La follia e la societaà: nascita ed evoluzione delle

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Istituto MEME
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
LA FOLLIA E LA SOCIETÀ
Nascita ed evoluzione delle istituzioni preposte alla cura dei malati mentali
Scuola di Specializzazione:
Relatore:
Tesista specializzando:
Anno di corso:
Scienze Criminologiche
Dott. ssa Roberta Frison
Dott. ssa Tagliafierro Mariantonietta
Secondo
Modena, 10 giugno 2007
Anno Accademico 2006 - 2007
ISTITUTO MEME S.R.L.- MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
MARIANTONIETTA TAGLIAFIERRO - SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE (SECONDO ANNO) A.A. 2006/2007
Indice dei contenuti:
Premessa ................................................................................................................ 3
1.
Dalla lebbra alla follia
................................................................. 4
1.1
L’età classica e l’internamento ................................................... 8
1.2
La follia ............................................................................................. 11
2 Italia: i manicomi al momento dell’Unità ........................... 16
2.1
La psichiatria tra ottocento e novecento ............................... 18
2.2
Gli scandali dei manicomi .......................................................... 22
3 I manicomi criminali
3.1
...................................................................... 26
La legislazione dei manicomi dall’Unità ad oggi ............... 27
3.1.1
Codice Zanardelli e la legge “Disposizioni sui manicomi e sugli
alienati” ....................................................................................................... 29
3.1.2
Codice Rocco ............................................................................... 31
3.2
Modifiche giuridiche dagli anni ’70 ........................................ 33
3.3 Leggi 180 e 833 del 1978, la Legge Gozzini e i nuovo
codice penale del 1988 ............................................................................. 35
3.4 Decreto amministrativo n. 230 del 1999 e il nuovo
regolamento del sistema carcerario (D.P.R 230/2000) .................. 39
4 Tipologie giuridiche di internati in OPG ............................. 42
5 Conclusioni ........................................................................................... 43
Bibliografia ................................................................................................... 45
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Premessa
Il fascino che i mondi nascosti nelle menti dei pazzi e dei folli hanno sempre
suscitato ha avuto come contro altare il disprezzo dei comportamenti antisociali
con cui la malattia mentale si è sempre manifestata.
Medici, pittori, poeti, filosofi hanno cercato, nel corso dei secoli, di trovare
le risposte che potessero placare le domande, le angosce che i “malati di mente”
generavano (e generano tuttora) nella società.
I capitoli che seguono cercheranno dare un quadro storico della follia e di
come si è affrontata in base, non solo, alle varie teorie che a turno erano applicate,
ma anche alle esigenze che le trasformazioni sociali hanno, di volta in volta,
richiesto per rispondere ai bisogni che si venivano a determinare.
1° capitolo: dove si parlerà delle influenze che il Medioevo ha avuto sulla
follia, sulle connessioni con la lebbra e delle descrizioni che la follia ha avuto
nell’arte e nella letteratura.
2°capitolo: dove sarà analizzata la situazione dei manicomi in Italia
dall’Unità sino ai giorni nostri,
3°capitolo: dove si cercherà di tracciare il quadro legislativo relativo ai
manicomi criminali;
4°capitolo: breve descrizione dei soggetti giuridici internati negli OPG.
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1.
Dalla lebbra alla follia
Non si può fare una digressione storica sui manicomi e sulle influenze che
la follia ha avuto nelle società moderne, se prima non si è parlato della lebbra e
dei lebbrosari.
Lebbra e follia non hanno in apparenza punti in comune, nemmeno dal
punto di vista medico, ma sono strettamente legate in due aspetti fondamentali: gli
istituti in cui i malati venivano ospitati e i rituali applicati per la loro cura.
Nell’immaginario collettivo la lebbra veniva considerata un flagello divino
per i peccati commessi, “Nostro Signore vuole che tu sia infetto da questa
malattia, e ti fa una grande grazia quando ti vuole punire dei peccati che hai
commesso in questo mondo”.1
L’aspetto somatico e reale del morbo non aveva un’importanza rilevante e
perciò degno di cura, ma tutto era proiettato sull’aspetto spirituale, sulla punizione
divina che la malattia rappresentava; di conseguenza la cura poteva solo essere la
purificazione, che però veniva effettuata secondo rituali ben precisi, le cui finalità
erano la “salvezza” del malato, ma anche la difesa dei “sani” dalla corruzione
fisica e morale che la lebbra rappresentava.
I lebbrosari nascono quindi dal bisogno della società di allontanare ogni
pericolo che la malattia causava, ed il processo era inclusione/esclusione dalla
società stessa: il malato stava all’interno della società, ma nello stesso tempo era
separato da essa con un cerchio sacro che lo rendesse inoffensivo: “E benché tu
sia separato dalla Chiesa e dalla compagnia dei Sani, tuttavia non sei separato
dalla grazia di Dio”.
In questo stesso periodo (Medioevo) la follia veniva classificata all’interno
dei vizi e i matti rappresentavano, in modo specifico e grottesco, un’altra
immagine della corruzione dell’anima insita in ogni uomo.
Verso la fine del Medioevo questa visione cambia nella letteratura e
soprattutto nell’iconografia, la pazzia viene ad acquisire un’immagine più
1
FOUCAULT MICHEL, "Storia della follia nell’età classica", op. cit. pag. 13.
4
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travagliata: l’Europa viene percorsa dalle “navi dei folli”, che vagano da città in
città senza trovare luoghi stabili dove poter lasciare il loro doloroso carico.
Hieronymus Bosch, La nave dei folli,Luovre, Parigi
Il folle si ritrova così ad essere prigioniero della nave che lo ospita,
trasportato da quella enorme distesa d’acqua che, nel sentire fine medioevale,
rappresentava sia l’incertezza del vivere umano, che l’elemento purificatore per
eccellenza.
Di norma su questi battelli venivano caricati i folli stranieri, quelli di cui le
varie città non potevano farsi carico, mentre assicuravano, nel limite delle
possibilità, assistenza ai propri concittadini bisognosi di aiuto. Queste navi, che
sono probabilmente realmente esistite, quasi certamente erano navi di
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pellegrinaggio, il cui scopo era quello di “cercare” la ragione che queste povere
anime avevano perso.
In questo stesso periodo i lebbrosari sono praticamente quasi vuoti in
seguito alla segregazione attuata, che ne limitò il contagio, e per la fine della
crociate, che evitò il contatto con ulteriore focolai stranieri, non certamente per le
“cure” in realtà inesistenti. Grazie a questo spopolamento le nuove anime
bisognose di aiuto trovano un luogo dove essere ospitate, non per essere curate,
ma per essere coinvolte in tutto quel rituale di purificazione così caro al
medioevo. In realtà, prima che questo accada, la follia dovrà passare al vaglio del
Rinascimento, che da semplice vizio dell’anima la trasforma in regina di tutto
l’agire dell’uomo. Sarà l’età classica che spoglierà i simboli medioevali dai loro
significati spirituali: le figure grottesche che dovevano rappresentare i peccati e le
malvagità rimangono figure del non-senso, perché caricate di significati
molteplici rispetto all’originario. Questa pluralità di significati rappresenta quel
sapere difficile ed esoterico che la follia raffigura. In questa chiave di lettura il
folle è tale perché conosce il sapere più profondo, ma che Sapere è che toglie la
ragione? È il sapere del regno di Satana, che annuncia il suo tempo e la successiva
fine del mondo.
Se l’Apocalisse ha sempre fatto parte del panorama medioevale, dove però
la vittoria di Dio era sempre alle porte, ora tutto sprofonda , non c’è più nessuna
luce di salvezza, ma solo la Follia che regna sovrana.
È la follia che governa l’uomo in tutto ciò che è malvagio, ma anche in tutto
ciò che è bene e questo nuovo ruolo allontana tutta l’oscurità che fino a questo
momento rappresentava. Non perde la sua funzione di punizione, una punizione
comica che dà all’ignorante la presunzione della saggezza; rimanendo legata alle
debolezze e alle illusioni umane.
Il processo del Rinascimento, attraverso il quale la follia perde la tragicità
tipica del medioevo, lo si può riassumere in due punti essenziali:
1. ragione e follia divengono i lati di una stessa medaglia, senza l’una non
esiste l’altra: la ragione giudica e domina la follia, mentre la follia trova
nella ragione il suo lato derisorio. Il considerarsi misura del mondo e
immagine di Dio porta l’uomo a volgere lo sguardo non sulla Verità, ma
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sull’abisso dell’insensatezza che la grandezza del Creatore genera nella
mente limitata dell’uomo: “Signore, il tuo disegno è un abisso troppo
profondo”.2 Superare le proprie debolezze e i propri limiti obbliga l’uomo
a spogliarsi di tutte le certezze date dalla sua dimensione divina.
2. La ragione ha la follia come sua componete sia segreta che manifesta, ma
per evitare che quest’ultima prenda il sopravvento la ragione deve portare
l’uomo a prendere coscienza della propria caducità: solo così sarà in grado
di distinguere il bene e il vero, ed impedire alla follia di manifestarsi in
tutta la sua potenza.
L’uomo utilizza la ragione percorrendo le strade della follia: “la vivacità
delle immagini, la violenza delle passioni, questo grande ritrarsi dello spirito in
se stesso, che appartengono davvero alla follia, sono gli strumenti della ragione
più pericolosi, perché più acuti.”3.
La letteratura verrà influenzata dalla nuova visione della follia a tal punto da
descriverne quattro forme:
1. FOLLIA PER IDENTIFICAZIONE: le fantasie dello scrittore sono un
aspetto della realtà, e rappresentano l’incertezza tra l’invenzione
puramente fantastica e le invenzioni del delirio della mente.
2. FOLLIA DI VANA PRESUNZIONE: il folle non può rimanere costretto
in un modello letterario, ma rimane fedele solo a se stesso. Questo gli
permette di attribuirsi tutte le qualità e le virtù che non ha. Questa forma di
follia è comune a tutti gli uomini, perché riguarda il rapporto più intimo
che ogni uomo ha con se stesso, con i suoi sogni e suoi fallimenti
3. FOLLIA DEL GIUSTO CASTIGO: dove la follia punisce lo spirito per le
passioni dell’anima e del cuore. Il castigo è proporzionale alla verità, che
attraverso le punizioni viene rivelata.
4. FOLLIA
DELLA
PASSIONE
DISPERATA:
dove
la
mancanza
dell’oggetto d’amore, il più delle volte sottratto all’amato/a dalla morte,
2
CALVINO, "Sermon II sur l’Epitre aux Ephésiens", Calvino, "Textes choisis", a cura di Gagnebin e
K. Barth, p.73, in Foucault Michel, "Storia della follia nell’età classica", op. cit. pag. 38.
3
FOUCAULT MICHEL, "Storia della follia nell’età classica", op. cit. pag. 41.
7
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diviene insostenibile a tal punto da portare al suicidio; atto finale che ha
come retrogusto una dolcezza infinita: i due amanti verranno uniti
nell’eternità da quella stessa morte che inizialmente li aveva divisi.
La follia descritta nelle opere letterarie è senza via d’uscita, non ha
soluzione di nessun tipo; non esiste nessuna cura medica, ma solo la
“misericordia divina”4.
Verso la fine del XVII secolo la follia non è più la manifestazione della
tragicità della vita umana, ma rappresenta solo l’ironia insita nelle illusioni di cui
il genere umano non può fare a meno.
Perde la sua funzione punitiva, perché il castigo è proporzionato all’errore
commesso e l’attuarsi della condanna permette il venire a galla della verità.
L’illusione che crea la situazione finta, ma drammatica nello stesso tempo, viene
dissolta dalla veridicità dei fatti.
La Nave dei folli ha ormeggiato.
In questa nuova idea della follia il medioevo, con le sue immagini
dell’impossibile, con il suo legame inscindibile tra l’uomo e la morte, si dissolve
tra le mura degli ospedali dove il suo carico verrà ospitato.
1.1 L’età classica e l’internamento
La follia viene messa in silenzio durante l’età classica e Cartesio, esponente
di punta del pensiero razionalista, la relega al di fuori di tutto quello che concerne
la Saggezza e il Pensiero.
L’uomo che pensa, che dubita, che ricerca il vero attraverso il ragionamento
non può avere niente a che fare con la follia, essendo quest’ultima emblema del
non senso.
4
William Shakespeare, “Macbeth”, atto V, scena I, in
nell’età classica", op. cit. pag. 44.
8
4
FOUCAULT MICHEL, "Storia della follia
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Il XVII sec segna la nascita delle case di internamento dove, nei secoli
successivi, verranno rinchiusi poveri, malati e detenuti in maniera indiscriminata.
Il raggruppamento di alcune istituzioni di assistenza in un decreto del 1656
sancisce la nascita del primo Hospital general a Parigi. Compito di questa
istituzione sarà “… di accogliere,di alloggiare e di nutrire coloro che si
presentano soli, o che sono inviati dall’autorità reale o giudiziaria; bisognerà
anche provvedere alla sussistenza, alla buona tenuta, all’ordine …”5; per
svolgere queste mansioni saranno necessarie figure professionali ben definite:
•
il direttore, con nomina a vita, con poteri ben delineati anche al
di fuori dell’ospedale, “essi hanno potere di autorità, di
direzione, di amministrazione, di commercio, di polizia, di
giurisdizione, di correzione e punizione su tutti i poveri di
Parigi, tanto fuori che dentro l’Hospital general”6.
•
il medico, scelto direttamente dal direttore, ha l’obbligo di
visitare l’hospital due volte alla settimana.
La creazione dell’Hospital ha una funzione strettamente repressiva, nata tra
le funzioni della polizia e quelle della giustizia, al suo interno i direttori hanno
potere assoluto, con una strutturazione semigiuridica che gli permette di decidere
e giudicare: “a tal scopo i direttori avranno, secondo il loro avviso, pali, berline,
prigioni e segrete nel suddetto Hospital general e nei luoghi che ne dipendono
…”.7
Tra le mura dei vecchi lebbrosari, oramai abbandonati, si affacciano i visi
della povertà, della malattia mentale e della giustizia spesso senza nessuna
distinzione le una tra le altre. La chiusura/segregazione, come avveniva per i
lebbrosi, ha significati morali,politici e sociali ben definiti e, come per i
lebbrosari, non vi è nessuna caratteristica medica e di cura, ma solo il bisogno di
creare e di mantenere l’ordine .
5
FOUCAULT MICHEL, "Storia della follia nell’età classica", op. cit. pag. 55.
6
Editto del 1656,art.XIII, in Ibidem.
7
FOUCAULT MICHEL, "Storia della follia nell’età classica", op. cit. pag. 55.
9
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In Inghilterra la genesi dell’internamento è ancora più remota. Le prime
leggi promulgate riguardavano sia la punizione di chi vagabondava che il dare
assistenza ai poveri. Nascono le houses of corretion finanziate dallo stato
attraverso imposte, ma nello stesso tempo venivano incoraggiate donazioni
private. Il panorama che si viene a delineare in questi primi tentativi di garantire
un ordine sociale stabile, porta a mischiare, all’interno di queste case di
correzione e di internamento una moltitudine di “generi umani”: il vagabondo, il
delinquente, il folle, ma anche figli ingestibili o dilapidatori delle finanze.
L’ideale di fondo che muove la nascita di questi istituti di repressione e
tutela è influenzato dalla nuova “sensibilità sociale” che caratterizza questo
periodo storico. L’approccio riguarda non solo i poveri o i malati mentali, ma
coinvolge anche la nuova etica sul lavoro e le conseguenze che i problemi
economici riversano sulla società.
La positività mistica con cui il medioevo avvolgeva la povertà e gli
indigenti, scompare durante il razionalismo. Tutti gli aspetti positivi che avevano
caratterizzato la povertà, il dolore, le opere di carità vengono cancellati dalla
nuova concezione della Riforma Luterana: l’uomo è predestinato e Dio mostra la
sua ira attraverso l’afflizione di punizioni ben visibili socialmente.
Diviene un “dovere” sociale occuparsi di chi si trovava in difficoltà a causa
dei suoi peccati non per sollevare il soggetto dal disagio, ma per sopprimere le
molteplici manifestazioni di questo disagio.
Anche il cattolicesimo, con la Contro Riforma, arriva ad allinearsi con il
pensiero luterano e calvinista: miserabili, mendicanti non sono più uno strumento
di Dio per suscitare la carità dei più abbienti e, attraverso la pietà, permettere la
salvezza delle loro anime, ma sono solamente la manifestazione della corruzione
morale causa della quale vengono rifiutati.
Il nuovo filtro con cui viene considerata questa enorme massa umana è
quella del lavoro e del ricavo economico: ora il peccato maggiore non sono più
l’orgoglio e la superbia, ma la pigrizia e l’ozio. Perciò compito dello stato e della
società è quello di togliere dalla vista dei lavoratori chi sfidava Dio non
rispettando nessuna regola.
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L’internamento ha una duplice valenza: è un mezzo per garantire l’ordine
sociale compromesso dai senza lavoro, e obbligare gli internati a lavorare
garantisce al mercato mano d’opera a bassissimo costo.
È il lavoro che ora assume il ruolo di salvatore delle anime dannate. E il
lavoro svolto nelle case di internamento viene investito di significato etico, come
risposta alla rivolta contro Dio posta in atto dalla Pigrizia.
I folli spiccheranno in questo contesto per la loro incapacità di adattarsi alle
regole, di eseguire lavori e di coordinarsi ai ritmi della comunità dove vengono
rinchiusi.
1.2
La follia
L’evoluzione del concetto di follia dal Medioevo all’età classica, passando
per il Rinascimento, perde nel corso dei secoli tutti quegli aspetti positivi che la
definivano come una degli aspetti dell’animo umano. L’internamento dei folli
insieme ad una variegata moltitudine senza nessuna distinzione tra poveri,
dissoluti, padri dissipatori o bestemmiatori è la conseguenza di questa perdita.
Nella massa di esseri che popolano le case di correzione i folli hanno,
rispetto a diversi abitanti, solo una parola che li distingua approssimativamente
rispetto agli altri: FURORE con il quale di identificano tutte le forme di violenze
che non rientrano in quelle di delitto o che non hanno una precisa collocazione
giuridica.
I metodi di intervento nell’età classica nei confronti della follia non sono
però tutti omogenei: troviamo ospedali sparsi in tutta Europa con statuti speciali,
in cui viene sancito il diritto di cura e si descrivono le cure necessarie “salassi,
purghe, vescicanti, bagni”8. In realtà queste cure non sono indirizzate alla follia
vera e propria ma “febbre delle prigioni” considerata molto più pericolosa e,
soprattutto, più infettiva della follia.
8
FOSSEYEUX, “ L’Hotel-Dieu de Paris VII siècle et au XVIII siècle”, Paris, 1912 in FOUCAULT
MICHEL, "Storia della follia nell’età classica", op. cit. pag.114.
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Se lo scopo dell’internamento non è la cura, qual è la motivazione di questo
intervento? La correzione e il riportare la sua mente alla ragione perduta. I folli,
all’interno delle istituzioni preposte al loro contenimento, devono seguire le
regole e gli interventi che vengono applicati per tutti quelli internati è: “… seguire
il regime della correzione, praticandone gli esercizi, e obbedire alle leggi della
sua pedagogia”9. E il termine dell’internamento? Questo si verifica se il soggetto
si è convertito alle regole imposte, non si parla di guarigione, ma di efficacia della
punizione.
Sono due le esperienze della follia nel corso del XVII e del XVIII secolo:
•
Folli come malati, perciò accolti negli ospedali e nelle case
correzionali solo se curabili.
•
Follia come comportamento deviante da correggere, perciò accolti solo
per essere “migliorati” o per liberarsene.
I medici che si occupano di questi pazienti sono mossi da “pietà sociale” e
attuano quella che si può definire una “premedicina”; sono i primi a dare una
definizione delle varie manifestazioni comportamentali che si trovano ad
osservare: illuminati, imbecilli, visionari.
L’influenza che il Medioevo ha nei confronti della follia è enorme,
soprattutto per quanto riguarda il carattere di individualità con cui avvolge questa
esperienza. L’aspetto più illuminate riguarda tutta quella pratica medica così
avanza in età Medioevale, ma che non fa parte della cultura occidentale. Ed è qui
che si inserisce la forte influenza che il mondo arabo, culturalmente molto più
avanzato di quello cattolico, ha portato nell’approccio medico alla follia. Gli
ospedali arabi praticavano cure specifiche per i folli: musica, danza, spettacoli il
tutto considerato come utili allo spirito. Gli ospedali più avanzati saranno quelli
creati in Spagna, tanto che nel 1425 a Saragozza verrà fondato un ospedale che
sarà di esempio anche quattro secoli dopo: “le porte aperte con larghezza ai
malati di ogni paese, di ogni governo, di ogni culto …. La vita di giardino che
ritma lo smarrimento degli spiriti con la saggezza stagionale delle messi …”10.
9
FOUCAULT MICHEL, "Storia della follia nell’età classica", op. cit. pag.117.
10
PINEL, “Traitè medico-philosophique”, pp.238-239 in Foucault Michel, "Storia della follia nell’età
classica", op. cit. pag.122.
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Sempre in Spagna tra il 1436 e il 1489 sorgeranno ospedali per i folli con cure
mediche specifiche rispetto a tutte le istituzioni create nel resto d’Europa.
Ma con il Rinascimento questa individualità viene persa , tralasciando
quelle connotazioni mediche che rendevano la follia qualcosa di unico nel suo
genere, perché ogni persona la esprimeva in modo soggettivo. È, per finire, l’età
classica che omologa tutto quello che destabilizza in una massa indistinta di
uomini, donne, bambini il cui unico denominatore comune è il non conformarsi
alle regole. È da qui che inizia l’idea che la follia debba essere corretta, come tutte
le altre situazioni che creavano disordine all’interno della società.
Si viene a creare così una situazione ibrida, in quanto le varie esperienze
della follia non si sono perse tra le nebbie dei tempi, ma sono arrivate a convivere
tra il 1700 e il 1800, portando ad una varietà di intenti e di operati distinti e
differenziati tra loro. Gli interventi praticati sono agiti da persone con ruoli ben
definiti che agiscono in base ad ideologie ben precise.
Il primo ruolo da analizzare è quello del medico, partendo sia dal diritto
canonico che da quello romano, in quanto entrambi stabilizzano qual è il suo
compito e lo investono della responsabilità di definire chi è folle. Solo il medico,
grazie alla sua esperienza può dare una definizione certa a tutta a serie di
comportamenti particolari riconducibili alla follia, stabilendo anche quali aree
sono state colpite in che modo e in che misura.
L’internamento non si basa su una diagnosi medica, ma la sua
giurisprudenza richiede in alcuni casi una perizia per stabilire se un soggetto è
curabile, e in altri casi un certificato che descriva le cure prestate, che però non
hanno avuto effetto, giudicando così il soggetto come irrecuperabile.
Tra i vari stati europei vi erano delle differenze sostanziali sull’attuare
l’internamento:
•
Inghilterra: è il giudice di pace che decreta l’internamento.
•
Francia: internamento stabilito da una sentenza del tribunale quando il
soggetto aveva compiuto un delitto o un crimine. Raramente si farà
ricorso alla perizia medica e la situazione si complica quando nel 1667
il “potere” di internare verrà rilasciata ai luogotenenti di polizia.
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Questo quadro mostra come la follia sia divenuta un problema sociale legato
all’oltraggio e allo scandalo (nel senso di violazione della moralità condivisa
all’interno della società) e in quest’ottica sono i rappresentanti della chiesa quelli
considerati più idonei per definire la follia e chiedere l’internamento. La perizia
medica non è considerata uno strumento, e sarà cos’ì anche all’inizio del XIX
secolo, visto che ci si domanderà se i medici possono essere professionisti idonei
per diagnosticare la follia.
Ci troviamo davanti a due orientamenti nei confronti della follia:
1. Coscienza
giuridica:
persona
considerata
come
soggetto
giuridico con forme e obblighi, questi ultimi subiscono
modifiche in base proprio alla follia e quest’ultima viene
analizzata in base a questi cambiamenti. Il soggetto alienato non
è considerato responsabile della propria alienazione.
2. Individuo come essere sociale: il soggetto viene internato,
escluso secondo le affinità morali che vengono associate alla
follia. In quest’ottica il soggetto alienato viene considerato
responsabile del proprio agire.
Nel primo orientamento vengono analizzate le capacità dell’individuo
alienato e, in base a queste, verranno definite le sue facoltà, il suo livello giuridico
e le sue capacità di discutere e di impegnarsi. Mentre nella seconda posizione il
soggetto viene analizzato nei suoi comportamenti all’interno della società ed, in
base a quelli, si sancisce se l’individuo sia “normale” o “anormale”, “sano” o
“morboso”.
Da queste due posizioni partirà la medicina del XIX secolo, che avrà come
assunto di base la coincidenza dell’alienazione del soggetto di diritto con la follia
dell’uomo sociale in una realtà pedagogica che possa essere analizzata sia in
termini di diritto che in termini di sensibilità sociale: soggetto giuridicamente
incapace, ma destabilizzatore del gruppo sociale di appartenenza.
Sono i primi passi verso una giurisprudenza dell’alienazione che considera
il folle un essere umano, perciò da questo momento l’internamento è possibile
solo dopo l’interdizione del soggetto, cioè quando l’individuo alienato viene
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considerato incapace: finalmente la sua pazzia viene riconosciuta, ancora limitata
ma non più nascosta o annullata. Finalmente vengono ricompattate le due
posizioni dicotomiche che nel corso dei secoli erano servite per definire e
approcciarsi alla follia.
La nuova concezione del malato di mente nasce da questo punto di incontro
tra “il decreto sociale dell’internamento e la conoscenza giuridica che discerne la
capacità del soggetto di diritto”11.
Il risultato sarà considerare l’internamento negli ospedali un atto
terapeutico.
11
FOUCAULT MICHEL, "Storia della follia nell’età classica", op. cit. pag.134
15
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2
Italia: i manicomi al momento dell’Unità
Nei primi decenni dell’800 la situazione relativa ai malati di mente è diversa
a seconda delle legislazioni e delle amministrazioni di ogni stato. Si dovranno
aspettare i primi ani del ‘900 perché questo accada, anche se il fine comune delle
legislazioni poste in essere sino a quel momento era di impedire l’internamento
delle persone sane. Questa preoccupazione era, però, tipicamente borghese,
perché legata ad un problema patrimoniale ed economico: internando una persona
sana la si privava del suo patrimonio.
L’atteggiamento agito nei confronti dei “ricchi” non era lo stesso che si
attuava nei confronti della popolazione dei ceti più poveri. A quest’ultimi
l’internamento era applicato in modo coercitivo e indiscriminato, in quanto
garantiva l’ordine pubblico, e non destava nessuna preoccupazione come
quest’ultimi venivano trattati.
La maggior parte degli istituti adibiti a manicomi erano vecchi lebbrosari
(come spiegato nei capitoli precedenti) o vecchi ospedali e le stanze erano spesso
anguste e umide, i pazienti erano tenuti in condizioni igieniche pessime. Anche le
cure erano coercitive e invasive: le catene e le camice di forza erano state abolite
all’inizio del secolo, ma erano state sostituite con le cinture di cuoio.
Camicia di forza
Polsini di forza
Cintura di cuoio
16
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Altri strumenti furono i letti di coercizione: “letto orizzontale di forza, e
verticale. L’ammalato bisognoso di quel violento artificio, vien disteso
orizzontalmente dentro una cassa quadrilunga, o senza coperchio, il cui fondo
sostenutola piastrini di muro cotto ed ha al centro un forame rotondo destinato al
passaggio degli escrementi che si raccolgono in un vaso sottoposto.”12.
Letto di contenzione
Furono diverse le cure a cui furono sottoposti i paziente:
•
Salassi.
•
Purganti.
•
Bagni tiepidi alternati all’utilizzo di berretti di ghiacci: “… bagni
tiepidi; qualche volta bastarono questi soli per ottenere la
guarigione. Così pure le fredde docciature al capo nel tempo del
bagno. Il berretto di ghiaccio continuato per più giorni senza
interruzioni hanno procurato eccellenti risultati.”13
•
Docce: “…La doccia che viene dall’altezza di tre metri
direttamente sul capo con una colonna di acqua fredda del
diametro dai due ai tre centimetri rimanendosi il paziente seduto
su una scranna e sia protratta ad alcuni minuti, riduce la
maggior parte degli ostinati”.14
Urna per la doccia
12
Osservazioni statistico-pratiche raccolte nel manicomio di Sant’Orsola in Bologna nel decennio 18421851cit., p.425.
13
Ibidem, p 425.
14
G. B. FANTONETTI, “del giusto valore ecc.” cit., p. 37 e sgg.
17
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Gli ultimi due trattamenti più utilizzati in quasi tutti i territori dell’Italia
pre e post unità furono:
•
la camera oscura “nella quale anche le pareti, la soffitta, il
pavimento sono tutti tinti di nero: in alto è fisso al muro un
telaio con la pelle tesa la quale, battuta, fa rumore d’inferno
affine di spaventare e così deprimere la soverchia energia
del maniaco”15;
•
il lavoro, considerato la migliore terapia da attuare per
insegnare le regole ed assoggettare meglio i degenti.
Le teorie che stanno alla base delle cure e degli interventi agli alienati hanno
come punto di partenza diverse definizioni della follia.
Se da una parte si considera causa della follia solo l’aspetto organico;
dall’altra inizia a prendere piede un aspetto più “psicologico” della malattia,
relativo alle emozioni e all’anima che attraverso queste si manifesta, sino d
arrivare ad una posizione “mista” nell’approccio a questa patologia, che aprirà la
strada al nuovo secolo.
2.1 La psichiatria tra ottocento e novecento
L’origine organica della follia, è sempre stato il punto di partenza di quasi
tutte le sue definizioni a partire dalla fine del 700: le lesioni all’interno del
cervello erano considerate la causa delle alterazioni comportamentali degli
alienati, anche se esami autoptici effettuati su cervelli di pazzi non hanno mai, di
fatto, confermato questa credenza.
15
CANOSA ROMANO, “Storia del manicomio in Italia dall’unità ad oggi” cit., p. 40.
18
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Chiarugi, uno dei massimi sostenitori italiani, delinea i criteri secondo i
quali definire la follia: “ a) diuturnità del delirio; b) offesa primitiva dell’organo
cerebrale; c) assenza di febbre primaria.”16.
È sempre il “senso motorio” ad essere alterato e queste alterazioni possono
agire sul cervello sia in modo meccanico che fisico e, per finire, “per chimica
operazione interiore”17: è qui che si inserisce l’idea che a produrre gli scompensi
comportamentali possa essere anche una causa morale. Questo nuovo elemento
porta dei cambiamenti anche nelle cure da somministrare agli alienati.
Il maggior sostenitore delle cause morali della follia fu il francese F. Leuret,
il quale considerava il “trattamento morale” come l’unico valido per guarire la
malattia mentale. Durante i suoi studi, anche eseguendo autopsie, dimostrò che la
follia poteva essere presente anche in soggetti che non presentavano nessuna
lesione a livello cerebrale. Considerava inutili i trattamenti farmaceutici, ma solo
gli interventi psichici che avrebbero agito “… sugli attributi dello spirito e
nell’immaterialità dello spirito …”18. Il trattamento morale doveva generare nel
folle quelle passioni antagoniste rispetto a quelle che lo dominavano. Leuret non
considerava importanti i sentimenti del malato durante il trattamento in quanto
considerava il malato alla stregua di un bambino che andava educato al giusto
comportamento.
In Italia le teorie di Leuret furono criticate, anche se la posizione fu più
quella di una commistione tra l’organicismo e lo psicologico. Esponenti come
Fantonetti teorizzavano che la causa della follia risiedesse nell’incapacità del
cervello di riceve e comprendere gli ordini che l’anima dava.
Verso la fine del secolo sostenitore della causa organica fu Salvatore
Tommasi, che cercò di spiegare la presenza della follia in un soggetto che non
presentava lesioni fisiche al cervello, arrivando a sostenere che la follia fosse un
disordine dei processi chimici localizzato nell’encefalo.
16
V. CHIARUGI, “ Delle pazzia in genere e in specie”, tomo I Gioacchino Pagani stamp., Firenze 1808
(rist.), p. 2.
17
CANOSA ROMANO, “Storia del manicomio in Italia dall’unità ad oggi” cit., p. 50.
18
Ibidem, p. 52.
19
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La posizione organicista investiva così il medico di importanza primaria
nella cura e nel controllo degli alienati, tanto da ipotizzare che “i disordini
dell’emotività …le affezioni dell’anima … le idee abbiano un corpo piccolissimo
e mobilissimo tale da costituire delle molecole ideali idonee a dar luogo a delle
cause encefaliche …”.19
In realtà i maggiori assertori del “potere assoluto” ai medici non furono gli
organicisti, ma i sostenitori delle teorie psicologiche. L’autorità del medico veniva
considerata fondamentale nel momento della cura attraverso “l’intimidazione” del
folle per farlo ragionare: “… raccomanda la paura come mezzo di intervento il
quale diminuendo l’orgasmo eccitato del cervello dei folli irascibili, può
calmarne gli accessi.”20
Sulla base di tutte le teorie esposte il risultato fu una organizzazione
manicomiale paragonabile al carcere con una sottile differenza: “data la scarsa
capacità contrattuale dei folli, il dominio sulla popolazione degli asili per alienati
era assai più esteso ed illimitato che non nelle prigioni.”21
Per quanto riguarda la validità dei risultati terapeutici ottenuti il discorso è
ovviamente diverso.
Verso la fine del XIX secolo arrivano da Oltralpe nuove teorie per tentare di
dare ulteriori spiegazioni alla follia: B. Morel introdusse il concetto di
degenerescenza, “uno stato patologico dell’essere che, in confronto ai suoi
generatori più immediati, è costituzionalmente diminuito nella resistenza
psicofisica e non realizza che in modo assai incompleto le condizioni biologiche
della lotta ereditaria della vita”22, più semplicemente le origini di una condizione
mentale alterata andavano ricercate sia nell’ereditarietà che nelle influenze
ambientali avute in tenera età.
Suo discepolo fu V. Magnan il quale arrivò a classificare i folli in due
gruppi distinti:
19
Ibidem, p. 58.
20
J. DAQUIN, “La philosophie de la folie”, Librarie Nèe de la Rochelle, Paris 1792 p. 57 in Canosa
Romano, “Storia del manicomio in Italia dall’unità ad oggi” cit., p. 62.
21
CANOSA ROMANO, “Storia del manicomio in Italia dall’unità ad oggi” cit., p. 65.
22
Ibidem, p 70.
20
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•
i normali che influenzati da cause diverse divengono malati
(maniaci, melanconici, deliranti, …);
•
i degenerati, con menti disturbate, che anche per stimoli molto
banali ed innocui manifestano grandi turbamenti. Questi ultimi
vennero a loro volta suddivisi in:
o degenerati inferiori e medi, che presentano lesioni cerebrali
molto marcate e le cui facoltà intellettuali e morali molto
indebolite;
o degenerati superiori con lesioni cerebrali deboli e con uno
sviluppo intellettuale e morale disarmonico.
Queste teorie trovavano la loro matrice nelle contemporanee scienze
darwiniane, ma in Italia non ebbero moto di svilupparsi se non parzialmente nella
nuova scienza delle criminologia, il cui maggior esponente fu Lombroso.
Accanto a queste nuove teorie che cercano di dare un perché scientifico alla
follia, dal mondo anglosassone arrivano nuovi approcci di intervento nella cura
degli alienati. L’eliminazione dei mezzi coercitivi (no restraint), la chiusura dei
manicomi e la possibilità, da parte dei pazienti, di poter uscire da questi (open
door) furono le innovazioni che travolsero la realtà italiana, ma che nello stesso
tempo vennero aspramente criticate .
Nei confronti di questi due aspetti le critiche mosse durante il Congresso di
Padova del 1904 furono condivise da quasi tutto il panorama medico, con qualche
sottile differenza: se per quanto riguardava l’open door il diniego era totale, nei
confronti del no restraint l’atteggiamento fu più possibilista: “il restraint assoluto,
benché rappresenti nel trattamento dei pazzi, un metodo ideale, è, almeno nelle
condizioni attuali, di difficile applicazione nei nostri manicomi. Invece il no
restraint attenuato, inteso cioè nel senso che i mezzi coercitivi vengano applicati
in casi eccezionali e di necessità, in modo temporaneo e dietro ordine del medico,
può rendere utili servigi, senza venir meno ai precedenti dell’umanità e del
decoro.”23
23
Vedine il testo in “Rivista sperimentale di freniatria ecc.”, 1902, p. 143.
21
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Il Congresso stesso arrivò a stabilire nell’ordine del giorno che:
“disapprovava la contezione meccanica degli alienati, deplora che molti
manicomi d’Italia, per necessità di ambiente o personale di servizio, si faccia
ancora uso dei mezzi di contenzione meccanica nella custodia degli alienati e fa
voti perché tutti i soci si impegnino a provocare, con ogni loro energia, dalle
amministrazioni quei provvedimenti che nei vari casi speciali sono necessari a
toglierli; e che, col provvedere alla diminuzione dell’affollamento dei manicomi,
coll’aumento del numero dei medici e degli infermieri, colla elevazione
intellettuale e morale di quest’ultimi…. Si attui in Italia l’abolizione dei mezzi di
coercizione per gli alienati.”24
In realtà le cose non andarono migliorando, tanto che a partire dal 1901
iniziarono tutta una serie di commissioni preposte a verificare la realtà all’interno
dei manicomi.
2.2 Gli scandali dei manicomi
Ospedale di Montebelluna: le pazienti ricoverate erano quarantacinque
sotto la custodia di tre sole suore che svolgevano le funzioni di infermiere e, nello
stesso tempo, potevano applicare i mezzi coercitivi il cui fine però non era la cura,
ma uno strumento per punire le malate più ribelli. Furono trovate nelle celle anelli
di ferro ai muri e; durante la visita, una paziente a letto nuda, sporca di vomito e
in compagnia di un’altra malata agitata, ma libera. Durante la notte non vi era
nessuna sorveglianza, anche perché la “sicurezza” veniva garantita legando le
pazienti ai letti in modo indiscriminato. Locali e persone in condizioni igieniche
disastrose.
Ospedale di Cavarzere: non vi era nessuna distinzione tra i malati e i folli,
non c’era nemmeno una divisione con quelli colpiti da malattie infettive. I locali e
i bagni erano sporchissimi e, per finire, l’ospedale sorgeva su una zona
acquitrinosa, di conseguenza gli internati erano più esposti a contrarre le febbri
perniciose, che erano anche la maggior causa di morte.
Ospedale di San. Servolo: il numero dei pazienti si aggirava sui 608, per i
quali venivano usati in modo smodato i mezzi di coercizione. Ceppi e catene ai
polsi e alle caviglie usati abitualmente per mesi e anni, non per poche ore. Il
24
“Rivista sperimentale di freniatria ecc.” 1905, p. 295.
22
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direttore del manicomio era un frate, ed era lui che stabiliva quando, come e per
quanto tempo dovevano essere applicati mezzi coercitivi. Nel manicomio
risiedeva un medico aggiunto senza nessuna esperienza psichiatrica. Le
condizioni igieniche erano disastrose, il personale infermieristico era inadeguato e
rozzo, la disciplina era inesistente, i “bagni” erano buche nel pavimento collegate
direttamente con le fogne, le cure erano pressoché nulle, l’alimentazione
insufficiente.
Molto probabilmente i risultati di questa ultima inchiesta non avrebbero
dato scandalo se non fossero arrivati sulle pagine dei giornali; da questo momento
furono intervistati anche i pazienti o gli ex-pazienti, per tracciare un quadro
ancora più chiaro degli abusi che venivano perpetrati: “ … parecchi anni orsono
egli ed altri infermi percossero un infermiere per vendicarsi di lunghi
maltrattamenti e che perciò vennero severamente puniti dal direttore padre
Minoretti, che li tenne tutti legati in letto con cinturoni, balze, manicotti, per sette
mesi e mezzo di seguito, ed altri tre mesi col solo cinturone, che inoltre questo
castigo fu reso ancor più duro con lunghi digiuni.”25
In risposta a queste dichiarazioni il direttore rilasciò un intervista in cui
tentò di minimizzare le accuse che gli erano state mosse: “i mezzi coercitivi
consistevano in cinghie con l’anello di cuoio e di ferro ma ricoperto anche di
cuoio; e in due anelli di ferro ben ricoperti di cuoio riuniti da una piccola catena.
Questi ultimi apparecchi servivano per quelli che hanno la tendenza a tirare
calci. È falso che gli ammalati presentassero lividure ai polsi o lesioni o
scalfitture. Si sono adottati e si adottano poi altri mezzi coercitivi moderni per gli
ammalati meno pericolosi: vi sono apparecchi in tela, dei quali è andata distrutta
una grande quantità.”26
La bagarre che aveva scatenato quest’ultima inchiesta aveva accelerato la
presentazione in Parlamento della legge sui manicomi e aveva portato ad ulteriori
inchieste sul territorio.
Manicomio di Como: l’istituto era stato costruito per ospitare 500 malati,
ne conteneva in realtà 782. I dormitori predisposti per un massimo di nove- dieci
letti, ne conteneva più di 14 e letti erano stati posizionati anche nei corridoi. Il
reparto degli agitati, che ne avrebbe potuto contenere al massimo 80, ne ospitava
182, con solo sei o sette infermieri. La commissione rilevava anche un servizio
farmaceutico e di custodia scadenti. Per quanto riguarda l’uso di mezzi di
coercizione la commissione non trovò elementi per stabilire abusi, ma trovarono
solo un paziente legato piedi e polsi. La relazione concludeva dicendo: “… il
nostro manicomio ben può meritare la definizione che gli fu data dagli stessi
sanitari che vi sono preposti, di non essere altro che una baraonda ed una
fabbrica di cronici dove i malati, per mancanza d’aria, di ambiente adatto, di
sorveglianza, di assistenza razionale, anziché migliorare , peggiorano.”27
25
Archivio Centrale di Stato, Ministero dell’interno, Direzione generale della Sanità 20900.8, busta 846
(1901-1910).
26
“L’inchiesta sui manicomi. Come si difende padre Minoretti”, “Corriere della Sera”, 2 dicembre
1902, p. 2.
27
Enormità rilevate dall’inchiesta nel manicomio di Como, “Corriere della Sera”, 3 marzo 1906, p. 4.
23
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Addirittura nel Sud d’Italia la situazione andava peggiorando.
Ospedale di Aversa: il primo elemento che i commissari rilevarono fu
relativo al ritardo nella fornitura delle derrate alimentari. I ritardi erano così gravi
da creare una situazione paradossale:il pasto del mattino avveniva verso le undicimezzogiorno, invece che le nove, mentre la cena era somministrata alle quattro
del pomeriggio, di conseguenza i malati mangiavano due volte nello spazio di
quattro ore, ma rimanevano senza cibo per le restanti venti. I viveri venivano
ordinati due giorni per due giorni e conservati in luoghi non refrigerati anche in
estate, e la qualità del cibo era molto scarsa. L’affollamento dell’ospedale era
sproporzionato: “dinnanzi al caleidoscopio succedersi delle ammissioni il medico
non ha il tempo di studiare bene i suoi malati e di seguire tutte le fasi della
malattia. Di qui diagnosi tardive o errate; dimissioni intempestive di infermi per
miglioramenti o guarigioni non bene accertate, che non tardano poi a
risospingere i soggetti al manicomio; infine ritarda l’uscita di molti, la cui
guarigione è sfuggita al medico e che, non di rado, permanendo nel manicomio,
ricadono nella loro infermità (…) Purtroppo quindi il manicomio di Aversa è
ridotto ad una vera e caserma, ad un magazzino di esseri umani, ad un asilo che
non compie altra funzione che quella di fabbricare dei cronici con crescente
aggravio dei bilanci sociali; adunque ad uno ospizio che riduce alla estrema
demenza i caduti nelle lotte per la vita, piuttosto che restituirli sani alla
società.”28 L’ospedale non aveva il medico residente in loco, anche se per
regolamento sarebbe stato obbligatorio, come obbligatorio era il divieto ad
assumere incarichi esterni al manicomio, norma che molti medici non rispettavano
e di conseguenza il tempo da dedicare ai pazienti era scarso, senza nessuna analisi
individualizzata di ogni singolo alienato. Il manicomio era pieno di pidocchi, le
lavanderie non funzionavano e il servizio di disinfestazione era inesistente. I
medici non sorvegliavano a dovere i pazienti e nascondevano i maltrattamenti che
questi subivano dagli inservienti.
In sintesi la situazione dei manicomi italiani ha, per tutta la penisola, le
seguenti caratteristiche:
•
Sovraffollamento.
•
Ambienti vecchi e malsani.
•
Cattiva alimentazione.
•
Scarsità di medici e di infermieri.
•
Difficoltà di rapporti fra la direzione medica e le amministrazioni
provinciali.
Bisogna definire i tipi di manicomi presenti sul territorio:
28
Ibidem, busta 845 (1898-1910).
24
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a) manicomi la cui caratteristica principale era essere istituzioni
provinciali, perciò dipendenti dai consigli provinciali; e dove il
direttore medico aveva anche il potere di intervenire
amministrativamente, preparando bilanci preventivi;
b) manicomi fondati da opere pie più o meno autonome e comunque
assoggettate alle ingerenza dei corpi pubblici;
c) manicomi dipendenti dalle opere ospedaliere, perciò quasi dei reparti
d’ospedale e amministrativamente diretti da congreghe indipendenti;
d) manicomi privati sorvegliati dalle amministrazioni pubbliche.
Ed ogni manicomio, prima della approvazione della legge, si gestiva in
modo tendenzialmente autonomo:
•
in alcuni il direttore medico amministrava non solo il servizio
sanitario, ma anche in parte quello amministrativo, preparando
bilanci preventivi e assicurandosi che venissero eseguiti;
•
in altri il direttore non aveva nessun potere in ambito
amministrativo, ma solo nell’ambito della disciplina;
•
in altri ancora il direttore aveva “potere assoluto” su tutti rami che il
servizio erogava, aveva veto decisionale sull’andamento economico
interno, senza averne però responsabilità.
Sintetizzando la situazione della gestione della follia si può così descrivere:
“i medici badavano a consolidare il loro potere su di essa, nel migliore dei casi
preoccupandosi soltanto che il folle avesse abiti caldi d’inverno e non fosse
accatastato con gli altri suoi consimili in ambienti non igienici, ma comunque
sempre escludendo ogni intervento pubblico, cioè sociale sulla cura e sulla
custodia”.29
.
29
CANOSA ROMANO, “Storia del manicomio in Italia dall’unità ad oggi” cit., p. 135.
25
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3
I manicomi criminali
Nella seconda metà dell’800, in ambito giurisprudenziale, ci si pone il
problema se i soggetti colpevoli di un delitto, ma assolti perchè alienati al
momento del reato o quelli impazziti in un momento successivo al momento del
delitto, fossero da internare con gli altri folli, o esigessero istituti differenziati.
È del 1872 la prima circolare emanata dal ministro dell’interno in relazione
all’istituzione dei manicomi criminali: “… essendo sorto il dubbio se non
convenga aprire uno o più reclusori per concentrare in essi ogni condannato
riconosciuto affetto da alienazione mentale, o gravemente indiziato ad esserlo a
giudizio degli ufficiali sanitari governativi addetti ai diversi stabilimenti …”30.
Il contenzioso che nasce riguarda i campi di competenza che vengono
contesi da un lato dagli psichiatri, che si considerano gli unici in grado di stabilire
se un soggetto è affetto da patologie mentali, e i giudici che si avvallano della
stessa competenza per stabilire il tipo di pena da commutare.
La criminologia, la nuova disciplina che nasce proprio in questo periodo
grazie a Cesare Lombroso, si pone come frammezzo tra la psichiatria e la
giurisprudenza. Appoggiandosi sulla suddivisione che viene fatta del delinquente:
•
Occasionale quando il delitto viene commesso in circostanze
fortuite, perciò il soggetto non è socialmente pericoloso, e può
essere recuperato nel momento in cui vengono eliminate le cause
che hanno determinato il compiersi dell’atto criminoso;
•
Abituale quando il soggetto è recidivo nel commettere reati, perciò
la pericolosità sociale è molto alta, e senza possibilità di recupero,
in quanto la sua “devianza” è innata;
Lombroso stabilì il primato del modello medico-psichiatrico su quello
normativo –giuridico, in quanto considerava il delinquente abituale alla stregua
del folle, perché in entrambi erano riconosciute caratteristiche analoghe come:
•
L’atavismo, che può comparire dopo molte generazioni con le
caratteristiche tipiche dell’uomo primitivo.
•
La degenerazione mentale, considerata un vero e proprio disturbo
della mente.
•
L’epilessia, incontrollabilità improvvisa del soggetto.
La struttura manicomiale proposta dallo studioso doveva essere così
strutturato:
•
30
Ospitalità per almeno 300 pazienti.
Vedila in “Rivista di discipline carcerarie” 1872, p. 429.
26
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•
Vi dovevano essere ricoverati tutti quei soggetti impazziti, con
tendenze incendiarie o omicide o oscene, al concludersi della fase
acuta del male.
•
Tutti quei soggetti con tendenze incendiarie o omicide o acute, dove
l’inchiesta giudiziaria sia stata sospesa per la riconosciuta follia.
•
Tutti i soggetti che si sono macchiati di crimini strani, atroci, senza
un movente chiaro o sproporzionato al delitto commesso.
•
I soggetti affetti da grave infermità (come la pellagra, l’alcoolismo,
l’epilessia), quando ci sia famigliarità con alienati o epilettici;
quando presentino malformazioni a livello del cranio.
•
La direzione dovrebbe essere medica, mentre il personale carcerario.
•
I soggetti che rientrano nelle definizioni di “delinquenti abituali”
non dovevano essere mai dimessi, i soggetti che si sono macchiati di
reati a causa di “follia momentanea” e dimostrino segni di
guarigione, possono essere dimessi dopo uno o due anni di
osservazione della stabilità avvenuta e, in ogni caso, sottoposti a
visite mensili per gli anni a seguire.
Il conflitto di competenze tra psichiatri e giudici si risolverà, nella
maggioranza dei casi, a favore di quest’ultimi, anche se entrambe le categorie
concordavano sulla necessità di garantire un ordine sociale.
Considerare la follia come un disadattamento sociale fu di fondamentale
importanza nell’istituzione dei manicomi criminali. Partendo dal concetto
giuridico la responsabilità non era più morale bensì sociale, di conseguenza anche
il reo non imputabile deve “pagare” per il reato commesso venendo affidato ai
manicomi criminali.
Le nuove istituzioni che si verranno a creare saranno l’unione tra la
detenzione, la custodia e la cura caratteristiche fondamentali per garantire
“l’espiazione” della colpa, la sicurezza sociale e l’eventuale recupero del
soggetto.
3.1 La legislazione dei manicomi dall’Unità ad oggi
La legislazione precedente all’Unità d’Italia differenziava da stato a stato,
ma nessuna prevedeva istituti o regole particolari per i soggetti non imputabili a
causa di una malattia mentale, infatti la destinazione finale era sempre e
comunque il manicomio comune.
27
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Il Codice Sardo del 1859 fu esteso a tutta la penisola a seguito
dell’unificazione e in merito la legislazione era scarsa e contraddittoria:
•
Art. 94: non vi è reato se l'imputato trovasi in istato di assoluta
imbecillità, di pazzia o di morboso furore quando commise l'azione,
ovvero se vi fu tratto da una forza alla quale non poté resistere.
•
Art. 95: allorché la pazzia, l'imbecillità, il furore o la forza non si
riconoscessero a tal grado da rendere non imputabile affatto l'azione,
i Giudici applicheranno all'imputato, secondo le circostanze dei casi,
la pena del carcere estensibile anche ad anni dieci, o quella della
custodia, estensibile anche ad anni venti.
In realtà per avere una legge che sancisca la nascita dei manicomi
criminali, e che ne regoli il funzionamento, si dovrà aspettare il primo
decennio del XX secolo. Gli anni precedenti saranno caratterizzati da
continue proposte di legge che per i più svariati motivi non verranno
approvate, ecco di seguito i disegni di legge che hanno poi portato a
quella definitiva del 1930, il Codice Rocco (che in realtà fu la riforma
del codice penale):
31 31
•
14 dicembre 1875 l’on. Renzis presentò una risoluzione alla
Camera dei Deputati in cui si diceva: “La Camera, vista la
necessità di raccogliere in ospedali governativi i mentecatti
condannati o giudicabili, invita il ministero a studiare se sia
conveniente ed economico per lo Stato, l'impianto di uno o più
ospedali governativi atti a raccogliere mentecatti condannati o
giudicabili ...”31.
•
1876 con un atto amministrativo, senza delibera da parte dello
stato, venne inaugurata presso la casa penale di Aversa la
“Sezione Maniaci”.
•
14 aprile 1877 polemiche sulla possibilità di creare manicomi
criminali, la posizione più accesa fu quella dell’on. Righi e del
Guardasigilli Mancini: “... le condizioni nostre legislative sono
tali oggi che, allorché un individuo qualunque, riconosciuto
autore del più grave, o di qualsiasi numero dei più gravi reati,
dei più offensivi alla sicurezza sociale, una volta che sia
dichiarato aver compiuto queste azioni in condizione di mente
alienata, egli viene senz'altro ricondotto libero sulla porta della
Corte di Assise, e rimandato in seno alla società, nella libera
padronanza di esercitare i suoi pravi istinti puramente e
morbosamente animali ed ostili ... formulo la mia interpellanza
all'onorevole guardasigilli e gli chiedo quali siano i suoi
intendimenti riguardo all'istituzione di questi manicomi
criminali, nei quali debbono essere accolti tutti coloro anzitutto
CANOSA ROMANO, “Storia del manicomio in Italia dall’unità ad oggi” cit., p. 139.
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che abbiano commesso un reato in condizioni di mente
riconosciuta aberrante, tutti coloro in secondo luogo i quali
siano diventati pazzi durante lo svolgimento del procedimento
penale e finalmente tutti quelli i quali possono essere diventati
pazzi durante il periodo dell'espiazione della pena “32.
•
1885 il Ministero dell’Interno stabiliva di trasformare in
manicomio criminale il carcere dell’Ambrosiana, ma questo non
fu accettato dalle Commissioni Parlamentari.
•
1886 venne istituito il secondo manicomio criminale in Italia a
Montelupo fiorentino.
Queste le fasi cruciali sino ad arrivare al 1889 con il Codice Zanardelli, che
merita una analisi più approfondita.
3.1.1 Codice Zanardelli e la legge “Disposizioni sui manicomi e
sugli alienati”
Il Codice Zanardelli non regolamenta, nell’immediato della sua
approvazione, i manicomi criminali. L’unica cosa che il codice stabilì fu quando
un soggetto non è imputabile: art. 46 non è punibile colui che, nel momento in cui
ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità mentale da togliergli la
coscienza o la libertà dei propri atti.
Questo non esimeva il giudice a consegnare il reo alle autorità competenti
nel caso si fosse riscontrata una pericolosità sociale molto elevata; il soggetto
veniva allora assegnato alla casa di custodia, come sostituzione della pena
carceraria e, nel caso le ragioni del suo internamento fossero cessate, questa
soluzione poteva essere revocata.
Fu solo con il Regio Decreto del 1 febbraio 1891 che venne utilizzato per la
prima volta il termine “manicomio giudiziario” e dove, nello stesso tempo,
vennero stabilite le tipologie di soggetti che vi potevano essere internati:
• art. 469: ... per i condannati che devono scontare una pena
maggiore di un anno, colpiti da alienazione mentale, sono destinati
speciali stabilimenti, o manicomi giudiziari, nei quali si provveda ad
un tempo alla repressione e alla cura ...;
• art. 470: I condannati che devono scontare una pena minore di un
anno, colpiti da alienazione mentale, ma inoffensivi, paralitici o
affetti da delirio transitorio, possono rimanere negli stabilimenti
32
Ibidem p. 140.
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•
•
•
ordinari, ove non manchino i mezzi di cura e non si porti nocumento
alla disciplina interna;
art. 471: Gli accusati o imputati prosciolti, ai sensi dell'art. 46 del
codice penale, e per i quali il presidente del tribunale civile
pronunzia il ricovero definitivo in un manicomio, giusta l'art. 14 del
r.d. 1 dicembre 1889, n. 6509 sono trasferiti, con decreto del
ministro dell'Interno, e su proposta dell'autorità di pubblica
sicurezza, in un Manicomio giudiziario, ma in sezioni separate;
art. 472: Nelle sezioni indicate nell'art. precedente possono essere
fatti ricoverare, con decreto del ministro dell'Interno, anche gli
accusati prosciolti che, ai sensi dell'art. 13 r.d. 1 dicembre 1889, n.
6509, debbono essere provvisoriamente chiusi in un manicomio, in
stato di osservazione;
art. 473: Sopra apposita domanda dell'autorità giudiziaria, possono
essere ricoverati in una sezione speciale dei manicomi giudiziari,
anche gli inquisiti in istato di osservazione. L'assegnazione è fatta
per decreto del ministro dell'Interno.
Solo nella legge approvata il 14 febbraio del 1904, intitolata “Disposizioni
sui manicomi e sugli alienati”, venivano indicate in maniera sommaria le norme
per le ammissioni e le dimissioni al manicomio; stabiliti i compiti del direttore;
fissata la ripartizione delle spese; previsto un meccanismo di controllo lasciando
però al regolamento, emanato successivamente, di regolamentare la materia.
Gli articoli erano solamente undici, ma anche solo analizzando i primi due
possiamo trarre alcune conclusioni:
•
art. 1 i soggetti a cui era rivolta l’assistenza manicomiale erano
“persone affette per qualunque causa da alienazione mentale,
quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico
scandalo”; da qui si deduce che lo scopo principale era la custodia
non la cura dei soggetti;
•
art. 2 dove venivano stabiliti i criteri per ammettere il soggetto in
manicomio: ammissione provvisoria, ordinata dall’autorità di
pubblica sicurezza dietro la presentazione di un certificato medico in
cui venivano attestate le condizioni mentali del soggetto.
Ammissione normale autorizzata dal pretore dopo aver ricevuto la
domanda, accompagnata dal certificato medico, o da un atto notorio,
in cui quattro testimoni, non parenti del soggetto ma che comunque
lo conoscevano, ne descrivessero lo stato mentale. Per finire era il
Tribunale, in Camera di Consiglio, ad autorizzare il ricovero
definitivo sulla base di una relazione stilata dal direttore del
manicomio, e dopo un periodo di osservazione, che poteva durare al
massimo un mese.
La legge stabiliva anche che tutti i provvedimenti di ricovero venissero
trascritti nel casellario giudiziario, così da “marchiare” il soggetto per tutta la vita
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impedendogli di poter trovare un lavoro. È chiaro che non vi è nessuna intenzione
di recuperare i malati e di reinserirli in società e o in famiglia. La dimissione dei
ricoverati poteva avvenire solo in due casi: la guarigione o un miglioramento così
evidente da consentire di proseguire le cure a “domicilio”.
Si dovrà attendere il 1930 con il Codice Rocco perché si inserissero
modifiche significative nei confronti dei manicomi criminali.
3.1.2 Codice Rocco
Il codice Rocco per primo si occupò di definire, in modo chiaro,
l’imputabilità e la responsabilità e ridisegnò il concetto di manicomio criminale.
Ma analizziamoli nel dettaglio.
A) Imputabilità e responsabilità.
Art. 85: “nessuno può essere punito per un fatto preveduto
dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non
era imputabile.” E per imputabilità si intende la capacità del
soggetto di intendere e di volere.
Art. 88: “non è imputabile chi, nel momento in cui ha
commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da
escludere la capacità di intendere o di volere.”
Sulla base dell’art. 97 tutti i minori inferiori di anni
quattordici, per immaturità psico-biologica, non sono soggetti
imputabili. Mentre tra i quattordici e i diciotto anni l’imputabilità
va dimostrata caso per caso, per quanto riguarda i diciottenni
l’imputabilità è piena.
L’assenza della imputabilità deve sempre essere dimostrata
e la legge richiama le cause per le quali l’imputabilità può non
esserci:
•
La piena ubriachezza derivata da caso fortuito o da
forza maggiore (art.91).
•
L’azione di sostanze stupefacenti derivate da caso
fortuito o da forza maggiore (art.93).
•
L’infermità o la malattia psichica (art.88).
•
La cronica intossicazione da alcool o da sostanze
stupefacenti (art. 95).
31
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•
Il sordomutismo (art. 96).
La legge esclude a priori che l’imputabilità sia influenzata
da stati emotivi e passionale, e la tabella seguente mostra
alcuni cause di esclusione di imputabilità.
Tabella 1
Tabella 2 - Imputabilità e cause di esclusione di essa
Condizione del soggetto
Giudizio
Sanzione
con misura di
sicurezza
ubriachezza fortuita da
forza maggiore
azione di stupefacenti fortuita o da
forza maggiore
non
imputabile
ubriachezza volontaria
azione di stupefacenti assunti
volontariamente
imputabile
ubriachezza preordinata per
assunzione di stupefacenti
commettere il reato
preordinata per commettere il reato
imputabile
pena aumentata
ubriachezza abituale
uso abituale di stupefacenti
imputabile
pena aumentata
cronica intossicazione da
alcool
cronica intossicazione da
stupefacenti
non
imputabile
misura di
sicurezza
dell'OPG
Il folle secondo il Codice Rocco era, sempre per
definizione, incapace, irresponsabile, pericoloso, inidoneo
alla vita sociale a tal punto da dover venire rinchiuso ed
isolato in un manicomio. Il comportamento deviato era
sempre considerato causa di una malattia mentale, cioè di
una patologia del cervello. Si basava sulle teorie di
Lombroso, che gli anni precedenti erano state scartate, ed è
proprio su queste che si baserà l’istituzione dei manicomi
giudiziari.
B) Il manicomio giudiziario come misura di sicurezza.
All’interno del Codice Rocco convivono sia il sistema delle
pene che quello di sicurezza, cioè il cosiddetto “sistema
binario”, secondo il quale le misure di sicurezza andavano
applicate solo ai soggetti che avevano commesso un reato e
che veniva considerate socialmente pericolose.
Art. 203: “Agli effetti della legge penale, è socialmente
pericolosa la persona, anche se non imputabile o non
32
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punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati
nell'articolo precedente, quando è probabile che commetta
nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. La qualità di
persona pericolosa si desume dalle circostanze indicate
nell'art. 133.”
Si introducono nel codice concetti come pericolosità sociale che però varia a
seconda dei fattori che di volta in volta devono essere considerati (carattere e
temperamento del soggetto, ambienti di provenienza e di frequentazione, modo
tempo e luogo del reato, gravità del danno, movente, condotta del soggetto,
precedenti penali, ecc.) e, per arginarla, si istituiscono le strutture idonee per
applicare le misure di sicurezza, come le colonie agricole, le case di lavoro e il
manicomio giudiziario. L’applicazione delle misure di sicurezza può avvenire
solo quando la pericolosità sociale è stata accertata tramite un’analisi attenta dei
suoi criteri di definizione, anche in base all’art. 3 primo comma della Costituzione
che sancisce: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali.”
Nel caso in cui un soggetto avesse ottenuto un proscioglimento per
infermità e fosse stata riconosciuta la seminfermità, per deduzione della legge, e
senza bisogno di ulteriori accertamenti, il soggetto veniva considerato pericoloso
socialmente. La motivazione di questa presa di posizione da parte del Codice
Rocco era quello di impedire ad un giudice di valutare secondo la propria
coscienza e la propria volontà, si cercava, cioè di evitare, che un “colpevole” non
subisse una sanzione penale “solo” perché considerato non imputabile.
Il Codice aveva la necessità primaria di essere uno strumento utilizzabile il
più allungo possibile ed è per questo che fa riferimento sia alla scuola classica,
utilizzando la misura di sicurezza come forma retributiva; sia alla scuola positiva,
adottando il concetto di indeterminazione della pena massima.
La struttura del manicomio criminale che viene delineata nel Codice Rocco,
cioè come mezzo per la difesa sociale, rimane immutata sino alla fine del secondo
dopoguerra. Solo verso gli anni ’50 si inizia a proporre una modifica sostanziale
per queste strutture: non più solo luoghi di custodia, ma luoghi di cura per chi è
affetto da un male guaribile.
3.2 Modifiche giuridiche dagli anni ’70
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Le prime modifiche al Codice Rocco sono inserite nella L. 431/1968 che
introdusse
1. la possibilità del ricovero volontario, da parte del malato stesso, in
un manicomio civile (art. 4);
2. l’abolizione dell’obbligo di annotazione sul casellario giudiziale dei
provvedimenti di ricovero definitivo disposti dal magistrato.
In realtà la svolta più importante di questa legge fu limitare la funzione custodiale
del manicomio ed evidenziarne, invece, il fine terapeutico. Sulla questa base la
legge prevede l’istituzione di centri e servizi di igiene mentale sia a scopo
preventivo, nella fascia pediatrica, che a scopo curativo per chi ne avesse bisogno
e ne facesse richiesta volontaria.
Si identifica la follia come malattia vera e propria, e il malato vede
finalmente riconosciuto il proprio diritto ad essere curato, come sancito dall’art.
32 della Costituzione.
La legge che maggior mente ha influito sulla gestione dei manicomi è stata
sicuramente quella sulla riforma penitenziaria del 26 luglio 1975 n. 354, grazie
all’introduzione precise prescrizioni nell’applicazione dei trattamenti e delle
discipline all’interno del sistema penitenziarie e, che di riflesso, ha influito anche
negli istituti psichiatrici.
Il primo cambiamento effettuato riguarda la dicitura: da “manicomio
giudiziario” a “ospedale psichiatrico giudiziario” (art. 62), dove si vuole
evidenziare, già dal nome, il cambio di indirizzo: non più luogo di custodia, ma di
cura e, soprattutto, di reinserimento sociale. Ora la pena non è solo detentiva, ma
anche riabilitativa. Il reinserimento sociale avviene grazie all’introduzione del
regime di semilibertà, che consente al soggetto di trascorrere parte della giornata
al di fuori dell’istituto partecipando ad attività lavorative o istruttive (art. 48).
Le restrizioni (sono esclusi coloro che sono stati condannati per sequestro di
persona, rapina ed estorsione; coloro che non hanno ancora scontato la metà della
pena attribuitagli) per concedere la semilibertà, che vengono valutate prima di
rilasciarla ai detenuti normali, non vengono applicate agli internati. In realtà
pochissimi internati poterono usufruire di questa possibilità, a causa della
posizione che gli OPG avevano sul territorio, che comportava spostamenti di
molti chilometri non effettuabili in giornata.
Regolamentando negli istituti carcerari la presenza non solo di un servizio
medico, ma anche l’operato di uno specialista in psichiatria, si sono potuti
rimandare in carcere tutti i detenuti inviati agli OPG solo per una osservazione
psichiatrica.
Le ulteriori innovazioni apportate dalla legge 354/75 sono relative alla
Magistratura di sorveglianza (art. 68 e seguenti). il Giudice di sorveglianza
diviene il Magistrato di sorveglianza e acquisisce nuove competenze che
delineano una : “concezione del Magistrato di sorveglianza essenzialmente quale
organo di garanzia della legalità nell'esecuzione della sanzione detentiva di tipo
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tradizionale, sia pure in un'ottica più spiccatamente ispirata alla finalità della
rieducazione.”33
Da questo momento il Magistrato può vigilare sul totale comportamento dei
detenuti accedendo a documenti personali, adoperandosi per fare colloqui con i
singoli internati e stabilendo una collaborazione con l’autorità penitenziaria. Ha
acquisito anche la possibilità di emettere provvedimenti circa la detenzione
domiciliare, la libertà condizionale, e la possibilità di prescrivere la revoca
anticipata delle misure di sicurezza e della modalità di esecuzione di quest’ultima.
Altro compito del Magistrato di sorveglianza è quello di ispettorato e vigilanza
sulle condizioni ambientali degli istituti di sua competenza; deve assicurarsi che
la custodia dei soggetti venga eseguita ai termini di legge e dei regolamenti; deve
effettuare il riesame delle pericolosità del soggetto e di conseguenza
dell’applicazione, dell’esecuzione, della trasformazione o revoca, anche
anticipata, delle misure di sicurezza.
L’attività di vigilanza operata dal Magistrato deve avere come scopo finale
l’attuazione del trattamento rieducativo, nello specifico degli internati che
vengono prosciolti la difficoltà dell’organizzazione e della gestione del
trattamento rieducativo deriva dalle mancanza strutturali, finanziarie e di
relazione tra il personale medico e i pazienti.
Conseguenza dei poteri rilasciati alla Magistratura di Sorveglianza dalla
354/75 fu la disposizione contenuta nell’articolo 99 del Regolamento del 1976,
dove veniva stabilito che l’accertamento delle infermità mentali sopravvenute nei
detenuti doveva essere richiesta dal Magistrato di Sorveglianza e portato a
termine nello stesso istituto in cui il soggetto era internato, oppure in un altro
equivalente o, per motivi particolari, presso un OPG o una casa di cura e custodia,
o in un ospedale civile, purché provvisto di una sezione per infermi o minorati
psichici.
Nel Regolamento per l’attuazione della legge 354/75 vi erano, poi nello
specifico, norme particolari per gli infermi e i seminfermi di mente; ad esempio
l’art. 20 sanciva una limitazione discrezionale dei diritti (come la corrispondenza
epistolare o telefonica, i colloqui, il lavoro, la partecipazione ad attività esterne
all’istituto) riconosciuti per legge ad ogni detenuto, qui erano concessioni elargite
dal medico in modo totalmente discrezionale.
3.3
33
Leggi 180 e 833 del 1978, la Legge Gozzini e i nuovo codice
penale del 1988
V. Grevi, “Magistratura di Sorveglianza e misure alternative alla detenzione nell’ordinamento
penitenziario: profili processuali”, in F. Bricola, “Il carcere riformato”, p. 265.
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Gli anni settanta furono caratterizzati dal movimento “antipsichiatrico”
sostenuto da Franco Basaglia, che prevedeva un rinnovamento che doveva
arrivare a demolire l’istituzione psichiatrica esistente nel suo aspetto di controllo
sociale.
I postulati di questo movimento culturale si possono sintetizzare in sei
punti:
1. abrogazione della legge psichiatrica del 1904 e disconoscimento
della pericolosità quale connotato proprio della malattia mentale da
equipararsi ad ogni altra malattia che possa colpire l'uomo;
2. abolizione degli ospedali psichiatrici esistenti e di ogni altra
possibile istituzione psichiatrica di ricovero;
3. un concetto di cura connotato dai caratteri della volontarietà e della
territorialità, intendendosi con questo ultimo termine che la terapia
deve essere instaurata nell'ambiente di origine del malato, senza
ricovero ospedaliero;
4. istituzione per legge regionale di dipartimenti di salute mentale, ove
si svolgano le funzioni preventive, curative e riabilitative relative
alla salute mentale;
5. limitazione dei trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale
in condizione di degenza ospedaliera;
6. esecuzione dei trattamenti in Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura
all'interno degli ospedali generali e dotati di un numero limitato di
posti letto.
Il risultati ottenuti sfociarono nella legge 180/78 dove veniva sancito il
diritto alla libertà di scelta, da parte del cittadino, del trattamento sanitario e,
aspetto ancora più importante, veniva sostituito il concetto di “pericolosità
sociale” con quello di “tutela della salute pubblica”, con il fine di legittimare
l’obbligatorietà del trattamento.
Nel disegno di legge si prevede la graduale chiusura degli ospedali
psichiatrici, mentre non vengono menzionati gli OPG, che continuano ad essere
regolamentati dalla legge n. 354/75. La chiusura dei “manicomi” venne prevista in
relazione al diritto del cittadino ad essere curato e a livello territoriale, cioè nel
luogo d’origine del malato; e compito dei servizi pubblici è coprire i bisogni di
sussistenza dei pazienti.
Caratteristiche fondamentali della cura devono essere la volontarietà da
parte del soggetto e la territorialità della terapia, che doveva essere effettuata
nell’ambiente d’origine del paziente, senza ricoveri ospedalieri, se non in casi
eccezionali in modo coatto in apposito reparti, con pochi posti letto, all’interno
degli ospedali comuni.
Gli ospedali psichiatrici dovevano essere sostituiti dai “Servizi di diagnosi e
cura”, da “appartamenti protetti” e da altre strutture che fossero d’appoggio agli
ex degenti e ai nuovi utenti del servizio psichiatrico. La legge non trovò, anche se
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varata, molti consensi e, soprattutto, molto finanziamenti necessari alla sua
attuazione.
La legge non si occupò degli OPG, ma influenzò ugualmente alcuni
cambiamenti avvenuti al loro interno: gli istituti iniziarono a perdere, in modo
graduale, le caratteristiche prettamente di custodia, per iniziare un percorso di
interventi di terapia riabilitativa. La gestione amministrativa era dei direttori e del
personale interno, attuata attraverso una ristrutturazione sia dei luoghi che delle
terapie mediche, per mezzo anche di iniziative di terapia occupazionale, arteterapia, attività di gruppo, ecc.
La successiva legge n. 833 istituiva il Servizio Sanitario Nazionale e faceva
propria la legge 180, allargando le norme psichiatriche nell’ambito di un
intervento sanitario pubblico.
Le critiche alla 180 non mancano, soprattutto nella mancata creazione delle
sezioni speciali all’interno degli ospedali, con il conseguente affidamento alle
famiglie dei soggetti non considerati pericoli. Il rischio di questa situazione è di
mettere in pericolo l’incolumità fisica delle persone.
La conseguenza della legge sugli ospedali psichiatrici giudiziali fu il
moltiplicarsi del numero delle ammissioni per i reati di lieve entità. Infatti se in
precedenza l’autorità di polizia preferiva una gestione medico- psichiatrica dei
piccoli reati, ora con la riforma anche in questi casi scatta la denuncia alla
Magistratura.
Il risvolto della medaglia dell’aver puntato lo sguardo sul malato,
considerato come persona avente dei diritti, è stato “il lamentato pericolo del
disinteressamento e dell'abbandono del malato di mente. Con tutti i rischi che
questi, lasciato ai propri incubi e depressioni, privato dell'assistenza terapeutica
o rimesso in libertà dal giudice di sorveglianza, pervenga al delitto o a nuovo
delitto".
Il comma 1 dell’art. 33 della legge 833/78 stabilisce che: “nei casi di cui
alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono
essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari
obbligatori, secondo l'articolo 32 della costituzione, nel rispetto della dignità
della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto
alla libera scelta del medico e del luogo di cura...Lo scopo del trattamento
diviene quello di recuperare, e mantenere vitali in quanto ancora esistano, le
capacità di espansione della personalità del paziente nelle relazioni con le cose e
con le persone”; in base a quello sopra descritto il ricovero in ambito ospedaliero
deve avvenire solo se le alterazioni psichiche necessitano di cure terapeutiche
immediate, se gli interventi non vengano accettati dal paziente e se le circostanze
non consentono interventi extraospedalieri. Il TSO ha come fine la salute del
malato e si può attuare solo in presenza di alterazioni psicosomatiche da rendere
inutili trattamenti ambulatoriali o a domicilio e quando il soggetto rifiuta di
sottoporsi volontariamente a qualsiasi tipi di trattamento ospedaliero proposto.
Questo tipo di intervento può essere effettuato solo in strutture pubbliche,
escludendo sia le private che le convenzionate. La contraddizione è evidente: la
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legge 180 non si è munita di strumenti atti a realizzare la salute del soggetto senza
però ricorrere alla coercizione. E il paradosso rimane infatti se da un lato la legge
833 sorpassa il concetto di pericolosità sociale, dall’altro il codice penale continua
invece ad avere questo concetto come presupposto nei confronti del malato
mentale che ha commesso reato.
Il 10 ottobre 1986 viene varata la legge n. 663, più nota come “legge
Gozzini”, dove venivano abolite le presunzioni di pericolosità previste dal codice
penale, quelle di pericolosità qualificata, quelle rapportate a certi tipi di reati e
quelle nei confronti dei portatori di vizio totale o parziale di mente.
L’art. 31 della legge 663/86 ha abrogato l’articolo 204 del codice penale,
imponendo l’accertamento della pericolosità caso per caso: “tutte le misure di
sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha
commesso il fatto è persona socialmente pericolosa”.
Gli successivi articoli sanciscono:
•
art. 284 che in caso di presentazione di infermità sopravvenuta alla
commissione del reato,e se la situazione processuale lo consente,
possano essere concessi gli arresti domiciliari, previo accertamento
delle condizioni di salute mentale;
•
art. 285 dove si stabilisce che se la capacità di intendere e volere del
soggetto è esclusa o compromessa, la custodia cautelare in carcere
può essere sostituita dalla custodia cautelare nel luogo di cura.
Per quanto riguarda le misure alternative la legge amplia la possibilità di
usufruire della loro concessione, anche se nella realtà dei fatti questo non si
verificherà quasi mai.
Nel 1988 viene presentato e approvato il nuovo codice di procedura penale,
entrato in vigore l’anno successivo. Nell’art. 679 stabilisce che la pericolosità
sociale nel soggetto prosciolto per infermità mentale da parte del Magistrato di
sorveglianza deve essere accertata prima della misura di sicurezza prevista dalla
sentenza. La misura di sicurezza viene stabilita nella sua durata minima, alla
scadenza la pericolosità deve essere rivalutata e, in caso affermativo, viene
stabilita una proroga, anch’essa rinnovabile, se ritenuto necessario. La proroga
della misura di sicurezza, o l’eventuale dimissione, viene effettuata sempre dal
Magistrato di sorveglianza sulla base di una serie di valutazioni mediche e legali
ricavate dall’osservazione effettuata in OPG da parte dell’equipe sanitaria
dell’istituto: il giudice deve valutare le condizioni psicofisiche del soggetto
confrontando la sua salute al momento dell’internamento con quella al momento
del riesame della pericolosità. La valutazione verrà effettuata anche sul lavoro
svolto dagli operatori sanitari dell’OPG che, attraverso le attività ricreative e
culturali, svolgono un’azione di monitoraggio del comportamento, delle difficoltà
di relazione e delle anomalie cognitive del soggetto.
Secondo gli art. 207 del codice penale e art. 69 dell’Ordinamento
penitenziario solo quando i risultati raggiunti dal soggetto sembrano prospettare il
reinserimento in società, avendo raggiunto un sufficiente equilibrio
38
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psicopatologico, allora si potrà revocare la misura di sicurezza, e non solo al
termine minimo stabilito dalla legge, ma anche anticipatamente se sono
confermati i criteri di cessata pericolosità sociale.
3.4 Decreto amministrativo n. 230 del 1999 e il nuovo
regolamento del sistema carcerario (D.P.R 230/2000)
Il Decreto 230/99 stabilisce la subordinazione del servizio sanitario
penitenziario a quello nazionale; la suddivisione delle competenze tra il Ministero
della Sanità e il Ministero di Grazia e Giustizia, stabilendo di trasferire al primo,
in modo graduale, le competenze sanitarie; trasferendo le risorse economiche
sanitarie del sistema penitenziario al Fondo sanitario nazionale.
Ecco alcuni commi fondamentali del decreto:
•
l'art. 1 titolato "Diritto alla salute dei detenuti e degli internati" al 1º
comma stabilisce che: "I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari
dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di
prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate,
sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli
essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario
nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali";
•
il terzo comma dell'art. 2 stabilisce il principio della separazione
delle competenze tra le ASL e l'amministrazione penitenziaria,
prevedendo in capo alle prime il compito di erogare le prestazioni e
al secondo la garanzia della sicurezza;
•
in particolare l'art. 3 specifica le competenze degli organi del SSN
come segue: il Ministero della Sanità esercita le competenze in
materia di programmazione, di indirizzo e coordinamento del SSN
negli istituti; le Regioni esercitano le competenze in ordine alle
funzioni di organizzazione e programmazione dei servizi sanitari
regionali negli istituti penitenziari e il controllo sul funzionamento
degli stessi; alle ASL sono affidati la gestione e il controllo dei
servizi sanitari negli istituti.
La legge prevede una responsabilità del Direttore della struttura sanitaria nel
momento in cui si verificasse una mancata applicazione delle misure previste per
lo svolgimento dell’assistenza sanitaria. È stato oltremodo stabilito il
trasferimento del personale delle strutture e delle risorse economiche
dell’Amministrazione penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale; mentre negli
articoli che seguono si prevede:
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•
Art. 7: il trasferimento delle risorse finanziarie al Fondo Sanitario
nazionale.
•
Art. 111: l’internamento negli istituti ordinari per i soggetti
condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente, in questo
modo si possono selezionare i pazienti realmente bisognosi del
ricovero e, nello stesso tempo, si eviteranno le ricadute negative che
l’inserimento in un istituto generalmente comportano. L’articolo
prevede, per la sua attuazione, un potenziamento del personale
infermieristico all’interno dell’OPG.
•
Art. 20 l’ingresso del Sistema Sanitario Nazionale all’interno
dell’OPG per “rilevare le condizioni e le esigenze degli interessati e
concordare con gli operatori penitenziari la individuazione delle
risorse esterne utili per la loro presa in carico da parte del servizio
pubblico e per il loro successivo reinserimento sociale"34.
Alla fine degli anni ’90 si sente l’esigenza di rivedere le norme di
esecuzione sancite nella legge 26 luglio 1975 n. 354 e le successive modifiche a
seguite dell’evoluzione delle strutture e, in contemporanea dei mutati bisogni di
trattamenti . in sintesi gli articoli più significativi:
•
Art. 5 secondo il quale il Magistrato di vigilanza acquisisce
informazioni sullo svolgimento dei servizi dell’istituto e sul
trattamento dei detenuti, attraverso colloqui, visite, visione di
documenti. L’osservazione è necessaria per stabilire se il programma
di trattamento previsto viene svolto secondo le direttive del
Magistrato di sorveglianza.
•
Art. 17 dove si sancisce il diritto degli internati di usufruire
dell’assistenza sanitaria grazie alla dislocazione, sul territorio
nazionale, di reparti clinici e chirurgici.
•
Art. 20 prescrive per gli internati infermi o seminfermi di mente
interventi che favoriscano la loro partecipazione ai trattamenti, in
particolare a quelli che permettano di mantenere, di migliorare o di
ristabilire i rapporti con la famiglia d’origine e con l’ambiente
sociale.
•
Art.73 dove si stabilisce che l’isolamento può essere disposto per:
o motivi sanitari: quando si verifichi un caso di malattia
contagiosa, perciò il paziente verrà posto in appositi locali
dell’infermeria o in un reparto clinico, l’isolamento dovrà
cessare appena sarà concluso il periodo di contagio;
o motivi disciplinari: si attua attraverso l’esclusione delle
attività in comune,in una camera ordinaria, se il
34
Decreto 230/99. vedi anche R. Andreano, “Tutela della salute e organizzazione sanitaria nelle
carceri: profili normativi e sociologici”, 2001, III capitolo.
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comportamento del soggetto non reca disturbo o destabilizza
l’ordine. Sono assicurati vitto e acqua e il soggetto sarà posto
sotto osservazione giornaliera sia da parte del medico, che
del gruppo di osservazione e trattamento e vigilato
continuamente da parte del corpo di polizia penitenziaria.
35
•
Art. 77 stabilisce quando la direzione può adottare provvedimenti
disciplinari nei confronti degli internati: “quando questi si siano resi
responsabili di negligenza nella pulizia e nell'ordine della persona o
della camera; abbandono ingiustificato del posto assegnato;
volontario inadempimento di obblighi lavorativi; atteggiamenti e
comportamenti molesti nei confronti della comunità; giochi o altre
attività non consentite dal regolamento interno; simulazione di
malattia; traffico di beni di cui è consentito il possesso; possesso o
traffico di oggetti non consentiti o di denaro; comunicazioni
fraudolente con l'esterno o all'interno; atti osceni o contrari alla
pubblica decenza; intimidazione di compagni o sopraffazioni nei
confronti dei medesimi; falsificazione di documenti provenienti
dall'amministrazione affidati alla custodia del detenuto o
dell'internato; appropriazione o danneggiamento di beni
dell'amministrazione; possesso o traffico di strumenti atti ad
offendere; atteggiamento offensivo nei confronti degli operatori
penitenziari o di altre persone che accedono nell'istituto per ragioni
del loro ufficio o per visita; inosservanza di ordini o prescrizioni o
ingiustificato ritardo nell'esecuzione di essi; ritardi ingiustificati nel
rientro; partecipazione a disordini o a sommosse; promozione di
disordini o di sommosse; evasione; fatti previsti dalla legge come
reato, commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari o di
visitatori”35
•
Art. 78 determina i casi in cui, per l’ assoluta necessità di prevenire
danni a persone o cose, o l’insorgenza di particolari gravità per la
sicurezza e l’ordine dell’istituto, il direttore può sanzionare
l’esclusione dalle attività in comune all’internato che abbia
commesso un’infrazione. La durata della misura cautelare non può
superare i 10 giorni.
•
Art. 111 alla direzione degli ospedali psichiatrici giudiziari è
assegnato personale infermieristico necessario allo svolgimento della
funzione di cura e riabilitazione.
GIULIA SIMONETTI, “Ospedale psichiatrico giudiziario: aspetti normative e sociologici. Il
caso di Montelupo Fiorentino.”, p. 57.
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4
Tipologie giuridiche di internati in OPG
Per finire un elenco delle tipologie di internati all’interno degli Ospedali
psichiatrici, attraverso le categorie giuridiche:
1. PROSCIOLTI FOLLI: sono i prosciolti per vizio totale o parziale
di mente, giudicati non imputabili per infermità mentale al momento
del fatto, a cui viene applicata la misura di sicurezza del Manicomio
giudiziario ai sensi dell'art. 222 c.p.
2. CONDANNATI A PENA SOSPESA: sono quelle persone
condannate a pena detentiva che, durante il corso della detenzione,
presentano i sintomi di una malattia mentale.
3. SOGGETTI SOTTOPOSTI A MISURA DI SICUREZZA
PROVVISORIA: sono le persone detenute in attesa di processo, per
le quali il giudice ritiene non improbabile un futuro riconoscimento
di vizio totale o parziale di mente, ed alle quali decide di applicare in
via provvisoria la misura di sicurezza del Manicomio giudiziario, a
norma dell'art. 206 c.p.
4. DETENUTI IN ESECUZIONE DI PERIZIA: sono gli imputati di
un reato, per i quali il giudice abbia disposto perizia psichiatrica, a
norma dell'art. 318 C.P.P. Provengono dal carcere e vi ritornano una
volta espletata la perizia.
5. SOGGETTI INVIATI IN OSSERVAZIONE: sono persone
detenute o in attesa di processo, inviate in osservazione all'Ospedale
psichiatrico giudiziario perché hanno manifestato delle turbe
psichiche.36
6. MINORATI PSICHICI IN SENTENZA: sono soggetti già
condannati ad una pena diminuita, perché riconosciuti dalla sentenza
come seminfermi di mente.
7. MINORATI PSICHICI AMMINISTRATIVI: sono persone già
condannate in quanto riconosciute sane di mente, le quali durante
l'esecuzione della pena, presentano turbe psichiche di entità minore
rispetto a quelle che potrebbero provocare la sospensione della pena
(si tratta di solito di soggetti anziani condannati a pene detentive
lunghe, nei quali insorgono patologie psichiche legate soprattutto
all'età avanzata). Con provvedimento amministrativo del ministero,
vengono assegnate ad un Ospedale psichiatrico giudiziario, da cui
usciranno al termine della pena 37
36
SCARPA F., “Ospedale Psichiatrico Giudiziario”.
37
Ibidem.
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5 Conclusioni
Si è attraversata la nebbia del tempo per scoprire le radici più antiche del
rapporto tra follia e società.
Si è partiti dalla lebbra, dai suoi rituali di esclusione e di condanna morale
per arrivare a comprendere il lungo internamento che i folli hanno subito nel corso
dei secoli.
Il concetto di colpa, tipico della concezione cristiana della vita, ha portato a
considerare i folli responsabili del loro comportamento “deviato”, come
manifestazione della corruzione dell’anima e di conseguenza della meritata
punizione che Dio “amorevolmente” dà per espiare.
Ci vorranno interminabili poemi filosofici, aspri dibattiti scientifici e
religiosi perché la follia acquisti il giusto valore di malattia, ma sempre intriso di
quel qualcosa di mistico e religioso che doveva essere tenuto nascosto alla società
dei sani, troppo poco immuni alla possibile corruzione delle menti.
Pittori illustri hanno cercato di riprodurre su tela il fascino tragico che i visi
dei folli esprimevano.
Scrittori fantasiosi, attraverso le parole dei pazzi, hanno descritti i lati più
oscuri dell’animo umano, raccontandoci l’inferno che può esistere all’interno
della mente.
E gli scienziati hanno cercato cause fisiche, “inventato” cure miracolose per
spiegare rendere “normali” coloro i quali non rientravano nei canoni della società.
Ma ad oggi sappiamo dire chi sono i folli?
Beh se ci rifugiamo nelle definizioni scientifiche ad ogni patologia troviamo
la sua spiegazione, creata a pennello per regalarci la sicurezza della conoscenza
…
Ma i mondi che ogni persona “non convenzionale” porta con se? Vanno a
priori ignorati o ascoltati perché rappresentazioni del loro IO più vero?
Pirandello considerava la follia come “la sospensione di tutti i
comportamenti prima automatici, la facoltà percettiva riesce ad allargarsi e
vedere il mondo con "altri occhi", perché finalmente libera dalle regole
consuete.”
Gli anni, le idee, le innovazioni si susseguono, ma se ci guardiamo intorno
siamo ancora fermi al Medioevo delle nostre paure quando incontriamo per la
strada quelle persone che parlano con se stessi, o con altri da se.
Le leggi hanno elevato questi folli al giusto ruolo di persone con dei diritti:
essere curati, rispettati e sostenuti … Ma in realtà la chiusura dei “manicomi”,
luoghi in cui veniva sicuramente annientata la dignità umana, non ha portato
quelle soluzioni che l’utopia auspicava. E nei confronti degli autori di reato con
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diagnosticata malattia mentale la soluzione riamane ancora l’Ospedale
Psichiatrico Giudiziario.
Questo elaborato non vuole essere una valutazione positiva o negativa di
tutto quello che è stato fatto e scritto in merito alla follia e ai suoi attori.
Vuole solo essere un portale attraverso il quale entrare nella sua storia e
nella sua evoluzione per cercare di capire meglio il parlare confuso dei suoi
protagonisti, per smuovere in tutti noi continue domande per giungere a soluzioni
sempre più rispettose dei “matti” a cui sono rivolte.
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