Facoltà di sociologia – Laurea in Sociologia (Triennale) Antropologia 2. Oggetto e metodo Simone Ghezzi [email protected] 02-6448-4883 Orario Ricevimento: Mercoledì mattina Oggetto e metodo dell’antropologia • L’antropologia ha tradizionalmente adottato un approccio olistico, perché si prefigge di studiare tutti gli aspetti sociali e culturali prodotti dagli esseri umani. • Gli antropologi quindi si occupano di famiglia e parentela, valori, religione, degli strumenti che mantengono il controllo e l’ordine sociale, matrimonio, e di tutti gli altri aspetti della vita umana di una società (arte, linguaggio, economia, cibo, ecc.). • Un’altra caratteristica dell’antropologia è il metodo comparativo, utilizzato per descrivere i costumi, i valori e le credenze (insomma, gli elementi olistici o parte di questi) che si sono formati e sedimentati nelle varie società. • Attraverso il metodo comparativo possiamo comprendere meglio le similarità fondamentali tra gli esseri umani. Per es.: tutti gli esseri umani mangiano, dormono, si dotano di costruzioni per ripararsi dalle intemperie, ecc. Tuttavia,... • Come ci si nutre, si dorme, e si costruisce “un tetto” varia in maniera incredibile tra le culture, perché non siamo biologicamente programmati per costruire la stessa abitazione, o per mangiare lo stesso cibo. • Vi è una grande variabilità nei comportamenti ed è questa variabilità che rende le culture così interessanti. • Gli antropologi cercano quindi di dare una risposta al perché di questa variabilità. Perché gli essere umani hanno diverse forme di matrimonio? Perché decorano il proprio corpo? E che significato hanno tali decorazioni? Perché alcune società sono più egalitarie di altre? Perché le società non sono dotate della stessa organizzazione economica. • Nel rispondere a queste domande, l’antropologia dovrebbe essere in grado di assolvere questa funzione euristica: a cogliere le somiglianze là dove sembrano esistere solo differenze e a mostrare le differenze là dove sembrano regnare solo le somiglianze. • Oltre all’approccio olistico e comparativo l’antropologia adotta anche un approccio diacronico, per quanto possibile, studiando gli esseri umani in ogni contesto ambientale e in epoche diverse (paleoantropologia e archeologia). Ma a che serve? • Aumenta la nostra comprensione della diversità (alterità) e ad essere più tolleranti nei confronti delle differenze. • Ci consente di apprendere i cambiamenti che sono avvenuti nell’ambiente, comprendere in che modo gli esseri umani si sono adattati a tali cambiamenti (quali soluzioni hanno escogitato) nel passato, e come probabilmente continueranno a farlo nel futuro. • Ci consente di comprendere in che modo e quali differenze culturali e somatiche siano il risultato di adattamenti all’ambiente fisico e sociale. • Ci consente di evitare le incomprensioni che si generano in contesti culturali molto diversi (nei comportamenti e nei gesti); • Ci dà gli strumenti concettuali per avere una migliore conoscenza di sé stessi (porsi continuamente domande, osservare l’altro in relazione al sé, mettere in discussione le proprie categorie culturali consolidate). • La distinzione tra l’io (self) e l’altro, noi e loro ha ovviamente fini euristici. Ribadisco: Lo scopo finale non è quello di rafforzare le opposizioni e le dicotomie, ma piuttosto quelle di ridurle, rendendo le differenze intelligibili. Etnocentrismo • L’atteggiamento etnocentrico consiste nell’osservare e giudicare una cultura in base ai propri criteri valoriali e culturali. => i valori e le forme della propria cultura vengono assunti come metro di riferimento e di valutazione dei valori e delle forme delle culture “altre”. • Quasi ogni società ritiene che la propria cultura e i propri valori siano irrinunciabili e superiori a tutte le altre culture. • Una forma particolare di etnocentrismo agisce anche all’interno di una cultura stratificata, dove i valori dei ceti dominanti corrispondono ai modi ufficiali di vedere il mondo, e le concezioni degli strati subalterni vengono rigettati. => esclusivismo culturale (A. Cirese) • Tutti siamo etnocentrici anche quando abbiamo la pretesa di considerarci “aperti” e “tolleranti”. • Spesso non siamo neppure consapevoli di esserlo • A volte l’etnocentrismo assume un carattere così radicale da negare a coloro che fanno parte degli “Altri”, l’essere pienamente umani. (es: Inuit-Eskimo; Maori; Ba-ntu, Barbaros, etc.) • Come spiegare l’etnocentrismo? • Noi conosciamo bene solo quello che abbiamo vissuto e sperimentato nella nostra vita. Non abbiamo una diretta conoscenza di quello che viene esperito dagli “altri”. • Dal momento che il nostro modo di vivere “ci va bene” è normale ritenere che la nostra cultura costituisca il fondamento “naturale” della nostra realtà. • Le nostre idee sul mondo, le nostre percezioni, le nostre convinzioni e le esperienze plasmano la nostra quotidianità. • Il problema è che…..noi vediamo le cose attraverso la nostra esperienza, e siamo incapaci (o piuttosto indolenti) di vedere le cose considerando il contesto altrui. Giudichiamo in base alla nostra esperienza (limitata al nostro contesto) e sulla base dei nostri assunti. • Dunque….essere etnocentrici è un atteggiamento che ci impedisce di scoprire le ragioni per cui altre popolazioni sono dotate di credenze, valori, ideali e comportamenti differenti dai nostri. • Tradotto in termini antropologici, l’etnocentrismo ci preclude di studiare scientificamente le culture diverse dalla propria, perché fa prevalere le categorie pregiudiziali della propria cultura. • Dal punto di vista antropologico, non a alcun senso giudicare una cultura migliore o peggiore di un’altra. • È molto più utile invece comprendere come si è formata una determinata cultura • e chiedersi se e come in una determinata cultura i bisogni degli individui e della società siano soddisfatti, Individuando dove si colloca il punto di equilibrio tra i bisogni degli individui e quelli della società. È fondamentale che l’antropologo cerchi di liberarsi da questo atteggiamento; E di evitare di ridurre il pensiero dell’altro secondo le proprie griglie interpretative; Il rischio più serio infatti è quello di non riuscire a concettualizzare e a rendere intelligibile una realtà che viene percepita troppo diversa Esempi di etnocentrismo • Tutti sanno che il latte vaccino fa bene. • E’ naturale che si mangi la carne di vitello e non quella di cavallo o di cane. • L’Italia è il paese più bello al mondo. • La dieta mediterranea (millenaria e prevalentemente italiana) • Le mappe geografiche Dymaxion map Etnocentrismo “rovesciato” • Nel caso in cui si abbandona la presunzione di superiorità del Noi e si assegna all’Altro una posizione più elevata. • Il “Noi” subordinato, l’ “Altro” qualitativamente e gerarchicamente superiore => complesso di inferiorità (xenocentrismo). Relativismo culturale • atteggiamento intellettuale secondo il quale ogni cultura va compresa nei propri termini per poter essere “capita”. • Polemica antirelativista (Teocon) • Il relativismo è distruttore di valori, della tradizione e delle radici perché: • 1) svende i propri modelli e valori; • 2) fa credere che i valori siano intercambiabili; • 3) disconosce le conquiste della razionalità occidentale; • 4) assume un atteggiamento scettico o nichilista in campo morale e rifiuta ogni principio universale. • I relativisti invece asseriscono che questo atteggiamento è positivo perché: • 1) fa emergere la dimensione feconda del dubbio; • 2) e il senso della propria limitatezza; • 3) ci fornisce gli strumenti per riflettere criticamente sul proprio “universo particolare”; • 4) e dispone al desiderio e al riconoscimento dell’altro • Non tutte le culture condividono nozioni e concetti quali “dio”, “anima”, “spirito”, “persona”, “individuo”, “famiglia”, “religione”, “felicità” ecc. • Scoprirne la non universalità, cogliere la parzialità e la particolarità di queste categorie permette di allargare la propria conoscenza, e di fare analisi antropologica. • Obiezione: si deve relativisti anche nei confronti di pratiche come le mutilazioni genitali femminili? • Rendere intelligibile una pratica sociale come le mutilazioni genitali femminili - mediante la decifrazione delle logiche concettuali sottostanti, la ricostruzione della genesi e dei mutamenti storici non equivale a condividerla, ad approvarla, ad accettarla. • Inoltre ci si dovrebbe interrogare sulla categoria stessa di Mutilazioni genitali femminili e maschili. Le prime viste come pratiche aberranti, le seconde come pratica igienica (ma nel periodo vittoriano era considerata una pratica di igiene morale – per controllare la masturbazione). • Dal punto di vista della tradizione somala la circoncisione femminile (o cucitura) è parte di un cerimoniale di passaggio ed è volta a rimodellare i corpi femminili secondo un ideale socialmente condiviso di bellezza e purezza. Ma ultimamente c’è una parziale perdita di legittimità per opera di gruppi di donne che si organizzano per persuadere altre ad abbandonarla. • In molti paesi del mondo occidentale sottoporsi a mutilazioni chirurgiche al fine di correggere o mutare il proprio sesso anatomico o di “migliorare” il proprio corpo è socialmente accettato come un diritto personale. Il relativismo culturale non va inteso come un appiglio per spiegare e giustificare ogni cosa (cioè che ogni cosa è legittimata dal fatto di essere parte integrante di una cultura); Non cadere nel neo-razzismo il quale si avvale dell’idea antropologica di relativismo culturale per estremizzare la differenza culturale al punto da sostenere che le culture umane sono non soltanto diverse e incommensurabili, ma intraducibili e per questo non comunicabili tra loro; nello stesso tempo afferma una supposta superiorità della popria cultura nei confronti di altri sistemi culturali. (incommensurabilità – incomunicabilità – impenetrabilità) Relativismo morale • disapproviamo altre culture senza però impedire a noi stessi di comprenderle e conoscerle • la comprensione della diversità nei suoi propri termini non corrisponde ad una resa di fronte all’Altro (come invece sostengono i teocon). Quando una propria cultura si arrocca e si compiace della propria presunta superiorità (etnocentrismo), ecco che subentra la resa, che si traduce nell’impossibilità di comprendere gli altri ma anche nell’impossibilità di vedere noi stessi attraverso gli altri. Etnocentrismo critico di Ernesto De Martino • L'incontro tra l'etnologo (il soggetto conoscente) e i soggetti della sua ricerca (l'oggetto della conoscenza) è definito da De martino come "umanesimo etnografico": "L'umanesimo etnografico è in un certo senso la via difficile dell'umanesimo moderno, quella che assume come punto di partenza l'umanamente più lontano che, mediante l'incontro sul terreno con umanità viventi, si espone deliberatamente all'oltraggio delle memorie culturali più care: chi non sopporta quest'oltraggio e non è capace di convertirlo in esame di coscienza, non è adatto alla ricerca etnologica (De Martino 1977: 393) • Il rischio è quello di presentare in maniera dogmatica e acritica l'esperienza culturale altera. • "Si profila, così, il caratteristico paradosso dell'incontro etnografico: • - o l'etnografo tenta di prescindere totalmente dalla propria storia culturale nella pretesa di farsi 'nudo come un verme' di fronte ai fenomeni culturali da osservare e allora diventa cieco e muto di fronte ai fatti etnografici e perde, con i fatti da osservare e da descrivere, la propria vocazione specialistica; • - oppure si affida ad alcune ovvie categorie antropologiche ... e allora si espone senza possibilità di controllo al rischio di immediate valutazioni etnocentriche. • Quale è la soluzione allora? • E' necessario riconoscere che ci sono storie diverse, la storia del proprio (del sé) e quella dell'altro (dell'alterità); • fare un continuo confronto fra le due accettando il fatto che entrambe sono due possibilità storiche di essere uomo e che ad un certo punto queste due strade si sono separate. • L'incontro etnografico costituisce l'occasione per un esame di coscienza sul sapere antropologico e le proprie categorie valutative. • De Martino non ha dubbi sulla superiorità della cultura occidentale, perché è l'unica - a suo avviso - che si sia posta in maniera scientifica la comprensione dell'altro. Il giudizio che l'occidente può dare di culture non occidentali non può non essere etnocentrico, nel senso che non è possibile per lo studioso occidentale rinunciare all'impiego di categorie interpretative maturate nella storia culturale dell'occidente. • Il lavoro critico dell'etnologia è allora quello di analizzare le proprie categorie interpretative cercando di far affiorare la storia di queste categorie che sono il prodotto della cultura occidentale. • L'etnocentrismo critico si configura allora come una continua ridiscussione delle proprie categorie analitiche. Questa discussione, tuttavia, non può portare ad una loro modifica, bensì a produrre nell'etnologo la consapevolezza del fatto che egli sta osservando una cultura "aliena" attraverso delle categorie storicamente determinate di cui tuttavia egli non può farne a meno. • Quindi De Martino si pone in contrapposizione all'idea di relativismo culturale. Ogni riflessione etnografica non può fare a meno di confrontare la cultura dell'osservatore con quella dell'osservato, ma questa riflessione va necessariamente ricondotta nella prospettiva dell'etnologo osservatore, portatore di una storia della propria cultura che diventa l'unità di misura delle storie culturali aliene. Qui troviamo una traccia filosofica dello storicismo idealista di Croce. Franz Boas (1858-1942) e il particolarismo storico • Come molti antropologi con cittadinanza americana di quell’epoca Boas si forma dal punto di vista accademico in Germania in materie scientifiche (fisica e geografia) Poi a seguito di una spedizione geologica presso l’Isola di Baffin (1893-94) comincia a rivolgere la propria attenzione all’osservazione degli esseri umani e al loro rapporto con l’ambiente e si trasforma in etnografo. • Di lì a poco emigra in America lavorando in musei etnografici e in università americane (Columbia) dove forma alcuni nomi celebri dell’antropologia americana (Ruth Benedict, Margaret Mead, Edward Sapir, Alfred Kroeber, Robert Lowie, ecc.). • Difensore del relativismo, avversatore dell’evoluzionismo e sostenitore del diffusionismo (ma non ascrivibile alla cerchia dei diffusionisti in senso stretto) • Area di studio principale: popolazioni artiche e subartiche, in particolare Inuit e Kwakiutl. • La principale preoccupazione di Boas è quella di ricostruire i tratti culturali e l’analisi dei complessi culturali • Un tratto culturale è un elemento minimo e non ulteriormente scomponibile che appartiene al mosaico delle culture. • I complessi culturali sono l’insieme dei tratti culturali. • Per esempio: • 1) un particolare oggetto dotato di una funzione specifica (racchette da neve delle popolazioni siberiane); • 2) una particolare credenza (l’idea della sacralità dell’orso nella medesima area); • 3) una particolare pratica (lo sciamanesimo); • Il principale lavoro metodologico di Boas è quello di inserire un determinato tratto culturale all’interno di una serie di varianti presenti in un’area limitata. • Attraverso la comparazione degli stessi tratti e delle loro eventuali varianti osservate in popolazioni stanziate in aree limitrofe e attraverso l’analisi dei complessi culturali egli riteneva di poter ricostruire i percorsi di diffusione storica. • Qualunque tratto culturale può essere stato oggetto di diffusione nello spazio e nel tempo, e in questo processo ha subito delle trasformazioni, per adattamento in contesti culturali diversi e perché spesso gli uomini sono portati a modificare le cose che utilizzano per meglio adattarle ai loro bisogni. • In sintesi: • Non sempre tratti culturali simili possono essere dovuti alle medesime cause. Spesso si sviluppano in maniera indipendente. • Le indagini vanno circoscritte all’area di ritrovamento dell’usanza studiata osservandone la sua distribuzione geografica; • Quindi il ricorso alla comparazione deve essere limitato ad un ambito geografico definito e delimitato • L’indagine può appurare che l’esistenza del tratto culturale studiato sia dovuto a fattori ambientali e la sua distribuzione geografica sia quindi dovuta alla presenza di condizioni simili (determinismo ambientale); • Oppure se non può essere attribuito alla presenza di condizioni ambientali simili, allora si deve supporre l’esistenza di “connessioni storiche”. • L’esame della distribuzione spaziale dei tratti culturali e l’analisi delle loro varianti può fornire una serie di indizi di processi storici di diffusione, • e in tal modo è possibile ricostruire la storia culturale di una società o di un’area culturale limitata, • individuando le cause storiche che hanno portato alla formazione di determinati costumi. • Come tener conto dell’esistenza di alcune uniformità di azione e di pensiero fra popoli così diversi (ben oltre le aree limitrofe di influenza fra culture)? • Gli evoluzionisti erano soliti fare appello all’”identità della struttura psichica” dell’uomo che spiegherebbe l’origine indipendente di idee simili. • Boas invece sostiene che la presenza di fenomeni analoghi in culture diverse è dovuta all’esistenza di “connessioni storiche” di due tipi, oppure a causa di sviluppi indipendenti • 1) acquisizioni culturali “primitive”, che risalgono cioè ad un periodo precedente alla dispersione dell’umanità e che quindi sono molto antiche (per esempio l’uso del fuoco, la lavorazione della pietra, la presenza del cane come animale domestico, la conoscenza di alcuni utensili, l’animismo, ecc); • 2) Altri elementi culturali, invece, sono il prodotto di processi di diffusione verificatisi in epoche successive (per esempio i culti sciamanici – stati alterati di coscienza sperimentati da individui specializzati: gli sciamani). • La cultura occidentale li definisce “allucinazioni” e “deliri”, in termini negativi), ma presso i popoli artici, dell’Asia (Himalaya e sud est asiatico) e delle Americhe gli stati alterati di coscienza sono vissuti positivamente. • È l’esperienza dell’anima dello sciamano durante un viaggio nel mondo degli spiriti. In quanto mediatore fra uomini e spiriti, fra vivi e morti, lo sciamano assolve ad una funzione terapeutica. • Lo scopo del viaggio è identificare lo spirito responsabile della malattia e di recuperare l’anima rubata al paziente garantendone così la guarigione. • Ma può anche avere una funzione divinatoria: predire il futuro, interpretare i sogni, scoprire le intenzioni del nemico. • La variabilità dell’esperienza della trance: • Le cause che inducono stati alterati di coscienza sono molteplici e di varia natura e sono distinte sul piano geografico. • - Alcune dipendono dalla presenza di sostanze psicotrope che provocano stati di tipo allucinatorio in certi ambienti piuttosto che in altri (peyote, tabacco, banisteriopsis, ecc. America latina e del sud, sud degli USA); • - in altri casi si utilizzano i battiti di tamburo (sciamani siberiani e nordamericani); • - gli indiani delle Pianure ricorrono alla deprivazione fisica e alla auto-tortura • Oltre ai culti sciamanici (trance senza possessione) esistono poi casi di trance da possessione nettamente distinti sul piano geografico (specialmente Africa SubSahariana, afroamericani di Haiti, ma anche in alcune zone dell’Eurasia). • Fenomeno tipicamente femminile, condizione esistenziale intollerabile, abbandono della famiglia di origine e difficoltà di adattamento nella famiglia del marito => strategia di fuga e compensazione illusoria (rimette la donna al centro dell’attenzione sociale) • Tuttavia non possiamo disinvoltamente estendere troppo la comparazione di specifici processi storici. Quando riscontriamo una analogia di singoli tratti culturali fra popolazioni molto distanti fra loro è presumibile che non vi sia comune origine storica, bensì sviluppo indipendente. • Emergono quindi tre tendenze in Boas: • 1) il diffusionismo • 2) il particolarismo storico (l’importanza dello studio del contesto) • => Lo studio della cultura è un problema storico (“come le cose sono arrivate a stare come stanno”) • 3) la ricerca sul campo: l’importanza dell’osservazione diretta, dell’apprendimento delle usanze locali, della conoscenza della lingua locale come via di accesso alla comprensione della cultura studiata. L’esperienza della ricerca sul campo L’osservazione partecipante • • • • Dopo il periodo dei cosiddetti antropologi da tavolino [armchair anthropologists] che avevano dominato la scena durante tutto il periodo vittoriano e anche oltre; alcuni antropologi, invece, aggregandosi a missionari ed esploratori avevano iniziato ad applicare semplici tecniche di osservazione senza partecipazione); Ricorso agli informatori, spesso pagati come assistenti e interpreti. Non necessariamente si trattava di nativi locali; Interviste non strutturate; Raccolta di genealogie e storie di vita (tecnica ancora attuale in determinate ricerche sul campo); • Prima con Boas e poi soprattutto con Malinowski la ricerca sul campo di diventa una “affare serio”, una pratica irrinunciabile. • Vivendo a stretto contatto con i soggetti della propria ricerca, l’antropologo comincia a percepire il significato di gesti e di battute che prima non comprendeva, si avvicina al loro modo di vivere e alle loro abitudini (mangiando con loro, come loro ecc.), impara ciò che si può fare (o dire) e ciò che non si può fare (o dire). • L’antropologo comincia a comprendere come i suoi soggetti vedono il proprio mondo e quelli sono i loro punti di vista. • L’esperienza della ricerca sul campo segna il passaggio dal mondo dell’antropologo a quello dei suoi soggetti • (ma è un continuo va e vieni) • Il “selvaggio” è quello che sa, mentre l’antropologo è come un bambino che non sa nulla e deve imparare tutto. • Immergendosi nella cultura altera l’antropologo privilegia l’aspetto contestuale e col tempo riesce a comprendere le connessioni fra le varie istituzioni, la complessità del sistema sociale, non vede più ciascuna istituzione come un elemento isolato, bensì un complesso reticolato fatto di nodi comunicanti • L’osservazione partecipante è ricerca sul campo, mentre l’inverso non è sempre vero. Esempi per chiarire: • a) Se si invia un questionario per posta e ci si aspetta di riceverli completati per posta, questo non è fare ricerca sul campo, né osservazione partecipante; • b) Se invece ci si reca personalmente ad effettuare interviste faccia a faccia questa è ricerca sul campo, ma non osservazione partecipante; • c) Se ci si reca a visitare un mercato rionale e si cerca di studiare il comportamento dei clienti e dei venditori ambulanti osservandoli mentre effettuano delle transazioni monetarie, anche questa è ricerca sul campo, ma non osservazione partecipante; • d) Se invece l’antropologo partecipa a questa attività di scambio e di transazione, allora in questo caso si può parlare di osservazione partecipante (e ovviamente ricerca sul campo). • La partecipazione può assumere diverse forme (aiutare un venditore, fare acquisti, parlare con venditori e acquirenti ecc.); • È evidente che l’osservazione partecipante sta alla base della ricerca etnografica e antropologica ed è composta da due azioni principali: • Il partecipare: implica recarsi di persona nel luogo della comunità che diventa soggetto di studio, cercando per quanto è possibile di vivere come i membri di questa comunità o perlomeno cercare di vivere nella loro quotidianità. Vivendo in mezzo a loro ci si propone di capire che cosa pensano e che opinioni si fanno quando agiscono. • L’atto di osservare invece implica avere uno sguardo antropologico che sia obbiettivo e anche distaccato, o almeno che si sforzi di essere tale, anche quando l’osservatore è testimone di pratiche e costumi che non condivide moralmente. • Tra queste due azioni se ne inserisce un’altra: l’atto di ascoltare. L’etnografo è un ascoltatore: i dialoghi tra le persone e con le persone rientrano nel campo della sua curiosità professionale ed hanno un grande valore euristico. L’osservazione partecipante: alcune fasi specifiche • 1) Periodo iniziale di contatto: si registra euforia ed entusiasmo per il fatto di trovarsi finalmente nel luogo prescelto per la propria ricerca sul campo. Tuttavia alle volte si assiste a situazioni che suscitano repulsione ed orrore, oltre che sorpresa; • 2) Shock culturale – situazione di stress emotivo: le forti emozioni da parte dell’etnografo alternano momenti di grande esaltazione con momenti di scoramento; specialmente quando l’ambiente circostante diventa più familiare e dunque si esaurisce quella sensazione di novità dei primi giorni. La situazione di stress può essere difficile da gestire, specialmente quando la prospettiva di dover sottostare a regimi abitudinari diversi da quelli a cui si è abituati non è particolarmente gradevole: abitudini culinarie, pratiche educative, condizioni igieniche. La mancanza di privacy è una delle problematiche più diffuse tra chi si reca in piccole comunità. • 3) La “scoperta dell’ovvio”: la raccolta sistematica di dati basati su attività quotidiane. • • • Fieldwork di un anno, almeno (o due come consigliava Malinowski). Tradizionalmente la ricerca sul campo si svolgeva per un periodo di tempo minimo di 12 mesi, per consentire all’antropologo di osservare tutti i cicli stagionali, e quindi verificare le possibili diversità di comportamento e la varietà degli eventi); [Ora si è più flessibili]. La comprensione del linguaggio locale (possibile se il periodo di permanenza sul campo è relativamente lungo); • Altre categorie professionali, oltre agli antropologi e sociologi, praticano l’osservazione partecipante: • Il missionario • I’assistente sociale • Il giornalista d’inchiesta • L’attore • Spie e infiltrati. Etnografia • 1) Etnografia intesa come pratica di ricerca, lavoro sul campo prolungato e valorizzato dall’osservazione partecipante. • 2) Etnografia intesa come la descrizione documentata e scritta, di un lungo lavoro di analisi che ha necessitato l’applicazione di una serie complessa di operazioni di indagine conoscitiva in un determinato gruppo, società, cultura. • 3) Etnografia come complesso di lavori compiuti su una determinata area culturale. (etnografia mediterranea, artica, mediorentale, ecc… Quindi => • - etnografia come ricerca sul campo • - etnografia come testo (monografia etnografica), il punto di arrivo della ricerca, la scrittura. • - etnografia come corpus delle opere disponibili • Viaggiare (spostamento nello spazio, spaesamento) • Comunicare (esperienza sul campo, dialogo con il nativo) • Rappresentare. Come rappresentare i propri soggetti? => strategie di localizzazione per mezzo di rappresentazioni che già possediamo e che rendono i nostri soggetti spazialmente situabili e riconoscibili dalla comunità accademica o dai lettori in generale => per es. la suddivisione in aree culturali. • Descrivere – la dimensione della scrittura. La scrittura traduce l’esperienza etnografica trasformandola in un testo. C’è uno scarto quindi tra l’essere là (sul campo) e l’essere qui (a raccontare del campo) • Modellizzare (modelli rappresentazionali e operazionali; norma e comportamento; il dire e il fare) • Comparare (l’antropologia è un sapere intrinsecamente comparativo in virtù del fatto che esiste un apparato etnografico che lo permette) • Critica al paradigma etnografico “classico” da parte dell’antropologia postmoderna. • Il cambiamento del paradigma è determinato dal fatto che emergono nuove situazioni (la caduta del sistema coloniale, gli studi di genere) e che ci si pongono nuove domande. • Crisi della rappresentazione etnografica. Come rappresentare gli altri inserendoli in un mondo globalizzato? Problematizzazione della dimensione spaziale. Etnografia multisituata. • Problematizzazione della dimensione temporale (superamento del presente etnografico). • Problematizzazione del proprio punto di vista: l’autorità etnografica, il racconto dialogico, polivocalità dei punti di vista: l’autore e gli informatori) • Problematizzazione della scrittura: la narrazione “riflessiva”. Costante tensione tra introspezione e interpretazione; tra linguaggio analitico e linguaggio narrativo. Il narratore riflessivo si presenta come un soggetto in mezzo ad altri soggetti, dichiarando la sua parzialità e selettività del suo punto di vista. • L’etnografia è considerata una finzione, non nel senso che si tratti di un prodotto non aderente alla realtà, bensì nel senso di prodotto che è elaborato, concepito, fabbricato da qualcuno che offre un’immagine incompleta e parziale del mondo.