Franco Cardini Il declino della cavalleria La crisi della nobiltà cavalleresca può essere considerata una delle trasformazioni sociali più vistose del Basso Medioevo. Le componenti di tale declino, come nota in queste pagine Franco Cardini (1940), studioso che ha dedicato importanti contributi all’analisi dell’intreccio fra strutture sociali e mutamenti delle tecniche militari, sono molteplici. Al declino economico determinato dai profondi mutamenti nella gestione delle terre si accompagnano le trasformazioni politiche, rappresentate dal crescente peso che vanno assumendo le monarchie nazionali. Ultimo, ma non meno importante aspetto, i mutamenti nelle tecniche militari sembrano contribuire a ridimensionare, se non ad emarginare, il ruolo della cavalleria negli scontri armati. Si avvia così un processo che porterà la nobiltà guerriera del Medioevo a trasformarsi nella nobiltà di corte dei secoli successivi, carica ancora di prestigio, ma privata per lo più di un ruolo decisivo nella gestione del potere. Nel tardo Medioevo, la cavalleria era ancora considerata il nerbo degli eserciti. A seconda del loro rango, i cavalieri si consideravano «banderesi» (cioè in grado di innalzare una bandiera, simbolo della giurisdizione da essi detenuta sulle loro terre, e quindi al comando di un certo seguito) o «baccellieri», ter­mine questo che in francese si spiegava abitualmente come si­nonimo e omofono di bas chevalier. In realtà, la distanza fra «alta» e «bassa» nobiltà si era ormai divaricata e – a parte i molti di umile o comunque non nobile estrazione promossi per volontà regia al cavalierato – era già chiaro che la cavalleria, nelle sue molte variabili, stava costituendo uno strato in­feriore, talora addirittura infimo, di un’aristocrazia in crisi dal momento che le basi del suo potere e del suo prestigio – la terra e le armi – non erano più all’altezza di tempi dominati dai programmi sempre più accentratori delle monarchie che da feudali si avviavano a diventare assolute (o, in Italia, dagli Stati regionali) e dall’economia monetaria gestita da banchieri, mer­ canti e imprenditori che amavano bensì il fasto cavalleresco (con le relative prerogative civili) e le insegne araldiche1, ma non si sognavano certo di farsene base per l’esistenza, e tanto meno di combattere. In Francia, comunque, i cavalieri baccellieri detentori di feudi che sovente erano appena sufficienti ad armare un solo guerriero (feudi «di scudo») trovarono a lungo attività a suo modo remunerativa nella guerra dei Cent’Anni. In Germania, i cavalieri d’origine sia libera che non (i ministeriales2) […] trovavano sostentamento nelle loro terre talvolta veramente povere, e si consolavano con la partecipazione a quei tornei che erano diventati un’autentica istituzione; ma, troppo spesso indigenti e oppressi dai debiti, per forza di cose si trasformavano in predoni (Raubritter) ai danni soprattutto dei ricchi mercanti delle città, che essi chiamavano sprezzantemente «sacchi di pepe». Questi, dal canto loro, reagivano or­ganizzando spedizioni punitive contro i castelli o ingaggiando a loro volta dei cavalieri altrettanto bisognosi dei loro colleghi predoni da abbassarsi a tradire il loro rango («mercanti di san­gue», li definivano gli altri) e a farsi cacciatori di fuorilegge anche quando questi ultimi portassero cinturoni e sproni dorati. Da qui la frequenza con la quale questi nobili altezzosi e dispe­rati, che sapevano soltanto combattere, si facevano ingaggiare come mercenari nelle compagnie di ventura, società a struttura mercantile queste ultime […] ma nelle quali tuttavia sopravviveva, incanaglito, qualche bagliore dell’antica virtù cavalleresca. Analoga tragedia stavano vivendo i cavalieri spagnoli, gli orgogliosi hidalgos3 che mai si sarebbero adattati – al contrario di quanto invece accadeva a molti loro colleghi di altre aree d’Europa – a trasformarsi in più o meno floridi agricoltori, e che stimavano degno di loro soltanto vivere della propria spada. […] In questa storia continua di malintesi e di contraddizioni che è la storia della cavalleria, va pertanto registrato anche il fatto che la cultura aristocratica medievale era piena di valori e di lieviti cavallereschi, […] ma che la cavalleria vera e propria era divenuta ben povera cosa: una serie di orpelli4 esteriori che si potevano vendere e comprare, o uno strumento di promozione sociale, oppure una disorganica congerie di guerrieri superbi del loro rango ma poveri di mezzi e in continua ricerca di sistemi per sbarcare il lunario. […] I sovrani dei nascenti Stati accentrati europei reagirono alla crisi della società cavalleresca su due ben distinti piani; sul primo, lavorarono al progressivo svuotamento di poteri e di pre­rogative sia giuridiche sia socio-politiche della bassa (e, dove e quando poterono, anche dell’alta) nobiltà, in un processo lungo e non privo di momenti di ristagno e occasionali inversioni di tendenza (la celebre «rifeudalizzazione» dell’epoca protomoder­na5) ma sostanzialmente abbastanza coerente; sul secondo, crea­rono per la nobiltà, in modo da legarla meglio a sé, una quantità di «ordini di corte» esemplati su quelli religioso-militari e sui modelli proposti dalla letteratura cavalleresca (il più tipico era naturalmente la Tavola Rotonda), dalle fastose e immaginose cerimonie, dalle sontuose insegne, dalle sfarzose vesti, ma privi di un significato che non fosse connesso con l’apparato corti­giano. Questi ordini – di San Giorgio o del Bagno in Inghil­terra, della —1— Stella in Francia, della Nave nel regno angioino di Napoli, del Crescente in Lorena, del Toson d’Oro in Borgogna e poi nell’Austria e nella Spagna asburgiche e via discorrendo – sono gli antenati diretti delle moderne distinzioni onorifiche cavalleresche con il loro sistema di decorazioni: all’interno di essi, tuttavia, vigeva un codice che alla fede cristiana e al ser­vizio alle dame (le costanti della mitologia cavalleresca «laica») univa la fedeltà al re; e in questo senso essi giocarono un ruolo non trascurabile nella conversione alla monarchia, nei paesi di antico regime, da parte di una nobiltà che, fino al Quattrocento inoltrato, risulta tutt’altro che monoliticamente stretta attorno al trono e alla dinastia regnante. Alla base della «decadenza» della cavalleria e della sua par­ziale smilitarizzazione fra Duecento e Cinquecento sta comunque il sostanziale mutamento nelle tecniche militari. Se ne era avu­ta già qualche avvisaglia fino dal XII secolo, con l’introdu­zione sui campi d’assedio e di battaglia di quell’arma che nella sua versione portatile veniva dalle steppe dell’Asia, la balestra, e che la Chiesa considerò a lungo illecita data la forza micidiale dei suoi colpi. Nonostante essa ne proibisse l’uso nei conflitti fra cristiani, la balestra si affermò; e insieme con essa il long bow6 inglese, dotato di lunga gittata e di grande velocità di tiro (due doti che il verrettone7 scagliato dalla balestra non aveva). Queste armi da lancio avevano obbligato i cavalieri ad appesan­tire sensibilmente il loro armamento aggiungendo all’usbergo di maglia di ferro (che si andava trasformando dal camicione dei secoli XI-XII in una specie di tuta aderente al corpo) piastre di ferro sagomate nei punti critici: il collo, il torace, il dorso, i gomiti, i polsi, le ginocchia. […] Questo lento processo condusse, nel Quattrocento, all’armatura interamente «di piastra»: il cavaliere, coperto da capo ai piedi di acciaio, era un proiettile inarrestabile se lanciato in battaglia ma bastava accerchiarlo e scavalcarlo, e diveniva un povero cro­staceo in balìa della plebaglia a piedi. E ciò accadde sovente, fino da quella celebre «battaglia degli sproni» che fu lo scontro di Courtray del 13028, dove le fanterie borghesi dettero ai ca­valieri una dura e solenne lezione. Il Trecento fu l’età delle sconfitte della cavalleria, che dovette – come si vide ad esempio a Crécy – scendere spesso di sella, spezzare la parte inferiore delle lance da scontro e resistere così sulle difensive, come una sorta di fanteria pesante, all’attacco del nemico. Fra l’altro, l’ap­pesantirsi dell’armamento difensivo (a parte un rapido e vio­lento lievitare dei costi) impediva ai cavalieri di stare a lungo in sella e li obbligava a selezionare razze equine sempre più forti e resistenti ma meno veloci, il che esponeva il guerriero a ca­ vallo al tiro dell’avversario per un periodo più lungo di quanto non fosse prima accaduto. Come rimedio si dovevano accorciare i tempi di carica e le distanze da percorrere per entrare in contatto col nemico: ma quando dall’altra parte si trovarono arcieri e balestrieri ben allineati e coperti dai grandi scudi ret­tangolari detti «pavesi», l’attacco riusciva vano o addirittura rovinoso; e lo stesso quando il cavaliere lanciato al galoppo era obbligato a fermarsi dinanzi alla siepe delle lunghe picche delle fanterie comunali o, più tardi, mercenarie (sia gli Svizzeri sia i «lanzi» del Sud della Germania erano noti quali specialisti nel combattere inquadrati in compatti reparti di picchieri). Alla cavalleria restavano l’apparato, i tornei, le sfide «a singolar ten­zone»: ma la guerra vera, tra fine Medioevo e inizio età mo­derna, ora ormai altra cosa. [F. Cardini, Il guerriero e il cavaliere in L’uomo medievale, a cura di J. Le Goff, Laterza, Roma- Bari 1987, pp. 117-121] Note 1 Quelle che esibivano gli stemmi del casato di appartenenza. 2 Nei territori dell’impero poteva capitare che dei signori, affidando l’amministrazione delle proprie terre a loro servi, li innalzassero alla dignità cavalleresca. Quest’ultima non cancellava però l’origine servile, anche quando costoro aumentavano la loro ricchezza e il loro prestigio. 3 Termine con cui viene indicata la piccola nobiltà castigliana. Il termine deriva da un’espressione che significa letteralmente «figlio di qualcuno». 4 Simboli vistosi ma vuoti. 5 In alcune aree europee (soprattutto all’est) a partire dagli inizi del XVI secolo la nobiltà cercò di ripristinare (o in qualche caso di introdurre per la prima volta) obblighi di tipo feudale nei confronti delle masse contadine. 6 Il lungo arco, un’arma di tradizione non militare, ma originariamente legata alla caccia. 7 L’asta metallica con cui si caricava la balestra. 8 Battaglia in cui le fanterie comunali delle città delle Fiandre sconfissero i cavalieri del re di Francia. I vincitori presero come bottino settecento speroni d’oro sottratti ai nemici uccisi. Per la comprensione del testo 1 Quali fenomeni di ordine economico, politico e militare provocano il progressivo declassamento della cavalleria durante il tardo Medioevo? 2 Come reagirono da una parte gli stessi cavalieri e dall’altra i sovrani europei a tale crisi della nobiltà minore? —2—