Musicista, nato a Roncole di Busseto il 10 ottobre 1813

VERDI GIUSEPPE
Musicista, nato a Roncole di Busseto il 10 ottobre 1813; morto a Milano il 27 gennaio 1901
.
Giuseppe Verdi
Nacque da Carlo e da Luigia Uttini, gente di umilissime condizioni.
Il padre gestiva nella piccola frazione di Roncole una osteria con negozietto annesso di generi diversi
ed il futuro maestro sarebbe stato destinato a succedergli nella modesta attività, se l'istinto di artista
predestinato non l'avesse chiamato irrevocabilmente laddove egli sentiva il presagio infallibile del suo
avvenire.
Sono note a chiunque le vicende dell'infanzia di Verdi, sebbene la leggenda si sia impadronita,
trasfigurandoli, di elementi veri della sua vita. Ma a prescindere dagli episodi fantasiosi dei villici
suonatori che l'accompagnarono a suon di musica al fonte battesimale e dei rischi mortali corsi dal
giovinetto cadendo in una gora e giungendo in ritardo ad una sacra funzione nell'oratorio di Madonna
dei Prati, dove poco prima un fulmine aveva incenerito quattro sacerdoti e due cantori, dobbiamo
considerare la realtà di una fanciullezza vissuta poveramente nel villaggio tra il lavoro spesse duro
nell'esercizio paterno e il disimpegno delle mansioni di chierichetto nella chiesa parrocchiale.
E' tuttora conservata nel museo della Scala la spinetta, donatagli dal padre, dalla quale il ragazzo, per
appagare l'innata propensione alla musica, si diletta va a trarre note con fresca ed ingenua
spontaneità.
Sembra accertato che Verdi apprese i primi elementi della teoria musicale all'età di dieci anni dal
rettore dell'oratorio — ora santuario — di Madonna dei Prati; ebbe poi a maestro Pietro Baistrocchi,
organista del villaggio di Roncole, il quale gli impartì lezioni di cembalo. Più tardi, protetto dal
mecenate Antonio Barezzi, fu ammesso a Busseto, alla scuola di grammatica del canonico Pietro
Seletti ed a quella di musica diretta da Ferdinando Provesi, maestro di cappella e organista della
collegiata di Sa Bartolomeo; fu questi che per primo intuì il genio latente dell'artista, definendo l'allievo
« quel genio che oggi sorge e che diverrà presto il più bell'ornamento di questa patria ».
La produzione giovanile di Verdi è circoscritta a lavori secondari e d'occasione arie, duetti, concerti
per pianoforte, variazioni per diversi strumenti, otto pezzi formanti I deliri di Saul e numerose
composizioni a soggetto sacro, tra cui vari Tantum ergo per tenore e baritono e tenore e basso una
Messa a quattro voci e uno Stabat Mater: musica, tutta di finissimo gusto, sostiene il Seletti, mediocre,
invece, e di scarso valore. La prima composizione che il quindicenne musicista potè far eseguire in
pubblico fu una sinfonia che venne premessa ad una rappresentazione nel teatro di Busseto del
rossiniano Barbiere di Siviglia, secondo l’uso allora corrente di inserire in opere celebri brani d’altro
autore.
La casa natale a Roncole Verdi
Nel 1832, per interessamento del Barezzi, Verdi ottenne dal locale Monte di pietà una delle pensioni
assegnate dall'istituto ai giovani poveri che denotassero attitudini artistiche. Contava allora
diciannove anni, ma gli studi compiuti nelle ore non occupate ad aiutare il padre nel buon andamento
dell'esercizio gli avevano procurato una preparazione troppo frammentaria ed insufficiente. Ed egli se
ne convinse allorchè, grazie alla pensione accordatagli dal Monte di pietà, si trasferì a Milano per iscriversi a quel Conservatorio: fu respinto per scarse attitudini musicali e non, come si vorrebbe, per l'età
non regolamentare e per scarsa agilità nel pianoforte.
Dovette ripiegare sulle lezioni del pugliese Vincenzo Lavigna, maestro concertatore alla Scala, buon
compositore e, per ammissione dello stesso suo allievo, contrappuntista fortissimo. Nel frattempo, per
completare la propria cultura musicale, s'era dato a studiare a fondo opere strumentali dei grandi
maestri, in ispecie tedeschi, ed a partecipare assiduamente ad esecuzioni musicali. Di quel tempo è
anche la composizione di due accademie private e di alcuni pezzi che non furono nemmeno
strumentati, tra i quali L'Esule e Seduzione, su versi del Solera e di Luigi Balestra, e il Notturno, sulla
celebre poesia del bassanese Jacopo Vittorelli.
Ritornato dopo quattro anni a Busseto, avrebbe aspirato ad occupare il posto di maestro di cappella e
di direttore della scuola di musica, rimasto vacante per la morte del Provesi, ma fu preferito a lui
altro maestro. Dedicò allora gran parte della sua attività nella direzione di una piccola scuola di
musica istituita dal comune e della banda musicale del luogo, dando frequenti concerti nei vicini paesi.
Il 4 marzo 1836 sposò Margherita Barezzi, figlia del suo benefattore. Il matrimonio venne celebrato
nell'oratorio della SS. Trinità e gli sposi si accasarono nel palazzo Rusca, presso l'abitazione del
Barezzi.
Per tre anni Verdi condusse vita modesta e tranquilla, occupato a lavorare alla composizione di marce
per banda, sinfonie — che poi faceva eseguire in pubblico dal complesso da lui diretto — e pezzi vari
per chiesa; musicò a tre voci i cori delle tragedie del Manzoni ed il Cinque maggio ad una sola voce;
pubblicò una raccolta di sei romanze da camera e, cosa più importante, si pose a musicare l'Oberto
conte di San Bonifacio, suo primo lavoro teatrale.
Margherita Barezzi
Ritratto di A. Mussini al Museo della Scala
Il 26 marzo del '37 nacque agli sposi una bambina, Virginia, che doveva morire poco più di un anno
dopo, cioè ad un mese di distanza dalla nascita, nel luglio del secondogenito Icilio Romano. Nel
settembre di quello stesso anno, vinto forse dalle insistenze degli amici a non sacrificare il suo
ingegno alle modeste occupazioni, si stabilì a Milano, dove prese contatto con l'ambiente teatrale e
fece subito. conoscenza con il celebre impresario Bartolomeo Merelli e con l'amica di questi
Giuseppina Strepponi, cantante allora in auge e che sarebbe divenuta sua seconda moglie.
ll debutto del giovane compositore, mercè l'appoggio del Merelli, fu onorevole L'Oberto, andato in
scena alla Scala il 1 novembre del '39, ottenne un successo che si potrebbe definire di stima. L'opera,
pur senza entusiasmare, piacque al pubblico milanese, che salutò con applausi la comparsa nell'arte di
un nuovo maestro.
Il Merelli offrì subito a Verdi di sottoscrivere un contratto per altre tre opere La prima di esse
avrebbe dovuto esser Il Proscritto, su libretto del Rossi ; ma questo libretto fu, per varie ragioni,
accantonato e sostituito con l'altro a soggetto buffo del Romani: 11 finto Stanislao, ovvero Un giorno eli
regno.
Le ragioni della caduta di quest'opera alla Scala, dove andò in scena la sera del 5 settembre 1840,
sono pressochè concordemente attribuite dai biografi del maestro allo stato di indicibile prostrazione
nel quale Verdi fu tratto dalla morte quasi contemporanea dei figli e della moglie, benchè non si
comprenda come egli avesse accettato di musicare un'opera il cui genere non si accordava alla
serietà della sua natura. Verdi stesso, rievocando a distanza di anni la sventura che l'aveva colpito e
sbagliando, come a chiunque potrebbe accadere, date riferibili alla sua stessa vita, autorizzò questa
pietosa leggenda.
In effetti, la bimba era morta nel '38 ed il figlioletto spirò nell'ottobre del successivo anno, poco meno
di un mese prima dell'andata in scena delI'Obcrto. Quella che morì mentre Verdi era intento a
musicare Il finto Stanislao fu la giovane sposa, trascinata alla tomba Il 18 giugno del '40 da un violento
attacco d'encefalite.
Giuseppina Strapponi
Ma di vero rimane questo: che egli, in due anni, vide distrutta da un crudele destino la famiglia che
s'era formato: la dolce compagna della vita ed i frutti del loro tenerissimo amore.
Verdi s'era illuso che il pubblico, al corrente di questa dolorosa concatenazione di lutti, si dimostrasse
comprensivo, risparmiandogli l'umiliazione di un fiasco; ma non fu così: i fischi a teatro non mancarono
e l'opera cadde clamorosamente. Il colpo per il maestro fu duro e contribuì certamente a rendere
l'uomo, già schivo per natura, ancor più solitario e scontroso.
A Milano, dove continuò a risiedere, si ridusse a vivere in una camera ammobiliata, in un isolamento
ch'era frutto di disperato scoramento.
L'incontro casuale nella galleria De Cristoforis, in una fredda e nebbiosa serata del gennaio del '42,
con la Strepponi ed il Merelli, il quale fece scivolare in una tasca del maestro riluttante il libretto del
Nabucco — scritto dal Solera per il Nicolai — dopo essersi inutilmente sforzato di convincerlo a
musicarlo e l'episodio dei versi suggestivi del canto Va pensiero sull'ali dorate, che avrebbero colpito
l'attenzione di Verdi allorchè egli, rientrato a casa, gettò con noncuranza sopra un mobile il libretto e
questo si aprì proprio a quella pagina, sono in gran parte da relegare anch'essi nella leggenda.
In effetti Verdi era troppo orgoglioso per non aspirare ad una rivincita. S'aggiunga a ciò l'interesse
che egli aveva sempre provato per la Bibbia e per le antiche storie e si comprenderà quanto il
soggetto dovette appassionarlo.
In poco più di due mesi l'opera era musicata e il 9 marzo del '42, protagonisti la Strepponi, il Ronconi e
il Derivis, ottenne alla Scala un successo entusiastico.
Il Nabucco non soltanto consacrò alla fama il giovane maestro, ma segnò una tappa importante per la
scena lirica italiana, che dava segni di stanchezza ed alla quale il solo Donizetti non bastava ad
infondere vita dopo il silenzio di Rossini, che si protraeva dal '29, e la morte, nel '35, di Bellini.
Con quest'opera Verdi pose arditamente la prima pietra dell'edificio melodrammatico moderno,
foggiandone la costruzione con disegno nuovo e indipendente. Sarebbe tuttavia inesatto sottovalutare
l'apporto del particolare momento politico al successo del Nabucco, nel quale l'avvicendarsi e il
confondersi della tragedia lirica con l'ambizione, la gloria e l'amor di patria, eccitarono il popolo e
servirono di pretesto alla prima dimostrazione che preluse al futuro risveglio politico. Da allora Verdi
andò assumendo quella fisionomia di maestro della rivoluzione italiana che andò prendendo sempre
più forma sino a racchiudere in sè l'anima ardente e generosa degli italiani nell'epoca eroica del
risorgimento nazionale; e fu dopo il trionfo del Ballo in maschera, nel '59, seguito dalle vittorie di
Palestra e di Magenta, che il suo nome si prestò, per combinazione, ad essere l'acrostico di un grido
che fece fremere il cuore di milioni d'italiani: Viva Verdi voleva significare Viva Vittorio Emanuele Re
D'Italia.
Dal '42, l'anno del Nabucco, al '49, l'anno della Battaglia di Legnano, con cui ebbe termine la prima
maniera del maestro, Verdi compose e mise in scena dieci opere : I Lombardi alla prima Crociata
(Milano, Scala, 11 febbraio 1843), accolta con favore nonostante le incongruenze del libretto del Solera,
privo di logica e di nesso, e della musica, mancante di condotta e di stile; Emani (Venezia, Teatro La
Fenice, 9 marzo 1844), espressione di quel romanticismo che nel nostro Paese ebbe anche carattere
altamente patriottico, sintetizzandosi nell'amor di patria e nel dispregio per la dominazione straniera; I
due Foscari (Roma, Teatro Argentina, 3 novembre 1844) ; Giovanna d'Arco (Milano, Scala, 15 febbraio
1845); Alzira (Napoli, Teatro San Carlo, 12 agosto 1845) e Astila (Venezia, La Fenice, 17 marzo 1846),
opere che scossero vivamente il pubblico con la potenza delle melodie e con le allusioni patriottiche,
ma che segnarono un periodo di decadenza, o più benevolmente di sosta, nell'arte di Verdi, sospinto
dall'opportunismo politico — non inteso nel significato più deteriore — alla ricerca di facili successi;
Macbeth (Venezia, La Fenice, 14 marzo 1847), l'opera al maestro più cara e da lui dedicata al Barezzi, la
quale preluse all'avvio di Verdi verso il periodo più luminoso della sua arte; I Masnadieri (Londra,
Teatro della Regina, 22 luglio 1847), accolta senza entusiasmo come la successiva Il Corsaro (Trieste,
Teatro Comunale, 25 ottobre 1848) ; infine La Battaglia di Legnano (Roma, Teatro Argentina, 27 gennaio
1849), opera di scarso pregio, ma che, rappresentata dieci giorni prima della proclamazione della
Repubblica Romana, ottenne quel successo che il maestro musicandola in pochi giorni, s'era prefisso
Otto anni di attività e di successi : non deve stupire che la fama di Verdi si fosse diffusa in tutta
Europa.
Gli impresari di teatro e gli editori gl offrivano contratti sempre più vantaggiosi già per Nabucco,
mediatrice la Strepponi egli aveva ricevuto dal Merelli un compenso pari a quello preteso da Bellini per
la Norma, vale a dire ottomila lire austriache ponendo a sua disposizione alcuni tra migliori e più
famosi cantanti : Erminia Frezzolini, Achille De Bassini, Mariann< Barbieri-Nini, Gaetano Fraschini, Luigi
La blachc, Jennv Lind, Italo Gardoni, Sofia Locwe, Filippo Coletti, il Roppa, il Selva la Tadolini ed altri
ancora con i quali Verdi pur tenendone in gran pregio le virtù, ehbe a liticare ogniqualvolta si trattò di
concessioni che ripugnavano alla sua serietà d maestro ed alla sua coscienza di artista
Conobbe ed entrò in consuetudine amichevole con moltissime persone: sovrani, uomini di Stato,
esponenti dell'aristocrazia della scienza e della cultura; particolarmente care le amicizie strette a
Milano coi il Carcano, il Somma e Carlo Tenca; a Firenze con Dupré, Bartolini, Giusti e Cappelli ; a Napoli
con Torelli, Parizzi, Florimo Morelli e Delfico; affettuosissima, poi, quei la che lo legò a Clara Maffei,
l'intelligente e colta nobildonna milanese, e che si protrasse sino alla morte di lei, avvenuta ne 1886.
Amò, riamato, Giuseppina Strepponi che tanta parte aveva avuto nella sua affermazione nell'arte.
Fu per suo consiglio che egli acquisti nel '48 la villa di Sant'Agata con i circostanti poderi, che sarebbe
divenuta il sui rifugio, il suo asilo di pace, dove videro la luce le sue opere più grandi.
Il periodo 1849-1867 segnò l'epoca aurea della produzione verdiana: dalla Luisa Miller, con intermezzo
di Rigoletto, Trovatore, Traviata, al Don Carlos.
La chiesa parrocchiale di Roncole
Diciotto anni dieci opere della seconda maniera, ove si voglia escludere I'Aroldo (Rimini, Teatro
Comunale, 16 agosto 1857), che fu uno sfortunato rifacimento dell'infelice Stiffelio.
La Luisa Miller (Napoli, San Carlo, dicembre 1849) può essere considerata l'anello di congiunzione fra il
Verdi della musica concitata e spesso negletta del Nabucco e quello, votato a un ascendente artistica
superiore, del Ballo in maschera, del Don Carlos e dell'Aida. Ciò indipendentemente da talune
incongruenze, le quali, peraltro, trovano spiegazione nella mancanza — addotta anche da Verdi a sua
difesa — di poeti teatrali che sapessero saggiamente riunire l'estro lirico alla conoscenza dell'effetto
scenico.
Ci sembra tuttavia di dover rilevare come, nonostante il radicale mutamento nel trattare il linguaggio
verbale, Verdi sia, nei lavori riusciti, pari ovunque per intensità e sensibilità, sempre gagliardo al
contatto dei sentimenti umani. Si può dire che egli viva nel dominio del cuore: non v'è infatti grado del
sentimento che l'uomo che pianse ed amò per tatti non abbia fatto traboccare al momento giusto e
con il suggello della sua vigorosa personalità. Così, soprattutto, nelle opere che fecero seguito alla
Luisa Miller (fatta eccezione per Stiffelio — rappresentata al Teatro Grande di Trieste il 16 novembre
del '50 — nella quale il maestro sembrò dimenticare, tutto ad un tratto, il concetto di riforma artistica
che andava in lui maturando) : Rigoletto (Venezia, La Fenice, 11 marzo 1851), che è senza dubbio il
melodramma più ispirato di Verdi ; Il Trovatore (Roma, Apollo, 19 gennaio 1853), l'opera sua più
popolare, perchè la più tipica e personale, nonostante presenti le mende, forse accentuate, del
Rigoletto per quanto riguarda il libretto e l'argomento e non sia, nella forma, dì eguale correttezza,
proprietà ed eleganza; La Traviata (Venezia, La Fenice, 6 marzo 1853), l'opera in cui domina la
maggiore sentimentalità ed in cui l'amore sia più lungamente e commoventemente cantato; I Vespri
Siciliani (Parigi, Teatro dell'Opera, 13 giugno 1855), che rivela i germi nuovi della produzione futura,
sebbene questi siano soffocati da un'onda melodica che domina il compositore impedendo di
svilupparli com'era nell'intendimento; Simon Boccanegra (Venezia, La Fenice, 12 marzo 1857), nella
quale, per la prima volta, si scorgono caratteri veri anche nel declamato, ma che non piacque per la
musica che troppo seguiva la vicenda lugubre del libretto; Un Ballo in maschera (Roma, Apollo, 17
gennaio 1859), da ritenere, dopo la Miller, importante nell'evoluzione verdiana; importante anche
perchè il simbolismo patrio, che aveva accompagnato il maestro nel suo cammino artistico dal '42 in
poi, assumeva con quest'opera — rappresentata alla vigilia degli avvenimenti politici che segnarono il
primo grande momento della redenzione italica — la sua ultima, apoteotica espressione; La Forza del
destino (Pietroburgo, Teatro Imperiale, 10 novembre 1862), che, nonostante la scelta infelice del
libretto e la scarsa od alcuna unità organica dell'opera, ebbe ininterrotta fortuna, specie dopo le
modifiche apportate al libretto del Piave; ma vi è di notevole il grande sviluppo della parte corale e la
comicità di alcuni quadri, che di tratto in tratto rompono la fosca trama in cui la fatalità del destino è
resa con potente, travolgente drammaticità; Don Carlos (Parigi, Teatro dell'Opera, 11 marzo 1867),
opera alquanto discussa, ma che rimane una delle concezioni verdiane più nobili e generose e che si
distingue dalle altre opere per il carattere aristocratico, ossia non popolare, dello stile: musica nella
quale l'alta filosofia dell'idea estetica si unisce con grazia al romanticismo del sentimento.
Se già nel '47 Verdi era popolare a Parigi ed a Londra come in Italia, fra il '51 e il '67 la sua fama non
ebbe, si può dire, più confini. Fu un periodo di intensissima attività ed anche il più felice per la vena
creatrice del maestro, che in meno di tre anni dette al teatro Rigoletto, Trovatore e Traviata, il
cosiddetto Trittico romantico, tre capolavori, presi separatamente, che rappresentano la gloria
musicale di mezzo secolo.
Di quegli anni noteremo, con il raggiungimento di Verdi del dominio nel campo dell'arte, i sempre
maggiori proventi (che egli saggiamente amministrava), nuove amicizie, tra cui quelle, affettuosissime,
con il conte Opprandino Arrivabene, con Cesarino De Sanctis e con lo scultore Luccardi; le lotte contro
i soprusi e le angherie della censura teatrale e gli immancabili litigi con impresari (ne '59 ebbe una
grossa questione con l'impresa del San Carlo di Napoli, che per ragioni politiche pretendeva fosse
trasposta la musica del Ballo in maschera sopra altro libretto), con editori, librettisti, direttori
d'orchestra e cantanti. Di bravi cantanti ne ebbe parecchi a primi interpreti delle sue opere:
basterebbe citare Teresina Brambilla Ponchielli, Raffaele Mirate, Felice Varesi, Rosina Penco, Cristina
Nilsson, Virginia Boccabadati, Lorenzo Salvi, la Spezia, la Piccolomini, il Boucardé, Sofia Cruvelli.
Ma, ormai, non v'era cantante celebre che non cercasse nelle opere di Verdi il successo con
interpretazioni personali : i tenori Mario De Candia nel Rigoletto e nella Traviata, Boucardé ed Enrico
Tamberlik nel Trovatore, Gaetano Fraschini nella Luisa Miller, nella Forza del destino e nel Rigoletto,
Raffaele Mirate nel Rigoletto, nei Lombardi e nella Giovanna d'Arco, Carlo Negrini nella Luisa Miller,
Emilio Naudin nel Rigoletto; i soprani e mezzo-soprani e contralti Giulia Grisi e Marcellina Lotti nel
Rigoletto, Erminia Frezzolini nei Lombardi e nella Giovanna d'Arco, Teresa Brambilla Ponchielli nel
Rigoletto, nel Trovatore e nell'Ernani, Sofia Cruvelli nelI'Ernani e ne I due Foscari, Teresa Stolz nella
Giovanna d'Arco, nel Don Carlos e nella Forza del destino, Rosina Penco, Maria Spezia e la Piccolomini
nella Traviata, Romilda Pantaleoni nell'Ernani, le sorelle Barbara e Carlotta Marchisio nel Rigoletto e
nella Forza del destino, Teresa De Giuli nella Luisa Miller, nel Rigoletto e nell'Ernani, Adelina Patti nel
Rigoletto e nella Traviata, Marianna Barbieri-Mini nel Macheth, Adelaide Borghi-Mamo, Marietta Alboni e
Marietta Brambilla nel Trovatore; i baritoni ed i bassi Felice Varesi nel Rigoletto, Victor Maurel nel Don
Carlos, nel Trovatore e nell'Ernani, Francesco Pandolfini nell'Ernani, Gottardo Aldighieri nel Ballo in
smaschera, Antonio Cotogni nel Rigoletto, nell'Attila, nella Forza del destino e nel Ballo in maschera,
Luigi Lablachc ne I Masnadieri, Antonio Tamburini nella Forza del destino: ecco, in sintesi, i sovrani
della scena, gli interpreti eccezionali delle opere di Verdi che seppero suscitare, in Italia e all'estero,
indescrivibili entusiasmi.
Altri avvenimenti da ricordare in quegli anni: la morte della madre, nel giugno del '51, e quella del padre
nel gennaio del '67, sepolti entrambi nel piccolo cimitero di Vidalenzo (Verdi, da figlio amorosissimo,
aveva procurato ai genitori, già dal tempo dei primi successi, un'esistenza tranquilla ed agiata); il
matrimonio del musicista con Giuseppina Strepponi, avvenuto il 29 aprile del '59 nella chiesa cattolica
di Collangesous-Salière nella Savoia ancora italiana; la morte, nel luglio del '67, del benefattore
Barezzi, non mai dimenticato dal maestro nonostante gli screzi fra i due uomini di cui fu causa
involontaria la Strepponi, che nel cuore del musicista aveva preso il posto della prima moglie; e Verdi,
per porgergli l'estremo saluto, accorse affranto al suo capezzale da Milano dov'era in procinto di
partire per Parigi per le prove del Don Carlos.
Villa Verdi a Sant’Agata
E poi l'incontro con il Manzoni, preparato dalla contessa Maffei e avvenuto, con grande commozione del
maestro, il 3 giugno del '68; l'amicizia con la celebre cantante tedesca Maria Waldmann, poi duchessa
Massari Zavaglia di Fabriano, e con la non meno celebre collega di questa Teresa Stolz, entrambe
interpreti somme del repertorio verdiano.
Assurto ai più alti fastigi dell'arte, tutte le porte gli vennero spalancate: i circoli aristocratici ed i
salotti più inaccessibili ambivano l'onore di averlo ospite. Ma Verdi non era certo uomo che cercasse
gli onori mondani. Indifferente sin dai primi successi al soffio della vanità, non mutò in nulla la sua vita
semplice e febbrilmente operosa. Amante della solitudine e del raccoglimento, insofferente delle lodi e
proteste di ammirazione degli uomini, rifuggiva dalle convenzioni e nell'isolamento di Sant'Agata si
sottraeva alle noie della celebrità.
Ruvido e sdegnoso in gran parte lo era per natura, moltissimo lo fu per necessità, per il bisogno di
sfuggire all'assedio dell'infinita schiera dei seccatori e degli adulatori, da lui aborriti. Implacabile nel
respingere ogni contatto con questi, serbava a uno stuolo numerato e casto di eletti tutta la
squisitezza del suo affetto, le arguzie della sua conversazione e delle sue lettere.
La giusta conoscenza del suo temperamento traspare — ben osserva il Luzio — dalle lettere, che lo
presentano diverso dal concetto che molti, male interpretando la sua modestia, ombrosa e ispida, si
erano formati. Veramente, superbo Verdi non fu mai, ma nemmeno umile se non di fronte alla propria
arte ed ai grandi che l'arte prima di lui avevano amato e servito (e la sua umiltà davanti al Manzoni
basterebbe a testimoniarlo).
E' noto con quanta passione, quando gli impegni di teatro glielo consentivano, il maestro si dedicasse
nei suoi campi ai lavori agresti: egli stesso non sdegnava appellarsi contadino delle Roncole; ed è in
quella semplicità rurale che nacque la musica che fece il giro del mondo, melodiosa e trascinante, con
un'arte, immortale che parla a chiunque. Venuto dal popolo, Verdi rimase sempre nel cuore del popolo.
Agli umili si accostava con calda umanità: i legati testamentari sono una dimostrazione del suo amore
per la gente umile, della quale aveva saputo sollevare i sentimenti più nobili cantati dai poeti e da luì
realizzati nei cori di masse che condussero gli italiani a riconquistare la dignità del proprio essere.
Nella sua opera musicale è tutto un fremito di patrio amore. Sensibilissimo alle sorti del paese, egli fu
fervido assertore della causa dell'indipendenza nazionale, che servì non soltanto con la musica. E
quantunque non avesse partecipato agli avvenimenti politici, dimostrò più di una volta i suoi sentimenti
patriottici. A Parigi, dopo le cinque giornate di Milano, aderì apertamente all'indirizzo del Guerrieri
Gonzaga, ministro degli Esteri di Milano, inviato in Francia a chiedere aiuto, in nome della libertà, alla
nazione sorella. Estimatore del Mazzini — per il quale scrisse nell'ottobre del '48 l'inno Suoni la tromba
su parole di Mameli — intese tuttavia quale fosse l'opera enorme di Cavour e votò a lui una devozione
che non cessò mai.
Sdegnoso di cariche e di onori, nel '59, per nobile senso di italianità, accettò di far parte, quale
rappresentante di Busseto, dell'Assemblea delle Provincie Parmensi e fu tra i quattordici deputati che
sottoscrissero l'annessione al Piemonte e membro della deputazione recatasi espressamente a Torino
per presentare ì 426 mila sì del voto plebiscitario. Alla cacciata degli austriaci dalla Lombardia, egli,
che aveva sempre sofferto di non essersi potuto arruolare tra i combattenti per la malferma salute,
distribuì aiuti generosi ai feriti ed alle famiglie dei caduti.
Nel '61, eletto deputato da Cavour nonostante la riluttanza per tale carica, prese parte alla seduta del
27 marzo di quell'anno nel corso della quale fu proclamata Roma capitale del Regno d'Italia; ma, per gli
impegni d'arte, non potè dare considerevole contributo di attività alla vita parlamentare. Si limitò a
votare, per la fiducia che aveva nel grande statista, le leggi di Cavour; e quando questi nello stesso '61
morì, egli, che aveva sempre nutrito scarso interesse per la politica, si trovò disorientato in
parlamento e confessò candidamente di essersi astenuto da interventi per il timore di commettere
qualche sproposito.
Dal Don Carlos all'Aida intercorsero quattro anni. Con quest'opera (Cairo, Teatro khediviale, 24
dicembre 1871 ), considerata una delle più elette espressioni della sentimentalità lirica italiana
impersonata nel genio del suo autore, Verdi iniziò la sua terza maniera.
Taluni critici non accettano la suddivisione dell'opera verdiana in tre o più maniere (una quarta altri
vorrebbero intravvedere nell'Otello e nel Falstaf f ), sostenendo che l'arte del grande musicista andò
concretandosi in opere di sempre maggior valore e significato per la progressiva conquista di un
linguaggio più ricco ed esteso e di e di una maggiore comprensione di umanità.
Ma appunto per questo processo evolutivo non sarebbe possibile accostare stilisticamente 1'Otello non
diciamo al Nabucco, ma al Rigoletto, o al Trovatore o ai Vespri Siciliani. Verdi stesso aveva compreso
che l'entusiasmo patriottico, che tanto aveva giovato al successo delle prime opere, nascondeva un
grande pericolo per l'artista, turbandone lo svolgimento della personalità. Perciò vinse quell'insidia e
superò la lotta del sentimento e la conquista di uno stile che rappresenta il travaglio dei primi,
difficilissimi anni. Già la Luisa Miller segnò l'avvio del maestro verso più alte espressioni d'arte.
A ciò contribuirono certamente la sempre più diffusa conoscenza nel nostro Paese delle nuove opere
straniere, specie di Wagner e di Meverbeer, e le discussioni da esse suscitate. Nell'Aida s'intravvedono
i segni dell'altezza che il maestro avrebbe raggiunto sedici anni dopo con Otello.
Aida, come è noto, riuscì una grande solennità artistica. Dopo sole sei settimane l'opera fu
rappresentata alla Scala di Milano (8 febbraio del '72) con esito trionfale, avendo ad interpreti gli
stessi cantanti che la presentarono al Cairo: la Stolz e la Waldrnann, il tenore Fancelli, il baritono
Pandolfini ed il basso Maini : un complesso di artisti veramente superbo.
Verdi con Arrigo Boito, all’epoca di Falstaff
11 periodo dal '63 all"87 fu di raccoglimento e di meditazione. Il genio fecondissimo, che in soli tre anni
aveva dato all'arte i capolavori del trittico romantico, limitò la propria produzione al Don Carlos ed
all'Aida, alla riforma degli spartiti del :Macbeth, della Forza del destino, del Simon Boccanegra e dello
stesso Don Carlos, avendo per queste due ultime opere a collaboratore e consigliere preziosissimo,
nelle modifiche apportate al libretto, Arrigo Boito. Di più scrisse, per la morte del Manzoni, la Messa di
Requiem, nella quale incluse il Libera musicato per la Messa commemorativa che nel '68, in occasione
della morte di Rossini, avrebbe dovuto essere composta da una dozzina di musicisti, lui compreso; idea
bene accolta, ma non concretata per sopraggiunte gelosie e vanità.
Al confessore che gli chiedeva se fosse credente, Rossini, in punto di morte, rispose che,
diversamente, non avrebbe potute scrivere lo Stabat Mater. L'episodio, notissimo, può essere evocato
per un parallele con la fede di Verdi. Fu fede sempre viva quella del grande musicista? Forse no; e
diciamo forse per la difficoltà a penetrare nell'intimo di ogni persona e specie nel suo: il maestro fu
sempre ritroso ad esprimere sentimenti e pensieri. Ma la Messa di Requiem, da lui scritta per
spontaneo impulso del cuore, ed anche e soprattutto le numerose composizioni di musica per chiesa
ed i canti sacri inseriti in alcune opere sono espressione di una pietà all'origine della quale sta una
fede talvolta forse sopita, ma suscettibile di improvvisi, erompenti lampi di vita.
Ci sembra di dover rilevare che Verdi, fanciullo, ricevette una soda formazione religiosa, nè crediamo
che questa fosse stata intaccata dalle idee politiche anticlericali e dalle filosofie agnostiche, positiviste
del sec. XIX: sappiamo che tutto ciò non interessò minimamente il maestro per quel suo assenteismo
da quanto sapeva di letteratura, di filosofia e persino di semplice erudizione giornalistica. E per la
stessa ragione non si sa quale credito attribuire alle affermazioni di quanti sostengono che íl maestro,
per ragioni dì contingenza politica, nutrì scarsa simpatia per il clero a causa dell'insoluta questione
romana. Una certa prevenzione vi fu, ma essa fu conseguenza dell'amor proprio ferito per la mancata
assunzione al posto di organista e maestro di cappella a Busseto, perchè Verdi, per la natura stessa
del carattere, non era uomo che dimenticasse facilmente un affronto.
E' tuttavia nota la sua amicizia cordialissima per alcuni sacerdoti : basterebbe citare mons. Adalberto
Catena, don Alberto Costa, poi vescovo di Lecce, che per lui celebrava la messa nella cappellina della
villa di Sant'Agata, e, soprattutto, don Giovanni Avanzi, parroco di Vidalenzo, gran signore per
educazione, colto umanista, suo elemosiniere e consigliere: è tradizione che l'Avanzi avesse tradotto e
commentato per il maestro le parole della Messa di Requiem, del cui testo in prosa fu autore il
milanese don Claudio Borri.
L'Otello (Milano, Scala, 5 febbraio 1887) fu l'opera alla quale Verdi lavorò più a lungo e con maggiore
impegno, avendo a collaboratore Arrigo Boito nella stesura del libretto tratto dal dramma di
Shakespeare. La scrupolosa armonia della musica con il testo ne costituisce il pregio massimo. Con
Otello il maestro affrontò il problema del dramma lirico moderno, liberandolo dalle formule
convenzionali senza, tuttavia, uscire dalle leggi del principio melodico, del quale allargò le basi. E' certo
che egli, giunto a comporre quest'opera, si rendeva conto delle lacune che presentava il vecchio melodramma e già nel '68 ne faceva un'acuta diagnosi con il Ricordi, rilevando come nelle opere di altra
epoca mancasse, in particolare, «quel filo d'oro che lega ciascuna parte e costituisce, invece di pezzi
staccati, l'opera in musica». Si potrà discutere sul punto che Otello, anche per la ricchezza di
strumentazione, costituisca il capolavoro del maestro, ma non v'è dubbio che tale opera rappresenti la
sintesi luminosa dell'ingegno del suo autore, il quale, raggiunta la vetta della gloria, porse la visione più
alta della sua purificazione artistica insieme con l'ultima fase della sua evoluzione lirica.
Va pure considerato nell'Otello l'impegno richiesto alla voce tenorile; voce di eccezionale estensione e
robustezza, tale da rendere accessibile la parte del protagonista a pochissimi tenori. S'è scritto che
Verdi avrebbe concepito la parte del Moro di Venezia espressamente per Tamagno, che fu infatti primo
interprete dell'opera con Romilda Pantalconi e Victor Maurel; ma il particolare non è degno dì credito,
perchè esso chiamerebbe in causa la sopravvivenza stessa dell'opera.
E' noto come il prevalere della forma declamata, introdotto da Verdi nelle sue opere, spostò le voci ed
elevò le tessiture, procurando al maestro l'accusa di aver preparato il campo alla rovina di molte
ugole, sebbene altri compositori, prima dì lui, avessero dato corso a questa costumanza (basterebbe
citare Rossini con il Guglielmo Tel! e Bellini con I Puritani). Ma ciò, prima che ai maestri operisti, è
imputabile ai cantanti in generale ed ai tenori in particolare per l'abitudine inveterata a ricercare nelle
opere il pezzo dì bravura atto a porre meglio in evidenza le loro doti naturali. Rossini — e con lui
parecchi colleghi — scese a patti con i cantanti, tollerando ogni sorta di virtuosismo (ma una sera
lasciò inorridito il teatro, dove si rappresentava il Guglielmo Tell, dopo aver udito un acuto inserito a
bella posta nello spartito dal tenore Duprez per sbalordire il pubblico) ; non così Verdi, il quale
nondimeno, pur dimostrandosi irremovibile di fronte a concessioni del genere, finì con l'assecondare
questa esigenza scegliendo la via più onorevole per la dignità di un artista: quella di prevenire arbitrarie modifiche ai suoi spartiti offrendo ai cantanti, — specie ai tenori, che tra le voci rappresentano la
maggiore attrazione — parti di notevole impegno che servissero idealmente a porre in luce tutte le
dovizie dei loro organi vocali.
Il Trovatore e Aida ne offrono palese esempio. Con Otello il maestro, forse animato da un segreto
desiderio di rivincita, accentuò al massimo questo estremismo. Scelse Tamagno quale primo
interprete di Otello perchè egli era allora il maggior tenore di forza. Nessuno tra i suoi illustri colleghi,
dal De Negri al Fancelli, dal Sani all'Aramburo, dal Perotic al Mierzwiskv al Niccolini, possedeva un
organo vocale in grado di rivaleggiare con quello di lui. Ed è anche per questa ragione che la critica
teatrale del tempo — dopo il trionfo di Otello — creò il mito Otello-Tamagno a significare che ben
difficilmente il celebre tenore torinese sarebbe stato superato nell'interpretazione di quel
personaggio. L'affermazione potrà sembrare troppo esclusiva; è certo, però, che Tamagno fu artista
dotato di voce straordinaria per potenza, se non proprio per bellezza e pastosità di timbro (il critico
londinese Thomas Burke la definì spuria, artificiosa); e quantunque gli facessero difetto doti sceniche
ed interpretative (Verdi stesso, come è risaputo, dovette faticare non poco durante le prove dell'opera
perchè egli si investisse della parte) fu di Otello protagonista superbo.
Dopo di lui furono relativamente pochi i tenori che si cimentarono onorevolmente nella parte del
difficile e complesso personaggio: De Negri, Stagno, Detura, Cartica, Mariani, Mariacher, Paoli,
Zenatello, Borgatti, Martinelli, Ferrari-Fontana, Calleja, De Marchi, Lauritz-Melchior, Gabrielesco,
Zanelli, Scampini, De Muro ( Bernardo), Pertile, Lauri Volpi, Vinav. E se Tamagno non fu superato da
alcuno di questi per quanto riguarda la potenza della voce, lo fu certamente dal lato scenico (Renato
Zanelli, Giovanni Zenatello e Giovanni Martinelli ne furono grandissimi interpreti); lo sarebbe stato
senz'altro, sotto ogni aspetto, da Enrico Caruso, che quest'opera aveva studiato e che avrebbe
interpretato se la morte non avesse privato anzitempo il teatro di quell'inarrivabile artista.
Da Ocello a Falstaff f intercorsero sei anni. Ben disse il Bellaigue che queste due opere sono le più
unite e le più eguali, dove la verità non si accontenta più di gettare sprazzi di luce, di affermarsi a colpi
violenti, ma rischiara ogni cosa e dovunque risuona. Opere senza lacune, tentativi, errori; musica che
fu definita il rapporto fra il suono e l'anima, manifestato da Verdi nella sua infinita grandezza e nelle
sue infinite particolarità.
Rappresentato alla Scala il 9 febbraio del '93 diretto da E. Mascheroni e con protagonisti Victor
Maurel, Adelina Stehle ed Edoardo Garbin, il Falstaff fu accolto da tali e tanti applausi da dare
l'impressione di un esito trionfale; ma quegli applausi erano rivolti più al maestro glorioso e venerando
che all'opera, la cui bellezza musicale e perfezione tecnica pochissimi seppero comprendere.
Falstuff fu un ardito e inaspettato mi raggio d'arte, non paragonabile, per le qualità di concetto e di
forma, a qualsiasi altro lavoro dello stesso genere. Verdi presentò un nuovo schema di opera buffa
che troppo si scostava da quello convenzionale cui il pubblico era assuefatto: i più non lo compresero.
Dovettero trascorrere molti anni prima che quel mirabile interprete del genio verdiano che fu Arturo
Toscanini desse giusto risalto, nelle esecuzioni alla Scala del 1921 e del lustro successivo, alla fresca
originalità dello spartito, ingemmato di deliziosa melodia.
L'importanza di questi due avvenimenti artistici — Otello e Falstaf f — rende trascurabili tutti gli altri
avvenimenti che s produssero nella vita di Verdi dal 1871.
Le sue opere correvano per il mondo interpretate da un'eletta schiera di artisti che continuarono a
tener alta la tradizione gloriosa del teatro lirico italiano e del nostre bel canto. Sarebbe troppo lungo
fare nomi Citeremo tuttavia, tra i cantanti che maggiormente si distinsero nel repertorio verdiano,
Francesco Marconi, Luisa Tetrazzini, Gemma Bellincioni, Angelo Masini, Antonietta Fricci, Italo
Campanini, Giuseppina Pasqua, Luigia Abbadia, Enrico Barbacini, Rosina Storchio, Mattia Battistini,
Giuseppe Kaschmann, oltre a quelli in precedenza citati. E, accanto a questa nuova generazione di
artisti, altri della precedente che non avevano ancora ceduto le armi ed anzi continuavano a mietere
successi : in prima fila la Patti, Tamberlik, Cotogni, seguiti da altri illustri nomi del nostro teatro lirico
che ebbero particolare risonanza nel terzo quarto del secolo.
Al periodo movimentato che contrassegnò la direzione della Messa in Italia e all'estero ed anche la
partecipazione ad esecuzioni del Falstaff in altre città della penisola ed a Parigi, subentrarono soste
sempre più lunghe di Verdi a Sant'Agata, a Genova ed a Milano. Di onori il maestro ne aveva avuti tanti
ed altri ne ebbe: senatore del Regno dal '74, nel '93 ricusò il titolo di marchese di Busseto con una
lettera al ministro della Pubblica Istruzione Ferdinando Martini, mentre nel successivo anno aggiunse
alle altre decorazioni di cui era insignito la gran croce della Legion d'Onore, che Casimir Périer gli
appuntò sul petto a Parigi dopo il trionfo dell'Otetlo.
Estese ancor più la cerchia delle conoscenze, ma gli vennero a mancare persone amiche e care : nel
'76 il fedele suo librettista di dieci opere Francesco Maria Piave, nel '78 l'altro suo librettista
Temistocle Solera, nell"82 il Dupré ed il Carcano, nell"86 la contessa Maffei, nel '90 l'unico suo allievo
Emanuele Muzio ed ancora il Florimo e l'Arrivabene.
Nell"89 venne celebrato solennemente in tutta Italia il 50' anniversario dell'Oberto, ma è probabile che
egli avesse ricavato solo tristezza dalla grande dimostrazione, cui parteciparono il re, il governo, i
maggiori istituti di cultura e gli uomini più illustri in ogni campo dell'arte e della scienza.
La morte della moglie, il 14 marzo del '97, gettò il maestro in una solitudine inconsolabile. Con lei
scompariva la fedele e devota compagna di quasi tutta la sua vita, l'amica discreta che gli era sempre
stata vicina con la forza del suo affetto e che egli amò più di qualsiasi altra creatura al mondo.
Nell'isolamento e nell'austera tristezza degli ultimi anni ebbe tuttavia il conforto dell'amicizia di Boito e
della Stolz. In quel periodo Verdi ricorse col pensiero alla composizione di musica sacra: lo Staabat
Mater, le Laudi alla Vergine ed il Te Deum furono i suoi ultimi lavori. E provvide anche attuare forme di
beneficenza già da tempo determinate. S'è parlato molto delle ricchezze da lui accumulate, ma pochi
hanno fatto risaltare la grande carità del maetro sia in vita che nel testamento.
Le due istituzioni che più ne rivelano l'animo inclinato a beneficenza fraterna verso i sofferenti ed i
poveri sono l'Ospedale di Villanova d'Arda, inaugurato il 6 novembre dell"88, e la Casa di riposo per
musicisti, fondata a Milano in memoria della Strepponi e destinata ad accogliere tanti professionisti
ridotti in vecchiaia all'indigenza. Accanto a queste forme di beneficenza permanente vanno ricordate le
molte carità distribuite spesso segretamente dal maestro, attraverso il suo elemosiniere don Avanzi, a
concittadini bisognosi; gli aiuti da lui disposti a favore di amici e conoscenti (per esempio alla famiglia
del Piave quando questi fu colpito da paralisi); ed ancora la borsa di studio istituita nel '76 nel Comune
di Busseto a vantaggio di un giovane povero ed i lasciti a quel Monte di pietà.
Allorchè il grande maestro era agonizzante in una camera dell'albergo Milano, il suo fidato cameriere
vide biancheggiare tra le fessure del coperchio del pianoforte il lembo d'un foglietto orlato a lutto. Era
la preghiera scritta da Margherita di Savoia per il Re suo sposo nella notte che seguì il misfatto di
Monza.
Dinanzi a quella pietosa e commovente preghiera, ricorda il Monaldi, Verdi, prima del suo ultimo
deliquio, stava chiedendo forse alla sua estenuata fantasia un guizzo musicale, una di quelle melodie
palestriniane, le sole capaci, come egli diceva, di esprimere l'estasi della fede. Chissà che lo spunto
della sospirata melodia non avesse accompagnato l'anima del maestro nella sua ascesa all'infinito?!...
Morì piamente assistito da mons. Adalberlo Catena, amico del Manzoni.
In ossequio alla volontà dell'estinto, la salma venne trasportata dall'albergo al Cimitero monumentale
milanese alle sei del mattino (del 30 gennaio 1901) e in silenzio. Ma il 26 febbraio successivo, nella
circostanza della traslazione della salma dal camposanto alla Casa di riposo per musicisti, decine di
migliaia di persone, riverenti e commosse, accompagnarono il maestro alla sua definitiva dimora.
La fisionomia artistica di Verdi trova espressione nell'opera del grande maestro, la quale non può
esser, esaminata analiticamente con le fredde norme del tecnicismo musicale, ma giudicata nel suo
complesso significato e, meglio ancora, nel suo graduale e mirabile sviluppo. Se v'è uno che non visse
di riverbero, pur non inventando nulla o quasi nello schema dell'opera musicale, questi fu Verdi.
.Allorchè egli fece la sua comparsa nell'arte, dopo che il primo Ventennio del secolo aveva visto
rinnovarsi l'antico trionfo della musica italiana per opera principalmente di Rossini, Bellini e Donizetti,
il melodramma era ridotto ad un insieme incomposto e artificioso di brani staccati tra i quali si
trascinava stentatamente un'azione drammatica. Era il cliché obbligatorio delle frasi facili, dei ritmi
spontanei nel quale erano sintetizzate le forme convenzionali dell'opera musicale.
Verdi non si fece promotore di idee nuove. ma creò un tipo di opera coordinata, connessa nelle parti
strutturali e nelle forme chiuse: e intuendo l'inevitabile progresso che lo spirito di modernità avrebbe
prodotto nel gusto del pubblico, seppe concretare le nuove esigenze con la sua arte suggestiva
mirante a sempre più alti ideali. Così dalle prime opere, nelle quali tra fulgidi lampi di ispirazione
geniale prevalgono le goffaggini pletoriche delle vecchie forme e una temeraria trascuratezza dello
stile, egli, attraverso le tappe di un poderoso avanzamento, pervenne alle ultime creazioni, che
costituiscono le prove infallibili della metamorfosi che l'idea e la forma del dramma lirico avevano
subito nella mente del maestro.
Ciò comporta necessariamente, come è stato affermato, una suddivisione della produzione verdiana in
tre maniere, corrispondenti ai tre principali cicli di questa evoluzione. Verdi — e ci sembra dì dover
anteporre ciò ad ogni altra considerazione — non deviò mai dalle proprie tendenze e conservò
immutata la forte indipendenza della mente e la franchezza della propria individualità. Ciò esclude che
il maestro, nel modo di condursi nelle opere dell'ingegno, abbia seguito l'esempio di altri grandi
compositori, quantunque si debba riconoscere che egli subì influenze (Donizetti, Mcverbeer), ma quale
conseguenza, non cercata, di un ascendente artistico superiore.
Va pure di lui rilevato il temperamento schiettamente e tipicamente italiano, tale da rendere
impossibile una distinzione tra il Verdi politico, cittadino e musicista. Gia dalle primissime opere,
cedendo al nazionalismo dell'arte, che è espressione delle doti etniche del popolo che lo crea e che
all'arte stessa dona vita, egli ne era divenuto l'interprete ideale, strappando alla nostra terra i suoi più
cari segreti di canto e d'armonia e dettando un inno nel cui squillo essa doveva sorprendere le
vibrazioni della sua stessa anima.
Pertanto, nella prima maniera, Verdi impersonò nella sua musica non soltanto le aspirazioni artistiche
di un popolo, ma anche i suoi sogni di libertà, le speranze e gli eroismi, le gioie e i dolori. Il successivo
diverso modo di esprimersi del maestro fu conseguenza di un differente tessuto drammatico e
scenico, al quale egli non potè applicare l'enfasi e la magniloquenza delle opere precedenti. Posto
ormai nell'impossibilità di ispirarsi per i mutati eventi politici a quei sentimenti suscitati dalle
aspirazioni patriottiche, il maestro, presago di un nuovo avvenire, si lasciò trasportare dalla corrente
impetuosa della sua fervida immaginazione, sopraffatto dal sogno irresistibile di dar vita e forma alle
figure ed alle situazioni che l'estro gli suggeriva.
Maschera di Verdi, levata al mattino del 21 gennaio 1901
dallo scultore milanese Luigi Secchi
Busseto, Civico museo
E questo espresse con un'arte plastica ed umana che traeva dalla vita la sua ragione d'essere. Ecco,
dunque, il Verdi della seconda maniera e che tale, almeno sotto questo aspetto, può essere
considerato anche nell'Aida: il più popolare — in quanto più amato e seguito — ed anche il più grande.
La musica di Otello e di Falstaff sarà più originale e tecnicamente superiore, ma meno ispirata e
conseguentemente meno bella di quella delle opere precedenti meglio riuscite.
Verdi può ben essere considerato il primo drammaturgo d'Italia, perchè, assommando in sè i frutti
delle esperienze operistiche del primo Ottocento, realizzò pienamente il dramma musicale che Rossini,
Bellini e Donizetti avevano preannunciato. Rossini supera l'azione, nel suo significato letterario. e la
risolve in musica; Bellini la ricanta liricamente in amorosa contemplazione; Verdi la incorpora nella
musica. Egli è un lirico che non perde mai la coscienza della realtà; rifugge da quanto può essere
immateriale ed etereo, dall'oscurità del vago e dell'inesplorato: tutto deve essere vivo e presente sulla
scena, nella sua realtà affettiva. figure evidenti, sentimenti palesi, situazioni chiare. Non si preoccupa
del testo letterario che per i suoi fini musicali; ciò che gli occorre è un canovaccio di parole e di
situazioni quali convengono alla sua immaginazione teatrale; per lui la melodia nasce dalle parole, così
come l'accompagnamento musicale ha la funzione complementare di dar risalto a un momento
dell'azione, a sottolineare i sentimenti del personaggio. L'orchestrazione verdiana potrà essere — fuor
che nelle ultime tre opere — rozza ed elementare, ma non mai artificiosa e fredda. Basterebbero i
recitativi, che possono essere una sola nota o una frase melodica, sempre impeccabili e perfette, a
dimostrare il genio drammatico e istintivamente teatrale di Verdi.
Le creazioni del maestro ancor oggi più rappresentate sono Rigoletto, Traviata, Trovatore, Un Ballo in
maschera, La Forza del destino, Aida, Otello e Falstaff. L'inesorabile rigore delle leggi spirituali ha
assorbito attraverso il filtro di un'esperienza maturata le opere della prima maniera —e non
quelle
soltanto — che ben difficilmente figurano nei programmi delle stagioni liriche. Non sono, è vero,
mancati ritorni: una Verdi-Renaissance si ebbe in Italia ed anche all'estero, soprattutto in Germania, a
trent'anni di distanza dalla morte del maestro. Il repertorio verdiano venne esplorato anche nelle
opere minori e dimenticate e gli spartiti di queste rimaneggiati per renderli accettabili al pubblico
(come fecero i tedeschi Werfel e Wallerstein per il Don Carlos).
Non si può dire che l'iniziativa ebbe successo e, d'altronde, opere accolte freddamente al tempo in cui
andarono in scena non avrebbero potuto incontrare favore successivamente. Questo non significa
tuttavia che Verdi sia ormai lontano dalla coscienza artistica moderna, come sostengono taluni critici.
Il fenomeno va piuttosto inquadrato nel diminuito interesse de pubblico per l'opera musicale, così che
esso non investe la sola produzione di Verdi, ma anche quella degli altri grandi operisti dell'Ottocento e
degli stessi moderni. A ciò hanno contribuito vari fattori: innanzi tutto la mancanza di compositori che
prendessero degnamente il posto di coloro che in quest'arte li avevano preceduti, perchè la serie
gloriosa dei musicisti che all'opera musicale — quella specialmente — avevano consacrato l'ingegno si
è praticamente interrotta con la morte di Francesco Cilea; poi, in misura diversa ma sempre
notevolissima, la radio, il cinematografo e 1 televisione, che hanno talmente diffuso la conoscenza delle
opere teatrali da saturare il pubblico infine la stessa vita moderna, con il suo dinamismo — tendente a
spegnere ogni forma di sentimentalismo per l'arte — e con gli svaghi molteplici che essa è in grado di
offrire.
Il pubblico accorre ancora volentieri ad assiepare i teatri, ascolta e si diverte, ma non si lascia. più
trascinare all'entusiasmo come un tempo. L'interesse è sempre vivo per i cantanti, sola variante di
una vicenda musicata conosciuta ormai in tutti i particolari. Verdi ha avuto alleati formidabili in artisti
che per le doti preclare di voce e d'intelletto. furono interpreti ideali delle sue opere, nelle quali — con
successione ininterrotta — colsero quei successi che altri, vivente il maestro, avevano saputo
suscitare.
Questo sebbene le creazioni verdiane non formassero più parte preponderante — come una volta —
del loro repertorio, che dovette necessariamente estendersi alle opere dei maestri che vennero dopo.
Citeremo tra i soprani Amelit Galli Curci, Toti Dal Monte, Giannina Arangi Lonbardi, Nelly Melba, Claudia
Muzio, Lina Pagliugh Rosa Ponselle, Tina Poli Randacio, Rosina Storchic Elisabetta Rethberg, Florence
Austral, Maria Ga van\', Lucrezia Bori; tra i mezzosoprani e contrrll Irene Minghini Cattaneo, Luisa
Homer, Cloe Elmc Gabriella Besanzoni; tra i tenori Enrico Carusc Giovanni Martinelli, Beniamino Gigli,
Alessandr Bonci, Bernardo De Muro, Antonio Cortis, Frane, sco Merli, Miguel Fleta, Aureliano Pentile,
Giacom Lauri Volpi, tra i baritoni Titta Ruffo, Mario B: siola, Pasquale Amato, Giovanni Inghilleri, Benv.
auto Franci, Giuseppe De Luca, Apollo Granfork Carlo Galeffi; tra i bassi Ezio Pinza, Mariano SI: bile,
Tancrcdi Pasero, Salvatore Baccaloni.
Anche tra i cantanti contemporanei non mancano interpreti di valore del repertorio verdiano
Basterebbe nominare, tra i tanti, Maria Caniglia Gino Bechi, Mario del Monaco, Maria Meneghini Callas,
Tilo Gobbi, Augusto Beuf, Renata Tebald Carlo Bergonzi.
Ma, indipendentemente dall'apporto delle belle voci, v'è alla fine da considerare che le creazione
meglio riuscite del maestro non potranno diminuire nel giudizio del pubblico con il linguaggio delle
passioni e la melodia dispiegata; né potrannoperire come non sono perite e periranno, le grandi opere
dell’ingegno.