LUCANIA_REPORT Petrolio radioattivo? gennaio 3, 2013 ANDREASPARTACO “Storicamente – scrivonoWilliam Scaruffi e Pietro Valente dell’Eni – l’area della Val D’Agri (specialmente per i pozzi in montagna) presenta una trivellazione molto pericolosa per l’ambiente”. Era il 2004 e proponevano processi per “ottimizzare le perforazioni”. Su quanto avvenuto in precedenza nulla si diceva. E oggi? Il primo obiettivo del nuovo progetto Eni che Scaruffi e Valente sottolineavano era il pozzo Agri1 e tre pozzi d’esplorazione dell’area Cerro Falcone. Scopo: ottenere maggiori conoscenze per superare i pericoli ambientali delle perforazioni. Poi Alli3 e il pozzo d’esplorazione e reiniezione Alli1. Lo studio identificava per il campo Val D’Agri problemi come “incertezza litologica” (cioè conoscenza incompleta delle caratteristiche chimiche, fisiche e strutturali delle rocce che perforavano, ndr ), “l’instabilità di pozzi, tubazioni e strumentazioni varie”, e poi “perdite” (di varie sostanze di processo) e bassa performance degli strumenti per “rompere e tagliare la roccia”. Tra le soluzioni, oltre a costruire un database sulla litologia del campo, si raccomandava per l’instabilità dei pozzi l’uso di fanghi di perforazione più pesanti (che possono essere di vari tipi, tra i più pesanti quelli che miscelano acqua, argille e prodotti chimici anche tossici di cui solo Eni è a conoscenza, ndr). Ma il sistema, ricordavano gli ingegneri, era all’inizio. E chiudevano affermando come le passate esperienze provavano che “la gente spesso ‘dimentica’ d’appuntare le lezioni apprese”. Si trattava di lezioni apprese anche in Val D’Agri, dato che parlavano d’un tipo di trivellazione “molto pericolosa per l’ambiente”? Da dove arrivano i rifiuti radioattivi? In Basilicata – affermava nel 2007 in Salute dell’habitat il fisico Nicola Limardo – durante il monitoraggio ambientale vengono riscontrate alte “ concentrazioni di cesio137 e polonio210”. Nella “caratterizzazione dei rifiuti radioattivi, delle sorgenti dismesse e del combustibile irraggiato” prodotta dall’Apat nel 2001, per volume di rifiuti radioattivi la Basilicata risulta quarta, ma seconda in termini di attività. I dati del Sistema Informativo Rifiuti Radioattivi dell’Anpa (Agenzia per la protezione dell’ambiente, ndr) parlano per esempio di un’Emilia-Romagna che con un deposito e un impianto nucleare (inattivo ormai, come gli altri presenti sul territorio nazionale, ndr) presenti sul territorio ha un volume di rifiuti radioattivi di4.419 metri cubia fronte di un’attività di 69.190 giga bequerel (Gbq, ndr). In Basilicata, con la sola presenza d’un laboratorio di ricerca (Enea, ndr) e un volume di 3.101 metri cubi si registrava un’attività di 591.793Gbq. Otto volte e mezzo superiore quella dell’Emilia-Romagna, e circa sei volte e mezzo superiore quella del Lazio, nonostante la regione del centro Italia vanti la presenza d’un deposito, due centri di ricerca, due reattori di ricerca e un impianto nucleare. Ma oltre a depositi, centri di ricerca, centrali, i rifiuti radioattivi sono prodotti anche attraverso altre attività. Sempre nel 2001 l’ex Apat, oggi Ispra (Istituto superiore per la protezione ambientale, ndr), si occupò di radiazioni ionizzanti. Nello studio fu inserita una tabella sulle attività lavorative con uso e produzione di “norm” e “tenorm”, materiali usualmente dell’industria dei rifiuti o prodotti arricchiti di elementi radioattivi tipo uranio, torio e potassio ed elementi di decadimento come radio e radon, trovati nell’ambiente. Elementi che si trovano in diverse concentrazioni nella crosta terrestre e che sono portati in superficie attraverso attività umane come l’estrazione del petrolio e del gas. Oltre quindi a sorgenti dismesse nel produrre rifiuti radioattivi, come centri di ricerca, depositi e impianti, tra le produzioni maggiori in Italia compare il settore sanitario e quello estrattivo. Noi siamo partiti da una domanda semplice: nella regione italiana dove l’estrazione di petrolio e gas comportano la fetta principale di energia nazionale e la produzione maggiore di rifiuti estrattivi che restano in loco come siamo messi? Il lato oscuro dell’oro nero L’industria estrattiva (gas e petrolio, ndr) produce rifiuti radioattivi. In Italia l’Agip comunicava nel 2001 la presenza di 7.619 pozzi (34 campi a terra, 38 piattaforme e 53 centrali, ndr). Alla voce relativa alla “potenziale pressione sull’ambiente” veniva evidenziato “possibili problemi per smaltimento incrostazioni di parti dell’impianto e delle acque di processo”. Si contavano inoltre 18 raffinerie con i soliti possibili problemi di smaltimento. E nello studio veniva ribadito che estrarre e lavorare gas e petrolio prevede la potenziale presenza di Ra-226, l’isotopo più stabile del radio, un metallo alcalino-terroso di colore bianco presente in tracce nei minerali dell’uranio e con un tempo di decadimento di 1.602 anni, un isotopo di piombo e uno di polonio. Quanto “potenziale” è dunque il rischio che l’industria estrattiva sparpagli radioattività per un territorio? Per dare una risposta, sempre potenziale, bisognerà partire dalla produzione connessa a quest’industria. Stando ai dati dell’Unmig (Ufficio minerario dello Stato, ndr), solo in Val D’Agri, la cui concessione, divisa tra Eni (60,77%) e Shell (39,23%), si spalma su un territorio di 660,15 Kmq, si estraggono in media circa 3miliardi e mezzo di chili di petrolio l’anno. Poi c’è Serra Pizzuta, si tratta di 62,55 kmq questa volta, dove se ne estraggono solo 20milioni, e con i suoi due pozzi produttivi e tutta in mano a Eni. Ma il greggio dovrà pur essere raffinato. E così quello dei pozzi della Val D’Agri finisce a Viggiano, quello di Serra Pizzuta nella centrale di raccolta e trattamento Eni di Pisticci, che tra i calanchi occupa un’area di 35mila metri quadri. E il gas? E’ sempre l’Unmig a elencare i titoli produttivi. Con un totale tra le concessioni di coltivazione tra Calciano, Candela, Cugno Le Macine, e tante altre aree di 86 pozzi produttivi, esclusa la concessione Val D’Agri, area enorme di cui non si specifica il numero di pozzi presenti ma solo la produzione, oltre 860milioni di Standard metri cubi all’anno (Smc, ndr). E ci sono poi le centrali di raccolta e trattamento. Tante anche in questo caso. Ne esistono grandi, come i 16mila metri quadri occupati dalla centrale Grottole-Ferrandina dell’Eni, e piccine, tipo i 4.426 metri quadri di quella dell’Edison a Garaguso. All’affare gas lucano oltre Eni, in testa perché titolare delle concessioni più corpose, partecipano Total, Shell, Edison, Gas Plus Italia, Gas della Concordia, Appennine Energy, Italmin Exploration, Gas Natural Vendita Italia, Medoil gas, Petrorep Italia, e a breve la russa Geogastock. La maggior parte di queste società hanno indirizzo a Roma, una, a San Donato Milanese. Cioè dove stanno i ministeri e si decidono permessi e concessioni e a San Donato, dove invece Eni, la major dell’estrazione qui da noi, c’informa un supplemento alla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, ha una sede dove si effettuano le gare d’appalto per decidere chi deve trasportare per il Gruppo i rifiuti di processo, appalti vinti dai locali Gruppo Iula e Gruppo Castellano, che li portano per lo smaltimento a Tecnoparco Valbasento spa. I possibili rifiuti radioattivi dell’industria petrolifera Chi lavora nell’industria estrattiva nei forum in rete ricorda bene il contenuto di fanghi e acque di processo: sostanze acide, cancerogene, teratogene, e radioattive. Ma quanto materiale radioattivo si può produrre da questa montagna fatta di miliardi di chili di greggio e Smc di gas estratto? E dalle raffinerie? Qui iniziano i problemi. In effetti anche se l’Italia ha recepito nel2008la direttiva europea relativa alla gestione dei rifiuti delle industrie estrattive, e nonostante sia previsto l’obbligo di un “piano di gestione” che indichi “la caratterizzazione” degli stessi e una “stima del quantitativo totale” che verrebbe prodotto nella fase operativa, alle associazioni ambientaliste lucane non risulta ne siano stati presentati. “E’ necessario – afferma inoltre un report del parlamento europeo del 2011 – valutare l’opportunità di imporre il divieto generale dell’iniezione di sostanze chimiche tossiche”. Divieti o meno, mentre qualcuno dice sì e qualcun altro no, l’Enviromental Protection Agency statunitense (Epa, ndr) ricorda che i processi usati per estrarre petrolio e gas generano rifiuti radioattivi in differenti forme. Si tratta di rifiuti che vengono fuori dalla perforazione in relazione alle formazioni geologiche da cui si tirano fuori anche elementi come uranio, torio, radio, piombo (e i loro prodotti di decadimento), di tutto ciò che si accumula nelle strumentazioni utilizzate. Parliamo di acque di processo, melme, fanghi di perforazione, ecc. In tali rifiuti ci sono principalmente radionuclidi tipo radio226 o 228 e radon gas. Sorgenti di radioattività che ovviamente causano il cancro. Ma sappiamo quanto sono radioattivi i nostri rifiuti estrattivi? Per cercare di capirlo bisogna tener conto di vari indicatori come la concentrazione e l’identità dei radionuclidi, la chimica della formazione geologica, le caratteristiche dei processi di produzione. Negli Stati Uniti ogni anno l’industria del petrolio genera 150mila metri cubi (260mila tonnellate, ndr) di rifiuti tra acque di processo, fanghi, melme, ecc. Per le acque la radioattività è generalmente bassa, ma sono elevati i volumi prodotti. Per ogni barile di petrolio se ne producono ben 10 di acque di scarto. L’American Petroleum Institute (Api, ndr) afferma che l’industria estrattiva del gas e petrolio produce più di 18miliardi di barili di rifiuti liquidi all’anno. “Le acque di questo processo industriale – conferma l’Epa – contengono livelli di radio e i suoi sottoprodotti di decadimento”. Sludge e scale Nella perforazione si trovano rifiuti radioattivi in un composto chiamato “scale” che – ricorda sempre l’Epa – è costituito principalmente di bario, calcio, stronzio, e radio (Ra, ndr) anche in concentrazioni elevate dei soliti Ra226 e 228. Composto che si trova in processi come quello per la separazione del gas dal petrolio e dall’acqua, o per dividere il petrolio dall’acqua. Nelle condutture dei processi spesso s’inseriscono poi sostanze chimiche per prevenire l’accumularsi di “scale”, in quanto è un composto che contiene tenorm e la radioattività passa conseguentemente alle acque di processo. Approssimativamente ogni pozzo produce 100 tonnellate di “scale” l’anno, e di fatto più la riserva di petrolio diminuisce più acqua verrà pompata fuori col petrolio, aumentando di conseguenza le quantità di scale accumulata. In alcuni casi viene introdotta una sostanza che serve ad aumentare la pressione del pozzo a fini estrattivi, e che accresce la formazione di tale composto. La media di concentrazione di radio nello scale può essere molto elevata o bassa in relazione alla geologia del territorio di estrazione. Vi è poi la produzione di quella che è definita “sludge”, un’emulsione densa contenente petrolio, acqua, sedimenti e residui che si formano per via dell’incompatibilità di certo petrolio e i forti acidi inorganici usati nel trattamento dei pozzi. Generalmente è composta da petrolio, materiali contenenti silice “e spesso – afferma l’Epa – un’alta quantità di bario”. Quello trovato nel Pertusillo assieme a idrocarburi, manganese ecc., ricordate? Nella estrazione petrolifera si stima una produzione annua di 141 metri cubi di sludge contenente tenorm. E’ sempre l’Api ha dirci che molto dello sludge depositato fuori dal flusso di produzione viene raccolto in barili di petrolio o in vasche di accumulo per gli smaltimenti successivi. Come lo scale anche lo sludge è contaminato da elementi radioattivi tra cui il solito Ra226 e 228 con una concentrazione che benché “bassa – afferma l’Epa – è molto solubile, e facilmente rilasciato nell’ambiente”, presentando un elevato rischio d’esposizione. La concentrazione di piombo210, relativamente bassa nello scale solidificato, è invece maggiore nei depositi di piombo e sludge. I livelli di radioattività tenorm sono alti, afferma sempre l’Epa, nella strumentazione di trattamento acque (fino a 5 volte maggiore quella di fondo, ndr), e in quella per l’estrazione di gas. E nella produzione di gas compare oltre al piombo210 anche il polonio210. Quello sottolineato come elevato in Basilicata dal fisico Limardo. I nostri rifiuti radioattivi Uno studio Eni ci dice che in natura esistono circa 200 minerali che contengono uranio, e che comunemente sono presenti in rocce acide tipo graniti, e silicee, mentre concentrazioni minori si trovano nei basaliti e nelle rocce sedimentarie.E da noi? In alta Val D’Agri, dove si estrae, quello che sappiamo è che vi è la presenza di formazioni con alternanza di litotipi differenti, depositi alluvionali eterogenei, rocce di natura prevalentemente silicea, formazioni carbonatiche costituite da calcari, calcari marnosi, calcareniti, calciduriti. E ultimamente, un articolo scientifico prodotto dalla Regione Basilicata, spiegava anche “livelli vulcanici” con una composizione mineralogica di rioliti edaciti, rocce effusive acide, con un “contenuto in silice superiore al 60%”. Nella formazione degli scisti silicei ritrovati nell’area analizzata in Val d’Agri, tra le diverse specificità mineralogiche si segnalava che risultavano fortemente arricchiti in nichel e rame oltre che in cerio e manganese. Sappiamo che “in natura – afferma una ricerca – ogni roccia presenta un contenuto diverso di uranio e torio a seconda della sua composizione chimica e del processo di formazione”. Nelle rocce sedimentarie carbonatiche, ad esempio, il contenuto di uranio, s’afferma, è di 26 Bq/Kg, nei calcari di 27. E’ possibile dunque che l’estrazione lucana produca fanghi o acque di processo contenenti elementi radioattivi? La quantità di sostanza radioattiva varia a seconda della formazione scistosa ma le sostanze radioattive si concentrano anche sulle attrezzature dei campi di gas e petrolio con rischio maggiore d’esposizione agli operai o nel corso della lavorazione del gas per esempio, in quanto le sostanze radioattive di origine naturale possono presentarsi sotto forma di radon nel flusso di gas naturale. Il radon poi decade, originando l’isotopo del piombo, del bismuto, e del polonio. I rischi dei centri di smaltimento lungo il fiume Basento La concentrazione media di radio nei rifiuti del petrolio e del gas è approssimativamente intorno ai 120 picoCurie/grammo (pCi/g, ndr). Dallo sludge, che contiene elevati tenorm, la parte acquosa viene eliminata e immagazzinata in vasche per il successivo smaltimento. Le acque di processo nell’estrazione onshore, come la nostra, generalmente sono reiniettate nella profondità dei pozzi, nell’offshore in acque costiere non-potabili. Non ci sono rischi in questa procedura afferma l’Epa, sempre che, naturalmente, vi sia la giusta attenzione nelle procedure di smaltimento. E negli Stati Uniti questa attenzione sui rifiuti petroliferi contenenti isotopi radioattivi saltò alle cronache nel ’86, quando in Mississipi fu riscontrato un alto livello di contaminazione da radio226 e torio232 per via del solfato di bario. Il monitoraggio che venne eseguito mostrò su alcune strumentazioni e centri di smaltimento livelli di radiazione più di due volte superiori al limite e una contaminazione del suolo da radio226 superiore a 1000 pCi/g, con conseguenze sulla vegetazione e su campi coltivati circostanti. L’Epa ricorda che in passato i rifiuti radioattivi dell’estrazione non erano monitorati e lo smaltimento degli stessi ha provocato contaminazione ambientale attorno ad alcuni centri di smaltimento degli stessi. Ci chiediamo se ciò possa essere avvenuto anche in Italia. Nei luoghi dove si smaltiscono fanghi e acque di processo dell’estrazione (gas e petrolio), è dunque possibile la contaminazione radioattiva dei suoli e delle acque. Lo dice l’ente nazionale americano. E oltre che per i lavoratori, anche per le persone che risiedono nelle aree limitrofe. Per quelli che risiedono a 100metri da un centro di smaltimento i rischi sono simili a chi vi lavora, e includono radiazioni gamma, inalazione di polveri contaminate, inalazione di radon sottovento, ingestione di cibo contaminato da acqua di pozzo o da deposito di polveri. E si sottolineano anche rischi per chi abita entro un raggio di 80km. Includono il trasporto per via dei venti di polveri sospese e radon, esposizione per ingestione di acqua di fiume contaminata (usata per irrigare o far abbeverare animali magari, ndr), il deposito dei particolati, e l’inalazione di gas radon. Cosa accade nel centro di smaltimento in Valbasento? A smaltire la maggior parte di questi rifiuti estrattivi in Basilicata è Tecnoparco in Valbasento. E ne arrivano enormi quantitativi. Tanto per fare qualche esempio in quelli che erano i vecchi modelli di dichiarazione ambientale, nel 2006 si confermava d’aver smaltito (solo tra quelli arrivati dalla divisione Eni di Potenza e Foggia, ndr), oltre 228mila chili di fanghi di perforazione contenenti olii, circa 2milioni e mezzo di chili di fanghi e rifiuti contenenti barite, oltre 4milioni e mezzo di chili di rifiuti da prospezione “non altrimenti specificati”, oltre 1milione di chili di fanghi di perforazione contenenti cloruri, circa 160mila chili di rifiuti di raffinazione del petrolio “non specificati”, e oltre 21mila chili di fanghi contenenti sostanze pericolose prodotti da altri trattamenti delle acque reflue industriali. Colpiscono poi le quantità di soluzioni acquose di scarto (pericolose e non, ndr) trasportate dagli stessi soggetti che portano rifiuti estrattivi e catalogati come “rifiuti non specificati altrimenti”. Rappresenta un dettaglio che questi soggetti siano finiti qual e là in inchieste e commissioni sul ciclo dei rifiuti. E colpiscono i quantitativi di rifiuti delle operazioni di costruzione e demolizione classificati come terre e rocce (compreso terreno proveniente da siti contaminati, ndr). Dall’Eni ne erano arrivate parecchie centinaia di tonnellate. Nell’inchiesta pubblicata dalla nostra testata il 9 giugno scorso un ex dipendente che aveva lavorato a Tecnoparco sino a 5 anni fa sottolineava come per poter trattare gli enormi quantitativi che lì arrivano, compresi ovviamente quelli dell’industria estrattiva, i fanghi vengono essiccati in un bruciatore a gas lungo una dozzina di metri. Una procedura effettuata in passato in 2 mesi l’estate, quando il caldo è più torrido e facilita ricordava, oggi è fatta in 2-3 ore. In un quaderno della Society of Petroleum Engigneers la stessa Eni ricordava come in molti dei correnti progetti per la ripulitura dei pozzi produttivi in Val D’Agri erano usate tubazioni metalliche per pompare prodotti chimici o cemento, per operazioni di work over, e persino per “fratturare” la riserva, processo questo, in cui sostanze radioattive di origine naturale come uranio, torio, e radio legati nella roccia vengono trasportati in superficie con fluidi di riflusso, o a volte vengono iniettate direttamente con i fluidi particelle radioattive usate come traccianti. A noi ovviamente, da giornalisti, non resta che porre qualche domanda: è possibile che questi rifiuti estrattivi bruciati per accelerare il processo di essiccazione contengano elementi radioattivi? E quali, gli effetti sull’ambiente e la salute che potrebbe causare tutto ciò? in Basilicata24