MATERNITÀ SURROGATA, DIGNITÀ DELLA PERSONA E FILIAZIONE Giur. merito 2010, 2, 358 Marco Dell'Utri SOMMARIO: 1. La maternità surrogata nella pronuncia della Corte d'Appello di Bari: la nozione dell'ordine pubblico internazionale e il criterio dell'interesse del minore. - 2. Maternità surrogata, locazione d'utero e donazione di ovociti. - 3. L'attuale divieto della surrogazione di maternità. L'esperienza straniera... - 4. ...e quella italiana prima della l. n. 40. - 5. Le considerazioni legate all'applicazione del diritto dei contratti: gli atti di disposizione del corpo e il contratto. - 6. Il limite della dignità umana: storia di un'idea e di una tecnica di tutela. - 7. La maternità surrogata nella prospettiva della dignità umana: l'ordine pubblico internazionale nella sentenza in esame. - 8. L'attribuzione della maternità. - 9. Filiazione e interesse del minore. I dilemmi della giustizia. 1. LA MATERNITÀ SURROGATA NELLA PRONUNCIA DELLA CORTE D'APPELLO DI BARI: LA NOZIONE DELL'ORDINE PUBBLICO INTERNAZIONALE E IL CRITERIO DELL'INTERESSE DEL MINORE Il caso condotto all'esame della Corte barese può essere così rapidamente riassunto. Una coppia di coniugi (di cui la moglie italiana e il marito inglese) si rivolge ad un'associazione di volontari disposti a collaborare ad un progetto di fecondazione artificiale, nella specie realizzato attraverso il ricorso alla tecnica della c.d. «maternità di sostituzione». In breve, una donna aderente all'associazione accetta, del tutto gratuitamente, di sottoporsi a fecondazione con il seme del componente maschio della coppia, impegnandosi a portare a termine la gravidanza ed a consegnare il frutto del parto alla coppia committente. L'esperienza della coppia viene ripetuta con successo per ben due volte, ed alla stessa vengono così consegnati, nel giro di pochi anni, i due bambini (un maschio ed una femmina) concepiti secondo le indicate modalità. In applicazione del diritto del Regno Unito (1) (per cui la pratica della maternità per sostituzione non è proibita, a condizione che l'impegno della donna estranea alla coppia venga attuato in pieno spirito di gratuità e con la certezza della sua incoercibilità), la Croydon Family Proceeding Court emette due provvedimenti (c.d. parental orders) in forza dei quali - sul presupposto del regolare compimento del procedimento di sostituzione di maternità così riassunto - la maternità legale, e la conseguente responsabilità genitoriale sui due bambini concepiti e partoriti dalla «madre sostituta», viene assegnata alla donna committente. A distanza di anni, fallita l'esperienza matrimoniale della coppia committente e ritornata in Italia la moglie, quest'ultima adisce la Corte d'appello di Bari al fine di ottenere il riconoscimento giudiziale, nell'ordinamento italiano, degli effetti dei c.d. parental orders inglesi, con il conseguente riconoscimento della propria qualità di madre «legale» dei due bambini. La Corte barese, ripercorsa l'esperienza storica e normativa della maternità surrogata nei diversi sistemi europei e nella legislazione e giurisprudenza nordamericane, decide di consentire al riconoscimento, nell'ordinamento italiano, degli effetti dei parental orders del giudice inglese, ritenendone sussistenti tutti i presupposti di forma e di sostanza, attribuendo così alla ricorrente (madre «sostituita») la qualità di madre a tutti gli effetti dei due bambini partoriti dalla madre surrogata. Del lungo ed efficace discorso della sentenza pugliese occorre evidenziare, tra i diversi passaggi, la lucida e consapevole lettura del principio del c.d. «ordine pubblico» - qui rivisto nella sua dimensione «internazionale», ossia come tradizionale baluardo di tutela dei valori supremi comuni ai sistemi giuridici di affine esperienza civile e culturale posti a fondamento dei diritti fondamentali della persona -, e la valorizzazione del criterio del best interest of the child, ossia dell'interesse del minore, quale criterio fondamentale di orientamento, idoneo ad avviare alla soluzione pratica di casi, come il presente, largamente dominati dalla loro dimensione umanamente tragica. La chiave del ragionamento seguito nella sentenza in commento sembra quindi insinuarsi nella programmata fedeltà al principio, già oggetto di raccomandazione ad opera della Suprema Corte (2), secondo cui il criterio normativo dell'ordine pubblico internazionale è qui chiamato a misurarsi, non già con la fattispecie astratta condotta all'attenzione del giudice (ossia con il frammento di esperienza di vita della coppia committente e della madre «sostituta»), bensì con gli «effetti concreti» determinati dall'atto di decisione di provenienza straniera, ossia con l'umile governo, sul piano degli effetti per il diritto, dei rapporti affettivi instaurati, e quindi consolidatisi nel tempo, tra tutti i protagonisti della vicenda, ed in primo luogo tra i due minori e colei da quelli sempre ritenuta la loro mamma (3). 2. MATERNITÀ SURROGATA, LOCAZIONE D'UTERO E DONAZIONE DI OVOCITI Converrà intanto chiarire come l'espressione che allude alla maternità di sostituzione (o maternità surrogata) chieda d'essere articolata secondo una varietà di ipotesi concrete, ciascuna suscettibile di sollevare questioni di crescenti gravità e complessità. In termini elementari, è possibile distinguere le diverse vicende, tra loro accomunate dalla circostanza della «surrogazione» della maternità, attorno al dato obiettivo della provenienza dei gameti che la madre sostituta accoglie e conduce alla naturale maturazione del parto. Assecondando una terminologia invalsa con più frequente riguardo alla fecondazione medicalmente assistita della donna, è così possibile distinguere l'ipotesi della surrogazione «omologa» - in cui la madre sostituta si limita ad accogliere un embrione formato dai gameti della stessa coppia committente (si parla in tal senso di «surrogazione per sola gestazione» o, in termini linguisticamente più mortificanti, di «locazione» o «affitto» di utero) - da quella «eterologa», in cui è la stessa madre surrogata a fornire l'ovocita destinato alla fecondazione con il seme del maschio della coppia committente (c.d. «surrogazione per concepimento e gestazione»). Nell'ambito della surrogazione «eterologa» della maternità (integrante in ogni caso un'ipotesi di donazione di ovociti), può altresì darsi che i gameti da cui deriva l'embrione impiantato nel grembo della madre sostituta siano forniti da terze persone, estranee, tanto alla coppia committente, quanto alla stessa madre surrogata (4). Le diverse ipotesi rassegnate inducono all'articolazione di altrettante nozioni di «maternità»: potendo riservarsi, alla donna cui risale l'ovocita fecondato, la qualità di madre «genetica»; a quella che ha condotto la gestazione, la nozione di madre «biologica»; ed infine alla donna ch'ebbe a determinare il procedimento procreativo, con l'originaria scelta della maternità, e ad esprimere la volontà di assumere, in proprio e integralmente, la responsabilità genitoriale sul figlio nato (la c.d. madre «committente»), la nozione di madre «sociale». Mentre nell'ipotesi della «surrogazione per sola gestione» (omologa) le figure della maternità genetica e quella della maternità sociale vengono a coincidere, nella «surrogazione per concepimento e gestazione» la figura della maternità sociale rimane a sé stante, accompagnandosi, ora ad un'unica maternità genetica e biologica (nel caso in cui l'ovocita fecondato risalisse alla stessa gestante), talora a due ulteriori e distinte figure di maternità, corrispondenti alla donna donatrice dell'ovocita (madre genetica) e alla diversa donna «portatrice» della gravidanza (madre biologica). Lasciando all'ulteriore sviluppo del discorso l'esame delle ricadute delle diverse ipotesi considerate sul piano degli effetti giuridici connessi al rapporto di filiazione, varrà ribadire come il caso condotto all'esame della Corte d'Appello di Bari contemplasse due ipotesi di «surrogazione per concepimento e gestazione», per cui la stessa madre surrogata ebbe a fornire (in tempi diversi) i due ovociti poi fecondati con il seme del marito della madre sostituita. 3. L'ATTUALE DIVIETO DELLA SURROGAZIONE DI MATERNITÀ. L'ESPERIENZA STRANIERA... Di un'ulteriore precisazione relativa alla vicenda in esame converrà fornire il lettore. All'epoca cui risalgono i fatti condotti al giudizio della Corte barese ancora non era stata approvata, in Italia, la l. n. 40 del 2004 contenente le prime disposizioni sul fenomeno della procreazione medicalmente assistita. Il rilievo assume un'incidenza determinante, con riguardo al discorso che si conduce, se si considera che all'art. 12 comma 6 della citata l. n. 40, si dispone con fermezza il divieto, penalmente sanzionato, di «realizzare, organizzare o pubblicizzare» la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità. Il divieto, nella misura in cui assume la natura di norma imperativa, vale a chiudere il dibattito - non privo di una sua vivacità, nella dottrina italiana, e di echi significativi nei (pochi) documenti della giurisprudenza pratica chiamata ad occuparsene - condotto sul tema della validità del contratto di maternità surrogata, delle sue eventuali condizioni e della stessa natura giuridica delle espressioni dell'autonomia negoziale dirette a realizzare il procedimento di surrogazione. Le più frequenti perplessità - in larga misura recepite dai contenuti del più maturo dibattito straniero, e in particolare di quello diffuso nell'ambiente anglo-americano, dove per la prima volta il tema era stato condotto all'attenzione di una Corte territoriale riguardavano (e per molti versi ancora implicano) la vicenda del coinvolgimento del corpo femminile e delle sue possibili strumentalizzazioni. Ma, unitamente a queste, anche le conseguenze, per molti versi paradossali, indotte dalla moltiplicazione delle figure di maternità (da quella genetica, a quella biologica, a quella sociale) tutte astrattamente idonee a rivendicare, con carattere di ragionevolezza, la costituzione di un rapporto esclusivo di filiazione con il nuovo nato. Certamente il più diffuso consenso investiva il ripudio del carattere oneroso della prestazione resa dalla madre surrogata, per l'istintivo e intuibile rifiuto di fare del corpo e delle sue funzioni l'oggetto di uno scambio economico, e non invece la fonte di una solidale collaborazione di genere (femminile) intesa a garantire, o a rendere possibile, la realizzazione di un desiderio di maternità o, comunque, di discendenza della coppia committente. Da questo punto di vista, la natura gratuita dell'atto avrebbe finito col rivelare l'intima nobiltà del gesto della donna, per cui la generosa donazione di sé valeva, come vale, a sostenere il compimento di una legittima e meritevole aspirazione coniugale o, più genericamente, esistenziale. Quanto alla costituzione del rapporto di filiazione, il dibattito che si veniva svolgendo (e che ancora capita di riascoltare) tra gli scrittori britannici e americani, sulla dovuta prevalenza della maternità sociale, restituisce, in termini di elementare chiarezza, il senso, fortemente avvertito e unanimemente condiviso, della centralità della responsabilità individuale nel rispetto degli impegni sollecitati ed assunti, segno - prima ancora della naturale vocazione pragmatista di quella cultura - della salda vitalità di quell'etica di matrice protestante così profondamente radicata nelle più intime convinzioni della civiltà anglo-americana (5). Una lettura uniformante delle inclinazioni della giurisprudenza e delle legislazioni statuali americane, tuttavia, non restituisce l'intera verità sulla vicenda della maternità surrogata in quel paese, potendo l'interprete europeo agevolmente ricostruire, proprio in termini geografici, una mappa estremamente variegata dei diversi Stati dell'Unione, dove, a posizioni di più larga apertura o tolleranza, rispetto al fenomeno (6), fanno riscontro legislazioni assai più prudenti, o financo pregiudizialmente ostili al riconoscimento della sostituzione di maternità, sia essa dedotta nel quadro di uno scambio commerciale, ovvero concepita secondo uno spirito di liberale gratuità (7). Una vicenda, peraltro, i cui contorni, ancora largamente irrisolti, trovano spazio financo nel racconto della cinematografia di costume, tra saggi dotati di una più sensibile consapevolezza e pellicole commerciali destinate ad un consumo d'evasione (8). Verosimilmente, il paese dove il fenomeno della surrogazione di maternità ha suscitato una minore avversione deve ritenersi il Regno Unito, in cui, secondo una lettura non priva di una semplicistica ingenuità, le ragioni della libertà della ricerca scientifica e tecnologica, della logica commerciale e della stessa autonomia della persona (sia pure intesa in termini assoluti, quando non esasperati) avrebbero finito col prevalere rispetto alle più astratte preoccupazioni di carattere etico-morale. Di fatto, l'approvazione sin dal 1990 dello Human Fertilisation and Embiology Act ha fornito una plausibile patente di legittimazione alla surrogazione di maternità, con il limite costituito dalla rigorosa gratuità dell'impegno della madre surrogata, accompagnato dalla mancanza di alcun profilo di coercizione della sua volontà. A seguito della spontanea consegna del neonato alla madre committente, il giudice britannico è autorizzato ad emanare (come, peraltro, accaduto nel caso oggetto dell'esame della Corte barese) un provvedimento (c.d. parental order) idoneo a costituire il rapporto giuridico di filiazione tra il figlio così concepito e la madre «sociale», cui segue l'attribuzione (unitamente al marito) di tutte le responsabilità genitoriali rispetto a quello. 4. ...E QUELLA ITALIANA PRIMA DELLA L. N. 40 Il divieto legislativo approvato nel 2004 ha allineato, da ultimo, la disciplina italiana alla sostanziale generalità degli altri paesi europei continentali (9), così idealmente completando quel disegno di tendenziale contrapposizione culturale tradotta, dall'immagine della più recente storiografia filosofica, nella dicotomia tra il pragmatismo degli «analitici» angloamericani e lo storicismo ermeneutico degli studiosi europei «continentali». Prima ancora dell'approvazione di quel divieto, l'assenza di riferimenti normativi certi aveva condotto la giurisprudenza italiana, quanto meno nelle poche occasioni assurte agli onori della cronaca, ad impostare il tema della maternità surrogata nella prospettiva della liceità del contratto, e quindi della meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti attraverso la conclusione dell'accordo. Il contrasto delle soluzioni che ne era derivato, prima ancora che alla nettezza delle affermazioni di principio (che pure non era mancata), trovava una sua verosimile giustificazione nella considerazione della sostanziale diversità delle vicende concrete e della particolarità delle situazioni condotte all'esame delle Corti. La più risalente pronuncia - cui si deve la prima configurazione giuridica dell'accordo di maternità surrogata nella prospettiva dell'atipicità contrattuale - aveva finito col negare la liceità dello scopo pratico, e quindi della causa, che le parti avevano inteso realizzare attraverso l'accordo, in primo luogo per la mortificazione della dignità del corpo umano e delle sue funzioni coinvolti nel quadro di uno scambio mercenario (10). Era valso, nel discorso del giudice monzese - al fine di giustificare, nei termini di una severa condanna, il rifiuto dell'accordo di surrogazione - il vigore dei principi costituzionali fermati sul valore intrinseco della persona (art. 2) e sul carattere meramente «sussidiario» del ricorso ad una famiglia «sostitutiva», individuata dalla Costituzione come soluzione «estrema», da limitare (in conformità al disposto dell'art. 30 Cost.) ai soli casi d'incapacità della famiglia d'origine (individuata in quella «di sangue»). Ma l'esame del Tribunale lombardo non aveva mancato di estendersi alla considerazione, sul piano della legislazione ordinaria, del principio sancito dagli artt. 232 e 269 c.c. (secondo cui è madre colei ch'ebbe a partorire il figlio di cui trattasi) e della conseguente indisponibilità privata («per mero consenso») degli status; del divieto imposto dall'art. 5 c.c. al compimento degli atti di disposizione del corpo quando, pur non implicando una «permanente diminuzione» dell'integrità fisica, comunque appa iano in contrasto con la legge, l'ordine pubblico o il buon costume; ed ancora ai divieti penali riferiti all'alterazione dello stato o alla falsità delle pubbliche attestazioni o infine alle disposizioni previste dal sistema positivo dell'adozione dei minori. La vicenda su cui il Tribunale di Monza era stato chiamato a intervenire riguardava il rifiuto, da parte della madre surrogata (una ragazza algerina immigrata), di consegnare il bimbo da lei partorito alla coppia committente, a seguito dell'avvenuta fecondazione con il seme del marito della coppia, in violazione del pregresso accordo di surrogazione «eterologa». Il successivo difetto di uno spontaneo consenso della madre surrogata alla consegna del figlio partorito, e la circostanza costituita dal carattere oneroso del patto (un requisito poi esasperato dalla donna, che s'era indotta a reiterare le richieste di denaro oltre quelle originariamente convenute), erano valsi a contrassegnare l'intera vicenda nei termini di un'obiettiva inaccettabilità. Del tutto opposta, viceversa, era apparsa, una decina d'anni più tardi, la storia consegnata alla decisione del Tribunale di Roma (11). Il caso - avviato nelle forme di un procedimento d'urgenza (poi sfociato in un provvedimento di accoglimento) - riguardava la richiesta di una coppia di coniugi di accertare la perdurante esigibilità della prestazione del medico, cui i due s'erano in passato rivolti al fine di avviare un percorso di sostituzione di maternità, mediante il congelamento dell'embrione fecondato in vitro dall'unione dei gameti della stessa coppia e la successiva sua collocazione nel grembo di una donna disponibile (secondo la tecnica c.d. «Fivet»). La circostanza dell'intercorsa approvazione, da parte dell'ordine professionale in sede deontologica, del divieto di praticare la surrogazione della maternità, aveva successivamente indotto il medico a rifiutare, in assenza di un'espressa attestazione giudiziaria di segno contrario, l'esecuzione della prestazione di impianto dell'embrione congelato nell'utero della madre surrogata, sì da costringere i due coniugi a sollecitare l'intervento «autorizzativo» del giudice. A differenza del caso monzese, qui, tanto il medico (salva l'espressa riserva d'indole deontologica), quanto la madre surrogata, avevano apertamente manifestato il proprio perdurante consenso e la piena adesione al progetto generativo della coppia committente; e lo stesso accordo concluso tra le parti originarie aveva escluso qualsivoglia forma di corrispettività economica, sì da esaltare gli aspetti di pura solidarietà del gesto gratuito della madre surrogata (peraltro limitato alla sola fase della gestazione), dominato dall'unico fine di assecondare il legittimo desiderio di genitorialità della coppia committente impossibilitata a procreare naturalmente per ragioni di salute. Proprio la considerazione del bene della procreazione - quale oggetto di un vero e proprio «diritto soggettivo» della persona -, sembra assumere, nel discorso del giudice romano, una posizione di determinante rilievo, nella valutazione del fenomeno della maternità di sostituzione. Là dove permane intatto il rispetto della spontanea adesione di tutti i protagonisti del disegno procreativo, in assenza di qualsivoglia profilo di speculazione commercia le, appare difficile negare - secondo il provvedimento del Tribunale di Roma - il rilievo rivoluzionario che le nuove tecnologie della riproduzione hanno inevitabilmente determinato «nella dimensione antropologica e culturale della genitorialità». L'acquisita autonomia dei percorsi della procreazione, rispetto all'esperienza della sessualità, ha finito così col fornire, alla dimensione esplicativa della personalità intesa alla generazione, spazi di praticabilità e opportunità concrete che impongono una radicale rivisitazione del principio (sancito nel codice dei rapporti privati) fermo all'antica funzione «rivelatrice» del parto, ed una profonda rimeditazione dello stesso significato da ascrivere al concetto di maternità. Le funzioni da sempre svolte da un'unica donna appaiono adesso assolvibili mediante la cooperazione di soggetti diversi (la madre sociale, quella genetica, quella biologica), rendendo così manifesta l'inadeguatezza delle norme fondate sulle antiche certezze della derivazione materna. Rispetto all'incidenza del parto, in tal senso, assai più «insostituibile» parrebbe piuttosto il ruolo della madre genetica, là dove il contributo della gestante può limitarsi all'esecuzione di una «funzione accessoria», come tale «intercambiabile, potendo [...] essere sostituita in un futuro che non pare lontano da dispositivi tecnologici». Al di là della condivisibilità di tali ultimi rilievi - che appaiono largamente penalizzanti, almeno rispetto al dato obiettivo del rapporto bio-psicologico che si instaura tra la madre gestante e il feto nel corso della sua vita intra-uterina -, la posizione in termini problematici del tema della maternità (o, più in generale, della procreazione) sul piano antropologico-culturale appare non priva di una sua serietà, specie là dove l'accento venga posto sull'affermazione, storicamente progressiva, della nozione della «maternità» (o della «genitorialità») in chiave di «responsabilità». Conviene insistere su tale aspetto: benché fondatamente discutibile l'idea di un assoluto «diritto di procreare» (del «diritto ad essere o diventare genitori») (12) - specie là dove detta prerogativa voglia derivarsi da una supposta dimensione di «esplicazione» o di «compimento» della personalità individuale che non abbia riguardo ai limiti imposti dalla dignità altrui -, non può tacersi il dato storico della progressiva ristrutturazione del «senso» del rapporto di filiazione - o se si vuole dell'appartenenza familiare - come rapporto che si «costruisce» attorno al valore della consapevole dedizione di sé, della comune solidarietà, della scelta di vita «cosciente e responsabile», per usare di un'espressione del legislatore italiano paradossalmente legata alla tragica esperienza dell'aborto. Il discorso, che per larghi tratti incontra e attraversa la vicenda dell'adozione dei minori progressivamente costruita dal legislatore italiano, nel corso di un'esperienza poco più che quarantennale, attorno al fenomeno dell'abbandono materiale e morale dei più piccoli -, va guadagnando spazio sul terreno della ricomposizione familiare successiva alle frequenti crisi matrimoniali e a quelle affettive, e raggiunge il piano dei rapporti di solidarietà che ambiscono a ricostruirsi tra adulti e minori nel segno della rinnovazione dei progetti di vita comune, e pertanto nelle comunità in cui prerogative e responsabilità propriamente genitoriali appaiono esercitate da chi «genitore» non è, se al termine ancora voglia conservarsi quella connotazione «biologica» tradizionale che proprio il vertiginoso sviluppo delle tecnologie della riproduzione inducono a mettere in crisi (13). Con innegabile coerenza, l'ordinanza del Tribunale di Roma affronta e risolve il tema dell'indisponibilità degli status ricorrendo all'idea secondo cui l'attribuzione delle potestà genitoriali (e quindi l'appartenenza del nuovo nato a una ben determinata comunità familiare) «è da ricollegare al fatto-procreazione, là dove il fatto cui ci si riferisce non deve intendersi riduttivamente come fatto materialisticamente considerato, dovendo essere ravvisato in un fatto umano, in un comportamento cioè rivolto alla procreazione, secondo la normale valutazione sociale. Ora, tale significato dell'agire dell'uomo non pare assolutamente rintracciabile nel comportamento di mera locazione dell'utero, quando sia da ritenersi estranea una qualsivoglia volontà di assunzione del ruolo genitoriale». In tal senso, il superamento dello stato familiare originario (biologico) apparirà corretto qualora «a seguito dell'accertamento e del controllo giudiziale, si riveli come non più auspicabile il mantenimento di una qualificazione giuridica a mero schema formale, quando cioè la famiglia biologica non rappresenti più un luogo privilegiato di sviluppo della personalità del minore, non più suscettibile di apprezzamento». Allo stesso modo, l'atto di disposizione del corpo della madre surrogata appare del tutto estraneo all'ambito di operatività dell'art. 5 c.c., là dove di quell'atto vengano correttamente evidenziati gli aspetti di collegamento con i principi costituzionali della tutela dei diritti fondamentali dell'individuo (art. 2), dello sviluppo della sua personalità (art. 3) e della tutela della salute quale diritto fondamentale (art. 32). Nel quadro di una simile ridefinizione, al potere di disposizione del corpo viene quindi sottratta ogni possibile «espressività» secondo una logica d'indole proprietaria, per evidenziarne l'intima e diretta connessione con l'ambito di esplicazione e di sviluppo degli aspetti della persona. 5. LE CONSIDERAZIONI LEGATE ALL'APPLICAZIONE DEL DIRITTO DEI CONTRATTI: GLI ATTI DI DISPOSIZIONE DEL CORPO E IL CONTRATTO Si è detto come il divieto introdotto dalla l. n. 40 sia valso a chiudere il dibattito condotto sul tema della validità del contratto di maternità surrogata, così come delle sue eventuali condizioni e della stessa natura giuridica delle espressioni dell'autonomia negoziale dirette a realizzare il procedimento di surrogazione (14). Nei discorsi degli scrittori precedenti l'approvazione della novella, le posizioni di rifiuto dell'accordo di maternità surrogata (a rigore qualificabile, nella prospettiva del contratto, unicamente in presenza di un corrispettivo per la prestazione della madre surrogata, là dove, in caso contrario, riconducibile alla dimensione generica dell'atto di autonomia negoziale) traevano le loro più condivisibili giustificazioni in relazione alla contrarietà dell'atto di autonomia ai canoni del «buon costume», ossia con riferimento a parametri normativi o regole da costruire in termini più larghi e comprensivi di quelli propri di un ordinamento giuridico positivo (15). In breve, il ripudio della strumentalizzazione del corpo femminile; il rifiuto di concepire rapporti di scambio economico attorno alla disponibilità di funzioni così intime ed essenziali, come quelle della riproduzione e della gestazione; le resistenze opposte alla circolazione (sia pure in chiave gratuita e solidale) di ovociti destinati all'annidamento in corpi differenti da quelli di origine, costituivano tutti (come costituiscono tuttora, secondo letture da apprezzare con considerazione e rispetto) atteggiamenti sostenuti da motivazioni d'indole morale, misurati su qualità o contrassegni «universali» della persona (in sé considerata), fuori da ogni possibile collocazione geo-politica o giuridico-positiva. In tal senso - piuttosto che impostare il tema della surrogazione nei termini costrittivi o «asfittici» del dualismo tra le figure del contratto o del negozio -, valeva accogliere il suggerimento di affrontare le questioni imposte dalle vicende della maternità surrogata nella prospettiva delle prestazioni contrarie al buon costume (o «immorali»), per avviarle a soluzione sulla base della disciplina dettata dall'art. 2035 c.c., ai sensi della quale colui «che ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato» (16). L'indicazione - apertamente favorevole a conservare al giudice spazi opportuni di discrezionalità, nella comparazione di interessi confliggenti - finiva coll'approdare ai temi e agli orizzonti propri della dottrina dell'abuso del diritto e alla duttilità delle soluzioni che da essa sarebbe stato ragionevole attendersi. Intanto, la regola dell'art. 2035 c.c. già valeva a segnalare, secondo una condivisa lettura, l'opportunità di distinguere, nel contesto di rapporti e situazioni normalmente riprovate secondo la coscienza comune, il piano di ciò che attiene alla qualificazione «teorica» (giuridica e morale) degli impegni assunti (di regola, contrassegnata da motivi di censura e di condanna), da quello che ha riguardo alla dimensione «concreta» del «fatto compiuto». In tal senso, più che sul contratto, il controllo dell'interprete cade sulla valutazione dell'atto in cui consiste la solutio, rispetto al quale occorre considerare, sul piano di un «misurato» o «sobrio» controllo di giuridicità, il valore che pure verrebbero ad assumere i motivi o le forme concrete attraverso cui i rapporti «immorali» ebbero a prendere vita, a svolgersi e a compiersi, al fine di svelare, attraverso il sindacato sull'eventuale intollerabilità dei modi concreti di esercizio della soluti retentio, la dimensione abusiva della stessa pretesa di conservazione della prestazione ricevuta (17). Conviene evidenziare come il discorso che attiene al governo del «fatto compiuto» ancora vale a sollecitare l'attenzione e la riflessione dell'interprete attuale, anche dopo l'approvazione formale del divieto della maternità surrogata, se si pensa alle ipotesi del recepimento, all'interno del nostro sistema, di vicende procreative «surrogatorie» programmate ed attuate all'estero (come accaduto nel caso oggetto della pronuncia in commento), o anche solo di elementari violazioni del divieto legislativo: evenienze, tutte, che pure impongono di assumere una posizione coerente, o anche solo prevedibile, quanto meno nella prospettiva dei rapporti di filiazione che aspirano a costituirsi e dell'identificazione dello status familiare del nuovo nato (18). Il tema del contratto che trae i motivi della sua «immoralità» in ragione del coinvolgimento del corpo, torna intanto a interrogare gli studiosi sulla compatibilità giuridica, ma anche sul significato etico-morale, del rapporto tra lo strumento del contratto e l'uso individuale del corpo, e quindi dei limiti che l'autonomia negoziale incontra - o è opportuno che soffra - al cospetto delle sfere più elementari dell'intimità personale, nel quadro più largo della tutela della dignità umana (19). L'aspetto di più scottante rilievo, con riguardo al coinvolgimento del corpo nell'assunzione di impegni d'indole contrattuale, risiede appunto in ciò, che il vincolo rigoroso che ne deriva finisce col rifluire sul valore di aspetti o momenti della libertà personale ai quali la nostra cultura, o i percorsi storici della civiltà cui apparteniamo, ha finito col riconoscere un crisma di inviolabilità cui ripugna ogni possibile profilo di dipendenza o di soggezione. Il discorso - che verosimilmente affonda le proprie radici nell'antica discriminazione tra gli uomini liberi e quelli avviati a una destinale condizione di servitù - già appartiene al patrimonio storico e culturale degli studiosi del contratto e del rapporto di lavoro, in relazione ai quali, per prime, le preoccupazioni per la tutela e la salvaguardia delle più elementari condizioni di riguardo per la dignità della persona hanno finito col condizionare la disciplina e la configurazione giuridica della relazione. Fuori dall'ambito del contratto e del rapporto di lavoro, le vie attraverso le quali la nostra più recente cultura giuridica ha avviato una più matura riflessione sul valore della persona e, materialmente, del corpo umano, nel suo coinvolgimento nel contesto di relazioni giuridicamente impegnative, si sono rivelate solo a seguito dell'abbandono delle prime logiche di tipo patrimonialistico o proprietario, nel riconoscimento del potere di disposizione del corpo o delle sue parti, o all'indomani delle esperienze tragiche delle guerre mondiali e dei regimi ch'ebbero a provocarle, per cui il senso e il valore stesso del singolo hanno finito col rimanere travolti dalla totalizzante invadenza dell'organizzazione della comunità generale secondo le rigide strutture dello stato (20). Costituiscono un indice delle esperienze così rapidamente ricordate, i testi normativi che con più frequenza ricorrono nei discorsi degli studiosi dei diritti della persona. Si pensi - per dire della resistenza di una certa lettura «patrimonialistica» del corpo e, insieme, della sua «funzionalizzazione» all'interesse generale - al testo dell'art. 5 del codice civile approvato negli anni della guerra, per cui il limite del potere del singolo nell'esercizio degli atti di disposizione del corpo è misurato sulla preservazione della sua materiale integrità (implicitamente intesa nella sua dimensione di interesse della collettività), e in ogni caso nel rispetto dei criteri generali della liceità (le norme imperative, l'ordine pubblico e il buon costume) espressamente destinati, secondo il disegno dell'intero sistema del diritto dei contratti, alla salvaguardia delle ragioni dell'ordinamento nel suo complesso (21). E si pensi ancora alle collocazioni temporali - tutte successive al 1945 - delle carte costituzionali (quella tedesca e quella italiana in primo luogo) e dei documenti di diritto internazionale (dalla dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, alla convenzione europea del 1953, ai più recenti testi della Convenzione di Oviedo e della Carta di Nizza) costruiti, tutti, sul carattere «sacro» e «inviolabile» della persona e dei contrassegni della sua dignità, alla quale in primo luogo ripugna il fatto stesso della «commercializzazione» o della destinazione a profitto dell'uso del corpo o della cessione delle sue parti. L'idea che occorre ricavare dai documenti normativi così sommariamente ricordati - per la costruzione di un possibile «statuto» del corpo, nella prospettiva della sua «disponibilità» giuridica - può riassumersi nella riaffermazione del principio della «libertà» e dell'«autodeterminazione», come valori da perseguire e realizzare, ma insieme anche come rigorosa misura o limite cui devono ritenersi comunque condizionati gli impegni e i vincoli d'indole negoziale potenzialmente assumibili dal singolo. In breve, muovendo dal riconoscimento del corpo e della sua libera e autonoma disponibilità (anche) come strumento di compimento della persona nei diversi ambiti in cui la stessa è chiamata a realizzarsi (familiare, lavorativo confessionale, sportivo, scientifico, culturale, ecc.), il sistema è disposto ad assumere la tutela degli interessi del singolo fino al punto in cui allo stesso sia garantita, da un lato, la piena libertà di revocare o di sospendere il proprio impegno, ma, dall'altro, anche la certezza che i vincoli assunti non si traducano in sacrifici della libertà che, seppur volontariamente e spontaneamente accettati, finiscono col «tradire» il nesso, intimo e costitutivo, tra quella stessa libertà e il senso ultimo della dignità della persona. Da questo punto di vista, il discorso affidato al giurista è consistito (e ancora con siste), più ancora che nel riconoscimento di un'improbabile natura «reale» dei «contratti del corpo» (secondo una diffusa ed autorevole ricostruzione), nell'esame delle condizioni cui è subordinato l'esercizio delle facoltà di recesso del singolo dall'impegno volontariamente assunto; ed ancora nel giudizio di compatibilità delle prestazioni promesse con il descritto indice di garanzia della dignità della persona, anche in relazione all'eventuale «causa», onerosa o gratuita, del negozio concluso, sì da escludere in radice la compromettibilità dell'«umano» nel quadro di qualsivoglia logica o considerazione d'indole mercantile. Entro il perimetro di simili argomentazioni trovano giustificazione le condizioni che, con riguardo al contratto di maternità surrogata, inducono gli ordinamenti più liberali a riconoscere la liceità di tale accordo: nel consentire che l'impegno della donna estranea alla coppia venga attuato in pieno spirito di gratuità e con l'assoluta certezza della sua incoercibilità. 6. IL LIMITE DELLA DIGNITÀ UMANA: STORIA DI UN'IDEA E DI UNA TECNICA DI TUTELA Si è visto come il divieto della surrogazione di maternità introdotto dall'art. 12 l. n. 40 del 2004 si sia inserito nel quadro di un dibattito tra gli scrittori, e tra le stesse posizioni della giurisprudenza pratica, in una fase ancora largamente controversa, segnatamente in relazione alla compatibilità, ovvero al deciso contrasto, della maternità di sostituzione con il valore e il senso della dignità della persona (22). Al di là del comune convincimento circa il carattere odioso o irrispettoso della commercializzazione della funzione procreativa (sì da ritenere pressoché generalizzato il rifiuto della surrogazione della maternità dietro prestazione di un corrispettivo), rimane in larga misura ancora aperto il quesito circa l'immoralità - per l'implicito contrasto con il principio della tutela della dignità umana - della surrogazione prestata in coerenza con uno spirito di solidale collaborazione di genere, intesa a garantire, o a rendere possibile, la realizzazione di un desiderio di maternità o, comunque, di discendenza della coppia committente. Da questo punto di vista, la gratuità dell'atto rivelerebbe, per i suoi fautori, l'intima nobiltà del gesto della donna estranea alla coppia, per cui la generosa donazione di sé varrebbe a sostenere il compimento di una legittima e meritevole aspirazione coniugale o, più genericamente, esistenziale dei genitori committenti. La vicenda cui ha messo capo il provvedimento giudiziale qui esaminato, del resto, fornisce una chiara attestazione di tale ordine di idee, se si pensa alla creazione - non isolata nel contesto della società civile anglo-americana - di strutture associative (nella specie, dell'organizzazione di volontariato denominata COTS) ispirate alla finalità altruistica di aiutare le coppie senza figli a superare le proprie difficoltà, o gli impedimenti sofferti, attraverso il ricorso alla pratica della surrogazione. La prospettiva aperta dal principio della dignità della persona - inteso come valore inderogabile d'indole etico-morale e solo in seguito come strumento positivo di quali ficazione e di tutela giuridica - rischia in tal senso di rivelarsi insufficiente o ambigua, se di quello stesso principio non si chiariscono le condizioni storiche e culturali che ne giustificano il richiamo e la concreta utilizzazione. Legato ai testi delle carte costituzionali approvate attorno alla metà del XX secolo - e alle consuetudini di linguaggio dei documenti pattizi del diritto internazionale dedicati (nei successivi decenni) al tema della tutela dei diritti umani (23) -, l'impiego «giuridico» del valore o del principio della dignità della persona esibisce, in realtà, radici o ascendenze culturali assai più antiche e variamente articolate. Prima ancora di diventare nozione valida o utile per la fondazione di una tutela giuridica della persona e delle sue fondamentali prerogative, l'accezione comune della dignità umana appare infatti legata, nei testi della classicità latina, tanto alla posizione singolare, o «speciale», che all'uomo compete nel quadro astratto di una dimensione universale o «cosmica», quanto alla posizione da lui ricoperta nella concretezza della vita pubblica di relazione. Benché l'idea della dignità appare naturalmente connessa alla circostanza che l'uomo si differenzia dal resto della natura per la sua indole di animal rationale, nondimeno a quella stessa idea appartiene anche il principio di distinzione tra gli uomini per il ruolo attivo che ciascuno è chiamato a svolgere nella vita civile, in forza del quale ognuno consegue, o riceve, i riconoscimenti di valore o di significato che a lui specificamente competono. Nel discorso moralista di Cicerone, le due «letture» della dignità vengono specificandosi nel disprezzo dell'indegnità dell'uomo avvezzo al piacere incontrollato dei sensi (per la mortificazione così inferta alla sua costitutiva e universale naturale razionale), ma anche nel riconoscimento della diretta derivazione della dignità personale dalle azioni compiute per il bene comune (24). Non è difficile scorgere, nei significati attorno ai quali si polarizza il discorso sulla dignità umana, l'indole universalistica dell'una accezione (segno d'una qualità o d'una dote innata dell'uomo, in ragione della sua collocazione al culmine della scala gerarchica della natura), sulla quale il pensiero cristiano (dalla prima speculazione dei Padri alla successiva sistemazione tomista) verrà costruendo la dignità «creaturale» dell'uomo in ragione della sua qualità di imago Dei. Ma neppure sfugge la sostanza «relativa» e «precaria» dell'altra nozione, che le successive teorizzazioni del pensiero politico finiranno col trasferire, dal soggetto titolare della carica onorifica (dal «dignitario»), al titolo o all'ufficio pubblico nella sua dimensione puramente oggettiva. Al successivo processo di secolarizzazione della società borghese appartiene quindi la costruzione in chiave «razionalista» della lettura giusnaturalistica della dignità della persona - per cui è la connaturale «libertà morale» dell'uomo a costituire il contrassegno universale della sua dignità, sì che con essa finirebbe col contraddire ogni pensabile riduzione della «persona» a «cosa»; ma anche l'identificazione della dimensione sociale della dignità nell'appartenenza del singolo ad un determinato ceto, classe o categoria o, infine, nello svolgimento (e già s'avvertono gli echi del pensiero e delle ideologie della contemporaneità) di qualsiasi attività o funzione con cui l'uomo contribuisce al progresso materiale o spirituale della società. Nel momento in cui, alla fine della seconda guerra mondiale, il tema della dignità fa il suo ingresso nel circuito del linguaggio giuridico (ed in tal senso deve attribuirsi un indiscutibile primato all'esperienza dell'allora Germania occidentale), il ricordo delle atrocità della vicenda bellica e, più ancora, dell'esperienza della follia antisemita (con l'impressionante corredo delle umiliazioni che ne contrassegnarono la brutalità del tratto), finì col suggerire il recupero, tra le differenti letture della tradizione, dell'accezione «universalistica» (o se si vuole giusnaturalistica) della dignità umana come criterio di difesa giuridica del singolo contro le aggressioni del prossimo o della società nel suo insieme. Pareva urgente allora - e il linguaggio delle contemporanee «carte» delle Nazioni Unite o dei paesi dell'Europa occidentale ne restituisce un puntuale riscontro - assolvere al compito di ristabilire il senso politico e culturale di un riscatto, o di una possibile redenzione, dalle crudeltà e dalle barbarie del recente passato, anche attraverso la ricostruzione del valore e del significato in sé dell'uomo e della parola che lo invoca, secondo il timbro disperato e sgomento delle pagine di Primo Levi. In verità, se la riscoperta del diritto naturale appariva uno dei tratti più ricorrenti o insistiti nel dibattito della dottrina tedesca degli anni cinquanta (25), il testo della Costituzione italiana del 1948 autorizzava una lettura della nozione della dignità della persona che verosimilmente risentiva, accanto al determinante contributo delle formazioni politiche di ispirazione cattolica, della partecipazione, al confronto e alla redazione della Carta, delle forze di educazione marxista, inclini a incoraggiare una proposta del senso della dignità umana direttamente legato all'impegno collettivo di emancipazione della persona dalle condizioni materiali - economiche, politiche o sociali capaci di degradarne il valore (26). In questo quadro - per cui la promozione della dignità «sociale» della persona appare, insieme, compito pubblico e materia di conquista del singolo -, trova spiegazione l'impiego misurato e infrequente della nozione della dignità nel testo della Costituzione italiana del 1948, calibrato in modo pressoché esclusivo sull'incidenza dei fattori economici da cui quella lettura della dignità umana dipende o appare immediatamente condizionata. Si pensi alla previsione dell'art. 36 Cost. e alla necessità che il livello della retribuzione del lavoratore raggiunga limiti adeguati ad assicurare a questi e alla sua famiglia «un'esistenza libera e dignitosa», e si pensi altresì al disposto dell'art. 41 Cost. che nel riconoscere la libertà dell'iniziativa economica privata individua, proprio nell'esercizio di questa, una possibile fonte di pericolo, oltre che per la sicurezza e la libertà, per la stessa «dignità umana» compromessa dalle concrete condizioni materiali di lavoro. È proprio nel «lavoro», del resto (art. 1) - in tutte le sue forme, manifestazioni e applicazioni - che la Carta italiana riconosce il fondamento da cui muovono le istituzioni repubblicane (a differenza della Legge fondamentale tedesca, che proprio nell'intangibilità della dignità umana ripone il fulcro della sua organizzazione costituzionale): quel lavoro che è, insieme, diritto che il cittadino rivendica nei confronti delle politiche dello Stato, ma anche dovere di svolgimento di un'attività o di una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società (art. 4), quale unico titolo di dignità nel contesto di una società politica che su quel valore del lavoro dichiara di fondarsi. Il richiamo alla dimensione «sociale» della dignità umana - che compare e conquista un rilievo di primo piano tra i valori della Costituzione italiana - è venuto quindi assumendo, nella successiva riflessione degli studiosi, il significato di un obiettivo per cui la dignità è qualcosa da costruire socialmente; «il risultato di «prestazioni di rappresentazioni» con le quali l'individuo si guadagna nella società la propria dignità» (27). Viene così componendosi - accanto alla tradizionale accezione della dignità umana in chiave universalistica (sia essa di stampo cattolico o razionalistico) - una nozione della dignità della persona che si lascia apprezzare in una dimensione dinamica, consistente in quel processo di «individualizzazione dell'autorappresentazione mediante il quale l'uomo in comunicazione con altri uomini acquista consapevolezza di sé, diventa persona ed in tale modo si costituisce nella sua umanità» (28). L'idea della «società decente» viene così concretizzandosi quando le istituzioni che la costituiscono non offendono il rispetto che ciascun individuo dovrebbe avere di sé essendo anzi, la dignità, null'altro che «la rappresentazione del rispetto di sé» (29) -, per cui l'oggetto della dignità non è la persona astratta (in quanto soggetto giuridico titolare di diritti e doveri al pari di qualsiasi altra persona), ma l'uomo in quanto individuo concreto che si autorappresenta come partner dell'interazione. Da questo punto di vista, l'uomo è destinato a subire la lesione della propria dignità tutte le volte in cui un comportamento altrui giunge a ferirlo nel rispetto di sé, nella misura in cui attraverso quel comportamento sia stato violato l'ambito del tutto privato dell'autorappresentazione; un ambito in cui l'uomo conserva un assoluto dominio, da cui discende il diritto ad essere rispettato, in positivo, per ciò che egli rappresenta nella società, ma anche, in negativo, per ciò che di sé non intende rivelare agli altri, come il nucleo più profondo di intimità su cui desidera sia mantenuto un assoluto riserbo. 7. LA MATERNITÀ SURROGATA NELLA PROSPETTIVA DELLA DIGNITÀ UMANA: L'ORDINE PUBBLICO INTERNAZIONALE NELLA SENTENZA IN ESAME Se un senso è possibile attribuire al lungo discorso sin qui condotto, con riguardo al principio della dignità umana, converrà insistere sul dato della relatività culturale di quella nozione. Ridurre il tema della dignità della persona all'accettazione - o financo alla passiva recezione - di una pluralità di forme sottoculturali, o anche solo individuali, di autorappresentazione, può contribuire ad un'indiscriminata esposizione o alla compromissione del senso condiviso e solidale dei valori supremi attorno a cui tende a costituirsi la comunità politica. E tuttavia, il rifugio in un'accezione universalistica «forte» e non meramente «formale» della dignità - quale si esprime, a mero titolo di esempio, in quella propria della tradizione cattolica dell'uomo quale immagine creaturale di Dio, più ancora che nell'idea kantiana dell'uomo razionale, capace di avvertire la doverosità categorica degli imperativi morali - induce a dubitare della compatibilità, dell'imposizione di una determinata accezione o immagine della dignità, con l'incommensurabile valore della persona e con l'imprevedibilità dei percorsi della sua realizzazione (30). Il giurista conosce la dimensione tragica, e talora irresolubile, dei discorsi sulla dignità, nell'esame di casi o situazioni particolari dell'esperienza concreta, spesso ben più eloquenti o suggestivi di molte paludate proclamazioni di principio. Si ricordano, al riguardo, i casi o le vicende del c.d. «lancio del nano», della vendita degli organi, del peep show, della stessa cinematografia pornografica (31). Ma, in termini assai meno singolari, la stessa proibizione dell'uso del chador nelle istituzioni scolastiche statali (più spesso motivata con riguardo alla compromissione della dignità della donna che ne deriverebbe, per l'aspetto discriminatorio che vi si intuisce) può essere ricevuta o subita come un'imposizione lesiva dell'autorappresentazione, e quindi della dignità, della donna islamica che a quel contrassegno identitario non intende rinunciare (32). L'accoglimento dell'invito all'esercizio di una prudente e saggia capacità di integrazione dialettica tra le due nozioni della dignità così schematicamente ricostruite (o, sarebbe meglio dire, tra le due complesse aree semantiche in cui è dato di cogliere, insieme, l'«assoluto», di cui l'uomo è traccia, con il contingente, in cui sempre di nuovo si esprime la sua condizione), sembra costituire la cifra del discorso condotto, nel provvedimento della Corte di Bari che si offre in rassegna, nella lettura della maternità surrogata attraverso il prisma del principio giuridico dell'ordine pubblico internazionale. Il limite che a quel principio risale - nell'approvazione o meno del riconoscimento, all'interno del nostro sistema, dell'efficacia di atti o provvedimenti compiuti o formati nel contesto di altri ordinamenti - risiede appunto in ciò, che in nessun caso la disciplina di situazioni o rapporti può aver luogo, o trovare esecuzione nell'ordinamento italiano, in coerenza con fatti lesivi dei valori supremi comuni ai sistemi giuridici di affine esperienza civile e culturale, che sono posti alla base dei diritti fondamentali della persona. Il ragionamento seguito dalla Corte pugliese suggerisce come l'introduzione del divieto della surrogazione di maternità, di recente inserito nell'ordinamento italiano, non sia valso a difendere - al di là di una legittima scelta d'indole politica - alcun principio o valore in qualche misura riconducibile all'area dei diritti fondamentali della persona, e quindi al tema della dignità umana che di quelli costituisce il coerente rispecchiamento. Quanto meno là dove il procedimento della surrogazione sia stato condotto e compiuto nel rispetto della libertà della madre surrogata (alla quale non può pregiudizialmente essere imposta, né una gravidanza già promessa ma non più desiderata, né la sua rifiutata prosecuzione, né la coattiva rinuncia a qualunque diritto su un figlio pure condotto alla vita) - e là dove sia mancato ogni possibile profilo di commercializzazione dell'operazione -, il ripudio della maternità surrogata non può dirsi, né universalmente riconosciuto, né tanto meno riconducibile alla salvaguardia di una qualche nozione della dignità umana comunemente partecipata tra i paesi o le comunità civili con le quali l'Italia più da vicino condivide la sua lunga esperienza storica e culturale. Un accordo di maternità surrogata - che, se concluso in Italia, certamente incorrerebbe nel divieto positivo di cui all'art. 12 l. n. 40, e quindi nella sanzione civile della nullità - là dove ugualmente eseguito (in violazione della proibizione interna, oppure all'estero, con l'aspirazione ad essere riconosciuto in Italia nella sua dimensione effettuale, come nel caso di specie), non dispenserebbe il giudice dal dovere di apprezzarne i profili pratici e quindi di desumerne tutte le conseguenze sul piano della disciplina dei rapporti, ed in primo luogo delle relazioni di filiazione che, dall'esecuzione di quell'accordo, comunque fossero derivate. 8. L'ATTRIBUZIONE DELLA MATERNITÀ Fuori dall'esame della dimensione etico-morale della maternità di sostituzione, il discorso del giurista si riduce al controllo delle circostanze che condizionano la decisione circa l'attribuzione della maternità e la determinazione dello statuto familiare del figlio così generato. Varrà incidentalmente considerare come l'approdo al tema dell'attribuzione della maternità largamente prescinda dalla qualificazione, in termini di immoralità, del procedimento di surrogazione o delle scelte concrete ch'ebbero a condurre alla vita del nuovo nato. L'eventuale contrasto con i principi dell'ordine pubblico dell'accordo di surrogazione concluso e attuato all'estero (là dove, ad esempio, la prestazione della madre surrogata fosse stata dedotta in corrispettivo di somme di denaro), se pure varrebbe ad escludere il recepimento, all'interno del nostro sistema, del negozio o del provvedimento stranieri, ugualmente non varrebbe a sottrarre il giudice italiano, là dove concretamente richiesto, al dovere di esprimere un giudizio sull'attribuzione della maternità, e quindi sulla fissazione di un principio di governo della filiazione di fatto avvenuta in circostanze immorali. La stessa violazione del divieto dell'art. 12 consumata all'interno del nostro ordinamento, del resto, porrebbe il grave problema della qualificazione della filiazione che fosse concretamente derivata dall'accordo di surrogazione, di là dall'eventuale giudizio sulla moralità del negozio concluso, in ragione delle modalità o dell'atteggiamento delle particolari condizioni nella specie osservate. Si è detto come taluno degli scrittori ch'ebbero ad occupasi della surrogazione della maternità in epoca anteriore alla l. n. 40 (ed all'approvazione del divieto che vi è contenuto) apprezzasse in termini largamente positivi il ricorso alla disciplina dettata dal codice civile con riguardo alle prestazioni contrarie al buon costume - e quindi all'applicazione del rimedio della soluti retentio di cui all'art. 2035 c.c. (condictio ob turpem causam) al fine di negare l'automatismo delle restituzioni delle prestazioni rese in esecuzione di quell'accordo. A questo riguardo, la formalizzazione di un espresso divieto normativo della surrogazione della maternità induce a ripercorrere le vie già battute da un'antica disputa sull'ammissibilità, ovvero la preclusione, della valutazione circa l'immoralità delle prestazioni dedotte nel quadro di un accordo già colpito dalla sanzione dell'illegalità (come tale soggetto alla condictio ob iniustam causam): una duplicità di giudizi che, là dove trova consensi nella giurisprudenza di legittimità (33), risulta viceversa percorsa da più prudenti perplessità nel discorso degli scrittori (34). Certamente il ricorso alla disciplina della soluti retentio di cui all'art. 2035 c.c., anche con riguardo al destino del concreto affidamento (o della «consegna») del nuovo nato, lascia al giudice un più largo margine di apprezzamento delle conseguenze da trarre sul piano delle decisioni circa la filiazione, specie se il discorso sappia arricchirsi delle implicazioni che discendono dall'interpretazione nella prospettiva dell'abuso del diritto della stessa pretesa di conservazione del prestato. Si è già in precedenza anticipato come la regola dell'art. 2035 c.c. consente di distinguere, nel contesto di rapporti e situazioni normalmente riprovate secondo la coscienza comune, il piano di ciò che attiene alla qualificazione «teorica» (giuridica e morale) degli impegni assunti (di regola, contrassegnata da motivi di censura e di condanna), da quello che ha riguardo alla dimensione «concreta» del «fatto compiuto», consentendo di concentrare l'attenzione, più che sul contratto, piuttosto sulla valutazione dell'atto in cui consiste la solutio, rispetto al quale occorre considerare il valore che pure verrebbero ad assumere i motivi o le forme concrete attraverso cui i rapporti «immorali» ebbero a prendere vita, a svolgersi e a compiersi, al fine di svelare, attraverso il sindacato sull'eventuale intollerabilità dei modi concreti di esercizio della soluti retentio, la dimensione abusiva della stessa pretesa di conservazione della prestazione ricevuta. Che voglia o meno condividersi l'idea della ricerca di soluzioni possibili (o anche solo di particolari spunti d'argomentazione) dal diritto delle obbligazioni e dei contratti, la questione che attiene al governo del rapporto di filiazione, derivato da una surrogazione di maternità, appare certamente suscettibile d'esser considerata in termini largamente autonomi dalla relazione negoziale ch'ebbe originariamente a legare i protagonisti della vicenda generativa. Ciascuno dei «titoli» potenzialmente idonei a rivendicare la maternità del nuovo nato (sia esso d'indole biologica, genetica o sociale) può ritenersi astrattamente dotato di ragionevoli o condivisibili giustificazioni. Basterà un accenno, nell'economia del discorso che si va compiendo, alle argomentazioni più frequentemente richiamate nella letteratura e nella giurisprudenza che sul rapporto di filiazione, nell'ambito della surrogazione della maternità, hanno fermato la propria attenzione. Il dato positivo elementare al quale ancora occorre riferirsi nella determinazione del rapporto di filiazione materna risale alla disposizione del terzo comma dell'art. 269 c.c. che assegna, a colei ch'ebbe a partorire, la qualità di madre del nuovo nato. La norma - è superfluo ricordarlo - rispecchia il senso tradizionale della maternità naturale (per cui non si dà alternativa al vincolo tra sessualità e procreazione) ed insieme il significato rivelatore del parto, fissando in termini formali ciò che la saggezza popolare da tempo immemore riceve e tramanda come un certezza (mater semper certa est). Al di là delle evidenze delle scienze biologiche o psicologiche, del resto, rimane largamente indubitabile l'essenzialità e il significato, profondo e segreto, del rapporto simbiotico che lega l'embrione, e quindi il feto nel tempo della sua evoluzione, con il corpo della donna che lo riceve e lo accompagna alla vita autonoma, attraverso uno scambio continuo e inarrestabile che segna il senso misterioso di un'esistenza comune e di una comune appartenenza (35). Il discorso che si ferma alla certezza del dato positivo, nello stabilimento del rap porto di filiazione, si arricchisce inoltre di considerazioni che superano il dato naturale, o materiale, della gravidanza e del parto, e si estendono alla valutazione in termini giuridici dell'indisponibilità (per via negoziale) dello status familiare del nuovo nato, inteso come complessiva posizione giuridica del nuovo soggetto, nel quadro della comunità cui naturalmente appartiene, che si estende al coinvolgimento di situazioni o interessi di carattere generale che largamente prescindono dalla sola sfera dei diretti interessati. Ed ancora al vigore dei principi costituzionali fermati sul valore intrinseco della persona (art. 2) e sul carattere meramente «sussidiario» del ricorso ad una famiglia «sostitutiva», individuata dalla Costituzione come soluzione «estrema», da limitare (in conformità al disposto dell'art. 30 Cost.) ai soli casi d'incapacità della famiglia d'origine (individuata in quella «di sangue»). L'indiscutibilità della maternità giuridica della partoriente, tuttavia, non è parsa assoluta e insuperabile al giudizio di uno dei Maestri della nostra generazione, solo di recente scomparso, che - quanto meno nel caso della surrogazione «omologa» (ossia realizzata con i gameti di entrambi i soggetti della coppia committente) - ha rilevato come «non possa esser considerata madre la donna che ospita l'embrione alla cui formazione non ha concorso [...]. Non si può attribuire la maternità alla donna che ha ricevuto il principio di vita già individualizzato anche se lo ha ospitato e cresciuto. Si è dato il caso di scambio per errore di embrioni da impiantare e ciò fa constatare la possibilità che la situazione si determini per mera casualità senza concorso di volontà o di responsabilità, cioè di quegli elementi ai quali si può esser tentati (e si è stati tentati) di fare ricorso per affermare una genitorialità giuridica distinguibile da quella naturale. Va tuttavia riconosciuto, quando ricorrano volontà e responsabilità, il dovere di condurre a termine il compito che la madre surrogata si è assunto, giacché il rispetto della vita prevale sul rispetto della norma che vieta la surrogazione. La partoriente dovrà però «restituire il nato» a coloro che le hanno affidato l'embrione mentre nessun rapporto familiare si costituisce tra questi soggetti e la surrogata» (36). Incidentalmente varrà tener conto dell'accenno, che si insinua nel più generale discorso sull'attribuzione della maternità, al tema dell'interruzione della gravidanza e della possibilità di accedervi per la madre surrogata. La questione torna ad interrogare il senso e la misura dei limiti che occorre saper rispettare, con riguardo all'intangibilità del corpo della donna che ospita il feto, e ancora in relazione al diritto che pur sempre conviene sia alla stessa garantito di sottrarsi, senza incorrere in eventuali responsabilità, a vincoli o doveri che finiscono coll'impegnare il senso più intimo della sua dignità. Lo stesso tema dei diritti della partoriente (cui sia stata eventualmente ricusata la maternità legale), circa la possibilità di conservare legami o rapporti di frequentazione o di visita con il feto che condusse alla vita autonoma, coinvolge questioni e aspetti di non secondario rilievo - specie nei casi in cui ricorrano fenomeni di accesa conflittualità o di contrapposte rivendicazioni genitoriali; questioni a cui converrà fornire risposta con prevalente attenzione o riguardo all'obiettivo interesse del nuovo nato. La prevalenza del mero dato genetico, nella risoluzione della questione della maternità un assioma sovente promosso attraverso il suggestivo e «avveniristico» richiamo alle prestazioni di un'incubatrice artificiale (37), o talora alle evidenze della «logica del buon senso» (38) -, rischia peraltro di assumere toni o coloriture di stampo ideologico, specie quando il linguaggio inclina a riferirsi alla pretesa dimensione «essenziale» o «sostanziale» dell'individuo o della persona umana, ridotta al suo corredo genetico, o della stessa filiazione in sé, concepita o identificata nella mera trasmissione di quello. La fattispecie concreta condotta all'esame della Corte d'appello di Bari si caratterizzava, peraltro (in termini di ulteriore complessità), per la coincidenza, nell'unica donna ch'ebbe a consentire al progetto di genitorialità della coppia committente, della maternità biologica e di quella genetica: in breve, la madre surrogata aveva partorito il bimbo derivato da un ovocita della stessa partoriente fecondato dal seme del marito della coppia committente. Una valutazione condotta secondo il metro dell'ingenua osservazione dei dati materiali è certamente indotta a riconoscere, nella vicenda così descritta, l'elementare filiazione naturale (eventualmente extraconiugale) del componente maschio della coppia committente e della partoriente, madre genetica del figlio così generato. Ed, in effetti, in coerenza a questa premessa si erano levati, nella dottrina e nella giurisprudenza, i primi suggerimenti diretti a fornire una pratica soluzione sulla via del perfezionamento del disegno familiare della coppia committente: con il compimento del riconoscimento del figlio naturale, da parte del genitore maschio, e mediante il ricorso all'ipotesi dell'adozione «in casi particolari», ai sensi dell'art. 44, lett. b), l. n. 184 del 1983, ad opera della moglie di questi (39). La soluzione pratica è apparsa alla Corte barese - e non era difficile prevederlo - del tutto fuorviante, benché suggestiva, avendo agito, la donna italiana, per l'attribuzione di quella stessa qualità di madre riconosciutale nell'ordinamento britannico, e non già al fine di istituire, con i bimbi generati, un vincolo giuridico d'indole adottiva. All'attenzione della sentenza in esame non sfuggono i documenti della dottrina, dell'esperienza del dibattito parlamentare e della stessa giurisprudenza di legittimità, favorevoli a porre seriamente in discussione il principio del carattere necessariamente biologico o genetico della filiazione. Si ritrovano, tra le righe del provvedimento, i richiami alla decisione della Corte di Cassazione sul divieto del disconoscimento di paternità da parte del marito della coppia ch'ebbe a consentire all'inseminazione eterologa della moglie (40): un divieto poi transitato nella stessa trama delle disposizioni della l. n. 40 (art. 9) per il caso dell'eventuale violazione della proibizione della fecondazione eterologa. Sono, i temi che qui si insinuano e si affermano nel discorso del giudice, quelli della «genitorialità sociale», della «responsabilità genitoriale» (per usare del linguaggio ormai invalso nella normativa di origine comunitaria), della progressiva ristrutturazione del «senso» del rapporto di filiazione - o se si vuole dell'appartenenza familiare - come rapporto che si «costruisce» attorno al valore della consapevole dedizione di sé e del comune sostegno, per cui è il dato obiettivo della solidarietà, sollecitata e accettata, a generare l'essenza o la sostanza autentica dell'essere, insieme, genitori e figli. L'evoluzione che si registra, sul piano della coscienza dei rapporti cui concretamente si è disposti a «dare vita», finisce in tal senso per estendersi alla stessa revisione del linguaggio, non solo giuridico, che allude all'attività della «procreazione», nell'epoca della sua ormai irreversibile separazione o, quanto meno, della cancellata implicazione con l'esperienza della sessualità (41). Sulla traccia della riflessione teorica della dottrina (42), il provvedimento giudiziale cui risale il primo (e, a quanto consta, unico) riconoscimento concreto della maternità di sostituzione in Italia, alla fine degli anni '90, ammonisce come il fatto-procreazione a cui occorre riferirsi non deve intendersi riduttivamente come il fatto in sé, materialisticamente considerato, dovendo essere bensì ravvisato in un «fatto umano», in «un comportamento cioè rivolto alla procreazione, secondo la normale valutazione sociale»; un comportamento che, così come non ricorre nell'anonima donazione del seme maschile, ugualmente deve ritenersi assente o estraneo nel gesto, cui è programmaticamente e coscientemente sottratta qualsivoglia assunzione di responsabilità genitoriale, consistito in una disinteressata cessione di gameti o nella garantita disponibilità di un grembo. 9. FILIAZIONE E INTERESSE DEL MINORE. I DILEMMI DELLA GIUSTIZIA Il riconoscimento di condivisibili giustificazioni a sostegno di ciascuno dei titoli della maternità (biologica, genetica o sociale) coinvolti nel procedimento della surrogazione, induce la Corte barese a misurare, la consistenza delle argomentazioni da spendere sul terreno dell'attribuzione della maternità legale, con riferimento alla diversa, e per larghi tratti alternativa, impostazione fondata sulla ricerca del prevalente interesse del minore, come criterio determinante di imputazione del rapporto di filiazione. A sostegno della decisione di riconoscimento dei parental orders del giudice britannico, la Corte richiama i gravi danni che, a carico dei due minori, sarebbero derivati dal rigetto della domanda della donna che (pur non potendo fisicamente provvedervi) ne volle il concepimento e la nascita, e che di loro ebbe, sin da allora, a prendersi ininterrottamente cura per lunghi anni. L'adozione di qualunque altra soluzione - l'affidamento al solo padre naturale (con il quale i due minori non avevano mai vissuto in modo stabile) o anche alla madre biologica (che sin da subito aveva dichiarato di rinunciare ad alcun diritto sui minori, divenendo per questi ultimi «una perfetta estranea») - avrebbe finito col sacrificare l'essenzialità di un vincolo affettivo che, da sempre, aveva unito i due minori a quella che, per loro, era stata una mamma in nulla diversa da qualunque altra madre legittima o naturale. Sul piano giuridico, la Corte di Bari ha cura di sottolineare il valore del principio (riconosciuto nella stessa giurisprudenza di legittimità) (43) per cui la contemporanea presenza delle due figure genitoriali (materna e paterna) dev'essere apprezzata in concreto, senza pregiudiziali condizionamenti ideologici, attraverso la completa valutazione dei loro interessi materiali e morali, «tenendo presente che l'esigenza di evitare turbamenti o conflittualità psicologiche pregiudizievoli all'armonioso sviluppo della personalità del minore deve in ogni caso prevalere sul fatto oggettivo della generazione». Il richiamo ai documenti normativi di diritto internazionale e comunitario (e quest'ultimo «ha diretta efficacia nell'ordinamento nazionale, e prevale sul diritto interno») serve alla Corte per ribadire l'inviolabilità del principio sancito dalla Convenzione sui diritti dell'infanzia approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York il 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva in Italia con la l. n. 176 del 1991), secondo cui «in tutte le decisioni relative ai fanciulli e di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente», nonché il principio che, con particolare riferimento al riconoscimento delle sentenze straniere nella materia dei rapporti tra genitori e figli (ex art. 23 Reg. CE n. 2201 del 2003), espressamente stabilisce che la valutazione della «non contrarietà all'ordine pubblico» debba essere effettuata «tenendo conto dell'interesse superiore del figlio». La stessa incoerenza che risulterebbe tra l'ordinamento britannico e quello italiano (per cui madre dei due minori sarebbe una persona diversa in ciascun territorio) finirebbe col tradursi in una singolare violazione della libertà di circolazione, della ricorrente (che «per vedere riconosciuta la sua maternità, sarebbe obbligata a trasferirsi nel Regno Unito piuttosto che vivere in Italia»), ma ancor di più dei due minori, «che si troverebbero nella condizione di vivere in uno Stato in cui non viene riconosciuto loro il legame di filiazione con la madre non biologica, legame riconosciuto da altro stato dell'unione, del quale hanno la cittadinanza». È dunque il preminente e migliore interesse del minore the best interest of the child), di cui occorre ricostruire e riallacciare i termini del rapporto di filiazione e dello status familiare, a dettare i criteri di riferimento nel compito giudiziale di attribuzione della maternità (44). L'idea, in realtà, già aveva suscitato apprezzamento e consenso negli ambienti della dottrina e della giurisprudenza nordamericane. Nella decisione definitiva assunta dalla Corte Suprema del New Jersey, nel primo caso di surrogazione giunto agli onori delle cronache mondiali (divenuto noto come il caso «Baby M.») (45), avevano trovato posto tutte le perplessità suscitate dalla prima pronuncia della Corte di grado inferiore, che aveva riconosciuto la specifica eseguibilità, in quanto valido in termini di stretto diritto e sul piano dell'equity, del contratto di maternità surrogata con cui una donna (nella specie, la signora Whitehead) consente, verso ricompensa, a ricevere il seme di un uomo ed a condurre a termine la gravidanza, rinunciando ai suoi diritti di madre in favore della di lui moglie (la signora Stern) (46). La decisione della Corte Suprema finì col riconoscere che, nel diritto del New Jersey, il contratto con cui una donna consente, verso compenso, a ricevere il seme di un uomo e a condurre a termine la gravidanza, rinunciando ai suoi diritti di madre, è nullo per contrarietà alle norme sull'adozione e per contrasto con l'ordine pubblico. Scrivono i giudici americani che, «mentre comprendiamo il desiderio profondo e legittimo della coppia sterile di avere figli, consideriamo il pagamento previsto in favore della madre surrogata illegale, penalmente illecito e potenzialmente degradante per una donna»; allo stesso tempo, peraltro, «noi non riscontriamo alcun conflitto con la nostra legislazione là dove una donna, volontariamente, e senza pagamento, accetta il ruolo di madre surrogata, a patto che non sia soggetta all'accordo vincolante di cedere il suo bambino». Ciò che tuttavia appare decisivo, nel convincente discorso della Corte, è che «il vizio più grave del contratto sta nella totale noncuranza dei reali interessi del bambino», non accennandosi «neppure ad eventuali e future indagini circa l'adeguatezza degli Stern al ruolo di genitori, l'idoneità della signora Stern al compito di madre adottiva e la superiorità dei coniugi rispetto alla Whitehead, o circa le conseguenze derivanti dalla separazione della bambina dalla madre naturale». All'esito delle valutazioni compiute, peraltro, la Corte decise ugualmente di affidare la bimba contesa alla coppia committente («per esattezza al solo signor Stern»), ritenendola come la soluzione più coerente e funzionale all'obiettivo e miglior interesse della minore stessa. La radicale autonomia, tra la questione che attiene al governo del rapporto di filiazione derivato da una surrogazione di maternità, e la relazione negoziale ch'ebbe originariamente a legare i protagonisti della vicenda generativa, non poteva ricevere migliore o più chiara conferma. Le questioni sin qui variamente incontrate ed esaminate - circa la disponibilità del corpo umano, il presidio della dignità della persona, la nozione della maternità o l'interesse superiore del minore - finiscono col risolversi nell'attribuzione, al giudice, di un compito, terribile ma insieme non eludibile, di adattamento delle idee e del linguaggio - in breve della sua cultura - all'irripetibilità del caso concreto, poiché solo nella decisione, nella sua singolare unicità, è possibile l'incontro e la reciproca sistemazione tra il piano del diritto e quello della morale. Senza voler coinvolgere questioni dotate di un più largo ed ambizioso respiro (peraltro, in rilevante misura, estranee al tenore del presente discorso), varrà solamente accennare al tema che tocca il ruolo o la funzione del giudice nel contesto della società e della cultura contemporanea. L'accresciuta sensibilità per la dimensione «particolare» (il rapporto, il gruppo, il contesto sociale) in cui la decisione concreta è destinata a incidere rivela distintamente come, sempre più spesso, il risultato che si invoca dal giudice è quello di una giustizia «orientata al caso», dove dato positivo e dimensione normativa della realtà sociale giocano un ruolo di mutua interazione e di reciproci rimandi. L'idea di un'interpretazione giudiziale «orientata al caso» - secondo la formula che ripudia la persistente validità dell'astrazione moderna del «Soggetto Universale», per riscoprire la specifica diversità di individui, gruppi o minoranze che, in ragione della particolarità delle culture di appartenenza, invocano il godimento di diritti e libertà «particolari» (donne, minori, anziani, malati, omosessuali, immigrati, minoranze etniche o linguistiche ecc.) - ripropone l'interrogativo, che ancora anima le divisioni e gli aperti dissensi del dibattito contemporaneo, se possa ritenersi ancora accettabile, nelle società multiculturali, il modello tradizionale e autoritativo di giudice, o se, invece - respinta l'idea della generale condivisione delle norme, dei valori e dei principi dell'ordinamento giuridico, o del comune consenso sulle procedure decisionali -, non si ponga piuttosto il problema, del tutto inedito nei nostri sistemi, dell'accettazione «sociale» della sentenza. Il dibattito che indugia tra «giustificazione della validità delle norme» e «giustificazione dell'applicazione della norma al caso concreto», invita propriamente a guardare al di là del consenso astrattamente tributato alle norme all'atto della relativa approvazione formale, per sottolineare l'opportunità di ricorrere, al momento della loro applicazione, allo svolgimento di considerazioni aggiuntive e ulteriori, che sappiano confermarne l'adeguatezza rispetto al caso, in conformità al modo in cui la fattispecie (ossia il «frammento» dell'esperienza di vita condotto all'esame del giudice) è stata definita dalle stesse parti. È in questo senso che si pone, con indubbia pertinenza, la questione dell'opportunità, in materie sensibili dal punto di vista morale, di un intervento «pesante» o eticamente «costrittivo» del legislatore, a fronte dell'alternativo affidamento, al giudice, del compito di adattare, al contesto dei principi e dei valori del sistema, la singolarità di ciascuna realtà di affetti, emozioni, sentimenti o delle più intime o invincibili convinzioni particolari (47). Va diffondendosi la convinzione, recentemente ribadita dai nostri scrittori proprio in relazione alla vicenda della maternità surrogata, che la soluzione della maggioranza dei problemi giuridici sollevati dal fenomeno della procreazione artificiale è influenzata da concezioni religiose, etiche e morali che implicano scelte troppo impegnative perché possa essere il legislatore a prenderle in nome di una coscienza comunemente avvertita (48). Alla soluzione dell'umile caso delle madri in conflitto, ancora si addice, di là dai vertiginosi progressi della scienza, la pagina antica della Scrittura sulla virtù della «sapienza»: udita la reazione delle donne alla sua paradossale proposta, Salomone riconosce la «vera» madre in colei che, rinunciando a sé, sceglie, nel solo bene del figlio, l'unico valore che per lei davvero conti (49). Risuona nel tempo la voce raccolta dai versi di Khalil Gibran: «voi siete gli archi dai quali i figli vostri, viventi frecce, sono scoccati innanzi [...]. Sia gioioso il vostro tendervi nella mano dell'Arciere; poiché se ama il dardo sfrecciante, così ama l'arco che saldo rimane» (50). NOTE (1) V., sul punto, la sintesi di TORINO, Legittimità e tutela giuridica degli accordi di maternità surrogata nelle principali esperienze straniere e in Italia, in Familia, 2002, 1, 181. (2) Cass. n. 10215 del 2007, in Mass. Giust. civ., 2007, 5. (3) Sulla maternità surrogata nella letteratura italiana v., tra gli altri, MILAN, La madre su commissione. Problemi giuridici, in Manipolazioni genetiche e diritto, in Quaderni di Iustitia, Milano, 1986, 314; CLERICI, Procreazione artificiale, pratica della surroga e contratto di maternità: problemi giuridici, in Dir. fam. pers., 1987, 1011; SISTO, Mater non semper certa est: la gestazione per conto terzi fra (pieni di) scienza e (vuoti di) legislazione, in Dir. fam. pers., 1987, 1467; BALDINI, Volontà e procreazione: ricognizione delle principali questioni in tema di surrogazione di maternità, in Dir. fam. pers., 1999, 579; BILOTTA, La maternità surrogata, in Diritti della personalità e biotecnologie, Roma, 1999; ZATTI, La surrogazione nella maternità, in Questione gius., 1999, n. 5, 826; CASSANO, Maternità «surrogata»: contratto, negozio giuridico, accordo di solidarieta?, in Fam. dir., 2000, 162; CORTI, La maternità per sostituzione, Milano, 2000; DOGLIOTTI, Maternità «surrogata»: contratto, negozio giuridico, accordo di solidarietà?, in Fam. dir., 2000, 156; ZATTI, Maternità e surrogazione, in Nuova giur. civ. comm., 2000, II. 202; CARLEO, Maternità surrogata e status del nato, in Familia, 2002, 2, 377 ss.; TORINO, Legittimità e tutela giuridica degli accordi di maternità surrogata nelle principali esperienze straniere e in Italia, in Familia, 2002, 1, 179 ss. (4) V. il caso Re Buzzanca, Superior Court of California, Family Law Division, 27 agosto 1997, in Fam. dir., 1997, 405, con nota di V. CARBONE, Inseminazione eterologa e disconoscimento di paternità: il caso Baby J. (5) Nelle posizioni della dottrina nordamericana, la tesi dell'ammissibilità e della legittimità dei contratti di surrogacy risale al diritto delle coppie che non possono avere figli di realizzare valori accettati e condivisi dalla società nordamericana quali l'«individual freedom, fulfillment and responsibility» (cfr. SHULTZ, Reproductive Technology and Intent-Based Parenthood: An Opportunity for Gender Neutrality, in 1990 Wisconsin Law Review 297 (1990)). A sostegno della legittimità delle diverse tecniche di procreazione artificiale viene normalmente richiamato il diritto di privacy, ritenuto in grado di offrire una tutela anche costituzionale ai nuovi interessi. Esemplare sul punto è la posizione di John Robertson, il quale in un lungo saggio del 1983 [Procreation Liberty and the Control of Conception, Pregnancy and Chilbirth, 69 Virginia Law Review 405 ss. (1983), poi confermato nel saggio Embryos, Families and Procreative Liberty: The Legal Structure of the New Reproduction, 59 Southern California Law Review 939 (1988)] estende il diritto alla procreazione anche in favore di quanti non possono concepire bambini. Sulla stessa lunghezza d'onda gli autori favorevoli alle tesi dell'analisi economica del diritto (law and economics), che individuano nel momento contrattuale un'ottima possibilità di assicurare la realizzazione di un desiderio di figli, altrimenti inappagato: del resto, secondo POSNER (Sex and Reason, Harvard Univ. Press., Cambridge, 1992, 422) l'inosservanza dell'obbligazione contrattuale di consegnare il figlio al momento della nascita comporterebbe il rischio di pericolosi fenomeni estorsivi («se la legge rifiuta di dare esecuzione ai contratti di maternità surrogata, essa pone le basi perché sia commessa un'estorsione da parte delle madri surrogate»). Più «variegata», secondo PONZANELLI (California e «vecchia» Europa, cit., 337), deve invece ritenersi la posizione del movimento femminista nordamericano, per il quale le forme di procreazione artificiale, ivi compresi gli accordi di maternità surrogata, confermerebbero la posizione di storica inferiorità della donna rispetto al potere maschile e sarebbero in grado di introdurre pericolose forme di prostituzione. Nota, infine, è la posizione della giurista israeliana SHALEV (Nascere per contratto, Milano, 1992), in ordine alla dimensione antidiscriminatoria rivestita dal diritto di ciascun individuo, senza distinzioni di sesso, all'autonoma valutazione delle questioni relative alla paternità e alla maternità. (6) È il caso del New Jersey (teatro del c.d. caso Baby M.) e della California di cui v., ad esempio, la decisione della Corte Suprema, sent. 20 maggio 1993, in Foro it., 1993, IV, 337. (7) Esprimono posizioni contrarie alla legittimità degli accordi di surrogazione almeno sette Stati nordamericani (Indiana, Kentucky, Louisiana, Michigan, Nebraska, North Dakota e Utah). In particolare, fra gli Stati che hanno apprestato una regolamentazione legislativa rientrano, ad esempio, il Michigan, l'Arizona, e l'Indiana, la cui legislazione prevede la nullità di tutti gli accordi di maternità surrogata indipendentemente dal corrispettivo, il Kentucky e il Nebraska, le cui legislazioni ritengono nulli gli accordi basati su un pagamento (compensation o consideration), altri Stati, infine, quale il New Hampshire, che ammettono gli accordi di maternità surrogata, con vari tipi di controllo e intervento da parte degli organismi pubblici (v. TORINO, op. cit., 173). (8) Il riferimento è al più remoto film di James Steven Sadwith, Baby M. (1988) - ispirato al caso della piccola Melissa, sottoposto alla Corte Superiore e poi a quella Suprema del New Jersey tra il 1987 ed il 1988 - e alla più recente commedia di Michael McCullers, Baby Mama (2008). (9) V. la rassegna di TORINO, Legittimità e tutela giuridica degli accordi di maternità surrogata nelle principali esperienze straniere e in Italia, cit., 179 ss. (10) Trib. Monza 27 ottobre 1989, in Giur. it., 1990, I, 2, c. 296, con nota di PALMERI, Maternità «surrogata»: la prima pronuncia italiana, ed ivi, 1992, I, 2, c. 72; DOGLIOTTI, Inseminazione artificiale e rapporto di filiazione. (11) Che si espresse nelle due ordinanze del 17 febbraio 2000 e del 27 marzo 2000, in Giur. it., 2001, I, 2, 300, con nota di NATOLI, La maternità surrogata: le dinamiche sociali e le ragioni del diritto. (12) Sul c.d. «diritto alla genitorialità» v. RODOTÀ, Repertorio di fine secolo, Roma-Bari, 1999 (1992), 227 ss.; TRABUCCHI, La procreazione e il concetto giuridico di paternità e maternità, in Riv. dir. civ., 1982, I, 597 ss. (13) Sul tema delle c.d. «famiglie ricomposte» sia consentito il richiamo a DELL'UTRI, Famiglie ricomposte e genitori «di fatto», in Familia, 2005, 275 ss. (14) Per tutti v. ALPA, Appunti sull'inseminazione artificiale, in Riv. crit. dir. priv., 1985, 333. Sulla natura contrattuale dell'accordo di maternità surrogata v. DOGLIOTTI, Inseminazione artificiale, problemi e prospettive, in Giur. it., 1985, IV, c. 421. (15) V., ad es., DOGLIOTTI, Inseminazione artificiale e rapporto di filiazione, in questa Rivista, 1990, 79, per il quale il contratto è nullo per contrarietà al buon costume. (16) V. sul punto RESCIGNOPostfazione a L'abuso del diritto, Bologna, 1998, 278. (17) Cfr. RESCIGNO, In pari causa turpitudinis, in Riv. dir. civ., 1966, I, 1 ss., ora in RESCIGNO, L'abuso del diritto, Bologna, 1998, 215 ss. (18) Non convince, sul punto, il rilievo di SESTA (Procreazione medicalmente assistita, in Enc. giur., XXVIII, Roma, 2007) secondo cui il tema dell'attribuzione della maternità, in caso di violazione del divieto imposto dalla l. n. 40 del 2004, deve ritenersi risolto «in radice» in forza del disposto di cui all'art. 9 comma 3, il quale confermerebbe «che la donna che ha partorito è l'unica cui è attribuita la maternità, essendo giuridicamente irrilevante il fatto che l'embrione che le sia stato trasferito in utero fosse formato da materiale genetico altrui (la madre committente); il che risolve in radice le delicate questioni di status del nato a seguito di surrogazione che erano state affrontate in dottrina prima dell'approvazione della legge». Occorre infatti evidenziare come la previsione dell'art. 9 comma 3, risulta immediatamente collegato alla violazione del divieto di cui all'art. 4 comma 3, da ritenersi limitato all'ipotesi della donazione di gameti maschili, essendo, il divieto della surrogazione di maternità, diversamente collocato nel testo dell'art. 12 comma 6, della stessa legge. Del resto, si è visto come l'ipotesi dell'impianto, nell'utero della madre surrogata, di un embrione fecondato con gameti della stessa «madre committente» (come nel caso di cui alla sentenza della Corte barese qui commentata), non realizzerebbe, a rigore, una vicenda di fecondazione di tipo «eterologo» (colpita dal divieto dell'art. 4 comma 3), bensì una fecondazione di tipo «omologo», dovendo distinguersi, le due nozioni legali (fecondazione omologa/eterologa), con riguardo all'appartenenza o meno, alla coppia cui risale la richiesta di procedere alle pratiche fecondative, del materiale genetico dell'embrione fecondato. (19) Sul tema che tocca il rapporto tra il contratto e il corpo v., tra gli altri, D'ARRIGO, Il contratto e il corpo: meritevolezza e liceità degli atti di disposizione dell'integrità fisica, in Familia, 2005, 777 ss.; DOGLIOTTI, Atti di disposizione sul corpo e teoria contrattuale, in Rass. dir. civ., 1990, 241 ss. (20) Sul tema degli atti di disposizione del corpo v. DE CUPIS, Corpo (atti di disposizione del proprio), in Noviss. Dig. it., IV, Torino, 1959, 854 ss.; RESCIGNO, Libertà di trattamento sanitario e diligenza del danneggiato, in Studi in onore di Asquini, IV, Padova, 1965, 1657; D. CARUSI, Atti di disposizione del corpo, in Enc. giur., IV, Roma, 2007. (21) Sul «coerente inserimento»» della norma nel programma di tutela e salvaguardia della stirpe del regime fascista v. ROMBOLI, Persone fisiche, in Comm. c.c. ScialojaBranca, Bologna-Roma, 1988, 225 ss. (22) Sul rapporto tra maternità di sostituzione e dignità umana, v. l'analisi di CORTI, La maternità per sostituzione, Milano, 2000, 33 ss. (23) V. l'art. 1 della Grundgesetz tedesca del 1949; il preambolo della Carta delle Nazioni Unite del 1945; il titolo della c.d. Convenzione di Oviedo del 1997; il Capo I della c.d. «Carta di Nizza» del 2000. (24) Cfr. CICERONE, De officiis, trad. it. con testo a fronte Dei doveri, Bologna, 1991. Si veda in particolare Libro I, Cap. XXX (109-111 nell'edizione citata). (25) Gli scritti più significativi si trovano in MAIHOFER (a cura di), Naturrecht oder Rechtspositivismus?, Darmstadt, 1962. Per una ricostruzione giusfilosofica del dibattito cfr. KAUFMANN, Naturrechtslehre nach 1945. Die Naturrechtsrenaissance der ersten Nachkriegsjahre und was daraus geworden ist, in Die Bedeutung der Wörter. Studien zur europäischen Rechtsgeschichte, STOLLEIS (a cura di), Verlag C.H. Beck, München, 1991, 105-132. (26) V. in tal senso BECCHI, Il dibattito sulla dignità umana: tra etica e diritto, in FURLAN (a cura di) Bioetica e dignità umana, Milano, 2009, 121. (27) BECCHI, op. cit., 123, che richiama LUHMANN (Grundrechte als Institution. Ein Beitrag zur politischen Soziologie, (1965), Duncker &Humblot, Berlin, 19992, 53-83, trad. it., cura e introduzione di PALOMBELLA - PANNARALE, I diritti fondamentali come istituzione, Bari, 2002, 98-138). (28) BECCHI, op. cit., 124. (29) MARGALIT, The Decent Society, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1996, trad. it., La società decente, a cura di Villani, Milano, 1998. (30) Scrive RODOTÀ (Perché laico, Roma-Bari, 2009, 137 s.): «L'invocazione della dignità può assumere coloriture estreme, come quando si opera un trasferimento della nozione di inviolabilità dalla persona alla natura in quanto tale. La natura intoccata e intoccabile diviene così la sede della dignità, con una mossa che finisce con il precludere la stessa possibilità di interventi vantaggiosi per l'interessato e può sostituire paternalismo e autoritarismo alla libertà di ciascuno. [...]. La dignità, la sua definizione e applicazione, dunque, non possono essere separate dalla libertà delle persone alle quali si riferiscono. [...] Si coglie così un'altra radice culturale del riferimento alla dignità, che consiste nello spostamento d'attenzione dalla soggettività astratta alla concretezza della persona, immersa nel fluire dei rapporti reali. Qui la dignità conosce le insidie delle disuguaglianze di fatto, delle differenze di potere che incidono sulla libertà delle scelte. Ma incontra pure una persona costituzionalizzata, dove s'intrecciano garanzie di libertà e difese della persona contro se stessa». L'idea della difesa della persona contro sé stessa nell'uso del proprio corpo - banale e inaccettabile, nelle ipotesi del tatuaggio o del piercing - diventa sempre più delicata, specie in relazione al tema dell'identità personale, nelle vicende, ad esempio, del transessualismo (su cui v. PALMERI - VENUTI, Il transessualismo fra autonomia privata e indisponibilità del corpo, in Dir. fam. pers., 1999, 1331 ss.), dei c.d. «scioperi della fame» (su cui v. FASSONE, Sciopero della fame, autodeterminazione e libertà personale, in Quest. giust., 1982, 335 ss.) o della chirurgia plastica, in relazione alla crescente gravità degli interventi: ricorda RODOTÀ (Quattro paradigmi per l'identità, in L'identità nell'orizzonte del diritto privato, Supplemento a Nuova giur. civ. comm., 2007, 28), tra gli altri, l'esempio dei c.d. Body Integrity Identity Disorders (o BIID), che inducono a rivendicare la rimozione chirurgica di parti sane - ma indesiderate - del corpo, al punto che, negli Stati Uniti, un medico ha accolto la richiesta di amputare le gambe del paziente, sull'esempio di quei medici per cui - a seguito di una diagnosi che confermi l'esistenza del disturbo dell'identità e dell'eventuale infruttuosità di tentativi terapeutici con antidepressivi - un'operazione di asportazione (o di danneggiamento) di parti sane del corpo può costituire un'opzione eticamente accettabile. (31) Su cui vedi PARISOLI, La pornografia come lesione della dignità umana, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1997, 149 ss. (32) V. PARISOLI, L'affaire del velo islamico. Il cittadino e i limiti della libertà, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1996, 181 ss. CASTIGNONE, Foulard o chador? Ancora sulla questione del velo islamico, in Materiali per una storia della cul tura giuridica, 1996, 537 ss. FEMIA (Interessi e conflitti culturali nell'autonomia privata e nella responsabilità civile, Napoli, 1996, 556, nt. 874) ricorda anche la vicenda dolorosa e (per la nostra cultura) inaccettabile delle mutilazioni genitali femminili praticate per motivi ancestrali da talune etnie africane, di recente poste ad oggetto di un fermo divieto da parte della legge italiana (l. n. 7 del 2006). La dimensione «identitaria» del tema degli atti di disposizione del corpo è al centro delle recenti riflessioni di ANZANI, Identità personale e «atti di disposizione della persona», in Nuova giur. civ. comm., 2008, II, 207 ss; ANZANI, Gli «atti di disposizione della persona» nel prisma dell'identità personale (tra regole e principi), in Nuova giur. civ. comm., 2009, II, 1 ss. (33) Per Cass. n. 4414 del 1981 (in Foro it., 1982, 1, 1679), l'accertamento che un contratto sia contrario a norme imperative, e quindi nullo per tale ragione (art 1343 c.c.), non impedisce un'autonoma valutazione dell'atto dal punto di vista della sua eventuale immoralità al fine di negare l'azione di ripetizione ai sensi dell'art 2035 c.c. (34) V. per tutti, RESCIGNO, In pari causa, cit., ora in L'abuso del diritto, cit. 170 ss. (35) V., fra gli altri, BIANCA, Diritto civile, la famiglia e le successioni, 2, Milano, 1985, 300. (36) OPPO, Diritto di famiglia e procreazione assistita, in Riv. dir. civ., 2005, I, 334. V. altresì lo stesso autore sul medesimo tema: OPPO, Scienza, diritto, vita umana, ivi, 2002, I, 25; OPPO, Procreazione assistita e sorte del nascituro, ivi, 2005, I, 104 («È da ritenere che la regola dell'art. 269 c.c., secondo cui madre è la partoriente, non sia applicabile a un'ipotesi che non era immaginabile al tempo dell'emanazione del codice; ed è da ritenere che paternità e maternità, e così lo stato del nato, debbano riportarsi a chi ha concorso alla fecondazione e quindi alla creazione dell'embrione. [...] Se è vero che la surrogata non dà solo asilo ma contribuisce a plasmare la vita del nascituro, questo contributo non sembra equiparabile alla creazione dell'embrione se è vero che nell'embrione vi è già tutta l'essenza dell'individuo futuro»). (37) Secondo Trib. Roma, ord. 17 febbraio 2000, cit. «la madre genetica svolge un ruolo insostituibile rispetto all'identità del nato mentre la madre gestante ha una funzione accessoria e come tale «intercambiabile» potendo [...] essere sostituita in un futuro che non pare lontano da dispositivi tecnologici». (38) V. BALDINI, Tecnologie riproduttive e problemi giuridici, Torino, 1999, 106, che riporta l'opinione di GORASSINI, Procreazione artificiale eterologa e rapporti parentali primari, in Dir. fam. pers., 1987, 1251: la logica secondo cui la gestazione crea un vincolo più forte con il nascituro per intensità effettiva e rapporto temporale, o l'immaginifica visione del seme lontano fatto crescere e sviluppare nel proprio orto, è sovvertita dalla logica del buon senso secondo cui l'ovulo fecondato di una donna negra, pur con la gestazione di una donna bianca, non può far diventare bianco il nato (...). (39) V., ad es., App. Salerno 25 febbraio 1992 (in Nuova giur. civ. comm., 1994, 1, 177, ed ivi la nota di BITETTI, Contratti di maternità surrogata, adozione in casi particolari ed interesse del minore). (40) Cass. n. 2315 del 1999, in Foro it., 1999, I, 1834, con nota di SCODITTI, «Consensus facit filios». I giudici, la Costituzione e l'inseminazione eterologa. Sulla vicenda particolare, nella più generale prospettiva dell'abuso del diritto, sia consentito il richiamo a DELL'UTRI, L'abuso del diritto tra persona e famiglia, in questa Rivista, 2007, suppl. al n. 12, 17 ss. (41) V. per tutti i testi di TRABUCCHI, La procreazione e il concetto giuridico di paternità e maternità, in Riv. dir. civ., 1982, I, 597 ss. e di GORASSINI, Procreazione (dir. civ.), in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987, 944 ss. (42) È possibile cogliere, nei passaggi del provvedimento romano, gli echi della «voce» di GORASSINI, Procreazione (dir. civ.), cit., part. 969. (43) Cass., n. 2654 del 87 [non 1997 come erroneamente nel testo della sentenza], in Giur. it., 1988, 1, 1, 1025, con nota di Amato. In tema v., altresì, Cass. n. 8861 del 1993, in Giust. civ., 1993, 1, 2614. (44) Sul tema dell'interesse del minore v. FERRANDO, Diritti e interesse del minore tra principi e clausole generali, in Politica dir., 1998, 167; SCIANCALEPORE, L'interesse del minore fra esercizi di formalismo e legalità costituzionale, in Fam. dir., 1998; FERRANDO, Interesse del minore e «status» del figlio, in Giur. it., 1999, 1110; DOGLIOTTI, Che cosa è l'interesse del minore?, in Dir. fam. pers., 1992, 1093. (45) Corte Suprema del New Jersey, sent. 3 febbraio 1988, in Foro it., 1989, IV, 293, con nota di PONZANELLI, Ancora sul caso Baby M.: l'illegittimità dei contratti di «sostituzione di maternità», ed altresì di CLARIZIA, Inseminazione artificiale, contratto di sostituzione di maternità, interesse del minore (ivi, 1989, IV, 298). (46) Corte Superiore del New Jersey, sent. 31 marzo 1987, in Foro it., 1988, IV, 97, con nota di PONZANELLI, Il caso Baby M., la «surrogate mother» e il diritto italiano, ed ivi v. gli abbondanti riferimenti alla letteratura statunitense in tema. (47) V. GALASSO, Bioteconologie e atti di disposizione del corpo, in Familia, 2001, 928. (48) Cfr. CLARIZIA, Inseminazione artificiale, cit., 299; ROSSI CARLEO, Maternità surrogata e status del nato, in Familia, 2002, 2, 379; FERRANDO, Libertà, responsabilità, procreazione, Padova, 1999, 292 ss. (49) Antico Testamento, 1Re, 3, 16-28. (50) K. GIBRAN, I figli, da Il Profeta, traduzione di Franconeri, Demetra, 1999.