Corso di Psicologia Criminale e Investigativa
TESINA FINALE
TESTIMONIANZA E MEMORIA
processo mnemonico, recupero dell’informazione, il minore testimone
Laura Lo Paro
Anno 2006/2007
INDICE
Introduzione .................................................................................................. 3
1. Il processo mnemonico e la testimonianza
1.1.
La memoria e i processi mnestici ............................................................ 4
1.2.
Modalità di studio della memoria ............................................................. 6
1.3.
Le metafore della memoria..................................................................... 7
1.4.
La memoria e i suoi “inganni” ................................................................. 8
1.5.
La testimonianza .................................................................................10
1.6.
L’attendibilità del testimone ..................................................................11
2. L’intervista cognitiva
2.1.
Il recupero dell’informazione .................................................................13
2.2.
L’intervista cognitiva (IC) ......................................................................14
2.3.
L’intervista cognitiva riveduta(EIC):
l’importanza della relazione intervistatore/intervistato...............................16
2.4.
L’intervista strutturata ..........................................................................18
3. Quando il testimone è un minore
3.1.
La memoria del “piccolo testimone” ........................................................19
3.2.
La tutela del minore .............................................................................20
3.3.
Dall’interrogatorio all’ascolto: l’audizione protetta ....................................21
3.4.
L’intervista cognitiva e il minore .............................................................23
3.5.
La validazione delle testimonianze: la Statement Validity Analysis ..............24
Considerazioni conclusive .............................................................................27
Riferimenti bibliografici .................................................................................28
-2-
I nostri ricordi sono indici d'archivio
che vengono consultati
e poi rimessi a posto in disordine
da autorità che noi non controlliamo.
(Cyril Vernon Connolly)
Introduzione
Le numerose teorie sulla memoria, come funzione psichica del cervello umano,
rappresentano essenziali riferimenti concettuali applicabili alla psicologia giuridica ed
alle attività investigative in molti casi criminosi.
Nel primo capitolo, vengono riportati i principali approcci affrontati, in
psicologia, nello studio della memoria e dei suoi meccanismi di funzionamento. Si
riferiscono alcuni dei numerosi studi ed esperimenti sull’argomento, i possibili errori a
cui la memoria è soggetta per il fatto di non essere un fenomeno meramente
riproduttivo degli eventi ma un processo di ricostruzione nel corso del quale entrano in
gioco caratteristiche sia personali, cognitive ed emozionali, che situazionali, legate al
contesto in cui si verifica l’evento. La conoscenza dell’esistenza di questi errori e dei
molteplici fattori che intervengono nel processo di codifica di un evento, permette di
comprendere come il racconto di un testimone oculare, basato su una serie di ricordi,
possa non essere del tutto rispondente all’evento reale.
Successivamente si tratteranno alcuni metodi di intervista ai testimoni messi a
punto da psicologi e largamente utilizzati in campo investigativo, sia negli Stati Uniti
che in Europa. In particolare, viene descritta la tecnica dell’Intervista Cognitiva (IC)
quale strumento innovativo per vagliare le testimonianze ed organizzato in una prima
parte, nella quale al soggetto viene richiesto un racconto libero dei fatti ed in una
seconda parte, che consiste nell’applicazione di specifiche mnemotecniche, utili per
una valutazione dell’attendibilità del testimone. Una rielaborazione dell’IC è
rappresentata dall’Intervista Cognitiva Riveduta (EIC) che, rispetto alla prima, pone
una maggiore attenzione sulla relazione tra intervistatore ed intervistato mentre
l’Intervista Strutturata (IS), si configura come una versione semplificata dell’IC,
poiché non presenta il ricorso alle mnemotecniche.
Infine, l’ultima parte sarà dedicata alle differenze riscontrabili nei casi in cui a
dover testimoniare è un minore rispetto a quelli in cui si applica quanto detto
precedentemente a soggetti adulti. Si segnala, infatti, l’importanza, evidenziata da
numerosi studiosi, di procedere con maggiore attenzione all’ascolto di un bambino,
avendo cura di ridurre al minimo le fonti esterne di suggestionabilità e di garantire la
tutela della dignità del minore. Per raggiungere questi scopi, è stata introdotta
l’audizione protetta come forma di ascolto delle testimonianze di un minore, dal
momento che questo avviene, solitamente, in casi di sospetto abuso sessuale.
Vengono descritte le modalità con le quali si effettua l’audizione protetta insieme agli
strumenti che contribuiscono ad una corretta raccolta di informazioni ed alla
successiva validazione delle testimonianze.
-3-
Partendo dagli studi sulla memoria è possibile, quindi, sottolineare l’importanza
di questi come ausilio nel lavoro di investigazione e, in particolare, in un campo
delicato e ancora in via di sviluppo come la psicologia della testimonianza.
Si può, senz’altro, tracciare un’analogia tra le modalità di azione della memoria
e dell’investigatore: la memoria crea un ricordo a partire dalle diverse tracce
immagazzinate per giungere ad una ricostruzione il più vicino possibile all’evento, così
come l’investigatore ricostruisce degli eventi a partire dagli indizi raccolti e arrivare
così alla “verità”.
1. – Il processo mnemonico e la testimonianza
1.1
La memoria e i processi mnestici
La memoria, detta anche funzione mnestica, è quella funzione psichica volta
all'assimilazione, alla ritenzione ed al richiamo di informazioni apprese durante
l'esperienza. È influenzata anche da elementi affettivi (come emozione e motivazione),
oltre che da elementi riguardanti il tipo di informazione da ricordare. Questa funzione
viene definita come un processo legato a molti fattori, sia cognitivi che emotivi, e
come un processo eminentemente attivo e non, o almeno non solo, automatico o
incidentale (http://it.wikipedia.org).
Consiste, quindi, nel passaggio dall’acquisizione di un evento-stimolo alla sua
traduzione in una rappresentazione interna registrabile in memoria (Canestrari,
Godino, 1997).
L’azione del ricordo può essere suddivisa in tre stadi successivi di elaborazione:
1. Encoding – Fase di acquisizione e codificazione Le informazioni e gli
stimoli che arrivano al Sistema Nervoso Centrale vengono selezionati ed
etichettati secondo classi di caratteristiche (sensoriali, percettive, emozionali,
etc.). Un ulteriore processo di codificazione, più lento del precedente, è
l’elaborazione, che consiste nel collegare il nuovo segnale con altre informazioni
già presenti.
2. Storage – Fase di ritenzione ed immagazzinamento Le informazioni
acquisite in memoria tendono ad essere stabilizzate nel tempo. Maggiore sarà
l’intervallo tra la fase iniziale e quella finale di recupero, maggiore sarà la
possibilità di avere un ricordo meno accurato dell’evento.
3. Retrieval – Fase di recupero Consiste nel risultato operativo dei processi di
acquisizione e ritenzione e comprende quei meccanismi in grado di far
riemergere le informazioni “archiviate” in memoria.
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Nello schema precedente, T1 coincide con la fase di codifica, che può essere
chiamata anche fase di studio. È qui che avviene il processo di apprendimento che può
essere di due tipi: intenzionale o accidentale, a seconda se si ha o meno la
consapevolezza che sarà seguita dalla fase di test. T2, invece, è il momento in cui
avviene il recupero dell’informazione o fase di test: anche in questo caso è possibile
operare una distinzione tra una modalità esplicita ed una implicita in base al grado di
consapevolezza della precedente fase di studio.
Nella fase di test, inoltre, è possibile procedere al recupero di un ricordo
attraverso due diversi processi:
a) la rievocazione o richiamo, che consiste nella “riproduzione attiva
dell’informazione registrata in memoria”;
b) il riconoscimento che avviene quando “ci si rende conto di aver già avuto
contatto con un dato stimolo, attraverso un confronto tra lo stimolo
proposto e quelli incamerati in memoria” (Canestrari, Godino, 1997,
p.183).
-5-
1.2
Modalità di studio della memoria
Non esiste una modalità unica di studio della memoria ma, nella storia della
psicologia, sono molti gli autori che, con approcci diversificati, hanno tentato di
spiegare le leggi e i meccanismi che regolano questa funzione così complessa.
Secondo il criterio associazionista, il più antico, “il meccanismo chiave
dell’apprendimento e della memorizzazione consiste nella associazione per contiguità
temporale” (Canestrari, Godino, 1997, p.184). Ebbinghaus ha compiuto studi
sperimentali sulla memorizzazione di sillabe senza senso ed ha identificato la curva
dell'oblio, delineando un calo della prestazione mnestica superiore all'aumentare del
tempo della ritenzione. In maniera speculare è rappresentata la curva della ritenzione:
all'aumentare delle ripetizioni aumenta la qualità della ritenzione, fino ad un livello
tale per cui successive ripetizioni non implicano miglioramenti significativi della
prestazione.
Un limite di questi studi risiede nel fatto che queste leggi si applicano solo per
l’acquisizione meccanica di stimoli artificiali e delineano un meccanismo di
memorizzazione esclusivamente passivo.
L’approccio strutturalista considera il processo mnestico come risultante da
una strutturazione degli stimoli, piuttosto che da un semplice incameramento. La
memorizzazione deriva, quindi, da “l’impiego di strategie attive per elaborare una
costruzione che rappresenta l’informazione in memoria, costruzione che integra lo
stimolo nuovo con le tracce delle esperienze passate del soggetto” (Canestrari,
Godino, 1997, p.186).
Il principale esponente di questo approccio è Bartlett, il quale ha studiato la
memoria focalizzando l’attenzione sulle differenze individuali e sulle distorsioni di tipo
affettivo ed emozionale che sono in grado di modificare i ricordi, rendendo la
rievocazione inattendibile rispetto allo stimolo acquisito nella fase di codifica. Ha
inoltre introdotto il concetto di schema definito come elemento dotato di senso,
caratterizzato da un contenuto e da un processo, che veicola il processo di codifica,
ritenzione e richiamo mnestico mediando il ricordo di informazioni successive.
L’approccio dell’elaborazione dell’informazione si sviluppa a partire dagli
anni 70. Studia la memoria secondo uno schema di tipo cibernetico, adoperando
un’analogia funzionale tra il cervello umano e un calcolatore elettronico e si fonda sui
seguenti assunti:
♦
La memoria è un flusso di informazione attraverso un sistema, in processo di
tipo input-output.
♦
Il sistema risulta suddivisibile in una serie di sub-sistemi ognuno coprente una
determinata parte del processo.
♦
Il processo risulta caratterizzato da una sequenza fissa.
♦
Ogni stadio mnestico ha durata di tempo e capacità limitate.
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♦
Lo stesso processo di elaborazione dell'informazione si applica per qualsiasi tipo
di formato del segnale (grafico, tattile, semantico, verbale etc.).
A partire da questi concetti, si sviluppa anche l’approccio cognitivista ed, in
particolare, la teoria che concepisce la memoria come un processo plurimodulare, che
comprende tre moduli mnestici:
♦
Il modulo 1 registra molte informazioni ma in maniera limitata. Prende nomi
diversi a seconda delle teorie cognitiviste che l'hanno studiato ma fa
prevalentemente riferimento alla memoria sensoriale.
♦
Il modulo 2 trattiene i dati per un periodo di tempo maggiore, ma ha capacità
più limitata e si identifica nelle sue numerose accezioni come memoria a breve
termine.
♦
Il modulo 3 ha capacità di ritenzione illimitata, ma i suoi contenuti sono di
difficile recupero: è definita come memoria a lungo termine.
Infine, Tulving (1972) ha operato una distinzione tra memoria episodica e
memoria semantica: la prima raccoglie i ricordi legati alle esperienze personali,
mentre la seconda, detta anche memoria concettuale, riflette gli schemi inerenti
l'organizzazione del sapere, le strutture di avvenimenti e situazioni ed è comune a
tutti coloro che parlano la stessa lingua.
1.3
Le metafore della memoria
Per descrivere la memoria sono state utilizzate diverse metafore. Nel Medio
Evo, ad esempio, era equiparata ad un teatro, col susseguirsi delle innovazioni
tecnologiche è stata paragonata alla fotografia o alla cinematografia, fino ad arrivare
ai giorni nostri a descriverla come un computer. Ma la metafora che più spesso è stata
utilizzata per spiegare i meccanismi che portano al ricordo o alla dimenticanza degli
eventi, è senz’altro quella spaziale.
L’origine della metafora spaziale si può rintracciare nelle opere degli empiristi
Locke e Hume nel XVII secolo e viene utilizzata largamente nel linguaggio quotidiano
e letterario: la memoria viene così definita come un luogo, un contenitore o, da Conan
Doyle, come una “soffitta”, dove i ricordi, intesi come copie degli eventi, vengono
collocati, conservati e infine recuperati. All’interno di questa metafora, l’oblio
rappresenterebbe una difficoltà di accedere ai ricordi.
Una delle metafore spaziali più usate comunemente è quella che paragona la
memoria ad una biblioteca. In questo caso, l’evento può essere rappresentato come
un nuovo libro che viene archiviato nel catalogo dopo aver ricevuto un codice che gli
permetterà di essere facilmente rintracciato in futuro. Al momento del recupero,
infatti, si procederà alla localizzazione del libro nello scaffale corrispondente e quindi
all’attivazione del ricordo.
Questa metafora permette di spiegare la presenza di un ricordo accurato (libro
recuperato), parziale (libro deteriorato) o inaccurato (interferenza con altri libri), e
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l’assenza di un ricordo (codice errato o incompleto). Ma non è in grado di fornire una
spiegazione rispetto a quei fenomeni che vengono definiti falsi ricordi: si tratterebbe,
infatti, di recuperare un libro che non è stato mai archiviato. Ma come nascono i falsi
ricordi?
1.4
La memoria e i suoi “inganni”
Alcuni errori di memoria possono portare alla creazione di un nuovo ricordo,
inteso come il recupero dettagliato di un evento che non è mai accaduto. Possono
essere considerati dei “fenomeni produttivi che rivelano la normale manifestazione di
un processo creativo” (Cubelli, Della Sala, 2007, p 90).
Questi errori possono essere classificati in diversi sottogruppi:
Ø Errori di monitoraggio della fonte Quando il meccanismo di
monitoraggio della fonte è danneggiato, un’informazione, un nome in
questo caso, viene ricordata, ma viene perduto il ricordo di dove e come
l’informazione è stata acquisita. Poiché la sensazione di familiarità è
percepibile, i soggetti sono indotti a incorporare nella memoria questa
informazione attribuendole connotati che non le sono propri (Peters M.J.,
Horselenberg R., Jelicic M., Merckelbach H., 2007).
Ø Suggestione post-evento Questo errore è stato studiato da Loftus e
Palmer (1974) tramite una serie di esperimenti volti a dimostrare l’effetto
del tipo di informazioni fornite ai soggetti sulla rievocazione del ricordo.
Le parole scelte per formulare la medesima domanda influenzavano
l’elaborazione del ricordo.
Ø Errori di congiunzione mnesica Due ricordi, spesso uno episodico e
uno semantico, si miscelano formando un altro ricordo.
Ø Errori di traslazione inconsci Si ha quando un testimone riconosce un
volto familiare e per questo lo assegna erroneamente all’autore del
crimine.
Ø Errori di correzione del passato Il ricordo di esperienze passate è
influenzato dalle nostre conoscenze attuali, dagli schemi attuali e dagli
stereotipi consolidati. Spesso quindi siamo portati a correggere eventi
passati in base ad esigenze di coerenza e semplificazione.
Ø Errori dovuti a pregiudizi In un esperimento classico, dovendo
riconoscere da una vignetta vista in precedenza chi aveva l’arma in mano
durante una lite nel metrò, oltre metà delle persone ricordava di aver
visto l’arma in mano all’uomo con la pelle scura, mentre nella scena era il
bianco ad impugnarla.
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Lo studio di questi errori di memoria ha portato quindi ad una ridefinizione delle
fasi di elaborazione del ricordo: la fase di enconding corrisponde all’interpretazione
dello stimolo sulla base di conoscenze e inferenze; nella fase di storage
l’interpretazione viene inserita all’interno di schemi conoscitivi; infine, nella fase di
retrieval si procede all’elaborazione dell’interpretazione. Questo processo si configura
allora come un percorso di ricostruzione e concatenamento di tracce piuttosto che
come un semplice immagazzinamento in uno statico spazio mentale. Si è passati,
quindi, ad una metafora non spaziale della memoria che definisce i ricordi come
interpretazione degli eventi e considera l’oblio non come un errore, ma come un
processo che è parte integrante del meccanismo della memoria.
-9-
1.5
La testimonianza
E’ possibile applicare queste riflessioni sulla memoria al campo della
testimonianza, che continua ancora oggi ad avere un ruolo decisivo in campo giuridico
ed investigativo.
Stern (1939) definisce la testimonianza come la riproduzione verbale o scritta
di contenuti mnemonici, che fanno riferimento ad una particolare esperienza o ad un
certo evento esperito.
La testimonianza può essere distinta in testimonianza diretta, nel caso in cui
l’individuo ha assistito al fatto in prima persona e testimonianza indiretta, quando,
invece, l’individuo è venuto a conoscenza del fatto in un secondo momento tramite il
racconto di altri.
Nel secondo caso è possibile che avvenga una re-interpretazione da parte del
soggetto riguardo ai fatti di cui è venuto a conoscenza.
In entrambi i casi comunque la testimonianza riporta sia una parte di verità
oggettiva sia una costruzione soggettiva dei fatti, legata a componenti emozionali e
situazionali che influenzano il ricordo ma anche ai sopraccitati errori di memoria.
Operazioni di questo tipo possono portare il testimone oculare a fornire
involontariamente una deposizione diversa dal reale svolgimento dei fatti, in quanto
possono avere alterato la percezione dell’evento e dei fatti accaduti da renderli
diversi da ciò che accadde effettivamente (Loftus, 1999; Gulotta 1987; De Cataldo,
1988; Cavedon, 1992; Mazzoni, 1997; Mazzoni, 2000).
Un’analogia interessante per comprendere meglio quanto l’attività ricostruttiva
di un individuo possa influire sulla memoria di un evento è stata proposta dal
cognitivista Urlic Neisser (1967), il quale ha paragonato il soggetto che ricorda ad un
paleontologo che tenta di ricostruire un dinosauro partendo dai pochi frammenti ossei
di cui dispone. Le ricostruzioni possibili sono molteplici ma il risultato, poiché basato
su diverse congetture, non potrà risultare certamente simile all’originale.
Essendo, quindi, il ricordo di un evento una ricostruzione, andrebbero
esaminati i fattori che intercorrono prima dell’evento, durante le fasi del processo
mnestico ed, infine, le azioni ed i processi che accadono dopo l’evento e che
potrebbero alterarne la ritenzione ed il recupero (Petruccelli, Petruccelli, 2004).
Secondo Schacter (1996) il processo di codifica e il ricordo sono praticamente
inseparabili, dal momento che si ricorda solo ciò che si è codificato e ciò che viene
codificato dipende da chi siamo, dalle nostre esperienze passate, dalle nostre
conoscenze, dai nostri bisogni, con una grande influenza su ciò che viene
immagazzinato in memoria.
Questa visione di Schacter spiega perché talvolta persone diverse ricordano lo
stesso episodio in modo radicalmente opposto. Un testimone generalmente codifica
l’informazione che proviene dall’ambiente (ad esempio, vede l’incidente tra due
macchine). Questa informazione però entra nel sistema cognitivo del soggetto in
modo diverso rispetto alla forma ed ai dettagli con cui è presente nell’ambiente
- 10 -
Quando il testimone viene invitato a ricordare e riconoscere informazioni,
queste riguardano in primo luogo la memoria episodica, tuttavia non va sottovalutata
la possibile influenza della memoria semantica sul ricordo episodico.
Si deve, inoltre, tener presente che, ad esempio, la modalità di acquisizione del
materiale può influenzare la rappresentazione delle conoscenze nella memoria
episodica: vi è differenza, infatti, quando un ricordo è intenzionale (tendenzialmente
il soggetto sarà facilitato nel ricordare l’evento) e quando invece è accidentale
(probabilmente il ricordo sarà scarso e lacunoso in termini di quantità, anche se
talvolta può essere ugualmente accurato) (Mazzoni, 2003).
Ed è proprio il ricordo accidentale che spesso caratterizza le testimonianze: la
maggior parte delle volte, infatti, accade che l’individuo è chiamato a testimoniare su
eventi inattesi, che non ha la consapevolezza di dover ricordare. In questi casi, il
ricordo è solitamente scarso e frammentario.
Spesso i testimoni di un processo possono essere convinti di ricordare eventi
che non si sono verificati, per cui possono incorrere in quella che Gianrico Carofiglio
definisce “falsa testimonianza inconsapevole” (Cubelli, Della Sala, 2007).
1.6
L’attendibilità del testimone
I testimoni, come disse Bentham, «sono gli occhi e gli orecchi della giustizia» ed
è quindi giustificato l'interesse della psicologia giudiziaria per il processo testimoniale
(Ferracuti, 1959). Ma le diverse teorie sulla memoria ed il suo funzionamento insieme
ai numerosi studi condotti su questo argomento aprono la controversa questione
dell’attendibilità dei testimoni. Si può credere in assoluto ad un individuo che dice di
ricordare esattamente un evento che “ha visto con i suoi occhi”?
Da quanto esposto finora è possibile comprendere che la memoria è un
meccanismo imperfetto, dal momento che è influenzato da molteplici fattori che
possono intervenire nelle tre diverse fasi sopraelencate ed ostacolare così la modalità
corretta di codifica, mantenimento o recupero di un ricordo.
Molti studi ed esperimenti hanno dimostrato che nell’osservazione e nel
racconto di un evento, è fondamentale l’influenza delle caratteristiche proprie di un
individuo, dei suoi schemi mentali e delle sue conoscenze pregresse, nonché dalle
caratteristiche della situazione.
In un esperimento, Loftus (1979) ha presentato a due gruppi di volontari due
scene ambientate in un fast-food: nella prima il cliente si avvicinava al cassiere con
una pistola, nell’altra, invece, aveva in mano un assegno.
Dalle registrazioni dei movimenti oculari è stato possibile osservare che le
persone fissavano la pistola più a lungo dell’assegno ed erano talmente attirati dalla
pistola da non ricordare gli altri particolari della scena. Questo fenomeno è stato
definito “effetto arma”.
- 11 -
In questo caso, la difficoltà a ricordare gli elementi della scena può dipendere da
un difetto di codifica: il testimone opera una selezione delle informazioni da incamerare
dovuta ad un elemento particolare che lo porta a distogliere l’attenzione dal contesto
globale.
Un'altra caratteristica della memoria che può influire nel racconto di una
testimonianza è la tendenza a compensare lacune mnestiche. A questo proposito
Brewer e Treyens (1981) hanno condotto un esperimento: hanno lasciato dei soggetti
per alcuni minuti in una stanza presentata come l’ufficio di un accademico e hanno poi
chiesto loro di descrivere l’arredamento e gli oggetti presenti nella stanza. Molti
affermarono di aver visto una scrivania e dei libri, che in realtà non c’erano;
pochissimi, invece, notarono oggetti insoliti come un teschio o un cesto da pic-nic.
Questo esperimento permette dunque di spiegare che, di fronte ad un’inattesa richiesta
di recupero di memoria, quale è la maggior parte delle volte una richiesta di
testimonianza, gli individui sono portati ad usare gli schemi di conoscenza per
completare i ricordi mancanti o per evitare resoconti poveri di particolari (Cubelli, Della
Sala, 2007).
Da questi esempi emerge, quindi, che un testimone è,
per definizione,
inattendibile dal momento che è chiamato a riportare quello che essendo un ricordo,
cioè una ricostruzione, è necessariamente diverso dall’evento originale, una
deformazione della realtà.
II contenuto della deposizione deve essere, quindi, considerato “come qualcosa
che non può mai essere pura riproduzione fotografica di un fatto obiettivo, ma è
sempre il prodotto di una molteplicità di coefficienti: in parte soltanto dati dagli
elementi di quel fatto obiettivo, ma in parte costituiti dalla natura stessa della
personalità psichica del testimonio, e da tutti gli elementi esteriori che hanno agito nel
passato e che attualmente agiscono sul testimonio stesso” (Musatti, 1931).
In questo ambito, un ruolo molto importante nella fase di raccolta delle
testimonianze può essere svolto dallo psicologo non in quanto sostituto
dell’investigatore, ma in quanto possessore di competenze e strumenti conoscitivi atti
a comprendere i meccanismi che operano nel processo di rievocazione dei ricordi e ad
individuare eventuali elementi che possono aver influenzato il racconto.
- 12 -
2. - L’intervista cognitiva
2.1
Il recupero dell’informazione
Nel capitolo precedente sono state sinteticamente richiamate le numerose
teorie esistenti sul funzionamento della memoria sottolineando l’importanza che
rivestono gli studi e gli esperimenti su questo argomento nel campo della psicologia
investigativa.
La Psicologia Investigativa come applicazione della psicologia al processo investigativo
e più in generale all'attività di Polizia Giudiziaria, trova modalità applicative
(http://www.psicologiainvestigativa.it/):
–
nella
preparazione
dell'interrogatorio
e
nell'analisi
dell'intervista
investigativa
e
–
nella definizione del profilo criminale (offender profiling)
–
nella stesura dell'autopsia psicologica
–
nello studio della psicologia della negoziazione
–
nell'analisi psicologica di testi scritti
–
nella preparazione dell'operatore di Polizia e del team investigativo nel
problem solving dei processi investigativi
–
nello studio della psicologia della testimonianza oculare.
Lo scopo principale della psicologia della testimonianza è quello di “stabilire
criteri esatti e certi così da rendere possibile sulla base delle testimonianze la
ricostruzione obiettiva dei fatti o degli accadimenti reali” (Musatti, 1991).
In particolare, vi sono diverse forme di collaborazione ed integrazione che lo
psicologo può offrire alla squadra investigativa:
♦
attraverso lo sviluppo di diverse tecniche di intervista, durante la fase
della testimonianza vera e propria;
♦
assicurandosi, ad esempio, che il line-up, o confronto all’americana come
metodo di riconoscimento del “colpevole” si svolga in maniera corretta;
♦
attraverso il riconoscimento delle false confessioni (in USA, IL 20-25%
dei detenuti scagionati dalla prova del DNA era in carcere per aver
confessato);
♦
avanzando proposte di modelli teorici per orientare le indagini e per
valutare le ipotesi investigative.
- 13 -
Non si può parlare di testimonianza senza parlare di memoria e, come abbiamo
visto, non si può parlare di memoria senza fare riferimento alla sua natura
“ingannevole”, ai suoi errori dovuti a conoscenze personali, stati emotivi e schemi
mentali preesistenti.
Per tutta questa serie di motivi, a partire dagli anni ’80, diversi autori hanno
sviluppato delle tecniche innovative di intervista volte al recupero delle informazioni
tramite l’utilizzo di metodi che tengono conto delle caratteristiche del soggetto e della
situazione testimoniale, della relazione intervistatore e testimone e dei possibili errori
nei quali può incorrere la memoria.
L’uso di queste tecniche in ambito testimoniale permette di valorizzare le
capacità della memoria e di ridurre al minimo i falsi ricordi. Vediamo come.
2.2
L’intervista cognitiva (IC)
L’Intervista Cognitiva o IC è stata elaborata dagli psicologi Ed Geiselman e Ron
Fisher (1987) per rispondere alle numerose richieste da parte di ufficiali di polizia e
professionisti legali che necessitavano di uno strumento che potesse essere d’ausilio
nell’interrogatorio dei testimoni.
L’IC utilizza i principi e le teorie della psicologia cognitiva, tentando di ridurre al
minimo la soggettività del testimone.
Si basa su principi psicologici che riguardano il ricordo ed il recupero di
informazioni dalla memoria, si concentra quindi sulle modalità che il testimone può
usare per accedere all’informazione in memoria (Binazzi, 2005).
Al momento della codifica di un informazione, la traccia che ne deriva è data
una molteplicità di elementi. Maggiore sarà la presenza di questi elementi al momento
del recupero dell’informazione e maggiore sarà la probabilità di un recupero
attendibile di quest’ultima. Uno degli autori più citati per spiegare le basi teoriche di
questo strumento è senz’altro Tulving. Egli (1974) afferma che esistono diversi
percorsi possibili per raggiungere una specifica informazione codificata e che, se
quest’ultima non risulta essere accessibile attraverso una certa strada, probabilmente
potrà essere raggiunta tramite un percorso alternativo. L’IC si basa proprio su questo
assunto per cui tentativi di richiamo multiplo possono aumentare la quantità di ricordi
e portare al recupero di una data informazione attraverso una via d’accesso
alternativa.
La forma originaria dell’Intervista Cognitiva si basa su quattro tecniche
cognitive fondamentali (Fisher e Geiselman, 1992).
♦ La ricostruzione ambientale del contesto e dello stato psicologico
vissuto al momento dell’evento. Tale strategia si basa sul principio
della specifica di codifica di Tulving e Thomson (1973), secondo il quale,
- 14 -
come precedentemente accennato, nel momento in cui si codifica
l’informazione relativa ad un certo evento si iene a formare una traccia
unica che comprende anche l’informazione che riguarda il contesto
oggettivo e soggettivo in cui tale evento ha avuto luogo. Attraverso la
ricostruzione del contesto, quindi, si presenta al soggetto una parte dello
stimolo originario, con lo scopo di aumentare la sovrapposizione tra
contesto al momento del recupero e contesto al momento
dell’acquisizione (Cavedon, Calzolari, 2005).
♦ Il riferimento di qualsiasi dettaglio il soggetto ricordi dell’evento.
Si richiede al soggetto di riferire qualsiasi dettaglio gli venga in mente,
anche quelli che possono apparire insignificanti. In questo modo
l’individuo può essere facilitato nel ricordare dettagli importanti in
associazione con dettagli considerati insignificanti, ma che potrebbero
invece risultare molto utili se accostati a dettagli riportati da altri
testimoni presenti allo stesso evento.
♦ La rievocazione libera dell’evento partendo da momenti temporali
diversi. Si può chiedere al testimone di iniziare a raccontare l’accaduto
partendo da punti diversi: dalla fine, da metà o da un evento
particolarmente saliente. L’utilizzo di questa strategia si basa sul
presupposto un individuo, nel raccontare un evento in ordine cronologico,
potrebbe essere portato a ricostruire cosa potrebbe essere successo, in
base a quella tendenza a compensare le lacune mnesiche che ho
descritto nel capitolo precedente: la tendenza ad utilizzare schemi di
conoscenza per compensare la perdita di dettagli, basandosi nella
ricostruzione su eventi simili a lui familiari.
♦ Il cambiamento di prospettiva. Si può chiedere al testimone di
rievocare l’evento da un punto di vista diverso dal proprio. Ad esempio, si
può chiedere al testimone di assumere il punto di vista della vittima o di
un altro testimone e di riportare quello che questi ultimi avrebbero potuto
vedere. In questo modo si può ampliare la quantità di dettagli, anche vi è
il rischio di incorrere in ricordi fittizi.
Se nell’Intervista Cognitiva il testimone e la sua capacità di accedere ai ricordi
hanno una notevole importanza, altrettanto rilevante è il ruolo di chi interroga il teste
e come questi agisce sul processo di recupero delle informazioni: deve, infatti, cercare
di aiutare il testimone a recuperare il maggior numero possibile di informazioni senza
rischiare di danneggiare il ricordo che il soggetto ha dell’evento, gia di per sé è
parziale e impreciso.
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*(tabella tratta da Mestitz, 2003)
2.3
L’intervista cognitiva riveduta (EIC): l’ importanza della relazione
intervistatore/intervistato
I limiti dell’elaborazione originale dell’Intervista Cognitiva consistono nel fatto
che era nata come strumento in grado di aumentare il ricordo dei testimoni di un
evento in una situazione ideale di laboratorio, senza tener conto dell’influenza che
possono avere sul processo di ricordo dell’evento possibili fattori di stress e tensione
emotiva, fattori che, alcune volte, sono attivati proprio dalla situazione di
interrogatorio.
Dal momento che l’intervista in sé può essere vissuta dal testimone come
evento stressante, Fisher e Geiselman (1992) decisero di aggiungere alcuni elementi
con lo scopo di migliorare la comunicazione intervistatore/intervistato.
Nell’Intervista Cognitiva riveduta (EIC) assume maggiore importanza l’aspetto
relazionale, la modalità con la quale l’intervistatore crea il rapporto con il testimone e
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le tecniche che utilizza per instaurare un clima di serenità e di ascolto, in grado di
facilitare anche l’aspetto mnestico.
In particolare, l’intervistatore può personalizzare l’intervista chiamando il
testimone per nome, ripetendo l’ultima frase del soggetto e, in ogni caso, utilizzando il
linguaggio e le espressione che più si addicono al modo di parlare dell’intervistato.
Deve quindi mostrare empatia e adattare il suo linguaggio e il suo comportamento in
riferimento a chi gli sta davanti.
E’ utile, inoltre, che minimizzi l’ansia del testimone per evitare che il
sopravvento di questa possa influire sia sulla quantità che sulla qualità dei ricordi. Per
ottenere ciò l’intervistatore deve apparire rilassato, a suo agio e parlare lentamente
ed in modo comprensibile. Diversi studi hanno, infatti, dimostrato che, nei rapporti
interpersonali, il comportamento di una persona tende ad assomigliare a quello
dell’altra per cui il testimone sarà portato ad assumere il medesimo atteggiamento
rilassato dell’intervistatore.
Infine, un’altra tecnica per facilitare la comunicazione è quella del trasferimento
del controllo dell’intervista al testimone. Sarà quest’ultimo a stabilire i ritmi
dell’intervista e l’intervistatore passerà dal ruolo di guida a quello del facilitatore e
dell’ascoltatore attivo: potrà, ad esempio, intervenire con domande aperte che
manifestino la sua partecipazione senza tuttavia interrompere il racconto (Binazzi,
2005).
Per quanto riguarda le strategie cognitive volte al recupero delle informazioni, la
tecnica delle immagini mentali è una delle più innovative e valide sotto il profilo dei
risultati. Consiste nella richiesta, da parte dell’intervistatore, di attivare immagini
mentali riguardanti varie parti di un evento, dopo aver ascoltato la narrazione libera
del soggetto. L’intervistatore può chiedere al testimone di focalizzare la sua attenzione
su determinati particolari della scena e di creare immagini mentali e poi proseguire
ponendo domande compatibili con l’immagine creata, per riuscire ad ottenere il
maggior numero di informazioni prima di passare ad immagini diverse (Binazzi, 2005).
Anche in questo caso, l’intervistatore svolge un ruolo chiave poiché deve
prestare attenzione a non accompagnare la rievocazione delle immagini con commenti
suggestivi, i quali potrebbero portare alla creazione di possibili falsi ricordi (Calzolari,
Cavedon, 2005).
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2.4
L’intervista strutturata
L’Intervista Strutturata (IS) è una versione semplificata dell’Intervista Cognitiva
riveduta, proposta da Koehnken e collaboratori nel 1994 come tecnica di recupero
delle informazioni alternativa all’IC (Binazzi, 2005).
Dell’Intervista Cognitiva riveduta conserva soprattutto gli aspetti che facilitano
la comunicazione ed aiutano la costruzione del rapporto con il testimone; la differenza
principale consiste nel fatto che non impiega tecniche cognitive per il recupero
dell’informazione, ma usa una seconda narrazione libera dell’evento da parte del teste
(Cavedon, Calzolari, 2005).
Lo scopo di questo tipo di intervista è quello di far sentire il testimone il più
possibile a suo agio, instaurando sin dai primi minuti dell’intervista un clima di fiducia,
che permetta di facilitare l’interazione tra i due soggetti, creando un terreno fertile per
la cooperazione del testimone.
L’intervistatore deve essere in grado di gestire la creazione di un’interazione
positiva, attenendosi comunque alla successione delle fasi per ottenere il maggior
numero di informazioni in maniera corretta.
* (tabella, modificata, tratta da Cavedon, Calzolari, 2005)
- 18 -
3. – Quando il testimone è un minore
3.1 La memoria del “piccolo testimone”
In passato si era soliti ritenere che le testimonianze di bambini di età inferiore
ad una certa soglia, ad esempio 5 anni, non potessero essere considerate attendibili.
Ma studi condotti recentemente nell'ambito della testimonianza infantile hanno invece
constatato come anche bambini molto piccoli, di 4-5 anni, siano in grado di fornire
resoconti accurati di eventi osservati, avendone un ricordo sostanzialmente preciso
(Flin e Spencer, 1995).
Tali studi dimostrano, infatti, che il ricordo libero di bambini di quattro anni di
età può essere preciso come quello di un adulto in quanto tendenzialmente gli
elementi ricordati sono effettivamente presenti nell’evento originale (Binazzi, 2005).
Emerge che i resoconti verbali sono brevi ma molto accurati, anche se solitamente
meno dettagliati rispetto a quelli di un adulto (Goodman e Reed, 1986), dal momento
che nei bambini è riscontrabile una maggiore difficoltà a ricordare dettagli non salienti
rispetto all’evento. Inoltre, il ricordo è migliore se un evento è vissuto in prima
persona piuttosto che ascoltato (Fivush, 1993) ed anche quando il bambino è
attivamente coinvolto nella situazione piuttosto che esserne semplice spettatore.
(Tobey e Goodman, 1992).
E’ importante specificare cosa si intende per ricordo libero: Mazzoni (2003) lo
definisce come quel ricordo che non è sollecitato da domande specifiche da parte di
chi interroga, ma solo da domande molto generiche, ad esempio, “Che cosa ricordi
della situazione?”.
Questa precisazione risulta utile per introdurre una questione che riveste una
fondamentale importanza quando si parla di “piccoli” testimoni: la suggestionabilità.
In sede processuale, infatti, può accadere che gli avvocati chiamati ad interrogare il
bambino ricorrano a domande strategiche (ovvero suggestive) per persuadere il
testimone ed avvalorare l'ipotesi da loro sostenuta, dal momento che è stato
dimostrato che i bambini sono molto vulnerabili alla presentazione ed alla
manipolazione delle domande, se effettuata da persone adulte (Ceci e Leichtman,
1994).
La qualità dell’informazione ottenuta dipende molto da chi interroga, da come
pone le domande e dal tipo di rapporto che instaura con l’intervistato. Queste
considerazioni, valide per ogni tipologia di testimoni, sono da tenere in particolare
considerazione quando si ha di fronte un bambino.
La suggestionabilità può essere intesa come una caratteristica intrinseca al
funzionamento della memoria: un testimone può, dopo aver ascoltato domande
suggestive, introdurre elementi nuovi a causa una doppia rappresentazione mentale
dell’evento: una originale e una suggerita da chi pone le domande. Inoltre, un
bambino è suggestionabile in quanto, volendo compiacere l’adulto-interlocutore ed
essendo particolarmente sensibile all’autorità dell’adulto, accondiscende a quelle che
ritiene essere le aspettative dell’adulto (Binazzi, 2005). Se, ad esempio, una stessa
domanda viene ripetuta più di una volta il bambino può arrivare a credere che le sue
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risposte iniziali non siano state corrette e a cambiare quindi le risposte per adeguarsi
alle informazioni ricevute dall’adulto, in virtù dell’autorità che gli attribuisce.
A volte l'accondiscendenza dei bambini piccoli alla suggestione non indica
necessariamente un cambiamento del loro ricordo, ma una tendenza a riflettere
determinate richieste sociali che si manifestano attraverso le dinamiche dell'intervista
e che portano i bambini piccoli a mostrare accordo con le informazioni che credono
che gli adulti vogliano sentirsi dire durante l'intervista (Cassel, 1996).
Questo fenomeno è definito referent power: è un meccanismo, riscontrabile
anche negli adulti, che può indurre i testimoni di un crimine ad adeguare la loro
rievocazione a quella fatta da altri, o perché rappresentano la maggioranza, o perché
dotati di un particolare carisma personale.
Per i motivi sopra esposti, in sede giudiziaria andrà valutata l’attendibilità del
minore testimone prendendo in considerazione i concetti di competenza e credibilità.
La competenza può essere definita come l’insieme delle capacità cognitive, emotive e
sociali del bambino; si valuta analizzando se il minore sia in grado di differenziare i
suoi pensieri e sentimenti dai dati reali e di cogliere il significato della sua posizione di
testimone, appurando anche l’eventuale influenza delle valenze affettivo-emotive sulle
funzioni della memoria.
Per credibilità si intende, invece, la veridicità o la falsità delle dichiarazioni stesse e
può essere indagata tramite l’analisi del grado di chiarezza, celerità, sicurezza e
coerenza del resoconto fornito (Duilio, Magliulo, Perotti, 2001).
3.2
La tutela del minore
Da un esame della letteratura specialistica emerge che, nella maggior parte dei
casi, il minore viene chiamato a testimoniare in processi che riguardano un sospetto
abuso sessuale in cui si trova, quindi, ad essere vittima ed, il più delle volte, unico
testimone oculare. Appare chiaro che, proprio in virtù di questa duplice posizione, è
necessario porre le condizioni volte a garantire la massima tutela del minore, intesa
sia come verifica della veridicità del suo racconto e della possibilità di utilizzarlo come
prova in tribunale, sia come garanzia del rispetto e della dignità dell’individuo.
All’interno dell’ordinamento processuale sono, dunque, previste regole idonee
ad evitare, il più possibile, rischi di compromissione della genuinità della
testimonianza: per il primo caso sono previsti i divieti delle domande "che possono
nuocere alla sincerità delle risposte" (art. 499, comma 2), nonché delle domande che
"tendono a suggerire le risposte" (art. 499, comma 3); nel secondo caso, vale
soprattutto la regola secondo cui "il presidente cura che l'esame del testimone sia
condotto senza ledere il rispetto della persona" (art. 499, comma 4).
Nel codice di procedura penale del 1930, l’attenzione verso il minore coinvolto
come testimone o come parte lesa nel processo era pressoché nulla: l’unica norma
che accennava ai minori era quella (art. 449) che escludeva l’obbligo di prestare
giuramento per il minore di 14 anni e nemmeno per i reati di abuso sessuale sui
minori era previsto l’obbligo di celebrare il giudizio “a porte chiuse”, essendo una
- 20 -
decisione del genere lasciata alla discrezionalità del giudice con generico riferimento a
ragioni di sicurezza, di ordine pubblico o di moralità (art. 423).
Nella stesura del Codice del 1988, il problema dell’audizione del minore è
diventato ancora più significativo: infatti, l’adozione del modello accusatorio prevede
che le indagini precedentemente effettuate e le testimonianze ottenute siano
riproposte nel corso del dibattimento, così da permettere a chi interroga di contestare
eventuali discordanze qualora il testimone renda dichiarazioni diverse da quelle fatte
in precedenza.
Questo sistema, se da un lato consente, in linea generale, una duplice verifica
delle dichiarazioni testimoniali, dall'altro, nei processi in cui la vittima è un minore,
comporta che quest'ultimo venga sottoposto ad una vittimizzazione secondaria. Una
volta entrato nel circuito della giustizia, infatti, al minore viene richiesto di raccontare
e, quindi di rivivere, più volte la propria dolorosa esperienza, amplificando fatti già di
per sé traumatici.
Per questi motivi, nel corso del Convegno su “Abuso sessuale di minore: ruoli e
responsabilità” tenutosi a Noto nei giorni 6-9 giugno 1996, è stato stilato un
documento, la Carta di Noto, in cui sono esposte le linee guida per l’esame del minore
in caso di abuso sessuale. Queste riguardano il corretto utilizzo, da parte dell’esperto,
di strumenti e metodologie scientificamente affidabili, la necessità che il quesito posto
all’esperto non richieda l’accertamento della verità ma piuttosto l’analisi
dell’attendibilità del testimone e l’esposizione delle ipotesi alternative in base
all’esame del caso. Dispone, inoltre, che la comunicazione con il minore venga fatta in
un ambiente accogliente ed in grado di facilitare la spontaneità nell’esposizione del
racconto; che il bambino sia informato degli scopi del colloquio e dell’importanza del
suo racconto per le fasi successive del procedimento, tenendo conto della sua età e
della sua capacità di comprensione.
Infine, l’esperto deve ricorrere alla videoregistrazione di ogni attività svolta con
il minore, in modo che questo materiale sia sempre a disposizione delle parti e del
magistrato, limitando così gli interrogatori al minore senza necessità di ripeterli più
volte.
3.3
Dall’interrogatorio all’ascolto: l’audizione protetta
All’interno di questa rinnovata attenzione per i diritti dei minori da parte
dell’organizzazione giudiziaria, è stata introdotta, in base alla legge 66/96, la
possibilità che il pubblico ministero e i difensori possano chiedere, con l’incidente
probatorio, l’audizione del minore in forma protetta così da operare tutte le cautele
necessarie ad evitare che la vista dell'imputato possa turbare il minore (art. 398,
comma 5-bis c.p.p.). E’ inoltre prevista, ai sensi dell’art. 392 comma 1-bis c.p.p., la
presenza di uno psicologo.
L’audizione protetta ridefinisce le modalità di raccolta della testimonianza di un
minore, con lo scopo di dare la parola al bambino ed ascoltare cosa ha da dire,
riconoscendogli il diritto di testimoniare e comprendendo le possibili difficoltà che può
incontrare qualora l’audizione non sia effettuata in modo corretto.
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L’audizione si svolge in una struttura specializzata provvista di un locale munito
di specchio unidirezionale, impianto di videoregistrazione e di un citofono interno; lo
psicologo si trova nella stanza con il bambino, mentre al di là dello specchio potranno
essere presenti il giudice, il pubblico ministero, gli avvocati e l’imputato che ne abbia
fatto richiesta, i quali potranno intervenire comunicando le domande all’esperto che,
se riterrà opportuno provvederà a tradurle al minore in un linguaggio comprensibile e
adeguato alla sua età ed alle sue condizioni cognitive e affettive.
La registrazione audiovisiva permette un’osservazione accurata di aspetti che
possono sfuggire alla verbalizzazione tradizionale come, ad esempio, elementi della
“comunicazione non verbale” particolarmente eloquenti in questi casi. Il materiale
registrato consente, inoltre, come già accennato in precedenza, di evitare la
ripetizione di situazioni di ascolto diminuendo lo stress per la vittima.
M ETO D O LO G IA D ELL’ AU D IZIO N E PRO TETTA
1. FASE PRELIMINARE DI CONOSCENZA E ACCOGLIENZA, prima dell’audizione vera e
propria, in cui il minore viene informato sul perché si trova in quel contesto,
sulle modalità dell’audizione e sui suoi scopi. Questo momento risulta
indispensabile per fornirgli una percezione sufficientemente chiara e sicura
dell’esperienza e del contesto, nonché per presentargli la possibilità di farsi
accompagnare nel setting di ascolto da una persona per lui significativa e
rassicurante.
2. L’ESPLICITAZIONE DELLE FINALITÀ DELL’AUDIZIONE permette di coinvolgere il minore,
cercando comunque di evitare una sua eccessiva responsabilizzazione per
quello che riguarda gli eventuali sviluppi del procedimento.
3. L’ATTEGGIAMENTO DELL’ESPERTO deve favorire la creazione di un contesto di ascolto
sicuro ed empatico, rispettoso dei tempi di elaborazione del trauma del minore,
assumendo un atteggiamento di disponibilità e di valorizzazione del minore.
4. LA CAPACITÀ DI ASCOLTO DELL’ESPERTO deve comprendere un’attenzione a diversi
livelli: uso delle parole, suono e tono della voce, postura, comunicazione non
verbale, uso del silenzio, espressione dei vissuti correlati a ciò che sta
raccontando.
5. IL RAPPORTO TRA INTERVISTATORE E BAMBINO deve essere caratterizzato anche dalla
fiducia e l’esperto, se vuole che il minore sia sincero con lui, deve essere in
grado di fare altrettanto, per esempio, non deve fare promesse che poi non
potrà mantenere.
6. LA MODALITÀ CON CUI SI FORMANO LE DOMANDE può avere notevoli ripercussioni sulla
rappresentazione mentale dell’evento. Per evitare condizionamenti, è
importante che l’esperto formuli domande aperte, evitando il ricorso a domande
suggestive o che possano, in qualche modo, guidare la risposta.
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7. NON INTERROMPERE L’ESPOSIZIONE DEI FATTI rispettare i tempi del minore,
attendendo una sua risposta ad ogni domanda.
8. UN SETTING DI ASCOLTO ADEGUATO deve consentire due operazioni parallele:
♦ La valutazione di fattori cognitivi del bambino alla luce della fase di
sviluppo in cui si trova;
♦ L’approfondimento e l’analisi degli elementi relazionali, affettivi e
motivazionali legati alle specifiche interazioni tra la vittima e gli adulti
implicati.
9. LINGUAGGIO DA UTILIZZARE NEL COLLOQUIO COL MINORE: l’esperto deve essere in
grado di conoscere e di monitorare gli effetti che le sue domande possono avere
sul bambino.
Negli ultimi anni, al fine di ridurre al minimo gli effetti della suggestionabilità e
di ottenere testimonianze attendibili, sono state messe a punto diverse tecniche da
utilizzare in un contesto di “audizione protetta” con il duplice scopo di un pieno
rispetto del bambino e di un concreto contributo alla diminuzione delle false denunce.
In particolare, l’intervistatore può servirsi dell’Intervista Cognitiva nella fase di
raccolta delle informazioni e della Statement Validity Analysis per quanto riguarda la
validazione della testimonianza.
3.4 L’intervista cognitiva e il minore
L’Intervista Cognitiva sembra rispondere in maniera adeguata agli scopi, esposti
precedentemente, che si prefigge chi utilizza l’audizione protetta.
Prevede, infatti, una fase di presentazione preliminare all’intervista che
permetta al minore di ambientarsi, prendere confidenza con il contesto e con
l’intervistatore, ricevere chiarimenti sullo scopo e sulle modalità di svolgimento
dell’incontro.
La fase successiva, dell’intervista vera e propria, facilita il processo di
ricostruzione dei ricordi tramite l’utilizzo delle mnemotecniche sopra esposte le quali,
allo stesso tempo, contribuiscono a ridurre al minimo i falsi ricordi: la variazione
dell’ordine temporale degli eventi o il cambio di prospettiva, ad esempio, permettono
di analizzare la capacità attiva del minore di rapportarsi al ricordo e di padroneggiarlo,
facendo cogliere all’intervistatore quanto del racconto è un suo ricordo e quanto
invece può essere imputabile ad influenze esterne.
Anche in questo caso, come già detto a proposito degli adulti, è importante che
l’intervistatore instauri un clima positivo e di fiducia, che rispetti i tempi e le esigenze
- 23 -
del bambino, evitando di interrompere il racconto o di porre domande “direttive e
suggestive”.
A causa della difficoltà, riscontrata in bambini molto piccoli, di comprendere
alcune delle mnemotecniche adoperate alcuni autori (Saywitz e Geiselman, Bornstein,
1992) hanno individuato gli 8 anni di età come limite inferiore sotto il quale l’uso di
questo tipo di intervista non dà risultati soddisfacenti. In questi casi è perciò
consigliabile l’utilizzo dell’Intervista Strutturata, che propone una seconda narrazione
libera in sostituzione di queste tecniche più complesse, con l’obiettivo di basare
l’analisi del racconto anche su eventuali elementi di discordanza tra le due versioni.
3.5
La validazione delle testimonianze: la Statement Validity Analysis (SVA)
La SVA è uno sviluppo della Statement Reality Analysis (SRA) una tecnica
ideata da Undeutsch negli anni ’50 in Germania per rispondere alla necessità di un
metodo di valutazione che permettesse di giudicare la validità delle accuse di abuso
sessuale rilasciate da minori. L’ipotesi di Undeutsch presuppone che sia ragionevole
attendersi che i resoconti basati su esperienze reali differiscano per quanto riguarda la
struttura sia in termini di qualità sia di quantità dei contenuti da quelli che, invece,
possono essere considerati come un prodotto della fantasia del minore.
La Statement Validity Analysis si propone di operare una valutazione della
deposizione del testimone e non della generica credibilità attribuita allo stesso ed è
pertanto costituita da tre componenti (Yuille et al., 1993):
1. procedura di intervista (Interview Guidelines);
2. procedura di analisi delle dichiarazioni (Criteria-Based Contenent Analysis,
CBCA);
3. lista di controllo della validità (Validity Checklist).
La prima fase consiste nella raccolta delle informazioni attraverso l’utilizzo
dell’Intervista Cognitiva o dell’Intervista Strutturata, tenendo presente tutte le
caratteristiche proprie di questi strumenti volte a ridurre al minimo la possibilità di
contaminazione del ricordo ed a diminuire il possibile effetto traumatico dell’intervista
sul soggetto (Binazzi, 2005).
La Criteria-based Content Analysis (CBCA) è un’analisi qualitativa che valuta i
contenuti e le caratteristiche delle dichiarazioni ottenute tramite l’intervista e che
viene applicata alla trascrizione letterale della narrazione libera fatta dal bambino.
Viene valutata la presenza/assenza di determinati criteri di contenuto rappresentativi
degli indicatori di realtà, rilevati solo su comunicazioni spontanee e non su risposte a
domande dirette e vengono tenute in considerazione anche le capacità verbali e
cognitive del bambino e la complessità dell’evento raccontato.
E’ importante sottolineare che attraverso la C.B.C.A. è possibile ottenere un
giudizio sul contenuto della deposizione e non sulla credibilità (Binazzi, 2005). L’analisi
qualitativa è ottenuta utilizzando un set di criteri prestabiliti:
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CATEGORIA 1: “CARATTERISTICHE GENERALI ”
La deposizione viene in prima istanza considerata nella sua globalità.
1. Struttura logica: coerenza e consistenza del racconto;
2. Produzione non strutturata: assenza di una schema rigido di esposizione;
3. Quantità di dettagli: elementi descrittivi inerenti luoghi, persone, oggetti, azioni e
tempi;
CATEGORIA 2: “CONTENUTI SPECIFICI”
La deposizione viene valutata in base alla presenza e alla pregnanza dei seguenti tipi di
descrizioni. Da questo momento l’analisi viene compiuta frase per frase.
4. Inserimento in un contesto: connessioni spazio-temporali con elementi di vita
quotidiana;
5. Descrizioni di interazioni: concatenazione degli eventi (secondo lo schema AzioneReazione-Azione);
6. Riproduzione di conversazioni: racconto di conversazioni o parti di esse riferite in
forma di discorso diretto;
7. Complicazioni inaspettate durante l’evento critico: descrizione di avvenimenti che
possono compromettere lo svolgersi degli eventi;
CATEGORIA 3 “PARTICOLARITÀ DI CONTENUTO”
Questa categoria include elementi della deposizione che ne aumentano la concretezza e
la lividezza.
8. Dettagli insoliti: dettagli che possono riferirsi solo alla situazione oggetto di esame in
quanto molto specifici e insoliti;
9. Dettagli superflui: elementi che arricchiscono il racconto ma che non lo modificano
nella sostanza;
10. Dettagli fraintesi riportati accuratamente: dettagli che il bambino non comprende
ma il cui significato è chiaro all’intervistatore;
11. Associazioni esterne collegate: racconti di eventi di natura sessuale collegati in
qualche modo all’atto di abuso ma non relativi a quello in oggetto;
12. Descrizione dello stato mentale soggettivo: presenza di sentimenti emozioni e
pensieri nel racconto;
13. Attribuzione di uno stato mentale all’accusato: presenza di sentimenti emozioni e
pensieri nel racconto riferiti all’accusato;
CATEGORIA 4: “CONTENUTI RELATIVI ALLA MOTIVAZIONE”
I criteri appartenenti a questa categoria permettono di trarre qualche conclusione circa
la motivazione del bambino a deporre o a dichiarare il falso
14. Correzioni spontanee: presenza di chiarimenti e di correzioni spontanee;
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15. Ammissione di mancanza di memoria: consapevolezza di non essere in grado di
riferire gli eventi in modo perfetto;
16. Emergere di dubbi sulla propria testimonianza: presenza di perplessità nel bambino
rispetto alla credibilità del suo racconto;
17. Auto-deprecazione: considerazioni del bambino rispetto a suoi comportamenti
sbagliati o inappropriati relativamente al fatto;
18. Perdonare l’accusato: presenza di affermazioni tendenti a giustificare o spiegare il
comportamento dell’accusato;
CATEGORIA 5: “ELEMENTI SPECIFICI DELL’OFFESA”
Si considera a parte questo aspetto perchè da un lato è raramente presente nelle
deposizioni credibili, dall’altro, però, è fondamentale acquisire una conoscenza specifica
dell’atto d’abuso.
19. Dettagli caratteristici dell’atto di abuso: presenza di elementi specifici confrontabili e
inseribili nel quadro di riferimento teorico del comportamento di abuso.
L’ultima componente è la Validity Checklist che consiste in una procedura
valutativa che integra i risultati ottenuti tramite l’analisi dei contenuti con le
informazioni derivanti dall’intervista e con nuove informazioni. Viene utilizzata per
testare la plausibilità delle ipotesi generate nel corso dell’intervista e della CBCA così
da poter valutare anche ipotesi alternative alla veridicità del racconto (ad esempio, le
informazioni sono valide ma il bambino ha aggiunto o è stato indotto ad aggiungere
altre affermazioni completamente false) (Cavedon, Calzolari, 2005).
L’integrazione di queste tre componenti produce una completa valutazione della
validità delle dichiarazioni del minore. In generale, numerosi studi hanno dimostrato il
valore discriminativo dei criteri della CBCA e, quindi, la reale potenzialità dello
strumento ad indagare quelle aree per le quali è stato creato. Esistono, tuttavia, delle
questioni di carattere metodologico che meriterebbero di essere approfondite come,
ad esempio, la possibile influenza di fattori culturali nella definizione dei criteri, che
limiterebbe la validità dello strumento (Ruby e Brigham, 1997), l’adattamento dello
strumento per un suo utilizzo con gli adulti (Landry e Brigham, 1992; Koehnken,
Schimmossek, Aschermann e Hofer, 1995;) e la possibilità di falsare i risultati
dell’analisi della deposizione da parte di un testimone che sia a conoscenza dei principi
della tecnica usata (Vrij, Kneller e Mann, 2000).
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Considerazioni conclusive
Data la vastità dell’argomento ed i numerosi studi inerenti al tema trattato,
questa trattazione non è da considerarsi esaustiva ma tuttavia utile per individuare
alcuni importanti elementi di comprensione del rapporto tra memoria e testimonianza.
Come si elabora, si mantiene e si recupera un ricordo ed i possibili errori a cui
può andare incontro un individuo nella rievocazione degli eventi sono nozioni da
considerare quando si parla di testimonianza. Bisogna, infatti, valutare come ciò che
un testimone ricorda non è solamente il contenuto dell’evento a cui ha assistito, ma è
piuttosto l’interpretazione dell’evento che è stata data dal soggetto al momento della
codifica. Chi ascolta una deposizione deve, quindi, essere consapevole di questo
meccanismo automatico di interpretazione che fa sì che il racconto del testimone sia
influenzato, oltre che da ciò che ha visto, anche da conoscenze e convinzioni
precedenti all’evento.
Il ricordo è una ricostruzione soggettiva della realtà: l’essere giunti a questa
consapevolezza ha favorito lo sviluppo, nel corso degli ultimi trent’anni, di una serie di
strategie per acquisire le informazioni dal testimone che costituiscono le basi per le
moderne tecniche di intervista. Ha contribuito, inoltre, a delineare l’importanza
dell’aspetto relazionale come insieme di fattori che facilitanola comunicazione e,
quindi, l’espressione dei contenuti. Chi raccoglie una testimonianza deve essere in
grado di instaurare una relazione positiva con il testimone, facendolo sentire a proprio
agio e favorendo una partecipazione attiva ed un ascolto empatico, sia che si tratta di
adulti e, ancora di più, se si tratta di minori.
Proprio in questo periodo, per i recenti fatti di cronaca, è riportata all’attenzione
dell’opinione pubblica la delicata questione della testimonianza dei minori. Come
emerge da quanto detto finora, è da considerare una priorità la tutela del minore
all’interno di un procedimento che lo vede come testimone principale e quindi come
protagonista. La speranza è che le disposizioni legislative vengano rispettate e che il
bambino non debba più essere sottoposto ad una serie innumerevole di interrogatori,
ad opera di persone sempre diverse e, la maggior parte delle volte, non competenti
professionalmente. Questo per pervenire a due importanti risultati:
♦ la tutela del minore da quell’insieme di meccanismi, sopra definito
“vittimizzazione secondaria”, per evitare cioè che il bambino debba
essere sottoposto ad ulteriori abusi;
♦ il raggiungimento di una testimonianza che possa essere considerata il
più possibile verosimile ed attendibile, così da poter essere utilizzata
come prova in tribunale, per evitare condanne ingiuste ed assoluzioni
altrettanto ingiuste.
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http://www.psicologiainvestigativa.it/
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