Rapporti tra ordinamento statale ed ordinamento sportivo

I RAPPORTI TRA GIURISDIZIONE SPORTIVA E STATALE: È
POSSIBILE UN RITORNO AL PRIVATO?
Foro amm. CDS, 2010, 10, 2257
Agatino Cariola
1. Formazioni sociali e ruolo del giudice. — 2. La creazione
dell'ordinamento sportivo nella legislazione del 1942 ed in quella degli
anni '90 dello scorso secolo. — 3. Il vincolo di giustizia a favore
dell'ordinamento sportivo. — 4. Le risposte della giurisprudenza prima
del d.l. n. 220 del 2003. — 5. Il d.l. 19 agosto 2003, n. 220. — 6. I
dubbi di taluna giurisprudenza: il recupero di cognizione ad opera del
giudice amministrativo. — 7. La natura pubblicistica della « parte alta »
dell'ordinamento sportivo in contrasto con gli artt. 2 e 18 Cost. Il
giudice ordinario quale giudice di ed in ogni formazione sociale.
1. Formazioni sociali e ruolo del giudice.
Il pluralismo sociale è considerato uno dei caratteri qualificanti un
ordinamento democratico: è da tempo abbandonata l'idea che a fronte
del potere sovrano dello Stato vi siano solo le situazioni giuridiche
individuali, di modo che il primo sia libero di dare « fondamento » e
« forma » alle seconde; al contrario si ammette che la libertà individuale
non è « vuota », ma si esercita e si svolge nelle relazioni personali e
sociali, cosicché i gruppi sociali che si formano in via spontanea non sono
altro che aspetti e profili della libertà unitariamente intesa. Se prius della
medesima riflessione giuridica diviene la persona attuale e concreta nella
dinamica delle sue relazioni, lo Stato assume un ruolo posterius e
servente rispetto alla stessa persona. Le formazioni sociali ricevono
necessaria legittimazione dal basso — per così dire — della realtà
esistenziale che vede le persone collegarsi tra loro e perseguire interessi
in varie forme associate. Al tempo stesso, tali formazioni « ripetono » la
loro legittimazione dal riconoscimento del valore e della dignità della
persona, id est dei suoi diritti. Si spiega, allora, che l'art. 2 Cost. ponga
assieme riconoscimento dei diritti dei singoli e dei gruppi sociali, in una
formulazione piuttosto sincretica che, per un verso, a mezzo
dell'utilizzazione del verbo « riconoscere », ammette che persone e
formazioni sociali e relativi diritti preesistono allo Stato; per altro verso,
impegna l'insieme dei soggetti governanti a tutelare i diritti dei singoli
anche all'interno dei gruppi, laddove questi possono divenire
particolarmente assorbenti.
1
In altri termini, l'art. 2 Cost. constata l'esistenza di un potere sociale,
anzi di poteri sociali, di modo che il principio costituzionale si fa formula
ma anche « misura » del pluralismo, che è da valorizzare e, talvolta,
persino, da promuovere, specie nei campi in cui i rapporti di forza sociale
possono alterare le condizioni di eguaglianza e vanificare la logica stessa
di « mercati » liberi e concorrenziali anche nei settori delle opinioni e
delle idee, oltre che delle appartenenze.
L'art. 2 Cost. è da questo punto di vista norma quasi « ricognitiva » di
un carattere necessario di ogni ordinamento democratico; essa si lega
all'ispirazione ideale del costituzionalismo, di modo che per definizione
la norma è « aperta » al riconoscimento ed all'affermazione di nuove
situazioni soggettive e/o di profili nuovi di diritti già sanciti, ma avvertiti
quali bisognosi di tutela nella realtà sociale. Come da tempo è stato
notato a proposito del principio di eguaglianza di cui al successivo art. 3,
la constatazione dell'esistente nell'art. 2 Cost. si coniuga pure con una
nota « polemica » nei confronti di realtà avvertite come potenziali pericoli
per la tutela individuale. Da ciò ulteriori conseguenze, tra le quali — per
riprendere un tema diffuso decenni addietro circa la c.d. Drittwirkung —
che la Costituzione è legge della società e non solo dei pubblici poteri: la
distinzione tra Stato-ordinamento e Stato apparato comporta, del resto,
un asservimento di quest'ultimo alle esigenze espresse dalla comunità,
mentre l'attenzione al campo valoriale, tipico della dimensione
costituzionale, discende anche dalla considerazione che a taluni interessi
presta per l'appunto la comunità sociale complessivamente considerata.
La seconda deduzione — anch'essa da tempo rilevata — è che gli stessi
organi pubblici traggono legittimazione dalla società e non
dall'appartenenza allo Stato-apparato: ciò vale anche per il giudice che da
sempre è chiamato a dirimere i conflitti interpersonali anche sulla base
dei valori accolti dall'ordinamento sociale; per questo il giudice è non
solo e non tanto « bocca della legge » statale, ma è tutore dei diritti degli
individui e dei gruppi ed in qualche modo esprime la sensibilità della
cultura contemporanea. In altri termini, il giudice è a tutto tondo organo
dello Stato-ordinamento. La preoccupazione di aprire in tal modo la porta
ad una sorta di « diritto libero », anticamera di nuove tirannie (di
maggioranza e/o di poteri forti) è superata dalla circostanza che i valori
di tolleranza e rispetto delle minoranze, di laicità, di tutela dei diritti
individuali, sono fatti propri al più alto livello costituzionale e sono
pertanto divenuti veri e propri, anzi i più importanti, segmenti normativi.
Il giudice-tutore dei diritti applica assieme tutti tali valori-norme e sotto
2
questo profilo le preoccupazioni che si realizzino « nuovi » assolutismi in
nome di istanze assiologiche paiono doversi superare in considerazione,
per l'appunto, del grado complessivo di pluralismo (altri direbbero
politeismo) sociale. L'idea del giudice quale soggetto-organo dello Statoordinamento non è senza riflessi applicativi in ordine alla conformazione
medesima del suo intervento nelle formazioni sociali, perché comporta
che i limiti eventualmente posti alle decisioni di queste ultime sono
« interni », esprimono valenze sociali diffuse, sono vincoli « autonomi » ed
hanno un carattere di indirizzo ed orientamento per l'attività successiva,
laddove l'immagine del giudice-strumento dell'apparato statale implica
un modello in cui i limiti all'autonomia privata sono (intesi quali) esterni
e costrittivi, veri e propri confini e/o barriere, all'interno dei quali sia
possibile esercitare qualsiasi « dominio ».
2. La creazione dell'ordinamento sportivo nella legislazione del 1942 ed
in quella degli anni '90 dello scorso secolo.
Le notazioni precedenti non sono senza significato a proposito
dell'ordinamento sportivo, che nasce per definizione dall'iniziativa
spontanea di atleti, organizzatori e tifosi. Il fenomeno sportivo è sotto
questo aspetto particolarmente interessante, perché esso prende le
mosse dall'attività individuale, che in alcuni sport si esaurisce in se stessa
ed, invece, in altri si sviluppa in forme aggregative dalle più spontanee ed
occasionali a quelle più strutturate ed istituzionalizzate, sino ad arrivare
alla regolazione di campionati, l'ammissione ovvero l'esclusione dai quali
assume oggi carattere pubblicistico.
Questo è il punto che si dà per assodato e che pure medita di ulteriore
riflessione: un fenomeno che sorge e si sviluppa dall'iniziativa privata ed
assolutamente spontanea, persino occasionale, diventa un fatto di
organizzazione pubblicistica nella sua fase alta, e ciò comporta la
trasformazione del potere esercitato, che da privato si trasforma in
pubblico a tutti gli effetti ed addirittura investe il riparto di giurisdizione,
giacché competente a decidere sul fascio di rapporti inerente a tale fase
non è più la giurisdizione ordinaria che (per definizione, cfr. Corte
costituzionale, n. 204 del 2004) afferma l'esistenza e la « misura » dei
diritti, ma quella — per l'appunto — amministrativa, competente a
sindacare lo svolgimento del potere pubblico ed a conoscere delle
situazioni giuridiche ricomprese nell'ambigua nozione di interesse
legittimo.
Ciò avviene in nome degli interessi pubblici che sarebbero propri di
tale fase, ma in fondo e più in generale è in applicazione della tesi
3
secondo la quale tutto quello che lo Stato tocca è per definizione
pubblico. Così, la l. 16 febbraio 1942, n. 426, ha istituito il Comitato
olimpico nazionale italiano (C.O.N.I.), (addirittura a quel tempo « alle
dipendenze del Partito Nazionale Fascista »), con i « compiti ...
[del]l'organizzazione ed il potenziamento dello sport nazionale e
l'indirizzo di esso verso il perfezionamento atletico, con particolare
riguardo al miglioramento fisico e morale della razza ». Al Comitato è
stato attribuito, tra l'altro, di « coordina[re] e disciplina[re] l'attività
sportiva comunque e da chiunque esercitata », oltre il « potere di
sorveglianza e di tutela su tutte le organizzazioni che si dedicano allo
sport ». Ne è risultato conseguente configurare le Federazioni dei singoli
sport quali « organi del Comitato olimpico nazionale italiano », in una
visione per l'appunto organicistica abbastanza compiuta.
L'ordinamento sportivo è stato in tal modo fatto diventare parte
dell'ordinamento generale dello Stato-apparato, perdendo la sua
originaria connotazione privatistica, o almeno concretizzando la tesi che
lo Stato possa far diventare pubblici segmenti e/o profili di attività e di
organizzazione tutte le volte che vuole.
La l. 23 marzo 1981, n. 91, inizia sì con il riconoscimento che
« l'esercizio dell'attività sportiva, sia essa svolta in forma individuale o
collettiva, sia in forma professionistica o dilettantistica, è libero », ma
disciplina assieme il rapporto di lavoro degli atleti, assicurando loro
determinate e fondamentali garanzie; la struttura delle società sportive; i
controlli sulle società ed i conseguenti provvedimenti sul regolare
svolgimento dei campionati sportivi da parte delle « federazioni sportive,
per delega del C.O.N.I., secondo modalità e princìpi da questo approvati ».
In un certo senso, potrebbe dirsi che il livello professionistico dello sport
e la gestione dei campionati sono stati individuati quali fasi e/o settori
per definizione pubblici, assoggettati alla disciplina amministrativa a fini
di garanzia dei lavoratori-atleti, ma anche per il regolare svolgimento di
quel servizio pubblico che è lo sport.
Il d.lg. 23 luglio 1999, n. 242, ha riordinato il C.O.N.I., ne ha conservato
la « personalità giuridica di diritto pubblico », ed ha specificato che esso
« è la Confederazione delle federazioni sportive nazionali e delle
discipline sportive associate e [che] si conforma ai principi
dell'ordinamento sportivo internazionale, in armonia con le deliberazioni
e gli indirizzi emanati dal Comitato olimpico internazionale ». L'attività
dell'ente è stata in tal modo fortemente legata all'organizzazione delle
olimpiadi, ma il C.O.N.I. rimane un soggetto pubblico che esercita poteri
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amministrativi assai forti, quali stabilire « i princìpi fondamentali ai quali
devono uniformarsi, allo scopo del riconoscimento ai fini sportivi, gli
statuti delle federazioni sportive nazionali delle discipline sportive
associate, degli enti di promozione sportiva e delle associazioni e società
sportive », adottare i « provvedimenti di riconoscimento, ai fini sportivi,
delle federazioni sportive nazionali, delle società ed associazioni sportive,
degli enti di promozione sportiva, delle associazioni benemerite e di altre
discipline sportive associate »; stabilire « in armonia con l'ordinamento
sportivo internazionale e nell'ambito di ciascuna federazione sportiva
nazionale o della disciplina sportiva associata, criteri per la distinzione
dell'attività sportiva dilettantistica da quella professionistica »; fissare « i
criteri e le modalità per l'esercizio dei controlli sulle federazioni sportive
nazionali, sulle discipline sportive associate e sugli enti di promozione
sportiva riconosciuti »; determinare « i criteri e le modalità di esercizio
dei controlli da parte delle federazioni sportive nazionali sulle società
sportive », addirittura sostituendosi alle prime o commissariandole.
La riforma del 1999 ha restituito natura privatistica alle « federazioni
sportive nazionali e le discipline sportive associate [che] hanno natura di
associazione con personalità giuridica di diritto privato. Esse non
perseguono fini di lucro e sono soggette, per quanto non espressamente
previsto nel presente decreto, alla disciplina del codice civile e delle
relative disposizioni di attuazione », anche se debbono svolgere
« l'attività sportiva in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del CIO,
delle federazioni internazionali e del C.O.N.I., anche in considerazione
della valenza pubblicistica di specifiche tipologie di attività individuate
nello statuto del C.O.N.I. ». Le medesime « federazioni sportive nazionali e
le discipline sportive associate sono rette da norme statutarie e
regolamentari sulla base del principio di democrazia interna, del
principio di partecipazione all'attività sportiva da parte di chiunque in
condizioni di parità e in armonia con l'ordinamento sportivo nazionale ed
internazionale », ma la legge si è spinta sino a prevedere il divieto di
rielezione del Presidente per il terzo mandato consecutivo e la presenza
di atleti professionisti e dilettanti negli organi direttivi nazionali, oltre la
pari rappresentanza tra uomini e donne.
Ne è derivata una complicata disciplina, ogni frammento della quale è
assoggettato ad un regime particolare la cui cognizione è di volta in volta
attribuita ad un giudice o ad un altro: così il giudice del lavoro è
competente a conoscere del rapporto che lega le società ai professionisti;
quello civile ordinario a giudicare sulle società sportive; quello
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amministrativo a sindacare il corretto esercizio dei poteri amministrativi
esercitati dal Coni o, su sua delega, dalle federazioni. Ancora: il giudice
civile rimane il generale attributario della cognizione sulle vicende di
responsabilità, quello penale delle fattispecie di illecito. Deroghe alle
discipline generali sono diffusamente previste, ad esempio
sull'applicazione dello Statuto dei lavoratori ai contratti dei
professionisti; clausole arbitrali sono ampiamente contemplate sia in
ordine alle controversie concernenti l'attuazione del contratto di lavoro
insorte fra la società sportiva e lo sportivo, sia riguardo i rapporti tra le
società e le federazioni, il c.d. vincolo di giustizia. Il fatto è che pubblico e
privato sono astretti in una commistione particolarmente forte:
un'esperienza che sorge in maniera spontanea e per definizione libera,
diviene istituzionalizzata e « pubblicizzata » nelle parti « alte », con
l'attribuzione a soggetti pubblici (e addirittura su delega di questi ultimi a
soggetti privati) di consistenti poteri amministrativi. Questo rimane il
punto di interesse, giacché a proposito dell'ordinamento sportivo si
adoperano e si intrecciano strumenti di diritto privato, id est di diritto
comune ispirati all'idea dell'autonomia contrattuale e della parità delle
parti, ed istituti di diritto pubblico, id est di carattere autoritativo e
unilaterale propri della p.a. Talune contraddizioni della giurisprudenza
sembrano dimostrare l'ambiguità della commistione realizzata. A nulla
varrebbe opporre che vicende simili si ritrovano anche in altri
ordinamenti c.d. settoriali, ad esempio in quello bancario: a tale obiezione
potrebbe agevolmente replicarsi — su diversi piani — che siffatta
commistione di istituti non è nella stessa misura, che l'appartenenza
all'ordinamento bancario riguarda imprese e non semplici individuisportivi e relative formazioni sociali, e che in ogni caso anche per altre
esperienze potrebbero ripensarsi molte soluzioni date per scontate ed
immutabili.
3. Il vincolo di giustizia a favore dell'ordinamento sportivo.
Sull'obbligo delle società ed in genere di coloro i quali operano
nell'ambito delle federazioni sportive di adire gli organi della c.d.
giustizia sportiva e di accettarne le decisioni, con preclusione del ricorso
alle comuni autorità giurisdizionali, si è dibattuto e discusso così tanto
che ogni osservazione ulteriore sembra persino superflua. Sembra quasi
che il problema dell'ordinamento sportivo sia costituito dalla riserva di
giurisdizione da riconoscere a suo favore con esclusione di ogni
intervento dei comuni giudici statali: cioè a dire, dallo spazio di decisione
vincolante assegnato agli organi sportivi (variamente denominati
6
tribunali, corti, commissioni, ecc.). È da riconoscere che la più recente
esperienza ha visto il c.d. ordinamento sportivo affinare gli strumenti, gli
organi e le procedure della c.d. giustizia sportiva sino a porre un
problema di « giusto processo » al suo interno: ne è prova la decisione
dell'Alta Corte di giustizia sportiva sulla legittimità della sanzione inflitta
a carico di una società di calcio, i cui sostenitori avevano ripetutamente
intonato cori discriminatori a sfondo razziale durante lo svolgimento di
una partita (1): decisione che dà conto dell'importanza che
l'ordinamento sportivo annette ai valori generali dello Stato-comunità,
quasi un'« apertura » del mondo dello sport alla cultura sociale generale,
superando ogni pretesa di distinzione, al limite di isolamento.
Ciò nonostante, le risposte date per giustificare la giustizia sportiva
appaiono contraddittorie ed inappaganti perché mettono assieme
fondamenti di ordine diverso. In realtà, la corrente spiegazione secondo
cui l'ordinamento sportivo e la « sua » giustizia si poggerebbero sulla
libertà associativa sancita negli artt. 2 e 18 Cost., e quindi sull'autonomia
privata, risulta incongrua con la qualificazione tutta pubblicistica dei
poteri esercitati dagli organi del medesimo ordinamento. Il d.l. 19 agosto
2003, n. 220, conv. in l. 17 ottobre 2003, n. 280, ha complicato
ulteriormente la vicenda, giacché la legge si è attribuita il compito di
delimitare gli ambiti medesimi, rispettivamente, assegnati alla giustizia
sportiva ed alla giurisdizione statale, in un'operazione di ritaglio
piuttosto delicata. Invero, la previsione di una riserva di giurisdizione
sportiva idonea ad escludere l'intervento del giudice comune intercetta
pressoché per intero non solo il complesso delle garanzie processuali di
cui agli artt. 24, 25, 103, 111, 113 Cost. e 6 Cedu, ma anche il profilo
sostanziale degli artt. 2, 3, 18, 35, 41 Cost., giacché ne risultano coinvolti il
diritto di azione e difesa, la precostituzione del giudice naturale, le
competenze della Cassazione, la tutela avverso gli atti della p.a., il giusto
processo, ed ancora la garanzia dei diritti individuali all'interno delle
formazioni sociali, il principio di eguaglianza, la libertà associativa, la
tutela del lavoro, il diritto di intrapresa.
4. Le risposte della giurisprudenza prima del d.l. n. 220 del 2003.
Invero, prima dell'intervento del d.l. n. 220 del 2003, la giurisprudenza
si era da tempo posta il problema circa il c.d. vincolo di giustizia interna e
lo aveva affrontato sulla base dello strumento per eccellenza del diritto
comune, quale è per definizione l'autonomia contrattuale delle parti. A
tale presupposto è stato riportato il fondamento delle clausole arbitrali
contenute negli statuti delle federazioni sportive, che obbligano ad adire
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gli organi interni di risoluzione delle controversie. Il modello
dell'arbitrato irrituale è stato quello che più si è prestato ad avvicinarsi
all'organizzazione delle federazioni, ed a nulla è servito obiettare che il
vincolo arbitrale obbligatorio discende dall'adesione anch'essa
obbligatoria alla federazione nazionale, « con la conseguenza che
l'attuazione del diritto primario ad una manifestazione della libertà di
iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. comporterebbe la
obbligatoria rinuncia alla tutela giurisdizionale garantita dagli artt. 24 e
102 della Costituzione ». La Cassazione ha ricordato come « la
giurisprudenza di legittimità ha già chiarito la natura negoziale del c.d.
vincolo di giustizia (v. Cass., n. 4351 del 1993), che costituisce un
momento
fondamentale
dell'ordinamento
sportivo,
essendo
ontologicamente finalizzato a garantirne l'autonomia, quanto alla
gestione degli interessi settoriali, da quello statuale, autonomia ritenuta
generalmente necessaria per assicurare sia la competenza tecnica dei
giudici sportivi, sia, in correlazione con lo svolgimento dei campionati
sportivi, la rapidità della soluzione delle controversie agli stessi
sottoposte. D'altra parte, depone nel senso della dimensione privatistica
della giustizia sportiva, e, quindi, della origine contrattuale, e non
autoritativa, dell'accettazione dei regolamenti federali, quale portato di
un atto di adesione spontanea alla comunità sportiva, la natura ormai
prevalentemente privatistica delle federazioni sportive. ... La rinunzia
preventiva alla tutela giurisdizionale statuale ... si fonda dunque sul
consenso delle parti, le quali, aderendo in piena autonomia e
consapevolezza agli statuti federali, accettano anche la soggezione agli
organi interni di giustizia » (2).
La posizione risente di una finzione giuridica: non solo l'adesione della
società alla federazione è necessaria, di modo che l'accettazione della
clausola compromissoria non è affatto libera, ma si è trascurato anche il
fatto che la clausola arbitrale era tanto poco contrattuale da essere
contenuta in uno statuto adottato (all'epoca) da un ente pubblico quale la
federazione nazionale. Insomma, l'individuazione del fenomeno sportivo
negli artt. 2 e 18 Cost., e di conseguenza la valorizzazione delle posizioni
di libertà e della dimensione associativa, mal si conciliava con il carattere
vistosamente « eteronomo » della clausola arbitrale. E ciò a parte la
circostanza che nessuna clausola arbitrale potrebbe mai escludere la
possibilità (vero e proprio diritto inviolabile ex art. 24 Cost. e 6 Cedu) di
rivolgersi all'autorità giurisdizionale (per così dire) generale circa i vizi
del medesimo procedimento arbitrale, ad iniziare dai profili di
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composizione dell'organo (3). Inoltre, l'accentuazione sul fenomeno
sociale — come quello sportivo — all'interno del quale insistono taluni
arbitrati, non esime dall'intervento giurisdizionale volto ad assicurare in
ogni caso garanzia ai diritti fondamentali. Insomma, proprio l'efficacia a
pieno raggio della Costituzione nei rapporti sociali importa che la tutela
giurisdizionale dei diritti dei singoli vada assicurata anche all'interno dei
gruppi e ciò richiede di poter sempre « misurare » il corretto esercizio
dell'autonomia negoziale, compresa quella che si esercita e si esprime
nella clausola compromissoria e nel suo svolgimento in concreto (4). Non
è infrequente, infatti, che l'ordinamento generale prescriva determinate
forme a garanzia dei diritti più « deboli » (si pensi all'art. 2113 c.c.) o
escluda puramente e semplicemente la compromittibilità in arbitrati dei
diritti indisponibili (art. 806 c.p.c.). Invero, al di là delle soluzioni
normative di volta in volta predisposte, la distinzione pubblico-privato a
proposito delle dinamiche di accertamento ed attuazione dei diritti va
superata in considerazione del carattere sociale dell'attività
giurisdizionale come di quella arbitrale: giudici ed arbitri sono soggetti
dello Stato-comunità, di modo che è del tutto comune il quadro
assiologico e normativo da applicare, così come dovrebbe risultare chiaro
che la « chiusura » del sistema arbitrale non può mai essere totale e
pervenire al carattere di esclusività.
5. Il d.l. 19 agosto 2003, n. 220.
Rispetto alle posizioni della giurisprudenza appena riportate, il d.l. 19
agosto 2003, n. 220, conv. poi in l. 17 ottobre 2003, n. 280, appare foriero
di una logica diversa, anche perché mosso da motivazioni piuttosto
contingenti.
Si ricorderà che l'estate 2003 fu segnata dalle pronunce di taluni tar
che ritennero invalidi provvedimenti applicati dalla Federazione italiana
gioco calcio a carico di talune squadre e disposero, pertanto, misure
cautelari a favore delle squadre ricorrenti. Il decreto legge intervenne a
reazione: si sancì in via generale il principio dell'autonomia
dell'ordinamento sportivo rispetto all'ordinamento della Repubblica,
anche perché il primo sarebbe « articolazione dell'ordinamento sportivo
internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale ». Si
stabilì che i rapporti tra i due ordinamenti siano « regolati in base al
principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento
giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse
con l'ordinamento sportivo ». Si riservò « all'ordinamento sportivo la
disciplina delle questioni aventi ad oggetto: a) l'osservanza e
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l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie
dell'ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di
garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i
comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed
applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive ». Si stabilì che in
tali materie « gli affiliati ed i tesserati hanno l'onere di adire, secondo le
previsioni degli statuti e regolamenti del Comitato olimpico nazionale
italiano e delle Federazioni sportive di cui gli articoli 15 e 16 del decreto
legislativo 23 luglio 1999, n. 242, gli organi di giustizia dell'ordinamento
sportivo ». Si devolvette alla giurisdizione amministrativa esclusiva ogni
controversia su atti del Coni o delle Federazioni sportive non riservata
agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo, sempre una volta
« esauriti i gradi della giustizia sportiva » e « fatto salvo quanto
eventualmente stabilito dalle clausole compromissorie previste dagli
statuti e dai regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e delle
Federazioni sportive », nonché da quelle inserite nei contratti tra squadre
e lavoratori sportivi. Si fissò la competenza inderogabile del Tar Lazio,
anche per i processi in corso e la sospensione di efficacia delle misure
cautelari sino ad allora emanate. In contraddizione con l'asserita
autonomia dell'ordinamento sportivo si dispose anche che il Coni
adottasse provvedimenti straordinari e transitori per assicurare l'avvio
dei campionati 2003-2004, atteso che si era raggiunto nel frattempo
l'accordo sull'aumento delle squadre partecipanti.
In fondo, l'esigenza di salvaguardare i provvedimenti della Federazione
calcio rispetto alle misure cautelari dei giudici amministrativi regionali
ha segnato il decreto legge non a caso definito « blocca-tar » oltre che
« salva-calcio » per la possibilità di iniziare data al campionato di calcio. Il
riconoscimento dell'autonomia dell'ordinamento sportivo risulta fondato
sull'appartenenza all'ordinamento sportivo internazionale, che è — per
così dire — una giustificazione troppo forte per fondare la riserva di
giustizia sportiva nelle materie indicate: intesa alla lettera, una tale
giustificazione dovrebbe portare ad escludere la cognizione
giurisdizionale sui rapporti all'interno di ogni formazione sociale
(religiosa, politica, sindacale, culturale, ecc.) che abbia una qualche forma
di presenza internazionale.
Soprattutto, mal si concilia l'affermata autonomia dell'ordinamento
sportivo con la pubblicizzazione a tutto tondo del Coni e dei relativi
poteri delegati a Federazioni (che sarebbero solo) associazioni di diritto
privato (5).
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6. I dubbi di taluna giurisprudenza: il recupero di cognizione ad opera
del giudice amministrativo.
Invero, la commistione privato-pubblico dell'ordinamento sportivo
continua a suscitare perplessità. La riserva di giustizia sportiva non
risolve tutti i problemi e se all'inizio è prevalsa una lettura orientata a
non contestare la scelta del legislatore del 2003 (6), la più recente
giurisprudenza amministrativa avverte la necessità di riconsiderare
l'assetto dei rapporti tra la giustizia sportiva e quella statale.
Così, si sono talvolta riportate nell'alveo della giurisdizione
amministrativa le questioni concernenti le sanzioni disciplinari
comportanti penalizzazioni in classifica e conseguente retrocessione
nella categoria inferiore, sulla base della rilevanza esterna della sanzione,
che inciderebbe sullo status della società in termini non solo economici,
ma anche di onorabilità, ed in considerazione dei dubbi di legittimità
costituzionale della normativa comportante l'esclusione della
giurisdizione, e « pur nella difficoltà della individuazione di un sicuro
discrimine tra atti a rilevanza meramente interna ed atti incidenti su
posizioni giuridiche rilevanti nell'ordinamento generale » (7).
Si è precisato che « la giustizia sportiva costituisce lo strumento di
tutela per le ipotesi in cui si discute dell'applicazione delle regole
sportive, mentre la giustizia statale è chiamata a risolvere le controversie
che presentano una rilevanza per l'ordinamento generale, concernendo la
violazione di diritti soggettivi o interessi legittimi. Alla luce di tale
principio sono riservate alla giustizia sportiva le c.d. controversie
tecniche, quelle cioè che riguardano il corretto svolgimento della
prestazione sportiva, ovvero la regolarità della competizione sportiva, ed
è ormai pacifico che siano riservate alla giurisdizione amministrativa le
questioni concernenti l'ammissione e l'affiliazione alle federazioni di
società, associazioni sportive e di singoli tesserati, e i provvedimenti di
ammissione ai campionati, ... trattandosi di provvedimenti di natura
amministrativa in cui le Federazioni esercitano poteri di carattere
pubblicistico in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del C.O.N.I. » (8). Alla stregua di tale impostazione sembrerebbe di poter desumere che
anche i provvedimenti afflittivi incidenti sullo status di tesserato e/o di
affiliato alla Federazione sarebbero conoscibili dal giudice
amministrativo le volte in cui incidessero « su situazioni giuridiche
soggettive protette dall'ordinamento generale in termini di diritto
soggettivo o di interesse legittimo ».
Addirittura, è stato necessario prospettare una interpretazione
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costituzionalmente orientata del tessuto normativo risultante dal d.l. n.
220 del 2003, giacché le norme, pur « nate con il preciso intento di
arginare
l'intervento
della
giustizia
statale
sull'autonomia
dell'ordinamento sportivo », e di « tracciare una linea di confine netta tra
i territori rispettivamente riservati all'ordinamento sportivo, e ai suoi
organi di giustizia, e quelli nei quali è possibile l'intervento della
giurisdizione statale, e del giudice amministrativo in particolare », non
sono, tuttavia, pienamente riuscite nel loro scopo chiarificatore (9).
Infatti, si è rilevato come il legislatore non abbia prestato attenzione alle
conseguenze patrimoniali indirette dei provvedimenti adottati dalle
Federazioni a mezzo dei propri organi di giustizia sportiva. Per questo « il
d.l. n. 220/2003 (conv. in l. n. 280/2003), dà luogo ad alcune perplessità
in ordine alla legittimità costituzionale della riserva a favore della
“giustizia sportiva”: in particolare, non risultano manifestamente
infondati quei dubbi di costituzionalità, ... che evocano un possibile
contrasto col principio della generale tutela statuale dei diritti soggettivi
e degli interessi legittimi (art. 24 Cost.), e con la previsione costituzionale
che consente sempre l'impugnativa di atti e provvedimenti
amministrativi dinnanzi agli organi di giustizia amministrativa (art. 103 e
113 Cost.) » (10). La preliminare considerazione ha consentito al giudice
amministrativo di riqualificare come atto amministrativo la decisione
dell'organo arbitrale del Coni (11) e di concludere pertanto che la
disciplina posta dal decreto legge del 2003 debba essere interpretata, « in
un'ottica costituzionalmente orientata, nel senso che laddove il
provvedimento adottato dalle Federazioni sportive o dal C.O.N.I. abbia
incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per
l'ordinamento giuridico statale, la domanda volta ad ottenere non la
caducazione dell'atto, ma il conseguente risarcimento del danno, debba
essere proposta innanzi al giudice amministrativo, in sede di
giurisdizione esclusiva, non operando alcuna riserva a favore della
giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria nemmeno può
essere fatta valere ».
Insomma, sembra assistere — e quasi di necessità — ad una
progressiva riconsiderazione dei rapporti tra giustizia sportiva e giustizia
statale alla luce delle esigenze di tutela di taluni diritti, ma anche della
grande varietà di domande formulabili ai fini dell'accesso ad istanze
giurisdizionali.
7. La natura pubblicistica della « parte alta » dell'ordinamento sportivo
in contrasto con gli artt. 2 e 18 Cost. Il giudice ordinario quale giudice di ed
12
in ogni formazione sociale.
A questo punto emergono anche talune incongruenze dell'assetto
realizzato ed, in particolare, rileva l'inconsistenza delle giustificazioni
addotte per fondare la riserva di giustizia sportiva.
A presupposto di questa non può essere posto l'ordinamento
internazionale, come pure ha indicato il d.l. n. 220, sia perché in punto di
fatto l'ordinamento sportivo internazionale non coinvolge tutti i segmenti
del fenomeno sportivo, ad iniziare dai campionati c.d. minori di calcio, ed
allora si tratterebbe di un fondamento a tutta evidenza sproporzionato;
sia, soprattutto, perché tale base non esclude affatto il controllo
giurisdizionale sulla compatibilità del diritto internazionale con
l'ordinamento italiano — come pure è stato richiesto a proposito delle
norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo da una nota
giurisprudenza costituzionale (12).
Fondamento della giustizia sportiva non può essere inteso nemmeno il
riconoscimento dell'autonomia dei soggetti che ne fanno parte in
svolgimento delle libertà sancite dagli artt. 2 e 18 Cost., come pure si
ripete. Malgrado le ricostruzioni volte a socializzare, per così dire, il
potere pubblico ed a legittimare in tale contesto taluni soggetti pubblici,
specie in una visione pluralista che valorizza le comunità intermedie,
l'autonomia delle formazioni sociali sembra inconciliabile sia con un
apparato pubblicistico dotato di poteri tanto penetranti, sia con la riserva
di giurisdizione interna, che significhi puramente e semplicemente
l'irrilevanza per l'ordinamento generale di quanto avviene all'interno dei
gruppi.
Detto in altri termini, l'« errore » del d.l. n. 220 è la pretesa del
legislatore ordinario di poter definire a mezzo di una tecnica di ritaglio i
limiti della giurisdizione e di voler contemporaneamente qualificare gli
ambiti di interesse dell'ordinamento generale, ossia a dire le domande
proponibili da chi sente lese le proprie situazioni giuridiche all'interno
dei (molteplici) gruppi di cui fa parte e per questo richiede tutela al
giudice.
Ora, sotto un primo profilo, può sì ammettersi che non tutto quanto
avviene all'interno dei gruppi è di interesse generale; può anche
accettarsi l'idea che, in nome dell'autonomia loro riconosciuta, le
decisioni delle formazioni sociali possano essere « riviste » e
« riconsiderate » in sede giurisdizionale solo se ed in quanto si provi la
loro illogicità ovvero la scorrettezza oppure la contrarietà a norme
imperative; ma deve pure riconoscersi che la distinzione tra gli ambiti
13
e/o i profili suscettibili di cognizione giurisdizionale (lo spazio dello
justiciable) non è di competenza del legislatore ordinario,
nell'espressione di una decisione di maggioranza; al contrario, tale
distinzione è inevitabile competenza della giurisprudenza cui è riservato
di tutelare le situazioni giuridiche individuali, valutare la correttezza dei
comportamenti tenuti, bilanciare caso per caso tra esigenze dei singoli e
del gruppo, indicare criteri di attività per il futuro, ecc. L'intervento del
giudice è quello di un soggetto dello Stato-comunità che non sostituisce la
sua volontà a quella del gruppo, ma assicura l'osmosi tra i valori
dell'ordinamento generale per definizione pluralista. Gli interessi
sovraindividuali non sono per definizione sic et simpliciter pubblici: esiste
una vasta area di interessi sociali che prendono le mosse dall'attività
individuale e che sono riferibili ai gruppi ed alle formazioni sociali, in
relazioni ai quali nemmeno il legislatore può stabilire pubblicizzazioni
forzose, in violazione per l'appunto dell'art. 2 Cost. giacché la
riconduzione di tali interessi allo Stato-persona contraddirebbe il
riconoscimento operato dalla norma costituzionale di fenomeni sociali
« preesistenti » ed indipendenti dall'apparato pubblico, cui questo
addirittura rivolge prestazioni in nome della sussidiarietà orizzontale
(art. 118, u.c., Cost.).
Sotto altro collegato profilo, appare ingenua l'idea di poter limitare
l'ambito di intervento della giurisdizione e di circoscrivere le azioni
esercitabili, trascurando ciò che già A. de Tocqueville avvertiva (a
proposito dell'ordinamento americano, ma con notazione di carattere
generale) circa il fatto che ogni questione politico-sociale tende a
divenire controversia giurisdizionale.
Non pare, allora, peregrina l'idea che la giustizia sportiva riposi sulla
volontà negoziale delle parti, ma ciò comporta che sia da smantellare
l'impianto pubblicistico creato sulle parti « alte » dell'ordinamento
sportivo, in maniera incompatibile con il riconoscimento del fenomeno
sportivo quale attività tipica di formazioni sociali. Competente a definire
di volta in volta i confini della c.d. giustizia sportiva (id est: interna), per
così dire a « misurarne » la tenuta rispetto a tutti i valori coinvolti, è il
giudice ordinario, soggetto dell'ordinamento sociale e degli interessi
individuali e sociali che si svolgono su quel piano, mentre non vi è spazio
per un giudice amministrativo attratto nella funzione pubblica e nel suo
esercizio (13). La qualificazione privatistica del fenomeno sportivo
proprio sulla base ed in svolgimento degli artt. 2 e 18 Cost. esige che
l'intero ordinamento sia configurato in questa prospettiva e che, allora,
14
l'assetto giurisdizionale segua coerentemente tale impostazione.
(1) Alta Corte di giustizia sportiva, 9 giugno 2009, in Foro it., 2009, III, 656 ss.
(2) Cassazione, I, 28 settembre 2005, n. 18919, e negli stessi termini la successiva
Cassazione, I, 27 settembre 2006, n. 21006. Si è aggiunto, anzi, che « la questione di legittimità
costituzionale delle predette norme [sul vincolo di giustizia] in riferimento al diritto di azione
e di difesa riconosciuto dall'art. 24 della Costituzione ed al principio del monopolio statale
della giurisdizione, di cui all'art. 102 Cost. è manifestamente infondata. Ed infatti, premesso
che il fondamento dell'autonomia dell'ordinamento sportivo è da rinvenire nella norma
costituzionale di cui all'art. 18 Cost., concernente la tutela della libertà associativa, nonché
nell'art. 2 Cost., relativo al riconoscimento dei diritti inviolabili delle formazioni sociali nelle
quali si svolge la personalità del singolo, deve rilevarsi che il vincolo di giustizia non
comporta rinuncia a qualunque tutela, in quanto l'ordinamento pone in essere un sistema,
nella forma appunto dell'arbitrato irrituale ex art. 806 cod. proc. civ., che costituisce
espressione dell'autonomia privata costituzionalmente garantita (v. Corte cost., n. 127 del
1977). Tale istituto ricorre allorché le parti abbiano inteso non già, come nell'arbitrato
rituale, demandare agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice, ma demandare
ad essi la soluzione di determinate controversie in via negoziale, mediante un negozio
d'accertamento, ovvero strumenti conciliativi o transattivi (v. Cass., n. 1398 del 2005).
L'istituto arbitrale, ove costituisca un atto derivante dalla libera volontà delle parti, come è,
per quanto si è chiarito, nel caso dell'arbitrato irrituale, non si pone in contrasto con il
principio di unicità e statualità della giurisdizione, come, del resto, ripetutamente
riconosciuto dal giudice delle leggi (v. Corte cost., n. 488 del 1991; n. 127 del 1977, cit.), che
ha sottolineato che solo le parti, sempre che si versi in materia non attinente ai diritti
fondamentali, possono scegliere altri soggetti, quali gli arbitri, per la tutela dei loro diritti in
luogo dei giudici ordinari, ai quali è demandata la funzione giurisdizionale ai sensi dell'art.
102 Cost., risultando detta scelta una modalità di esercizio del diritto di difesa ex art. 24
Cost ».
(3) Si accenna qui ad un profilo di interesse, perché se è vero che prima Cass., S.U., 3
agosto 2000, n. 527, e poi la riforma apportata dal d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40, hanno
« spostato » l'istituto arbitrale più verso la dimensione contrattuale che non verso la
tradizionale configurazione pubblicistica assimilabile a tutto tondo alla giurisdizione, è pure
vero che proprio l'accentuazione del presupposto negoziale porta a tutelare sia la libera
volontà delle parti (argomento ex art. 1321 ss. c.c.), sia la correttezza dell'intero
procedimento arbitrale (ex art. 1375 c.c.), cui può essere ricondotto il principio del giusto
processo, di modo che appaiono costituzionalmente necessarie talune disposizioni, quali
quelle che esigono il rispetto del contraddittorio ovvero che importano la nullità
dell'arbitrato e del suo esito per i vizi di costituzione o per il dolo dell'arbitro.
(4) In questa chiave trova ulteriore giustificazione l'ammissibilità degli arbitri a
sollevare questioni di legittimità costituzionale, riconosciuta da Corte costituzionale, 28
novembre 2001, n. 376, malgrado l'argomentazione allora accolta fosse tutta nel senso di
ritenere « che l'arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di
procedura civile per l'applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della
risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche
della giurisdizione civile ordinaria. Sotto l'aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si
differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, anche per
quanto riguarda la ricerca e l'interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie ».
(5) Così, poco prima dell'adozione del d.l. n. 220 del 2003, poteva esprimersi il TAR
Reggio Calabria: « la materia delle ammissioni ed esclusioni delle Società sportive da
determinati campionati in base ai criteri gestionali di carattere patrimoniale od economico15
finanziario, prescritte dalle varie normative delle Federazioni sportive, rientra pacificamente
nella giurisdizione del Giudice amministrativo, tenuto conto che la fase di iscrizione ai
campionati, in relazione alle regole attinenti al controllo gestionale ed economico-finanziario
delle Società, è disciplinata da norme che perseguono finalità di interesse pubblico, e che, a
norma dell'art. 12 della legge n. 91/1981, novellato dalla legge n. 586/1996, in tale materia le
Federazioni sportive esercitano il potere di controllo « per delega del C.O.N.I. », e quindi quali
organi di tale Ente Pubblico nell'esplicazione dei suoi fini istituzionali di organizzazione e
potenziamento dello sport (cfr. soprattutto, tra le tante, Cons. Stato VI 30/9/1995 n. 1050,
punto 2/b della motivazione, TAR Lazio sez. III 24/9/1998, n. 2394. punto 2 della
motivazione, Cassazione sez. III 5 aprile 1993 n. 4063, Cassazione SS.UU. 26 ottobre 1989, n.
4399) », D.P. n. 471 del 14 agosto 2003.
(6) Ne è prova Consiglio di giustizia amministrativa, 8 novembre 2007, n. 1048, secondo
cui « l'insussistenza della giurisdizione amministrativa, e al contempo di ogni altra
giurisdizione, deriva dalla corretta esegesi degli artt. 1, 2 e 3 del d.l. 19 agosto 2003, n. 220,
convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 17 ottobre 2003, n. 280. Tale
fonte primaria, nel pieno rispetto dei principi costituzionali, “riconosce e favorisce
l'autonomia dell'ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell'ordinamento
sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale”.
Conseguentemente, ispira al “principio di autonomia” “i rapporti tra l'ordinamento sportivo”
e il diritto statuale, con l'unica eccezione dei “casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico
della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo”.
L'art. 2 del decreto in esame fissa positivamente alcuni casi in cui tale rilevanza, per
definizione dello stesso legislatore, senz'altro non ricorre. È dunque riservata
all'ordinamento sportivo, in forza di tale norma di legge (con il corollario che ogni giudice
statuale difetta in radice di giurisdizione in proposito), ogni questione avente ad oggetto: ... Lo
Stato, dunque, ha dichiarato apertamente il proprio disinteresse per ogni questione
concernente “l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e
statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale” in ogni sua articolazione; ed altrettanto è a
dirsi per ogni questione che concerna “i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e
l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”. Il corollario è che
nessuna violazione di tali norme sportive potrà considerarsi di alcun rilievo per
l'ordinamento giuridico dello Stato ».
(7) TAR Lazio, III, 22 agosto 2006, n. 7331.
(8) Cons. St., sez. VI, 17 aprile 2009, n. 2333.
(9) Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5782: « anche dopo il d.l. n. 220/2003, la
linea di confine tra giustizia sportiva e giurisdizione amministrativa è rimasta spesso incerta,
come dimostrano le numerose divergenze interpretative che si riscontrano anche all'interno
della giurisprudenza amministrativa. Si tratta di difficoltà ermeneutiche che riflettono, del
resto, la stessa complessità che si incontra nel tentativo di conciliare due principi che
mostrano diversi momenti di potenziale conflitto: il principio dell'autonomia
dell'ordinamento sportivo (che trova il suo fondamento costituzionale negli artt. 2 e 18 della
Costituzione) e il principio del diritto di azione e di difesa, espressamente qualificato come
inviolabile dall'art. 24 Cost. In questa indagine sui rapporti tra ordinamento sportivo e
ordinamento statale si deve partire da una considerazione di fondo: quella secondo cui la
“giustizia sportiva” costituisce lo strumento di tutela per le ipotesi in cui si discute
dell'applicazione delle regole sportive, mentre la giustizia statale è chiamata a risolvere le
controversie che presentano una rilevanza per l'ordinamento generale, concernendo la
violazione di diritti soggettivi o interessi legittimi. Proprio alla luce di tale principio, oggi c'è
sostanziale concordia sul fatto che siano riservate giustizia sportiva le c.d. controversie
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tecniche, (quelle cioè che riguardano il corretto svolgimento della prestazione sportiva,
ovvero la regolarità della competizione sportiva) in quanto non vi è lesione né di diritti
soggettivi, né di interessi legittimi ».
(10) Sempre Cons. St., sez. VI, n. 5782 del 2008.
(11) « Il Collegio non ignora, ma anzi condivide, l'orientamento giurisprudenziale
proprio di questa Sezione, secondo cui la decisione della camera di conciliazione e arbitrato
per lo sport del C.O.N.I. non costituisce un vero e proprio lodo arbitrale, ma rappresenta la
decisione di ultimo grado della giustizia sportiva, avente quindi il carattere sostanziale di
provvedimento amministrativo, benché emesso con le forme e le garanzie tratte dal giudizio
arbitrale. Si tratta, come specificato da Cons. Stato, sez. VI, 9 luglio 2004, n. 3917, di una
decisione emessa dal supremo organo della giustizia sportiva sulla base di principi e garanzie
tipiche del giudizio arbitrale, ma che resta soggetta agli ordinari strumenti di tutela
giurisdizionale per le fattispecie non riservate all'ordinamento sportivo ».
(12) Il riferimento è a Corte costituzionale, 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349.
(13) La connotazione riferita al giudice amministrativo è tratta a tutta evidenza da
Corte cost., 5 luglio 2004, n. 204, e 11 maggio 2006, n. 191.
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