Conversazione con un maestro della scena Il villaggio dei teatri La

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Conversazione con un maestro della scena
Il villaggio dei teatri
La creazione e la didattica teatrale, l'emozione e il metodo: incontro con Eugenio Barba in margine al festival
"Finestre" di Marsciano: «Avete creato una comunità che riunisce attori e pubblico»
Come annunciato in occasione della pubblicazione della conversazione con Julia Varley (clicca qui
per leggerla) ecco il resoconto di un incontro con Eugenio Barba. L’intervista è stata realizzata a
Marsciano, alla fine dello scorso giugno, al termine della settima sessione del Seminario teoricopratico condotto da Eugenio Barba e Julia Varley all’interno di Finestre, Festival Internazionale di
Teatro che quest’anno si è dato come tema “Tecniche di Comunità e Residenze Creative”.
Un’iniziativa che il Teatro Laboratorio Isola di Confine (diretto da Valerio Apice che ha condotto
anche questa conversazione) organizza in Umbria dal 2009 con i Comuni di Marsciano e San
Venanzo. In collaborazione con i comuni di Monte Castello di Vibio, Fratta Todina, Todi.
***
Valerio Apice. Vorrei partire da una tua frase tratta da “La Terra di Cenere e Diamanti”
perché riguarda l’apprendistato che io credo oggi sia necessario per un teatro nuovo. Tu
scrivi: «Nelle avventure dei loro predecessori gli attori e i registi di oggi cercano anche esempi
ed ispirazione per risolvere i numerosi ostacoli quotidiani e gli ardui problemi generati dalle
loro scelte. Io devo parlare a coloro che non hanno ancora un nome…». Allora, lì, tu racconti
quale è stato il tuo apprendistato, le condizioni materiali in cui si è svolto. Io credo che per noi
che facciamo teatro oggi sia fondamentale capire come tu nel 1964, in cui ti sei trovato a Oslo
a provare in un rifugio antiatomico, che cosa hai fatto, che cosa ti spingeva a fare teatro dopo
che avevi vissuto il tuo apprendistato in Polonia?
Eugenio Barba. Io ho cominciato in una
scuola teatrale – e il teatro è una forma di artigianato, si può dire “artistico” – però non è che uno
può andare sul palcoscenico e immediatamente riuscire a convincere gli spettatori che quello che fa
è interessante. Quindi bisogna passare per un periodo di apprendistato e nel Ventesimo secolo sono
sorte le scuole teatrali. Prima non ne esistevano. I giovani che volevano fare gli attori si univano a
delle Compagnie di giro e osservavano, imitavano, e attraverso l’imitazione, col tempo,
acquistavano quella routine, quel saper fare necessario per poi personalizzarlo. Le scuole teatrali,
quando sorgono, hanno “un credo artistico”: preparare i giovani non alla routine del mestiere ma a
una forma di creazione che è legata a un mondo individuale, come i singoli artisti delle altre forme
artistiche. Ora, quando sorgono le scuole teatrali, all’inizio del Novecento, esiste un unico modello
di teatro: il teatro che si basa su un testo, interpretato dagli attori all’interno di edifici dove gli
spettatori entrano e si sistemano in base a quello che hanno pagato. Questa situazione è stata
infranta dopo il ’68. Non esiste più un unico modello di teatro. Prima ti potevi preparare in una
scuola che dava la possibilità di esercitare la dizione, il canto, la scherma, nel caso tu avessi bisogno
di interpretare Romeo e Giulietta. Un giovane apprendeva qualcosa che poteva essere utile. Dopo il
’68 ognuno si deve inventare il proprio tipo di teatro. Questa è la condizione di chi oggi vuole
entrare in questo mestiere che chiamiamo teatro ma in realtà sono “teatri”, al plurale. Quindi
mestieri differenti. Tu lo devi inventare da solo, ti devi inventare da solo il tuo saper fare, a meno
che tu non scelga il tipico teatro tradizionale, di interpretazione di testi allora ci sono alcune scuole,
ancora. Ma, altrimenti, per ogni altro tipo di teatro, il modello deve essere creato da chi lo fa.
Come, oggi, un giovane apprende ad essere attore? In realtà è una specie di pellegrino: si sposta, va
in altre città per partecipare a un corso, un workshop, un laboratorio, che può durare tre giorni o un
mese. Riceve una serie di impulsi a volte discordanti tra di loro, acquista alcune abilità, assorbe
modi di pensare. Però tocca al giovane attore compiere un’operazione personale creativa di fondere
disparate impressioni, conoscenze e visioni tecniche. Perché la tecnica non ha un’unicità obiettiva
che tu apprendi. Le forme della tecnica sono innumerevoli, ma sono valide se contengono dei
principi obiettivi: quelli che l’Antropologia Teatrale mostra. Alla base della presenza scenica di
ogni attore, in ogni tradizione teatrale, vi sono dei principi. Riguardano l’equilibrio, lo sguardo, una
dilatazione delle tensioni muscolari e un modo particolare di pensare: la sottopartitura o il
sottotesto, come lo chiamava Stanislavskij. Questi principi sono obiettivi. Il modo in cui un giovane
attore li applica è la sfida creativa tra lui e il contesto, cioè il luogo dove lui lavora.
Direi che oggi l’apprendistato è una
questione di fortuna, la sorte di incontrare persone che hanno un po’ più di esperienza e che sono
capaci di stimolare il giovane a perseverare. Perché quello che è fondamentale nella nostra
professione è la continuità. Non solamente fare training, studiare, osservare altre forme di teatro, ma
fare spettacoli. Uno apprende di fronte agli spettatori, passando per una successione di spettacoli.
Se io penso agli attori dell’Odin Teatret, anche loro hanno fatto training per anni e anni, hanno visto
centinaia di teatri diversi, hanno scambiato la loro esperienza pratica con attori più esperti o di altre
tradizioni. Tutto questo è stato molto importante. Però quello che ha dato agli attori le radici che li
hanno fatti crescere, lo spessore, la capacità di diventare delle individualità forti e autonome – e
quindi anche dei maestri con modi di pensare differenti dal mio – è stato il fatto di stare di fronte
agli spettatori più di duecento volte all’anno. È questa disciplina e dedizione, ogni sera, che rende
possibile assorbire un saper fare che è identità professionale ma anche la premessa per cambiare nel
corso degli anni.
V.A. Mi veniva in mente questa parola “Villaggio”. Ho letto che l’ISTA, che tu hai fondato nel
1979, era stata definita il “villaggio delle tecniche”, dove comunicavano e dialogavano diverse
esperienze, dall’Oriente all’Occidente. Noi, dopo sette anni di seminari con te e Julia Varley,
ci troviamo oggi a pensare, veramente con una grande motivazione, a partire da quello che
noi prendiamo dai seminari che abbiamo fatto con voi, di creare uno spazio, una sorta di
villaggio, in cui possiamo ritornare al nostro contesto. Che è quello della scuola, lavorando
con i bambini, lavorando con le famiglie, lavorando con un pubblico teatrale e non teatrale
ma che possa essere racchiuso in questo luogo, in questo villaggio.
E.B. Quello che il vostro Teatro Laboratorio Isola di Confine, ha realizzato in questi sette anni è un
modello particolare, quasi unico. Avete cominciato utilizzando il vostro “saper fare” con i bambini
nelle scuole, collaborando con i maestri e motivando i genitori. Avete saputo applicare la tecnica
specifica dell’attore che consiste nel creare relazioni non solo con un testo, con il passato o la
contemporaneità, con lo spazio fisico e sociale, ma anche con situazioni che non sono direttamente
legate allo spettacolo. Avete adoperato la vostra esperienza teatrale come strumento culturale, cioè
di trasformazione. Il vostro esiguo gruppo è riuscito a smuovere quattro comunità qui in Umbria, a
farle collaborare attraverso un interesse comune dei loro abitanti: l’interesse in quanto genitori di
veder stimolati i propri figli. Allo stesso tempo, avete creato anche un altro binario di attività, che è
artistico, legato a una riflessione professionale e un apprendistato tecnico che si rivolge a giovani
attori e registi che stanno costruendo i loro percorsi individuali. La vostra attività di seminari,
laboratori, conferenze e dibattiti con docenti, critici e intellettuali non è mastodontica, ma è
continua. E’ l’operare della goccia d’acqua che cade sulla pietra e, col tempo, lascia un segno.
Questo è un processo che distilla cultura ed è
visibile qui a San Venanzo e a Marsciano. Vi permette di essere apprezzati dalla comunità,
necessari a genitori e bambini che si avvicinano al teatro vivendolo in prima persona e non solo
come spettatori. Inoltre il vostro Teatro Laboratorio Isola di Confine, è diventato un
“caravanserraglio” su cui fare affidamento dove attori e registi possono viaggiare per scambiare
esperienze, ricevere stimoli, scoprire tecniche e modi di pensare di artisti-guide che voi invitate.
Quindi, il vostro “villaggio del teatro” è molto differente dal villaggio dell’ISTA, della Scuola
Internazionale di Antropologia Teatrale, costituito temporaneamente da soli attori e musicisti di
diverse tradizioni. Il vostro villaggio ha radici, cresce nel tempo, sviluppa vari livelli di
organizzazione. Avete un ventaglio di attività non solo professionistiche ma anche con persone
senza ambizione di essere attori e che, attraverso il teatro, rivitalizzano i legami di appartenenza al
loro luogo: genitori, bambini, maestri, operatori culturali, funzionari e politici. State abbattendo i
muri di quello che è il “ghetto” della scuola: un parcheggio di bambini dove i genitori non trovano
un loro posto.
Il vostro teatro è riuscito a portare i bambini in altri paesaggi, in case di anziani, ospedali per malati
mentali, palcoscenici piccoli come bomboniere, nelle strade e nelle piazze insieme alle loro maestre
e ai loro familiari. Tutti sorridono. Vi è allegria ed energia nell’aria. Non posso fare a meno di
pensare a Walter Benjamin, ad Acja Lacis o Atahualpa del Cioppo in America Latina che dicevano
che il futuro del teatro sono i bambini.
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