Lezione Rossi-Doria 2013 - Ufficio Programmi Europei per la

Michele De Benedictis
La questione contadina: ieri e oggi
Lezione Rossi-Doria 2013
Promossa
dall’Associazione per studi e ricerche
Manlio Rossi-Doria
con il contributo
dell’Istituto Banco di Napoli Fondazione
Sala delle Lauree, Facoltà di Economia “Federico Caffè”
Università degli Studi Roma Tre
Via Silvio D’Amico 77, Roma
11 giugno 2013
Lezione Rossi-Doria 2012
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Lezione Rossi-Doria 2012
Michele De Benedictis
La questione contadina: ieri e oggi
Indice
Lezione Rossi-Doria 2013:
Questione meridionale e questione nazionale:
il meridionalismo è morto?
di Adriano Giannola
Attività dell’Associazione Manlio Rossi-Doria nel 2013
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Lezione Rossi-Doria 2012
Guido Fabiani
L’agricoltura che cambia. Dalla grande crisi alla globalizzazione
Lezione Rossi-Doria 2013
Questione meridionale e questione nazionale:
il meridionalismo è morto?
di Adriano Giannola *
1. Stato e Nazione
Quella italiana è un’identità nazionale antichissima. Non altrettanto può dirsi dell’identità statuale che appare oggi, ed in prospettiva, molto più fragile.
Nel corso del tempo l’iniziale centralismo amministrativo, ora in
crisi, ha lasciato il posto ad un autonomismo sperimentato con il progressivo decentramento (le Regioni dal 1970), altrettanto in crisi, ed è
approdato nel 2001 (con la riforma del titolo V della Costituzione) ad
una prospettiva federalista da riempire di contenuti (la legge di attuazione 42 del 2009 è del tutto disattesa).
Alla radice della discrasia Stato-Nazione sta la persistente, profonda incoerenza tra l’unità politica e la mancata unificazione economica del Paese (Cafiero, 1996).
Su questo fronte, con una visione tutt’altro che localistica, il meridionalismo classico, prima, e il neomeridionalismo, poi, hanno fornito
un contributo essenziale mirato a mettere in sintonia Stato e Nazione,
condizione oggi più necessaria di ieri per restare protagonisti nei mercati globali.
* Dipartimento di Economia, Management, Istituzioni, Università di Napoli
Federico II, [email protected]
Lezione Rossi-Doria 2013
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Questione meridionale e questione nazionale
Adriano Giannola
Ritengo che sia utile tornare a riflettere su questo nodo, a partire
dal confronto fondato su un’informazione rigorosa capace di sgombrare il terreno dai tanti luoghi comuni sul tema Nord-Sud con i quali,
negli ultimi venti anni, si è voluto esorcizzare il problema proclamando di averlo “abrogato”. Riconsiderare il passato è quindi una
priorità per trovare una chiave utile a leggere il presente e parlare con
cognizione di causa del futuro.
2. Passato remoto
Nel 1861 all’orizzonte del nuovo Stato nazionale si presentò immediatamente la Questione che, da allora, lungi dal risolversi, ostinatamente ripropone la profezia di Mazzini (non certo meridionale e tantomeno provinciale) che «l’Italia sarà quello che il Mezzogiorno sarà».
Il 5 giugno 1861, la sera prima di morire, Cavour così prospetta a
re Vittorio Emanuele il problema irrisolto dei Napoletani (così ci si
riferiva allora ai cittadini del Sud): «L’Italia del Settentrione è fatta,
non vi sono più né lombardi, né piemontesi, né toscani, né romagnoli,
noi siamo tutti italiani; ma vi sono ancora i napoletani. Oh! Vi è
molta corruzione nel loro Paese. Non è colpa loro, povera gente: sono
stati così mal governati […]. Niente stato d’assedio, nessun mezzo da
governo assoluto. Tutti sono buoni di governare con lo stato d’assedio. Io li governerò con la libertà e mostrerò ciò che possono fare di
quel bel Paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le province
più ricche d’Italia. No, niente stato d’assedio, ve lo raccomando» (de
La Rive, 1951).
Il silenzio che dopo la morte di Cavour cala sulla Questione, non
vuol dire che questa sia risolta, tanto che (il 2 agosto 1861) Massimo
D’Azeglio è indotto ad intervenire come segue sul giornale francese
La Patrie: «la questione di Napoli – restarvi o non restarvi – mi sembra dipendere soprattutto dai napoletani; a meno che non si voglia per
la comodità delle circostanze, cambiare i principi che abbiamo sin qui
proclamato […]. a Napoli abbiamo cambiato il sovrano per istaurare
un governo eletto dal suffragio universale; ma occorrono, e pare che
non basti, 60 battaglioni per tenere il Regno; ed è noto che briganti e
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Adriano Giannola
Questione meridionale e questione nazionale
non briganti sarebbero d‘accordo per non vedere la nostra presenza. E
il suffragio universale? Del suffragio non so niente, ma so che da questa parte del Tronto non occorrono battaglioni, mentre occorrono
invece al di là. Dunque deve essere stato commesso un errore. Dunque bisogna cambiare le azioni o i principi e trovare il mezzo per
sapere dai napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o non ci
vogliono […]. Agli italiani che, pur restando italiani, non intendono
unirsi a noi, non abbiamo il diritto di rispondere con le archibugiate
invece che con gli argomenti».
In realtà, per l’ovvia “forza delle cose”, la linea delle archibugiate
prevalse e in pochi anni questo aspetto della Questione fu risolto
manu militari. Negli stessi anni (1861-1865) in Nord America Nordisti e Sudisti combattono la guerra di secessione.
Quel tormentato avvio e le vicende fiscali e doganali successive al
1887 ispirarono a Rosario Romeo (1959) e ad Antonio Gramsci (1926)
analisi diverse ma suggestivamente convergenti, come quella
dell’“accumulazione originaria” e del “blocco storico” che ben inquadrano il ruolo del Mezzogiorno nel nuovo Regno. Molto più tardi, nel
1948, in una conferenza alla Fiera del Levante a Bari, Ernesto Rossi
(1948) ricorda Antonio De Viti De Marco che così denunciava gli esiti
del “blocco storico”: «L’azione a cui invito i miei amici e concittadini
non è regionalista, ma essenzialmente unitaria e patriottica […] perché
con la difesa del diritto e la conseguente eliminazione di una legislazione di classe e di regione si mira ad elevare il Mezzogiorno a simile
livello dell’altra parte d’Italia. Fino a quando noi faremo durare la sperequazione tributaria e quella ancor più grave della legislazione doganale e della politica commerciale, noi non saremo grande paese di 33
milioni di abitanti, ma un piccolo stato, grande quanto il Belgio e l’Olanda, che sta ai piè delle Alpi, una popolosa colonia di sfruttamento,
che si estende lungo l’Appennino e il mare».
L’intonazione della politica economica, liberista prima del 1887 e
protezionista poi, ebbe un ruolo nel determinare i fattori strutturali sui
quali si sviluppò il divario. Attorno al tema del divario iniziale è tuttora in corso una battaglia (accanita quanto quella attorno al corpo di
Patroclo). Ma il problema, a me pare, non è se e quanto fosse il divaLezione Rossi-Doria 2013
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Questione meridionale e questione nazionale
Adriano Giannola
rio nel prodotto pro capite, bensì il fatto – sul quale è difficile trovare
pareri discordanti – che, dopo un ventennio di sostanziale stabilità, esso
andò progressivamente aumentando, accelerando a cavallo della
Grande Guerra, per superare i 50 punti percentuali alla fine del secondo
conflitto. In altri termini, la storia unitaria è la storia dell’emergere e del
consolidarsi di quei caratteri che fanno dell’Italia un paese profondamente dualistico. Il fatto che al divario economico corrisponda il convergere di indicatori sociali (alfabetismo, infrastrutture, mortalità infantile, speranza di vita alla nascita, ecc.), segnala proprio la forza del
meccanismo che condiziona lo sviluppo economico pur in presenza
dell’azione compensatrice dell’unificazione istituzionale che riesce solo
ad attenuare le conseguenze sociali dello sviluppo dualistico.
Alle diverse, ma complementari interpretazioni socio-politiche del
divario di Gramsci (1926) e di Romeo (1959), Saraceno (2005)
aggiunge fattori strutturali i quali, in carenza di adeguati correttivi,
nel lungo periodo concorrono alla “emarginazione dipendente” (coloniale) del Sud.
Oltre alla politica doganale, infatti, il rapido sviluppo della rete
ferroviaria espone quel che resta delle fragili imprese locali alla concorrenza della componente più dinamica dell’apparato produttivo.
Inoltre, anche il differenziale di costo delle fonti energetiche rappresenta un formidabile ostacolo all’industrializzazione meridionale. Il
Sud, con un potenziale idroelettrico pari al 10% di quello nazionale,
deve necessariamente affidarsi alle centrali termiche con la conseguenza che, in assenza di qualsiasi perequazione, il prezzo di offerta
dell‘energia, al Nord è «[…] pari alla metà e anche a un terzo dei
prezzi correnti nel Sud» (Saraceno, 2005).
Alla luce di ciò si può comprendere quanto contraddittorio e delicato possa essere anche l’avvio di un effettivo processo di sviluppo.
Quando dal 1950 si avviò con decisione la cosiddetta fase della preindustrializzazione della Cassa per il Mezzogiorno, l’afflusso di
risorse pubbliche, mai prima sperimentata in quella misura, favorì
attività manifatturiere tradizionali di microimprese e botteghe artigiane che proliferarono in un mercato ancora sostanzialmente isolato.
Proprio il rapido processo di creazione di un mercato nazionale che
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Adriano Giannola
Questione meridionale e questione nazionale
accompagna l’intervento infrastrutturale determinò, nel decennio successivo, la pesante selezione in concomitanza e non per effetto dell’avvio della politica di industrializzazione esterna centrata su investimenti diretti nei settori dell’industria di base. La situazione per le attività locali è paragonabile all’eliminazione progressiva di barriere
doganali. Le imprese in assoluto meno competitive subiscono la concorrenza non certo dei grandi impianti di nuovo insediamento, bensì
delle piccole e medie imprese settentrionali, attratte dal crescente
spessore di quel mercato e dalla riduzione dei costi unitari di commercializzazione che la politica di infrastrutturazione consente di realizzare (Hytten e Marchioni, 1970). L’Autostrada del Sole che in
pochi anni unisce Napoli a Milano ne è il simbolo ben concreto. Per
contro, proprio la creazione in loco di presidi industriali esterni frena
prima e rovescia poi il processo di erosione dell’occupazione manifatturiera locale che una pura politica di infrastrutturazione avrebbe
continuato ad alimentare (Del Monte e Giannola, 1978).
3. Passato prossimo
Le vicende del “miracolo economico” consentono una lettura
costruttiva del nostro dualismo, particolarmente utile da riconsiderare
oggi a fronte delle “asimmetrie” territoriali che il Paese continua a
manifestare.
L’assoluta arretratezza del Mezzogiorno fu allora infatti il fulcro
su cui fece leva la strategia di sviluppo nazionale e che nel 1957 consentì di entrare in Europa, applicando la linea neomeridionalista di
politica di sviluppo.
Risolta nel 1946 la questione istituzionale (Barucci, 1975), la priorità di far fronte alle acute tensioni sociali del Sud contadino e bracciantile imposero un radicale cambiamento, sollecitato anche
dall‘esterno (soprattutto dal nuovo partner statunitense), decisivo per
far sì che le tesi neomeridionaliste ricevessero sia pur gradualmente
sempre più attenzione. Come noto, l’azione si articolò in due riforme
strutturali (riforma agraria e istituzione della Cassa per il Mezzogiorno) decisive per la dissoluzione del vecchio blocco storico e per
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Questione meridionale e questione nazionale
Adriano Giannola
avviare il Paese, con la “modernizzazione“ del Sud, verso il miracolo
economico degli anni Sessanta. Punti chiave del neomeridionalismo,
così come emergono dal dibattito di quegli anni, sono:
a) riforma agraria che punta ad incrementi di produttività capaci,
al contempo, di aumentare la produzione di beni salario e di liberare
dalla terra forza lavoro da reimpiegare per lo sviluppo dell‘occupazione industriale nel Nord.
b) avviare al Sud una politica attiva di industrializzazione per fare
uscire il Mezzogiorno dalla sua arretratezza economica e sociale radicando in loco fattori dirompenti di modernità.
c) intervento dello Stato volto a modificare le convenienze dei privati così da rendere profittevole la localizzazione di nuovi investimenti nel Mezzogiorno.
Le imprese a Partecipazione statale, sia in funzione antimonopolista (caso della chimica di base) sia come strumento diretto di politica
industriale, sono, assieme alla Cassa, il braccio operativo di questa
strategia.
Meno di due decenni di interventi e il Mezzogiorno è ben diverso
dall’immagine tramandata dal meridionalismo classico, specie con
riferimento a due tratti caratteristici della società meridionale: il suo
ruolo passivo e il suo stato di sostanziale emarginazione e di miseria.
Per la prima volta dall’Unità, tra il 1957 e il 1974, si realizza un
significativo processo di convergenza dell’economia meridionale
rispetto alle medie nazionali. Il divario relativo si riduce di oltre dieci
punti per effetto sia delle migrazioni interne che del rapido aumento
della produttività dei fattori (Del Monte e Giannola, 1978).
Per un ventennio il Sud diviene protagonista sulla scena economica del Paese. La sua presenza si palesa con il fiume di immigrati
che lo sviluppo industriale attrae al Nord e con il parallelo intenso
procedere di un’industrializzazione esterna che accompagna e alimenta il processo di integrazione e di costruzione di un mercato
nazionale. Mutano in conseguenza anche i modelli e i valori della
società locale sempre più simili a quelli della parte più sviluppata del
Paese.
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Adriano Giannola
Questione meridionale e questione nazionale
La convergenza si interrompe a metà anni Settanta per riprendere,
debole e breve, molto dopo, dal 1998 al 2003 ma, in questo caso, per
il forte rallentamento che l’economia del Centro Nord manifesta con
l’avvio dell’Unione Monetaria.
La convergenza “vera” è quindi il portato di un’intensa politica
dell’offerta che corre sulle gambe dell’intervento infrastrutturale e
delle fasi più intense (1959-1965 e 1969-1973) della politica attiva di
industrializzazione. Essa è centrata inizialmente sul tanto criticato sviluppo dei settori di base che, in realtà, è parte fondamentale di una
strategia di politica industriale nazionale che utilizza accortamente le
deroghe a favore del Mezzogiorno inserite in un paragrafo del Trattato di Roma del 1957.
Le resistenze all’industrializzazione propugnata dai neomeridionalisti sono vinte infatti dopo l’avvio del Mercato comune europeo.
All’insegna del riequilibrio territoriale, per iniziativa diretta delle
imprese a Partecipazione Statale, si realizza quell’industria di base
che risulterà strategica per i successi delle imprese esportatrici (complesso tessile, meccanico e automobilistico). Sotto il nome della politica regionale si realizza in realtà una politica di infant industry, formalmente esente da quegli elementi protezionistici resi ormai impraticabili dal trattato di Roma appena sottoscritto.
In questa fase, le esigenze dello sviluppo industriale del Sud sono
coincidenti e certo subordinate a quelle più complessive dell’industria
nazionale (Saraceno, 1962). Successivamente (dal 1969 al 1973) il
Mezzogiorno sperimenta un secondo periodo di intensa accumulazione industriale per effetto di un imponente decentramento produttivo in settori manifatturieri delle seconde lavorazioni (industria meccanica, elettronica, aeronautica, farmaceutica, mezzi di trasporto). Si
attivano allora quegli effetti indotti che erano stati impropriamente
teorizzati per la fase degli investimenti nell’industria di base. Le
imprese locali segnalano una notevole vivacità proprio nei settori nei
quali sono più intensi gli investimenti esterni (Giannola, 1986). Protagonisti, più che le Partecipazioni statali, sono ora i gruppi privati e
multinazionali oltre ad una consistente schiera di piccoli e medi
imprenditori delle aree forti del Paese.
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Questione meridionale e questione nazionale
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Per la prima volta, per una stagione brevissima, sviluppo locale e
industrializzazione esterna manifestano un’intensa e rilevante capacità
di alimentarsi a vicenda e di attivare un circolo virtuoso che dall’economia proietta i suoi riflessi sulla società.
A metà anni Settanta il Mezzogiorno può considerarsi un sistema
industriale in consolidamento con molti tratti di fragilità e macroscopiche inefficienze, ma con una base identificata di vocazioni e di
potenzialità.
Questo patrimonio verrà sostanzialmente minato nel decennio successivo e drasticamente ridimensionato (ma non cancellato) dal processo di deindustrializzazione che si avvia a metà degli anni Ottanta.
Tuttora il Mezzogiorno conta numerosi impianti produttivi mediograndi che, paradossalmente, ne fanno un’area di particolare insediamento di quel che resta dei grandi impianti in Italia.
La crisi conseguente al crollo del sistema monetario di Bretton
Woods ed ai due shock energetici del 1974 e del 1979 pone all’Italia
l’esigenza di un aggiustamento strutturale che, per le scelte effettuate,
segna la fine delle politiche attive di sviluppo per concentrare le
risorse sulla priorità di ristrutturazione dei gruppi industriale al Nord.
Alle politiche dell’offerta nel Sud si sostituisce una politica di trasferimenti a sostegno della domanda. Strumentalmente, si argomenta che
il sostegno del mercato interno avrebbe alimentato uno “sviluppo
autopropulsivo” ritenuto ormai maturo al Sud (Censis, 1981, D’Antonio-Iter (1985), Lizzeri (1979), Imbriani (1987), Sylos Labini (1985)).
In realtà il sostegno della domanda si risolse in un importante fattore
anticiclico a favore delle imprese centro-settentrionali leader nel mercato nazionale. Sono infatti gli anni nei quali, anche grazie alle svalutazioni competitive del cambio, alla crisi e ristrutturazione delle
grandi imprese, corrisponde il fiorire dei distretti industriali centrosettentrionali: un modello che la fragile compagine di piccole imprese
del Sud è invano sollecitato ad emulare (Il Manifesto, 1998; Becattini,
2001; Graziani, 1993).
L’abbandono della linea “offertista” ha effetti devastanti. Fallita la
missione di un impossibile sviluppo autopropulsivo, il Sud torna ad
essere un sistema “a parte” ma assistito, sinonimo quindi di assorbi12
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Questione meridionale e questione nazionale
mento improduttivo di risorse, nel quale si sedimentano e si concentrano storture e vizi capitali della società italiana.
La tesi dello sviluppo endogeno, irrazionale perché irrealistica, è
decisiva per liquidare la politica di industrializzazione esterna rimpiazzata dal sostegno assistenziale ai redditi delle famiglie e delle
imprese dell’area. La fiscalizzazione degli oneri sociali e contributivi
diviene una delle voci più significative e onerose dell’intervento pubblico (Giannola e Lopes, 1992; Del Monte e Giannola, 1997).
L’illusione autopropulsiva, così, oltre a fallire impone un costo alle
finanze pubbliche crescente e alla lunga insostenibile.
Nel 1992 la liquidazione per decreto dell’intervento straordinario,
la repentina cancellazione della fiscalizzazione e l’interruzione di
interventi specifici corrisponde a un sentire comune che evoca una
“questione settentrionale” alla quale dà voce il redivivo LombardoVeneto; essa rivendica il diritto ad una riappropriazione di risorse fondato su una pretesa impropriamente federalista che riscuote credito
anche presso autorevoli meridionalisti (Giannola, 2002).
La crisi verticale nella quale precipitano le imprese locali trascina
con sé il sistema bancario meridionale a partire dal Banco di Napoli
(Giannola, 2004) ed alimenta una dilagante disoccupazione di massa.
Solo nel 1998 l’emergenza trova risposta nella cosiddetta Nuova programmazione che ripropone la filosofia di sviluppo autopropulsivo
supportata dalla bardatura di un intervento pubblico iperlocalistico ed
intriso di didascalico dirigismo. Nasce la “stagione pattizia” con le
sue procedure di regolazione minuziose tese ad educare gli “agenti”
di un Sud povero di capitale sociale al virtuoso trittico distrettuale
“fiducia-concorrenza-cooperazione”. A consuntivo i conti non tornano
e le “variabili di rottura” (prosaicamente l’impiego di forza lavoro)
che avrebbero dovuto lanciare la crescita del Sud rimangono del tutto
inerti (Barca, 2009). Quanto al capitale sociale, il risultato più evidente dopo venti anni di terapia è il rafforzamento del cosiddetto
“black capital”, cioè di quella componente del patrimonio relazionale
tendenzialmente distorto quando non perverso del quale il Sud è storicamente tanto più ricco quanto più langue l’economia (e che via, via
viene esportato con crescente successo al di là del Garigliano).
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Questione meridionale e questione nazionale
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Il 1998 inaugura anche la stagione dei Fondi strutturali europei.
Con un doppio salto mortale l’Italia contribuisce al bilancio Comunitario per riceverne indietro una parte destinata alla convergenza delle
Regioni del Sud. Il rimpatrio delle risorse salta lo Stato ed è appannaggio diretto delle Regioni che con molta lentezza programmano una
spesa ancor più lenta. Il ricorso a improvvisati “progetti sponda” si
rende sistematicamente necessario per evitare la restituzione delle
somme non spese. Dell’ambizioso incipit delle “cento idee” di Catania
resta solo un generale, silente senso di frustrazione ed un imponente
apparato burocratico: un caso di scuola degli effetti perversi prodotti
dall’applicazione di una terapia che si ispira ad una diagnosi errata.
Il vero lascito della nuova programmazione è di aver esternalizzato, attraverso i Fondi europei, il problema Mezzogiorno, ora non
più oggetto di politiche nazionali. Lo sviluppo dato in outsourcing
rende ancor più estraneo il beneficiario rispetto alle vicende del resto
del Paese e, simmetricamente, i pessimi risultati a consuntivo alimentano l’insofferenza del Paese rispetto alla Questione.
Con il progressivo ritorno alla marginalità, al Sud rimane il ruolo
di ricco mercato di sbocco mentre la fragile struttura produttiva consolida per default il suo contributo al sommerso e ad un’economia
illegale (al netto di quella criminale) nella quale miriadi di imprese
terziste alimentano la non proprio fiorente economia emersa distrettuale. Ma anche questi ruoli rischiano di essere travolti dalle vicende
della crisi.
4. Oggi, alle radici della crisi
Il nuovo secolo si apre in Italia con il dibattito sull’esistenza o
meno del declino nazionale. Quesito rapidamente travolto dall’evidenza di una crisi senza pari messa impietosamente a nudo dal detonatore del nostro irrisolto dualismo (AA.VV., 2004; De Cecco, 2004;
Costabile, 2006; Cipolletta 2007).
Dopo più di un decennio di crescita asfittica, in un quinquennio
(2008-2013), il Pil subisce una pesantissima flessione (-6,9% al Nord,
-12,6% al Sud). In seno all’UE l’Italia perde posizioni su posizioni
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Questione meridionale e questione nazionale
nella classifica della competitività. Il declino investe tutte le regioni, a
partire da Emilia, Lombardia, Piemonte, Toscana, Veneto. E al Sud,
con buona pace delle Agende europee, non c’è segnale di convergenza.
Con il Pil sono anche in caduta drastica gli investimenti fissi. Nell’industria l’accumulazione lorda dal 2008 non copre gli ammortamenti. In sostanza si sta smantellando la base produttiva sia nel comparto delle costruzioni che della manifattura.
La quota del prodotto manifatturiero sul Pil è in contrazione al
Nord e al Sud.
Nonostante la buona performance, le esportazioni, in regime di
austerità fiscale, non compensano la drastica caduta dei consumi
interni determinata in particolare dalla severa contrazione dell’economia al Sud. Si fa via via più evidente che la tenuta del Nord è minata
dal contrarsi del “suo” mercato – il Mezzogiorno – che, molto sottovalutato, rivela ora la sua vitale importanza.
La crisi del comparto manifatturiero (il secondo tra i Paesi della
UE) e l’urgenza di porre un freno a queste tendenze inducono Confindustria a denunciare il rischio di “desertificazione industriale”. Di
qui la richiesta di un’attiva politica industriale con l’obiettivo di far
tornare il settore manifatturiero al 20% del Pil. Questo auspicio pone
un delicato problema distributivo dal momento che al Sud l’indice è
sceso dal problematico 12% a meno del 9%.
Il Mezzogiorno brilla per le sue asimmetrie, congiunturali e strutturali che segnano decisamente le prospettive dell’intero sistema.
La caduta verticale del Pil è strettamente riconducibile agli effetti
molto più pesanti al Sud delle manovre restrittive adottate dalla strategia dell’austerità. La sequenza è molto evidente: austerità – progressivo smottamento produttivo al Sud – effetto di trascinamento al
Centro Nord.
La disoccupazione di massa si concentra nel Mezzogiorno che,
con il 27% degli occupati, registra il 60% del milione di posti di
lavoro persi nel periodo 2008-2013; il tasso di disoccupazione “effettivo” sfiora il 30% (21% quello ufficiale) contro il pur elevatissimo
14% (12% ufficiale) del Centro-Nord (Svimez, 2011, 2012, 2013).
Ammesso (e non concesso) che l’austerità consenta di mettere i
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Questione meridionale e questione nazionale
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conti in ordine e di scongiurare ulteriori manovre, quale è la prospettiva? La (ipotetica) quiete conseguita dall’Austerità prelude ad un
“equilibrio naturale” (secondo il gergo della Nuova macroeconomia
classica (Nmc)) caratterizzato da un avanzo primario attorno al 5% del
Pil e da una ipotesi di crescita nazionale attorno all’1% che, articolata
territorialmente, non esclude una probabile ulteriore flessione al Sud e
una mediocre crescita del Centro Nord. Una simile condizione nel
medio lungo termine consolida il tasso di disoccupazione (“naturale”
per la Nmc). Un risultato socialmente insostenibile in generale e nel
nostro caso in particolare visto che deve fare i conti con l’effetto territoriale diversificato di una ripresa di così modeste proporzioni.
Potremmo aspettarci, ed i segni già ci sono, che si continui a ipotizzare
un controllo di questa crisi ed in particolare della disoccupazione di
massa invocando il ricorso ad un’ulteriore “riforma strutturale” del
mercato del lavoro. Una disperata insistenza sull’errore di considerare
la disoccupazione come l’effetto della rigidità, o non si sa che altro,
dell’offerta di lavoro. Occorre schiodarci rapidamente dal rischio di
restare intrappolati in questo insostenibile “equilibrio naturale”.
In assenza o in attesa di una virtuosa, necessaria conversione della
UE si rende indispensabile avviare una politica economica che non si
limiti ad offrire una cornice di condizioni favorevoli affidate ad ulteriori “svalutazioni interne”, a fantasiose liberalizzazioni e a dosi di privatizzazioni nella fiduciosa attesa di uno spontaneo risveglio di “spiriti
animali”. Continuare ad affannarsi con la retorica delle riforme per la
manutenzione di un sistema strutturalmente fuori fase rappresenta un
pericoloso indugiare rispetto all’esigenza di individuare un percorso
sull’impervia strada del controllo e dell’uscita dalla crisi.
A questo scopo occorre avere piena consapevolezza del vincolo
formidabile rappresentato dalle “asimmetrie” che condizionano la crescita del Paese e che, se oggi rappresentano un freno, possono,
domani, essere trasformate in concrete opportunità di sviluppo. Pensare di uscire dalla crisi continuando a esorcizzare questo problema,
fidando invece di sterilizzarlo con il cordone sanitario dei fondi strutturali rappresenta un grave errore che condanna al contempo sia il
Sud che il Nord.
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Questione meridionale e questione nazionale
5. Euro e dintorni
Il declino italiano precede il 2008; l’esaurirsi della spinta propulsiva della nostra economia va in parallelo all’avvento del cambio
fisso che prelude all’Unione monetaria. Senza la stampella della svalutazione, la perdita di competitività (il declino) intacca progressivamente il vantaggio competitivo che era stato recuperato solo grazie
alla “concertazione” (blocco salariale) ed alla massiccia svalutazione
che seguì tra il 1993 ed il 1995 la crisi finanziaria del 1992 quando
(complice la riunificazione tedesca del 1989) si ebbe il clamoroso fallimento del nostro ingresso (1987) nella banda stretta dello Sme. A
temperare il declino non hanno aiutato ben tre “svalutazioni interne”
(pudiche etichette degli interventi sul mercato del lavoro). Una
assenza totale di strategia e di politiche industriali ha invece fatto sì
che il sistema delle nostre imprese (piccole quando non minime e
finanziariamente fragili) si sia semplicemente adattato a lucrare un
sollievo di breve durata (Graziani 1972; 1997).
La fragilità dell’economia, il rispetto dei vincoli del patto di stabilità, la crisi finanziaria che si rovescia sull’economia reale rendono a
dir poco problematico il percorso italiano nell’era dell’euro, reso
ancor più difficile dalla terapia prescelta dopo il 2007 (quella dell’austerità), che lungi dal conseguire gli obiettivi auspicati, anno dopo
anno ha ottenuto risultati sempre inferiori alle attese.
Se pensare a smarcarsi dall’euro in un contesto come quello dell’Unione Europea, risponde ad una tentazione tanto istintiva quanto
semplicistica e senza prospettive, è al contempo vero che in assenza
di una correzione di rotta, la deriva in atto non lascia molto spazio se
non ad una soluzione finale traumatica per l’intero eurosistema.
Il problema della nostra sempre più difficile permanenza nell’Ume non è la valuta in sé, bensì quello di porre mano con decisione
a ciò che manca e continua a mancare, e cioè l’accompagnamento che
sul versante fiscale e di politiche di bilancio l’Unione Europea non è
stata in grado di realizzare per governare le tensioni che l’instaurazione di un’area valutaria decisamente e notoriamente non ottimale
avrebbe innescato. Contro ogni logica, al contrario, dopo aver
costruito con estrema cura una gabbia di vincoli tesi ad evitare free
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riding e moral hazard si sono lasciati i prigionieri in gabbia in balia
degli effetti di questa non ottimalità valutaria.
La crisi e l’austerità a salvaguardia dei “patti”, hanno poi ridotto
progressivamente gli spazi di sopravvivenza determinando anzi le
condizioni per prolungare e acuire gli effetti della recessione. A ciò ha
contribuito non poco anche la “logica di Basilea”. Questa, che è la
versione creditizia del modello di austerità fiscale, si aggiunge con le
sue regole procicliche più volte modificate e sempre in senso restrittivo, così da innescare una micidiale rincorsa tra deterioramento delle
posizioni, esigenze di patrimonializzazione bancaria ed inesorabile
contrazione delle risorse disponibili per accompagnare una sofferente
economia reale.
In assenza di un cambiamento di rotta, la prospettiva di una implosione del sistema è più che realistica. Ciò non toglie che, almeno nel
nostro caso, a trarci d’impaccio non può essere certo una scelta unilaterale, bensì di sistema.
L’euro-sistema si trova di fronte ad un bivio: arretrare ad una
forma di unione monetaria temperata (in sostanza una riedizione riveduta e corretta dello Sme, adombrata dall’ipotesi di un euro a due
velocità) o, al contrario, rilanciare con lo sviluppo la convergenza
delle economie reali mobilizzando un flusso di trasferimenti compensativi finalizzati ad interventi strutturali che solo una politica fiscale
dell’Unione e non dei singoli stati, può realizzare. Sono gli estremi
possibili: nel primo caso prevale una scelta difensiva tesa a salvaguardare il patrimonio di “comunitarismo” bene o male finora accumulato, dando spazio e tempo (o rinunciando definitivamente) a quel
salto politico che, dopo la bocciatura della costituzione europea, non
si è riusciti nemmeno a mettere in cantiere. L’altra opzione, all’opposto, rappresenterebbe la scelta di fare il “salto politico” e dare così
contenuto effettivo al termine Unione. Non è da escludere l’approdo
ad una combinazione tra le alternative (mantenere l’euro e allentare
progressivamente i vincoli attraverso l’avvio di una graduale politica
di bilancio dell’Unione e la creazione di un debito pubblico comunitario): un compromesso auspicabile alla cui alchimia complessa affidare la difficile scelta della combinazione rischio-rendimento implicita quale che sia il percorso intrapreso.
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Adriano Giannola
Questione meridionale e questione nazionale
6. Le aree valutarie ottimali e il Mezzogiorno. La lunga storia
continua
In attesa, il nostro declino e l’attuale crisi impongono comunque di
considerare il nesso tra regime monetario dell’Unione e il nostro dualismo. Un problema, non nuovo, che richiama alla memoria un
aspetto remoto, trascurato ma non per questo trascurabile, della
vicenda unitaria.
Il rinvio è al tema delle Aree valutarie ottimali (Avo) (Mundell,
1961; Kenen, 1969) molto dibattuto in occasione dell’avvento dell’Ume e che, nel nostro caso, in virtù del persistente dualismo, presenta profili alquanto peculiari.
Come si è detto, di norma l’Avo considera gli effetti differenziati
(appunto asimmetrici) su parti di un sistema sottoposto ad uno shock
esogeno e non c’è dubbio che l’Unificazione del Paese sia stato uno
shock esogeno, ormai lontano, che portò ad un’area valutaria (la lira)
non certo ottimale. Occorre quindi distinguere tra shock di natura
strutturale (caso dell’unificazione) e shock di carattere congiunturale
ai quali di norma si riferisce l’Avo. Nel breve termine, cioè per shock
di natura congiunturale, la preclusione dell’aggiustamento del cambio, attiva meccanismi più o meno automatici di riequilibrio, che tendono ad eliminare la causa dello shock senza produrre effetti strutturali. Nell’impossibilità di correzioni affidate alla manovra valutaria, la
“cura naturale” della non-ottimalità sta nella mobilità dei fattori che,
di fatto, si traduce in quella del lavoro.
L’intensità dell’aggiustamento può essere temperata e variamente
controllata attraverso trasferimenti compensativi da parte del Governo
centrale, indipendentemente dalla natura federale o meno dello Stato.
Se le perturbazioni non sono semplici shock congiunturali, in tal
caso emigrazione e trasferimenti compensativi divengono un aspetto
strutturale, di contesto, ai quali si potrà aggiungere con varia intensità
l’interferenza degli shock congiunturali.
L’emigrazione, oltre al trasferimento fisico della forza lavoro e,
quindi, alla riduzione della pressione sulle risorse è importante anche,
e forse di più, per il contenuto implicito di trasferimenti privati generati dalle rimesse degli emigranti. Questo aspetto fu essenziale fino a
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Questione meridionale e questione nazionale
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tutti gli anni Sessanta per finanziare lo squilibrio della nostra bilancia
di parte corrente.
Il persistere di fattori strutturali di squilibrio richiede necessariamente di definire se e a quale livello traguardare le politiche di contrasto rese necessarie al fine di evitare il rischio di reazioni tali da
determinare una soluzione per “eutanasia” del problema. Che il caso
non sia irreale lo evidenzia l’esperienza italiana dell’ultimo ventennio, periodo in cui la peculiare selettività e dinamica dell’emigrazione
prospetta una progressiva erosione demografica del Mezzogiorno.
Dunque, se il fattore di perturbazione è strutturale, si pone il problema della regolazione di flussi di emigrazione compatibili alla
riproduzione e, di conseguenza, di definire in che misura e per quali
finalità sia necessario assicurare adeguati trasferimenti compensativi.
Non è il caso di entrare nell’analisi delle diverse fasi della gestione
“nazionale” della “non-Avo” italiana se non per ricordare che l’unico
periodo nel quale emigrazione e trasferimenti compensativi furono in
grado di stabilizzare ed anzi rovesciare il trend alla divaricazione fu
quello della Cassa per il Mezzogiorno durante gli anni della industrializzazione.
L’Euro non ha certo fatto sparire, con la lira, la non ottimalità
valutaria tra Nord e Sud. Al contrario esso instaura una non ottimalità
non unicamente per il Sud ma anche per il resto del Paese che pure si
colloca sul versante della parte svantaggiata, nonostante che, grazie
all’euro, il sistema Italia abbia fruito di una inflazione ridotta e di
altrettanto contenuti (fino al 2011) tassi di interesse sul debito
sovrano. Stante il nostro problema territoriale, il problema della “nonAvo” per il Sud mantiene, per così dire, un rango comunque superiore
rispetto al resto del Paese. Un aspetto del problema attiene proprio
alle classiche forme di contrasto, prima tra tutte la valvola del mix
emigrazione-trasferimenti la cui rilevanza diviene macroscopicamente
più consistente e penalizzante in funzione dei vincoli (patto di stabilità, debito/Pil e deficit/Pil).
Coeteris paribus, gli effetti negativi della non ottimalità valutaria
si accentuano in particolare per le aree deboli, proprio rendendo più
difficile governare l’alternativa tra esodi migratori adeguati e trasferi20
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Adriano Giannola
Questione meridionale e questione nazionale
menti compensativi, salvaguardando al contempo l’equilibrio demografico dell’area debole. Tanto più negativi sono gli effetti, quanto più
l’area debole non sia in grado di “convergere”. Si potrebbe infatti
immaginare che la politica regionale dei Fondi europei previsti dalle
varie Agende sia stata formulata (non casualmente a partire dal 1998)
anche per rispondere alle sfide di questo squilibrio strutturale. Ma in
tal caso l’esperienza non conferma l’efficacia di questa scelta e, anzi,
ci evidenzia il suo fallimento. Nell’esperienza italiana, lungi dal crescere, il flusso globale dei trasferimenti (nazionali e comunitari) verso
il Sud si è significativamente ridotto laddove è certamente accresciuto
lo svantaggio strutturale (i dati dell’economia lo confermano ampiamente) imposto dalla non ottimalità cumulata dell’area valutaria. Non
a caso, la valvola migratoria attivata da questa asimmetria ha funzionato in misura molto intensa sia selettivamente che in assoluto. Oltre
400.000 è il saldo migratorio dal Sud al Nord tra il 2001 e il 2011 con
un 70% di giovani sotto i 35 anni ed un 25% di laureati. Sulla base di
questa dinamica, le prospettiva al 2065 è una perdita di oltre quattro
milioni di residenti meridionali alla luce delle modifiche in atto nella
struttura della piramide demografica. Lo svuotamento progressivo
delle classi giovani (e più scolarizzate) pone infatti su solide basi la
previsione che rapidamente il Mezzogiorno diventi l’area vecchia (e
di conseguenza a più forte necessità di assistenza) del Paese.
Nell’ottica del “bicchiere mezzo pieno” si potrebbe dire che questo trend, ammesso che lo si riesca a perpetuare senza insostenibili
contraccolpi sociali e ovviamente finanziari, consentirebbe di liquidare la storica Questione nazionale legittimando così lo slogan che “il
meridionalismo è morto”.
7. Politica di convergenza, il teorema di impossibilità per il Sud
Dalle pacifiche considerazioni sulla non ottimalità dell’area valutaria nella quale siamo immersi, deduciamo che i nostri addetti ai
lavori hanno commesso imperdonabili errori nel soppesare i pregi e i
difetti della cosiddetta politica di convergenza dell’UE. Non si può
dubitare che finora gli effetti delle tre agende susseguitesi dal 1998
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Questione meridionale e questione nazionale
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siano stati molto deludenti, oggetto perciò di aspre critiche che si
sono concentrate sulla gestione da parte delle nostre regioni. Ma le
sacrosante critiche sulle pochissime virtù delle sempre citate classi
dirigenti meridionali non legittimano il velo pietoso steso sull’impossibilità di realizzare la convergenza alle condizioni date, e ben note,
della politica di convergenza.
Il tema non è secondario perché, con l’alibi delle risorse comunitarie, si sono nei fatti ridotte le risorse ordinarie alle quali esse dovevano invece aggiungersi. I mancati risultati in termini di convergenza
sono ben evidenti: al danno si aggiunge poi la beffa dell’effetto cloroformizzante e reputazionale di questa esperienza in virtù del quale
da venti anni il nodo del dualismo viene stralciato e affidato alle cure
dei Fondi Europei. L’ansia di stralciare il “problema Sud” dal quadro
delle politiche nazionali è ingiustificato e molto pericoloso. Sarebbe
auspicabile attendersi che chi è chiamato a gestire e valutare queste
politiche, finora accettate acriticamente, sviluppi una critica serrata
all’impostazione ed alla logica di fondo che le caratterizza.
La filosofia della politica regionale europea, non solo non tiene in
alcun conto la non ottimalità dell’area valutaria ma, al contrario, ne
peggiora drammaticamente gli effetti nella misura in cui si propone di
perseguire senza qualificazioni (fiscali, valutarie, ecc.) l’obiettivo
della competitività tra territori. Ne consegue, nel nostro caso specifico, il paradosso che trasferimenti assegnati alle aree problematiche
concorrono invece potentemente ad alimentare l’impatto della non
ottimalità esasperandone i molteplici fattori (quello fiscale in primis)
che amplificano l’immanente e persistente effetto distorsivo.
La promozione della competizione tra territori svantaggiati potrebbe essere più che inappropriata in assenza di una qualsivoglia omogeneità di “contesto”, non locale, bensì comunitario nel quale avviene la
competizione. È stupefacente che ci sia un vuoto assoluto di analisi su
questo tema che rappresenta il punto di partenza essenziale per calibrare (al netto di ben individuati “rendite e/o oneri impropri”) la politica “dell’offerta” di fondi e di aiuti.
In aggiunta, dal 2004, con il cosiddetto allargamento, le cose peggiorano ulteriormente. Diviene perciò ancor più inspiegabile il
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Questione meridionale e questione nazionale
conformismo acritico dei nostri “esperti”, quasi che la politica della
convergenza operi nel vuoto. Non solo l’area valutaria unica non è
ottimale, ma l’eterogeneità tra i 27 Paesi è ulteriormente accresciuta,
con regimi fiscali strutturalmente differenziati, con un patto di stabilità che “morde” per alcuni ma non per altri e con la possibilità per
alcuni (quelli in attesa condizionata di ingresso nell’euro) di sfruttare
anche una limitata possibilità di manovrare il cambio. La rassegna di
questi molteplici aspetti distorsivi ci restituisce uno scenario che per
le regioni italiane della convergenza (ben al di là dei loro demeriti)
risulta drammaticamente penalizzante (Barucci, 2011). C’è da chiedersi come sia seriamente possibile immaginare che anche la più efficiente gestione delle risorse retrocesse alle regioni italiane dalla UE
possa sia pur parzialmente compensare il crescente divario di competitività intrinsecamente generato da questo contesto accidentato. Ciò è
poi tanto più grave per il fatto che (anche in prospettiva), oltre il 60%
dei fondi europei per la convergenza è destinato proprio alle regioni
di quei Paesi che godono dei privilegi che rappresentano i tratti per
noi più penalizzanti.
Sarebbe stato auspicabile che accanto al lamento sulla carenza di
“capitale sociale” e sull’uso “estrattivo” delle Istituzioni e delle
“classi dirigenti” si fosse prodotta un’argomentata analisi tesa a chiarire le regole per rendere accettabile il “campo di gioco”. In carenza,
al momento, del coraggio di proporre l’abolizione della farraginosa
retorica delle politiche di convergenza, potremmo almeno iniziare da
questa modesta pragmatica proposta. Certo essa è tardiva dopo 18
anni di unione monetaria; ma, come suol dirsi, non è mai troppo tardi.
8. Prospettive
Le “asimmetrie” che legano al Sud le possibilità di ripresa economica del Nord segnalano quanto sia di vitale importanza definire le
linee di una strategia che consenta al sistema di uscire dall’“equilibrio
naturale” nel quale si è arenato. Questa azione potrà avere tanto più
successo quanto più sarà in grado di rimettere il Sud nel circuito dello
sviluppo con una funzione propulsiva: una grande regione d’Europa,
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Questione meridionale e questione nazionale
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vocata a giocare un ruolo da protagonista nella realizzazione di una
direttrice mediterranea di sviluppo dell’Unione.
L’hic et nunc è capire quale politica dell’offerta va fatta per rimettere in moto una domanda qualificata di forza lavoro. In questo contesto il dilemma non si risolve con l’auspicio manicheo di più Stato o
di più Mercato, con le liberalizzazioni, la sburocratizzazione ecc. che,
certo utilissime, non possono che fare da cornice a un progetto. Se
manca il progetto serve a poco costruire cornici. Gli anni Cinquanta e
Sessanta con molta più burocrazia e statalismo, sono stati gli anni del
miracolo economico, e non prendiamoci in giro spacciando la Corea,
il Vietnam per economie liberiste; è vero il contrario, per non parlare
poi della Cina.
Il dilemma di un fisiologico rapporto Stato-Mercato si risolve
nella capacità di elaborare e gestire progetti condivisi e, responsabilmente, di attuarli. Nel caso italiano il pubblico ha la responsabilità
maggiore per delinearne le linee e, quindi, per dare indicazioni strategiche coerenti. La prima di queste indicazioni riguarda proprio il
come far fronte all’emergenza lavoro e impone di interrogarsi sul
ruolo del Mezzogiorno come premessa a qualsiasi volo pindarico sul
“che fare”. E certo non sarà l’ennesima svalutazione interna a risolvere il problema.
Occorre davvero cambiare “verso”.
In tutte le “agende”, finora, il Mezzogiorno è stato affidato alla
tutela dei fondi strutturali europei; in altri termini a una ghettizzazione frutto di un’idea sbagliata che fin dal 1998 ha alimentato il mito
sempre più spento della nuova programmazione. Un errore che non
soltanto ha fatto sprecare risorse, ma ha contribuito a determinare una
situazione complessiva insostenibile.
Su quali fondamenti è possibile attivare il Mezzogiorno in una
coerente strategia nazionale, opposta a quella caldeggiata dall’illusoria exit strategy del federalismo fiscale alla lombarda?
La Svimez elenca da anni i cosiddetti driver dello sviluppo, non
per amore di etichette, ma perché logistica, energia, rigenerazione
urbana, industria, sono tasselli che devono dar vita a quelle che
potremmo definire embedded strategies per realizzare una effettiva
inversione di rotta (Svimez 2011, 2012, 2013).
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Questione meridionale e questione nazionale
I richiami alla green economy, così di moda, hanno un profilo di
business molto coerente alle vocazioni del Mezzogiorno: la logistica,
abbinata alla fiscalità delle Zone Economiche Speciali, può valorizzare adeguatamente la recuperata centralità del Mediterraneo nei traffici mondiali. Un piano energetico, la gestione integrata delle acque e
la rigenerazione urbana sono altrettante tematiche decisive per affrontare l’urgenza di un piano di “primo intervento”, propedeutico e coerente con la ripresa dell’intero sistema nazionale. Nello spirito hirschmaniano di “una cosa che conduce ad un’altra” energia e logistica
conducono alla rigenerazione urbana aprendo una prospettiva vitale
per aree metropolitane in crisi come Napoli e Palermo. Si propone
così una risposta concreta e tempestiva che, nel far fronte al problema
occupazionale e sociale, porta con sé un’edilizia a zero consumo di
suolo, ricerca e innovazione tecnologica e dà finalmente contenuto al
rituale appello alla valorizzazione dei beni culturali, “giacimenti” che
non basta e forse non serve affidare ai tour operators.
In definitiva: le illusioni vanno tolte di mezzo affinché, a fronte di
problemi molto rilevanti e a prospettive allarmanti, si prospettino con
chiarezza opportunità altrettanto rilevanti. Per coglierle ci vogliono
scelte strategiche. Queste tendono a capovolgere oggi, e ancor di più
in prospettiva, relazioni storiche consolidate che coinvolgono la
cosiddetta “area forte” (che oggi non è più forte) e impongono di
guardare con attenzione all’area debole e debolissima nella quale, per
la prima volta nella storia unitaria, sta il cuore delle “nuove” opportunità. Si potrà riprendere così il percorso dello sviluppo, prospettando una realistica, non rinunciataria via di uscita da questa crisi
troppo lunga.
Se non riusciremo ad incamminarci per questi sentieri, dovremo
allora veramente rassegnarci al nostro “equilibrio naturale” ed assistere al progressivo, intenso degrado economico, sociale e demografico delle “regioni della convergenza”, ovvero di tutto il Sud.
Certo risolta così, per eutanasia, la Questione, si dirà che “il meridionalismo è morto” trascurando, temo, di considerare il monito
tutt’altro che formale che da sempre ci prospetta la saggia e cogente
profezia mazziniana.
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Adriano Giannola
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Associazione Manlio Rossi-Doria
Attività 2013
Lezione Rossi-Doria
Questione meridionale e questione nazionale: il meridionalismo è morto?
Adriano Giannola, Svimez e Istituto Banco di Napoli – Fondazione
Introduzione: Michele De Benedictis, Associazione per studi e ricerche Manlio Rossi-Doria.
In collaborazione con il Dipartimento di Economia, Università degli studi
Roma Tre
11 giugno 2013
Incontri di studio
Presentazione pubblica del documento Una politica di sviluppo del Sud per
riprendere a crescere, sottoscritto dagli Istituti meridionalisti
Sala degli Atti Parlamentari del Senato, presso Palazzo della Minerva
6 febbraio 2013
Presentazione del numero 1 – 2013 di QA-Rivista dell’Associazione RossiDoria
Mezzogiorno Tecnologico
A cura di Domenico Cersosimo e Gianfranco Viesti
Interventi:
Gianfranco Viesti, Università di Bari
Discussione:
Flavia Terribile, Ministero dello sviluppo economico, Dps
Coordinamento:
Anna Giunta, Università degli studi Roma Tre
In collaborazione con il Dipartimento di Economia, Università degli studi
Roma Tre
11 giugno 2013
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Questione meridionale e questione nazionale
Adriano Giannola
Presentazione del numero 2 – 2013 di QA-Rivista dell’Associazione RossiDoria
Foreign Acquisitions of Land in Developing Countries. Risks, Opportunities
and New Actors
A cura di Nadia Cuffaro, Giorgia Giovannetti, Salvatore Monni
Presentazione e coordinamento:
Nadia Cuffaro, Università degli studi di Cassino, Salvatore Monni, Università degli studi Roma Tre
Interventi:
Lorenzo Cotula, International Institute for Environment and Development
Norman Messer, International Fund for Agricultural Development
In collaborazione con il Dipartimento di Economia, Università degli studi
Roma Tre
23 ottobre 2013
30
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Impaginazione e stampa: Duemme grafica, Via della Maglianella 65/R - 0166 Roma - Tel. 06-45437273