• Effetti collaterali
delle terapie
delle terapie, dell’ospedale
• Preoccupazione per la
famiglia
• Isolamento e senso di
abbandono
• Incertezza riguardo al
futuro
• Dipendenza e perdita
Dolore
Totale
Componente sociale:
• Perdita della posizione
sociale
• Perdita del ruolo lavorativo
• Difficoltà economiche
• Perdita del ruolo in famiglia
• Difficoltà burocratiche
• Mancanza di visite sociali
• Difficoltà di contatto con la
struttura sanitaria
• Dimissione dall’ospedale
“non protetta” da un adeguata
rete di supporto
• Reperibilità dei medici
della dignità
• Alterazione dello schema
corporeo
• Paura del dolore e della
morte
Componente spirituale:
Perché proprio a me? Se Dio esiste perché permette
una tale sofferenza? Qual è lo scopo? Esiste un
significato nella vita? È possibile che stia espiando dei
peccati? Cosa ho fatto di male?
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Per garantire la miglior qualità di vita possibile è fondamentale la presa in carico
individualizzata, globale e multidisciplinare del paziente, tramite l’informazione sui vari
aspetti della malattia così come tramite la valutazione dei suoi bisogni, delle sue possibilità
di scelta, nonchè della sua situazione familiare e sociale.
Questo presuppone da parte del medico, responsabile clinico, anche un “ascolto
attivo” della storia del paziente, della storia di malattia del paziente, delle sue fantasie,
paure e dei meccanismi difensivi adottati per contenerle, del sistema familiare e sociale in
cui è inserito, al fine di dare la miglior risposta possibile.
IL DISAGIO PSICOLOGICO
IN FASE TERMINALE DI MALATTIA
Il disagio psicologico rappresenta una reazione “comune” alla fase avanzata e
terminale di malattia, specialmente nelle manifestazioni depressiva e ansiosa. Si noti bene
che con “comune” si intende sottolineare la frequenza del disagio, non la sua normalità.
Quando i pensieri, le emozioni e le preoccupazioni legate al progressivo
peggioramento delle condizioni fisiche e la consapevolezza dell’avvicinarsi della morte,
che sia implicita o verbalizzata, si fanno continui, ossessivi o pervasivi, concorrono a
incrementare la condizione di “dolore totale”del paziente.
È importante prestare attenzione alla componente psicologica della sofferenza esperita
dal malato per non incorrere nel rischio diffuso di considerare il disagio psicologico come
un fatto “comprensibile e normale date le circostanze”. Tale tendenza può portare ad una
sottovalutazione del problema e a pesare negativamente su una qualità di vita dignitosa e
motivata.
Il vissuto del malato a fine vita
È bene ricordare che noi tutti, come uomini, seguiamo il naturale ciclo della vita, che va
dalla nascita alla morte. Lungo questo percorso inevitabilmente entriamo in contatto con il
vissuto di perdita, di cose o di persone, e questo ci permette di sperimentare tali emozioni
senza esserne soggiogati.
Esiste però un’ esperienza di perdita che può essere solo immaginata e temuta, tanto
da “negarla per riuscire a vivere”: il lutto di se stessi, la separazione dall’oggetto di
massimo valore.
È con la paura che il paziente terminale combatte ogni giorno:
 paura della morte e dell’ignoto;
 paura della solitudine, del rifiuto e dell’abbandono da parte di coloro che fanno
parte della rete familiare e sociale;
 paura di perdere l’autocontrollo, l’autonomia e di essere dipendenti dagli altri;
 paura di non essere in grado di tollerare il dolore e la sofferenza della terapia, dei
suoi effetti collaterali, dell’avanzamento della malattia;
 paura della separazione dalle persone care;
 paura di non riuscire a dare un senso alla propria vita e al proprio morire.
Chi si prende carico dell’assistito ha il dovere di accogliere e bonificare tale vissuto, con la
competenza di chi, dentro di sé, ha già fatto i conti con la propria finitudine. In questo
modo possiamo accompagnare il malato lungo il suo fine vita.
La malattia terminale infatti, non è un evento statico, bensì un processo dinamico in cui
si distinguono solitamente cinque fasi: rifiuto, collera, patteggiamento, depressione,
accettazione. È utile individuare la fase in cui il paziente “si colloca” per entrare in
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relazione con lui in maniera adeguata e sintona ai suoi stati emozionali-psicologici,
favorendo lo sviluppo di una buona alleanza terapeutica.
L’équipe curante e lo psicologo clinico, come facilitatore e mediatore della relazione,
possono aiutare il paziente e la famiglia ad apprezzare le esperienze positive della vita
nonostante la sofferenza, a godere in modo significativo e profondo del presente, ad
accettare la propria condizione senza essere sopraffatti dal timore della morte.

“Vivere” nella fase terminale dipende dalla possibilità di esprimere i propri reali
sentimenti e pensieri che, pur nella loro drammaticità, sono innanzitutto legittimi,
congrui e universali.

“Vivere il proprio morire” significa concedere al malato un tempo di “preparazione”
affettiva e riflessiva, nonché uno spazio di condivisione profonda con i propri cari.
INTERVENTO DIRETTO AL PAZIENTE
Che sia a domicilio, in ambulatorio, in reparto o in day hospital, diviene fondamentale la
creazione di uno “spazio di relazione umana privilegiata in cui accogliere le tematiche
profonde relative alla storia di vita o alla fase di percorso attuale”. La funzione terapeutica
si traduce nella pratica clinica mediante il contenimento dell’angoscia che il paziente porta
con sé poiché non arretra di fronte al consumarsi del corpo e consente di parlare della
morte.
L’accettazione del propri morire può così avvenire all’interno di un percorso terapeutico
in cui il malato viene guidato e sostenuto in una sorta di “maternage”, fatto principalmente
di contatto affettivo verbale, empatico e corporeo.
Ciò presuppone la chiarezza nella comunicazione e la conoscenza della diagnosi.
Accade ancora oggi, e spesso, che il timore di “scatenare reazioni emozionali intense”
porti i familiari e i professionisti sanitari ad innalzare intorno al malato una barriera di
silenzi, bugie dette “a fin di bene”, frasi sospese. Il “non detto” però non protegge il
paziente dall’angoscia di morte che sta vivendo in prima persona sul proprio corpo, bensì
protegge chi gli sta vicino dalla possibilità di parlarne, di condividerla e di esserne
contaminati.
In fondo, siamo sicuri che il malato non sappia quello che gli sta accadendo?
La “congiura del silenzio”
La “congiura del silenzio” è spesso funzionale a chi assiste il malato terminale più che
a chi è assistito. Certo è che il problema della verità non si può contenere totalmente entro
l’alternativa “dire” o “non dire” la verità.
Compito di chi assiste è di “lasciare il malato venire alla sua verità”, ossia al massimo
di verità che può essergli utile in quel momento, con la preoccupazione prioritaria che
questo processo non avvenga nell’isolamento.
Due utili indicazioni:
1) l’inguaribilità dovrebbe costituire quel minimo di verità al di sotto del quale non è
possibile scendere senza compromettere la relazione con il paziente e la possibilità
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di lavorare con lui (nel minimo non è purtroppo compresa l’informazione della
diagnosi);
2) consentire al malato di mantenere una speranza.
Le ragioni della Verità
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Bisogno della fiducia e della
collaborazione del paziente.
Favorire la ricostruzione di
rapporti familiari utili al
paziente.
Possibilità di assumere
decisioni per sé e per la
famiglia.
Ci sono ancora sogni e
desideri.
Le ragioni del Silenzio
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Terminalità avanzata in un
malato non informato in
precedenza.
Età avanzata del malato,
tenuto conto che molte forme
di cancro evolvono lentamente
nella persona anziana.
Persone che hanno precedenti
di gravi disturbi psicologici o
franca patologia psichiatrica.
Se il malato chiede
espressamente il silenzio.
Un decalogo “discreto” per la comunicazione di “cattive” notizie
1. Lasciar parlare il paziente, rendendosi conto di quanto lui vuole dire e chiedere: il
nostro punto di partenza è l’ascolto.
2. Non temere il silenzio.
3. Scegliere il luogo e il tempo giusto.
4. Adottare un linguaggio idoneo.
5. Mantenere un’espressione facciale appropriata alla comunicazione e lo sguardo sul
malato.
6. Se si vuol chiedere qualcosa usare domande aperte, poiché danno al malato la
possibilità di fornire informazioni esprimendo al contempo le proprie emozioni (“mi
racconti”, “secondo lei”).
7. Permettere l’espressione di dubbi e paure: si riduce l’angoscia e si bloccano i
pensieri ossessivi sulla propria condizione.
8. Rispondere con onestà e pertinenza alle domande, assicurandosi che le nostre
risposte siano state comprese.
9. Comunicare quel tanto di verità che il paziente sembra in grado di tollerare in quel
momento, supportandola da un progetto terapeutico, in tal modo non si distrugge la
speranza.
10. Saper riconoscere le reazioni possibili del malato alla comunicazione infausta e
saperle accogliere
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LA FAMIGLIA
La possibilità per il malato di trascorrere il fine vita a casa propria, circondato
dall’affetto dei propri cari, sembra provocare un minor livello di ansia e depressione ed
incidere in modo positivo sulla percezione del dolore. Tuttavia, per poter organizzare
un’assistenza domiciliare continua è necessario che la famiglia sia sufficientemente
preparata, sia dal punto di vista pratico che psicologico.
La difficoltà e la fatica di una famiglia nella gestione a domicilio di un malato terminale
nascono dapprima dall’impatto con la straordinarietà della situazione, che impone nuove
cose da capire, da imparare e da risolvere (ad es. a livello infermieristico-sanitario,
burocratico, ecc.), nonché uno sconvolgimento della routine quotidiana.
Molti familiari si vedono costretti ad alterare le proprie abitudini (ad es. i turni, le ferie di
lavoro, i riposi, ecc.), l’organizzazione della famiglia e della casa ( ad es. la scuola, la
spesa, le pulizie, ecc.), il ritmo della “normalità”.
Su tutto ciò grava il clima di sofferenza psicoaffettiva in cui la famiglia si muove spesso
già da tempo, ovvero dalla comunicazione della diagnosi di malattia.
Si può comprendere come l’impatto della malattia, la storia di malattia e, infine, la
prospettiva della morte creino all’interno della famiglia uno “stato di crisi” che si può
manifestare con atteggiamenti di angoscia, rabbia, depressione, ansia.
Le modalità di reazione del sistema familiare e le capacità di affrontare lo stress intra
ed interpersonale attivato da questa esperienza, dipende sia dalle precedenti dinamiche
familiari (in particolare dai livelli di comunicazione, dal grado di coinvolgimento, dal
funzionamento, coerenza e coesione del sistema) sia dalla capacità dell’équipe di offrire
un reale sostegno e contenimento dei sentimenti smossi dalla malattia e continuamente
richiamati dall’assistenza domiciliare.
È dunque opportuno guardare alla famiglia sia come un valido aiuto per il paziente e
una risorsa fondamentale per la continuità assistenziale, sia come parte integrante
dell’“unità di cura”, avente essa stessa fragilità e bisogni.
I bisogni della famiglia
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Stare con il proprio caro
Essere utile al proprio caro
Ricevere rassicurazioni sul fatto che non stia soffrendo
Essere informati sulle sue reali condizioni
Esprimere le proprie emozioni
Ricevere conforto e sostegno dagli altri familiari
Ricevere accettazione e supporto dall’équipe curante
Interventi con la famiglia
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Favorire il processo di comunicazione famiglia-malato e famiglia-équipe
Individuare la persona più adatta per la referenza assistenziale
Responsabilizzare i familiari disponibili nei compiti di cura
Sostenere e valorizzare le risorse della famiglia
Contenere la sofferenza e lo stato di distress
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Chiarire cosa “si potranno aspettare”, sia in termini di condizioni di malattia che di
necessità assistenziali
Chiarire ruoli e compiti dell’équipe di cura
Aiuto nella fase dell’elaborazione del lutto: lutto anticipatorio
Priorità per l’intervento dello Psicologo Clinico
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Età del paziente inferiore a 65 anni
Situazioni familiari di particolare disagio
Richiesta di aiuto dal paziente o dai familiari
Richiesta di intervento da parte degli operatori
“Nessuno può preparare qualcun altro alla morte;
è possibile però preparare alla vita
e questa preparazione consiste proprio nell’abituarsi
a riempire il proprio tempo
con comportamenti umanamente validi”
Nobili R.
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