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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DEL MOLISE
DIPARTIMENTO GIURIDICO
ANNALI
15/2013
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DEL MOLISE
DIPARTIMENTO GIURIDICO
ANNALI
15/2013
Direttore
Valentino Petrucci
Comitato scientifico
Agostino De Caro
Francesco De Martino
Stefano Fiore
Lucio Francario
Maria Rosaria Mauro
Antonio Palmieri
Gianmaria Palmieri
Marco Parisi
Andrea Rallo
Maria Ausilia Simonelli
Giovanni Varanese
Comitato di redazione
Carmelo D’Oro
Annali 15/2013
Collana: Università degli Studi del Molise
Dipartimento Giuridico
Campobasso: Arti Grafiche la Regione srl, 2014
pp. 848; 17x24 cm
© 2014 by Arti Grafiche la Regione srl
C.da Pescofarese, 44 - Ripalimosani (Campobasso)
www.artigrafichelaregione.com
[email protected]
ISBN 978-88-98248-27-8
SAGGI
MARIA NOVELLA BETTINI
Il part time come strumento di flessibilità funzionale
e garanzia occupazionale
SOMMARIO: 1. Quadro normativo e tipologie del part time. - 2. Disciplina del part time e
“garantismo collettivo”. - 3. La “flessibilità controllata” fra ragioni dell’impresa e tutela dei diritti dei lavoratori. - 4. Trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a part time. - 5. Trasformazione del rapporto di lavoro da part time a tempo pieno
e diritti di precedenza. - 6. L’ “adattabilità” produttivo-qualitativa: il lavoro supplementare e straordinario. - 7. La variazione della durata e della collocazione temporale. - 8. Part time e “staffetta generazionale”.
1. Quadro normativo e tipologie del part time
A partire dalla c.d. rivoluzione tecnologica della metà degli anni ’70,
si può dire che nel rapporto di lavoro “nulla è stato più come prima”. I
cambiamenti economici e strutturali sono stati cioè così profondi e radicali da indurre le imprese ad una rincorsa continua verso nuovi modelli organizzativi ed i lavoratori ad una ricerca sempre più esasperata del
“posto di lavoro stabile e tutelato”1.
La profonda trasformazione dei mercati, l’accresciuta competizione internazionale ed il modificato atteggiamento delle imprese, indotte
ad esternalizzare e a delocalizzare la propria produzione, hanno acceso,
e spesso esasperato, i termini del dibattito. In particolare, la formula della flessibilità, prima ancora di essere rappresentata in modo univoco e
condiviso dalle parti sociali e dalle imprese, è stata subito (e forse frettolosamente) considerata strumento capace di assicurare maggiore occupabilità della forza-lavoro e competitività dei mercati.
Nel tempo, tuttavia, si è faticosamente composto un quadro abbastanza chiaro delle forme e del contenuto del lavoro c.d. flessibile2. E a
1
Sul tema, v. M. BIAGI, Competitività e risorse umane: modernizzare la regolazione dei rapporti di lavoro, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2001, I, p. 257.
2
Anche se si registra una lenta erosione del primato del rapporto di lavoro a tempo indeterminato a favore di un ampliamento crescente del contratto a termine e delle altre forme di lavoro c.d. atipico, la formula della “subordinazione”, contenuta nel codice
civile (art. 2094), ha risposto con adeguata elasticità ai diversi input normativi di ordine logico- sistematico e qualificatorio. Sicché, il lavoro flessibile si è strutturato in una sorta di
7
Maria Novella Bettini
venti anni dai primi dibattiti sulla irruzione della variabile “flessibilità”3
nel diritto del lavoro, le “pervasive” dinamiche del fenomeno hanno indotto il legislatore ad attuare numerosi ed incisivi interventi sul rapporto di lavoro in un’ottica di adattabilità della prestazione lavorativa alle
esigenze del moderno sistema economico e produttivo, ormai in balìa della accesa competitività dell’impresa c.d. globale e della forte e diffusa crisi occupazionale.
Più specificamente, a partire dalla riforma del mercato del lavoro
del 2003 (D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276), si è intervenuti, oltre che sulla flessibilità “in entrata” (si pensi al sistema di reclutamento della manodopera ed alla rimodulazione della disciplina sul contratto a termine
e sulla somministrazione di manodopera), sulla flessibilità c.d. organizzativa o funzionale, con interventi sulla dimensione temporale della prestazione. E, in questo ambito, specifico rilievo è stato attribuito al part time4
(istituto peraltro compatibile con diverse qualifiche e tipologie lavorative5), in quanto lo stesso permette di soddisfare le esigenze di flessibiassetto “stellare” attorno al modello “tipo” del lavoro subordinato, certamente diverso dal
modello tradizionale, ma non per questo demolitorio delle tutele fondamentali dell’ordinamento. In tema, v. G. PROIA, Un contributo allo studio delle tipologie dei contratti di lavoro,
in “Diritto delle relazioni industriali”, 2009, p. 679; P. TULLINI, Proposte di revisione della disciplina del lavoro flessibile, in G. CIOCCA, (a cura di), Le trasformazioni del mercato del lavoro,
Macerata, EUM, 2011, p. 22.
3
Fra i tanti contributi, in materia, AA. VV., Interessi e tecniche nella disciplina del lavoro flessibile - Giornate di studio AIDLASS, Pesaro - Urbino, 24-25 maggio 2002, Milano, Giuffrè, 2003,
p. 399; G. CIOCCA, I problemi del mercato del lavoro: profili introduttivi, in G. CIOCCA (a cura di),
Le trasformazioni del mercato del lavoro, cit., p. 13; G. FERRARO, Tipologie di lavoro flessibile, Torino, Giappichelli, 2009; M.G. GAROFALO – G. LEONE (a cura di), La flessibilità del lavoro. Un’analisi funzionale dei nuovi strumenti contrattuali, Bari, Cacucci, 2009; M. RUSCIANO, C. ZOLI, L. ZOPPOLI (a cura di), Istituzioni e regole del lavoro flessibile, Napoli, Editoriale scientifica, 2006; G. SANTORO PASSARELLI (a cura di), Flessibilità e diritto del lavoro, Torino, Giappichelli, 1996, vol. I; 1997,
voll. II e III; L. ZAPPALÀ, I lavori flessibili, in Il lavoro subordinato, a cura di S. SCIARRA e B. CARUSO, in Trattato di diritto privato dell’Unione europea, diretto da G. AJANI e G. A. BENACCHIO, Torino, Giappichelli, 2009, p. 309 ss. e, sui primi dibattiti, M. N. BETTINI, La flessibilità nel rapporto di lavoro, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 1998, p. 524.
4
Sull’istituto, in generale, cfr. M. N. BETTINI – V. BOTTINO, Il rapporto di lavoro a tempo parziale (Parte prima); F. DURVAL – F. GIROLAMI, Il rapporto di lavoro a tempo parziale (Parte
seconda), in “Lavoro e previdenza oggi”, 2007, p. 443; A. BOSCATI – S. FERRARIO, Il lavoro a
tempo parziale, in F. CARINCI – A. PIZZOFERRATO (a cura di), Diritto del lavoro dell’unione europea, Torino, Utet, 2010, p. 537; V. FERRANTE, Lavoro a tempo parziale [voce aggiornata - 2008],
in “Enciclopedia giuridica Treccani”, Roma, vol. XVII; P. PASSALACQUA, L’assetto del lavoro
a tempo parziale a seguito degli ultimi interventi del legislatore, in “Rivista italiana di diritto del
lavoro”, 2010, I, p. 551; P. PIZZUTI, La riforma del part time, in “Lavoro e previdenza oggi”,
2004, p. 185.
5
Il lavoro a tempo parziale è compatibile (cfr. Min. Lav. Circ. 18 marzo 2004, n. 9,
punto 2; Min. Lav. Circ. 24 agosto 2004, n. 57, punto 3.2.) con: la qualifica di dirigente nel
8
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
lità delle imprese nell’utilizzo della manodopera, nonché di incrementare il tasso di occupazione di alcune particolari categorie di lavoratori
(come, ad esempio, donne con impegni familiari; giovani in cerca di pri-
settore privato e lo status di socio lavoratore di cooperativa; il contratto a termine (art.
1, co. 4, D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, come sostituito dall’art. 46, D.Lgs. n. 276/2003) e,
quindi, può essere stipulato per una durata predeterminata anche non in presenza di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro” (art. 1, co. 1, D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, come modificato dalla L. 16 maggio 2014, n. 78, di conversione del D.L. n. 34/2014). Come noto, a
seguito delle modifiche apposte dalla L. n. 78/2014, “il numero complessivo di contratti
a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro … non può eccedere il limite del
20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1 gennaio dell’anno di assunzione. Per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato” (art. 1, co.1, D.Lgs. n.
368/2001). Pertanto, al fine di determinare l’organico su cui applicare il limite del 20% i
lavoratori part time vanno computati pro quota (sia relativamente al numero dei lavoratori che compongono il 20%, sia nella base di calcolo del limite), ossia in proporzione all’orario svolto, con la conseguenza che due part timers al 50% “contano” un’unità (in questo senso, v. il Parere dei consulenti del lavoro, 6 agosto 2014, n. 2, in “Guida al lavoro”,
2014, n. 34, p. 18). Possono essere effettuate con rapporto a tempo parziale (art. 1, co. 4, D.Lgs.
n. 61/2000, come sostituito dall’art. 46, D.Lgs. n. 276/2003) anche: a) le assunzioni a termine (di durata non superiore a 12 mesi) dei lavoratori in mobilità (art. 8, co. 2, L. 23 aprile 1991, n. 223); b) le assunzioni a termine per la sostituzione di lavoratori assunti per la
sostituzione di dipendenti assenti per congedo di maternità e paternità, congedo parentale e congedo per malattia del bambino (art. 4, co. 1, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151); il lavoro accessorio: il prestatore può svolgere lavoro accessorio in qualsiasi settore produttivo, anche se è impiegato a tempo parziale, purché il committente non sia il proprio datore di lavoro (art. 70, D.Lgs. n. 276/2003, come sostituito dall’art. 1, co. 32, lett. a), L. 28 giugno 2012, n. 92, a sua volta modificato dall’art. 46-bis, co.1, lett. d), D.L. 22 giugno 2012,
n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 e dall’art. 7, co. 2, lett.
e), L. 9 agosto 2013, n. 99, di conversione del D.L. 28 giugno 2013, n. 76; INPS Circ. 29 marzo 2013, n. 49); il contratto di apprendistato (di cui al D.Lgs. 14 settembre 2011, n. 167 e
successive modificazioni ed integrazioni) purché la peculiare articolazione dell’orario non
sia di ostacolo al raggiungimento delle finalità formative ovvero di adattamento delle
competenze professionali tipiche di questo contratto (Cfr. Min. Lav. Circ. 29 settembre
2010, n. 34 (il principio era stato già affermato da INPS Circ. 27 giugno 2000, n. 123 e Min.
Lav. Circ. nn. 57/2004, 31/2004, 9/2004, 46/2001 e 102/1986). L’impegno formativo, infatti, non può essere ridotto in corrispondenza della riduzione dell’orario di lavoro (Così,
Min. Lav. Circ. n. 34/2010 e Min. Lav. Interpello 13 dicembre 2006, n. 7209) e la stipulazione del contratto di apprendistato part-time non va subordinata alla preventiva verifica
del Servizio Ispettivo circa la compatibilità tra contenuto formativo del contratto e riduzione di orario di lavoro (v. Min. Lav. Interpello 18 gennaio 2007, n. 4); il contratto di formazione e lavoro (CFL): dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276/2003, tale tipologia contrattuale è stipulabile nel solo settore del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (art. 86, co. 9, secondo periodo, D.Lgs. n. 276/2003); il lavoro somministrato (art.
22, co. 3 e 3-bis, D.Lgs. n. 276/2003, così come modificato dal D.Lgs. 2 marzo 2012, n. 24,
di attuazione della direttiva CE 2008/104 relativa al lavoro tramite agenzia interinale); il
lavoro ripartito (artt. 41-45, D.Lgs. n. 276/2003); il contratto di lavoro a domicilio: “qua-
9
Maria Novella Bettini
ma occupazione; anziani; lavoratori espulsi dal ciclo produttivo)6, offrendo loro una migliore gestione della qualità dei tempi di vita e di lavoro.
Inoltre, il ricorso al part time rappresenta uno strumento gestionale idoneo a coniugare le esigenze di flessibilità con la stabilità dell’occupazione7 – dal momento che il rapporto di lavoro parziale è a tempo indeterminato –; e, trattandosi di una prestazione ad orario ridotto, consente l’impiego di più lavoratori per il medesimo “posto” di lavoro e lo
scambio di esperienza fra lavoratore “anziano” e neo assunto, con indubbi riflessi positivi in termini di formazione professionale on the job.
Nello specifico, il part time si configura quando l’orario di lavoro fissato nel contratto individuale è inferiore all’orario normale stabilito dalla legge (40 ore settimanali, ex art. 3, co. 1, D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, e
successive modifiche ed integrazioni) o all’eventuale minor orario normale definito dai contratti collettivi applicati8 (c.d. “tempo pieno”: art.
1, co. 2, D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, come sostituito dall’art. 46, co. 1,
lora la quantità di lavoro dedotta nel contratto di lavoro a domicilio sia tale da non richiedere un tempo pari al normale orario di lavoro, lo stesso non appare incompatibile con altro rapporto di lavoro part time” (Min. Lav. Interpello 16 giugno 2008, n. 9); le attività di lavoro socialmente utili (L.S.U.). La Corte di Cassazione (con sentenza 19 aprile 2007, n. 9344,
in “Il Foro italiano”, 2007, I, c. 2393) ha affermato la compatibilità della fruizione dell’indennità per lo svolgimento di lavoro socialmente utile con lo svolgimento di un’attività part time.
Il caso riguardava una dipendente che, oltre a svolgere un lavoro socialmente utile, era impiegata part time in un complesso turistico. L’INPS aveva negato il sussidio, sulla base di quanto stabilito dall’art. 8 della L. n. 223/1991, che prevede la sospensione dell’indennità di mobilità per le giornate di lavoro subordinato prestate a tempo parziale. La Cassazione ha chiarito che, a meno che l’attività part time non pregiudichi il lavoro socialmente utile, non vi è
alcuna incompatibilità. Infatti, diversamente dall’indennità di mobilità, che è legata allo stato di disoccupazione, il sussidio L.S.U. è legato all’attività effettivamente prestata ed è cumulabile con il reddito da lavoro dipendente a tempo parziale.
6
Il contratto di lavoro a tempo parziale può essere stipulato dalla generalità dei datori di lavoro e dei lavoratori, ivi compreso il settore agricolo. Con riferimento a tale settore, l’applicazione del part time è stata generalizzata dall’art. 46, co. 1, lett. q), D.Lgs. n.
276/2003, che ha abrogato l’art. 7 del D.Lgs. n. 61/2000, che ne limitava l’utilizzo alle sole
ipotesi determinate dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi.
7
Sul punto, L. CALAFÀ Il contratto di lavoro a tempo parziale, in M. BROLLO ( a cura di),
Il mercato del lavoro, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da M. Persiani e F. Carinci, Padova, Cedam, 2012, p. 1196.
8
Il riferimento è a qualunque tipo di contratto collettivo (quindi, anche di secondo livello). Sul tema, cfr. V. BAVARO, Flessibilità del lavoro: la riforma del part time, in “Il lavoro nella
giurisprudenza”, 2000, p. 113; ID., Il rapporto di lavoro a tempo parziale, in M. BROLLO (a cura di),
Il lavoro a tempo parziale, Milano, Ipsoa, 2001, p. 28; G. BOLEGO, Sub art. 1,2,3, d.lgs. 61/2000, in
R. DE LUCA TAMAJO - O. MAZZOTTA, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, Cedam, 2013,
p. 1441; M. BROLLO, Sezione I, commi 1,2,3: tutela del lavoro a tempo parziale (in caso di trasformazione del rapporto di lavoro), in M. BROLLO (a cura di), Il lavoro a tempo parziale, cit., p. 130.
10
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
lett. a), D.Lgs. n. 276/2003).
Ai fini della determinatezza della prestazione, il contratto (individuale) di lavoro a tempo parziale deve indicare puntualmente gli elementi essenziali relativi alla durata della prestazione lavorativa ed alla collocazione temporale dell’orario di lavoro, con riferimento al giorno, alla
settimana, al mese e all’anno (art. 2, co. 2, D.Lgs. n. 61/2000)9, sebbene,
nel part time verticale si possa omettere l’indicazione della fascia oraria
in cui, nell’ambito della singola giornata, la prestazione deve essere svolta (Min. Lav., Nota 20 febbraio 2009, n. 2601, risp. ad Interpello n. 11/2009).
L’istituto può articolarsi in tre diverse tipologie: - orizzontale: in tale ipotesi, la riduzione di orario rispetto al tempo pieno è prevista in relazione all’orario normale giornaliero di lavoro. In questa tipologia di part time,
la prestazione lavorativa viene resa tutti i giorni della settimana ad orario ridotto rispetto al tempo pieno: ad es. 4 ore per 5 giorni lavorativi, per
un totale di 20 ore settimanali su 40 (art. 1, co. 2, lett. c), D.Lgs. n. 61/2000);
- verticale: quando il contratto prevede lo svolgimento della prestazione lavorativa a tempo pieno, ma limitatamente a periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell’anno: ad es. 8 ore su 3 giorni lavorativi, per un totale di 24 ore settimanali su 40; 6 mesi a tempo pieno nel corso dell’anno10 (art. 1, co. 2, lett. d), D.Lgs. n. 61/2000); - e misto: in questo caso, il rapporto di lavoro a tempo parziale è svolto secondo una combinazione della forma orizzontale e verticale: ad es. l’attività può essere organizzata mediante l’alternanza di trimestri di lavoro ad
orario giornaliero ridotto con trimestri caratterizzati da prestazione piena ma soltanto nel week-end (art. 1, co. 2, lett. d-bis), D.Lgs. n. 61/2000).
2. Disciplina del part time e “garantismo collettivo”
Il part time è disciplinato dalle disposizioni legislative che regolano il rapporto di lavoro a tempo pieno, salvo le eccezioni previste dalla
9
La norma ammette l’apposizione di clausole difformi nei termini di cui all’art. 3,
co. 7, D.Lgs. n. 61/2000 (v. infra, la parte specifica sulle clausole flessibili ed elastiche).
10
La Corte di Giustizia UE ha ritenuto contraria al principio di parità di trattamento del diritto comunitario la normativa italiana “che non considera utili ai fini dell’anzianità contributiva i periodi di inattività nel contratto di lavoro a tempo parziale verticale
ciclico”. La decisione del 10 giugno 2010 (c-395/08 e c-396/08) è pubblicata in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2011, p. 460, con nota di A. L. FRAIOLI, Lavoro a tempo parziale verticale ciclico: i periodi di inattività sono utili ai fini dell’anzianità contributiva.
Sul tema, cfr. anche STUDIO LEGALE NATALI-ANGELINI (a cura di), Part time verticale e
calcolo dell’anzianità contributiva, in “Diritto e pratica del lavoro”, 2011, p. 340.
11
Maria Novella Bettini
normativa specifica (D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, e successive modificazioni ed integrazioni11). E la determinazione delle condizioni e le modalità (temporali e retributive) della prestazione lavorativa – come le modalità particolari di attuazione della disciplina legale per peculiari figure o livelli professionali - spetta ai contratti collettivi12 “nazionali o territoriali stipulati da13 associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” e ai contratti collettivi “aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali” ex art.
19, Stat. lav. o dalle rappresentanze sindacali unitarie (art. 1, co. 3, D.Lgs.
n. 61/2000, come sostituito dall’art. 46, co. 1, lett. b), D.Lgs. n. 276/2003).
La stessa individuazione del “tetto” massimo di contratti part time che
11
Il lavoro a tempo parziale nel settore privato è stato inizialmente regolato dalle disposizioni contenute nell’art. 5 della L. 19 dicembre 1984, n. 863, nonché da norme specifiche per il lavoro pubblico (art. 36, co. 2, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, come modificato dall’art. 4, L. 9 marzo 2006, n. 80, di conversione del D.L. 10 gennaio 2006, n. 4, dall’art. 3, L. 24
dicembre 2007, n. 244, dall’art. 49, L. 6 agosto 2008, n. 133, di conversione del D.L. 25 giugno
2008, n. 112 e dall’art. 16, L. 4 novembre 2010, n. 183). Successivamente alla L .n. 863/1984,
la Direttiva CE 15 dicembre 1987, n. 81, attuativa dell’accordo collettivo quadro a livello europeo 6 giugno 1997, per l’applicazione del part time aveva richiamato il “principio di non
discriminazione” e del “pro rata temporis”; principi ai quali, peraltro, il nostro ordinamento
si era già sostanzialmente conformato, salvo la necessaria introduzione di alcuni obblighi d’informazione. In considerazione di questa conformazione anticipata, la Corte Costituzionale
(con sentenza 7 febbraio 2000, n. 45, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2000, p.
746) ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum abrogativo dell’art. 5, L. n. 863/1984.
Il lavoro part time è stato poi nuovamente disciplinato dal D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, in
attuazione della delega prevista dalla L. 5 febbraio 1999, n. 25, che ha abrogato la normativa precedente (art. 11). Il D.Lgs. n. 61/2000 è stato poi integrato dal D.Lgs. 26 febbraio 2001,
n. 100 (su cui v. anche Min. Lav. Circ. 30 aprile 2001, n. 46) e dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n.
276, che ha modificato ed abrogato numerose disposizioni del D.Lgs. n. 61/2000. Ne è conseguita l’automatica caducazione di tutte le clausole contrattuali collettive ed individuali incompatibili con la nuova disciplina o stipulate sul presupposto della normativa precedente
(Min. Lav. Circ. 18 marzo 2004, n. 9). Successivamente, con la L. 24 dicembre 2007, n. 247 (art.
1, co. 44) sono stati reintrodotti alcuni vincoli; e, da ultimo, l’art 22, co. 4, L. 12 novembre 2011,
n. 183 ha “resuscitato”, nella formulazione originaria, l’art. 3, co. 7, D.Lgs. n. 61/2000, in materia di clausole elastiche e flessibili di ricorso al part time.
12
Cass. 4 maggio 2011, n. 9769, in “Lavoro e previdenza oggi”, 2011, p. 849, con nota di
M. DI FRANCESCO, Richiesta di trasformazione in part-time del rapporto a tempo pieno a discrezionalità del datore di lavoro, ha rilevato che quando “il datore di lavoro abbia ritenuto sussistenti, in
una determinata unità produttiva e con riguardo a specifiche mansioni, l’esigenza di prestazioni a tempo parziale, nonché l’utilità di prestazioni lavorative così rese, la decisione di concedere o negare la trasformazione dei rapporto a part-time (..) non è più discrezionale, bensì vincolata ai criteri prestabiliti in sede di accordo collettivo, ai quali il datore di lavoro deve conformarsi nella regolamentazione dei singoli rapporti, facendo applicazione dei criteri di buona fede e correttezza che debbono ispirare l’esecuzione del contratto (ex artt. 1175 e 1375 cc)”.
13
L’uso del termine “da” anziché “dalle” consente di ritenere che i soggetti sindacali stipulanti possano essere solo alcuni fra quelli comparativamente più rappresentativi.
12
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
possono essere stipulati dalle aziende del settore di riferimento spetta
all’autonomia collettiva14. La legge, infatti, non prevede un limite percentuale di ricorso al part time rispetto ai rapporti di lavoro a tempo pieno,
salvo diversa previsione a livello contrattuale collettivo15.
Al fine di promuovere l’occupazione e l’emersione del lavoro nero,
è stata, poi, introdotta la possibilità, ad opera della contrattazione
aziendale e/o territoriale, c.d. “contrattazione di prossimità” (art. 8, co.
1 e 2, lett. c), L. 14 settembre 2011, n. 148, di conversione del D.L. 13 agosto 2011, n. 138), di prevedere ampie deroghe alla normativa vigente in
materia di contratti di lavoro a tempo parziale16.
14
L’art. art. 1, co. 3, D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, stabilisce poi che “ i contratti collettivi nazionali possono, altresì, prevedere per specifiche figure o livelli professionali modalità particolari di attuazione delle discipline rimesse alla contrattazione collettiva ai sensi del presente decreto”. La formulazione della previsione, secondo la dottrina maggioritaria, legittima la contrattazione separata: cfr. B. CARUSO, Riforma del part time nel diritto sociale europeo; verso una teoria dei limiti ordinamentali, in “Diritto, lavoro, mercati”, 2003, p. 301;
L. CALAFÀ Il contratto di lavoro a tempo parziale, cit., 1237; A. LO FARO, Italia, in “Giornale di
diritto del lavoro e di relazioni industriali”, 2004, p. 603; P. PASSALACQUA, L’assetto..., loc.
cit.; V. PINTO, Lavoro part time e mediazione sindacale: la devoluzione di funzioni normative al contratto collettivo, in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali”, 2002, p. 275; R.
VOZA, I contratti ad orario «ridotto, modulato o flessibile» (part time, lavoro intermittente e ripartito), in wp c.d.s.l.e. «Massimo D’Antona. it», 2005, n. 37.
15
Il mancato rispetto dei limiti quantitativi di utilizzo del part time stabiliti dai contratti collettivi può costituire causa ostativa al rilascio del Documento Unico di Regolarità Contributiva (c.d. DURC) attestante la situazione di regolarità dell’intera posizione contributiva aziendale - INPS, INAIL, Casse Edili -, il cui possesso è obbligatorio ai fini della fruizione dei benefici “normativi” e “contributivi” in materia di lavoro e legislazione sociale), per
inosservanza “degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di
lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” (art. 1,
co. 1175, L. 27 dicembre 2006, n. 296, legge finanziaria 2007; D.M. 24 ottobre 2007).
16
Cfr. L. MARIUCCI, Un accordo e una legge contro l’accordo, in “Lavoro e diritto”, 2011,
p. 451; C. ROMEO, Riflessioni sulla contrattazione di prossimità e dintorni, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2011, p. 866; A. VALLEBONA, L’efficacia derogatoria dei contratti aziendali o territoriali: si sgretola l’idolo dell’uniformità oppressiva, ibidem, p. 682. Il ruolo dell’autonomia collettiva si svolge in parallelo con l’importante funzione di garanzia svolta dalla
giurisprudenza. In via esemplificativa, merita citare l’orientamento in materia di simulazione di lavoro a tempo parziale. Qualora il lavoratore svolga una prestazione continuativa con orario di lavoro pressoché corrispondente a quello fissato per il lavoro a tempo
pieno, si può infatti configurare una simulazione del contratto di lavoro a tempo parziale tra il lavoratore e l’azienda. In questo caso, il giudice può trasformare il rapporto di lavoro part time in rapporto a tempo pieno “nonostante la difforme, iniziale, manifestazione di volontà delle parti” e condannare l’azienda al pagamento della normale retribuzione contrattuale. Non è infatti “necessario alcun requisito formale per la trasformazione di
un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno, bastando in proposito
dei fatti concludenti, in relazione alla prestazione lavorativa resa costantemente secondo
13
Maria Novella Bettini
Anche le pubbliche amministrazioni si avvalgono delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale come il part
time17, il contratto a termine e la somministrazione di manodopera (art.
l’orario normale, o, addirittura, superiore”. Così, Cass. 13 ottobre 2010, n. 21160, in “Il lavoro nella giurisprudenza”, 2011, p. 283, con nota di G. GIRARDI, Part time e trasformazione
in contratto di lavoro a tempo indeterminato, secondo cui, nella fattispecie, “risulta del tutto
inutile ogni discussione in ordine alla possibilità di riscontrare o meno una volontà novativa delle parti”. In conformità, v. Cass. 12 aprile 2012, n. 5776, in “Guida al lavoro”, 2012,
n. 23, p. 39; Cass. 19 luglio 2011, n. 15774, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”,
2012, p. 118 (M); Cass. 30 maggio 2011, n. 11905, in “Diritto e pratica del lavoro”, 2012, p.
961, preceduta dalla nota di S. CAPARELLO, Trasformazione del part-time in lavoro a tempo pieno; Cass. 13 marzo 2009, n. 6226, in “Repertorio del Foro italiano”, 2009, voce Lavoro (rapporto), nn. 943, 944; Cass. 28 ottobre 2008, n. 25891, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2009, II, p. 287, con nota di M. DELFINO, Nella trasformazione da part time a full time rileva la volontà implicita delle parti; Cass.11 febbraio 2008, n. 3228, in “Notiziario di giurisprudenza del lavoro”, 2008, p. 464; Cass. 18 marzo 2004, n. 5520, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2004, p. 539. Il comportamento concludente suscettibile di giustificare
la trasformazione del rapporto è, secondo la giurisprudenza, quello che attua una modifica stabile dell’orario di lavoro in quanto la prestazione viene resa in modo continuativo
secondo modalità orarie proprie del lavoro a tempo pieno, o, addirittura, con il superamento dell’orario normale, senza che vi sia “alcuna specifica esigenza di organizzazione del
servizio idonea a giustificare, secondo le previsioni della contrattazione collettiva, l’assegnazione di ore ulteriori rispetto a quelle negozialmente pattuite”: così, Cass. 30 maggio
2011, n. 11905, cit., la quale precisa anche che “la libertà del lavoratore di rifiutare la prestazione oltre l’orario part time è ininfluente, posto che… l’effettuazione in concreto delle
prestazioni richieste, con la continuità risultante dalle buste paga, evidenzia l’accettazione della nuova regolamentazione, con ogni conseguente effetto obbligatorio, risultandone una modifica non accessoria dei contenuti del sinallagma negoziale”. V. anche Trib. Trieste 16 marzo 2009, n. 36, in “Guida al lavoro”, 2009, n. 26, p. 48: nel caso di specie, un dipendente addetto ad un garage cittadino, dopo aver stipulato un contratto di lavoro a tempo parziale, aveva iniziato ad prestare la propria prestazione in turni estesi in modo da raggiungere l’ordinario orario contrattuale. Si rivolgeva, pertanto, al Tribunale chiedendo il
pagamento del maggior lavoro svolto. In accoglimento delle richieste del lavoratore, il giudice riconosceva non soltanto il maggior compenso per il superamento dell’orario pattuito, ma anche la diversa natura del contratto di lavoro, qualificandolo a tempo pieno.
17
Nel senso che il part-time è ammissibile anche nell’ambito dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, cfr. Corte di Giustizia UE 1 marzo 2012, n. c. 393/10, in “Il Foro italiano”, 2012, IV, c. 247, secondo cui l’accordo collettivo quadro a livello europeo 6 giugno 1997 sul lavoro a tempo parziale, allegato alla
direttiva CE 15 dicembre 1997, n. 81, ha un ambito di applicazione da interpretare “estensivamente”, tanto da ricomprendere “tutti i lavoratori, senza operare alcuna distinzione basata sulla natura pubblica o privata del loro datore di lavoro”. In tema di part time
nell’impiego pubblico, v. F. BORGOGELLI, La nuova disciplina del mercato del lavoro e le pubbliche amministrazioni, in “Lavoro e diritto”, 2004, p. 69; M. BROLLO, Il tramonto del diritto dal part time nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, in “Il
lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, 2008, p. 503; M. BROLLO, Il «ri-esame» del part
time «trasformato» nel lavoro pubblico, in M. MISCIONE, D. GAROFALO (a cura di), Il Collegato Lavoro 2010, Milano, Ipsoa, 2011, p. 681; M. D’ANTONA, Part time e secondo lavoro dei
14
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
36, co. 2, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e successive modifiche ed integrazioni18). In questo ambito, particolare rilievo riveste l’articolazione temporale della prestazione attuata mediante il ricorso all’istituto del part time:
il rapporto di lavoro a tempo parziale può, infatti, essere costituito relativamente a tutti i profili professionali appartenenti alle diverse qualifiche19 o livelli dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (art. 1, co.
57, L. n. 662/1996), con poche eccezioni20.
Al part-time nell’impiego pubblico si applica la disciplina vigente
per il settore privato (D.Lgs. n. 61/2000) ad eccezione delle disposizioni che prevedono: a) la forma scritta del contratto a fini di prova (art. 2,
co. 1, D.Lgs. n. 61/2000): nel settore pubblico la forma scritta del contratto a tempo parziale è prevista ad substantiam, cioè ai fini della validità stes-
dipendenti pubblici, in “Giornale di diritto amministrativo”, 1997, n. 2, p. 123; M. DELFINO, Il lavoro part time nella prospettiva comunitaria. Studi sul principio volontaristico, Napoli, Jovene, 2008, p. 338; M. MISCIONE, Il tempo parziale generalizzato nelle pubbliche amministrazioni, in M. BROLLO (a cura di), Il lavoro a tempo parziale, cit., p. 232; R. SANTUCCI, Il
lavoro part time, in F. CARINCI – L. ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Torino, Utet, 2004, p. 610.
18
L’art. 36, co. 2, recita: “2. Per rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente
temporaneo o eccezionale le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti…omissis”. Nel settore pubblico, il part-time è regolato: a) dalle disposizioni del D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 (art. 10), le quali si applicano “ove non diversamente disposto”, con esclusione delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 276/2003 (come
si evince dall’art. 1, co. 2, D.Lgs. n. 276/2003); b) dalle disposizioni speciali in materia (art.
1, co. 57-65, L. 23 dicembre 1996, n. 662; art. 39, L. 27 dicembre 1997, n. 449; art. 22, L. 23
dicembre 1998, n. 448; art. 20, L. 23 dicembre 1999, n. 488). Tali disposizioni regolano alcuni specifici aspetti del lavoro a tempo parziale ed in particolare: il campo di applicazione soggettivo (art. 1, co. 57, L. n. 662/1996); l’accesso al part-time del personale con qualifica dirigenziale (art. 20, co. 1, lett. f), punto 18-bis, L. n. 488/1999); le attività escluse dal
part-time (art. 1, co. 57 e 65, L. n. 662/1996); la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale (art. 1, co. 58, L. n. 662/1996, come modificato dall’art. 73, D.L. n.
112/2008, conv. dalla L. n. 133/2008); c) dalla contrattazione collettiva (nazionale di comparto e decentrata).
19
L’accesso al part-time è consentito anche ai dirigenti, purché gli stessi non siano preposti alla titolarità di uffici (art. 39, co. 18-bis, L. n. 449/1997, come sostituito dall’art. 20,
co. 1, L. n. 488/1999).
20
L’accesso al part-time è precluso per le seguenti categorie di lavoratori pubblici: 1.
personale militare (art. 1, co. 57, L. n. 662/1996); 2. personale delle Forze di polizia (art.
1, co. 57, L. n. 662/1996); 3. personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco (art. 1, co.
57, L. n. 662/1996); 4. professori universitari (Dipartimento Funzione Pubblica Circ. 18 luglio 1997, n. 6); 5. personale dipendente degli Enti locali, che abbiano una dotazione organica con un numero di dipendenti inferiore alle cinque unità e non versino in situazioni
strutturalmente deficitarie (art. 1, co. 65, L. n. 662/1996).
15
Maria Novella Bettini
sa del contratto; b) l’obbligo del datore di lavoro di informare le rappresentanze sindacali aziendali (r.s.a.), ove esistenti, con cadenza annuale,
sull’andamento delle assunzioni a tempo parziale, la relativa tipologia
e il ricorso al lavoro supplementare (art. 2, co. 1, D.Lgs. n. 61/2000); c)
il diritto (legale) di precedenza a favore dei lavoratori assunti a tempo
parziale, in caso di nuove assunzioni di personale a tempo pieno (art. 5,
co. 2, D.Lgs. n. 61/2000); d) gli incentivi economici all’utilizzo del lavoro a tempo parziale, anche nella forma a termine (art. 5, co. 4, D.Lgs. n.
61/2000); e) le sanzioni conseguenti alla violazione delle disposizioni di
legge non applicabili all’area pubblica (art. 8, co.1 e 3, D.Lgs. n. 61/2000,
con riferimento alla mancanza della forma scritta ed al rispetto del diritto di precedenza).
3. La “flessibilità controllata” fra ragioni dell’impresa e tutela dei diritti dei lavoratori
La stipulazione del contratto di lavoro a tempo parziale è inserita
in un contesto di ampia adattabilità alle diverse esigenze dei lavoratori
e delle imprese. Il lavoratore, infatti, può siglare una pluralità di contratti di lavoro a tempo parziale con datori di lavoro diversi 21, al fine di percepire una retribuzione complessiva sufficiente a realizzare un’esistenza libera e dignitosa 22.
Tale cumulabilità trova, peraltro, un limite nell’esigenza di tutela del
diritto alla salute del lavoratore a tempo parziale, dovendosi rispettare
i limiti di orario e di riposo settimanale previsti dal D.Lgs. 8 aprile 2003,
n. 66 (Min. Lav. Interpello 10 ottobre 2006, n. 4581)23. La difesa dei diritti fondamentali dei lavoratori rappresenta infatti un pilastro fondamentale della disciplina sul lavoro a tempo parziale, orientata al perseguimento di una flessibilità temporale “controllata” il cui governo viene solo in
parte demandato all’autonomia collettiva ed alle valutazioni delle imprese in termini di costi/opportunità.
21
Cass. 24 maggio 1999, n. 5045, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 1999,
p. 875, spec. pp. 879 e 1174, con nota di R. PESSI, Impresa ed esclusività per via giudiziaria del
rapporto di lavoro subordinato.
22
Corte Cost. 4 maggio 1992, n. 210, in “Il Foro italiano”, 1993, I, c. 59.
23
In particolare, qualora un lavoratore intrattenga rapporti di lavoro part time con
più datori di lavoro, si reputa che egli abbia diritto al riposo settimanale ogni qualvolta,
cumulando diverse attività part time, lavori compiutamente per tutto l’arco della settimana. In generale, nel senso che la consecutività delle 24 ore è un elemento essenziale del riposo settimanale, cfr. Corte Cost. 4 febbraio 1982, n. 23, in “Il Foro italiano”, 1982, I, c. 1243.
16
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
Così, ad esempio, la legge stabilisce che al lavoratore part time non
può essere applicato un trattamento economico e normativo “meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile, intendendosi per tale quello inquadrato nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi”24 (c.d. principio di non discriminazione ex art. 4, D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61)25.
Quanto alla forma del contratto part time, sia nella modalità a tempo indeterminato che a termine, a garanzia del prestatore, esso va stipulato in forma scritta, anche se non ad substantiam26, come, ad es. il con-
24
I contratti collettivi sono quelli “nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei
datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e
i contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali di cui all’articolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero dalle rappresentanze sindacali unitarie possono determinare condizioni e modalità della prestazione lavorativa del rapporto di lavoro di cui al comma 2. I contratti collettivi nazionali possono, altresì, prevedere per specifiche figure o livelli professionali modalità particolari di
attuazione delle discipline rimesse alla contrattazione collettiva ai sensi del presente decreto” (art. 1, co. 3, D.Lgs. n. 61/2000, come sostituito dall’art. 46, co. 1, lett. b), D. Lgs. n. 276/2003).
25
A livello comunitario, i criteri di individuazione del “lavoratore a tempo pieno comparabile” sono contenuti nell’ Accordo collettivo quadro a livello europeo 6 giugno 1997
sul lavoro a tempo parziale, allegato alla Direttiva CE 15 dicembre 1997, n. 81, definito come
“un lavoratore a tempo pieno dello stesso stabilimento, che ha lo stesso tipo di contratto
o di rapporto di lavoro e un lavoro/occupazione identico o simile, tenendo conto di altre
considerazioni che possono includere l’anzianità e le qualifiche/competenze” (clausola 3).
V. anche Corte di Giustizia UE 1 marzo 2012, c. 393/10, cit. In tema, v. L. CALAFÀ, op.
cit., pp. 1211-1219. Nel senso che il lavoratore a tempo parziale gode dei medesimi diritti
di un lavoratore a tempo pieno comparabile, Cass. 29 agosto 2011, n. 17726 (in “Repertorio del Foro italiano”, 2011, voce Lavoro (rapporto), n. 1024) secondo cui, ai fini dell’individuazione dei lavoratori comparabili, non sono ammissibili criteri alternativi rispetto a quelli previsti dalla legge. Cfr. anche Cass. 28 luglio 2011, n. 16584, in “Pratica lavoro”, 2011,
p. 1779; Cass. 3 agosto 2005, n. 16284, in “Repertorio del Foro italiano”, 2005, voce Impiegato dello Stato e pubblico, n. 885.
26
Nel vigore della precedente disciplina (art. 5, L. n. 863/1984), la forma scritta era
richiesta ad substantiam, cioè ai fini della validità stessa del contratto; la mancanza del requisito formale comportava la nullità parziale del contratto e la sua trasformazione in rapporto di lavoro a tempo pieno. In tal senso, cfr. Corte Cost. 15 luglio 2005, n. 283, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2005, p. 736, che aveva rigettato la questione di legittimità costituzionale della omessa previsione legislativa della conversione in contratto
a tempo pieno. Per la giurisprudenza di legittimità, Cass. 21 novembre 2011, n. 24476, in
Notiziario di giurisprudenza del lavoro”, 2012, p. 13; Cass. 10 marzo 2006, n. 5330, ivi, 2006,
n. 22, 31; Cass. 29 dicembre 1999, n. 14692 e Cass. 2 dicembre 1999, n. 13445, entrambe in
“Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2000, p. 255; Cass. 17 novembre 1994, n. 9724,
id., 1994, 691. La mancanza di forma scritta determinava, in aggiunta alla nullità del contratto, anche l’inapplicabilità del regime previdenziale del lavoro a tempo parziale di cui
all’art. 5, co. 5, L. n. 863/1984: Cass. S.U. 5 luglio 2004, n. 12269, in “Notiziario di giurisprudenza del lavoro”, 2004, p. 441.
17
Maria Novella Bettini
tratto a termine, bensì solo ad probationem, cioé ai fini di prova (artt. 2, co.
1, primo periodo, e 8, co. 1, primo periodo, D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61)27.
Sicché, l’inosservanza degli obblighi di forma non comporta la nullità del
contratto part time, ma soltanto limitazioni alla prova testimoniale del contratto medesimo (art. 2725 cod. civ.28). In particolare, qualora la scrittura risulti mancante, le parti non possono ricorrere alla prova per testimoni, a meno che “il contraente dimostri di avere senza sua colpa perduto
il documento che gli forniva la prova” (c.d. smarrimento incolpevole del
documento ex art. 2724, n. 3, cod. civ.29 : art. 8, co. 1, secondo periodo, D.Lgs.
n. 61/2000).
In mancanza di prove sia documentali, sia per testimoni, nei casi in
cui sono ammesse, il lavoratore potrà sempre dimostrare che il rapporto di lavoro, in realtà, si era svolto a tempo pieno e chiedere, per l’effetto, al giudice il riconoscimento della sussistenza fra le parti di tale tipo
di rapporto, con decorrenza dalla data dell’accertamento giudiziale della mancanza della scrittura (art. 8, co. 1, terzo periodo, D.Lgs. n.
61/2000). Resta fermo il diritto del lavoratore a percepire le retribuzioni dovute per le prestazioni rese antecedentemente alla suddetta data (art.
8, co. 1, quarto periodo, D.Lgs. n. 61/2000)30.
Tuttavia, Cass. 28 ottobre 2009, n. 22823 (in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2010, p. 29, con nota di A. VALLEBONA, Giusti spazi per l’autonomia individuale), pur
in mancanza di forma scritta, ha accertato un rapporto a tempo indeterminato di lavoro a
tempo parziale verticale a seguito della dichiarazione di nullità del termine apposto ad una
serie di contratti stagionali, ritenendo trattarsi di interesse meritevole di tutela ex art. 1322,
cod. civ.
27
Dal momento che la forma scritta soddisfa esigenze meramente probatorie, al contratto di lavoro part time stipulato in forma non scritta è garantito lo stesso regime giuridico di quello stipulato per iscritto (Min. Lav. Circ. 24 agosto 2004, n. 57; Min. Lav. Circ.
30 aprile 2001, n. 46).
28
Secondo l’art. 2725 cod. civ., “quando, secondo la legge o la volontà delle parti, un
contratto deve essere provato per iscritto, la prova per testimoni è ammessa soltanto nel
caso indicato dal n. 3 dell’articolo precedente” [vale a dire in caso di smarrimento incolpevole del documento].
29
Secondo l’art. 2724, n. 3, cod. civ., “la prova per testimoni è ammessa (…)
quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova”.
30
A. VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro, II, Il rapporto di lavoro, Padova, Cedam,
2012, p. 740 - 741, precisa che: “la limitazione temporale indicata appare incostituzionale
per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la durata del processo non può andare a
danno dell’attore che ha ragione, determinando, oltretutto, una ingiustificata disparità tra
lavoratori in base alla accidentale circostanza della differenza dei tempi processuali nei diversi uffici giudiziari. La soluzione corretta è, dunque, quella che riconosce il diritto all’intera retribuzione sin dal momento dell’offerta della prestazione piena con costituzione in
mora credendi del datore di lavoro per la parte della prestazione rifiutata”.
18
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
4. Trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a part time
Il rapporto di lavoro a tempo parziale può costituirsi per assunzione diretta (art. 1, co. 1, D.Lgs. n. 61/2000) o a seguito di trasformazione di un (precedente) rapporto a tempo pieno (art. 5, D.Lgs. n. 61/2000)31.
Nell’ipotesi di trasformazione, è necessario “l’accordo delle parti risultante da atto scritto” (c.d. accordo di trasformazione)32. Ne deriva che il lavoratore non può pretendere di convertire unilateralmente, cioè senza il consenso del datore di lavoro, il rapporto da tempo pieno a tempo parziale33 e,
analogamente, non è ammissibile una trasformazione per determinazione
unilaterale del datore di lavoro34, essendo necessario il consenso del dipendente, “risultante da atto scritto”35.
Il datore di lavoro che intenda assumere personale a tempo parziale (art. 5, co. 3, D.Lgs. n. 61/2000) dovrà: darne tempestiva informazione al personale già dipendente a tempo pieno occupato in unità produttive site nello stesso ambito comunale, anche mediante comunicazione
scritta in luogo accessibile a tutti nei locali dell’impresa (affiggendo, ad
esempio, l’iniziativa in bacheca) - l’omessa informativa non è specificamente sanzionata –; prendere in considerazione (si noti che il legislatore utilizza l’espressione “prendere in considerazione”; il che non equivale ad affermare che vi sia un “diritto di precedenza”36) le domande di
trasformazione a tempo parziale del rapporto di lavoro presentate dai di-
31
In tale ipotesi, il datore di lavoro non è tenuto a comunicare la trasformazione al
Centro per l’Impiego competente (art. 4-bis, co. 5, lett. c), D.Lgs. n. 181/2000, come modificato dall’art. 5, co. 4, L. 4 novembre 2010, n. 183; Min. Lav. Circ. n. 9/2004, punto 6; n.
37/2003, punto 4; n. 12/2003, punto 5; Min. Lav. Nota n. 440/2007). Secondo Cass. 14 luglio 2014, n. 16089, in “Guida al lavoro”, 2014, n. 31, p. 12, non è consentito ai contratti collettivi aziendali trasformare a tempo parziale i contratti di lavoro a tempo pieno già in atto
senza il consenso scritto dei lavoratori interessati, il cui rifiuto non costituisce, comunque,
giustificato motivo di licenziamento.
32
In base all’art. 22, co. 4, L. 12 novembre 2011, n. 183 (c.d. legge di stabilità 2012),
non è più necessaria la convalida dell’accordo di trasformazione da parte della competente Direzione territoriale del lavoro (DTL).
33
Cfr. Cass. 4 maggio 2011, cit.; Min. Lav. Interpello 24 maggio 2005, n. 659.
34
Cfr. Cass. 21 novembre 2011, n. 24476, cit., secondo cui il datore di lavoro non può
unilateralmente disporre la riduzione a part time dell’orario di lavoro, e della relativa retribuzione, di un singolo lavoratore, anche se ciò è imputabile ad una crisi aziendale; Cass.
4 maggio 2011, n. 9769, cit.; Cass. 17 luglio 2006, n. 16169, in “Repertorio del Foro italiano”, 2006, voce Lavoro (rapporto), n. 950.
35
Tale consenso, quindi, non può desumersi da comportamenti concludenti. In questo senso, Cass. 14 luglio 2014, n. 16089, cit., p. 12.
36
Non è più previsto l’obbligo del datore di lavoro di motivare il rifiuto della richiesta di trasformazione (art. 5, co. 3, secondo periodo, vecchio testo, D.Lgs. n. 61/2000, abro-
19
Maria Novella Bettini
pendenti a tempo pieno, con applicazione dei criteri eventualmente previsti dai contratti collettivi. La violazione di tali criteri è stata ritenuta in contrasto con i principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.),
con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento del danno37; informare – “fatte salve eventuali previsioni più favorevoli dei contratti collettivi”
– le rappresentanze sindacali aziendali (r.s.a.) “ove esistenti, con cadenza
annuale, sull’andamento delle assunzioni a tempo parziale, la relativa tipologia ed il ricorso al lavoro supplementare” (art. 2, co. 1, D.Lgs. n. 61/2000,
come modificato dall’art. 85, co. 2, D.Lgs. n. 276/2003). Nel caso in cui il datore di lavoro non adempia a tale obbligo di informativa, si configura un’ipotesi di condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (L. 20 maggio1970, n. 300). Al contrario, invece, in assenza delle r.s.a.,
il datore di lavoro non sembra tenuto ad alcuna informativa.
La locuzione legislativa “fatte salve eventuali più favorevoli previsioni dei contratti collettivi” deve essere intesa, poi, nel senso che i contratti richiamati possono stabilire un termine più ampio rispetto a quello annuale in cui il datore di lavoro è tenuto a fornire le informazioni previste.
Come si vede, salvo l’adempimento di obblighi informativi nei confronti dei lavoratori e del sindacato, la discrezionalità datoriale nella gestione flessibile della risorsa umana risulta molto ampia, laddove si prevede che l’impresa sia tenuta soltanto a “prendere in considerazione” le
domande di trasformazione a tempo parziale del rapporto di lavoro presentate dai dipendenti. Tuttavia, essa si arresta di fronte alla necessità di
tutelare il posto di lavoro del dipendente e la sua salute. La legge prevede infatti che l’eventuale rifiuto da parte del lavoratore di sottoscrivere l’accordo di trasformazione non costituisce di per sé giustificato motivo di licenziamento (art. 5, co. 1, primo periodo, D.Lgs. n. 61/2000)38 e
gato dall’art. 46, co. 1, lett. o), D.Lgs. n. 276/2003). Il datore di lavoro, quindi, ha maggiore discrezionalità nella scelta di preferire le nuove assunzioni rispetto alla trasformazione
dei rapporti di lavoro in essere.
37
Cfr. Cass. 4 maggio 2011, n. 9769, cit., secondo cui “in tema di prestazioni di lavoro subordinato (nella specie, presso aziende di credito), la mancata concessione della trasformazione a «part time» del rapporto di lavoro a tempo pieno, ove nel caso concreto quest’ultima risulti giuridicamente doverosa, ai sensi e per gli effetti della contrattazione collettiva, costituisce violazione dei criteri di buona fede e correttezza che debbono ispirare
l’esecuzione del contratto e, quindi, inadempimento contrattuale, di cui si può chiedere l’accertamento in relazione alla domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla mancata trasformazione del rapporto di lavoro”.
38
Tuttavia, come rilevato in dottrina, la direttiva comunitaria (n. 81/1997) consente il licenziamento per esigenze aziendali laddove la conservazione dell’occupazione sia
possibile solo attraverso la trasformazione in questione “spingendo verso una interpretazione conforme al diritto interno laddove il motivo del licenziamento non sia il rifiuto, ma
20
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
che i lavoratori del settore pubblico39 e del settore privato affetti da patologie oncologiche, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa,
anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita, accertata da
una commissione medica istituita presso l’azienda unità sanitaria locale (AUSL) territorialmente competente, hanno diritto alla trasformazione
del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale verticale od orizzontale (non misto) (art. 12-bis, co. 1, primo periodo, D.Lgs. n.
61/2000, introdotto dall’art. 46, co. 1, lett. t), D.Lgs. n. 276/2003, e modificato dall’art. 1, co. 44, lett. d), L. n. 247/2007)40. Inoltre, il rapporto di la-
la situazione aziendale”. Cfr. A. VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro, cit., p. 805.
Nello specifico, «la clausola 5, punto 2 dell’accordo quadro 6 giugno 1997 allegato
alla direttiva 97/81/CE, prevede che il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un
lavoro a tempo pieno a uno a tempo parziale, o viceversa, non deve, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento (e tale precetto ha trovato attuazione nel diritto
interno con l’art. 5 del d.lgs. n. 61 del 2000). Tuttavia, la stessa disposizione comunitaria
precisa subito dopo che, in tale evenienza, il licenziamento è, comunque, ammesso (conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali) per altre ragioni, segnatamente per quelle che possono risultare da «necessità di funzionamento dello stabilimento» (assimilabili al giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della legge 15 luglio 1966,
n. 604, recante «Norme sui licenziamenti individuali», ergo alle ragioni organizzative della pubblica amministrazione).
Ciò vuol dire che il licenziamento è vietato solo quando il rifiuto della trasformazione da parte del lavoratore costituisce la sua ragione esclusiva e mancano motivi ulteriori rispetto ai quali l’elemento della prestazione a tempo parziale venga in rilievo solo
di riflesso. In presenza, infatti, di effettive esigenze organizzative, tecniche o produttive che
impongano la trasformazione del rapporto, l’indisponibilità del lavoratore al mutamento
risulta ingiustificata e può dare anche luogo, in casi estremi, al suo licenziamento.
In buona sostanza, il diritto europeo è primariamente finalizzato a tutelare il lavoro part
time e a impedirne ogni forma di discriminazione, anche in fase di trasformazione del rapporto. Nel contempo, però, esso dà la necessaria rilevanza alle esigenze organizzative, tecniche
o produttive che possono imporre modifiche della posizione lavorativa ovvero del regime temporale della prestazione. Solo in tali circostanze, il rifiuto opposto dal lavoratore alla trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno può autorizzare, al limite, l’estromissione dal posto (sempreché sia da escludere qualunque possibilità di mantenerlo in servizio
part time)». Così, Corte Cost. 19 luglio 2013, n. 224, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”,
2014, II, p. 320, con nota di E. PASQUALETTO, Il potere di nuova valutazione dei part time già concordato con la PA e il ripudio della logica del consenso. V. anche Cass. 14 luglio 2014, n. 16089, cit.,
secondo cui non è consentito ai contratti collettivi aziendali trasformare a tempo parziale i contratti di lavoro a tempo pieno già in atto senza il consenso scritto dei lavoratori interessati, il
cui rifiuto non costituisce, comunque, giustificato motivo di licenziamento.
39
Nel settore pubblico, tale disposizione si applica in considerazione del suo carattere di specialità rispetto alla disciplina generale che prevede l’insussistenza di un diritto
alla trasformazione del rapporto (art. 1, co. 58, L. n. 662/1996, modificato dall’art. 73, D.L.
n. 112/2008, conv. dalla L. n. 133/2008; Dip. Funzione Pubblica Circ. 30 aprile 2009, n. 1).
40
Secondo l’interpretazione del Ministero del Lavoro, il diritto del lavoratore (o della lavoratrice) a richiedere la trasformazione del contratto è un diritto soggettivo che mira
21
Maria Novella Bettini
voro a tempo parziale deve essere trasformato nuovamente in rapporto di
lavoro a tempo pieno a richiesta del lavoratore (basta, quindi, una semplice domanda per la quale la legge non prevede nemmeno la forma scritta).
“Restano in ogni caso salve disposizioni più favorevoli per il prestatore di
lavoro” (art. 12-bis, co.1, secondo periodo, D.Lgs. n. 61/2000).
Sempre nelle stessa linea si pone la previsione secondo cui Il lavoratore (o la lavoratrice) con contratto di lavoro a tempo pieno ha un diritto di priorità (non di trasformazione tout court) nella trasformazione
del contratto da tempo pieno a tempo parziale (purché il datore di lavoro ritenga di dover ricorrere a prestazioni di lavoro part time. V. art. 12bis, co. 2 e 3, D.Lgs. n. 61/2000, introdotto dall’art. 1, co. 44, lett. d), L. n.
247/2007): nel caso di patologie oncologiche che riguardano il coniuge,
i figli o i genitori; qualora assista una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa, che assuma connotazione di gravità41, alla
quale è stata riconosciuta una percentuale di invalidità pari al 100%, con
necessità di assistenza continua in quanto non in grado di compiere gli
atti quotidiani della vita; o laddove abbia un figlio convivente42 di età non
superiore a 13 anni ovvero un figlio convivente portatore di handicap.
Nell’impiego pubblico, la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale43, è subordinata alla valutazione discrezionale
della Amministrazione (art. 1, co. 58, L. 23 dicembre 1996, n. 662, come modificato dall’art. 73, L. 6 agosto 2008, n. 133, di conversione del D.L. 25 giugno 2008, n. 112; Dip. Funzione Pubblica Circ. 30 giugno 2011, n. 9)44.
La nuova disciplina supera la precedente regolamentazione che era
fondata sul c.d. principio di “automaticità” della trasformazione del contratto da tempo pieno a tempo parziale. Sicché, allo stato attuale, a fron-
a tutelarne, unitamente alla salute, la professionalità e la partecipazione al lavoro, come
importante strumento di integrazione sociale e di permanenza nella vita attiva (Min. Lav.
Circ. 22 dicembre 2005, n. 40).
41
Ai sensi dell’art. 3, co. 3, L. 5 febbraio 1992, n. 104.
42
Per quanto riguarda il requisito della convivenza, il Min. Lav. (Circ.18 febbraio 2010,
n. 3884) ha precisato che il familiare che assiste e l’assistito devono abitare nel medesimo
palazzo e numero civico, ancorché non nel medesimo appartamento.
43
V. Cass. 13 ottobre 2011, n. 21036, in “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”,
2011, p. 753, in tema di condizioni previste per la trasformazione del rapporto di lavoro a
part time in quello a tempo pieno dei dipendenti del comparto Ministeri.
44
Nel regime precedente alla riforma del 2008, l’art. 1, co. 58, L. n. 662/1996, riconosceva ai lavoratori pubblici un vero e proprio diritto potestativo alla trasformazione del
rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. L’Amministrazione poteva rifiutare
tale trasformazione solo in caso di conflitto d’interessi con la specifica attività di servizio
del dipendente e, pur in presenza di grave pregiudizio alla funzionalità dell’organizzazione, poteva soltanto differirla per un periodo massimo semestrale, ma non negarla.
22
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
te di un’stanza di trasformazione presentata dal lavoratore, la trasformazione non avviene in modo automatico, né l’Amministrazione ha l’obbligo di accoglierla; quest’ultima, infatti, ha il potere di valutare i presupposti della trasformazione che “può” essere concessa entro 60 giorni dalla richiesta del dipendente”.
Nell’istanza di trasformazione, soggetta a valutazione discrezionale dell’Amministrazione, il lavoratore deve indicare l’eventuale attività
di lavoro subordinato o autonomo che intende svolgere, nonché comunicare, entro 15 giorni, all’Amministrazione di appartenenza, l’eventuale successivo inizio o la variazione dell’attività lavorativa dichiarata, a
pena di licenziamento per giusta causa, applicabile anche nel caso di comunicazione non veritiera (art. 1, co. 58 e 61, L. n. 662/1996).
La valutazione dell’istanza da parte dell’Amministrazione si deve
basare su 3 elementi:
1. contingente di personale: la trasformazione non può essere concessa
quando il contingente di personale con contratto part-time abbia già raggiunto la percentuale del 25%, calcolata sul numero complessivo di dipendenti a tempo pieno di ciascuna qualifica funzionale (art. 22, co. 20,
L. 20 dicembre 1994, n. 724; art. 1, co. 58-ter, L. n. 662/1996; Dip. Funzione Pubblica Circ. 18 luglio 1997, n. 6);
2. oggetto dell’attività: la trasformazione deve essere negata quando:
a) il passaggio al tempo parziale è richiesto per lo svolgimento di una
seconda attività (subordinata o autonoma) che risulti in conflitto di
interessi con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente; b)
il dipendente richiede la trasformazione al fine di svolgere un’attività con altra Amministrazione pubblica (a meno che non si tratti di
dipendente di ente locale per lo svolgimento di prestazione in favore di altro ente locale);
3. impatto organizzativo della trasformazione: l’Amministrazione può denegare la trasformazione quando dall’accoglimento della stessa deriverebbe un pregiudizio alla funzionalità dell’Amministrazione stessa,
in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal
dipendente.
In caso di esito negativo della valutazione, l’Amministrazione deve
dare conto delle scelte effettuate, mediante una dettagliata motivazione
del provvedimento di diniego (Dip. Funzione Pubblica Circ. n. 9/2011)45.
45
La legge attribuisce ad alcune categorie di lavoratori un diritto di precedenza nella trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale (art. 7, co. 3, D.Lgs. n.
165/2001 - “Le amministrazioni pubbliche individuano criteri certi di priorità nell’impie-
23
Maria Novella Bettini
A tal fine, la motivazione deve essere fornita in termini chiari e sufficientemente puntuali, evitando l’utilizzo di clausole generali o formulazioni generiche46.
5. Trasformazione del rapporto di lavoro da part time a tempo pieno e
diritti di precedenza
La trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, essendo considerata dal legislatore “vantaggiosa”
go flessibile del personale, purché compatibile con l’organizzazione degli uffici e del lavoro, a favore dei dipendenti in situazioni di svantaggio personale, sociale e familiare e dei
dipendenti impegnati in attività di volontariato ai sensi della legge 11 agosto 1991, n. 266”
- e art. 12-bis, D.Lgs. n. 61/2000, che, sul punto, ha implicitamente abrogato l’art. 1, co. 64,
L. n. 662/1996, che individuava le cause di precedenza nella trasformazione del rapporto). Con la conseguenza che la domanda dell’interessato deve essere valutata dall’Amministrazione “con priorità” rispetto a quella degli altri dipendenti concorrenti.
Nello specifico, in presenza di un numero di domande eccedenti la capienza, hanno diritto di precedenza, rispettivamente: 1. i lavoratori il cui coniuge, figli o genitori siano affetti da patologie oncologiche; 2. i lavoratori che assistono una persona convivente con
totale e permanente inabilità lavorativa, che abbia connotazione di gravità ai sensi dell’art.
3, co. 3, L. 5 febbraio 1992, n. 104, con riconoscimento di un’invalidità pari al 100% e necessità di assistenza continua in quanto non in grado di compiere gli atti quotidiani della
vita; 3. i lavoratori con figli conviventi di età non superiore a 13 anni; 4. i lavoratori con figli conviventi in situazione di handicap grave ai sensi dell’art. 3, co. 3, L. n. 104/1992. Un’analoga situazione di tutela è prevista a favore dei familiari di studenti che presentano la sindrome DSA (disturbi specifici di apprendimento, quali la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia (cfr. art. 1, co. 1, L. n. 170/2010). Per i lavoratori che prestano assistenza a tali categorie di soggetti, la L. 8 ottobre 2010, n. 170 (art. 6), prevede il diritto “a
fruire di orari di lavoro flessibili”.
46
L’art. 73, L. 6 agosto 2008, n. 133, di conversione del D.L. 25 giugno 2008, n. 112,
modificando il richiamato art. 1, co. 58, L. n. 662/1996, ha concesso alla Pubblica Amministrazione «la facoltà di valutare entro sessanta giorni dalla domanda di part time se accoglierla o meno e, segnatamente, di ricusare la trasformazione in tal senso del rapporto,
non solo nel caso in cui l’attività lavorativa (ulteriore) di lavoro autonomo o subordinato
comporti un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente, ma anche tutte le volte che la trasformazione determini, in relazione alle mansioni e alla
posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, un pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa.
È quindi intervenuto l’art. 16 della legge n. 183 del 2010, che prevede la possibilità
di rinnovare la valutazione ad iniziativa delle pubbliche amministrazioni dei rapporti di
lavoro già trasformati da full time a part time alla stregua del disposto originario dell’art.
1, comma 58, della legge n. 662 del 1996. … In forza dell’art. 16, la riconferma di tali provvedimenti può essere negata nell’arco temporale di un semestre. Solo, però, quando questi siano tali da arrecare alla funzionalità dell’amministrazione un pregiudizio analogo a
quello che preclude la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale secondo le nuove disposizioni». Cfr. Corte Cost. 19 luglio 2013, n. 224, cit.
24
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
per il dipendente, richiede solo l’accordo tra le parti47, ovvero un comportamento concludente48, senza obblighi di forma e/o di convalida in
sede amministrativa presso la Direzione Territoriale del Lavoro (Min. Lav.
Circ. 18 marzo 2004, n. 9, punto 6)49.
Anche in questo caso, il legislatore cerca di salvaguardare l’occupazione del lavoratore sia stabilendo che il suo eventuale rifiuto di sottoscrivere l’accordo di trasformazione non costituisce di per sé giustificato motivo di licenziamento (art. 5, co. 1, primo periodo, D.Lgs. n.
61/2000); sia ammettendo la possibilità che il contratto individuale di lavoro preveda un diritto di precedenza in favore del dipendente già assunto a tempo parziale “fin dall’inizio”, senza trasformazioni, presso “unità produttive site nello stesso ambito comunale, adibiti alle stesse mansioni o a mansioni equivalenti” rispetto a quelle con riguardo alle quali è prevista l’assunzione (art. 5, co. 2, D.Lgs. n. 61/2000, come sostituito dall’art. 46, co. 1, lett. o), D.Lgs. n. 276/2003)50; nonché disponendo,
a favore del lavoratore che abbia trasformato il rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale, un diritto di precedenza legale nelle assunzioni a tempo pieno per l’espletamento delle stesse
mansioni, ovvero equivalenti51 a quelle oggetto del contratto di lavoro
47
Cfr. Cass. 19 luglio 2011, n. 15774, cit.; Cass. 13 marzo 2009, n. 6226, cit.; Cass. 11
febbraio 2008, n. 3228, cit.; Cass. 18 marzo 2004, n. 5520, cit. Secondo Corte di Giustizia UE
14 ottobre 2014, C. 221/13, nell’impiego pubblico per la trasformazione del rapporto di lavoro da part time a tempo pieno non è necessario il consenso del lavoratore.
48
Cfr. Cass. 30 maggio 2011, n. 11905, cit., preceduta dalla nota di S. CAPARELLO, cit.
49
L’avvenuta trasformazione del rapporto va però comunicata, a cura del datore di lavoro, al Centro per l’impiego competente in relazione alla sede di lavoro nel termine di 5 giorni, mediante l’apposita procedura on line (art. 4-bis, co. 5, lett. c), D.Lgs. 21 aprile 2000, n. 181,
come modificato dall’art. 5, co. 4, L. 4 novembre 2010, n. 183; Min. Lav. Circ. n. 9/2004, punto 5; 24 novembre 2003, n. 37, punto 4; 7 aprile 2003, n. 12, punto 5; Min. Lav. Nota n. 440/2007).
50
In tema, v. M. DE CRISTOFARO, Precedenza e priorità per il passaggio al tempo pieno o al tempo parziale, in “Diritto del lavoro”, 2001, I, p. 427; P. PASSALACQUA, L’assetto del lavoro a tempo parziale … , cit., p. 559; Cass. 26 aprile 2013, n. 1075, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”,
2013, p. 602, (M); Cass. 17 maggio 2012, n. 7752, in “Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale”, 2013, II, 74, con nota di M. ALTIMARI, Il diritto di precedenza dei lavoratori a tempo
parziale in caso di assunzioni a tempo pieno; Cass. 21 luglio 2005, n. 15312, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2006, II, p. 578, con nota di F. ALVARO, Sul diritto di precedenza dei lavoratori a tempo parziale in caso di assunzione di personale a tempo pieno, ha stabilito che il diritto di precedenza
dei part-timers “ trova applicazione soltanto in ipotesi di nuove assunzioni e nei confronti dei
neoassunti con contratto a tempo pieno”. In caso di violazione del diritto di precedenza da parte del datore di lavoro, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno in misura corrispondente alla differenza tra l’importo della retribuzione percepita e quella che avrebbe percepito nei
sei mesi successivi al passaggio dal tempo parziale al tempo pieno (art. 8, co. 3, D.Lgs. n. 61/2000).
51
Cfr. M.N. BETTINI, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Torino, Giappichelli, 2014, p. 175.
25
Maria Novella Bettini
a tempo parziale (art. 12-ter, D.Lgs. n. 61/2000, introdotto dall’art. 1, co.
44, lett. e), L. 24 dicembre 2007, n. 247) 52.
6. L’ “adattabilità” produttivo-qualitativa: il lavoro supplementare e straordinario
Negli anni recenti, le modalità temporali della attività lavorativa hanno subito mutamenti sempre più funzionali alla flessibilità correlata alle
esigenze di produzione delle imprese ed alla qualità di vita dei lavoratori. La complessa intersezione fra tempo libero e di lavoro53 appare perciò orientata verso l’“abbinamento” delle questioni temporali della prestazione con concetti compositi, legati alle generali esigenze della produttività e della quotidianità, intese anche come “disponibilià”, “programmabilità”, “prevedibilità” e “continuità” della prestazione.
In questo contesto, non poteva non subire condizionamenti il tipo
di prestazione svolto in regime di part time, per il quale si è posta l’esigenza di realizzare forme di “elasticità ed adattabilità produttivo-qualitativa” attraverso il prolungamento dell’orario, con il lavoro supplementare e straordinario, e la variabilità della durata e della collocazione dei
tempi lavorativi.
Nell’ ipotesi di lavoro supplementare (prestazione svolta oltre l’orario concordato dalle parti nel contratto individuale ed entro il limite del
tempo pieno: art. 1, co. 2, lett. e), D.Lgs. n. 61/2000), la legge ha previsto che il datore di lavoro possa richiedere lo svolgimento di prestazioni supplementari rispetto a quelle concordate con il lavoratore nel contratto individuale: sia nel part time orizzontale, anche a tempo determinato (art. 3, co. 1, D.Lgs. n. 61/2000, come modificato dall’art. 46, co. 1,
D.Lgs. n. 276/2003), che nel part time verticale o misto, tutte le volte in
cui la prestazione pattuita sia inferiore al limite legale del tempo pieno,
definito in 40 ore settimanali (art. 3, co. 1, D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66) o
nell’“eventuale minor orario normale fissato dai contratti collettivi ap-
52
In questa ipotesi, però, non è necessario uno specifico atto o patto tra le parti; né
è prevista alcuna specifica sanzione in caso di violazione del diritto di precedenza. È, tuttavia, possibile che il lavoratore provi l’esistenza di un danno risarcibile per l’omesso rispetto del diritto di precedenza. E’ stata evidenziata, inoltre, la mancata previsione di una
scadenza temporale, nonché di un limite geografico per l’esercizio del diritto stesso (tanto da poter essere attuato presso tutte le unità produttive dell’azienda interessata). Cfr. Fondazione Studi Consulenti del Lavoro – Parere 10.02.2012, n. 3.
53
Su cui v., V. FERRANTE, Il tempo di lavoro tra tempo e produttività, Torino, Giappichelli, 2008.
26
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
plicati” (art. 1, co. 2, lett. a), D.Lgs. n. 61/2000; Min. Lav. Circ. 24 agosto
2004, n. 57; Min. Lav. Circ. 18 marzo 2004, n. 9).
Il legislatore, tuttavia, per evitare facili elusioni del tempo parziale, affida il governo della flessibilità all’autonomia collettiva (contratti collettivi di qualsiasi livello) (art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 61/2000, come modificato dall’art. 46, co. 2, D.Lgs. n. 276/2003), deputata a stabilire il numero massimo di ore di lavoro supplementare effettuabili; le causali che legittimano la richiesta di ricorso al lavoro supplementare da parte del datore di lavoro; e le conseguenze derivanti dal superamento dei limiti massimi di ore di lavoro supplementare concordati in sede collettiva54.
Anche il trattamento economico riconosciuto al lavoratore per le prestazioni supplementari è determinato dai contratti collettivi, che possono prevedere in via alternativa una equiparazione retributiva (vale a dire
che le ore di lavoro supplementare sono retribuite come ore ordinarie,
anche se eccedenti quelle contrattualmente concordate) ovvero una maggiorazione retributiva, vale a dire l’attribuzione di una percentuale di maggiorazione, da applicare sull’importo della retribuzione oraria globale di
fatto dovuta in relazione al lavoro supplementare. I medesimi contratti
collettivi possono altresì stabilire che l’incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti (ad es.:
mensilità aggiuntive; compenso per ferie; trattamento di fine rapporto)
sia determinata convenzionalmente, mediante l’applicazione di una maggiorazione forfettaria sulla retribuzione dovuta per la singola ora di lavoro supplementare (art. 3, co. 4, D.Lgs. n. 61/2000; Min. Lav. Circ. n.
9/2004, punto 5).
A tutela del lavoratore, si stabilisce poi che, in presenza di apposita disciplina stabilita dal contratto collettivo, non è richiesto il consenso
del lavoratore per l’effettuazione delle prestazioni di lavoro supplementare, il quale, viceversa, è obbligato alla prestazione aggiuntiva (art. 3, co.
3, D.Lgs. n. 61/2000; Min. Lav. Circ. n. 57/2004; Min. Lav. Circ. n. 9/2004,
punto 5). Invece, nell’ipotesi in cui il contratto collettivo non disciplini
lo svolgimento del lavoro supplementare, per il ricorso a tali prestazioni è richiesto il consenso del lavoratore, che può prestarlo ad hoc oppure nel contratto individuale di lavoro (art. 3, co. 3, D.Lgs. n. 61/2000)55.
54
In caso di superamento dei limiti previsti dal contratto collettivo, il termine “conseguenze” va “interpretato nel senso che tali conseguenze non devono essere di natura necessariamente economica (per esempio riposi compensativi)”: Min. Lav. Circ. n. 9/2004,
punto 5).
55
In altri termini, quando il contratto collettivo applicabile non regolamenta le prestazioni supplementari, l’effettuazione delle medesime può essere direttamente concorda-
27
Maria Novella Bettini
A loro volta, le prestazioni di lavoro straordinario (quello che eccede
il normale orario di lavoro settimanale - 40 ore - ovvero il minor orario
definito contrattualmente: art. 1, co. 2, lett. c), D.Lgs. n. 66/2003), sono
ammesse unicamente nel part time di tipo verticale o misto, anche a termine (art. 3, co. 5, D.Lgs. n. 61/2000, come modificato dall’art. 46, co. 1,
lett. h), D.Lgs. n. 276/2003). Con la regola che nei rapporti part time di
tipo verticale (in cu il contratto prevede lo svolgimento della prestazione lavorativa a tempo pieno, ma limitatamente a periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell’anno) o misto (in cui il rapporto di lavoro a tempo parziale è svolto secondo una combinazione della forma orizzontale - riduzione di orario rispetto all’orario normale giornaliero di lavoro - e verticale) si considerano straordinarie le ore prestate oltre la 40ª ora settimanale (ovvero oltre il minor orario stabilito dai
contratti collettivi), indipendentemente dal numero di ore effettuate giornalmente.
Pertanto, in tali tipologie di part time, le prestazioni lavorative straordinarie sono consentite solo ove il tempo pieno settimanale sia stato
raggiunto (Min. Lav. Circ. 24 agosto 2004, n. 57; Min. Lav. Circ. 18 marzo 2004, n. 9, punto 5). In caso contrario, la variazione in aumento dell’orario di lavoro potrà essere gestita mediante il ricorso a “clausole elastiche” ovvero al “lavoro supplementare”.
Alle prestazioni lavorative straordinarie si applica la disciplina legale e contrattuale vigente in materia di lavoro straordinario nei rapporti a tempo pieno (Min. Lav. Circ. n. 57/2004), che offre ampio spazio alla regolazione collettiva dell’istituto: le eventuali modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro straordinario sono infatti stabilite
dai contratti collettivi (art. 5, co. 2, D.Lgs. n. 66/2003); in difetto di disciplina collettiva applicabile, lo svolgimento di tali prestazioni è ammesso entro un limite massimo di 250 ore annuali e soltanto previo accordo tra le parti, vale a dire con il consenso del lavoratore (art. 5, co.
3, D.Lgs. n. 66/2003).
Le prestazioni di lavoro straordinario sono compensate con apposite maggiorazioni retributive nella misura prevista dai contratti collettivi o, in alternativa, con riposi compensativi (art. 5, co. 5, D.Lgs. n.
66/2003).
ta nel contratto individuale (Min. Lav. Interpello 24 maggio 2005, n. 659). In ogni caso, il
rifiuto del lavoratore allo svolgimento delle prestazioni supplementari non può costituire giustificato motivo di licenziamento (art. 3, co. 3, D.Lgs. n. 61/2000), potendo eventualmente configurare un fatto disciplinarmente rilevante il rifiuto illegittimo delle prestazioni medesime (Min. Lav. Circ. n. 9/2004, punto 5).
28
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
7. La variazione della durata e della collocazione temporale
Un ulteriore significativo esempio di flessibilità “controllata” dell’orario di lavoro attiene alla durata ed alla collocazione temporale della prestazione lavorativa. Il nucleo di regole protettive del lavoratore, e
dunque rigide, in base alle quali il contratto di lavoro a part time deve contenere una “puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario56 con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno” (art. 2, co. 2, D.Lgs. 25 febbraio 2000,
n. 61, e successive modifiche ed integrazioni), risulta infatti temperato
da una serie di previsioni che, per un verso, puntano alla conservazione del contratto di lavoro nell’ipotesi di omessa indicazione di uno dei
56
Cfr. App. Torino 5 ottobre 2010, n. 786, in “Guida al lavoro”, 2010, n. 48, p. 34 (riguardante le clausole di collocazione o distribuzione dell’orario part time). Secondo Trib. Milano
12 settembre 2008 (in “Il lavoro nella giurisprudenza”, 2009, p. 201), il ricorso al termine “distribuzione” ed il riferimento congiunto a tutti i parametri temporali denotano con chiarezza che il legislatore non ha considerato sufficiente che il contratto specifichi il numero di ore
di lavoro al giorno in cui la prestazione lavorativa deve svolgersi, ma ha inteso stabilire che,
se le parti si accordano per un orario giornaliero di lavoro inferiore a quello ordinario, di tale
orario giornaliero deve essere determinata la distribuzione e cioè la collocazione nell’arco della giornata (pertanto: a) se le parti hanno convenuto che il lavoro abbia a svolgersi in un numero di giorni alla settimana inferiore a quello normale, la distribuzione di tali giorni nell’arco della settimana deve essere preventivamente stabilita; b) se le parti hanno pattuito che la
prestazione lavorativa debba occupare solo alcune settimane o alcuni mesi, deve essere preventivamente determinato dal contratto quali sono le settimane e i mesi in cui l’impegno lavorativo dovrà essere adempiuto). Distribuzione dell’orario nel part time verticale, secondo l’interpretazione del Ministero del Lavoro (Min. Lav. Interpello 20 febbraio 2009, n. 11), nell’ipotesi di un contratto part time di tipo verticale non è previsto un obbligo di legge di indicare le
fasce orarie in cui la prestazione deve essere svolta nell’ambito della singola giornata, essendo sufficiente indicare nel contratto il quantum della prestazione giornaliera (es. lunedì, 8 ore,
giovedì, 8 ore e venerdì, 8 ore). Part time e articolazione su turni. La contrattazione collettiva può
individuare clausole che prevedano l’organizzazione del lavoro part time articolata su turni
predefiniti, purché al dipendente part time a turni sia applicato lo stesso trattamento economico-normativo previsto per il turnista con orario pieno sulla base del principio di non discriminazione di cui all’art. 4, D.Lgs. n. 61/2000 (Cass. 28 luglio 2011, n. 16584, cit., secondo cui
il mancato riproporzionamento della retribuzione oraria di una lavoratrice assunta con contratto a tempo indeterminato in regime di part time verticale rispetto a quella dei suoi colleghi a tempo pieno, impiegati in un sistema di turnazione continua ed avvicendata, costituisce violazione del predetto principio di non discriminazione; secondo Trib. Milano 11 giugno
2007, in “ Il lavoro nella giurisprudenza”, 2008, p. 319, l’articolazione su turni del lavoro part
time è ammissibile poiché nella disciplina vigente “non c’è alcuna norma che vieti il lavoro
su turni avvicendati, sicché, ove questo sia concordato preventivamente o a livello individuale o a livello collettivo e siano specificate le fasce orarie entro le quali può essere collocata la
prestazione di lavoro del dipendente, il requisito legale di cui all’art. 2, D.Lgs. n. 61/2000 [vale
a dire la puntuale indicazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa] può
dirsi soddisfatto”).
29
Maria Novella Bettini
due elementi; e, per l’altro, appaiono finalizzate ad “adattare” la prestazione sia alle esigenze dell’impresa che alla sfera privata del lavoratore
a tempo parziale, anche nel senso di consentirgli di svolgere un’eventuale ulteriore attività lavorativa, nonché di disporre liberamente del proprio tempo di vita57.
Tuttavia, a motivo delle essenziali garanzie a salvaguardia della parte più debole del rapporto di lavoro, le sanzioni nelle ipotesi di omessa indicazione di uno dei due elementi sono funzionali alla conservazione del
contratto di lavoro (o, se si vuole, del posto di lavoro) e della retribuzione.
L’eventuale mancanza o indeterminatezza nel contratto della durata della prestazione lavorativa non determina infatti la nullità del contratto di lavoro part time (art. 8, co. 2, primo periodo, D.Lgs. n. 61/2000;
Min. Lav. Circ. 24 agosto 2004, n. 57) e (ma solo) su richiesta del lavoratore, il giudice può dichiarare la sussistenza fra le parti di un rapporto
di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale (art. 8, co. 2, secondo periodo, D.Lgs. n. 61/2000).
Neppure l’assenza o indeterminatezza nel contratto della distribuzione dell’orario comporta la nullità del contratto di lavoro a tempo parziale. Tuttavia, diversamente da quanto previsto in materia di omessa indicazione della durata, quando manchi l’indicazione della collocazione temporale, il giudice provvede a determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale, con riferimento alle
previsioni dei contratti collettivi, o, in mancanza, con valutazione equitativa. Ciò, tenendo conto, in particolare: 1. delle responsabilità familiari del
lavoratore interessato; 2. della sua necessità di integrazione del reddito assicurato dal rapporto a tempo parziale con quello derivante dallo svolgimento di altra attività lavorativa; 3. nonché delle esigenze del datore di lavoro (art. 8, co. 2, terzo periodo, D.Lgs. n. 61/2000).
Sia nel caso di omissione della durata della prestazione lavorativa
che di omissione della collocazione temporale dell’orario, il lavoratore
– per il periodo antecedente la data della pronuncia della sentenza da parte del giudice adito – ha poi diritto, oltre alla retribuzione dovuta per le
57
In un contratto di lavoro a tempo parziale totalmente libero da qualsivoglia predeterminazione in termini di distribuzione e/o durata della prestazione richiesta, a fronte della totale discrezionalità del datore di lavoro di stabilire se e quando prestare l’attività, la disponibilità del lavoratore deve trovare adeguato compenso. Tale principio è stato affermato da Cass.
5 novembre 2014, n. 23600, in “Guida al lavoro” 2014, n. 45, p. 44, secondo cui la disponibilità
alla chiamata del datore di lavoro, pur non potendosi equiparare a lavoro effettivo, deve, comunque, trovare adeguato compenso, tenendo conto di un complesso di circostanze a tal fine
significative, tra le quali l’incidenza sulla possibilità di attendere ad altre attività e il tempo di
preavviso previsto o di fatto osservato per la richiesta di lavoro “a comando”.
30
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
prestazioni già svolte, anche ad un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno, da liquidarsi con valutazione equitativa (art. 8, co. 2, quarto periodo, D.Lgs. n. 61/2000)58.
Quanto al secondo aspetto, relativo alla modifica della durata e della collocazione temporale della prestazione di lavoro, non v’è dubbio che
esse, in quanto elementi essenziali legati all’oggetto del contratto a tempo parziale, possono essere modificate soltanto mediante il consenso delle parti. A fronte della regolamentazione contrattuale, il datore di lavoro non può cioè variare unilateralmente la durata o la collocazione temporale della prestazione pattuita con il lavoratore59. La legge ammette però
il c.d. patto di variabilità, ossia la possibilità, per il contratto individuale di lavoro, di prevedere le c.d. “clausole di variabilità”, ossia: a) “clausole elastiche”, per il solo part time verticale o misto; b) “clausole flessibili”, per le diverse tipologie di part time (art. 3, co. 7, D.Lgs. n. 61/2000,
e successive modifiche ed integrazioni)60.
Le clausole “elastiche” consentono al datore, nel part time verticale e misto, di aumentare la durata della prestazione lavorativa fino al limite di quella “normale” del lavoro a tempo pieno - ad esempio, da 30
a 35 ore settimanali; viceversa, le clausole “flessibili” consentono al datore di lavoro, nell’ambito del part time orizzontale, di variare la collocazione temporale della prestazione lavorativa - ad esempio, dalla mattina al pomeriggio - senza mutamento della quantità di lavoro.
Anche per il patto di variabilità, la legge dà ampio spazio all’autonomia sindacale. I contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale possono stabilire le condizioni
e le modalità per l’applicazione delle clausole elastiche e flessibili, determinando anche “i limiti massimi di variabilità in aumento della durata della
58
Le controversie sulla durata o sulla collocazione temporale della prestazione lavorativa possono essere risolte, oltre che mediante ricorso all’autorità giudiziaria, anche
mediante le procedure di conciliazione ed eventualmente di arbitrato previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro (art. 8, co. 2, sesto periodo, D.Lgs. n. 61/2000).
59
V. Cass. 4 settembre 2012, n. 14833, in “Notiziario di giurisprudenza del lavoro”,
2012, p. 622, secondo cui il rifiuto del lavoratore alla proposta del datore di lavoro di svolgere la prestazione lavorativa secondo nuovi orari nell’ambito di un rapporto di lavoro
parziale non può essere considerato motivo sufficiente per giustificare il licenziamento;
Cass. 17 marzo 2003, n. 3898, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2003, p. 593,
con nota di S. BRUZZONE, Il lavoro a tempo parziale e la modificazione dell’orario inizialmente
pattuito; Cass. 22 marzo 1990, n. 2382, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 1990, II,
p. 630, con nota di P. ICHINO, Interessi individuali, collettivi e dell’impresa in materia di distribuzione dell’orario di lavoro.
60
L’inserzione nel contratto part time di clausole flessibili o elastiche è possibile anche nelle ipotesi di contratto di lavoro a termine (art. 3, co. 10, D.Lgs. n. 61/2000).
31
Maria Novella Bettini
prestazione lavorativa” (art. 3, co. 7, nn. 1, 2 e 3, D.Lgs. n. 61/2000).
Ai contratti collettivi spetta altresì il compito di stabilire condizioni e modalità con le quali il lavoratore può richiedere l’eliminazione oppure la modifica delle clausole elastiche o flessibili precedentemente concordate con il datore di lavoro (art. 3, co. 7, n. 3-bis, D.Lgs. n. 61/2000, introdotto dall’art. 1, co. 20, lett. a), L. 28 giugno 2012, n. 92)61.
Tuttavia, la delega all’autonomia sindacale risulta “conterminata”
da una rete di regole rigide, fissate dalla legge allo scopo di assistere il
lavoratore nella sua facoltà di disporre del suo tempo di lavoro e di tutelare particolari categorie di soggetti “deboli”.
Così, l’esercizio da parte del datore di lavoro del potere di variare
in aumento la durata della prestazione lavorativa (clausola elastica), nonché di modificare la collocazione temporale della stessa (clausola flessibile), comporta, a favore del prestatore di lavoro, il riconoscimento del
diritto ad un preavviso di due giorni lavorativi ed a specifiche compensazioni, “nella misura ovvero nelle forme fissate dai contratti collettivi”
(quali, ad esempio, maggiorazioni retributive o riposi compensativi) (art.
3, co. 8, D.Lgs. n. 61/2000).
Il patto di variabilità, inoltre, richiede il consenso del lavoratore, che
deve essere formalizzato in forma scritta62 e può essere “anche contestuale
al contratto di lavoro” (art. 3, co. 9, D.Lgs. n. 61/2000). Tale consenso è “reso,
su richiesta del lavoratore, con l’assistenza di un componente della rappresentanza sindacale aziendale (r.s.a.) indicato dal lavoratore medesimo”.
In ogni caso, l’eventuale rifiuto del lavoratore di stipulare il patto
di variabilità non costituisce giustificato motivo di licenziamento, indipendentemente dal fatto che esista o meno una regolamentazione collettiva in materia di clausole flessibili o elastiche per l’utilizzo del part time63
e, a protezione dei soggetti “deboli”, è riconosciuta in via legale la possibilità di recedere dal patto di variabilità (art. 3, co. 9, D.Lgs. n.
61
Cfr. R. VOZA, Il diritto di ripensamento nel part-time dopo la legge n. 92/2012, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2013, p. 541.
62
Secondo Trib. Milano 4 maggio 2007, in “Orientamenti di giurisprudenza del lavoro”, 2007, I, p. 504, in mancanza del consenso scritto del lavoratore, il giudice deve provvedere alla determinazione dell’orario di lavoro, tenendo conto delle esigenze oggettive
sia del lavoratore che del datore di lavoro.
63
La violazione delle prescrizioni legali o contrattual-collettive in materia di tali clausole flessibili o elastiche attribuisce al prestatore di lavoro, oltre alla normale retribuzione, il diritto alla corresponsione, per il periodo anteriore alla sentenza di accertamento della violazione, di una somma a titolo di risarcimento del danno, il cui importo è determinato dal giudice con valutazione equitativa (art. 8, co. 2-bis, D.Lgs. n. 61/2000, introdotto dall’art. 46, D.Lgs. n. 276/2003).
32
Il part time come strumento di flessibilità funzionale e garanzia occupazionale
61/2000, come modificato dall’art. 1, co. 20, lett. b), L. n. 92/2012)64.
8. Part time e “staffetta generazionale”
Oltre al percorso di flessibilità controllata, fin qui evidenziato, l’articolazione temporale della prestazione di lavoro mediante l’istituto del
part time si è orientata verso soluzioni che appaiono particolarmente interessanti per le implicazioni occupazionali che comportano.
Ci si riferisce ai c.d. contratti generazionali (o “accordi di solidarietà tra generazioni”, ovvero “staffetta” giovani anziani)65, nati con l’obiettivo di incrementare l’occupazione giovanile, contemperando le esigenze dei lavoratori giovani e anziani in una prospettiva di solidarietà intergenerazionale, in modo da contribuire a soddisfare la doppia e contestuale esigenza di favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e di prolungare la vita attiva con adeguate formule di active ageing.
Più specificamente, la staffetta generazionale o patto generazionale comporta la riduzione dell’orario di lavoro del lavoratore prossimo alla pensione, a fronte dell’assunzione di giovani con contratto di apprendistato o a tempo indeterminato, al fine di favorire l’occupazione giovanile
e, al tempo stesso, accompagnare i lavoratori anziani verso la pensione,
garantendo un passaggio di conoscenze ed esperienze tra generazioni.
La prima “staffetta” giovani-anziani è stata introdotta con la L. 23
dicembre 1996, n. 662, contenente misure per i lavoratori anziani che richiedevano la pensione di anzianità, trasformando il rapporto di lavoro con un orario non inferiore alle 18 ore settimanali a condizione che
l’azienda assumesse nuovo personale con un orario di lavoro non inferiore a quello ridotto ai predetti lavoratori (ad es. 20 ore settimanali per
64
La previsione riguarda: i lavoratori studenti (vale a dire gli “iscritti e frequentanti corsi regolari di studio in scuole di istruzione primaria, secondaria e di qualificazione
professionale, statali, pareggiate o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio
di titoli di studio legali” (art. 10, co. 1, L. 20 maggio 1970, n. 300)); i genitori conviventi di
figli di età non superiore a 13 anni; i soggetti con patologie oncologiche per i quali sussiste una ridotta capacità lavorativa; i lavoratori che hanno il coniuge, i figli oppure i genitori interessati da patologie oncologiche; i conviventi con familiari portatori di handicap.
65
V. Accordo Regione Campania-parti sociali, 21 maggio 2013, Intesa staffetta generazionale; Decreto Regione Lombardia, 28 febbraio 2013, n. 1676, Approvazione dell’avviso relativo al progetto “Ponte Generazionale”; Protocollo d’Intesa Regione LombardiaAssolombarda-INPS, 11 dicembre 2012, Intesa per l’attivazione di una sperimentazione in
materia di ponte generazionale. E, nel sistema francese, Decreto attuativo del Contrat de génération 15 marzo 2013, n. 2013-222; L. 1 marzo 2013, n. 2013-185, Contrat de génération; L.
16 ottobre 1997, n. 97-940, Développement d’activités pour l’emploi des jeunes.
33
Maria Novella Bettini
l’anziano e almeno 20 ore settimanali per il giovane).
Successivamente, con la L. 27 dicembre 2006, n. 296, allo scopo di
“promuovere la creazione di nuovi posti di lavoro e ridurre le uscite dal
sistema produttivo dei lavoratori ultracinquantacinquenni, è stato istituito l’accordo di solidarietà tra generazioni, con il quale è prevista, su base
volontaria, la trasformazione a tempo parziale dei contratti di lavoro dei
dipendenti che abbiano compiuto i 55 anni di età e la correlativa assunzione con contratto di lavoro a tempo parziale, per un orario pari a quello ridotto, di giovani inoccupati o disoccupati di età inferiore ai 25 anni,
oppure ai 29 anni se in possesso di diploma di laurea” (art. 1, co. 1160)66.
Più attuale è l’iniziativa sperimentale sulla “staffetta generazionale”, promossa e finanziata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali con Decreto Direttoriale 19 ottobre 2012, n. 807 (con risorse ministeriali assegnate alle Regioni nell’ambito del Progetto di Italia Lavoro “Azione di sistema welfare to work per le politiche di re-impiego 2012 – 2014”)67.
L’azione è volta a stimolare l’impresa ad assumere giovani con contratto di apprendistato e/o a tempo indeterminato a fronte di una conversione del contratto da full time a part time dei lavoratori che abbiano
superato i 50 anni di età.
In particolare, il Decreto Direttoriale n. 807/2012 integra i precedenti interventi con un’ulteriore tipologia di solidarietà intergenerazionale, “consistente nella possibilità di utilizzare le risorse assegnate alle Regioni per
la copertura dell’integrazione contributiva per conto dei lavoratori anziani che accettano volontariamente un contratto part-time a fronte dell’assunzione di giovani con contratto di apprendistato e/o indeterminato”68.
66
Con Decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il
Ministro dell’economia e delle finanze, sentite la Conferenza unificata (di cui all’art. 8, D.Lgs.
28 agosto 1997, n. 281) e le organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, furono stabilite sia le modalità della stipula che i contenuti degli accordi di solidarietà di cui al comma 1160, nonché “i requisiti di accesso al finanziamento e le modalità di ripartizione delle risorse per l’attuazione degli accordi nel
limite massimo complessivo di spesa di 3 milioni di euro per l’anno 2007 e 82,2 milioni di
euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009”. (art. 1, co. 1161, L. n. 296/2006).
67
V. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direzione generale per le politiche attive e passive del lavoro, Linee guida per l’attuazione degli interventi previsti dal
D.D. 19 ottobre 2012 n. 807 (c.d. staffetta generazionale).
68
Così, le Linee guida del Ministero del Lavoro, cit. alla precedente nota.
34
ELVIRA CAIAZZO
La tutela della menomazione fisica e della disabilità
nel sistema giuridico romano
1) Nei Sistemi giuridici contemporanei successivi alla Dichiarazione sui Diritti dell’Uomo dell’ONU del 1948, l’approccio ordinamentale
verso la disabilità (o handicap, secondo una superata – e forse beffarda
- terminologia1) è “anticipato” e sovrastato dai principi di non discriminazione e di eguaglianza sostanziale, che tendono – con ricadute più o
meno reali – a proteggere gli stati di svantaggio, in favore di un riequilibrio delle chances di partecipazione sociale ed economica dei portatori di menomazioni e disabilità. A ciò si aggiunge – laddove previsto, come
ad esempio nell’art. 3, co. 2, della Costituzione Repubblicana Italiana –
l’applicazione del principio di solidarietà sociale, che pone a carico degli ordinamenti il compito di “… rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza tra i cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana ...”2.
1
Il vocabolo è composto da tre parole hand, in e cap: mano nel cappello. L’interpretazione del termine è duplice, ma di origine paradossalmente sportiva! Secondo alcuni (cfr.
S. BALDI LAZZARI, Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni, in N. leggi civ., 2006, p.3 e ss.; G. GENNARI, Soggetto di diritto e soggetti umani : la condizione giuridica degli “stadi” intermedi, in Famiglia e diritto, 2008, p. 943 e ss.; V. VADALA’, La tutela delle disabilità, Milano 2009.) era usato nelle gare sportive, specie nei concorsi ippici, quando il fantino, che cavalcava un cavallo dotato di qualità superiori, era costretto a gareggiare tenendo una mano nel cappello e quindi a correre utilizzando una sola
mano. L’evidente svantaggio di questa postura doveva equilibrare le possibilità dei concorrenti dando un vantaggio a quelli meno provveduti. Secondo altri, (cfr. C. HANAU, Handicap, in Dig. Disc. Pubb., Torino 1993, p. 67; T. GRILLO, Handicap e reato, in Giur. It., 1994,
II, p. 234), il termine fa riferimento, sempre nella medesima logica, ad una gara tra cavalli di diversa forza e capacità, per cui alcuni di essi vengono penalizzati con modalità varie: di tempo, di distanza o di peso, allo scopo di mettere i meno dotati nella condizione
di gareggiare ad armi pari. “Con un handicap ben congegnato tutti i concorrenti hanno la
stesa possibilità di vittoria; pertanto inserendo tanti biglietti con il loro numero in un cappello , mettendo ‘la mano nel cappello’ stesso ed affidandosi al caso, si avranno uguali probabilità di estrarre il numero del cavallo vincente” (così T. GRILLO, op. cit., p. 235)
2
Si v. anche l’art. 1 della l. 5.2.1992 n. 104, secondo cui (art. 1) “la Repubblica: a) garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società; b) previene e rimuove le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la partecipazione della persona handi-
35
Elvira Caiazzo
Qualunque terminologia venga utilizzata per definire chi è gravato da uno stato di svantaggio, ci si riferisce pur sempre a chi, secondo la
definizione dell’O.M.S.3, ha una menomazione e/o disabilità che lo situa in rapporto relazionale di disagio sociale rispetto alle persone con capacità complessiva integra e che limita o impedisce una normale attività in relazione a determinati fattori, quali età, sesso, condizionamenti culturali e sociali.
Per meglio precisare la latitudine della ricerca che si va ad esporre, è utile distinguere handicap da menomazione, disabilità e malattia4.
La malattia è un processo patologico che può produrre una menomazione e una eventuale disabilità che si traduce in handicap; per menomazione si intende qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche fisiologiche anatomiche.
Tuttavia l’O.M.S. distingue la disabilità dalla menomazione, intendendo con questo termine qualsiasi restrizione o carenza della capacità
di svolgere una attività con le modalità ritenute normali per un individuo sano5, a causa della menomazione.
Un certo tipo di handicap può essere collegato a diverse disabilità
cappata alla vita della collettività, nonché la realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali;
c) persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minorazioni fisiche, psichiche e
sensoriali e assicura i servizi e le prestazioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle minorazioni, nonché la tutela giuridica ed economica della persona handicappata d) predispone interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione sociale della persona handicappata”.
La stessa L. 104/92, con i suoi successivi aggiornamenti, all’art. 3 definisce inoltre come
“persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”. E’ infine significativo notare come le norme contenute nella L. 104 si applichino espressamente (art. 3, co.
4) “anche agli stranieri e agli apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio nazionale”, a conferma dell’ “universalità” dei principi costituzionali di non discriminazione e di solidarietà
3
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 1980, ha pubblicato un documento dal
titolo International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps. L’aspetto significativo di questo documento è stato quello di associare lo stato di un individuo non solo a
funzioni e strutture del corpo umano, ma anche ad attività a livello individuale o di partecipazione alla vita sociale. Nel 2001 l’O.M.S. ha elaborato un ulteriore strumento: la Classificazione Internazionale del funzionamento disabilità e salute (ICF). Non parte dal concetto di malattia inteso come menomazione, ma dal concetto di salute, inteso come benessere fisico, mentale, relazionale e sociale che riguarda l’individuo, la sua globalità e l’interazione con l’ambiente. Cfr. F. ATTANASIO, Il “diversamente abile” nella legislazione attuale, a cura di G. METALLO- P.RICCI- G. MIGLIACCIO, in La risorsa umana “diversamente abile” nell’economia dell’azienda, Collana di studi e ricerche aziendali, Torino 2009, p. 36 e ss.
4
F. SCARDULLA, voce Infermità di mente, in ED., vol. XXI, Milano 1971, p. 461.
5
S. BALDI LAZZARI, op. cit., p. 4.
36
La tutela della menomazione fisica e della disabilità nel sistema giuridico romano
che, a loro volta, possono derivare da più tipi di menomazione. Mentre
la menomazione ha carattere permanente, statico, la disabilità dipende
dall’attività che si svolge e presenta, quindi, profili di dinamicità: un paraplegico avrà certamente un handicap quando si tratti di giocare al calcio, ma potrà non averne nel far uso di un computer.
L’handicap rappresenta dunque l’aspetto sociale della menomazione o della disabilità in quanto dipende sia dal grado di disabilità che dalle attese sociali relative6. È, quindi, il risultato dell’impatto fra disabilità e società; colpisce, cioè, il valore della persona nella sua essenza di essere relazionale.
In sintonia con una diversa sensibilità nei confronti di questa categoria di soggetti si sono avanzate proposte relative alla terminologia da
usare: si è suggerito di indicarli come disabili, o come persone con necessità speciale o da ultimo come persone diversamente abili7.
Questo termine può aiutare a considerare le persone con deficit in
una prospettiva nuova, meno medica, più attenta ad evidenziare la differenza qualitativa nell’uso delle abilità. Il “diversamente” vuole puntualizzare che, attraverso modalità diverse, si raggiungono, o si possono raggiungere, gli stessi obbiettivi8. Ha il pregio, quindi, di infondere
un po’ di ottimismo, senza per ciò cadere nell’errore di non tenere nel giusto conto il deficit e l’handicap.
In sintesi, la stessa terminologia contemporanea: da un lato, contestualizza gli stati di svantaggio; dall’altro, evidenzia che le persone con
disabilità possono convivere con la loro condizione nella prospettiva di
una esistenza produttiva e serena, al punto tale da rovesciare radicalmente la tradizionale nozione di disabilità.
2) Nella storia della civiltà romana, come in tutto il mondo antico, appaiono tracce del sentimento ambivalente nei confronti della deformità, letta come segno inequivocabile della volontà degli dei, ma al tempo stesso
6
A. D. MARRA, La tutela contro la discriminazione dei disabili in Italia: legge n. 65/2006,
in Dir. Fam., 2008, p. 2165 e ss.
7
F. ATTANASIO, op. cit., p.36 e ss.; P. CENDON, I diritti delle persone deboli, a cura
di P. CENDON, in Persona e danno, Milano 2004, pp. 2110-2111; V. MANCUSO, Il dolore innocente, l’handicap, la natura e Dio, Milano 2002, pp. 10-11 che cerca di spiegare i motivi di
questa continua evoluzione linguistica.
8
Si pensi al caso di allievi non vedenti o ipovedenti che raggiungono adeguati risultati scolastici e sociali, utilizzando le risorse visive residue potenziate con adeguati strumenti o abilità compensative (ad esempio quelle verbali).
37
Elvira Caiazzo
sulla base dell’elaborazione storica, fattuale del concetto di “normalità”.
Disabilità e deformità congenite o derivanti da malattie e incidenti di vario genere (in primis di carattere bellico) dovettero essere molto diffuse, come risulta evidente dai testi letterari; sebbene non siano emersi
dalle fonti termini equiparabili in qualche misura agli attuali, l’esistenza di norme giuridiche specifiche relative ai deformi dimostra che il fenomeno non dovette essere di poco conto.
E se le testimonianze sono relativamente esigue, ciò è dovuto probabilmente, più che alla scarsa incidenza del fenomeno, all’alta mortalità, indotta o naturale, dei nati deformi9. Di tutte le possibili anomalie,
quelle neonatali erano le più impressionanti.
Anche in Roma, come in altre civiltà antiche, si affrontò questo fenomeno in modo radicale10. Le logiche che spinsero verso la soppressione11 o l’abbandono di quegli esseri infelici furono diverse e concorrenti.
Dalle trattazioni degli storici si desume che la deformità colpiva notevolmente gli antichi, al riguardo molto superstiziosi, come si evince dalla stessa terminologia utilizzata dalle fonti (monstrum, portentum, ostentum, prodigium ecc.)12.
Vi erano dunque motivazioni religiose, poiché le caratteristiche fisiche degli uomini erano considerate premi o punizioni della divinità13.
9
Cfr. R. GARLAND, The Eye of the Behorder. Deformity and Disability in the Graeco-Roman World, London 1995.
10
La pratica dell’esposizione dei neonati è presente presso molte popolazioni: E. EYBEN, Family Planning in Graeco-Roman Antiquity, in Anc.Soc 11/12, 1980-81, p.5 e ss.; J. E.
BOSWELL, The Kindness of Strangers: The Abbandonment of Children in Western Europe from
Late Antiquity to the Renaissance, New York 1988 = L’abbandono dei bambini in Europa Occidentale. Demografia diritto e morale dall’Antichità al Rinascimento (tr. F. OLIVIERI, 1991); R.S.
GARLAND, The Greeck Way of Life, London 1990; N. ROBERTSON, Myth, Ritual and Livelihood in Early Greece, a cura di M. SILVER, in Ancient Economy: East and West, Mariland 1991;
E. MORRIS, Death-Ritual and Social Structure in Classical Antiquity, Cambridge 1992. Plutarco (Lyc. 16) attribuisce a Licurgo una disposizione che rendeva obbligatoria l’esposizione dei neonati deformi. Varrone (hist. 2.1) ricorda invece che a Tebe, secondo Eliano, i genitori che volessero disfarsi dei figli li consegnavano alle autorità pubbliche affinché fossero venduti. Per influenza ellenistica, la pratica si sarebbe diffusa anche nell’Egitto di epoca romana. Sul punto, v. E. VOLTERRA, s.v. Esposizione dei nati (Diritto greco e diritto romano), in NNDI. 6, Torino 1960, p. 878.
11
Cicerone (De legibus III, 8.19) non si fa scrupolo di ribadire – come aveva fatto Aristotele - che i bambini deformi devono essere uccisi, come vogliono le XII tavole.
12
D. 1.15.14 (Paul. 4 sent.); D. 50.16.38 (Ulp. 25 ad ed.); D. 50.16.135 (Ulp. 4 ad l. Iul.
et Pap.); C. 6.29.3; Gellio, N.A. 3.16.9. Cfr. G. IMPALLOMENI, In tema di vitalità e forma umana come requisiti essenziali alla personalità, in Iura 22, 1971, p. 114 e ss.
13
L’accostamento tra la malattia e la volontà degli dei è abbastanza frequente: Livio
(Ab urbe condita IX, 29), ad esempio, individua negli dei la responsabilità della cecità.
38
La tutela della menomazione fisica e della disabilità nel sistema giuridico romano
In un mondo in cui bellezza, prestanza fisica, capacità mentali erano lette come segni del favore divino, la bruttezza, la deformità, la debolezza
estrema erano inevitabilmente lette come segno invece di disgrazia presso gli dei, soprattutto quando erano congenite.
Ma anche motivazioni economiche, poiché i deformi costituivano
un peso economico per la comunità: i soggetti deboli o menomati erano
visti con pietà, ripugnanza, talora disprezzo e, nelle situazioni di crisi derivanti da cause naturali (ad es. carestie) o belliche (guerre, sommosse),
erano le prime vittime, incapaci di difendersi o di provvedere al proprio
sostentamento14. Chi per sventura nasceva con qualche difetto deformante oppure l’acquisiva per qualche malattia, pur riuscendo a sopravvivere, subiva un’emarginazione totale, escluso da ogni posto di rilievo pubblico. Tanto che i disabili meno gravi sono spesso rappresentati impegnati in attività considerate di basso livello nella scala sociale (canto, danza, musica, arte circense).
Gli studi che affrontano la tematica della deformità nel mondo romano tendono ad individuare una prima fase, costituita essenzialmente dalle regole sulla soppressione dei neonati deformi affidata al paterfamilias; una lunga fase intermedia, che avrebbe visto l’eliminazione ri-
14
Diverso invece il discorso relativamente alle disabilità derivanti da incidenti o malattie, dalla povertà e malnutrizione, dalla carenza di igiene, dal naturale invecchiamento del corpo. Il tutto, considerando anche le limitate cognizioni mediche che non consentivano di valutare e quindi di curare gli invalidi. Soprattutto, in una società fortemente militarizzata, la menomazione derivante da imprese belliche poteva essere addirittura fonte di onore e ammirazione, intesa come frutto di qualità eroiche, o fonte di sviluppo di particolari virtù o talenti. La gamba, l’occhio o il braccio perduti in battaglia da un guerriero,
soprattutto se di ceto alto, erano anomalie degne di un eroe, di un semidio. Del resto, l’attenzione ai feriti in battaglia era molto più sviluppata di quella nei confronti dei malati in
genere. Da Livio apprendiamo che, in età repubblicana, i soldati feriti venivano curati nei
villaggi più vicini al fronte militare, e con Augusto vennero introdotti stabilmente nell’esercito medici militari, arruolati come tutti gli altri soldati, e dotati di una specifica formazione. Un sentimento di ambivalenza nei confronti del mostruoso si manifesta anche sul piano mitologico. Frequente la presenza di divinità deformi. Si pensi a Bes, nella mitologia egizia ed anche fenicia, rappresentato come un nano dalla testa molto grossa e dagli occhi protuberanti, la lingua fuori, le orecchie a sventola, le gambe storte, barba, e a volte persino
coda. Un dio di buon augurio, che presiede alle nascite ed è associato ai bambini; raffigurato su specchi, articoli cosmetici, amuleti e talismani, viene quindi collegato a bellezza e
fortuna. O a Efesto/Vulcano dai piedi deformi, grande metallurgo, figlio di Era/Giunone, madre-matrigna che lo scaglia nel mare. Efesto e Bes, oltre ai capelli e alla barba ispidi, hanno in comune la deformità delle gambe e sono entrambi in relazione con la bellezza femminile in molti miti. La deformità è la “porta” che permette di raggiungere traguardi eccelsi. L. MONACO, Percezione sociale e riflessi giuridici della deformità, in I diritti degli
altri in Grecia e a Roma, a cura di A. MAFFI e L. GAGLIARDI, 2011, p. 396 e ss.
39
Elvira Caiazzo
tuale pubblica degli essere mostruosi, ed infine un brusco cambiamento, a partire dall’età classica e per tutta l’età imperiale, fino a giungere ad
una vera e propria passione per tutto ciò che è strano, esotico, e quindi
anche per i deformi.
3) Nella tristemente vasta casistica della disabilità, merita attenzione quella più propriamente sensoriale.
Com’è noto, oltre a limitazioni motorie ed intellettive (disturbi della parola, del linguaggio, della coordinazione del pensiero, tali da ridurre notevolmente i livelli di comunicazione, attenzione e risposta agli stimoli), la disabilità può comportare limitazioni sensoriali specialmente a
carico dell’apparato visivo ed uditivo.
Si tratta forse della disabilità più immediatamente percepibile dall’esterno e pertanto quella che ha più immediatamente attratto il legislatore dell’età romana, con una tendenza normativa che si è protratta anche nella moderna età delle codificazioni europee
Può essere infatti opportuno ricordare come già il Code Napoleon, che
costituisce il modello al quale si ispira il Codice Pisanelli del 1865, quanto ai sordomuti, subordinava l’esercizio di certi diritti al saper leggere e
scrivere. Questo tuttavia non disponeva alcunché con riferimento ai sordi e ai muti, la cui capacità non era pertanto più messa in dubbio almeno in relazione alla loro infermità. Né si occupava del nato cieco, presupponendone probabilmente una sua necessaria tutela permanente.
Nel Codice italiano del 1865 il sordomutismo e la cecità congeniti
davano luogo ad una figura di inabilitazione legale: ne erano colpiti – al
raggiungimento della maggiore età – i soggetti gravati da quelle menomazioni, sempreché l’autorità giudiziaria non li avesse giudicati “abili
a provvedere alle proprie cose”15.
Lo stesso codice vietava inoltre ai sordomuti e ai muti, (ma non ai
sordi) di testare mediante testamento pubblico stabilendo così, sia pure
indirettamente, l’incapacità di queste persone, se analfabete, a disporre
delle proprie sostanze mediante testamento.
Il Codice del ’42, mentre non è rimasto indifferente nei confronti dell’handicap psichico che può comportare l’incapacità di intendere e di volere, nei riguardi dell’handicap fisico di è limitato a dettare una disciplina riguardante il sordo, il muto, il sordomuto e il cieco, ai quali vengo-
15
A. FIGONE, voce Sordo, muto e sordomuto, in Dig. disc. priv. sez. civ. vol. XVIII, Torino 1998, p. 598 e ss.
40
La tutela della menomazione fisica e della disabilità nel sistema giuridico romano
no accordati determinati benefici e nello stesso tempo sono previste precise limitazioni nell’esplicazione di determinate attività negoziali per le
quali sono indispensabili la vista, la parola e l’udito16.
L’attualità conosce invece numerose norme a tutela dei sordomuti e
dei non vedenti: sono state adottate infatti una gran quantità di leggi speciali17, di decreti presidenziali, di circolari ministeriali che predispongono
meccanismi di tutela nelle varie esigenze della vita: dalla scuola, all’assunzione al lavoro presso le pubbliche amministrazioni, ai contributi speciali,
alla circolazione stradale, agli assegni mensili di assistenza ecc.
4) Tornando al sistema giuridico romano, la ricerca, condotta sulle
specifiche disabilità sensoriali all’udito ed alla parola, ha portato a rinvenire anzitutto un elenco di diverse tipologie di sordi e muti; cui segue
la specificazione delle diverse limitazioni che, a causa dell’handicap fisico, erano previste nel compimento di atti giuridici: norme queste risalenti ad una costituzione di Giustiniano emanata il 15 febbraio del 531
a Costantinopoli.
In Roma antica, né la giurisprudenza né il diritto di origine imperiale hanno mai elaborato il concetto di handicap fisico, al contrario di
quanto è avvenuto per quello di malattia mentale, intesa naturalmente
in senso ampio.
Neppure i concetti di debiles personae e di venia debilium hanno portato all’elaborazione di un concetto unitario: l’attenzione dei giuristi era
in effetti centrata solo sulla creazione della relativa curatela.
Si afferma, infatti, che “furiosi nulla voluntas est”18e “furiosus nullum
negotium gerere potest, quia non intellegit quid agat”19: si sostiene20 quindi
16
Il perfezionarsi e il diffondersi di sistemi terapeutici, di strumenti tecnici (audiometrici e di altri apparecchi acustici) e di metodi specializzati di istruzione, uniti al superamento di antichi ed inveterati pregiudizi, hanno esercitato notevole incidenza sulla codificazione del 1942 che si pone in diversa prospettiva rispetto al passato. In particolare,
è stata ripudiata qualsiasi presunzione legale di incapacità per i sordomuti, come per i ciechi. Così A. FIGONE, op. cit., 599. Il nostro ordinamento ha capovolto la normativa del codice abrogato se si pensa che oggi in particolare ai ciechi al pari dei sordi l’ordinamento
giuridico attribuisce piena capacità di agire, in quanto possono essere inabilitati soltanto
i ciechi dalla nascita o dalla prima infanzia se non hanno ricevuto un’educazione sufficiente. U.M. COLOMBO, voce Ciechi, in ED., vol. VI, Milano 1960, p. 986.
17
V. VADALA’, op cit., p. 43 nt. 102, dove l’A. elenca titolo esemplificativo numerose norme dove è rilevante questa specifica menomazione.
18
D.50.17.40 (Pomp. 34 ad Sab.)
19
Gai 3.106
20
D. DALLA, Sordo cit., p. 1294
41
Elvira Caiazzo
che il pazzo è giuridicamente assente e pertanto necessita di curatela; il
sordo è, invece, presente: per cui quest’ultimo può partecipare al negozio senza la presenza del curatore21 e con il semplice consenso22.
Nelle fonti sono presenti riferimenti a sordi, muti, ciechi e storpi, nonché a coloro che hanno subito una malformazione fisica – permanente o
meno – come conseguenza della violenza commessa da un altro soggetto (il membrum ruptum e l’os fractum) o per causa di guerra (tanto da identificare uno specifico congedo per inabilità, la causaria missio) ma non li
si considera come appartenenti ad una categoria generale.
Per riferirsi a questo concetto le fonti ricorrono a meri elenchi, riportando in modo esemplificativo le varie minorazioni; manca tuttavia
una terminologia unitaria che le identifichi come genus. Ma questa situazione non deve sorprendere, perché il primo intervento legislativo riguardante la categoria generale degli handicappati psicofisici è il Regio Decreto n.653 del 192523
Nella lex di Giustiniano del 531 invece, e per la prima volta, viene
regolamentata la figura del sordomuto, pur senza un termine specifico
per individuarlo, ma ricorrendo ad una perifrasi “si quis utroque morbo
simul laborat, id est ut neque audire neque loqui possit”.
C.6.22.10:
(IMP. JUSTINIANUS A JOANNI P.P.) Discretis surdo et muto, quia non semper huiusmodi vitia sibi concurrunt, sancimus, si quis utroque morbo simul laborat, id est ut neque audire neque loqui possit, et hoc ex ipsa natura habeat, neque testamentum facere neque codicillos neque fideicommissum relinquere neque mortis causa donationem celebrare concedatur nec libertatem sive vindicta sive alio modo imponere: eidem legi tam masculos quam feminas oboedire imperantes. 1.Ubi autem et in huiusmodi vitiis non naturalis sive masculo sive feminae accedit calamitas, sed morbus postea superveniens et vocem abstulit et
aures conclusit, si ponamus huiusmodi personam litteras scientem, omnia, quae
priori interdiximus, haec ei sua manu scribenti permittimus. 2. Sin autem in-
21
Anche se “diversità di opinioni sono state espresse in ordine alla esistenza di curatores muti et surdi.” Così V. Carro, op. cit., p. 542 e ss., dove l’ A. elenca una serie di fonti
che dimostrerebbero, appunto, l’esistenza dei curatori per i muti e i sordi: “Ammettendo
che esistessero i curatores muti et surdi, si può ipotizzare un’assimilazione del sordo e del
muto dalla nascita al furioso, pur se l’incapacità derivata dalla minorazione fisica rispetto a quella mentale è certamente una incapacità di fatto” (p. 543).
22
Paul. D. 44.7.48: In quibuscumque negotiis sermone opus non est sufficiente consensu,
iis etiam surdus intervenire potest,quia potest intellegere et consentire…
23
Cfr. D. DALLA, voce Sordo, muto e sordomuto, in ED. vol. XLII, Milano 1990, p. 1293 e ss.
42
La tutela della menomazione fisica e della disabilità nel sistema giuridico romano
fortunium discretum est, quo ita raro contingit, et surdis, licet naturaliter huiusmodi sensus variatus est, tamen omnia facere et in testamenti et in codicilli set
in mortis causa donationibus et in libertatibus et in aliis omnibus permittimus.
3. Si enim vox articulata ei a natura concessa est, nihil prohibet eum omnia quae
voluit facere, quia scimus quosdam iuris peritos et hoc subtilius cogitasse et nullum esse exposuisse, qui penitus non exaudit, si quis supra cerebrum illius loquatur, secundum quod Iuventio Celso placuit. 4. In eo autem, cui morbus superveniens auditum tantum modo abstulit, nec dubitari ipotest, quin possit omnia sine aliquo obstaculo facere. 5. Sin vero aures quidem apertae sint et vocem
recipientes, lingua autem penitus praepedita, licet a veteribus auctoribus saepius de hoc variatum est, attamen si et hunc peritum litterarum esse proponamus, nihil prohibet et eum scribentem omnia facere, sive naturaliter sive per interventum morbi huismodi infortunium ei accessit. 6. Nullo discrimine neque
in masculis neque in feminis in omni ista contitutione servando24.
L’imperatore dunque, dopo aver distinto tra sordi e muti (discretis
surdo et muto), poiché non sempre mutismo e sordità vanno di pari passo, individua due diversi tipi di sordomuti: quelli che sono tali dalla nascita (ex ipsa natura) e quelli che lo diventano successivamente, a causa di
24
Sulla constitutio, oltre ai corsi di diritto ereditario romano, tra i quali P. BONFANTE, Corso di diritto romano, VI, Le successioni, Parte generale, Roma 1930, rist. Milano 1974,
p.376; B. BIONDI, Successione testamentaria e donazioni, Milano 1955, p. 99 e s.; P. VOCI, Diritto ereditario romano, I, Milano 1967, p. 395 e nt. 51 e s., II, Milano 1963, p. 471 e nt. 124; G.
SCHERILLO, Corso di diritto romano, Il testamento, 1966-67, ristampa a cura di F. GNOLI,
Milano 1999; M.WLASSAK, Die prätorichen Freilassungen, in ZSS.. 26, 1905, p. 367 e ss., in
part. P. 425 ss.; S. RICCOBONO, “Stipulatio” et “instrumentum” nel diritto giustinianeo, in ZSS.
35, 1914, p. 247 e ss.; 43, 1922, p. 268 e ss., in part. p. 385 e ss.; S. SOLAZZI, “Ius liberorum”
e alfabetismo (A proposito di P. Oxy. 12, 1467), ora in Scritti di diritto romano III, Napoli 1960,
p. 229 e ss.; S. TONDO, Aspetti simbolici e magici nella struttura giuridica della “manumissio
vindicta”, Milano 1967, p.35 e ss.; B. ALBANESE, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, p. 42 nt. 108; C. LANZA, Impedimenti del giudice. Alcuni modelli di diritto classico,
in BIDR. 90, 1987, p. 467 e ss., in part. p. 516 e ss.; D. DALLA, Note sulla corrispondenza dei
testi della Compilazione in tema del testamento del sordo e del muto, in Est. Juan Iglesias, II, Madrid 1988, p. 675 e ss.: in particolare l’autore ha confrontato il contenuto della costituzione con due passi del Digesto: uno di Gaio D. 28.1.6.1 (Gai. 17 ad ed. provinc.) e l’altro di Pomponio D. 28.1.16pr.(Pomp.l.s.reg.); G. LUCHETTI, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di
Giustiniano, Milano 1996, p. 233 e ss.; S. DI MARIA, La cancelleria imperiale e i giuristi classici: “reverentia antiquitatis” e nuove prospettive nella legislazione giustinianea del Codice, Bologna 2010, p. 87 e ss. Sulla costituzione, sotto una diversa prospettiva, T. PENDOLA, Sulla educazione dei sordo-muti in Italia. Studi morali, storici, economici, Siena 1855, p.15 e s.; A.
KÜSTER, Blinde und Taubstumme im römischen Recht, Köln 1991, p. 95 e ss.; CARRO, Ciechi,
sordi e muti (Rc. a A. KÜSTER , op. cit.), in Index 23, 1995, p. 546; L. MINIERI, C.6.22.10 e la
condizione dei sordi e dei muti, in I diritti degli altri in Grecia e a Roma, a cura di A. MAFFI e
L. GAGLIARDI, 2011, p. 445 e ss.
43
Elvira Caiazzo
una malattia o di un incidente (ubi autem et in huiusmodi vitiis non naturalis sive masculo sive feminae accedit calamitas, sed morbus postea superveniens
et vocem abstulit et aures conclusit). Stabilisce che i primi non possano compiere atti giuridici – tra i quali specialmente quelli di ultima volontà – mentre i secondi potranno invece negoziare, purché sappiano scrivere.
Argomentando da questa distinzione è ovvio che, per Giustiniano,
i sordomuti divenuti tali in seguito ad una calamità o ad una patologia
sopravvenuta, ma che non siano litterarum periti non potranno stipulare alcun negozio. Colpisce, in queste righe, l’uso alterno di vitium e morbus, il primo utilizzato nel senso di difetto fisico – a cui va aggiunto, nello stesso senso, infortunium – e il secondo con il significato di malattia25.
Segue nell’elencazione la figura del sordo, che sia tale per nascita: questi può compiere qualsiasi atto. Qui la costituzione, in modo un po’ goffo,
ripete gli stessi negozi elencati prima a proposito del sordomuto, con l’esclusione dei fedecommessi e senza specificare il tipo di manumissio.
Si precisa poi che se il sordo è dotato a natura di una voce piena, potrà porre in essere tutti gli atti che desidera; l’affermazione – ragionando e contrario – porterebbe a ritenere che un soggetto in possesso di una
vox non articulata possa avere, invece, qualche limitazione. Ma una simile conclusione appare in contrasto con la successiva affermazione, ossia
che la giurisprudenza avrebbe discusso attentamente sul punto. Tanto più
che, secondo un’opinione di Celso, non vi sarebbe alcuno completamente sordo perché è possibile la trasmissione ossea dei suoni (nullum esse
exposuisse qui penitus non exaudit, si quis supra cerebrum illius loquatur)26.
La stessa possibilità di compiere qualsiasi atto è attribuita a colui
che sia diventato sordo per un incidente o per una malattia sopravvenuta (in eo autem, cui morbus superveniens auditum tantum modo abstulit, nec
dubitari potest, quin possit omnia sine aliquo obstaculo facere).
Diverso, invece, il regime sancito per il muto, sive naturaliter sive per
interventum morbi: Giustiniano ritiene che questi può omnia facere solo se
25
Sui concetti di vitium e di morbus v. R. ORTU, “Aiunt aediles…” Dichiarazioni del venditore e vizi della cosa venduta nell’editto “de mancipiis emundis vendundis”, Torino 2008, p. 158
e ss., con puntuali considerazioni dei vizi che colpiscono l’uso della parola (p.169 e ss.) e
della vista (p. 173 e ss.).
26
Particolarmente interessante la citazione di Celso fatta da Giustiniano, che attesta
la felice intuizione del giurista sulla trasmissione ossea dei suoni: un fenomeno che solo
molti secoli dopo sarà scientificamente studiato. E’ noto, ad esempio, che Beethoven, divenuto sordo in età avanzata, usava mettere in bocca una cannula che poi appoggiava sui
tasti del pianoforte per sentirne le vibrazioni. Sulla invalidità del grande compositore v.
G. BILANCINI, , La sordità di Beethoven. Considerazioni di un otologo, in L’educazione dei sordi, II, Siena 2002, p. 47 e ss.
44
La tutela della menomazione fisica e della disabilità nel sistema giuridico romano
sa scrivere. Anche in questo caso, come per il sordomuto per causa sopravvenuta, il muto che non conosca la scrittura dovrebbe non poter compiere atti.
Interessante notare poi che, in tutto il passo, si precisa che la regolamentazione riguarda senza distinzioni sia maschi sia femmine.
6) Al di là del piano esegetico, è evidente che il merito della costituzione del 531 sta nell’aver introdotto e regolato per la prima volta – almeno a quanto ci è pervenuto – la figura del sordomuto27, quale persona con una manifesta e doppia disabilità sensoriale.
A livello terminologico, essendo sconosciuta la parola surdusmutus
e mancando nella lingua latina un termine per indicare il sordomuto, è
da ritenere che, tutte le volte in cui nelle fonti vengono utilizzate le espressioni mutus surdus, mutus et surdus, surdus et mutus, si intende indicare
separatamente le due categorie.
Questa situazione si ritrova in modo speculare anche nel principium
della costituzione, nel quale si distinguono ancora i due disturbi e subito dopo, pur affermando che non semper ciò avviene, e, poco più avanti, quanto sia raro trovare un sordo che non sia anche muto (quo ita raro
contingit), si definisce il sordomuto come colui che utroque morbo simul laborat, facendo espressamente riferimento a due malattie28.
Anche la distinzione tra il sordomutismo dalla nascita e quello sopravvenuto sembra alquanto semplicistica, perché sembra trovare fondamento esclusivamente su una valutazione di tipo formale: la conoscenza o meno della scrittura, requisito necessario e sufficiente, in età postclassica, per la redazione dell’atto di ultima volontà.
Ci si dovrebbe invece chiedere se i sordomuti dalla nascita siano o
meno in grado di comprendere quanto pongono in essere, valutando di
volta in volta quanto intendano di ciò che compiono, e quindi ammettere che possano esprimere la volontà in altro modo.
27
Sul sordomutismo in epoca antica e la sua differenziazione rispetto alla sordità e
al mutismo cfr. V. CARRO, op. cit., p. 358 e ss., in part. p. 546
28
La medicina romana, ma anche quella di epoche successive, ignorò il nesso che
c’è tra la sordità e la conseguente impossibilità di parlare causata dalla non riproduzione
in via imitativa di quanto viene ascoltato. Secondo l’attuale otorinolaringoiatria il “sordomuto è invece il soggetto affetto da cofosi (perdita completa e bilaterale della funzione uditiva) congenita o acquisita: nel primo caso la mancanza dell’udito non consente l’acquisizione del normale patrimonio verbale (mutismo); se la cofosi si manifesta tra i 3-7 anni, si
ha la perdita, parziale o totale, del patrimonio verbale già acquisito”. Cfr. G. ROSSI, Manuale di Otorinolaringoiatra, Torino 1981, p. 132.
45
Elvira Caiazzo
A questa possibile capacità di comprensione da parte di sordomuti totali sembrano alludere alcune fonti, che attestano anche un’abilità di
comunicare con il linguaggio dei gesti.
Ad esempio un passo di Plinio riferisce di Quinto Pedio, un sordomuto dalla nascita di grande talento e indirizzato alla pittura ma che purtroppo morì giovane29. Ammiano Marcellino, invece, riporta la notizia di un giovane sordomuto che l’imperatore Giuliano aveva portato con sé dalla Persia, in grado di esprimersi e di farsi comprendere attraverso i gesti30.
E’ dunque significativa la circostanza che la costituzione del 531 riporti invece una minuziosa regolamentazione e tipizzi diversamente la
capacità giuridica e di agire: sia tra sordità iniziale e sopravvenuta, sia
tra mutismo di un analfabeta e quello di chi sappia scrivere.
Gli studi sul punto hanno infatti sottolineato la differenza con il
diritto classico in tema di testamento e hanno specificato che, se in quell’epoca non si potevano compiere negozi solenni basati su domanda
e risposta, nel diritto giustinianeo, essendo venuta meno la rilevanza
delle formalità orali di quegli atti, era diventata prevalente la forma
scritta31. Non vi era quindi più alcun ostacolo per il sordo e per il muto
a compiere atti mortis causa e inter vivos, se non, per il secondo, il requisito della scrittura32.
7) Diversa è la situazione per l’indagine nell’epoca precedente a quella giustinianea, tenuto conto che “Giustiniano qui fornisce qualche notizia intorno al diritto anteriore che non siamo in grado di controllare33”.
Di conseguenza non si è mai indagato sulla possibilità di recuperare nelle fonti classiche, specie di terzo secolo, qualche spunto su una eventuale elaborazione dottrinale relativa ai muti e ai sordi.
Al riguardo non sembra utile riferirsi ad un passo di Emilio Macro,
che espressamente afferma la validità di un testamento invalido iure civili compiuto da un sordo o da muto sulla base di privilegi imperiali, che
29
Plin. nat. 35.7.21.
Amm. 24.4.26.
31
Sulla possibilità per i sordi e i muti di esercitare, in diritto postclassico, la testamenti factio attiva, essendo ormai venuto meno il testamento per aes et libram e preso piede il
testamento scritto cfr. anche Inst. 2.12.3. v. S. RICCOBONO, op. cit., p. 386; B. BIONDI, op.
cit., p. 99 e s.; D. DALLA, Note sulla corrispondenza, cit., p. 679 e s.
32
Sull’utilizzo della scrittura da parte del muto v. C.6.23.29. Sulla costituzione P. VOCI,
op. cit., p. 395 e nt. 52; V. CARRO, op. cit., p. 546.
33
B. BIONDI, op. cit , p. 100.
30
46
La tutela della menomazione fisica e della disabilità nel sistema giuridico romano
nulla innova per quanto riguarda la loro posizione34. E neppure è necessario soffermarsi su di un altro brano di Ulpiano, che prevede per il sordo e il muto militari la possibilità di compiere un testamento se permangono presso la loro unità e non vanno in congedo per malattia (è probabile che si tratti di invalidità sopravvenute, causate da ferite riportate in
battaglia), perché è la loro condizione di appartenenti alla milizia (dunque certezza di una sorta di generale idoneità) che permette la validità
del testamento35.
Possono invece ritenersi adeguati alcuni spunti dai quali sembra potersi ricavare una, seppur abbozzata, distinzione tra due tipi di sordità
– per nascita o per sopravvenienza – ed una possibile continuità tra ciò
che resta dei pareri giurisprudenziali di età classica e la costituzione giustinianea.
Infatti, in un passo di Ulpiano, tratto dal primo libro del commento ad Sabinum, è riferita la possibilità che il muto e il sordo possano accettare l’eredità utilizzando la pro herede gestio:
D.29.2.5pr. (Ulp. 1 ad Sab.):
Mutum nec non surdus, etiam ita natos pro herede gerere et obligari hereditati posse constat.
In verità, il brano è stato considerato interpolato36.
Ma il nec non, che precede la parola surdu, non sembra stilisticamente scorretto. Può esservi stata probabilmente qualche abbreviazione ma
ciò che soprattutto colpisce, ai fini dell’indagine, è che legittimati all’accettazione dell’eredità non sono solo i muti e i sordi divenuti tali per una
malattia sopravvenuta, ma anche quelli che presentino tali patologie fin
dalla nascita (etiam ita natos).
La stessa espressione è infatti contenuta in un ulteriore passo di Ulpiano, che riporta un noto parere di Celso relativo all’utilizzo da parte
del surdus della manumissio:
34
D.28.1.7 (Macer. 1 ad l.vices. hered.). Cfr. Dalla, Note sulla corrispondenza, cit., 677
ss., che attribuisce un intento fiscale al privilegio imperiale.
35
D. 29.1.4 (Ulp. 1 ad Sab.). Sul passo S. RICCOBONO, op. cit., p. 386; P. VOCI, op.
cit., p. 397 e nt.61; B. ALBANESE, op. cit., p. 382 s. e nt. 166 e 169; M. AMELOTTI, Il testamento romano attraverso la prassi documentale, I, Le forme classiche di testamento, Firenze 1966,
p. 109 e nt.1; V. SCARANO USSANI, Le forme del privilegio:’beneficia’ e ‘privilegia’ tra Cesare
e gli Antonini, Napoli 1992, p. 18.
36
S. RICCOBONO, op. cit., p. 386; in senso contrario, S. TONDO, op. cit., p. 37 e nt.12.
47
Elvira Caiazzo
D.40.9.1 (Ulp. 1 ad Sab.):
Celsus libro duodecimo digestorum utilitatis gratia motus surdus ita natum manumittere posse ait.
Il passo è famosissimo37 e, abbinato alla citazione di Celso fatta da
Giustiniano nella costituzione che si sta qui esaminando, potrebbe costituire la prova di un interesse specifico del giurista su questa materia. E,
forse, l’esistenza di una sua visione particolare che perseguirebbe
l’obiettivo di differenziare, su questo tema, “la posizione del surdus da
quella del mutus, prospettando un trattamento di favore limitatamente
al primo”38.
Anche in questo brano, non sappiamo se direttamente da Celso o
soltanto successivamente da Ulpiano, viene concessa la possibilità di manomettere anche al sordo che sia nato con tale menomazione – ma, con
tutta probabilità, anche per chi sia divenuto tale per una malattia sopravvenuta – come si ricava dall’impiego dell’espressione ita natum.
Interessante in questo senso anche un passo di Paolo, il quale, a proposito della possibilità della nomina d’ufficio, almeno in astratto, di un
tutore sordo e della esclusione della datio per un tutore muto39, riporta
la notizia dell’esistenza di una disputa tra giuristi e di una posizione più
rigida di Pomponio e di altri plerique40.
D. 26.1.1.2-3 (Paul. 38 ad ed.):
Mutus tutor dari non potest, quoniam auctoritatem praebere non potest. 3. Sur-
37
Con valutazioni differenti, S. RICCOBONO, op. cit., p. 386; S. TONDO, op. cit., p.
37e s.; C. LANZA, op. cit., p. 535 e s.; D. DALLA, Sordo, muto e sordomuto, cit., p. 1294; D.
DALLA., Note sulla corrispondenza cit., p. 677; PH. MEYLAN, L’individualité de la “manumissio vindicta”, in Sudi Vincenzo Arangio-Ruiz, IV, Napoli 1953, p. 475.
38
Così S. TONDO, op. cit., p. 37.
39
S. SOLAZZI, op. cit., p. 236; B. ALBANESE, op. cit., p. 462 e nt. 162, p. 494 e ntt. 309
e 312; S. DI MARIA, op. cit., p. 90 e s.. Sulla possibilità, almeno in via ipotetica, per i muti
e per i sordi di ricoprire la tutela e su quella molto più realistica di sottrarvisi, v. G. VIARENGO, L’”excusatio tutelae” nell’età del Principato, Genova 1996, p. 28 e p. 30.
40
Un particolare interesse di Pomponio per la materia potrebbe essere provato anche da D.4.8.9.1(Ulp. 13 ad ed.): Sed neque in pupillum neque in furiosum aut surdum aut mutum compromittetur, ut Pomponius libro trigesimo tertio scribit. Ma M. F. LEPRI, I §§ 9-12 del
D. 42. 4. 7 ( Appunti in tema di “bonorum distractio”), in Scritti in onore di C. FERRINI pubblicati in occasione della sua beatificazione, II, Milano 1947, p. 137, ha ritenuto la “menzione
dei surdi e dei muti…intrusa”come sarebbe “palese dall’aut…aut, quando sarebbe richiesto il neque – neque”. Sul passo S. SOLAZZI, I lucidi intervalli del furioso, in Scritti di diritto romano II, Napoli 1957, p. 544 e ss., in part. p. 550 e nt. 15; M. MARRONE, Sull’arbitrato privato nell’esperienza giuridica romana, in «Rivista dell’arbitrato» 1, 1996, p. 2 e nt. 13.
48
La tutela della menomazione fisica e della disabilità nel sistema giuridico romano
dum non posse dari tutorem plerique et Pomponius libro sexagesimonono ad edictum probant, quia non tantum loqui, set et audire tutor debet.
In più fonti, poi, si specifica che è permesso ai sordi e ai muti di compiere degli atti giuridici ma solo se comprendono quello che pongono in essere. Ciò sta ad indicare che, al di là del problema dell’accostamento con il
furiosus, peraltro praticamente escluso41e della possibilità che allo stato di
sordità o di mutismo si accompagni una minorazione psichica42, più giuristi si sono interessati, già in età classica, all’attività di questi soggetti, ponendo forse in essere quelle subtilius cogitationes che Giustiniano ricorda.
Per Ulpiano il muto, il sordo e il cieco possono acquistare la bonorum possessio solo se comprendono quello che pongono in essere43:
D.37.3.2 (Ulp. 39 ad ed.):
Mutus surdus caecus bonorum possessionem admittere possunt, si quod agatur intellegant.
Paolo, poi, enuncia una sorta di regola generale: il sordo può partecipare a tutti i negozi per i quali non è necessario, al fine della prestazione del consenso, la pronuncia di parole ma solo se riesce a comprendere ciò che avviene e a dare la propria adesione:
D.44.7.48 (Paul. 16 ad Plaut.):
In quibuscumque negotiis sermone opus non est sufficiente consensu, iis etiam
surdu intervenire potest, quia potest intellegere et consentire, veluti in locationibus conductionibus, emptionibus et ceteris.
Il medesimo concetto – ma riferito anche al mutus – è riportato dallo stesso giurista in un passo del commento all’editto:
D.50.17.124pr. (Paul. 16 ad ed.):
Ubi non voce, sed praesentia opus est, mutus, si intellectum habet, potest videri rispondere, idem in surdo: hic quidem et respondere potest.
Non sembra riferito, invece, alla capacità di intendere del sordo e
del muto il passo di Paolo relativo agli impedimenti del iudex, che ripor-
41
D. DALLA, Sordo, muto e sordomuto, op. cit., p. 1294.
C. LANZA, op. cit., p. 516 e ss.;V. CARRO, op. cit. , p. 539 e ss.
43
P. VOCI, op. cit., p. 395 e nt. 51; D. DALLA, ult. op. cit., p. 1294.
42
49
Elvira Caiazzo
ta l’elenco di coloro che sono incapaci a ricoprire la carica:
D.5.1.12.2 (Paul. 17 ad ed.):
Non autem omnes iudices dari possunt ab his qui iudicis dandi ius habent: quidam enim lege impediuntur ne iudices sint, quidam natura, quidam morbus. Natura, ut surdus mutus: et perpetuo furiosus et impubes, quia iudicio carent. Lege
impeditur, qui senatu motus est. Moribus feminae et servi, non quia non habent
iudicium, sed quia receptum est, ut civilibus officiis non fungantur.
Come è stato notato di recente44, nell’elencazione dei soggetti a cui
non è permesso ricoprire natura la carica, vi è un asindeto costituito dalle parole surdus mutus e un polisindeto comprendente i termini et perpetuo furiosus et impubes. Solo a questi ultimi soggetti sarebbe riferita la successiva espressione quia iudicio carent che non riguarderebbe, invece, né
il muto né il sordo.
Un passo di Ulpiano, infine, relativo alla possibilità della sottoposizione di impuberi sui iuris muti di entrambi i sessi a tutela45, non può non
richiamare alla mente i continui riferimenti contenuti in C.6.22.10 all’attribuibilità delle disposizioni a soggetti affetti da queste patologie indipendentemente dal sesso di appartenenza
D.26.1.6pr. (Ulp. 38 ad Sab.)46:
Muto itemque mutae impuberibus tutrem dari posse verum est: sed an auctoritas eis accomodari possit, dubitatur. Et si potest tacenti, et muto potest. Est
autem verius, ut Iulianus libro vicesimo primo digestorum scripsit, etiam tacentibus auctoritatem posse accomodare.
Da tutti queste fonti47 emerge un’attenzione dei giuristi, soprattut-
44
C. LANZA, Un dubbio esegetico ‘creato’ dall’ed. Mommsen del Digesto, in Problemi della traduzione dei Digesta giustinianei nelle lingue europee, a cura di L.MINIERI e O. SACCHI,
Napoli 2007, p. 117 e ss.
45
B. ALBANESE, op. cit., p. 437 ss. e nt. 24.
46
Sul passo, A. KÜSTER, op. cit., p. 95 e ss.
47
Si v., oltre i brani riportati nel testo, anche Ulp. D.3.1.1.3 che riporta il divieto per
il sordo totale (qui prosus non audit) di postulare dinanzi al pretore; è interessante la motivazione della proibizione: sarebbe giustificata, per Ulpiano, nell’interesse del sordo perché questi non avrebbe potuto, non sentendo, mettere in atto quanto disposto dal magistrato; D. 3.3.43pr. (Paul. 9 ad ed.) che consente anche al sordo e al muto la nomina di un
procuratore nel modo in cui è loro possibile e, forse, permette anche a loro di essere nominati con la motivazione che la relativa attività non consisterebbe tanto nell’agire processualmente quanto nell’amministrare. Cfr. anche un passo delle Pauli Sententiae (3.4.13), contenuto anche nel Digesto: D. 29.2.93.1 (Paul. 3 sent.).
50
La tutela della menomazione fisica e della disabilità nel sistema giuridico romano
to di terzo secolo, per i problemi dei sordi e dei muti; attenzione che è
poi la stessa di cui parla Giustiniano quando, nella constitutio, riferisce
dell’esistenza di pareri giurisprudenziali. E, almeno a giudicare dai relativi residui frammenti del primo libro del commento ad Sabinum di
Ulpiano che i compilatori hanno inserito nella compilazione, potrebbe
ipotizzarsi un interesse specifico del giurista severiano per queste problematiche48.
Si può quindi concludere che alcune infermità, come quelle in parola, non sono causa di una generale incapacità di agire, ma si limitano
soltanto a disporre espressi divieti e incompatibilità, che si traducono in
specifiche inattitudini: le quali determinano impossibilità di fatto, di cui
il diritto, sia antico che moderno, si limita a tener conto, nel disporre che
il soggetto menomato non possa compiere (da solo) gli atti che gli sono
impediti dalle sue menomazioni.
In ogni caso, sembra che l’incapacità nel diritto del terzo secolo passi sempre attraverso il previo accertamento, in capo al soggetto menomato, della reale capacità di comprendere, di discernere e di volere, escludendo generali inabilità legali: in una logica di concretezza, ma anche di
rispetto della persona, di certo superiore a quella manifestata in epoca
moderna, ad esempio dal richiamato Codice del 1865.
L’età giuridica classica imponeva dunque la verifica caso per caso,
persona per persona, atto per atto della sussistenza di sufficienti livelli
di consapevolezza sostanziale, senza ammettere ottuse emarginazioni per
genus della disabilità: un archetipo quindi di quel diritto-dovere alla non
discriminazione, oggi così solennemente affermato49, ma ancora di così
lacunosa applicazione nella nostra quotidianità.
48
P. VOCI, op. cit., p. 395 e nt.52.; L. MINIERI, op. cit., p. 456 e ss.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, sottoscritta a New
York il 13 dicembre 2006 e ratificata con Legge 3 marzo 2009 n. 18, stabilisce il divieto di
ogni discriminazione giuridica – dunque anche di ogni limitazione di diritto alla capacità giuridica e di agire – nei confronti delle persone disabili; mentre la Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE (con valore di Trattato, ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona), all’art.
21, ha inserito espressamente la “disabilità” tra i parametri di base in relazione ai quali è
vietata ogni forma di discriminazione.
49
51
GIANFEDERICO CECANESE
Esigenze probatorie e giusto processo:
le relazioni tra il ruolo delle parti e i poteri del giudice
nelle dinamiche dell’esperimento giudiziale
SOMMARIO: 1. Genesi storica dell’istituto. - 2. La disciplina attuale e le nuove dinamiche
probatorie: il ruolo del giudice. - 3. Le prerogative connesse al ruolo delle parti.
1. Genesi storica dell’istituto
L’esperimento giudiziale è un mezzo di prova che ha avuto concreta attuazione a partire dal XIX° secolo pur in assenza di un aspecifica disciplina: tuttavia, vigendo il principio della prova libera, si faceva ricorso ad esso nei giudizi che si svolgevano dinanzi la Corte d’Assise1.
Il mezzo di prova in oggetto, denominato esperimento di fatto, è stato definito come la riproduzione artificiale2 del fatto di reato, delle circostanze o degli episodi dello stesso volti a verificarne l’esattezza, la possibilità o la verosimiglianza3 e doveva essere assunto con la, necessaria,
presenza del difensore che doveva essere previamente avvisato: tale formalità non doveva essere osservata laddove il giudice si fosse, semplicemente, limitato a compiere una mera descrizione dei luoghi.
1
In verità dell’esperimento giudiziale si sono occupati appositamente gli artt. 186194 delle Legge delle due Sicilie ed il regolamento organico di procedura criminale del
5.11.1831 per gli Stati pontifici nella cui rubrica “accessi giudiziali” l’esperimento veniva definito come “l’accesso giudiziale oltre l’assunzione del corpo di delitto che ha luogo ogni volta che
si renda necessaria o utile l’ispezione oculare sulla faccia dei luoghi per verificare o escludere con
atto di materile esperimento la possibilità o realtà di un fatto rilevante che risulti dalle deposizione
di un testimone o delle risposte di un imputato” (art. 217). GIUS SABATINI, Teoria della prova nel
diritto giuridica penale, Catanzaro, 1909, 38.
2
Secondo Cass, 12.12.1916, Schilizò, in FI, 1917, II, 115, l’esperimento giudiziale è la
riproduzione delle stesse condizioni e circostanze di un fatto avvenuto. Solamente la riproduzione del fatto nelle circostanze in cui lo si ritiene accaduto costituisce esperimento
giudiziale.
3
Anche la giurisprudenza di legittimità aveva differenziato i due mezzi di prova:
infatti, l’ispezione aveva carattere descrittivo ed era sempre consigliabile, l’esperimento
giudiziale, invece, avendo carattere peritale era raccomandato solo nei casi di assoluta necessità e con la presenza del difensore. Cass., 2.12.1915, Bagaglini, in GP, 1916, 332.
53
Gianfederico Cecanese
I critici avevano definito l’istituto come quell’operazione legale con
cui il giudice accertava, utilizzando i propri sensi, la veridicità o la falsità di un determinato fatto: per questo motivo l’atto assumeva una doppia identità di ispezione giudiziale e di perizia allo stesso tempo utile al
giudice per una valutazione completa dei fatti processuali4.
L’utilità di tale mezzo di prova era desunta anche dal fatto che, in
alcuni casi, gli altri mezzi di prova, come ad esempio la testimonianza,
si erano rivelati lacunosi generando equivoci che solo l’evidenza diretta della realtà poteva dissipare: in questo senso l’esperimento giudiziale offriva al giudice una percezione diretta dei fatti capace di orientarlo
verso una determinata decisione5.
Insomma, ciò che caratterizzava l’esperimento giudiziale, differenziandolo dagli atri mezzi di prova, era l’oggetto su cui ricadeva l’atto e che si sostanziava nella ripetizione effettiva dell’azione, dell’evento o dell’episodio.
Più in particolare, l’ oggetto era ontologicamente connesso all’oggetto del processo e su questo era destinato ad influire: il fatto era inteso nella sua accezione più ampia, per cui poteva essere un’azione, un discorso, un comportamento o un avvenimento qualsiasi, una circostanza
o, infine, un episodio estraneo al fatto ma su di esso influente6.
Una peculiarità era costituita dal fatto che il legislatore dell’epoca,
non avendone regolato le modalità di svolgimento, aveva lasciato al giudice ampia libertà di provvedere all’organizzazione dell’atto7: quest’ultimo, invero. poteva essere assunto in caso di manifesta utilità del risultato ed in presenza di alcune condizioni quali a) per accertare in che modo
si fosse verificato un reato nel senso di verifica circa l’attendibilità di altre prove al fine di confermarle ovvero smentirle, b) per la prova in relazione alle modalità di un fatto e non alla prova di un fatto in sé.
Ovviamente, non essendo possibile valutare previamente l’utilità
dell’esperimento giudiziale, il relativo giudizio prognostico era rimesso
all’apprezzamento favorevole del giudice.
In ragione della natura che caratterizzava l’atto come fatto artifi-
4
NICOLINI, Storia dei principi regolatori delle istituzione delle prove né processi penali, Napoli, 1920, 626.
5
Si veda, al riguardo, ALIMENA, Principi di procedura penale, I, Napoli, 1914, 431.
6
Come, ad esempio, la possibilità che in un determinato luogo un testimone potesse sentire un altro testimone, ZERBINI, Nuovi ricordi di Foro, Bologna, 1887, 62.
7
E’ stato ritenuto perfettamente regolare fare accesso sui luoghi dell’omicidio da parte dei giudici unitamente ai testimoni per verificare se i colpi sparati fossero percepibili.
Sarebbe stato, invece, illegittimo separare i giudici per inviarli in luoghi diversi. In tal senso, Cass. 13.05.1895, Benadetti, in RP, vol. XLII, 180.
54
Esigenze probatorie e giusto processo
ciale riproduttivo di un altro fatto, era stato evidenziato che i risultati probatori erano espressi in termini probabilistici ed erano apprezzati con il
sussidio di ragionamenti, induzioni e raffronti.
Con il conio del codice del 1930 l’esperimento giudiziale ha assunto una particolare fisionomia e rilevanza essendo considerato un atto dinamico con il quale si poteva procedere alla riproduzione di un determinato fatto o di un determinato fenomeno dinanzi al giudice8.
Con tale mezzo di prova il giudice che procedeva, poteva accertare,
mediante riproduzione artificiale, le modalità di verificazione di un determinato episodio: il suo compito era, inoltre, funzionale al controllo dei dati
sperimentali relativi ad un fatto connesso con il capo di imputazione9.
Collocato nel libro II, titolo II, capo II l’esperimento giudiziale era
utilizzato “per accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in un determinato modo” con facoltà, da parte del giudice, di procedervi curando di evitare, per quanto possibile, ogni forma di pubblicità (art. 312 c.p.p. 1930).
La ricostruzione del fatto nelle stesse circostanze in cui si riteneva
essere avvenuto presupponeva che la ripetizione della serie causale implicasse, in forma costante, quella dell’effetto, per cui la fattibilità del mezzo di prova dipendeva dalla fattibilità di riprodurre perfettamente lo stato di fatto ove si riteneva essersi verificato l’evento da provare10.
D’altronde, laddove la riproduzione fosse stata fatta in maniera fedele ed il giudice avesse disposto di una massima di esperienza certa, il
risultato probatorio sarebbe stato indiscutibile11.
8
ANDRIOLI, Esperimento giudiziale, in NNDI, VI, Torino, 1960, 852: BELLAVISTA, TRANLezioni di diritto processuale penale, Milano, 1987, 322: DE MARSICO, Lezioni di diritto
processuale penale, Napoli, 1952, 176: FROSALI, Sistema penale italiano, vol. IV, Torino, 1958, 254:
VANNINI, Manuale di diritto processuale penale italiano, Milano, 1963, 150.
9
BELLAVISTA, voce Esperimento giudiziale (dir. proc. pen.), in ED, XV, Milano, 1966, 747.
10
La Suprema Corte di cassazione ha rilevato che se l’esperimento giudiziale rappresenta una finzione della realtà, tende, però, al controllo della verità e, per rispondere al fine
per cui è disposto, presuppone che il fatto sia riprodotto, per quanto possibile, nelle stesse condizioni in cui si afferma, o si ritiene essere avvenuto e, quindi, che si possano determinare queste condizioni: pertanto, ove non sia possibile riprodurre, con sufficiente approssimazione, le
condizioni del fatto, non può logicamente disporsi l’esperimento dato che questo non potrebbe dare alcun affidamento di certezza. Così Cass. Sez. I, 26.03.1958, Marcolini, in RP, 1958, 317.
11
Per questa impostazione CORDERO, Procedura penale, Milano, 1987, 486, il quale sottolinea che il legislatore sanziona con l’art. 374 c.p. quelle artificiose modificazioni delle condizioni ambientali e personali in cui si assume essersi verificato il fatto da provare. Se, infatti, l’esperimento costituisce un controllo sperimentale di altre prove, deve essere collocato in un contesto di elementi ambientali di cose e di persone che siano analoghi a quelli relativi al fatto da ricostruire: le azioni con cui si alterano tali elementi, potrebbero inquinare le prove condizionando il convincimento del giudice.
CHINA,
55
Gianfederico Cecanese
In questo codice, la particolare connotazione dell’istituto, faceva si
che la riproduzione del fatto non era più rimessa al libero arbitrio del giudice, così come avveniva in passato, ma era modellata alla massima fedeltà delle linee essenziali dello stesso: inoltre, essendo l’esperimento considerato un atto garantito, ai difensori e alle altre parti private era riconosciuto il potere di formulare istanze, riserve ed osservazioni (art. 304
bis comma 3 c.p.p. 1930)12.
Gli arresti giurisprudenziali avevano evidenziato che esso era ammesso solo nei casi in cui fosse stato, effettivamente, possibile riprodurre il fatto sperimentale nelle medesime condizioni in cui si reputava o si
affermava essersi verificato13.
Con riguardo, poi, ai poteri del giudice in relazione alla possibilità di disporlo, era lo stesso ordito normativo a disciplinarne l’utilizzo in presenza di presupposti tassativamente contemplati: in altre
parole, si poteva procedere soltanto qualora vi fosse stata la possibilità concreta di riprodurre le stesse condizioni in cui si affermava essersi verificato l’episodio e sempre che il mezzo di prova fosse adeguato all’oggetto dell’indagine, cioè avesse una rilevanza decisiva ai
fini del giudizio.
Per questo motivo, il legislatore del 1930 ha normato i casi in cui non
si doveva far ricorso a tale mezzo di prova.
Secondo la norma contenuta nell’art. 312 comma 2 c.p.p. 1930, invero, non si poteva procedere all’assunzione dell’esperimento giudiziale se: a) offendeva “il sentimento nazionale o religioso” (vilipendio a
simboli dello Stato); b) non si rispettava “il sentimento di pietà verso i defunti o la pubblica moralità” (vilipendio di cadaveri); c) fosse suscettibile “di esporre a pericolo l’ordine pubblico”(riproduzione di scene capaci
12
In questi termini LEONE, Trattato di diritto processuale penale, II, Napoli, 1961, 234.
Ampiamente Cass. Sez. II, 10.05.1984, Curato, in CED n. 164148, in base alla quale è stata ritenuta legittima la decisione del giudice di merito che aveva negato l’ammissione di un esperimento giudiziale volto ad accertare se gli imputati avessero potuto percorrere con un’autovettura 40 Km. di una determinata strada in mezz’ora ed aveva invece acquisito in giudizio, come testimonianza di un’agente operante, e utilizzato ai fini della decisione, il risultato di analoga prova fatta da un agente. La Corte di cassazione ha osservato che solo l’effettuazione di una prova informale poteva dare conforto a un dato della comune esperienza per il quale è sempre possibile che una autovettura percorra quaranta
chilometri di strada a una velocità media di ottanta chilometri l’ora. Non sarebbe stato, infatti, possibile riprodurre in un momento successivo qualsiasi le stesse situazioni di traffico esistenti sulla strada in questione il giorno del reato, le medesime capacità tecniche, fisiche e psicologiche del guidatore, la combinazione degli stessi tempi di sosta in senso assoluto ed in
senso relativo ai ben nove semafori che erano posti a regolamentare il traffico su quella strada, la velocità effettivamente tenuta dal guidatore lungo tutto il percorso.
13
56
Esigenze probatorie e giusto processo
di destare allarme)14.
Si tratta di limiti che, seppur codificati, non avrebbero integrato un
vero e proprio divieto probatorio con conseguente profilo di nullità dell’atto nel caso di violazione: ciò era dovuto all’assenza di una specifica
disposizione normativa collegata alla previsione di applicare la sanzione processuale in caso di inosservanza dei presupposti15.
Ad ogni modo, poiché la norma contenuta nell’art. 312 comma 1
c.p.p. 1930 richiamava la sola figura del giudice, solo questi poteva assumere tale mezzo di prova sia nella fase dell’istruzione e sia nella fase
dibattimentale e con ambito circoscritto al solo oggetto della prova.
Di conseguenza, con tale istituto si potevano assumere le testimonianze e si poteva procedere ad operazioni peritali e ad, eventuali, confronti: inoltre, il giudice era legittimato a servirsi di qualsiasi altra persona necessaria per eseguire l’atto senza ricoprire alcuna suitas di testimone o di perito16.
Di tutto quanto si verificava durante l’assunzione dell’atto doveva
essere redatto processo verbale ove le parti potevano far inserire richieste, osservazioni in ordine alle modalità di svolgimento ed, eventuali, eccezioni: il verbale, poi, doveva essere depositato in cancelleria con facoltà per le parti di prenderne visione ed estrarne copia17.
2. La disciplina attuale e le nuove dinamiche probatorie: il ruolo del giudice
Nell’ambito del processo penale l’utilizzo, sempre più diffuso, della tecnologia ha avuto, senza ombra di dubbio, dei risvolti positivi for14
Secondo BARONE, Esperimenti giudiziali, in DP, VII, Torino, 1990, 237, la condizione sub c) sarebbe da ritenere superflua dato che la legge stessa esclude, in via di principio,
qualsiasi pubblicità. Tuttavia, poiché l’art. 312 comma 1 c.p.p. abr., nell’escludere ogni pubblicità in materia, aggiunge la locuzione “per quanto le circostanze lo consentono”, non sembra potersi negare la rilevanza e l’operatività della condizione in oggetto qualora le circostanze del caso non permettano l’applicazione del principio.
15
Invece, CORDERO, Tre studi sulle prove penali, cit., 147, evoca la possibilità di rendere inutilizzabili i dati probatori acquisiti in violazione della legge.
16
Di tutte le operazioni si doveva dare avviso, a pena di nullità dell’atto, ai difensori e alle altre parti private secondo quanto disposto dagli artt. 304 bis, ter e quater c.p.p.
1930. In questi termini BELLAVISTA, TRANCHINA, Lezioni di diritto processuale, cit., 322.
17
Le norme contenute negli artt. 261 comma 2 e 463 c.p.p. abr., consentivano la possibilità di far ricorso alle riprese cinematografiche la cui proiezione, in sede dibattimentale, avveniva unitamente alla lettura del verbale riguardante l’esperimento. BELLAVISTA, Esperimento giudiziale, cit., 748: Id., In tema di delegazioni istruttorie del giudice del dibattimento, in
RIDPP, 1960, 363: LEONE, Trattato di diritto processuale penale, cit., 223: PISAPIA, Compendio di
procedura penale, Milano, 1988, 319.
57
Gianfederico Cecanese
nendo, agli operatori del diritto, strumenti di notevole efficacia con riverberi sulle decisioni giudiziali.
Spesso si ricorre alla sperimentazione di metodi, di modelli e di situazioni al fine di trarre, poi, con metodo deduttivo-induttivo conclusioni scientifiche da offrire alle parti processuali.
Tale tipo di sperimentazione, però, non risulta essere quella tipicamente disciplinata dal codice di procedura penale del 1988 negli articoli dedicati agli esperimenti giudiziali pur con qualche analogia e, in qualche caso, anche difficoltà: con una distinzione sostanziale dal punto di
vista tecnico, specie quando questi ultimi comportano la presenza di un
esperto18.
Il metodo della scienza moderna è caratterizzato per la sua natura
sperimentale ed ha offerto, negli ultimi tempi, un notevole numero di contributi scientifici, di diverso genere, nei settori più diversificati.
Eppure, attingere, con i relativi controlli, ad esperimenti già compiuti, è cosa differente dal procedere, ex novo, all’interno di un processo
penale, ad esperimenti ispirati dall’intento di risolvere specifici casi giudiziari attribuendo valore probatorio ai risultati ottenuti19.
Dunque, la linea di demarcazione tra le due categorie appare, talora, poco netta proprio a causa della varietà di esperimenti progettabili e
delle modalità, anche processuali, eseguibili.
Il legislatore del 1988 ha disciplinato gli esperimenti giudiziali all’interno della categoria dedicata ai mezzi di prova riservandogli una collocazione autonoma.
La scelta, di ordine sistematico, trova la sua ratio nel fatto che il legislatore ha voluto distinguere i mezzi di prova – con l’attitudine ad offrire al giudice dei risultati direttamente utilizzabili – dai mezzi di ricerca della prova – che, invece, non essendo fonte di convincimento, rendono possibile acquisire al processo cose materiali, tracce e dichiarazioni dotate di attitudine probatoria20.
L’aver inserito gli esperimenti giudiziali tra i mezzi di prova, implica, inoltre, che gli stessi debbano svolgersi, necessariamente, davan-
18
FIORI, La sperimentazione peritale, la sua fallacia e la sua irritualità, in RIML, 2012, 1387.
FIORI, La sperimentazione peritale, la sua fallacia e la sua irritualità, cit., 1388.
20
Per un approfondimento RAMAJOLI, La prova nel processo penale, Padova, 1995, 150,
il quale esalta la diversità ontologica tra i due istituti precisando che i mezzi di ricerca della prova, basandosi sul fattore sorpresa, sono espletati durante le indagini preliminari, in
deroga ai principi della centralità del dibattimento come luogo di formazione della prova. Si tratta di atti che non sarà più possibile ripetere perché si modifica l’oggetto e la situazione a cui si riferiscono.
19
58
Esigenze probatorie e giusto processo
ti ad un giudice nella fase dibattimentale ovvero, tutt’al più, in sede di
incidente probatorio.
Ovviamente, questo non sta a significare che nel corso delle indagini preliminari e, ai fini di queste, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, nei limiti della propria attività, non possano compiere verifiche
sperimentali della propria ipotesi di lavoro: in questo caso, però, l’attività resta esclusivamente di indagine senza alcuna attitudine probatoria
ai fini del giudizio21.
Allo stesso modo, è stato evidenziato che l’istituto in oggetto può
essere disposto solo quando sia possibile riprodurre il fatto, oggetto della prova, nelle condizioni in cui si afferma o si ritiene essere avvenuto;
l’impossibilità di una sua ricostruzione in termini di sostanziale identità rispetto ai dati di riferimento, invero, rende del tutto inutile, se non addirittura fuorviante ai fini del giudizio, la verifica attuata mediante controllo sperimentale, con la conseguenza che non può disporsi un’operazione di cui già preventivamente si conosca l’inutilizzabilità del risultato come mezzo di prova22.
D’altra parte, un’attività che non sia rivolta a riprodurre il meccanico svolgimento di una vicenda della vita e si esaurisca solo in un accertamento sulle cose e sui luoghi attuabile con osservazione immediata e diretta non costituisce esperimento giudiziale e può essere compiuto anche dalla polizia giudiziaria al di fuori del perimetro tracciato dagli art. 218 e ss c.p.p.23.
Questa è la logica che ha spinto il legislatore del 1988 a codificare,
nell’art. 218 c.p.p., i presupposti e le finalità dell’istituto che può essere
disposto quando “occorre accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in
un determinato modo” e che si sostanzia “nella riproduzione, per quanto possibile, della situazione in cui si afferma essere avvenuto il fatto e nella ripetizione delle modalità di svolgimento dello stesso”24.
Dunque, se da un lato, il presupposto che ne legittima l’adozione
va individuato in una situazione di incertezza sulle modalità e sulle stesse possibilità di accadimento di un determinato fatto, dall’altro, l’ogget21
FRIGO, Esperimento giudiziale, in EGT, XIII, Roma, 1994, 2.
Cass. Sez. II, 9.03.1995, Amico, in CED n. 200979: Id., Sez. IV, 3.04.1987, Alvarez,
in CED n. 175554: Id. Sez. II, 10.05.1984, Curato, in CED n. 164148.
23
Cass. Sez IV, 26.05.2004, Polito, in CED n. 228590, secondo cui in tema di prova,
un accertamento che non sia volto ad una semplice descrizione oggettiva e statica di una
cosa non costituisce esperimento giudiziale né perizia né’ accertamento tecnico non ripetibile, comportante la necessità dell’intervento della difesa.
24
Per questa definizione costruita, del resto, in modo strettamente aderente al dettato
dell’art. 218 c.p.p., cfr., CONSO, BARGIS, Glossario delle nuova procedura penale, Milano, 1992, 1905.
22
59
Gianfederico Cecanese
to ne limita l’ambito di operatività circoscrivendolo alla riproduzione “sperimentale” delle ipotesi avanzate al riguardo25.
Insomma, l’atto si sostanzia in un controllo sperimentale di un determinato accadimento rilevante ai fini processuali attraverso la riproduzione meccanica di esso e la percezione dei dati e dei fenomeni che da
tale riproduzione derivano26.
Può essere disposto quando il fatto oggetto di indagine sia verificabile mediante l’immediata rilevazione dei dati e con un processo cognitivo fondato sulla comune esperienza: in altri termini, i risultati ottenuti simuleranno un’esperienza artificiale e la percezione di tali risultati consentirà il controllo della vera esperienza27.
In questo modo, la riproduzione dell’ipotetico avvenimento consente al giudice di verificare la compatibilità con l’ipotesi storica, sempre che
la ricostruzione del fatto, disposta con l’esperimento giudiziale, operi in
termini di sostanziale identità rispetto ai dati di riferimento della prova
ammessa: d’altronde, una ricostruzione approssimata renderebbe inutile la verifica mediante controllo sperimentale sganciandosi dalle coordinate contenute nell’art. 218 comma 2 c.p.p.28.
Più in generale, si può affermare che il fatto oggetto di esperimento deve essere inteso in maniera ampia ed elastica ricomprendendo anche quegli episodi ricollegabili indirettamente alla condotta criminosa,
purchè influenti sull’accertamento nonché quei fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali29: in particolare, l’ampiezza della sua operatività può essere estesa anche alle dinamiche probatorie30 come, ad esempio, per verificare se un determinato testimone, nelle condizioni di tempo e di luogo, abbia potuto, effettivamente, osservare e percepire un determinato accadimento31.
25
Per un approfondimento CHIAVARIO, Scelte di valore e tecniche normative nella tutela della libertà di coscienza. Esperienze minime della recente codicazione processuale penale, in LP,
1996, IV, 625.
26
In questi termini, PISANI, La tutela penale della prova formata nel processo, Milano, 1959, 149.
27
Così, ampiamente, ALLEGRO, Esperimento giudiziale, in DP, II Agg., Torino, 2005, 1.
28
ALLEGRO, Esperimento giudiziale, cit., 2, il valore probatorio del mezzo di prova in
oggetto è, invero, proporzionale alla fedeltà della riproduzione del fatto.
29
CORDERO, Procedura penale, cit., 780, rileva che il riferimento deve essere esteso ad
ogni fatto “rilevante”.
30
CALAMANDREI, Esperimento giudiziale “inutile” e diritto alla controprova, in GI, 1996,
II, 240: CORDERO, Procedura penale, cit., 783: DOTTA, Sub art. 218, in Commentario al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, Torino, 1990, II, 561.
31
In questo senso si è espressa la giurisprudenza di legittimità chiarendo che l’attività del teste che accompagna la polizia giudiziaria sui luoghi dove si è consumato un rea-
60
Esigenze probatorie e giusto processo
Secondo la dottrina dominante il fatto deve, necessariamente,
consistere in un’azione umana, un accadimento naturale, un comportamento di esseri animali o di oggetti inumani e deve essere ontologicamente connesso al funzionamento di dispositivi tecnologici o sonori o ad
ogni altro fenomeno percepibile con uno dei sensi32.
Inoltre, essendo inverosimile riprodurre conformemente all’originale, si è ritenuto sufficiente far coincidere gli aspetti “eziologicamente rilevanti” ripetendo “il contesto più simile fra i possibili”33.
L’argomento è stato scandagliato anche dalla giurisprudenza di legittimità la quale ha fornito una definizione dell’esperimento giudiziale chiara e netta precisando che esso costituisce un affinato strumento euristico tipico della logica ipotetica-deduttiva falsificazionista34.
Si riproduce il fatto in una situazione controllata e tipica al fine di
verificare se la catena causale, che si assume in ipotesi essersi estrinsecata nel caso oggetto del giudizio, possa essersi effettivamente concretizzata nelle condizioni date nel processo: se si accerta che, in tali condizioni, il processo causale ha avuto nuovamente luogo con le medesime modalità, l’ipotesi causale è accreditata.
Se, viceversa, il processo causale non si riproduce, l’ipotesi eziologia che riconduce l’evento ad un determinato fattore causale e ad una determinata generalizzazione esplicativa viene falsificata.
In tale situazione può solitamente ritenersi che l’ipotesi di spiegazione degli accadimenti non sia pertinente al caso concreto.
In altre parole, si tratta di uno strumento tipico della logica scientifica sperimentale che viene opportunamente utilizzato in ambito giudiziario.
È di tutta evidenza come la logica sperimentale che caratterizza tale
strumento d’indagine impone la perimetrazione del contesto in cui avviene la riproduzione degli accadimenti e stabilisce, per quanto possibi-
to fa parte dell’attività informativo-descrittiva propria della testimonianza, costituendo integrazione della descrizione orale, mentre perché possa aversi esperimento giudiziale è,
invece, necessaria la ricostruzione, nel senso di ripetizione, di un determinato fatto per verificare se esso possa essere avvenuto in un determinato modo. Cfr., Cass. Sez. IV, 24.05.2000,
Polito in CP, 2001, 2728.
32
DOTTA, Sub art. 218, cit., 561: LORUSSO, Esperimenti giudiziali, in La prova penale, diretto da A. GAITO, Milano, 2008, 627- 640.
33
CORDERO, Procedura penale, cit., 779: DOTTA, Sub art. 218, cit., 561: LORUSSO, Esperimenti giudiziali, cit., 641.
34
Secondo Cass. Sez. IV, 26.05.2010, Montini, in CED n. 247537, l’esperimento giudiziale ha la funzione di verificare in concreto un’ipotesi esplicativa sullo sviluppo di un accadimento, ed a controllare il contesto, onde evitare il pericolo di fattori di confondi mento.
61
Gianfederico Cecanese
le, il suo rigido controllo: ciò, al fine di evitare che qualcuno dei numerosi fattori interagenti del complesso iter causale, intervenendo in modo
incontrollato, perturbano l’andamento dell’indagine, confondendone il
significato.
Secondo il ragionamento seguito dalla Corte si tratta di assicurare
il rispetto della clausola ceteris paribus, che costituisce il presupposto implicito di qualunque indagine esplicativa focalizzata su uno specifico fattore causale: tale clausola viene “gestita” in ambito scientifico con consapevole affinata attenzione al contesto, ripetendo l’esperimento in modo
rigidamente controllato.
Il legislatore del 1988, consapevole delle delicate implicazioni euristiche connesse al contesto d’indagine, ben note del resto all’epistemologia scientifica, ha disciplinato l’esperimento giudiziario con una certa accuratezza, proprio per assicurare che esso avvenga in modo controllato e sia adeguatamente documentato35.
Da tali considerazioni emergono, in modo chiaro, le coordinate essenziali che definiscono l’istituto probatorio di cui si discute.
Da un lato lo scopo: la verifica concreta, sperimentalmente, di un’ipotesi esplicativa sullo sviluppo di un accadimento; dall’altro, invece, la necessità di controllare il contesto, per stornare il pericolo di fattori di confondimento36.
Insomma, qualsiasi possa essere la natura dell’istituto il termine37che
lo designa rinvia, comunque, ai principi del metodo scientifico che, in sintesi, consiste nella modalità tipica con cui la scienza procede per ottenere una conoscenza della realtà oggettiva, affidabile, riproducibile, verificabile e condivisibile.
Esso consiste, da una parte, nella raccolta di evidenze empiriche e
35
MELCHIONDA, L’esperimento giudiziale, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. CHIAVARIO, E. MARZADURI, Torino, 1999, 293.
36
A tale ordine di idee, del resto, la Corte di cassazione, Sez. VI, 19.01.1996, Pezzatini, in CED n. 204149, si è già, implicitamente, attenuta affermando che un accertamento
che non sia volto a stabilire lo svolgimento di un fatto mediante la sua riproduzione fenomenica, né diretto a richiedere il parere di un esperto (sul come e sul perché un fatto sia
accaduto secondo la cognizione tecnica di scienze ed arti), ma tenda semplicemente ad ottenere la descrizione oggettiva e statica di una determinata cosa non costituisce esperimento giudiziale ne’ perizia ne’ accertamento tecnico non ripetibile, comportante la necessità
dell’intervento della difesa, ma un accertamento sulle cose e sui luoghi, cioè un’osservazione immediata e diretta che può essere compiuta anche dalla polizia giudiziaria.
37
Il vocabolo indica un’operazione volta a cercare qualcosa, un tentativo, una prova o un saggio. In questi termini, GABRIELLI, Il grande dizionario della lingua italiana, Milano, 2008, 921.
62
Esigenze probatorie e giusto processo
misurabili attraverso l’osservazione e l’esperimento e, dall’altra, nella formulazione di ipotesi e teorie più generali da sottoporre al vaglio dell’esperimento per testarne l’efficacia38.
In questo senso, il metodo scientifico si sostanzia nello studio sistematico, controllato, empirico e critico di ipotesi sulle relazioni tra fatti ed
eventi39.
3. Le prerogative connesse al ruolo delle parti
Nella dinamica del modello processuale adottato dal legislatore del
1988 le parti assumono un ruolo preminente, contrariamente a quanto
si verificava in passato.
Se, invero, nei codici previgenti il giudice aveva un ruolo centrale
potendo decidere liberamente quando e come organizzare l’esperimento giudiziale avendo come unico parametro di riferimento l’utilità dello stesso, nell’attuale sistema processuale le parti dispongono della prova e delle prerogative ad essa connesse: pertanto, l’esperimento, al pari
di ogni altro mezzo di prova, è oggetto di un diritto delle parti per iniziativa delle quali deve essere ammesso dal giudice.
Quest’ultimo, a sua volta, essendo vincolato alle coordinate giuridiche indicate nell’art. 190 c.p.p., potrà escluderlo soltanto in caso di ritenuta superfluità o irrilevanza, mentre potrà disporlo d’ufficio al termine dell’istruttoria dibattimentale nel caso lo ritenga assolutamente necessario (art. 507 c.p.p.).
Entro certi limiti, poi, l’istituto può essere disposto anche durante
la fase delle indagini preliminari ma soltanto previo l’utilizzo dell’incidente probatorio nei caso disciplinato dall’art. 392 comma 1 lett. f) c.p.p.
allorchè ha ad oggetto “una persona, una cosa, o un luogo il cui stato è soggetto a modifica non evitabile”40.
38
BLAIOTTA, Causalità giuridica, Torino, 2010, 374.
Secondo i principi di Popper – che per loro caratteristica appaiono i più importanti ai fini giudiziari – una teoria può essere sottoposta a controlli efficaci e dirsi scientifica solo se formulata a priori in forma deduttiva. La peculiarità del metodo scientifico consiste nella possibilità di “falsificarla”, non nella presunzione di “verificarla”. POPPER, Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, Roma, 1983, 46
40
VOENA, Sub art. 392, in Commentario al nuovo codice di procedura penale, coordinato
da M. CHIAVARIO, IV, Torino, 1990, 469, individua la ratio della previsione nella deteriorabilità dell’oggetto della prova. In tale fattispecie rientra non solo ogni modifica che determina l’impossibilità materiale di compiere l’atto in dibattimento, ma anche ogni alterazione in grado di pregiudicare il risultato dell’esperimento. Negli stessi termini CESARI, L’irripetibilità sopravvenuta degli atti di indagine, Milano, 1999, 161.
39
63
Gianfederico Cecanese
Rientrando tra le prove di cui le parti chiedono l’ammissione (art.
493 c.p.p.)41 esso, inoltre, può essere oggetto del c.d. diritto alla controprova (art. 495 comma 2 c.p.p.): tuttavia, in entrambi i casi, le parti hanno l’onere di indicare e definire il tema di prova che dovrà coinvolgere
l’istituto42.
Al giudice è, invece, rimesso il solo potere di organizzare l’atto e di
acquisire la prova tenuto conto delle indicazioni offerte dalle parti43.
Secondo le scansioni dell’art. 219 c.p.p. il provvedimento con cui il
giudice dispone l’esperimento giudiziale è un’ordinanza che, nella parte motiva, deve indicare “la succinta enunciazione dell’oggetto” della prova (verifica sperimentale sul “se” e sul “come” del fatto affermato o supposto) e deve menzionare le “modalità dell’esperimento” (cioè del “come”
debba compiersi tale verifica).
Nel provvedimento il giudice deve indicare, inoltre, quanto necessario per lo svolgimento delle operazioni (art. 219 comma 2 c.p.p.).
La critica ha rilevato che quest’ultima regola di comportamento avvicina la disciplina dell’esperimento a quella della c.d. prova atipica configurandosi, entrambi, come fattispecie probatorie a forma libera: sotto
questo profilo, peraltro, va evidenziata la differente soluzione normativa adottata dall’art. 189 comma 1 c.p.p. per le prove non disciplinate dalla legge, rispetto alle quali, il giudice provvede all’ammissione dopo aver
sentito le parti sulle modalità di assunzione della prova, imponendo, di
conseguenza, il contraddittorio che, invece, è escluso nel caso de quo44.
Un aspetto peculiare assume la documentazione dell’atto poiché al
giudice è riconosciuto il potere di disporre che ciò avvenga con le rilevazioni fotografiche o cinematografiche: è, inoltre, prevista la possibilità di ricorrere ad altri strumenti o procedimenti frutto dell’evoluzione tecnologica (art. 219 comma 2 c.p.p.).
41
Secondo Cass. Sez. I, 31/01/2014, Adamo, in CED n. 259413., l’esperimento giudiziale è una prova che deve essere assunta nel contraddittorio delle parti e, pertanto, nella ipotesi in cui sia stato eseguito da una sola parte, i suoi risultati possono essere acquisiti al fascicolo per il dibattimento solo con il consenso delle altre parti.
42
CALAMANDREI, Esperimento giudiziale “inutile” e diritto alla controprova, cit., 241.
43
Secondo FRIGO, Esperimento giudiziale, cit., 5, il diritto delle parti alla prova ed il correlativo potere del giudice di ammetterla, organizzarla e acquisirla debbono trovare un coordinamento con l’esigenza di rappresentare e riconoscere il presupposto della prova stessa, cioè, l’ipotesi di cui occorre procedere alla verifica sperimentale.
44
AMODIO, Libero convincimento e tassatività dei mezzi di prova: un approccio comparativo, in RIDPP, 1999, 3: BRUSCO, Il vizio di motivazione nella valutazione della prova scientifica,
in DPP, 2004, 1413: PAPAGNO, L’interpretazione del giudice penale tra regole probatorie e regole
decisorie, Milano, 2009, 23: RICCI, Le prove atipiche, Milano, 1999, 87.
64
Esigenze probatorie e giusto processo
Risulta, evidentemente, insufficiente la mera verbalizzazione dell’attività svolta per cristallizzare i risultati di una tipologia probatoria che coinvolge l’intero apparato sensoriale e sovente si svolge in contesti spazio-temporali differenti e diversificati, lontano dall’aula di udienza dibattimentale45.
A differenza del codice del 1930, nel quale l’atto era assunto nella
fase istruttoria con esclusione, per quanto possibile, della forma di pubblicità, alcun divieto è previsto nella disciplina attuale, per cui il giudice può adottare i provvedimenti previsti dall’art. 471 c.p.p. al fine di assicurare il regolare compimento dell’atto anche quando è eseguito al di
fuori dell’aula di udienza (art. 219 comma 3 c.p.p.), nonché di disporre
che il suo svolgimento avvenga in modo tale da non offendere i “sentimenti di coscienza” e non esporre a pericolo la sicurezza pubblica o l’incolumità delle persone (art. 219 comma 4 c.p.p.)46.
Previsione, quest’ultima, che ricalca e attualizza quella contenuta nell’art. 312 comma 3 c.p.p. 1930 ma con una fondamentale novità costituita dall’assenza di qualsivoglia conseguenze processuali per la sua inosservanza47.
Pertanto, è pienamente utilizzabile l’esperimento anche quando le
sue modalità esecutive incidono sui suddetti valori, avendo, l’attuale formula legislativa, fugato ogni dubbio sull’eventuale sussistenza di divieti probatori che la vecchia dizione sollevava.
Insomma, la stesura dell’art. 219 c.p.p., nel complesso, si caratterizza per essere connotata da una maggiore puntualizzazione dei poteri riconosciuti al giudice rispetto alle previsioni contenute nell’art. 312 c.p.p.
abr.: il tutto, senza che sia stato mutato il potere discrezionale che lo stesso può adottare nella scelta delle modalità di estrinsecazione dell’atto48.
45
In dottrina, DOTTA, Sub art. 219, in Commentario al nuovo codice di procedura penale,
coordinato da M. CHIAVARIO, IV, Torino, 1990, 565: MAROTTA, prova (mezzi di ), cit., 360: SIRACUSANO, La prova, in SIRACUSANO, GALATI, TRANCHINA, ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, vol. I, Milano, 2006, 386
46
Secondo MENNA, Sub art. 219, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura
di A. GIANRDA, G. SPANGHER, Milano, 2010, 2166, la difesa dei sentimenti di coscienza non
costituisce un limite rilevante nell’ambito operativo dell’esperimento proprio perché non
configurata in termini di divieto probatorio, ma di valutazione di opportunità dell’organo giudicante sul quomodo del suo espletamento.
47
In occasione della stesura del Progetto preliminare del 1978 (art. 207), nel testo originario era contenuta la previsione di un divieto degli esperimenti offensivi del sentimento religioso o di pietà verso i defunti, nonché di quelli pericolosi per l’incolumità individuale o per la sicurezza pubblica: tale previsione fu, poi eliminata nel parere della Commissione consultiva. Al riguardo, CONSO, GREVI, NEPPI E MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, cit., 577 e ss.
48
FRIGO, Esperimento giudiziale, cit., 6, sottolinea che la discrezionalità è vincolata alla
richiesta delle parti.
65
Gianfederico Cecanese
Nell’ambito di svolgimento di quest’ultimo alcune operazioni
particolari possono essere disposte con l’ausilio di un esperto nominato dal giudice.
La possibilità di nomina, da cristallizzare nell’ordinanza, rappresenta un’ulteriore novità del codice del 1988: invero, nel codice previgente,
potevano essere chiamati i testimoni e i periti, ma non già per offrire un
contributo all’esecuzione del mezzo di prova quanto, piuttosto, per aiutare il giudice nella determinazione dei presupposti e del contenuto della stessa49.
Epperò, la figura dell’esperto va, necessariamente, distinta da ogni
altra figura cui si debba ricorrere per attuare la prova e che, a tal fine, presti materialmente un’attività.
Nella Relazione al progetto preliminare è stato sottolineato che l’esperimento può determinare la necessità di espletare una perizia, ma che si
è fuori dall’ambito di questa, quand’anche esso si compia con l’aiuto esecutivo di un esperto50.
D’altra parte, si può verificare, a contrario, che dalla perizia nasca
l’opportunità di procedere all’assunzione di un esperimento: ovviamente, in questo caso, spetterà alle parti sollecitare il giudice51.
Tuttavia, tra perito ed esperto sussistono differenze ontologicamente rilevabili: il primo espleta indagini, acquisisce dati e fornisce valutazioni (quando sono richieste specifiche competenze tecniche, artistiche
e scientifiche ex art. 220 c.p.p.): viceversa, all’esperto è riservato il compito di svolgere soltanto attività esecutive inerenti l’acquisizione probatoria già determinata nei suoi presupposti, nel suo contenuto e nelle sue
modalità52.
Il dato si ricava dalla littera legis (art. 219 c.p.p.) che ha utilizzato il
termine “esecuzione” proprio per demarcare tale attività riferendola, poi,
49
MELCHIONDA, L’esperimento giudiziale, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, cit., 301.
50
LATTANZI-LUPO, Il nuovo codice di procedura penale, annotato con la relazione e i lavori
preparatori, Milano, 1989, 363.
51
L’art. 317 c.p.p. 1930 prevedeva che il perito poteva indicare al giudice la necessità di un esperimento e il giudice, dal canto suo, lo disponesse. Una simile previsione non
poteva essere riprodotta nell’attuale codice poiché il potere officioso del giudice è residuale e opera in casi eccezionali.
52
Al riguardo Cass. Sez. I, 1.07.1966, Foneroli, in MCP, 1967, 1048, secondo cui l’esperimento giudiziale si distingue dalla perizia in quanto il primo comporta l’uso ed il controllo di dati elementari per i quali sia sufficiente la comune esperienza del giudice: invece, la perizia costituisce uno strumento più adeguato quando l’indagine richiede particolari cognizioni o applicazioni di carattere tecnico o scientifico.
66
Esigenze probatorie e giusto processo
a una categoria determinata di operazioni.
Secondo autorevole dottrina la locuzione sembra dare per scontato che l’esperto sia chiamato ad eseguire non tutte le operazioni dell’esperimento, ma soltanto una parte di esse e cioè quelle per cui è necessaria
la sua competenza53.
Anche al di fuori dei casi in cui sia disposta una perizia, alle parti
è riconosciuta la facoltà di nominare propri consulenti tecnici non tanto al fine di far eseguire delle “operazioni”, quanto per rendere più effettive e concrete le implicazioni ontologicamente connesse al diritto di difesa nella sua ampia accezione (come, ad esempio, proporre al giudice
una modalità differente di compimento delle operazioni)54.
In conclusione, anche per l’esperimento giudiziale si pone il quesito relativo all’utilizzazione dei suoi risultati.
Si tratta di un apprezzamento che avverrà secondo la regola di giudizio sottesa all’art. 192 c.p.p. in tema di libero convincimento circoscritto all’indicazione, nella motivazione, dei criteri adottati e dei risultati ottenuti.
Ovviamente, anche se con tale atto si offrono dei risultati di natura scientifica, questo non implica che il giudice sia vincolato a tenerne conto: la scientificità delle coordinate entro cui l’atto si svolge, non comporta, invero, un’assoluta oggettività dei suoi esiti55.
Naturalmente, ai fini della riuscita dell’esperimento, acquistano particolare rilievo i dati disponibili, in base ai quali si compie la verifica sperimentale: il grado di attendibilità e la forza persuasiva del risultato ottenuto con l’esperimento saranno tanto maggiori quanto più fedele, accorta e meticolosa sarà la riproduzione dell’accadimento56.
53
FRIGO, Esperimento giudiziale, cit., 7, secondo il quale non si può escludere che, in
alcuni casi, l’esperto deve eseguire tutte le operazioni.
54
In subiecta materia gli arresti giurisprudenziali hanno offerto criteri utili circa l’impiego e la garanzia del sapere scientifico nei processi e che, ovviamente, assumono decisivo rilievo nell’ipotesi di eventuali decisioni di procedere a sperimentazione, sia giudiziale che peritale. Cass. Sez., 13.12.2010, Cozzini, in CED n. 248944: Id., Sez. IV, 4.11.2010,
Quaglierini, in CED n. 248847. In dottrina, invece, è stato rilevato che i criteri da seguire
si rifanno alla nozione di rilevanza, idoneità-utilità, affidabilità ed attendibilità della testimonianza. Il tutto in considerazione del fatto che nella scienza non ci sono certezze per cui
occorre la massima prudenza nell’utilizzazione dei risultati. Cfr., TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1982, 34: STELLA, Giustizia e modernità, la protezione dell’innocente e la tutela della vittima, Milano, 2003, 45: TAGLIARO, D’ALOJA, FREDERICK, L’ammissibilità della prova scientifica in giudizio e il superamento del Fraye standard: note sugli orientamenti negli Usa successivi al caso Daubert v. marrel Don Pharmacenticals, in RIML, 2000, 22, 719.
55
In tal senso, LORUSSO, Esperimenti giudiziali, cit., 645.
56
BERNASCONI, Confronti, ricognizione ed esperimenti giudiziali, (proc. pen.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da CESARE, Milano, 2006, II, 1289.
67
Gianfederico Cecanese
Di conseguenza, è importante riprodurre fedelmente, le coordinate spazio-temporali del fatto (affermato o ritenuto) anche se, come si ricava dall’art. 218 c.p.p., la piena ed assoluta identità con l’accadimento
originario è oggettivamente e praticamente irrealizzabile.
D’altro canto, poiché nella scienza non ci sono certezze è d’obbligo la cautela nella valutazione probatoria dell’esperimento giudiziale, nonostante il costante progresso tecnico-scientifico, dovendo il giudice trarre preferibilmente da esso, un apprezzamento di sintesi che possa colorare materiali cognitivi di diversa origine all’apparenza disgregati, incerti, ondeggianti, contribuendo all’accertamento dei fatti oggetto del processo57.
57
Sui rapporti tra scienza, verità e verosimiglianza, CALAMANDREI, Verità e verosimiglianza nel processo civile, in RDP, 1955, I, 170.
68
LUISA CORAZZA
Crisi economica e trasformazione del sistema
di relazioni industriali in Italia1
SOMMARIO: 1. Crisi, globalizzazione e revisione del diritto sindacale italiano. - 2. Il terremoto del “caso Fiat”. - 3. Lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso il livello decentrato. - 4. Il cammino verso un sistema di relazioni industriali regolato e il tema della “esigibilità” del contratto collettivo. - 5. Gli strumenti negoziali di governo del conflitto collettivo. - 6. La tensione verso obblighi impliciti di
pace sindacale. 7. - Conclusioni: un nuovo diritto dei rapporti intersindacali?
1. Crisi, globalizzazione e revisione del diritto sindacale italiano
Dopo decenni di relativa quiete, il diritto sindacale italiano ha attraversato negli ultimi anni una vera e propria fase “costituente”, nella
quale, soprattutto per opera dell’autonomia collettiva, è stato progressivamente colmato quel vuoto regolativo creatosi per scelte più o meno
consapevoli a partire dal dopoguerra.
L’esigenza di colmare il vuoto di regole – che ha creato una situazione di incertezza e alla fine ha infragilito non solo il sistema di relazioni industriali, ma anche il sistema produttivo – è divenuta via via impellente con la pressione competitiva innescata dai processi di globalizzazione e internazionalizzazione dei mercati. E ciò perché il quadro regolativo che circonda le relazioni sindacali dell’impresa costituisce, insieme ad altri fattori, quella cornice di regole che può contribuire a rendere competitivo un sistema, oppure, al contrario, può minarne la competitività. Il rischio che deriva dall’innescarsi di contenziosi sull’efficacia
del contratto collettivo dai tempi ed esiti incerti, unito alla difficoltà di
assicurare il rispetto di quanto pattuito dagli accordi collettivi costituiscono invero un fattore di debolezza nella competitività complessiva di
un sistema economico. Per questo, la forte spinta verso il cambiamento
del sistema di relazioni industriali è scaturita dall’internazionalizzazione dei processi competitivi.
1
Il presente scritto costituisce una rielaborazione in lingua italiana, con l’aggiunta
di note, della relazione tenuta dall’autrice al VIII Congreso Internacional de Derecho Comparado del Trabajo, sul tema «Los sindicatos ante la crisis económica en Europa y en los Estados Unidos», La Coruña, 28/29 gennaio 2014.
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Questa dimensione tutta transnazionale dell’economia ha messo in
discussione il livello nazionale delle decisioni. Già da diversi decenni l’economia mondiale è caratterizzata da una forte integrazione dei sistemi economici, ma l’interdipendenza dei decisori istituzionali si è manifestata
con maggiore evidenza a partire dalla crisi finanziaria e dei debiti sovrani intervenute nel triennio 2008-2011. Questa crisi ha messo in discussione il sistema di regole del lavoro affermatosi in Italia (e in gran parte dell’Europea continentale) nella seconda metà del secolo scorso, stemperando la centralità degli stati nazionali nella produzione delle stesse. Il fenomeno è noto e riflette, nella sostanza, il superamento del modello di
strutturazione delle fonti derivante dal Patto di Westfalia, che collocava
al centro della produzione del diritto lo Stato-nazione2. Tale fenomeno
di declino del livello nazionale nei processi decisionali si è riflettuto nel
diritto sindacale italiano, ed è stato acuito dalla crisi economica dell’ultimo decennio. Crisi e globalizzazione hanno dunque concorso nel determinare la profonda trasformazione che è in atto nel sistema italiano
di relazioni industriali.
Le politiche del lavoro non sono più appannaggio esclusivo degli
Stati nazionali, ma sono sempre più determinate da una stretta interdipendenza tra soggetti istituzionali e interlocutori sociali parti di un sistema più complesso, in cui interagiscono le istituzioni sovranazionali,
le istituzioni dei mercati finanziari, altri Stati nazionali, e, solo eventualmente, le parti sociali3.
In questo scenario, risulta nuova anche la dimensione nazionale dei
fenomeni: anche all’interno del contesto nazionale, si produce una profonda diversificazione dei contesti, tanto che regole uniche sul territorio
risultano non più in grado di cogliere la realtà dei sistemi produttivi. La
profonda segmentazione del mercato del lavoro rappresenta ormai un
punto di partenza, come lo è la diversificazione dei contesti produttivi
a seconda della dimensione delle imprese, del tipo di attività produttiva, del contesto territoriale in cui l’impresa si trova ad operare.
Da qualche anno ormai – almeno dall’inizio della tormentata vicenda nota come “caso Fiat” (su cui ci si soffermerà nel paragrafo che segue
per l’importanza che ha rivestito nella trasformazione del sistema italiano di relazioni industriali) – i protagonisti delle relazioni industriali fan-
2
Per questa trasformazione v. per tutti A. PIZZORUSSO, La problematica delle fonti del
diritto all’inizio del XXI secolo, in “Foro italiano”, 2007,V, p. 38.
3
A. LASSANDARI, La tutela collettiva nell’età della competizione economica globale, in AA.VV.,
Studi in onore di Giorgio Ghezzi, vol. II, Padova, Cedam, 2005.
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no i conti con questa “pressione” e, in una situazione di sostanziale astensione del sistema politico (ad eccezione del discusso intervento compiuto con l’art. 8, d.l. n. 138/2011, conv. in l. n. 148/2011), stanno operando
per colmare questo vuoto per mezzo dell’autonomia collettiva. Si è parlato, in proposito, di una progressiva “aziendalizzazione” della contrattazione collettiva4.
2. Il terremoto del “caso Fiat”
Il caso Fiat è paradigmatico del terremoto che ha investito le relazioni industriali italiane e pertanto merita qualche ulteriore precisazione. La vicenda sindacale della fabbrica di automobili italiana ha messo
a nudo la fragilità della cornice regolativa delle relazioni industriali italiane.
Nel 2010 Fiat ha deciso di procedere ad una ristrutturazione del sistema produttivo e del sistema di organizzazione del lavoro, introducendo il modello di organizzazione WCM (World class manifacturing). Tale modello di produzione richiedeva alcuni cambiamenti organizzativi (relativi a orari di lavoro, turni, gestione degli straordinari, controllo dello sciopero) da apportare al contratto collettivo nazionale di lavoro che al tempo l’azienda Fiat applicava (il contratto nazionale delle aziende metalmeccaniche). Per ovviare a questo empasse, l’azienda decise di stipulare
propri contratti collettivi, di livello inizialmente aziendale, da applicare in sostituzione del contratto collettivo nazionale, quali contratti collettivi specifici di primo livello (e non pertanto di livello integrativo). Un
tale processo di sostituzione del contratto collettivo nazionale è iniziato negli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori per estendersi a tutto il gruppo Fiat nel corso del 2011.
Con gli accordi Mirafiori e Pomigliano del dicembre 2010 è bastato un intervento sulla conformazione societaria del datore di lavoro per
mandare in crisi due strutture portanti delle relazioni sindacali all’interno dell’impresa: l’applicabilità del contratto collettivo nazionale di categoria precedentemente applicato e la possibilità, per i sindacati che avevano presso Fiat proprie rappresentanze, di continuare a costituirle secondo lo schema disegnato dall’Accordo interconfederale del 1993. Questo processo è stato infatti inizialmente reso possibile dalla costituzione
di una new company la quale, non iscrivendosi a Confindustria, poteva
4
E. ALES, Dal caso FIAT al “caso Italia”. Il diritto del lavoro “di prossimità”, le sue scaturigini e i suoi limiti costituzionali, in “Diritto delle relazioni industriali”, 2011, p. 1061.
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evitare di sottoporsi all’applicazione della contrattazione collettiva del
sistema confindustriale.
Un tale gioco di specchi è stato possibile perché il sistema di relazioni industriali in Italia è stato caratterizzato dal dopoguerra al 2010, da
una forte informalità, dotato di una cornice normativa assai snella e quasi per intero costituita dalla disciplina del diritto civile dei contratti, cui
si aggiungono regole di fonte giurisprudenziale o contrattuale, soggette, le prime, a mutamenti di orientamento e, le seconde, ai limiti tipici del
contratto.
Anzitutto, poiché non esistono nell’ordinamento leggi ordinarie che
disciplinano l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, l’appartenenza (o la non appartenenza) del datore di lavoro a una determinata associazione datoriale è ciò che fino a quel momento aveva condizionato l’applicazione del contratto collettivo nazionale di categoria. E’ quanto è successo nel caso Fiat, dove, attraverso la costituzione di un nuovo soggetto imprenditoriale, il datore di lavoro si è sottratto all’applicazione del
contratto collettivo dei metalmeccanici, dato che il nuovo soggetto non
aderisce al sistema di Confindustria.
Ciò che ha consentito questa “fuga” dal contratto nazionale è connesso alla vicenda retributiva. In questa situazione, infatti, non si sono
posti problemi di violazione dei minimi salariali, che potrebbero indurre il giudice a verificare, in virtù dell’art. 36 della Costituzione – che impone il principio di sufficienza della retribuzione –, la compatibilità tra
le retribuzioni previste da questo nuovo contratto collettivo e i minimi
tabellari del CCNL della categoria di riferimento (sono questi, infatti, i
limiti che si pongono alla scelta, da parte del datore di lavoro, di quale contratto collettivo applicare). Nel contratto di Pomigliano, infatti, le
retribuzioni previste dal nuovo accordo costituivano un aumento rispetto ai livelli retributivi precedenti.
La sostituzione del contratto collettivo nazionale con il contratto di
primo livello firmato a Pomigliano, Mirafiori, e successivamente in tutto il gruppo Fiat, è risultata perciò compatibile con il sistema che regola l’efficacia dei contratti. In tal modo, l’intero problema delle deroghe
del contratto aziendale rispetto a quello nazionale è stato “bypassato” dalla creazione di questo nuovo contratto, definito “contratto collettivo di
lavoro specifico di primo livello”, reso possibile dalla non affiliazione di
Fabbrica Italia Pomigliano al sistema di Confindustria, in un primo momento, e, successivamente, dalla definitiva uscita di Fiat da Confindustria. Oggi Fiat applica un proprio contratto collettivo di gruppo e, non
essendo iscritta a Confindustria, non applica il contratto collettivo nazionale di categoria.
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Il secondo effetto dirompente della mancata adesione del nuovo soggetto imprenditoriale al sistema confindustriale riguarda il tema della rappresentanza sindacale in azienda. Sotto questo profilo, però, il modello
congegnato da Fiat non ha avuto il successo atteso, dato l’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 231 del 2013.
In proposito, l’uscita di Fiat da Confindustria ha indotto il datore
di lavoro a non applicare il modello di rappresentanza in azienda previsto dall’Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993, che aveva com’è noto disciplinato le modalità di costituzione delle RSU, introducendo per la prima volta nel settore privato un meccanismo di verifica della rappresentanza su base elettiva. Senza l’applicazione del suddetto Accordo, le regole per la costituzione di rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro sono quelle previste dall’art. 19 Statuto dei lavoratori, che,
nella versione successiva al referendum abrogativo del 1995, consente di
costituire le rappresentanze sindacali aziendali ai soli sindacati firmatari dei contratti collettivi applicati in azienda. Poiché, tuttavia, il sindacato Fiom/CGIL non ha firmato il nuovo contratto collettivo applicato da
Fiat, a tale sigla sindacale è stato precluso l’accesso alle strutture di rappresentanza in azienda5.
Per la verità, all’indomani del referendum del 1995 che ha modificato in parte il citato articolo 19 St. lav., conformandolo secondo la versione attuale, era stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale la
questione se il prevedere quale unico criterio selettivo del potere di costituire rappresentanze sindacali aziendali proprio la partecipazione al processo di contrattazione fosse compatibile con il principio di libertà sindacale sancito dall’art. 39 Cost. In particolare, alla Corte è stato chiesto se
questa disposizione non finisse per accordare al datore di lavoro una sorta di “potere di accreditamento” delle organizzazioni sindacali, consentendogli di scegliere, mediante la stipula del contratto collettivo, quali sindacati ammettere all’interno dell’azienda con proprie rappresentanze.
All’epoca, la Corte costituzionale aveva escluso che questo sistema
potesse porsi in contrasto con la Costituzione. Con la sentenza n. 244 del
1996 la Corte Costituzionale ha affermato la legittimità costituzionale di
questo sistema, escludendo che la condizione basata sulla firma di un contratto collettivo applicato in azienda dia luogo ad un potere di accreditamento. Con analoga motivazione, nell’ordinanza n. 345 dello stesso anno,
la Corte si è pronunciata anche sull’ulteriore questione se questo siste-
5
V. BAVARO, Rassegna giuridico-sindacale sulla vertenza Fiat e le relazioni industriali in
Italia, in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali”, 2011, p. 313.
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ma fosse in grado di condizionare l’autonomia del sindacato nella firma
del contratto collettivo, costringendolo a firmare contratti collettivi non
rispondenti agli interessi dei propri aderenti. Secondo la Corte costituzionale, dato che la possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali si poneva come elemento esterno al contenuto del contratto, l’eventuale condizionamento che derivava da questo sistema rientrava in una
normale valutazione di costi e benefici del contratto stesso e non condizionava la libertà del sindacato nel perseguimento dei propri interessi.
La questione è stata nuovamente sottoposta alla Corte costituzionale nello scorso anno, quando, alla luce delle profonde trasformazioni
che nel frattempo erano intervenute nel sistema di relazioni industriali
– prima fra tutte, la rottura dell’unità sindacale – la Corte costituzionale è pervenuta ad un diverso esito della controversia. Con la sentenza n.
231/2013 la Corte costituzionale, pronunciandosi su una questione di costituzionalità emersa nell’ambito della vicenda Fiat, ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 19 Statuto dei lavoratori. Ciò che è stato
ritenuto non conforme a costituzione è stato proprio il riservare la possibilità di costituire rappresentanze in azienda ai soli sindacati che abbiano “firmato” il contratto collettivo, senza tenere conto di quei sindacati che, pur non avendo firmato il contratto, hanno partecipato alle trattative. Tale sentenza ha avuto un particolare significato nell’ambito della vicenda Fiat perché ha riabilitato Fiom-CGIL, che non aveva firmato
il contratto Fiat perché in dissenso con la linea espressa dal datore di lavoro, nella rappresentanza sindacale aziendale6.
La vicenda Fiat ha mostrato quanto sia fragile un sistema di relazioni industriali basato sui rapporti di forza, quando l’impresa gioca con
le armi di un mercato globalizzato. Il sistema di relazioni industriali italiane, che sino ad ora aveva fatto dell’informalità uno dei suoi elementi di unicità, mostra, di fronte ad un datore di lavoro globalizzato e capace di raffinate metamorfosi, tutta la sua fragilità: è sufficiente una trasformazione societaria per scompaginare completamente gli equilibri di
forza all’interno dell’impresa. E se il “potere” che il datore di lavoro esercita anche da solo non è una novità, sicuramente costituisce una novità
lo scenario globale che di un tale potere costituisce, allo stato, la linfa vitale. Se questo è lo scenario, l’equilibrio potere/contropotere che si è consolidato – in via informale – nel mercato nazionale richiede nuove regole, o anche semplicemente regole più certe. A cominciare dal problema
6
Sulla sentenza, si v. i commenti di F. LISO, M. MAGNANI, R. SALOMONE in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali”, n. 2/2014.
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di individuare i soggetti legittimati a rappresentare i lavoratori: non a caso,
infatti, la pluralità degli interlocutori in assenza di chiare regole sulla rappresentanza è stata in questa vicenda una delle principali preoccupazioni di Fiat7.
Questa vicenda ha quindi impresso una significativa accelerazione al cambiamento in atto nel sistema di relazioni industriali italiane.
3. Lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso
il livello decentrato
Il primo risultato di questo cambiamento è quello dalla spinta verso il decentramento della contrattazione collettiva.
La globalizzazione dei mercati ha avuto un impatto sull’articolazione della contrattazione collettiva. Il livello nazionale della contrattazione, che in diversi ordinamenti europei, e in particolare in quello italiano,
ha svolto storicamente un ruolo centrale nella determinazione delle condizioni di lavoro, tende a non presentarsi più come il baricentro del sistema della contrattazione8. Si può dire, pertanto, che anche nel sistema della contrattazione collettiva, il livello nazionale non si presenta più come
paradigma centrale nello schema delle fonti del rapporto di lavoro9.
Ciò è dovuto ad una molteplicità di fattori. Anzitutto, le imprese che
operano su scala transnazionale soffrono degli schemi imposti dalla contrattazione collettiva nazionale, che tende ad uniformare le condizioni di
lavoro sul territorio dello Stato e a deprimere le differenze che si producono nei contesti industriali dotati di elementi di internazionalità. Per far
fronte a questa frizione, queste imprese tendono a rafforzare la contrattazione collettiva aziendale per omogeneizzare le proprie modalità di organizzazione del lavoro su scala transnazionale. In questi casi, il livello
aziendale della contrattazione e il livello transnazionale convergono.
Ma anche la piccola impresa manifesta sofferenze rispetto ai criteri di omogeneizzazione fissati dalla contrattazione nazionale, e ciò soprattutto alla luce dell’importante ruolo svolto dal territorio come culla di sviluppo della piccola imprenditorialità. Sotto questo aspetto, l’allontana7
F. LISO, Appunti su alcuni profili giuridici delle recenti vicende Fiat, in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali”, 2011, p. 321.
8
Su questi temi, v. lo studio di A. LASSANDARI, Il contratto collettivo aziendale e decentrato, Milano, Giuffrè, 2001.
9
S. SCIARRA, La contrattazione collettiva della crisi. Aspetti nazionali e transnazionali, in
AA.VV., Studi in onore di Tiziano Treu. Lavoro, istituzioni cambiamento sociale, vol. I, Il diritto
del lavoro e i suoi interlocutori, diritto sindacale e relazioni industriali, Napoli, Jovene, 2011.
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mento dallo schema che vede prevalere la contrattazione nazionale si traduce non tanto a favore di un incremento della contrattazione aziendale, quanto a favore di nuovi esperimenti sui livelli della contrattazione,
come quello che segnala la crescita della contrattazione legata al territorio, alla filiera, al gruppo e alle reti di impresa, anch’essi soggetti ad uno
sviluppo su scala transnazionale.
L’Italia costituisce un esempio particolarmente interessante di questa evoluzione perché le esigenze legate alla contrattazione collettiva di
un’impresa transnazionale hanno determinato un vero e proprio terremoto nel sistema nazionale di relazioni industriali. Il caso Fiat ha infatti richiamato, a stretto giro, alcuni interventi molto significativi delle parti sociali, volti a riformare dalle fondamenta il nostro sistema di relazioni industriali (si vedano in proposito l’ Accordo interconfederale del 28 giugno 2011;
il protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 e il Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014), nonché l’attività del legislatore, che sulla materia si era storicamente astenuto (v. art. 8, d. l. 138/2011).
In estrema sintesi, si potrebbe dire che dopo gli accordi Fiat del dicembre 2010 sono state messe in discussione due strutture portanti delle relazioni sindacali all’interno dell’impresa: il contratto collettivo nazionale di categoria e lo schema della rappresentanza in azienda. Con questa ormai nota trasformazione societaria la Fiat si è dotata – prima presso gli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori poi in tutte le aziende del
gruppo – di un contratto collettivo che viene definito «specifico di I livello» perché si propone di sostituire il contratto collettivo nazionale.
Il sistema di relazioni industriali italiane sino ad ora aveva fatto dell’informalità uno dei suoi elementi di forza10, ha mostrato, di fronte ad
un datore di lavoro globalizzato una grande debolezza: è stata sufficiente una trasformazione societaria per scompaginare completamente gli equilibri di forza all’interno dell’impresa. L’insostenibile incertezza del quadro regolativo, in cui si è incuneata la vicenda Fiat, ha indotto le parti sociali a firmare il 28 giugno del 2011 un accordo che viene definito storico perché ha superato le divisioni che si erano prodotte tra le sigle sindacali in occasione della riforma della contrattazione introdotta con l’Accordo quadro 22 gennaio 2009 e ha previsto una esplicita apertura nei confronti della contrattazione collettiva aziendale, considerata più idonea a
cogliere le specificità dei diversi contesti produttivi.
L’accordo del 2011 ha aperto pertanto alla possibilità di derogare,
10
M. NAPOLI, Il quadro giuridico istituzionale, in Le nuove relazioni industriali, a cura
di G.P. CELLA, T. TREU, Bologna, Il Mulino, 1998.
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mediante il contratto aziendale, agli standard regolativi previsti dal contratto nazionale. La caratteristica di questo meccanismo di deroga è tuttavia quella di svolgersi «nei limiti e con le procedure» previste dai contratti collettivi nazionali. Lo schema è, dunque, per rinviare al lessico del
diritto comparato, quello del decentramento organizzato11.
Ma un passo più deciso nella direzione della valorizzazione della
contrattazione decentrata è stato compiuto, in seguito, dal legislatore, che
con l’art. 8 d. l. 138/2011 è intervenuto (per la prima volta) sulla materia, autorizzando la contrattazione aziendale – detta anche contrattazione di prossimità – a derogare non solo alla contrattazione nazionale, ma
anche alla legge. L’intervento del legislatore ha suscitato molte critiche,
tanto che sono stati sollevati in proposito anche dubbi di legittimità costituzionale12. Certo l’impressione è che, con questo intervento legislativo, l’ordinamento italiano si sia spostato, nella sua regolazione legislativa, verso uno schema di decentramento non organizzato.
Del tutto diverso è stato invece il cammino dell’ordinamento intersindacale, che con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, il Protocollo di intesa del 31 maggio 2013, e, da ultimo, il Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, ha inteso dar luogo ad un sistema contrattuale regolato, caratterizzato dal decentramento organizzato. Il Testo
unico del 10 gennaio 2014, che costituisce un’attuazione dei due accordi precedenti (rispettivamente del 2011 e del 2013) riprende infatti il sistema di decentramento organizzato che era stato introdotto nel 2011, nel
quale gli spazi di intervento della contrattazione aziendale sono delimitati dal livello nazionale della contrattazione.
11
Il carattere di “sistema di decentramento organizzato” disegnato dall’Accordo 28
giugno 2011 è desumibile da diversi fattori. Dopo l’Accordo 28 giugno 2011 il sistema contrattuale italiano risulta articolato su due livelli, nazionale e aziendale (l’Accordo interconfederale trascura completamente il livello territoriale). Il CCNL mantiene la funzione di assicurare la regolamentazione uniforme delle condizioni economiche e normative su tutto
il territorio nazionale e non è fungibile con il contratto di secondo livello. Il contratto decentrato può disciplinare soltanto le materie delegate dal CCNL ed ha la funzione primaria di remunerare gli incrementi di produttività e di redditività aziendale. Anche le deroghe al contratto di categoria potranno essere effettuate soltanto «nei limiti e con le procedure» da esso previste.
12
F. SCARPELLI, Rappresentatività e contrattazione tra l’accordo unitario di giugno e le discutibili ingerenze del legislatore, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 127, 2011; A. PERULLI, V. SPEZIALE, L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto”
del Diritto del lavoro, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 132, 2011; V. LECCESE, Il diritto sindacale al tempo della crisi, relazione presentata al Convegno Aidlass “Il diritto del lavoro al tempo della crisi”, Pisa 7-9 giugno 2012, pubblicata negli atti del convegno, Milano, Giuffrè, 2012.
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4. Il cammino verso un sistema di relazioni industriali regolato e il tema
della “esigibilità” del contratto collettivo
Il Testo Unico del 2014 costituisce il punto di arrivo di un percorso di regole di cui si è dotato il sistema della contrattazione, che pone fine
a un lungo periodo di anomia, e supera in via definitiva lo schema regolativo fondato sulla rappresentanza civilistica. Non per mano dell’ordinamento statuale, ma per mano di quello intersindacale, il sistema della contrattazione collettiva si sposta finalmente verso un sistema regolato fondato su tre principi fondamentali: la misurazione e certificazione della rappresentatività sindacale, basato sulla media ponderata tra il
dato associativo e il dato elettorale; un procedimento di negoziazione stabilito per la contrattazione nazionale di categoria e per la contrattazione aziendale (che come abbiamo visto acquisisce spazi crescenti, anche
in regola a quanto previsto dalla contrattazione nazionale); un sistema
di revisione del governo del conflitto collettivo, sul quale ci si soffermerà nella pagine che seguono.
La prima, significativa, svolta in questa direzione ha avuto ad oggetto la contrattazione aziendale, che costituisce lo scenario di maggiore novità del sistema di contrattazione collettiva, e si è compiuto con lo
storico accordo del 28 giugno 2011. Il secondo passo compiuto verso il
consolidamento di questa fase costituente è quello, più recente, che trova nel protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 i principi guida di quello
che ancora resta, in Italia, il baricentro della contrattazione collettiva, ovvero il contratto collettivo nazionale, ed è stato seguito il 10 gennaio di
quest’anno dal Testo Unico sulla rappresentanza, che mira a dare concreta esecuzione ai principi stabiliti con il protocollo d’intesa.
Va rimarcato che questa produzione scaturita nel settore industriale è il frutto di una faticosa ricomposizione dell’unità sindacale, dopo le
note vicende che hanno visto contrapposta la CGIL alle altre sigle sindacali. La ritrovata unità (che sappiamo essere stata il risultato di complessi compromessi, dimostrati anche dalle divisioni interne agli stessi sindacati stipulanti) è il segno dell’importanza di questa fase costituente, e
della volontà dei protagonisti dello scenario sindacale di suggellare e chiudere un periodo di grandi incertezze.
È pertanto possibile cogliere un nesso di continuità che lega l’accordo 28 giugno 2011, il protocollo d’intesa 31 maggio 2013, e il Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014. Questa continuità è rintracciabile non solo nelle tematiche trattate dal protocollo di quest’anno: esse
costituiscono le tessere di un mosaico in costruzione, di cui non è facile
cogliere il punto di arrivo. D’altra parte, la caratteristica “in itinere” degli accordi in commento è suggerita anche dalle evoluzioni compiute dal78
Crisi economica e trasformazione del sistema di relazioni industriali in Italia
l’ordinamento statuale nei mesi immediatamente successivi all’accordo
del 31 maggio 2013, che con la sentenza della Corte Costituzionale n. 231
del 24 luglio 2013, ha toccato dopo molti anni il tema delle rappresentanze sindacali aziendali, sollecitando un intervento del legislatore.
La continuità tra i diversi accordi è piuttosto ravvisabile nel tentativo di offrire una risposta, con questa nuova fase che si è definita “costituente” delle relazioni industriali al problema, che ha progressivamente rappresentato una delle questioni centrali del diritto sindacale degli ultimi anni,
della “esigibilità” del contratto collettivo. L’ordinamento intersindacale tenta con questi accordi di offrire quella stabilità che le fragili strutture del diritto sindacale di fonte statuale non sono riuscite ad offrire ad un sistema
economico ormai sottoposto da tempo alla pressione della globalizzazione e della ricerca ossessiva della competitività. Dall’inizio del “caso Fiat”
in poi – ma per la verità già dall’insieme di accordi che a partire dal biennio 2008/2009 hanno tentato di ridisegnare la struttura della contrattazione collettiva – appare evidente il percorso compiuto dal diritto sindacale
verso una ricerca di regole certe relative all’applicazione dei contratti collettivi, che non si limita alla questione dell’efficacia soggettiva ma si spinge al tema della “tenuta” delle pattuizioni in essi stabilite.
L’obiettivo della “esigibilità” del contratto collettivo viene peraltro richiamato in più punti all’interno del protocollo d’intesa del 31 maggio 3013
(v. punti 3, 4 e 5 della parte su “Titolarità ed efficacia della contrattazione”).
In tal modo le parti ribadiscono l’importanza della vincolatività dell’accordo che deriva dalla stipula del contratto collettivo, sotto un duplice aspetto: da un alto, quello dell’esigibilità del contratto collettivo nei confronti di
tutti i soggetti destinatari, eliminando in tal modo le ambiguità relative all’efficacia soggettiva dello stesso; d’altro lato, l’esigibilità viene intesa come
vincolo delle parti a rispettare ciò che è stato pattuito con il contratto in questione, e a non dar luogo, di conseguenza, ad azioni collettive che ne mettano in discussione il contenuto. I due lati della medaglia si presentano, negli accordi stipulati a partire dal 2010, sempre più intrecciati tra loro, come
se questa interconnessione cogliesse nel segno della fragilità del diritto sindacale post costituzionale. Come se nel concetto di esigibilità fosse sottintesa la necessità di costruire un diritto sindacale più solido, quanto ad efficacia dei contratti collettivi e a governo del conflitto.
5. Gli strumenti negoziali di governo del conflitto collettivo
È in questa cornice, e in risposta a questa esigenza del sistema di
relazioni industriali, che è stata riavviata, negli ultimi anni, la discussione sugli strumenti negoziali di governo del conflitto collettivo, e, in par79
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ticolare, sulle clausole di tregua sindacale, che di tali strumenti costituiscono senza dubbio quello più in uso nell’ordinamento italiano. La questione è ormai nota e prende origine dal rilancio di alcune discusse clausole di tregua all’interno degli accordi del gruppo Fiat a partire dal 2010,
da cui è scaturita una accesa discussione sul ruolo del contratto collettivo nel governo del conflitto, per poi lambire le tematiche centrali della
titolarità del diritto di sciopero e del significato dello sciopero nella gerarchia dei diritti fondamentali.
Non è qui possibile richiamare, neppure per sommi capi, questo acceso dibattito, che ha condotto alla riscoperta di un tema classico del diritto sindacale, il quale sembrava – al di fuori dello specifico settore dello sciopero nei servizi pubblici essenziali – ormai sopito o confinato nell’ambito degli studi accademici. Ciò che preme qui sottolineare è che le
relazioni industriali dell’ultimo decennio assegnano un ruolo decisivo alla
questione del governo del conflitto collettivo, mediante una serie di strumenti tra i quali, in primis, le clausole di tregua sindacale13.
Come è noto, le clausole di tregua sindacale devono essere formulate in via esplicita negli ordinamenti che non riconoscono un obbligo implicito di pace sindacale, ovvero in quei sistemi che non assegnano al contratto collettivo la funzione di stabilire il principio pacta sunt servanda nei
confronti del datore di lavoro e dei sindacati stipulanti. L’ordinamento
italiano si inserisce tra questi, e ciò perché, a partire dalla fine degli anni
’60, è prevalsa in Italia l’interpretazione – avanzata da Giorgio Ghezzi,
da un lato14, e da Gino Giugni e Federico Mancini, dall’altro15 – per cui
il contratto collettivo ha la funzione di chiudere un conflitto in atto, ma
non incide sulla potenzialità di futuri eventuali conflitti, l’inibizione dei
quali deve avvenire mediante la stipulazione di specifiche clausole (le clausole esplicite di tregua sindacale). Questa interpretazione ha allontanato il nostro sistema da quelli che – come ad esempio l’ordinamento tedesco – prevedono un obbligo implicito di pace sindacale come effetto
immanente alla stipulazione del contratto collettivo16.
L’idea che il contratto collettivo non possa portare con sé un obbli-
13
Sul punto si rinvia, per maggiori approfondimenti, a L. CORAZZA, Il nuovo conflitto collettivo. Clausole di tregua, conciliazione e arbitrato nel declino dello sciopero, Milano, Franco Angeli, 2012.
14
G. GHEZZI, La responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali, Milano, Giuffrè, 1963.
15
G. GIUGNI, F. MANCINI, Movimento sindacale e contrattazione collettiva, in “Rivista giuridica del lavoro”, 1972, p. 325.
16
L. MENGONI, Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, in “Jus”, 167, ora
in Idem, Diritti e valori, Bologna, Il Mulino, 1975.
80
Crisi economica e trasformazione del sistema di relazioni industriali in Italia
go implicito di pace sindacale è per la verità strettamente connessa, sul
versante della teoria del contratto collettivo, alla teoria della rappresentanza, di cui quell’idea costituisce un automatico riflesso. L’impossibilità di vincolare alla tregua sindacale quale effetto del contratto collettivo deriva infatti da una visione individualistica del contratto collettivo;
se, al contrario, si ammette che i sindacati possano stipulare il contratto
iure proprio e non in rappresentanza degli iscritti, non vi sono ostacoli a
far discendere dalla conclusione del contratto collettivo anche un obbligo di pace sindacale17.
Quale significato assegnare al contratto collettivo con riferimento
agli obblighi impliciti di pace sindacale dipende pertanto dalle opzioni
in campo con riferimento alla teoria della rappresentanza, che com’è noto,
è stata negli ultimi decenni sottoposta ad un rigoroso processo di revisione critica, pur se non mancano voci autorevoli che anche di recente
ne hanno difeso la centralità. Ora, a prescindere da una presa di posizione su questo dibattito, che non può essere qui nemmeno sfiorato per la
sua complessità, è interessante notare l’evoluzione sul punto compiuta
dall’ordinamento intersindacale, e, in particolare, il passo decisivo compiuto con il protocollo d’intesa del 31 maggio 2013, che verrà illustrato
nel paragrafo che segue.
6. La tensione verso obblighi impliciti di pace sindacale
Nell’ambito dei prodotti dell’ordinamento intersindacale, il protocollo d’intesa 31 maggio 2013 (che sul punto viene ripreso dal Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014) costituiscono un punto di
partenza che sembra preludere ad un nuovo ruolo del contratto collettivo nella regolazione del conflitto collettivo.
Il passaggio che appare più innovativo sul punto è racchiuso nel disposto contenuto al punto 4 della parte dedicata a “Titolarità ed efficacia della contrattazione”, dove si prevede, in via generale, l’esigibilità degli accordi che, nel rispetto delle procedure previste dall’accordo sono applicabili all’insieme dei lavoratori, e che «conseguentemente le Parti firmatarie e le rispettive Federazioni si impegnano a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti».
Tale principio è poi seguito, al successivo punto 5, da un classico obbligo di tregua, da formulare mediante l’inserimento di apposite clausole
17
L. NOGLER, Pacta sunt servanda e “contratti” collettivi, in AA.VV., Scritti in onore di
Edoardo Ghera, Bari, Cacucci, 2008.
81
Luisa Corazza
all’interno del contratti collettivi nazionali di categoria («I contratti collettivi nazionali di categoria, approvati alle condizioni di cui sopra, dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a
garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi stabiliti con
la presente intesa»).
Tra queste due clausole quella che appare più innovativa è quella
contenuta al punto 4. La previsione di cui al punto 5 si limita per la verità ad imporre nei futuri contratti collettivi nazionali l’inserimento di clausole di tregua sindacale, mediante procedure di raffreddamento finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti. Il punto 4 è invece innovativo perché sembra introdurre un obbligo di pace sindacale che si
pone a monte, una volta per tutte e senza la stipulazione di successive
ed ulteriori clausole. Trattandosi di un protocollo d’intesa che pone regole generali e di principio, può ben dirsi che con tale previsione la parte datoriale abbia “incassato” il risultato della tregua sindacale sottraendolo in tal modo alla rinegoziazione nei successivi tavoli contrattuali.
Ma, al di là della dinamica concreta della negoziazione, appare di
estremo interesse, nella prospettiva dell’intero sistema di relazioni industriali, il fatto che, con la previsione di un tale obbligo generalizzato, si
introduce un obbligo di pace valido una volta per tutte a prescindere dalla stipulazione di future ed eventuali clausole. L’impressione è, dunque,
quella di un sistema che sta lentamente muovendosi verso un obbligo implicito di pace sindacale, per quanto ancora attraverso lo strumento – solo
in parte anomalo – della previsione, di una clausola espressa che prevede per il futuro un obbligo di pace sindacale destinato a valere per i contratti collettivi che seguiranno tale protocollo e ne costituiranno l’applicazione concreta, e ciò anche qualora tali successivi contratti collettivi non
dovessero contenere previsioni in materia di tregua sindacale.
Con il punto 4 del protocollo d’intesa il nostro ordinamento intersindacale fa pertanto un passo verso un obbligo di pace di stampo nuovo, che si svincola dalla previsione di singole esplicite clausole all’interno dei contratti collettivi nazionali, ma tende a valere come principio generale, assomigliando in tal modo sempre più a quegli obblighi impliciti di tregua che storicamente sono stati ritenuti incompatibili con i principi che regolano lo sciopero nel nostro ordinamento. Nel silenzio della
produzione normativa in materia, la produzione di regole che proviene
dall’autonomia collettiva migra verso obblighi di tregua impliciti.
Il Testo Unico sulla rappresentanza presenta sul punto ulteriori interessanti spunti di riflessione. Il primo dato significativo, per quanto attiene al tema qui trattato, è dato dalla divisione del Testo Unico in quat82
Crisi economica e trasformazione del sistema di relazioni industriali in Italia
tro parti, una delle quali – la quarta – è intitolata “Disposizioni relative
alle clausole e alle procedure di raffreddamento e alle clausole sulle conseguenze dell’inadempimento”. Il tema del governo del conflitto collettivo assurge perciò ad uno dei temi centrali dell’accordo, perdendo quella coloritura di contorno che, almeno nella forma, aveva rivestito negli
accordi precedenti.
Ma prima di commentare i contenuti di questa quarta parte dedicata all’apparato rimediale del sistema di contrattazione, preme rimarcare che, all’interno della parte terza – quella dedicata alla titolarità ed
efficacia della contrattazione collettiva – viene riproposto quell’obbligo
di tregua a valenza generale di cui ho parlato nel precedente paragrafo.
Dopo avere previsto l’esigibilità e l’efficacia degli accordi per l’insieme
dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali, è stabilito, in via di conseguenza, che «le parti firmatarie e le rispettive Federazioni si impegnano a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto
agli accordi così definiti». Con tale previsione sembra confermata la tensione verso un obbligo di pace che, se pure si esprime tecnicamente in
forma esplicita, essendo previsto a monte, nella cornice regolativa del sistema della contrattazione, svolge la funzione di obbligo implicito. Anche in assenza di una previsione nei contratti collettivi, la sussistenza di
un obbligo di tregua (cui consegue una responsabilità del sindacato) può
essere dedotta da questa previsione.
La parte quarta del Testo Unico sulla Rappresentanza è invece tutta dedicata all’apparato sanzionatorio che viene predisposto a corredo
dei contratti collettivi. Il sistema rimediale entra a far parte a pieno titolo del quadro di regole sulla contrattazione, nella consapevolezza che senza un idoneo sistema di rimedi, la macchina contrattuale non è in grado di funzionare efficacemente. E’ possibile definire questa scelta come
un punto di approdo che affonda le sue radici negli accordi precedenti,
e suggella un percorso di rafforzamento dei rimedi iniziato già con l’accordo sulla riforma della contrattazione del 2009. Da allora, molta acqua
è passata sotto i ponti, e l’autonomia collettiva ha messo a fuoco alcune
questioni centrali per il funzionamento della contrattazione, che possono essere esposte sinteticamente nei punti che seguono.
Il primo aspetto da sottolineare è l’accento che il Testo unico sulla
Rappresentanza pone sulle sanzioni. Il testo afferma invero la necessità non solo di mettere a fuoco tecniche di prevenzione del conflitto, ma
anche veri e propri strumenti sanzionatori. La sensibilità nei confronti dell’apparato sanzionatorio si evince dal primo paragrafo della parte quarta, dove si afferma che «le parti firmatarie (…) convengono sulla necessità di definire disposizioni volte a prevenire e a sanzionare eventuali azio83
Luisa Corazza
ni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali come disciplinati dagli accordi interconfederali vigenti nonché l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi stipulati nel rispetto dei principi e delle procedure contenute nelle intese
citate»; dal terzo paragrafo, in cui è previsto che «i medesimi contratti collettivi [quelli nazionali di categoria sottoscritti alle condizioni del protocollo d’intesa 31 maggio 2013] dovranno, altresì, determinare le conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità dei contratti collettivi nazionali di categoria stipulati ai sensi della presente intesa»; dal paragrafo quarto, in cui
si prevede che «le disposizioni definite dai contratti collettivi nazionali
di lavoro, al solo scopo di salvaguardare il rispetto delle regole concordate nell’accordo 28 giugno 2011, del Protocollo 31 maggio 2013 e nel presente accordo, dovranno riguardare i comportamenti di tutte le parti contraenti e prevedere sanzioni, anche con effetti pecuniari, ovvero che comportino la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa».
La seconda osservazione attiene al profilo dell’efficacia delle clausole di tregua sindacale. In proposito, il Testo unico ripropone e conferma una sorta di “interpretazione autentica” già contenuta nell’accordo
interconfederale del 28 giugno 2011. Tale interpretazione limita l’effetto
vincolante delle clausole di tregua sindacale stipulate dai contratti collettivi aziendali in esecuzione dell’accordo alla sfera delle parti collettive (il datore di lavoro, che qui agisce in qualità di protagonista dei rapporti collettivi, le rappresentanze sindacali dei lavoratori, le associazioni sindacali espressioni delle confederazioni firmatarie dell’accordo, o le
organizzazioni che abbiano espressamente aderito allo stesso), ed esclude di conseguenza che esse possano produrre effetti nei confronti dei singoli lavoratori.
L’aspetto più interessante di questa previsione, che di per sé ricalca la posizione assunta dalle parti nell’accordo del 2011, è insito nel suo
impatto sistematico, alla luce dei principi generali che governano l’efficacia delle clausole di tregua, sui quali di recente si è riaccesa una vivace discussione. La clausola interpretativa contenuta nell’accordo del 2011,
lungi dal chiudere il discorso circa l’efficacia o meno delle clausole di tregua nei confronti dei singoli lavoratori, sembra al contrario ribadire che,
laddove si voglia limitare tale efficacia alla sola sfera dei soggetti collettivi, si renda necessaria un’esplicita previsione in tal senso (ed è appunto questa la previsione che era contenuta nell’accordo del 2011 e che viene oggi riproposta).
Ora, la riaffermazione di questa opzione interpretativa all’interno
84
Crisi economica e trasformazione del sistema di relazioni industriali in Italia
del Testo Unico aggiunge qualcosa al discorso. Essa è in effetti contenuta in un Testo unico che racchiude al suo interno regole attinenti alla contrattazione collettiva nazionale e a quella aziendale, ponendosi quale testo attuativo sia dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, che del
protocollo d’intesa del 31 maggio 2013. Eppure, la clausola interpretativa che limita l’effetto vincolante delle clausole di tregua all’ambito dei
soggetti collettivi, escludendolo per i singoli lavoratori si riferisce solo
ai “contratti collettivi aziendali”. Resta a questo punto aperto il problema dell’effetto vincolante delle clausole di tregua sindacale contenute in
contratti diversi da quelli aziendali, per i quali, se si volesse attribuire uno
specifico significato alla scelta compiuta nel testo unico di voler restringere l’ambito della clausola ai soli contratti aziendali, si potrebbe addirittura ipotizzare un’apertura verso un effetto diverso e ulteriore.
L’ultimo aspetto rilevante del testo unico, che è probabilmente il più
innovativo, è quello relativo alla necessità di corredare l’apparato rimediale di procedure di conciliazione e arbitrato. A conclusione di un percorso intrapreso con l’accordo quadro del 2009, l’autonomia collettiva sembra aver acquisito in pieno la consapevolezza che gli strumenti sanzionatori, se confinati nell’ambito delle clausole di tregua sindacale, costituiscono solo un mezzo rudimentale di governo del conflitto. Un sistema di relazioni industriali maturo, dotato di strumenti efficaci a garantire la regolarità e l’affidabilità della contrattazione collettiva, nonché la
previsione del conflitto collettivo, deve dotarsi di una serie di procedure che consentano la composizione, in via conciliativa o arbitrale, delle
controversie collettive. Va guardata perciò con notevole interesse la parte dell’accordo relative alle clausole transitorie e finali, in cui dopo avere previsto un generale obbligo di influenza in capo alle parti firmatarie
(che si «impegnano a far rispettare le regole qui concordate e si impegnano, altresì, affinché le rispettive organizzazioni di categoria ad esse aderenti e le rispettive articolazioni a livello territoriale e aziendale si attengano a quanto pattuito nel presente accordo»), istituisce una procedura
di conciliazione e arbitrato.
Tale procedura ha natura transitoria perché si applica in attesa che
i contratti nazionali definiscano apposite procedure, ma appare tracciata con una dose di dettaglio sufficiente a consentirne il funzionamento
senza ulteriori interventi regolativi. L’obiettivo della procedura arbitrale è quello di decidere su “eventuali comportamenti non conformi agli
accordi”. Vi rientrano, pertanto, anche le violazioni delle clausole di raffreddamento e di tregua sindacale.
Il testo unico obbliga le organizzazioni a richiedere alle proprie Confederazioni la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato com85
Luisa Corazza
posto, pariteticamente, da un rappresentante delle organizzazioni sindacali confederali interessate e da altrettanti rappresentanti della Confindustria, nonché da un ulteriore membro, che riveste la carica di Presidente, individuato di comune accordo o a sorteggio fra esperti indicati in
un’apposita lista. La decisione del collegio dovrà pervenire entro dieci
giorni e conterrà le misure da applicarsi nei confronti dell’organizzazione sindacale e del datore di lavoro, a sanzione dell’inadempimento degli obblighi assunti con l’accordo, e soprattutto dell’obbligo di fare rispettare i contenuti dello stesso. Il testo è poi integrato con il funzionamento di una ulteriore Commissione, prevista a livello interconfederale, che
deve monitorare l’attuazione dell’accordo e garantirne l’esigibilità.
Il percorso verso un sistema di relazioni industriali più maturo, che
prevede al suo interno i meccanismi di composizione delle controversie
collettive e dei conflitti sui diritti, sembra pertanto giungere progressivamente a una fase compiuta.
7. Conclusioni: un nuovo diritto dei rapporti intersindacali?
È possibile a questo punto formulare qualche osservazione conclusiva sul ruolo svolto dalla crisi sul sistema sindacale italiano.
Come si è accennato in apertura, poiché la crisi economica si è sovrapposta in Italia a un momento di profonda revisione del sistema di
relazioni industriali, è difficile separare i fattori del cambiamento e isolare i diversi stimoli alla trasformazione. Non è chiaro quanto questi siano stati determinati dalla crisi, dalla progressiva integrazione internazionale dei mercati, dalla trasformazione dei modelli produttivi. Un solo dato
è certo: il diritto sindacale dell’ultimo decennio risulta completamente
trasformato se lo si confronta a quel modello che si era affermato all’indomani della scrittura della Carta costituzionale e che si reggeva sul principio di libertà sindacale, sul diritto di sciopero e sull’innesto di questi
due principi nell’apparato di norme del diritto civile italiano.
Questa riscrittura delle regole del diritto sindacale è avvenuta per
mano delle stesse parti sociali. La spinta verso il cambiamento è infatti
prevalentemente da rintracciare nell’ordinamento intersindacale. Il legislatore è rimasto per lo più estraneo a questo processo di revisione (se
si fa eccezione per l’art. 8, l. n. 148/2011 di cui non è tuttavia ancora chiaro il grado di applicazione).
A questo punto, i tratti salienti del nuovo sistema di relazione industriale italiano appaiono i seguenti: a) il sistema di contrattazione collettiva non è più incentrato in via prevalente sulla contrattazione nazionale di categoria; è attribuito per contro uno spazio importante alla con86
Crisi economica e trasformazione del sistema di relazioni industriali in Italia
trattazione decentrata, e, in particolare, alla contrattazione aziendale; b)
la rappresentatività dei sindacati è misurata attraverso un meccanismo
quantitativo-numerico (la media tra il dato associativo e quello elettorale); tale sistema di verifica della rappresentatività consente di addivenire alla stipula di contratti collettivi che producono efficacia nei confronti di tutti i lavoratori; c) il contratto collettivo è a pieno titolo uno strumento utile alla regolazione dello sciopero, attraverso gli strumenti delle clausole si tregua sindacale e attraverso meccanismi di conciliazione
e arbitrato per la soluzione delle controversie collettive.
È possibile affermare, a questo punto, che il volto del diritto sindacale italiano non è più lo stesso. Ancora una volta, l’autonomia collettiva è stata capace di trovare quella forza di cambiamento che ha consentito di rispondere alle esigenze dell’ordinamento intersindacale, mostrando il carattere originario di tale ordinamento18. Non è dato ancora sapere se questo nuovo sistema di regole consentirà al sistema produttivo italiano di recuperare quel deficit di competitività che lo aveva afflitto negli ultimi anni. Certo è che la strada verso un sistema di relazioni industriali più maturo sembra ormai definitivamente intrapresa.
18
G. GIUGNI, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Milano, Giuffrè, 1960.
87
ANTONIO FICI
La cooperazione tra società cooperative
nel diritto italiano e comparato
SOMMARIO: 1. L’integrazione cooperativa e l’identità delle società cooperative. - 2. Funzione e modelli di integrazione tra società cooperative. - 3. L’integrazione tra società cooperative e il diritto cooperativo. - 4. L’integrazione tra società cooperative nel diritto italiano. - 4.1. Le cooperative di secondo grado (consorzi di cooperative). - 4.2. Le società
di capitali di proprietà delle cooperative. - 4.3. Il gruppo cooperativo paritetico. - 4.4. Le
associazioni nazionali del movimento cooperativo e i fondi mutualistici. - 5. L’integrazione tra società cooperative: un panorama di diritto comparato. - 6. Conclusioni.
1. L’integrazione cooperativa e l’identità delle società cooperative
Uno studio della cooperativa quale unità economica isolata senza
relazioni con altre cooperative offrirebbe di essa soltanto una visione incompleta ed una nozione imprecisa. Infatti, sin dall’inizio, le cooperative hanno posto in essere forme economiche e socio-politiche di inter-cooperazione, che hanno enormemente contribuito al loro successo come particolare forma giuridica di svolgimento di attività d’impresa. Invero, la
creazione di un sistema di cooperative ha coinciso con la ideazione del
modello economico cooperativo, al punto che non sarebbe errato concludere che l’integrazione tra società cooperative costituisca uno degli elementi essenziali dell’identità cooperativa.
Già nel 1879, George Jacob Holyoake, nel secondo volume della sua
History of Cooperation, enfatizzava il ruolo fondamentale della “North of
England Cooperative Wholesale Society” di Manchester – una federazione di negozi cooperativi, costituita nel 1863 da 48 cooperative, per l’acquisto all’ingrosso e la distribuzione di prodotti da vendere nei negozi – ai fini
dello sviluppo iniziale della (più famosa) cooperativa di Rochdale così come
di altre cooperative, e più in generale per la promozione della cooperazione e l’istituzione di un “movimento” cooperativo1. Ci si attendeva che que-
1
Cfr. G.J. HOLYOAKE, The History of Co-operation, volume II, [edizione completa], T.
Fischer Unwin, London, 1906, pp. 350 ss., il quale tuttavia sottolinea come l’idea fosse precedente, risalendo al 1832 il primo riferimento ufficiale a una cooperativa grossista, “although
it was in Rochdale that the idea was destined to take root and grow and be transplanted to Man-
89
Antonio Fici
ste federazioni – che di fatto erano cooperative di cooperative – beneficiassero i negozi cooperativi, soprattutto quelli piccoli e nuovi, in termini di
riduzione dei costi di acquisto dei prodotti da rivendere2. La rapida espansione della Cooperative Wholesale Society (o CWS, come la North of England Cooperative Wholesale Society fu successivamente denominata e divenne nota), e la diffusione di questo modello di integrazione altrove, confermarono che queste aspettative erano realistiche3.
chester” (ivi, p. 351).
La Rochdale Society of Equitable Pioneers – che fu registrata il 24 ottobre 1844 e aprì
il suo primo negozio il 21 dicembre dello stesso anno a Rochdale, vicino Manchester, in Inghilterra – è quasi universalmente riconosciuta come la prima manifestazione strutturata
di quel tipo di organizzazione imprenditoriale a cui il titolo e la sostanza di “cooperativa”
sono stati riferiti sino ad oggi, sebbene si ritiene comunemente che prima della costituzione della cooperativa di Rochdale, e non solo nel Regno Unito, altre entità di tipo cooperativo esistessero già. Rochdale divenne la casa della cooperazione moderna soprattutto grazie all’adozione di particolari regole di condotta, che senza alcun dubbio hanno contribuito al suo successo ed hanno successivamente ispirato il movimento cooperativo e la Alleanza Cooperativa Internazionale (ACI) nella formulazione dei valori e principi cooperativi. Le citazioni sarebbero innumerevoli: può essere sufficiente menzionare qui C. GIDE,
Consumers’ Co-operative Societies, [traduzione della terza edizione francese pubblicata nel
1917], Co-operative Union Limited, Manchester, 1921, pp. 13 ss.; G. FAUQUET, The Co-operative Sector, [traduzione della quarta edizione francese pubblicata nel 1942], Co-operative Union Limited, Manchester, 1951, pp. 57 ss.; M. DIGBY, The World Co-operative Movement,
Hutchinson’s University Library, London, 1948, pp. 9 ss.; e più recentemente, tra gli altri,
J. BIRCHALL, People-Centred Businesses. Co-operatives, Mutuals and the Idea of Membership, Palgrave MacMillan, London, 2011, p. 6; C. SANCHEZ BAJO, B. ROELANTS, Capital and the Debt
Trap. Learning from Cooperative in the Global Crisis, Palgrave MacMillan, Basingstoke, 2011,
p. 115; v. anche, per informazioni essenziali, http://www.rochdalepioneersmuseum.coop/.
2
A tal riguardo, HOLYOAKE (in The History of Co-operation, volume II, cit., p. 355) condivide le parole di Abraham Greenwood, il principale fondatore della Wholesale Society
di Manchester, che egli riporta nel modo seguente: “1st. Stores are enabled, through the agency, to purchase more economically there heretofore, by reaching the best markets. 2nd. Small stores
and new stores are at once put in a good position, by being placed directly (through the agency) in
the best markets, thus enabling them to sell as cheap as any first-class shopkeeper. 3rd. As all stores have the benefit of the best markets, by means of the agency, it follows that dividends paid by
stores must be more equal than heretofore; and, by the same means, dividends considerably augmented. 4th. Stores, especially large ones, are able to carry on their businesses with less capital. Large
stores will not, as now, be necessitated, in order to reach the minimum prices of the markets, to purchase goods they do not require for the immediate supply of their members. 5th. Stores are able to
command the services of a good buyer, and will thus save a large amount of labour and expense, by
one purchaser buying for some 150 stores; while the whole amount of blundering in purchasing at
the commencement of a co-operative store is obviated”. Holyoake afferma che “never was a great movement created by clearer arguments or a smaller subscription”. Invero, egli riferisce che
il conferimento richiesto ad ogni socio era pari ad un farthing (cioè, un quarto di penny).
3
La Scottish Cooperative Wholesale Society di Glasgow, o SCWS, fu fondata nel
1867/1868. Altre ne seguirono in diversi paesi, segnatamente, a Copenhagen (1888), Basi-
90
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
Né l’integrazione era limitata a soli aspetti pratici o economici, dal
momento che lo sviluppo delle cooperative fu favorito sin dall’inizio dalla costituzione di altre entità, le “unioni”, aventi lo scopo di difendere e
promuovere le cooperative ad esse associate, così come di diffondere il
modello cooperativo di impresa, i suoi principi e i suoi valori.
Nel 1869, rappresentanti delle società cooperative locali si incontrarono a Londra e fondarono il “Cooperative Central Board” che successivamente divenne la “Cooperative Union”, con sede centrale in Manchester4. Unioni di cooperative con funzioni analoghe furono costituite
ovunque, contribuendo significativamente allo sviluppo del loro movimento cooperativo nazionale5.
Nel 1895, la “Alleanza Cooperativa Internazionale” (ACI) tenne la
sua prima conferenza a Londra, portando da allora ad un livello internazionale la difesa e promozione delle società cooperative e della loro distinta identità rispetto a quella di altre organizzazioni imprenditoriali,
soprattutto attraverso la sua “Dichiarazione sull’identità cooperativa”,
che include i ben noti “Principi Cooperativi” (Principi dell’ACI)6.
lea (1892), Amburgo (1894), Mosca (1898), Helsinki (1904), Parigi (1907): cfr. C. Gide, Consumers’ Co-operative Societies, cit., p. 133, nt. 1.
Nel 2000 la CSW confluì, fondendosi con un’altra società, nel “Co-operative
Group”. Una introduzione alla CSW, ad opera di Rachael Vorberg-Rugh dell’Università di
Liverpool, può leggersi in http://www.rochdalepioneersmuseum.coop/learning-resources. Le tappe principali del processo che ha condotto dalla CSW all’attuale Co-operative
Group sono illustrate in http://www.co-operative.coop/corporate/aboutus/ourhistory/.
V. anche T. WEBSTER et al, The Rise, Retreat and Renaissance of British Cooperation: The Development of the English Cooperative Wholesale Society and the Cooperative Group, 1863-2013, in
J. HEISKANEN et al (a cura di), New Opportunities for Co-operatives: New Opportunities for People, proceedings of the 2011 ACI global research conference, 24-27 August 2011, Mikkeli,
Finland, University of Helsinki, Ruralia Institute, publications 27, 2012, p. 86 ss.
4
V. M. DIGBY, The World Co-operative Movement, cit., p. 24. La Cooperative Union è
infine divenuta l’attuale “Cooperative UK”: v. http://www.uk.coop/.
5
Per esempio, secondo C. GIDE, Consumers’ Co-operative Societies, cit., p. 123, “Of Italy and Switzerland it may be said that their co-operative history dates from the formation of their
Co-operative Union (1886 in Italy, 1890 in Switzerland)”. Una breve storia, internazionale e
multisettoriale, della formazione del movimento cooperativo è offerta, in italiano, da M.
DEGL’INNOCENTI, Cooperazione, in Enciclopedia delle Scienze sociali, II, Roma, 1992, p. 429 ss.,
ed in inglese da S. ZAMAGNI, V. ZAMAGNI, Cooperative Enterprise, Edward Elgar, Cheltenham,
2010, p. 34 ss.
6
L’Alleanza Cooperativa Internazionale (ACI) è un’organizzazione non governativa indipendente costituita nel 1895 al fine di unire, rappresentare e servire le cooperative
in ogni parte del mondo. Offre rappresentanza globale e uno spazio per la conoscenza, competenza ed azione coordinata in favore ed in merito alle cooperative. È custode dell’identità cooperativa, dei valori e principi. Al 21 maggio 2014 aveva 268 organizzazioni socie
da 93 differenti paesi, così rappresentando indirettamente circa un miliardo di individui
91
Antonio Fici
Non sorprende pertanto che, nel suo ruolo di custode dell’identità cooperativa, l’ACI abbia deciso di considerare la “cooperazione tra cooperative” uno specifico principio di identità cooperativa, alla stregua del
quale: “le cooperative servono i propri soci nel modo più efficiente e rafforzano il movimento cooperativo lavorando insieme, attraverso strutture locali, nazionali, regionali ed internazionali” (sesto principio dell’ACI)7.
Invero, se scegliendo una cooperativa piuttosto che una società di
capitali, le persone decidono di intraprendere un’attività economica in
cooperazione e non già in concorrenza tra loro, allora appare coerente che
le entità cooperative così costituite cooperino e non già competano tra loro
ad un livello più alto (e/o strumentale) del processo economico che alla
fine soddisfa i bisogni dei loro soci. Dunque, la cooperazione tra cooperative è un corollario della cooperazione tra persone: cooperando, la cooperativa non soltanto serve i suoi soci più efficacemente, ma applica altresì su un piano più alto i medesimi valori e principi che permeano la cooperazione di primo grado8. In definitiva, le persone estendono la loro coo-
nel mondo. Quelli inclusi nella dichiarazione del 1995, approvata a Manchester, rappresentano la terza versione dei Principi dell’ACI; quelle precedenti erano contenute nelle dichiarazioni del 1937 e del 1966. Per una storia del movimento cooperativo internazionale
e dell’ACI, cfr., tra gli altri, J. BIRCHALL, The International Co-operative Movement, MUP, Manchester, 1997.
7
La versione del 1966 dei principi dell’ACI già includeva la cooperazione tra cooperative come sesto principio.
Un riferimento implicito alla inter-cooperazione si trova altresì nel secondo principio dell’ACI, là dove si occupa di “cooperative di altro grado” in quanto distinte dalle “cooperative di primo grado”.
8
Cfr. A. MARTÍNEZ CHARTERINA, Sobre el principio de cooperación entre cooperativas en
la actualidad, in Boletín de la Asociación Internacional de Derecho Cooperativo, 2012, p. 140-141,
che, con riguardo al principio della cooperazione tra cooperative, afferma: “este principio
viene a terminar un proceso de solidaridad que junto a la solidaridad interna, que se realiza dentro
de la cooperativa en cuyo seno se lleva a cabo un proceso de autoayuda por el que los socios tratan
de satisfacer sus comunes necesidades de forma conjunta, considera la solidaridad externa, es decir la cooperación entre cooperativas o prolongación de la solidaridad interna para acabar un proceso de cooperación que, en última instancia, se refiere al mismo mundo en que vivimos y a la manera en que nos relacionamos unos con otros”, ed ancora: “Ese proceso de solidaridad externa como
prolongación de la solidaridad interna viene a poner de manifiesto que se trata de acabar un proceso. Si en la cooperativa las personas cooperan unas con otras hacia un fin común, esa cooperación
debe prolongarse entre las cooperativas para alcanzar los fines compartidos del cooperativismo”.
Quanto appena affermato nel testo non implica che le cooperative debbano necessariamente cooperare mediante la formazione e la partecipazione in un’entità che sia formalmente una cooperativa, nonostante questo sia normalmente il caso, come la successiva analisi dimostrerà (v. infra par. 5). Tuttavia, il fatto che le cooperative cooperino attraverso una struttura di tipo cooperativo naturalmente dà maggiore enfasi al sesto principio dell’ACI, dal momento che la forma giuridica cooperativa è quella che, più di tutte le
92
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
perazione attraverso strutture di livello più alto che comprendono le loro
cooperative. Tutto ciò spiega perché la inter-cooperazione deve essere considerata un elemento costitutivo della complessiva identità cooperativa9.
Obiettivo principale di questo articolo è verificare se, come ed in che
misura il diritto cooperativo abbia attuato questo principio, ciò che sembra essere molto importante per almeno due ragioni10.
In primo luogo perché il sesto principio dell’ACI, come del resto altri principi dell’ACI, pecca di genericità nella misura in cui non definisce la natura dell’attività in comune cui le cooperative sono tenute, nonché le caratteristiche delle strutture che devono essere destinate a tal fine,
ma si limita a menzionarne lo scopo, che è di servire i soci delle cooperative e di rafforzare il movimento cooperativo. Il risultato è che il contenuto dell’obbligazione di cooperare rimane in qualche modo indefinito, ciò che ne rende complessa l’esecuzione a meno che il legislatore non
sia più preciso al momento di tradurre questo principio in norme di legge. Di conseguenza, analizzare le misure mediante le quali il diritto cooperativo attua il principio di cooperazione tra cooperative è necessario
al fine di conoscere e valutare il reale impatto di questo principio nella
vita delle cooperative.
altre, consente di applicare i valori e principi della cooperazione anche a livelli più alti di
coordinamento economico.
9
A tal riguardo, è utile riportare i fatti che Holyoake (in The History of Co-operation,
volume II, cit., p. 351 s.) narra riguardo a come l’idea della cooperativa grossista prese piede, si sviluppò e fu trapiantata a Manchester: “A mile and half or more from Oldham, in a lowlying uncheerful spot, there existed, twenty years ago, a ramshackle building known as Jumbo Farm.
A shrewd co-operator who held it, Mr. Boothman, had observed in the Studehill Market, Manchester, that it was great stupidity for five or six buyers of co-operative stores to meet there and buy
against each other and put up prices, and he invited a number of them and others to meet at Jumbo Farm on Sundays, and discuss the Wholesale idea; …”. Queste parole richiamano subito alla
mente l’affermazione comunemente attribuita a Robert Owen, cioè, “Competition must be
replaced by co-operation” (v. M. DIGBY, The World Co-operative Movement, cit., p. 15).
10
Il tema della fusione tra cooperative non sarà qui affrontato. Infatti, se in teoria la
fusione può essere vista come una forma di integrazione tra società cooperative, in realtà
non è una forma di cooperazione tra cooperative, dal momento che in ogni caso una sola
cooperativa risulterà da essa. La cooperazione tra cooperative presuppone due o più cooperative indipendenti che cooperano tra loro, ciò che non è il caso, ma il suo contrario, nell’ipotesi di fusione cooperativa. Questo spiega perché la fusione potrebbe tutt’al più inquadrarsi nella integrazione (di cui rappresenterebbe la forma più estrema) ma sicuramente
non già nella inter-cooperazione, e pertanto rimane fuori dall’ambito di questo articolo. Per
simili ed ancora più ovvie ragioni, non si farà riferimento nel testo alla materia della integrazione tra enti cooperativi e non cooperativi (che sarà richiamato solo incidentalmente
quando si discuterà della possibilità che una cooperativa detenga quote o azioni, o addirittura controlli una società).
93
Antonio Fici
In secondo luogo perché, dal momento in cui sono stati incorporati
nella raccomandazione n. 193/2002 della Organizzazione Internazionale
del Lavoro (OIL), i principi dell’ACI potrebbero essere ritenuti fonte formale di diritto cooperativo, se si condivide la tesi secondo cui questa raccomandazione costituisca uno strumento di diritto pubblico internazionale11. Attuare il sesto principio dell’ACI, infatti, non sarebbe una mera facoltà per legislatori desiderosi di creare un ambiente legislativo favorevole alle cooperative, bensì un’obbligazione per questi ultimi, il cui adempimento dovrebbe dunque essere verificato, insieme con le sue modalità,
dato il carattere indefinito di questa obbligazione.
Un’ultima osservazione introduttiva attiene alle ragioni specifiche
dell’integrazione tra società cooperative. Il suo scopo è di evidenziare un
diverso modo in cui la cooperazione tra cooperative e l’identità cooperativa si relazionano.
In linea di principio, le cooperative si integrano per le medesime ragioni generali di ogni altra organizzazione imprenditoriale12. Vi sono tuttavia ragioni ulteriori che trovano particolare giustificazione nella distinta identità di una cooperativa, e che possono spiegare perché questo tipo
di integrazione si verifichi tra organizzazioni imprenditoriali con la medesima forma giuridica, cioè quella di cooperativa, e talvolta soltanto (o
almeno prevalentemente) tra di esse.
Se si considera quella che si è definita integrazione “socio-politica”,
e che storicamente è rappresentata dalle “unioni” di cooperative, promuovere e diffondere il modello cooperativo di impresa e salvaguardarne
l’identità è il chiaro obiettivo specifico di questa forma di integrazione
cooperativa. Nel settore capitalistico non sarebbe possibile trovare forme di integrazione con questa specifica funzione, ovverosia promuovere la forma giuridica impiegata per lo svolgimento d’impresa, poiché lì
l’integrazione tra organizzazioni imprenditoriali segue logiche diverse
(ad esempio, lo specifico settore economico o la natura dell’attività d’impresa, ecc.).
Se invece si considera l’integrazione “economica” tra società coo-
11
Cfr., per questa conclusione, H. HENRŸ, Public International Cooperative Law, in D.
CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, Springer, Heidelberg, 2013, p. 65 ss.
La Raccomandazione n. 193/2002 dell’OIL sulla promozione delle cooperative rivede e sostituisce (v. comma 19, della raccomandazione n. 193/2002) la precedente raccomandazione n. 127/1966 sullo stesso oggetto ma con differente ambito di applicazione.
12
E come ogni altro ente imprenditoriale, devono valutare costi e benefici dell’integrazione.
94
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
perative, quella storicamente rappresentata dalle “cooperative grossiste”,
crescere mantenendo una dimensione organizzativa coerente con le loro
caratteristiche distintive è la principale ragione specifica per cui le cooperative preferiscono questa forma di integrazione ad altre13. Come è stato correttamente sottolineato, tra le caratteristiche generali che distinguono la cooperative dalle società azionarie v’è anche il modo in cui esse crescono: “Mentre le società per azioni crescono mediante espansione e/o
fusioni, le cooperative crescono mediante espansione e/o cooperazione orizzontale o la formazione di unioni e federazioni, rispettivamente
servendo l’interesse dei soci al primo livello e salvaguardando l’autonomia dei partner e delle parti costitutive”14.
Invero, le cooperative di primo grado devono crescere in maniera
compatibile con la loro identità e i diversi elementi che la compongono,
in particolare il controllo democratico da parte dei soci15. In presenza di
alcune circostanze – nonostante il principio della porta aperta che pure
caratterizza le cooperative16 – se le cooperative dovessero ampliare la propria base sociale, questo potrebbe avvenire in pregiudizio del controllo
democratico dei soci, ciò che rende il cooperare con altre cooperative l’unico modo possibile di intraprendere relazioni economiche con altre persone (nella qualità di soci delle cooperative partner)17. I principi del controllo democratico dei soci e dell’indipendenza delle cooperative spiegano anche perché la cooperativa non possa guidare o essere parte di un
gruppo verticale o gerarchico di cooperative (mentre ciò è comune nel
13
Nel documento esplicativo dell’ACI dell’8 gennaio 1996 sulla Dichiarazione di identità cooperativa del 1995, si afferma: “Indeed, co-operatives can only maximize their impact through
practical, rigorous collaboration with each other. They can achieve much on a local level, but they
must continually strive to achieve the benefits of large-scale organisations while maintaining the
advantages of local involvement and ownership. It is a difficult balancing of interests: a perennial
challenge for all co-operative structures and a test of co-operative ingenuity”.
14
H. HENRŸ, Public International Cooperative Law, cit., p. 83.
15
Sul controllo democratico da parte dei soci come uno dei principali elementi di identità cooperativa, cfr. A. Fici, An Introduction to Cooperative Law, in D. CRACOGNA, A. FICI, H.
HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 49 ss.
16
Su cui v. A. FICI, An Introduction to Cooperative Law, cit., p. 55 ss.
17
Se, d’altra parte, le restrizioni alla base sociale fossero artificiali, il principio della porta aperta, quale elemento specifico di identità cooperativa, sarebbe violato. La promozione cooperativa da parte di entità rappresentative del movimento cooperativo – soprattutto allorché la promozione cooperativa aspiri alla costituzione di nuove cooperative o allo sviluppo di quelle già esistenti – potrebbe allora essere considerata anche una misura diretta all’espansione della cooperazione nonostante ed avverso restrizioni artificiali della base sociale poste in essere dalle cooperative esistenti. Cfr. G. BOSI, Fondi mutualistici. Un’analisi giuridica ed economica, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 27.
95
Antonio Fici
settore capitalistico)18.
In altre parole, quando si discute, come è ordinario fare per il settore capitalistico, dei confini dell’impresa cooperativa, della sua dimensione ideale, non si può evitare di tenere nella dovuta considerazione l’influenza che l’identità cooperativa spiega su questo aspetto. Il rispetto della identità cooperativa, ad ogni modo, di per sé non implica che le cooperative debbano rimanere piccole, poiché esse possono adottare misure e strutture di governance capaci di rendere la maggiore dimensione compatibile con i principi cooperativi19. Inoltre, a livello più empirico, l’esistenza nel mondo di cooperative molto grandi dimostra che il modello
cooperativo di impresa in sé non preclude l’efficienza economica, quand’anche essa fosse misurata nell’ordinaria maniera capitalistica, ovverosia in termini di fatturato20.
2. Funzione e modelli di integrazione tra società cooperative
L’integrazione tra società cooperative può svolgere diverse funzioni, così come è in generale possibile per l’integrazione tra organizzazioni imprenditoriali di qualsiasi tipo giuridico.
Tuttavia, come si osservava in precedenza, nel settore cooperativo
è possibile individuare due specifiche ragioni principali di integrazione cooperativa alle quali corrispondono due diverse forme di integrazione: la prima può essere chiamata “socio-politica”, mentre la seconda “economica”21.
Impiegando le parole di Charles Gide, “una è per sviluppare lo spirito di
18
Cfr. A. FICI, An Introduction to Cooperative Law, cit., p. 54. Una conclusione differente varrebbe con riguardo a gruppi verticali in cui una cooperativa dirigesse e coordinasse
società di capitali. Questo tema, tuttavia, trascende scopo e limiti di questo articolo, dal momento che questa figura non dà luogo ad una forma di integrazione tra cooperative, ma
costituisce soltanto una modalità attraverso la quale una cooperativa può svolgere la propria attività economica e perseguire i propri obiettivi.
19
Ovviamente, quella riferita nel testo è una questione problematica alla cui soluzione la legge dovrebbe contribuire mediante norme appropriate, anche al fine di evitare
che le cooperative di maggiori dimensioni decidano di rinunciare alla forma cooperativa
trasformandosi in altri tipi giuridici. Su questo aspetto, cfr. E. GADEA et al, Regimen jurídico de la sociedad cooperativa del siglo XXI, Dykinson, Madrid, 2009, p. 551.
20
Cfr., a quest’ultimo riguardo, Exploring the Cooperative Economy, report 2013, in
http://euricse.eu/sites/euricse.eu/files/wcm2013_web_0.pdf.
21
Nelle classificazioni offerte da altri autori si fa uso di una terminologia parzialmente differente senza che però ciò tocchi la sostanza che rimane la medesima. Ad esempio,
C. GIDE, Consumers’ Co-operative Societies, cit., p. 122 ss., impiega rispettivamente “sociale”
e “commerciale”; G. FAUQUET, The Co-operative Sector, cit., p. 28, fa riferimento a gruppi con
“fini sociali” e gruppi con “fini economici”. Più di recente, E. GADEA et al, Regimen jurídi-
96
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
solidarietà tra società cooperative e per guidare il movimento cooperativo; l’altra per espandere gli acquisti e, se possibile, organizzare la produzione”22. Pertanto, questa distinzione si basa principalmente sugli obiettivi dell’integrazione e non già sulla natura dell’attività necessaria per conseguirli; attività che conseguentemente potrebbe essere economica o non
economica, ciò che peraltro, come si dirà, può influenzare la scelta della
forma giuridica per lo svolgimento della funzione.
Le unioni di cooperative costituiscono il migliore esempio storico di
una forma di coordinamento avente lo scopo di difendere, assistere, promuovere e rappresentare le cooperative associate e l’ideale cooperativo23.
In teoria, le unioni possono essere locali, nazionali, regionali o internazionali, ed invero strutture di questo tipo e livello esistono, come la già
menzionata ACI. A seconda del paese e di fattori come l’evoluzione storica del movimento cooperativo nazionale, le unioni possono includere cooperative di ogni tipo e settore dell’economia o solo cooperative di un certo tipo o settore, per esempio solo cooperative agricole o solo cooperative di consumo24. Ciò significa che in certi casi, potrebbe darsi una pluralità di unioni in un certo territorio, che a loro volta potrebbero unirsi in strutture di più alto grado e vario livello di integrazione. Le unioni possono avere differente denominazione, come ad esempio alleanze, associazioni, federazioni, confederazioni, o altre ancora più particolari25.
Le cooperative grossiste, d’altra parte, costituiscono il migliore esempio storico di coordinamento economico tra cooperative, poiché sono state costituite al fine di fornire alle cooperative associate (inizialmente mediante acquisto, successivamente anche mediante produzione diretta) i
prodotti da vendere ai propri soci.
co de la sociedad cooperativa del siglo XXI, cit., p. 540, distinguono tra inter-cooperazione “rappresentativa” ed “economica”.
22
C. GIDE, Consumers’ Co-operative Societies, cit., p. 122.
23
Ciò può anche comprendere la revisione delle cooperative associate, come avremo modo di osservare esaminando il diritto cooperativo vigente.
24
L’ACI, ad ogni modo, cerca di promuovere l’unità delle cooperative a prescindere dal loro particolare tipo, natura o settore di attività economica. Per esempio, nel documento esplicativo dell’ACI dell’8 gennaio 1996 sulla Dichiarazione di identità cooperativa del 1995, si afferma: “Co-operatives must also recognize, even more than in the past, the necessity of strengthening their support organisations and activities. It is relatively easy to become
preoccupied with the concerns of a particular co-operative or kind of co-operative. It is not always
easy to see that there is a general co-operative interest, based on the value of solidarity and the principle of co-operation among co-operatives. That is why general co-operative support organisations
are necessary; that is why it is crucially important for different kinds of co-operatives to join together when speaking to government or promoting ‘the co-operative way’ to the public”.
25
In Italia, ad esempio, esse sono note come “Centrali cooperative”.
97
Antonio Fici
Questa forma di integrazione economica può essere realizzata non
solo dalle cooperative di consumatori ma anche da quelle di produttori e di lavoratori in ogni settore dell’economia. Esempio significativo sono
le cooperative costituite da cooperative agricole per la trasformazione e/o
la commercializzazione dei propri prodotti.
Così come osservato con riguardo alle unioni di cooperative, forme economiche di integrazione tra cooperative potrebbero aver luogo a
qualsiasi livello: locale, nazionale, regionale o internazionale26. Qualora
l’integrazione economica riguardi cooperative di diversi paesi, la legge
può svolgere un ruolo fondamentale nel renderla possibile o promuoverla, in particolare qualora le cooperative intendano costituire una cooperativa di secondo grado come struttura di integrazione. In questo caso,
ad esempio, l’esistenza di una legislazione cooperativa sovranazionale
che permetta di fondare una cooperativa sulla sua base piuttosto che del
diritto nazionale di una delle cooperative coinvolte può aiutare a superare questioni di vari tipo derivanti dall’applicazione di un diritto nazionale a strutture con caratteristiche sovranazionali27. Nella stessa direzione si muovono atti sovranazionali diretti ad imporre o promuovere l’uniformità o l’approssimazione delle leggi cooperative nazionali28.
26
Nel documento esplicativo dell’ACI dell’8 gennaio 1996 sulla Dichiarazione di identità cooperativa del 1995, si afferma: “Co-operatives around the world must recognize more frequently the possibilities of more joint business ventures. They must enter into them in a practical
manner, carefully protecting the interests of members even as they enhance them. They must consider, much more often than they have done in the past, the possibilities of international joint activities. In fact, as nation states lose their capacity to control the international economy, co-operatives have a unique opportunity to protect and expand the direct interests of ordinary people”.
27
Un esempio di questo tipo di legislazione è il Regolamento dell’Unione europea
n. 1435/2003 sulla Società cooperativa europea (SCE). Deve tuttavia essere sottolineato che,
per quanto specificamente congegnata per l’integrazione economica di cooperative di differenti stati membri dell’Ue, la SCE è in principio un tipo di organizzazione imprenditoriale che anche le persone fisiche possono scegliere (v. A. FICI, The European Cooperative Society Regulation, in D. CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 115 ss.). Un esempio parzialmente differente è costituito dalla legge delle cooperative del Mercosur del 2009, che pure permette la costituzione di una cooperativa sovranazionale come “cooperativa del Mercosur”, facilitando in tal modo joint venture tra cooperative di differenti stati membri del Mercosur, ma non è stata concepita come
un autonomo corpo di regole che prevale sul diritto nazionale di uno degli stati coinvolti: cfr. D. CRACOGNA, The statute of Mercosur cooperative, in D. CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ
(eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 158, 161.
28
Gli esempi vanno dalla disciplina delle cooperative della OHADA in Africa alla
Legge quadro per le cooperative in America Latina, su cui si vedano rispettivamente D.
HIEZ, W. TADJUDJE, The OHADA Cooperative Regulation, in D. CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 89 ss., e D. CRACOGNA, The Framework Law for the Cooperatives in Latin America, ivi, p. 165 ss. V. anche, con riguardo agli
98
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
Il livello di coinvolgimento reciproco delle cooperative può variare a seconda della particolare funzione e struttura di integrazione. Per
esempio, l’integrazione economica tra cooperative di consumo potrebbe essere limitata all’acquisizione in comune di prezzi dai grossisti e alla
raccolta e trasmissione in comune a questi ultimi degli ordini di acquisto, senza includere l’acquisto in comune29. Più ampiamente, essa potrebbe invece riguardare lo svolgimento di un’intera fase del processo economico, come nel caso della commercializzazione da parte di cooperative di prodotti forniti dalle cooperative agricole che ne sono socie. Da
parte sua, l’integrazione socio-politica potrebbe limitarsi alla difesa e promozione dell’ideale cooperativo oppure comprendere la fornitura di servizi di vario genere alle cooperative associate, incluso il servizio di vigilanza cooperativa.
Inoltre, le due forme di integrazione non potrebbero mai essere completamente separate, dato che niente esclude che l’integrazione economica possa avere anche un impatto politico ed ideologico sull’intero settore cooperativo30, laddove una possibile modalità di promozione del movimento cooperativo è lo svolgimento di un’attività economica, ad esempio di natura finanziaria31.
Infine, le due funzioni (integrazione nell’attività economica e integrazione per finalità socio-politiche) potrebbero essere svolte dallo stesso soggetto o da soggetti diversi32.
Per quanto riguarda la loro forma giuridica, queste entità potrebbero essere cooperative o non cooperative (ovviamente, salvo che la legge non disponga diversamente, ad esempio, obbligando all’uso di una
Stati Uniti, la “Uniform Limited Cooperative Association Act” elaborata dalla “National Conference of Commissioners on Uniform State Laws” e approvata nel 2007, su cui cfr. J.B. DEAN,
T.E. GEU, The Uniform Limited Cooperative Association Act: An Introduction, in Drake Journal
of Agricultural Law, 2008, vol. 13, p. 63 ss.
29
Cfr. C. GIDE, Consumers’ Co-operative Societies, cit., p. 130.
30
L’integrazione economica tra cooperative, ad esempio, può essere vista come una
strategia per ridurre l’area dell’economia capitalistica e dei suoi attori nel processo economico. Nella prospettiva di G. Fauquet, per esempio, “co-operation strives through its integrations to reduce the area of the central zone occupied by the commercial and capitalist economy” (G.
FAUQUET, The Co-operative Sector, cit., p. 32).
31
Così come si osserverà nel prosieguo (comma 4.4.) esaminando la significativa esperienza dei “fondi mutualistici” gestiti dalle associazioni di rappresentanza italiane, o meglio, dalle società da esse costituite (e da esse controllate) a tale scopo.
32
C. GIDE, Consumers’ Co-operative Societies, cit., p. 122, ritiene comunque che “though
these two aspects [l’aspetto sociale e quello commerciale dell’integrazione] can be united in
one organisation (as in Switzerland and some other countries) the work is better divided if they remain distinct, like two houses in a parliamentary government”.
99
Antonio Fici
particolare forma giuridica), essendo la prima la forma giuridica che è più
normale attendersi, per lo meno con riferimento all’integrazione economica il cui obiettivo non sia realizzare profitti e distribuirli ai partner (scopo
di lucro), bensì servire le loro rispettive imprese (scopo mutualistico). La
forma cooperativa, inoltre e come tra breve si argomenterà, è quella che
più di ogni altra assicura che l’integrazione tra società cooperative si svolga senza pregiudizio ai soci delle cooperative di primo grado, in particolare ai loro diritti di controllo della cooperativa (di primo grado).
L’integrazione socio-politica, invece, non richiede necessariamente una forma giuridica disegnata per lo svolgimento di attività economica (ovviamente, a meno che la legge non disponga diversamente). Invero, se l’entità che ne risulta si propone soltanto di difendere e salvaguardare il modello cooperativo di impresa, senza svolgere alcuna attività economica sostanziale in favore delle cooperative associate, essa potrebbe
sicuramente far uso di una veste giuridica non specificamente congegnata per la conduzione di attività d’impresa, come ad esempio quella dell’associazione o della fondazione33.
Naturalmente, il riferimento qui fatto ad entità per scopi di integrazione tra società cooperative non è volto a negare che le cooperative possano tra loro porre in essere forme non istituzionalizzate di collaborazione (ad esempio attraverso contratti, anche a lungo termine). La cooperazione tra cooperative, tuttavia, necessita di un certo livello di formalizzazione e stabilità per poter essere considerata specifica delle cooperative, risultare potenzialmente compatibile con l’idea sottostante il sesto principio dell’ACI, ed essere assunta come specifico oggetto di uno
studio di diritto cooperativo (comparato).
3. L’integrazione tra società cooperative e il diritto cooperativo
Secondo l’ACI, nella sua veste di custode dell’identità cooperativa,
le cooperative devono lavorare insieme al fine di servire i propri soci in
maniera più efficace e rafforzare il movimento cooperativo (sesto principio dell’ACI). Come già osservato, tuttavia, l’ACI non ha definito i contenuti di questa obbligazione, che di per sé risulta pertanto priva della
capacità di costringere una cooperativa ad un comportamento cooperativo se il legislatore non è più preciso al momento di tradurre questo principio in legge. Questo è un ulteriore esempio del ruolo fondamentale della legge, dapprima nel dar forma, e successivamente nel garantire il ri33
Ad esempio, la stessa ACI è un’associazione di diritto belga.
100
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
spetto dell’identità cooperativa34.
L’integrazione tra società cooperative è un aspetto della complessiva
disciplina delle società cooperative che può in teoria comprendere diversi
profili, che a loro volta possono essere trattati dalla legge in modo diverso.
Una questione preliminare, tuttavia, è quella relativa a se la legge debba obbligare le cooperative a cooperare, anche alla luce della necessità di
rispettare la loro autonomia quali soggetti di diritto privato.
Come già affermato, non solo l’inter-cooperazione deve essere considerata un elemento essenziale dell’identità cooperativa, ma per di più
i Principi dell’ACI, dove l’inter-cooperazione è trattata alla stregua di
un’obbligazione per la cooperativa, può essere ritenuta – dal momento
della sua incorporazione nella Raccomandazione dell’ILO n. 193/2002
– giuridicamente vincolante per i legislatori. Pertanto, questi ultimi devono ritenersi o vincolati a forzare le cooperative a cooperare tra loro o
quanto meno sollecitati a farlo se desiderano allineare il diritto cooperativo all’identità cooperativa. Se si condivide questa posizione, l’attitudine del legislatore verso questa materia non potrebbe limitarsi alla promozione dell’integrazione tra società cooperative; ancor meno una sua
posizione di indifferenza verso questo tema sarebbe giustificabile.
In principio, l’obbligazione di cooperare con altre cooperative non
genera questioni in termini di autonomia delle società cooperative (quarto principio dell’ACI)35. Invero, è proprio l’identità delle cooperative che
può giustificare limitazioni alla loro autonomia quando ciò sia necessario al fine di assicurare che aspetti identitari ulteriori rispetto al controllo dei soci della cooperativa siano presi in considerazione. Né sarebbe possibile argomentare che questi vincoli all’autonomia sarebbero tali da pregiudicare l’autonomia privata e da porre la cooperativa in posizione di
svantaggio rispetto alle forme non cooperative di impresa.
Relativamente al primo punto, l’obbligazione di cooperare è un elemento essenziale dell’identità cooperativa che, se tradotto in norme di legge, formerebbe parte del complessivo statuto giuridico di una cooperativa, sarebbe un segmento del suo DNA. Di conseguenza, come la Corte
Costituzionale tedesca ha statuito in un caso particolarmente rilevante per
l’analisi svolta in questo articolo, non si dà luogo a violazione del diritto
34
V. in generale A. FICI, Cooperative Identity and the Law, in European Business Law Review, 2013, p. 37 ss.; ID., An Introduction to Cooperative Law, cit., p. 16 ss.
35
Anzi, come osservato supra nel testo, il cooperare con altre cooperative è, in certi
casi, per una cooperativa, l’unica possibile alternativa per espandersi senza pregiudicare il controllo democratico dei soci (come accadrebbe o potrebbe accadere qualora la cooperativa allargasse la sua base sociale).
101
Antonio Fici
di associazione e di autonomia privata se le persone non sono obbligate
a selezionare la forma giuridica cooperativa così come essa è, rimanendo la libertà di scelta tra le forme giuridiche per lo svolgimento di un’impresa garantita all’interno di un determinato ordinamento giuridico36.
Quanto al secondo punto, collaborare con altre cooperative può essere fonte di benefici superiori a costi (soprattutto per le cooperative piccole e di nuova costituzione), ed in ogni caso è una manifestazione di solidarietà rispetto alla quale qualsiasi analisi costi-benefici si presenta irrilevante (per lo meno nella misura in cui questa analisi è condotta in termini puramente monetari). Come abbiamo argomentato in altri lavori,
il sesto principio di identità dell’ACI, insieme con il quinto ed il settimo
principio, prevedono l’impegno della società cooperativa verso “altri” –
segnatamente, per quanto riguarda il sesto principio, il movimento cooperativo (che di fatto include altre cooperative e altri soci cooperatori) –,
in tal modo contribuendo (assieme ad altri elementi, tra cui la porta aperta) alla “funzione sociale” delle cooperative, che coesiste con (e limita)
il loro (prevalente) “fine mutualistico”37.
Naturalmente, sebbene l’autonomia delle cooperative non possa essere invocata per impedire al legislatore di obbligare le cooperative a cooperare, essa può validamente essere invocata al fine di circoscrivere o guidare la discrezionalità del legislatore nel disciplinare il fenomeno dell’integrazione tra società cooperative.
Invero, il quarto principio dell’ACI esige che l’integrazione tra società cooperative sia condotta con forme e modalità tali da assicurare il
controllo finale di una cooperativa da parte dei soci38. A tal riguardo, è
necessario chiedersi se la legge debba imporre che la struttura di integrazione tra società cooperative sia essa stessa una cooperativa (di secondo grado), oppure se debba quanto meno incentivarne il ricorso in luogo di altre forme giuridiche ugualmente possibili.
Come già si osservava in precedenza, la forma cooperativa sembra
36
Cfr. Bundesverfassungsgericht, 19/1/2001, n. 1759, in Neue Juristische Wochenschrift,
2001, p. 2617 e V. BEUTHIEN, Genossenschaft und Verbandszwang, in Genossenschaftsrecht: woher - wohin? - Hundert Jahre Genossenschaftsgesetz 1889-1989, Marburger Schriften zum Genossenschaftswesen, vol. 69, Göttingen 1989, p. 74 ss. La decisione concerne il regime di
affiliazione obbligatoria ad una federazione di vigilanza che si applica alle società cooperative tedesche. Sono grato ai professori Hans-H. Münkner e Hagen Henrÿ per alcuni chiarimenti sul punto.
37
V. A. FICI, An Introduction to Cooperative Law, cit., p. 32 s.
38
Invero, il termine “organizzazioni” impiegato nel quarto principio dell’ACI non
legittima l’esclusione delle stesse cooperative dal suo ambito.
102
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
quella più appropriata per l’integrazione tra società cooperative, in considerazione della particolare identità degli enti che si integrano. Una cooperativa di secondo grado, infatti, sarebbe soggetta ai medesimi principi organizzativi delle cooperative di primo grado che la formano. Ciò significa che le cooperative socie sarebbero destinatarie di un eguale trattamento in forza del principio “un socio, un voto”, e che sarebbe effettivamente garantito loro il diritto di partecipare alla gestione della cooperativa di secondo grado. Ciò assicura che la partecipazione nella struttura di integrazione non risulti in una limitazione della “sovranità” dei
soci (della cooperativa primaria), e spiega infine perché la forma cooperativa dovrebbe essere privilegiata dal legislatore al momento di stabilire quali forme giuridiche debba o possa rivestire la struttura di integrazione tra società cooperative39.
L’integrazione tra società cooperative, in conclusione, è una materia che dovrebbe essere specificamente affrontata dal diritto cooperativo, sebbene con modalità che non confliggano con altri profili di identità cooperativa, in particolare l’autonomia della cooperativa e il controllo democratico da parte dei soci.
Nel prosieguo di questo articolo ci si concentrerà sull’attuale trattamento giuridico dell’integrazione tra società cooperative, al fine di verificare se, come ed in che misura il sesto principio dell’ACI sia stato recepito dalla legge. L’analisi muoverà dall’ordinamento italiano che costituisce un eccellente esempio di come il diritto cooperativo possa essere forgiato non solo al fine di favorire lo sviluppo delle singole cooperative, ma anche e più in generale di un forte ed attivo movimento cooperativo nazionale. Inoltre, il diritto cooperativo italiano fornisce un eccellente apparato concettuale per esaminare l’argomento della inter-cooperazione in una prospettiva di diritto comparato e per comprendere le
questioni e le opzioni che questo tema precisamente involve.
4. L’integrazione tra società cooperative nel diritto italiano
Altrove abbiamo qualificato il diritto cooperativo italiano come un
39
Quanto affermato nel testo non è per escludere l’uso di forme giuridiche non cooperative, ad esempio di società di capitali, per l’integrazione tra società cooperative, dal
momento che queste forme diverse potrebbero essere adattate al fine di risultare compatibili con l’identità delle cooperative associate. Il punto è solo che la forma cooperativa sembra essere quella naturalmente più appropriata per l’integrazione tra società cooperative,
per le ragioni esposte nel testo.
103
Antonio Fici
diritto cooperativo sofisticato e capace di promuovere le cooperative40,
costituendo prova concreta di ciò il considerevole numero di cooperative esistenti e la presenza di un vasto ed attivo movimento cooperativo
nazionale41. Il diritto cooperativo italiano, infatti, non solo favorisce la costituzione di singole cooperative, incrementandone così il numero totale, ma anche la loro integrazione, alimentando in tal modo un forte e ben
organizzato movimento cooperativo42. Il diritto italiano presta specifica
attenzione sia alla forma economica che a quella socio-politica di integrazione tra società cooperative, attraverso misure che comprendono tanto obbligazioni delle cooperative verso il movimento cooperativo (ed in
senso inverso, obbligazioni del movimento cooperativo, o meglio, di sue
istituzioni rappresentative, verso le cooperative) quanto la previsione di
strutture di integrazione che le cooperative possono scegliere per svolgere un’attività economica in comune. Ancorché in principio l’integrazio-
40
Nell’ordinamento italiano, la disciplina generale delle cooperative si trova negli
articoli 2511-2545octiesdecies del codice civile del 1942 (CC), così come modificato dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, sulla riforma del diritto di società di capitali e cooperative. Nel CC, le cooperative sono considerate un tipo particolare di “società”, differente da tutti gli altri tipi societari. Ulteriori norme generali possono essere rinvenute in atti
normativi distinti, tra cui spiccano in particolare: il decreto legislativo 14 dicembre 1947,
n. 1577, su vari aspetti, tra cui in particolare i consorzi di cooperative; la legge 31 dicembre 1992, n. 59, su vari aspetti, tra cui in particolare i soci sovventori e i fondi mutualistici per la promozione della cooperazione; e il decreto legislativo 2 agosto 2002, n. 220, sulla vigilanza delle cooperative. Faremo riferimento a questi ultimi atti normativi nel testo
di questo articolo, dal momento che essi sono rilevanti per lo studio della inter-cooperazione. Oltre alla disciplina generale, esistono anche leggi speciali su particolari tipi di cooperative. L’esigenza di dettare norme speciali per queste cooperative dipende dal particolare tipo di bene o servizio fornito dalla cooperativa (ad esempio, le banche cooperative,
la cui disciplina speciale si trova nel decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385); dal particolare tipo di scambio mutualistico con i soci (ad esempio, le cooperative di lavoro, disciplinate dalla legge 3 aprile 2001, n. 142); o dallo scopo particolare che perseguono (ad
esempio, le cooperative sociali disciplinate dalla legge 8 novembre 1991, n. 381). Il quadro
giuridico italiano sulle società cooperative è reso ancor più complesso dal fatto che alle cooperative può altresì applicarsi, in via addizionale e residuale, il diritto delle società per azioni o quello delle società a responsabilità limitata. Questi aspetti generali del diritto cooperativo italiano (insieme con altri numerosi aspetti della disciplina di cui questo articolo non
potrà tenere conto) sono presentati in A. FICI, Italy, in D. CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.),
International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 479 ss.
41
Cfr. A. FICI, Italy, cit., p. 480. Secondo La cooperazione in Italia. 1° Rapporto Euricse
del novembre 2011, in http://www.euricse.eu/it/node/1868, le cooperative attive al
31/12/2008 sarebbero 71.578, con 1.155.290 dipendenti e 91,8 miliardi di euro di fatturato. Secondo l’ISTAT, nel suo censimento del 2011 sull’industria e i servizi, i dipendenti di
imprese cooperative sarebbero 1.200.585.
42
Per una breve storia del movimento cooperativo italiano ed ulteriori riferimenti,
cfr. S. ZAMAGNI, V. ZAMAGNI, Cooperative Enterprise, cit., p. 46 ss.
104
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
ne economica e quella socio-politica siano considerate dalla legge, e si siano storicamente sviluppate, in modo separato, nell’ambito della seconda
sono state in forma crescente svolte attività economiche destinate alla promozione del movimento cooperativo, come si osserverà nel prosieguo.
4.1. Le cooperative di secondo grado (consorzi di cooperative)
Il “consorzio di cooperative” costituisce la forma tradizionale di cooperazione economica tra le cooperative italiane43. Nonostante la sua denominazione, che si trova anche nella legge, il consorzio di cooperative
è di fatto una cooperativa di secondo grado, cioè una cooperativa di cooperative costituita al fine di servire le cooperative socie mediante un’attività economica che soddisfi i loro particolari bisogni quali utenti o fornitrici dell’impresa cooperativa (secondaria). Invero, essendo una cooperativa (secondaria), il consorzio di cooperative persegue un fine mutualistico al pari di ogni altra cooperativa44. Pertanto, il suo obiettivo è
di svolgere un’attività d’impresa nell’interesse delle cooperative socie quali sue utenti o fornitrici45. Tra un consorzio e le cooperative socie hanno
dunque luogo scambi mutualistici della medesima natura giuridica di quelli che si svolgono in una cooperativa di primo grado.
43
Nella letteratura giuridica italiana, cfr. sul punto, anche per ulteriori riferimenti,
G. BONFANTE, La nuova società cooperativa, Zanichelli, Bologna, 2010, p. 349 ss.; nonchè, più
di recente, ID., La società cooperativa, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, V,
Cedam, Padova, 2014, p. 411 ss.
44
Il concetto di scopo mutualistico, anche in relazione ad altri possibili scopi che un
ente può assumere, è più ampiamente discusso in A. FICI, An Introduction to Cooperative Law,
cit., p. 21 ss.
45
Le cooperative di consumatori sono costituite da persone (fisiche o giuridiche) interessate ad acquisire determinati beni o servizi, e sono pertanto destinate a fornire ai loro soci
questi beni o servizi, previo loro acquisto o produzione. Nelle cooperative di consumatori l’attività cooperativa in senso stretto (l’“impresa cooperativa”) consiste nel trasferire beni o servizi ai soci, che sono pertanto soci-consumatori, mentre tutte le altre attività (ad esempio, l’acquisto di beni, l’organizzazione di servizi o l’assunzione di dipendenti a tal fine) sono meri
strumenti per rendere l’attività cooperativa possibile. Tra i vari possibili esempi figurano le
cooperative di vendita di generi alimentari, le cooperative edilizie e le banche cooperative. Nel
caso dei consorzi, l’esempio per eccellenza sono le cooperative di vendita all’ingrosso. Le cooperative di produzione sono costituite da persone (fisiche o giuridiche) interessate alla fornitura di determinati beni o servizi, e sono pertanto destinate ad acquisire questi beni o servizi dai loro soci per poi trasformarli o commercializzarli. Nelle cooperative di produzione, l’attività cooperativa in senso stretto è quella di acquisire beni o servizi dai soci, che sono pertanto soci-fornitori, mentre tutte le altre attività (ad esempio, la successiva commercializzazione dei beni o l’assunzione di dipendenti a tal fine) sono meri strumenti per rendere l’attività cooperativa possibile. Tra i vari possibili esempi figurano le cooperative agricole per la
trasformazione del latte fornito dai soci in formaggio, e per quanto riguarda i consorzi, i consorzi per l’imbottigliamento e la commercializzazione del vino delle cooperative socie.
105
Antonio Fici
Quanto sopra (cioè, la loro natura giuridica di cooperative) spiega
sostanzialmente perché la disciplina specifica dei consorzi di cooperative nell’ordinamento italiano è piuttosto scarna, essendo i consorzi soggetti alla disciplina delle cooperative (di primo grado) con solo alcune
eccezioni46. La disciplina specifica dei consorzi o è ad essi direttamente
rivolta o si applica loro indirettamente nella misura in cui la legge si occupa di enti giuridici o di imprenditori come possibili soci di una cooperativa (categorie, queste ultime, in cui possono farsi rientrare le cooperative che sono socie di un consorzio).
I consorzi di cooperative possono essere costituiti da un numero minimo di tre cooperative, sottoscrivendo un capitale minimo di 516 €47. Lo
statuto di un consorzio può conferire alle cooperative socie più di un voto
(ma non più di cinque voti) nell’assemblea dei soci in proporzione al capitale individualmente sottoscritto o al numero dei rispettivi soci48, in tal modo
derogando (ancorché entro limiti prestabiliti) alla regola “un socio, un voto”49.
Inoltre, lo statuto di un consorzio può riconoscere alle cooperative socie un
numero di voti in assemblea proporzionale agli scambi mutualistici che ciascuna di esse svolga con il consorzio. Quest’ultima possibilità è tuttavia limitata dalla previsione secondo cui ciascuna cooperativa così eventualmente privilegiata non possa avere più del 10% dei voti in ciascuna assemblea,
e che tutte le cooperative così privilegiate non possano avere complessivamente più di un terzo del numero totale dei voti in ciascuna assemblea50.
In una cooperativa di secondo grado le deroghe alla regola del voto capitario sono dunque ammesse ed appaiono altresì utili al fine di risolvere potenziali conflitti di interesse derivanti da una base sociale eterogena51.
46
Ciò non è per affermare che la disciplina specifica delle cooperative di secondo grado debba essere limitata, ma solo per dar conto di quale sia lo stato attuale del diritto cooperativo italiano sul punto.
47
V. art. 27, commi 2 e 3, d.lgs. n. 1577/1947. Il numero minimo di tre soci è in linea
con quanto previsto dalle leggi cooperative nazionali europee con riguardo alle cooperative in generale, incluso lo stesso diritto italiano (v. art. 2522, comma 2, CC).
48
Questa possibilità, in realtà, è offerta non soltanto ad una cooperativa formata da
cooperative, ma più in generale ad una cooperativa i cui soci siano persone giuridiche (art.
2538, comma 3, CC).
49
Nel diritto cooperativo italiano, “ciascun socio cooperatore ha un voto qualunque
sia il valore della quota o il numero delle azioni possedute” (art. 2538, comma 2, CC).
50
Questa regola si applica in generale a tutte le cooperative i cui soci siano imprenditori (art. 2538, comma 4, CC).
51
Tali deroghe, inoltre, non si pongono in contrasto con i Principi dell’ACI, là dove
la regola “un socio, un voto” è riferita unicamente alle cooperative di primo grado, mentre con riguardo alle cooperative di altro livello si afferma soltanto che “anche esse sono
organizzate in modo democratico”.
106
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
Più che per i suoi specifici contenuti – che, come si osservava, sono
piuttosto esigui – la disciplina dei consorzi di cooperative come cooperative tra cooperative è importante per il semplice fatto di esistere. Invero, non solo offre alle cooperative la possibilità di costituire una cooperativa di secondo grado (ciò che sarebbe derivato in ogni caso dalla circostanza che il diritto cooperativo italiano, a differenza di altri ordinamenti giuridici, non prevede che solo le persone fisiche possano essere socie
di cooperative), ma, ciò che è ancora più importante, indica (seppur non
imponendolo) il percorso per l’integrazione economica tra società cooperative, ovverosia, una struttura avente la forma giuridica di cooperativa,
che, per diversi motivi, come prima si argomentava, deve considerarsi la
forma naturale di integrazione economica tra cooperative.
Il diritto italiano, tuttavia, come si illustrerà nel paragrafo seguente, consente altresì alle cooperative di selezionare una forma giuridica diversa per la loro integrazione economica.
4.2. Le società di capitali di proprietà delle cooperative
Il diritto italiano non impedisce ad una cooperativa di costituire una
società per azioni o a responsabilità limitata cui affidare l’attività economica che soddisfi gli interessi dei propri soci. Invero, l’ordinamento italiano permette alle cooperative (e ai consorzi di cooperative) di possedere quote o azioni di società di capitali e persino ad una sola cooperativa (o consorzio di cooperative) di controllarle52.
Conseguentemente, questa facoltà permette anche ad una sola cooperativa di dar luogo ad un “gruppo cooperativo eterogeno”, quale risultato del suo controllare e dirigere una o più società di capitali nella qualità di sussidiarie (le quali, a loro volta, potrebbero controllare e dirigere altre società di capitali), e le cooperative italiane hanno fatto ampio uso
di questa struttura per espandere i loro affari53.
52
V. art. 27quinquies, d.lgs. n. 1577/1947, introdotto dall’art. 18, legge 19 marzo 1983,
n. 72, nonché l’art. 15, legge n. 59/1992.
53
“Eterogeneo” in quanto il gruppo è formato da una cooperativa (quale società “madre”) e una (o più) società non-cooperative (quali società “figlie”). Al contrario, “omogeneo” è definito il gruppo formato esclusivamente da cooperative (cfr. infra par. 4.3.). La possibilità che una cooperativa controlli una società di capitali ha sollevato la questione se una
pura holding cooperativa sia ammissibile, cioè se una cooperativa che si limiti a detenere
quote o azioni di società di capitali sia configurabile secondo il diritto italiano. La questione principale è come ricollegare un fine mutualistico (che secondo il diritto italiano caratterizza le cooperative: v. art. 2511 CC) ad una cooperativa che soltanto detenga il capitale
di società senza svolgere direttamente alcuna attività economica con i propri soci. Secondo G. BONFANTE, La nuova società cooperativa, cit., p. 363 ss., la cooperativa holding è legit-
107
Antonio Fici
Questo modello giuridico, tuttavia, potrebbe anche essere impiegato
quale alternativa alla cooperativa di secondo grado (o consorzio di cooperative) per l’integrazione tra società cooperative, dal momento che nulla impedisce la comproprietà da parte di un gruppo di cooperative del capitale di una società. Due o più cooperative potrebbero dunque stabilire una
società per azioni o a responsabilità limitata che svolga attività economica
nel loro interesse comune (ad esempio, due cooperative agricole potrebbero fondare una società di capitali che commercializzi i loro prodotti).
In linea di principio, questa forma alternativa di integrazione economica non confligge con l’identità cooperativa, poiché l’integrazione tra
cooperative sarebbe in ogni caso “orizzontale”, essendo la società che ne
risulta controllata dalle cooperative e non già l’inverso. Essa conduce, tuttavia, ad una differente struttura delle relazioni tra le cooperative che si
integrano, dal momento che l’ente risultante dall’integrazione sarebbe sottoposto al diritto delle società di capitali piuttosto che a quello delle società cooperative54. Pertanto, a differenza che nel caso della cooperativa
di secondo grado, l’integrazione attraverso la costituzione di una società di capitali non assicura in principio che tutte le cooperative (e conseguentemente tutti i soci di queste ultime) controllino la struttura di integrazione economica, ciò che crea rischi sotto il profilo dell’identità cooperativa (delle cooperative di primo grado) e spiega perché la cooperativa di secondo grado è normalmente considerata, anche in questo articolo, la forma più naturale di cooperazione economica tra società cooperative, avendo altresì dimostrato di essere la forma più tradizionale nella storia del movimento cooperativo. Nulla impedisce, tuttavia, che le società sussidiarie siano di fatto (e mediante accurate disposizioni statutarie) gestite in forma rispettosa dei principi cooperativi, così da dare a ciascuna cooperativa l’effettiva possibilità di partecipare al loro governo55.
tima nella misura in cui il fine mutualistico si persegua indirettamente attraverso le società sussidiarie (“mutualità indiretta”).
Largo uso di questo modello di espansione imprenditoriale è stato fatto anche dalle cooperative di altri paesi. Cfr., ad es., in Spagna, E. GADEA et al, Regimen jurídico de la sociedad cooperativa del siglo XXI, cit., p. 547 ss.
54
Ciò implica altresì che, in principio, il trattamento tributario delle cooperative (così
come altre specifiche discipline) non si applica ad una società di capitali controllata da cooperative, mentre invece troverebbe applicazione ad una cooperativa di secondo grado (ciò
che può costituire ulteriore ragione pratica per preferire questa forma più tradizionale di
integrazione cooperativa).
55
La questione sollevata nel testo non avrebbe ovviamente senso nell’ipotesi in cui
un consorzio di cooperative dirigesse una società, dal momento che in questo caso vi sarebbe una sola società “madre”, cioè il consorzio di cooperative.
108
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
4.3. Il gruppo cooperativo paritetico
Una nuova figura, introdotta dalla riforma del 2003 del diritto italiano delle società di capitali e delle cooperative, che può essere rilevante ai fini dell’analisi in corso poiché sembra consentire una nuova forma
di cooperazione economica tra cooperative, è il “gruppo cooperativo paritetico”, previsto dall’art. 2545septies del codice civile italiano.
Esso è definito dalla legge come “il contratto con cui più cooperative appartenenti anche a categorie diverse regolano, anche in forma consortile, la direzione e il coordinamento delle rispettiva imprese”. La disciplina legislativa è molto scarna. In forma indiretta, la legge stabilisce che
il contratto deve avere un termine finale; che il gruppo può essere diretto da una o da più cooperative; che enti pubblici o privati di tipo non cooperativo possono essere ammessi ad esso; e che ogni cooperativa ha diritto di recedere dal gruppo senza oneri se per effetto dell’adesione al gruppo le condizioni dello scambio sono divenute pregiudizievoli per i soci.
I contenuti, gli scopi e i limiti di questa nuova figura rimangono poco
chiari. Ad esempio, qualcuno in dottrina ritiene che questo contratto produca soltanto effetti interni tra le parti, non dia luogo alla creazione di
un ente giuridico che possa avere rapporti giuridici con terzi, non abbia
scopo mutualistico e non costituisca un vero e proprio istituto di integrazione tra imprese cooperative56.
Ciò che sembra più certo è che, da una parte, il gruppo cooperativo paritetico è una struttura flessibile che può essere conformata dalle
parti ai fini dello svolgimento di funzioni varie e il perseguimento di obiettivi di diversa natura57; dall’altra, che questa forma di integrazione si basa
sull’eguaglianza sostanziale di trattamento di tutte le parti coinvolte, con
particolare riguardo alla distribuzione dei risultati economici conseguiti dal gruppo (piuttosto che al suo governo, dato che la direzione, come
già rilevato, può essere affidata ad una o più cooperative del gruppo).
Infatti, la legge stabilisce che il contratto debba prevedere “i criteri di compensazione e l’equilibrio nella distribuzione dei vantaggi derivanti dall’attività comune”, ed inoltre, come già riferito, attribuisce alle parti il diritto di recedere allorché la partecipazione nel gruppo divenga per esse
(o meglio, per i loro soci) economicamente insoddisfacente. Ciò spiega
altresì perché il gruppo è denominato “paritetico”, anche se avrebbe do-
56
Cfr. in questo senso G. BONFANTE, La nuova società cooperativa, cit., p. 374 s.
Anche alla luce della possibilità di combinare la disciplina di questo contratto con
un’altra nuova e più generale disciplina, quella sui “contratti di rete” (v. art. 3, comma 4ter4quinquies, decreto legge 10 febbraio 2009, n. 5).
57
109
Antonio Fici
vuto più appropriatamente essere denominato “paritario”58.
Se si condivide questa tesi, il gruppo cooperativo paritetico può essere considerato un’alternativa reale alla cooperativa di secondo grado
(o consorzio di cooperative) per l’integrazione economica tra società cooperative. Il gruppo di cui all’art. 2545septies del codice civile italiano ha
senza alcun dubbio un carattere gerarchico maggiore del consorzio, dal
momento che una cooperativa può dirigere l’attività delle altre. Ciò potrebbe sollevare seri dubbi sotto il profilo dell’identità cooperativa (dato
che una cooperativa, come affermato in precedenza, non può essere sottoposta a controllo esterno), che tuttavia possono essere rimossi considerando che in nessun caso un gruppo è legittimato a distribuire in misura diseguale tra i suoi partecipanti i benefici (e i costi) dell’attività economica in comune, e che in ogni caso ciascuna cooperativa può sempre
recedere dal gruppo quando parteciparvi non sia più conveniente, in tal
modo rendendo di fatto il governo del gruppo più condiviso di quanto
non possa apparire a prima vista59.
4.4. Le associazioni nazionali del movimento cooperativo e i fondi mutualistici
Sin qui abbiamo trattato delle forme e delle strutture di integrazione
nell’attività economica. Quest’ultimo sottoparagrafo è invece dedicato a quella forma di integrazione definita in questo articolo “socio-politica”.
I suoi protagonisti principali, nel diritto italiano, sono le “associazioni nazionali di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo”, così come ad esse fa letteralmente riferimento il legislatore italiano60, e i “fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione” che le prime hanno la possibilità di costituire. La funzione di
vigilanza cooperativa svolge altresì un ruolo fondamentale nel disegna-
58
Cfr. G. BONFANTE, La nuova società cooperativa, cit., p. 369. A questo riguardo, è significativo che la dottrina giuridica spagnola (cfr. E. GADEA et al, Regimen jurídico de la sociedad cooperativa del siglo XXI, cit., p. 553) usi “paritario” per qualificare e distinguere il gruppo cooperativo a cui fa riferimento l’art. 78, comma 1, della legge cooperativa statale spagnola (v. infra nt. 104), dal momento che questo gruppo è molto simile al gruppo cooperativo di cui all’art. 2545septies del codice civile italiano.
59
La governance condivisa, infatti, si realizza ex post piuttosto che ex ante, come invece avviene nel caso della cooperativa di secondo grado.
60
V. articoli 11, comma 1, l. n. 59/1992, e 2, comma 4, d.lgs. n. 220/2002. Tuttavia,
esse sono comunemente denominate “centrali” o “federazioni”. Le principali sono al momento Confcooperative e Legacoop (che peraltro, insieme con la AGCI, hanno dato luogo, nel 2011, ad una struttura di coordinamento denominata “Alleanza delle cooperative
italiane”).
110
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
re un sistema cooperativo integrato in Italia, che, come vedremo, è fondato sui contributi obbligatori delle singole cooperative e su incentivi giuridici indiretti a prendervi parte.
Le associazioni nazionali possono ottenere il riconoscimento come
organismi di revisione cooperativa attraverso un decreto ministeriale se
hanno non meno di 2.000 cooperative associate, distribuite in almeno cinque regioni e tre sezioni dell’albo nazionale delle cooperative, così come
identificate sulla base del tipo di scambio mutualistico. Inoltre, esse devono offrire prova della loro capacità di svolgere la funzione di revisione nei confronti degli enti cooperativi aderenti61.
Ovviamente, il tema della vigilanza cooperativa si colloca al di fuori degli scopi di questo articolo. Qui è soltanto necessario ricordare che
secondo il diritto italiano la revisione è obbligatoria per tutte le cooperative (vi sono solo alcune eccezioni) ed è diretta a verificare i “requisiti mutualistici” e la “natura mutualistica” delle cooperative, tenendo conto dell’effettività della base sociale, della partecipazione dei soci alla vita
sociale e agli scambi mutualistici, dell’assenza di scopo di lucro, e della
legittimazione a beneficiare delle agevolazioni fiscali e di altra natura62.
Ciò che è sicuramente importante sottolineare ai limitati fini di questa indagine è che le associazioni riconosciute del movimento cooperativo assumono un ruolo centrale nella revisione cooperativa. Infatti, esse
esercitano la revisione degli enti cooperativi ad esse associati63, laddove
le cooperative che non aderiscono ad alcuna associazione sono revisionate dallo Stato (rectius, dal Ministero dello Sviluppo Economico, che svolge altresì le ispezioni straordinarie quando lo ritenga necessario), il quale può tuttavia decidere di avvalersi, nello svolgimento di questa funzione, di revisori qualificati delle associazioni riconosciute64.
Evidentemente, questa disciplina della revisione cooperativa incentiva le cooperative ad aderire ad una associazione del movimento coo-
61
V. art. 3, d.lgs. n. 220/2002.
La materia è estensivamente disciplinata dal d.lgs. n. 220/2002 sulla “vigilanza cooperativa”, che si articola in “revisioni cooperative” (la forma ordinaria di controllo, cha ha
luogo normalmente ogni due anni) e le “ispezioni straordinarie”, e parzialmente dal codice civile (per quanto riguarda alcune possibili conseguenze/sanzioni della revisione). Già la
Costituzione italiana, come è noto, fa riferimento al controllo delle cooperative, all’art. 45.
63
V. art. 2, comma 4, d.lgs. n. 220/2002.
64
V. art. 7, comma 2, d.lgs. n. 220/2002. Più precisamente, la possibilità per il Ministero competente di avvalersi di revisori di federazioni è riconosciuta dalla legge solo nel
caso di revisioni cooperative, mentre le ispezioni straordinarie devono essere condotte sempre direttamente dal Ministero attraverso propri funzionari o funzionari di altre amministrazioni (art. 8).
62
111
Antonio Fici
perativo, al fine di essere revisionate dalla loro associazione piuttosto che
dallo Stato o da revisori di associazioni cui non hanno voluto aderire, soprattutto in ragione del fatto che, per diritto italiano, le cooperative devono in ogni caso sopportare i costi della revisione65. Ciò sicuramente aiuta a costruire un movimento cooperativo nazionale, dato che, per quanto la partecipazione in associazioni non sia obbligatoria, essa è significativamente incoraggiata del sistema della revisione66. Per di più, svolgendo la funzione di revisione loro assegnata dalla legge, le associazioni possono contribuire allo sviluppo di un certo movimento cooperativo, con determinate caratteristiche e qualità (ad esempio in termini di effettiva partecipazione dei soci o di democrazia reale) piuttosto che altre.
Le stesse associazioni che possono essere riconosciute come associazioni di revisione ai sensi dell’art. 3 del decreto legislativo n. 220/2002, possono costituire fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione67. Questi fondi hanno lo scopo esclusivo di promuovere e finanziare nuove imprese ed iniziative di sviluppo della cooperazione. A tal fine
possono promuovere la costituzione di cooperative e consorzi di cooperative, così come assumere partecipazioni in società cooperative o in società
da queste controllate. I fondi possono altresì finanziare specifici programmi di sviluppo di cooperative e loro consorzi, organizzare o gestire corsi di
formazione professionale del personale dirigente amministrativo o tecnico del settore della cooperazione, e promuovere studi e ricerche su temi economici e sociali di rilevante interesse per il movimento cooperativo68.
65
V. art. 8, d.lgs. 14 dicembre 1947, n. 1577.
Come già rilevato, tuttavia, una norma di legge che obbligasse le cooperative ad
aderire ad un’associazione di revisione del movimento cooperativo non potrebbe essere
ritenuta contraria alla libertà costituzionalmente riconosciuta di associazione e all’autonomia privata, in considerazione del fatto che fondare una cooperativa non è obbligatorio e
la cooperativa non è l’unico tipo societario a disposizione di chi intenda svolgere un’attività d’impresa in forma organizzata, sicché, se selezionata sulla base di un atto di libera
scelta, la forma giuridica cooperativa deve essere accettata così come essa complessivamente è disegnata dal legislatore (includendo in ciò l’associazione obbligatoria o la revisione
obbligatoria): v. supra nt. 36.
67
V. art. 11, comma 1, l. n. 59/1992. Più precisamente, questi fondi non sono direttamente gestiti dalle associazioni nazionali di rappresentanza, bensì da un’associazione o
da una società per azioni costituite ad hoc, in entrambi i casi senza scopo di lucro (art. 11,
comma 1). Almeno l’80% del capitale della società così costituita deve essere detenuto dalla associazione nazionale (art. 12, comma 1), laddove, se i fondi mutualistici sono gestiti
da un’associazione, di quest’ultima fanno parte di diritto tutte le cooperative e i consorzi di cooperative aderenti alla associazione di rappresentanza. Sulle questioni giuridiche
sollevata da questa disciplina, v. di recente G. BOSI, Fondi mutualistici. Un’analisi giuridica
ed economica, cit., p. 80 ss.
68
V. art. 11, commi 2 e 3, l. n. 59/1992.
66
112
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
Ciò che è particolarmente importante evidenziare ai fini di questo
articolo è il sistema di alimentazione dei fondi, che si basa su contribuzioni obbligatorie da parte delle cooperative associate alla associazione
di rappresentanza che abbia promosso la costituzione del fondo. Tali cooperative sono obbligate a destinare ai fondi mutualistici il 3% dei loro utili netti annuali69. Inoltre, quando una cooperativa (rectius, una cooperativa a mutualità prevalente70) si scioglie o si trasforma, l’intero patrimonio sociale, dedotto soltanto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati ma non ancora distribuiti, è devoluto ai fondi mutualistici71.
Le cooperative (e i loro consorzi) che non aderiscono ad alcuna associazione di rappresentanza sono sottoposte alle medesime obbligazioni e vincoli di destinazione, ma non già nei confronti dei fondi mutualistici, bensì di fondi pubblici costituiti per finalità analoghe a quelle dei
fondi mutualistici72. Nuovamente, come già osservato con riguardo al tema
della revisione cooperativa, quest’ultima è una misura mediante la quale la legge intende spingere le cooperative ad aderire ad un’associazione del movimento cooperativo.
Nello stesso senso, la promozione statale del movimento cooperativo include altresì uno specifico e premiale trattamento tributario dei contributi obbligatori ai fondi mutualistici: questi contributi, infatti, sono esenti da tassazione per i fondi mutualistici che li ricevono e sono deducibili dalla base imponibile delle cooperative che li effettuano73.
Indubbiamente, questo regime favorisce lo sviluppo di un movimento cooperativo ben strutturato quale soggetto distinto che opera al fianco (ma anche dietro e sopra, se si considerano rispettivamente il ruolo
69
V. art. 11, comma 4, l. n. 59/1992, e art. 2545quater, comma 2, CC.
Quella tra cooperative a mutualità prevalente (CMP) e cooperative a mutualità non
prevalente o altre cooperative (AC) è la principale distinzione introdotta nel diritto cooperativo italiano dalla riforma del 2003 del diritto societario. Ai sensi dell’art. 2512 CC, le
CMP sono cooperative che operano prevalentemente con i propri soci quali fruitori dei beni
o servizi forniti dalla cooperativa (nelle cooperative di consumo), quali fornitori dei beni
o servizi impiegati dalla cooperativa nella propria attività economica (nelle cooperative di
produzione), o quali lavoratori (nelle cooperative di lavoro). La condizione di prevalenza
deve essere documentata analiticamente secondo quanto disposto dall’art. 2513 CC. Al contrario, le AC non sono né obbligate ad operare prevalentemente con i propri soci né a rendicontare il volume dell’attività con questi ultimi. A differenza delle AC, le CMP sono altresì sottoposte ai vincoli nella distribuzione degli utili di cui all’art. art. 2514 CC. La distinzione tra CMP e AC non rileva tanto sotto il profilo del diritto organizzativo quanto
piuttosto di quello tributario.
71
Art. 2514, comma 1, d), CC, e art. 11, comma 5, l. n. 59/1992.
72
V. art. 11, comma 6, l. n. 59/1992.
73
V. art. 11, comma 9, l. n. 59/1992.
70
113
Antonio Fici
di promozione e di controllo) le cooperative e i loro consorzi. Le contribuzioni obbligatorie sono la caratteristica distintiva di questo sistema, che ha
il chiaro obiettivo di incrementare il numero di cooperative esistenti e di iniettare solidarietà all’interno del movimento (affinché le cooperative esistenti e di maggiori dimensioni favoriscano la creazione di nuove cooperative
o lo sviluppo di cooperative di dimensioni più limitate). Esso dimostra altresì come lo sviluppo del movimento cooperativo possa essere promosso
dallo Stato senza imporre alle cooperative di prendervi parte, ma trasmettendo adeguati incentivi affinché ciò avvenga. Esso infine dimostra come
le associazioni rappresentative del movimento cooperativo possano promuovere la cooperazione anche attraverso sofisticate attività finanziarie, quali la partecipazione nel capitale di start-up cooperative.
5. L’integrazione tra società cooperative: un panorama di diritto comparato
L’analisi sin qui svolta era anche destinata a facilitare la realizzazione di uno studio comparativo sulla cooperazione tra cooperative. Infatti – oltre alle difficoltà che in generale si incontrano al momento di analizzare il diritto cooperativo in prospettiva comparatistica, a cominciare da quella derivante dall’individuazione delle fonti di tale diritto74 – uno
studio comparatistico della inter-cooperazione è reso complesso da una
terminologia legislativa variegata e da una comprensione non uniforme,
anche da parte della dottrina, delle funzioni ed attività che possono farsi rientrare nell’ambito di questa materia. La speranza è che questo articolo possa contribuire a chiarire quali profili e questioni interessano il
tema della cooperazione tra cooperative nel momento in cui un legislatore o un giurista siano chiamati a confrontarsi con esso.
Detto ciò, l’analisi comparativa che segue non pretende presentare, descrivere e discutere in maniera esaustiva la vigente disciplina legislativa della inter-cooperazione. Piuttosto, essa si concentrerà su quegli aspetti e risultati – alcuni più generali, altri più particolari – che appaiono più significativi alla luce del quadro concettuale delineato nella precedente parte di
questo articolo, assumendo il diritto italiano come punto di riferimento. Tra
le altre cose, ciò potrà anche permettere di rivisitare e ridefinire le questioni precedentemente sollevate, così come di rivalutarle in forma critica, attraverso opportuni riferimenti di diritto comparato.
74
Cfr. A. FICI, Cooperative Identity and the Law, cit., p. 41 s.
114
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
i) Occorre innanzitutto sottolineare come, nonostante l’importanza (storicamente e comparativamente accertata) della inter-cooperazione per la crescita delle cooperative, l’esistenza di prassi cooperative di
questo tipo, e da ultimo, ma non meno importante, il sesto principio dell’ACI, così come formalmente e sostanzialmente incorporato nella Raccomandazione 193/2002 dell’ILO75, ci sono ordinamenti in cui la cooperazione tra cooperative è un aspetto non specificamente disciplinato o solo
limitatamente affrontato dal diritto cooperativo76.
Infatti, in molti casi, il riconoscimento legislativo della inter-cooperazione si limita alla possibilità per le cooperative di costituire o essere
socie di altre cooperative, e per le cooperative i cui soci siano cooperative di derogare alla regola “un socio, un voto”77, ciò che, se per un lato
75
Che per di più, e tra le altre previsioni parimenti rilevanti per questo argomento,
invita i governi (o piuttosto, li obbliga, se si ritiene che sia una fonte di diritto pubblico internazionale) ad agevolare “the membership of cooperatives in cooperative structures responding
to the needs of cooperative members” (par. 6, d) e ad incoraggiare “conditions favouring the development of technical, commercial and financial linkages among all forms of cooperatives so as to
facilitate an exchange of experience and the sharing of risks and benefits” (par. 13).
76
Ovviamente, anche gli ordinamenti giuridici che non hanno alcuna legge cooperativa appartengono a questo gruppo. Il principale esempio è l’Irlanda, in cui una legge
generale sulle cooperative manca (ancorché si discuta in merito alla sua introduzione ed
esista una legge specifica sulle unioni di credito, il Credit Union Act (1997-2012)) e le entità di tipo cooperativo sono solite registrarsi sulla base dell’Industrial and Provident Societies Act (1893-1978) qualora non preferiscano registrarsi in base al Companies Act (19632012). In ogni caso, l’IPSA (1893-1978) si limita a prevedere che una società formata da due
o più società possa essere registrata (sezione 1 dell’Act del 1913 che modifica l’IPSA 1893),
ciò che non è sufficiente per concludere che esista una disciplina specifica della inter-cooperazione in questo paese. Cfr. B. CARROLL, Ireland, in D. CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.),
International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 468, 469, e 477. Sul dibattito in merito all’introduzione di una specifica legge cooperativa in questo ordinamento, cfr. E.W. DE BARBIERI, Fostering Co-operative Growth through Law Reform in Ireland: Three Recommendations from
Legislation in the United States, Norway and Brussels, in Journal of Co-operative Studies, 2009,
vol. 42.1, p. 37, 39, secondo cui: “Ireland does need a law that protects the co-operative identity
and gives the public a clear way to identify a co-operative society from another type of corporate entity”; E. CAREY, Co-operative Identity – Do You Need a Law About It?, ivi, p. 49.
77
La possibilità per gli statuti di cooperative di secondo grado di attribuire un voto
plurale è contemplata da molte leggi cooperative (la abbiamo già vista nel par. 4.1. di questo articolo trattando del diritto cooperativo italiano; v. inoltre, tra gli altri, l’art. 26, comma 6, della Legge statale spagnola, 26 Luglio 1999, n. 27, e l’art. 9, comma 2, della Legge
francese n. 47-1775 del 1947). Come già si è detto nel testo, il voto plurale in una cooperativa di secondo grado è compatibile con il quarto principio dell’ACI, e persino raccomandabile quando i soci di una cooperativa di secondo grado abbiano un differente numero
di soci. Solitamente, le leggi sulle cooperative prevedono che il potere di voto sia correlato al numero dei soci delle cooperative socie o alla loro partecipazione all’attività mutualistica (cfr., ad es., l’art. 26, comma 6, della Legge statale spagnola, 26 Luglio 1999, n. 27).
115
Antonio Fici
implica la giuridica ammissibilità delle cooperative di secondo grado (o
di grado superiore), dall’altro lato è sicuramente insufficiente per concludere nel senso che la materia della inter-cooperazione trovi adeguata considerazione nell’ambito di questi ordinamenti giuridici78.
Tuttavia, è vero che questi ordinamenti rappresentano l’eccezione,
poiché in generale la materia della inter-cooperazione è disciplinata in
maniera più dettagliata dalle leggi cooperative nazionali, ancorché con
modalità e misure differenti tra loro, come si noterà nel prosieguo79.
ii) Abbiamo in precedenza riflettuto sull’importanza di una legislazione che faciliti la inter-cooperazione transfrontaliera, e sulla sua coerenza con l’identità delle cooperative così come delineata dall’ACI. Se i
In certi casi, però, esse ammettono anche che il potere di voto sia correlato all’ammontare del capitale sottoscritto (come nel caso, già menzionato, dell’art. 2538, comma 3, del codice civile italiano). Ciò non genera questioni in termini di identità cooperativa nella misura in cui l’ammontare di capitale sottoscritto sia proporzionale alle dimensioni della base
sociale della cooperative socia; in caso contrario, una forma capitalistica di governo sarebbe introdotta, la cui legittimità dovrebbe farsi dipendere dall’esistenza di un limite massimo ai voti addizionali che una singola cooperativa può esercitare in ciascuna assemblea
dei soci (come accade, ad es., nel diritto italiano, come abbiamo già visto nel par. 4.1.; o nel
diritto spagnolo, dove, con riferimento ad una cooperativa di secondo grado, si stabilisce
che “ningún socio podrá ostentar más de un tercio de los votos totales, salvo que la sociedad esté
integrada sólo por tres socios, en cuyo caso el límite se elevará al 40 %, y si la integrasen únicamente dos socios, los acuerdos deberán adoptarse por unanimidad de voto de los socios”: art. 26, comma 6, della Legge statale spagnola, 26 Luglio 1999, n. 27). Al contrario, nel diritto cooperativo tedesco, esiste una disposizione secondo la quale gli statuti di una cooperativa esclusivamente o prevalentemente formata da cooperative possano attribuire ai soci più voti senza però prevedere limite alcuno a questo potere: cfr. art. 43, par. 3, n. 3, della Legge tedesca 1 maggio 1889. Un altro esempio è offerto dalla Legge finlandese n. 1488/2001, nella
quale (nel cap. 4, par. 7) si stabilisce: “(1) In the general meeting of the co-operative, one member shall have one vote in all matters to be considered by the general meeting. (2) However, it may
be stipulated in the rules that the members have differentiated numbers of votes. The number of votes of one member may be more than ten times the number of votes of another member only in a cooperative in whose rules it is stipulated that the majority of members are to be co-operatives or other
legal persons”. A dire il vero, la legge finlandese del 2001 è stata sostituita dalla legge n.
421/2013, entrata in vigore l’1 gennaio 2014, e della quale, nel momento in cui si scrive,
non esistono traduzioni in altre lingue (ma a quanto risulta, questa riforma non pare abbia toccato la disciplina degli aspetti menzionati).
78
Le leggi cooperative di Cina, Finlandia e Olanda appartengono, tra le altre, a questa categoria di leggi: cfr. rispettivamente D. REN, P. YUAN, China, in D. CRACOGNA, A. FICI,
H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 352; H. HENRŸ, Finland,
ivi, p. 390; G.J.H van der Sangen, Netherlands, ivi, p. 558.
79
La mancanza di norme specifiche sulla inter-cooperazione non comporta, naturalmente, che le cooperative non possano integrarsi mediante accordi contrattuali oppure facendo ricorso a norme di diritto generale o di diritto societario se la loro applicazione non è impedita da disposizioni specifiche di diritto cooperativo.
116
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
legislatori sono chiamati a promuovere la inter-cooperazione, ancor di
più essi dovrebbero evitare di frapporre ostacoli alla cooperazione tra cooperative. Nondimeno, questo è ciò che avviene in alcuni paesi a causa del
trattamento diseguale delle cooperative rispetto alle società di capitali,
anche sotto il profilo delle opportunità che il semplice fatto di essere prese in considerazione dalla legge può garantire. Per esempio, in un sistema federale come quello australiano, la mancanza di una normativa federale sulle cooperative (che al contrario esiste per le società di capitali) limita l’attività delle cooperative a livello federale, e conseguentemente la possibilità di cooperare tra loro oltre i confini di ciascuno stato80. È
superfluo affermare che questa attitudine del legislatore è più dannosa
per lo sviluppo delle cooperative dell’indifferenza assoluta verso il tema
dell’integrazione cooperativa.
iii) La misura in cui il tema della inter-cooperazione è oggetto di disciplina da parte delle leggi cooperative nazionali varia ampiamente. In
materia si va dalle dettagliate, numerose ed originali disposizioni del diritto italiano o del diritto spagnolo81 alla scarna disciplina che si riscontra in ordinamenti dove solo la forma economica di integrazione è og-
80
Il problema deriva dal fatto che la sezione 51.xx della Costituzione australiana autorizza il Governo federale a legiferare su materie che attengono alle “corporations” che hanno come obiettivo primario attività commerciali e finanziarie (“the corporations power”): una
categoria, quest’ultima, a cui le cooperative si considerano non appartenere (dal momento che agiscono nell’interesse dei loro soci), così permanendo fuori dall’ambito dell’ordinamento federale. Cfr. T. SARINA, Australia, in D. CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 209, 226 s., dove inoltre un progetto di leggi statali uniformi sulle cooperative del 2012 (the “Cooperative National Law Bill”), per superare questo ostacolo, è presentato ed analizzato nei dettagli. Il medesimo problema esisteva in Canada prima dell’approvazione della legge federale sulle cooperative (cfr. T. PETROU, Canada, in D. CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 293).
Il contrario può affermarsi, ad esempio, con riguardo all’India, grazie al “Multi-State Cooperative Societies Act” del 2002, o alla Spagna, grazie alla Legge statale spagnola,
26 Luglio 1999, n. 27 (che si applica soltanto alle cooperative la cui “actividad cooperativizada” con i soci si svolga “en el territorio de varias Comunidades Autónomas, excepto cuando en
una de ellas se desarrolle con carácter principal”, e alle cooperative la cui “actividad cooperativizada” con i soci si realizzi principalmente nelle città di Ceuta e Melilla (v. art. 2, della Legge spagnola 27/1999). Negli Stati Uniti i tentativi di adozione di una legge uniforme sulle cooperative sono finora falliti (ma, questo sì, esistono bozze di legge uniforme, come la
“Uniform Limited Cooperative Association Act” del 2007, cui già si è fatto riferimento supra
alla nt. 28).
81
Al diritto spagnolo si farà presto riferimento nel testo. Per quanto riguarda il diritto italiano, si veda invece il precedente paragrafo di questo articolo.
117
Antonio Fici
getto di considerazione normativa82.
Anche l’ambito della disciplina varia notevolmente. In alcuni casi,
delle due forme di integrazione, tanto quella economica quanto quella
socio-politica trovano disciplina legislativa, mentre in altri casi soltanto
una di esse. Alcune leggi cooperative menzionano soltanto o offrono una
disciplina essenziale delle strutture di integrazione tra società cooperative, laddove altre le disciplinano dettagliatamente.
In ogni caso, quel che sembra più importante sottolineare è che, per
quanto riguarda il merito della disciplina, possono riscontrarsi diversi
approcci generali alla materia. Alcuni ordinamenti giuridici obbligano
le cooperative a cooperare (ciò che può farsi in modi diversi)83; altri promuovono la inter-cooperazione trasmettendo alle cooperative incentivi
a cooperare (ad anche questo può essere fatto in modo diversi)84; altri an-
82
Ciò non è sempre facile da valutare. Ad esempio, ci sono molte leggi cooperative
nelle quali si permette di costituire una cooperativa che persegua scopi ideologici. Può simile previsione normativa comprendere anche la cooperativa di secondo grado il cui obiettivo sia difendere, rappresentare e promuovere il movimento cooperativo?
83
Sul punto, l’ordinamento tedesco costituisce forse l’esempio più significativo, quanto meno in Europa. Le cooperative tedesche sono obbligate ad aderire a federazioni cooperative di revisione obbligatoria (v. art. 54, Legge cooperativa tedesca del 1889), e questa
adesione è necessaria affinché esse siano registrate dal tribunale competente (v. art. 11, comma 3, n. 3, della stessa legge tedesca). Lo stesso modello si trova in Austria (cfr. G. MIRIBUNG, E. REINER, Austria, in D. CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook
of Cooperative Law, cit., p. 245 ss.) e in Giappone (per lo meno con riferimento alle cooperative agricole: cfr. A. KURIMOTO, Japan, in D. CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 521).
84
Abbiamo già esaminato il caso italiano. In Italia la inter-cooperazione è incoraggiata mediante norme che obbligano le cooperative a contribuire allo sviluppo del movimento cooperativo e a sottoporsi a revisione sopportandone i costi. Queste norme favoriscono
l’integrazione di tipo socio-economico tra società cooperative, nella misura in cui le cooperative possono preferire contribuire a, ed essere revisionate da, federazioni cui aderiscano.
Una maniera diversa di promuovere l’integrazione tra società cooperative, senza renderla
obbligatoria per le cooperative, è quella di affidare funzioni pubbliche, in particolare la supervisione, ad organizzazioni composte da cooperative. È quanto si verifica non solo in quegli ordinamenti nei quali le cooperative sono obbligate ad aderire ad entità cooperative di
revisione (v. la precedente nota a pie di pagina), ma altresì in quegli ordinamenti, come l’ordinamento italiano, in cui il controllo pubblico delle cooperative può anche essere esercitato dalle federazioni di cooperative su base di delega da parte della autorità pubblica (v.
supra par. 4.4). In questo senso, cfr. anche quanto previsto dall’art. 84, comma 2, della Legge quadro per le cooperative in America Latina (“por delegación del la autoridad de aplicación
las cooperativas de grado superior que ejerzan representación del movimiento cooperativo podrán realizar actividades de supervisión. Asimismo, podrán encargarse de actividades de registro por delegación de la autoridad encargada del Registro de Cooperativas”). Un esempio ulteriore e molto
significativo proviene dalla legislazione cooperativa della provincia canadese del Quebec,
dove il “Conseil de la coopération du Québec”, una entità composta da federazioni di coope-
118
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
cora definiscono le strutture di integrazione, senza però né obbligare né
incentivare le cooperative a cooperare85.
In aggiunta, vi sono casi in cui la legge dispone direttamente la costituzione di un ente per la promozione e lo sviluppo della cooperazione86. Si tratta di un modo diverso di affrontare il tema dell’integrazione
tra società cooperative, nella misura in cui da un lato ci si assicura che
un ente rappresentativo e promozionale del movimento cooperativo esista in ogni caso, come accade in presenza del sistema obbligatorio; dall’altro lato, però, lo si conforma legislativamente, perché questa entità è
rative, svolge in base a delega legislativa o autorizzazione della pubblica autorità, diverse
funzioni, dal controllo preventivo alla registrazione di nuove cooperative e la raccolta di dati
statistici sulle cooperative, alla attuazione di progetti di sviluppo della cooperazione, al punto che è possibile affermare che “Québec’s system of promoting cooperation among cooperatives
is truly exemplary” (T. PETROU, Canada, cit., p. 314). Un ulteriore esempio è costituito dalla legge colombiana 79/1988, dove si prevede che i fondi pubblici per lo sviluppo e la promozione della cooperazione sono preferibilmente veicolati attraverso entità finanziarie cooperative (art. 134), entità che le cooperative possono costituire in conformità agli articoli 98 e
99 della stessa legge, ancorché di fatto questa misura non trova attuazione concreta. Anche
le leggi che coinvolgono le organizzazioni rappresentative del movimento cooperativo nella formazione di enti specificamente istituiti per la supervisione e la promozione delle cooperative (v. il seguente punto vii) nel testo, così come la nt. 99) incoraggiano in modo indiretto la formazione di un movimento cooperativo nazionale.
85
Gli esempi sarebbero numerosi: cfr., ad es., gli art. 82 e ss. della Legge argentina
n. 20.337 del 15 maggio 1973 (sebbene, a dire il vero, in questa stessa legge, la promozione dell’educazione cooperativa e l’integrazione con altre cooperative sono considerati tratti distintivi delle cooperative: v. art. 2, comma 1, n. 8 e 9, e art. 42, comma 1, n. 3; inoltre,
la Legge argentina n. 23.427 del 1986 obbliga le cooperative a contribuire al Fondo per la
Educazione e Promozione Cooperativa: cfr. D. CRACOGNA, Argentina, in D. CRACOGNA, A.
FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 204); e art. 92 ss. della Legge colombiana n. 79/1988. Invero, molte leggi cooperative, seppur non obbligano né
incentivano le cooperative ad integrarsi, tracciano il percorso della integrazione, ciò che
sicuramente favorisce l’inter-cooperazione, pur non assicurandola (come si osserverà trattando il caso del diritto messicano: v. nt. 92).
86
Queste entità sono normalmente responsabili del controllo sulle cooperative. Oltre al Consiglio Cooperativo Nazionale Belga, a cui si farà riferimento nella successiva nota
a pie di pagina, questo modello si ritrova in diversi ordinamenti giuridici dell’America Latina. Ad esempio, la Legge argentina n. 20.337 del 15 maggio 1973 (art. 105) istituisce un
ente (che attualmente, dopo il decreto n. 721/2000, è l’“Instituto Nacional de Asociativismo
y Economía Social” (INAES)) incaricato di numerose funzioni relative alle cooperative, incluso il controllo e la promozione (art. 106), e gestito da un consiglio di amministrazione
formato da un presidente e quattro componenti nominati dal governo nazionale; due dei
quattro componenti, tuttavia, partecipano in rappresentanza delle associazioni mutualistiche e delle cooperative, e sono nominati dal governo nazionale sulla base di una proposta degli enti che aggregano le associazioni mutualistiche e le cooperative (art. 2, decreto n. 721/2000; attualmente i componenti di questo ente sono sette, quattro dei quali in
rappresentanza delle associazioni mutualistiche e delle cooperative).
119
Antonio Fici
formata ed opera secondo la volontà legislativa (sicché essa potrebbe avere, ad esempio, un carattere più o meno pubblicistico a seconda di quale ne sia la composizione per legge). D’altra parte, questa è una condizione affinché lo Stato promuova il movimento cooperativo, poiché è attraverso questo ente istituito per legge che, direttamente o indirettamente (ad esempio, attraverso misure tributarie), le risorse pubbliche sono
trasferite al movimento cooperativo87.
iv) Negli ordinamenti in cui il diritto cooperativo incorpora formalmente i Principi dell’ACI o ad essi fa rinvio espresso (come accade in molti casi), la cooperazione tra cooperative dovrebbe essere considerata automaticamente obbligatoria per le cooperative, poiché il sesto principio dell’ACI è chiaramente formulato in questo senso (“le cooperative servono i propri soci nel modo più efficiente e rafforzano il movimento cooperativo lavorando insieme …”)88. Tuttavia, se il diritto cooperativo in questione non specifica i contenuti dell’obbligazione di cooperare, si sollevano le medesime
questioni che di per sé i Principi dell’ACI pongono in merito all’identificazione dell’oggetto specifico dell’obbligazione di cooperare89.
87
Il diritto belga fornisce un significativo esempio a quest’ultimo riguardo. La disciplina generale belga delle cooperative si trova negli articoli 350-436 del Codice delle società, mentre una disciplina speciale si applica alle cooperative accreditate, che come tali
possono avere accesso ad un più specifico e generoso (se raffrontato a quello di altre cooperative) trattamento tributario (Legge 20 luglio 1955 e Decreto reale 8 gennaio 1962). Abbiamo altrove definito questo modello di legislazione cooperativa “double track model”, dal
momento che esso distingue due tipi di cooperative, uno sotto il diritto delle organizzazioni ed un altro sotto il diritto tributario, quest’ultimo con una maggiore identità cooperativa (cfr. A. FICI, Cooperative Identity and the Law, cit., p. 53 ss.). La disciplina speciale delle cooperative accreditate prevede l’istituzione di un Consiglio Cooperativo Nazionale (CCN),
che, oltre ad accreditare le cooperative ai fini della loro ammissibilità allo specifico trattamento tributario, ha la missione di svolgere attività di promozione dei principi e dei valori dell’impresa cooperativa. Il CCN belga è considerato uno strumento governativo inserito nel Ministero degli Affari Economici (cfr. A. COATES, Belgium, in D. CRACOGNA, A. FICI,
H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 252). Tuttavia, questo ente
(così come il suo consiglio di amministrazione) è composto da rappresentanti del movimento cooperativo, essendo i suoi componenti designati da commissioni (delle cooperative di consumo; delle cooperative agricole; delle cooperative di produzione e distribuzione; e delle cooperative di servizio) composte da persone designate da gruppi nazionali di
cooperative nonché da cooperative non aderenti ad essi (v. articoli 2 e ss., Legge 20 luglio
1955). La disciplina del CCN è stata recentemente modificata: cfr. Decreto reale 24 aprile
2014 sulla composizione e il funzionamento del CCN. Tuttavia, sebbene quest’ultimo decreto abbia modificato la struttura interna del Consiglio, non ha mutato la sua natura di
ente la cui composizione interna è fortemente influenzata dal movimento cooperativo.
88
Corsivo aggiunto dall’Autore.
89
V. supra par. 1.
120
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
v) Per quanto la legge sia importante per l’integrazione tra società
cooperative, le cooperative, tuttavia, hanno dato prova di cooperare anche in assenza di una disciplina sostanziale della materia90. Così, in certi casi, è stato il legislatore a dover successivamente adeguare la disciplina esistente al fine di tenere conto della crescente prassi collaborative tra
entità del settore cooperativo91. Mentre in altri casi il livello di integrazione tra società cooperative è rimasto scarso nonostante la presenza di
una dettagliata disciplina in materia92.
Parimenti rilevante è osservare che non esiste prova del fatto che
un regime obbligatorio di integrazione tra società cooperative abbia dato
vita ad un movimento cooperativo più ampio o più solido di quello sviluppatosi in presenza di un regime facoltativo in cui le cooperative siano destinatarie di incentivi normativi alla cooperazione reciproca93.
vi) In questo articolo si è tracciata una distinzione tra due forme di
integrazione tra società cooperative, in ragione di due diverse funzioni che ad essa è possibile assegnare: una funzione economica ed una socio-politica. L’analisi comparativa ha dimostrato che, mentre esistono leg-
90
V., ad es., la “Irish Co-operative Organisation Society” (http://www.icos.ie/) e il
“Dutch Council for Cooperative”, che comprende soprattutto cooperative attive in agricoltura ed orticoltura (www.cooperative.nl). Entrambe le organizzazioni sono state costituite ed operano in paesi dove il diritto cooperativo è, rispettivamente, assente o carente
di una disciplina specifica dell’integrazione tra società cooperative.
91
Cfr. D. REN, P. YUAN, China, cit., p. 352, secondo cui “during the formulation of the
Law [la legge sulle farmer specialized cooperatives del 31 October 2006, l’unica esistente al momento in questo paese], agricultural cooperative were in the early stage of development, and there were, as said, few cooperative federations. Since the law came into effect [l’1 luglio 2007] … a
number of cooperative federations have begun to appear, therefore, the general requirements for cooperative federations have been provided in the implementation measures, rules and regulations of
the Law as established by provincial legislative authorities”.
92
È il caso del Messico, ad esempio. La sua legge generale sulle società cooperative
del 1994 include tre capitoli e più di 20 articoli dedicati ad entità di secondo livello per la
promozione, il supporto, l’integrazione, ecc., delle cooperative, ma più del 50% delle cooperative messicane non sono integrate (almeno secondo quanto riferisce J.J. ROJAS HERRERA, Mexico, in D. CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative
Law, cit., p. 537, e gli studi ivi menzionati alla nt. 4).
93
Nessuno, invero, potrebbe ad esempio affermare che il movimento cooperativo sia
più sviluppato in Germania, dove esiste un regime di adesione obbligatoria a federazioni di cooperative, che in Italia (dove l’adesione non è obbligatoria ma forti incentivi a cooperare sono trasmessi dalla legge alle cooperative, in particolare imponendo alle cooperative, anche non associate, di contribuire allo sviluppo del movimento cooperativo) o in
Argentina o altri paesi dell’America Latina (dove questi incentivi, se esistenti, non sono
così forti come quelli previsti dal diritto italiano).
121
Antonio Fici
gi cooperative che considerano queste due forme separatamente94, ve ne
sono altre che non distinguono tre le due e contemplano strutture di integrazione la cui funzione può essere liberamente determinata dai fondatori, anche in modo tale da comprendere entrambe le funzioni sopra
menzionate95.
Sul punto, abbiamo già fatto riferimento all’opinione di Charles Gide
in merito all’opportunità di mantenere le due funzioni separate in capo
a due entità diverse96. Ciò anche perché, a nostro avviso, la separazione
può essere più rispettosa dei principi cooperativi di autonomia cooperativa e di controllo democratico dei soci, dal momento che, quando il
medesimo ente svolge sia il ruolo di difendere sia quello di integrare nell’attività economica, aumenta il rischio che questa organizzazione di vertice possa invadere la sfera di autonomia imprenditoriale delle cooperative associate. Il processo legislativo compiutosi sul punto in Polonia è
molto significativo a tal riguardo97.
94
Gli esempi sono numerosi: v., tra gli altri, Germania (le federazioni di revisione, che
possono anche avere lo scopo di proteggere il comune interesse dei propri associati, sono associazioni registrate: art. 53 e 63b della Legge tedesca del 1889), Italia (v. i precedenti paragrafi 4.1 e 4.4), Giappone (quanto meno con riferimento alle cooperative agricole: v. A. KURIMOTO, Japan, cit., p. 521), Perù (la cui legge generale sulle cooperative del 1981 distingue tra
“centrales cooperativas”, che sono cooperative di cooperative e perseguono scopi economici,
e “federaciones nacionales” di cooperative e la “confederación nacional”, che sono associazioni
senza scopo di lucro con finalità socio-politica: v. art. 57 ss. e C. TORRES MORALES, Peru, in D.
CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 605 ss.),
Polonia (v. nt. 97), Portogallo (dove gli articoli 81 e ss. della Legge n. 51/96 del 7 settembre
(“Codice Cooperativo”), distinguono tra “unioni” con obiettivo prevalentemente di natura
economica, e “federazioni” e “confederazioni” con prevalente scopo di rappresentanza, anche se in questa legge la distinzione tra le due figure non si mostra così netta ad un osservatore straniero, tanto più se si considera che, diversamente che negli altri ordinamenti prima
menzionati, entrambe le strutture hanno forma giuridica cooperativa), e Spagna (v. nt. 104).
95
V. nt. 102.
96
V. nt. 32.
97
In questo paese, la cooperazione tra cooperative era originariamente realizzata attraverso le unioni di cooperative, che svolgevano sia attività di difesa e rappresentanza del
movimento cooperativo, sia attività d’impresa nell’interesse delle cooperative associate. Durante il periodo comunista, queste unioni divennero strumenti di controllo dello Stato sulle cooperative. Successivamente, una norma di una legge del 1990 liquidò tutte le unioni
di cooperative esistenti. Questa norma fu poi dichiarata incostituzionale e una legge del
1991 ripristinò la possibilità per le cooperative di costituire unioni a condizione che esse
non svolgessero alcuna attività economica ed operassero come “unioni di revisione”. Un
successivo atto del 1994 rese possibile la costituzione anche di “unioni commerciali cooperative”, intese come cooperative di cooperative, distinte dalle unioni di revisione (cfr.
A. PIECHOWSKI, Poland, in D. CRACOGNA, A. FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of
Cooperative Law, cit., pp. 629-630).
122
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
vii) Si è già posto in evidenza in questo articolo come l’integrazione con altre società cooperative possa avere natura obbligatoria. Più precisamente, la legge in generale non impone alle cooperative di intraprendere forme di integrazione economica con altre società cooperative, laddove l’integrazione socio-politica è obbligatoria in alcuni ordinamenti giuridici. Ad esempio, in Austria, Germania e (ancorché soltanto in alcuni casi)
Giappone, le cooperative devono aderire ad un’organizzazione di vertice,
che è incaricata altresì del loro controllo (persino del controllo preventivo
alla loro registrazione)98. Il controllo assume un ruolo fondamentale a questo riguardo, poiché è spesso invocato per giustificare l’affiliazione obbligatoria, sebbene nulla in principio impedisca che si possa attuare un sistema di controllo obbligatorio da parte di unioni o federazioni di cooperative senza obbligare le cooperative ad aderire a queste ultime99.
Si deve sottolineare, tuttavia, come in altri ordinamenti un effetto
simile si produca obbligando le cooperative a contribuire al movimento cooperativo o a sottoporsi a controllo, dal momento che queste obbligazioni incentivano le cooperative ad integrarsi al fine di poter contribuire alla propria organizzazione rappresentativa o essere da quest’ultima controllate (piuttosto che dallo Stato o da organizzazioni a cui non
abbiano chiesto di aderire o di cui abbiano rifiutato l’adesione)100.
98
V. nt. 83.
Invero, la legge potrebbe attribuire direttamente questo potere ad entità del movimento cooperativo o di autogoverno cooperativo, indipendentemente dalla circostanza
se le cooperative da essere sottoposte a controllo aderiscano a queste entità, come avviene, ad es., in Polonia, dove il “Consiglio Cooperativo Nazionale” revisiona le cooperative non aderenti ad alcuna unione di revisione (per quanto sia vero che quest’ultimo ente
abbia una natura giuridica particolare, esso può comunque essere qualificato come un organismo di auto-governo cooperativo: cfr. A. PIECHOWSKI, Poland, cit., p. 630). Un’altra possibilità è che la legge autorizzi lo Stato a servirsi di revisori provenienti dalle federazioni
di cooperative, come avviene in Italia (ancorché con limitato riferimento alle cooperative
non aderenti ad alcuna associazione di rappresentanza, perché con riguardo a quelle aderenti è la legge stessa che direttamente attribuisce la funzione di revisione alle associazioni di rappresentanza: v. par. 4.4), o a delegare il potere di controllo a federazioni di cooperative, come previsto (o meglio, auspicato) nella Legge quadro per le cooperative in America Latina (v. art. 84, comma 2). Ulteriore possibilità è che la legge coinvolga in qualche
modo gli enti cooperativi nel processo di revisione, come accade ad esempio in Quebec con
riferimento al “Conseil de la cooperation du Québec” (cfr. T. PETROU, Canada, cit., p. 314).
100
A tal riguardo, abbiamo già fatto riferimento al diritto italiano nei precedenti paragrafi di questo articolo. Esempi ulteriori possono rinvenirsi, tra gli altri, in India (la sezione 63, comma 1, (b), della Legge del 2002 sulle “Multi-State Cooperative Societies”, obbliga tali cooperative ad erogare l’1% dei propri utili netti al Fondo di Educazione Cooperativa gestito dall’Unione Cooperativa Nazionale dell’India). In altri ordinamenti esistono disposizioni più generali (come ad esempio in Canada, dove la sezione 7 (1) (g) (iv), della legge federale sulle cooperative del 1998, include quella al “community welfare or the pro99
123
Antonio Fici
Nella maggior parte degli ordinamenti giuridici, comunque, il diritto cooperativo né obbliga le cooperative a partecipare a strutture di secondo grado, né contempla contributi obbligatori al movimento cooperativo,
lasciando la inter-cooperazione alle libere scelte delle cooperative.
D’altra parte, abbiamo già fatto riferimento alla strategia di incentivi adottata da alcuni ordinamenti come la più rispettosa dell’identità
cooperativa e la più efficace in termini di costruzione di un coeso e solido movimento cooperativo101.
viii) Abbiamo sostenuto in questo articolo che è coerente con la loro
particolare natura che le cooperative si integrino attraverso una struttura cooperativa. Invero, l’analisi comparativa rivela che i legislatori mostrano di preferire la forma giuridica cooperativa, talvolta persino imponendola alle cooperative che desiderano integrarsi (anche solo per finalità di tipo socio-politico)102. Ci sono tuttavia esempi differenti di leggi
cooperative che autorizzano il ricorso ad altre forme giuridiche o individuano una forma sui generis per le strutture di integrazione (o, quanto meno, per alcune di loro)103.
pagation of cooperative enterprises” tra le possibili destinazioni del surplus generato dalla cooperativa), che in quanto tali corrono il rischio di non essere sufficientemente efficaci se non
accompagnate da altre disposizioni più specifiche che vi diano attuazione.
101
V. nt. 84.
102
V., ad es., art. 5 della Legge francese n. 47-1775 del 1947, secondo cui le “unioni
di cooperative” sono cooperative sottoposte alla medesima legge. Un altro esempio si trova in Portogallo (cfr. art. 81, comma 1, della Legge n. 51/96 del 7 settembre, con riguardo
ad unioni, federazioni e confederazioni, e R. NAMORADO, Portugal, in D. CRACOGNA, A. FICI,
H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 651, secondo cui: “in fact,
in Portugal, the whole cooperative sector is organized through cooperative structures”). In America Latina il modello della cooperativa di secondo grado si applica in principio tanto all’integrazione economica quanto a quella socio-politica, se è vero che “las cooperativas de segundo o superior grado se constituyen para prestar servicios a sus socios y podrán realizar, conforme con
las disposiciones de esta ley y de sus respectivos estatutos, actividades de carácter técnico, económico,
social, cultural y asumir la representación del movimiento cooperativo” (art. 84, comma 1, Legge quadro per le cooperative in America Latina), oltre ad attività di supervisione su delega dell’autorità competente (art. 84, comma 2, ibidem). Naturalmente, ciò non significa che di fatto lo stesso ente cooperativo svolga entrambe le funzioni, quella economica e quella socio-politica, ma
solo che gli enti considerati hanno forma giuridica cooperativa o sono sottoposti alla disciplina delle cooperative (v., ad es., l’art. 97 della Legge colombiana n. 79/1988, nonché l’art. 98
della stessa legge con riguardo alle istituzioni finanziarie di tipo cooperativo; v. anche l’art.
85 della Legge argentina n. 20.337 del 15 maggio 1973). In modo parzialmente diverso, come
visto alla nt. 94, ci sono ordinamenti giuridici che prescrivono la forma giuridica cooperativa soltanto per le strutture di integrazione cooperativa con finalità economiche.
103
Cfr., ad es., con riguardo al Consiglio Cooperativo Nazionale polacco, A. PIECHOWSKI, Poland, cit., p. 630.
124
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
ix) Solo in alcuni paesi esiste un dettagliato e sofisticato regime giuridico dell’integrazione tra società cooperative. Abbiamo già descritto il
caso italiano. Un altro esempio è costituito dall’ordinamento spagnolo, anche volendo limitare la nostra attenzione alla legge cooperativa statale104.
104
Semplificando (e rinviando a E. GADEA et al, Regimen jurídico de la sociedad cooperativa del siglo XXI, cit., p. 539 ss., per maggiori informazioni, anche con riguardo alle leggi cooperative autonomiche), la Legge statale spagnola n. 27/1999 prevede differenti forme di inter-cooperazione economica: la cooperativa di secondo grado, costituita da almeno due cooperative allo scopo di “promover, coordinar y desarrollar fines económicos comunes de sus socios, y
reforzar e integrar la actividad económica de los mismos” (art. 77, comma 1); il gruppo cooperativo, che è “el conjunto formado por varias sociedades cooperativas, cualquiera que sea su clase, y la entidad cabeza de grupo que ejercita facultades o emite instrucciones de obligado cumplimiento para las
cooperativas agrupadas, de forma que se produce una unidad de decisión en el ámbito de dichas facultades” (art. 78, comma 1); così come altre forme, dal momento che “Las cooperativas de cualquier
tipo y clase podrán constituir sociedades, agrupaciones, consorcios y uniones entre sí, o con otras personas físicas o jurídicas, públicas o privadas, y formalizar convenios o acuerdos, para el mejor cumplimiento de su objeto social y para la defensa de sus intereses” (art. 79, comma 1). Relativamente alla
inter-cooperazione rappresentativa o socio-politica, si vedano gli articoli 117-120 della medesima legge, dove si regolano le unioni, federazioni e confederazioni che le cooperative possono costituire per la difesa e promozione dei loro interessi. Nonostante questo regime non
sia obbligatorio, nel diritto cooperativo spagnolo esistono misure di promozione del movimento cooperativo da parte delle singole cooperative. Una disposizione di questo tipo è quella secondo cui una parte del surplus (5%) della cooperativa deve essere allocato ad un “fondo de educación y promoción” (art. 58, comma 1), le cui funzioni includono: “a) La formación y
educación de sus socios y trabajadores en los principios y valores cooperativos, o en materias específicas de su actividad societaria o laboral y demás actividades cooperativas; b) La difusión del cooperativismo, así como la promoción de las relaciones intercooperativas; c) La promoción cultural profesional
y asistencial del entorno local o de la comunidad en general, así como la mejora de la calidad de vida y
del desarrollo comunitario y las acciones de protección medioambiental” (art. 56, comma 1); prevedendosi altresì che “para el cumplimiento de los fines de este fondo se podrá colaborar con otras sociedades y entidades, pudiendo aportar, total o parcialmente, su dotación” (art. 56, comma 2). Vi sono
altresì leggi autonomiche (come la legge dei Paesi Baschi n. 6/2008) che, con maggiore precisione, prevedono che i contributi obbligatori per l’educazione e la promozione cooperativa siano devoluti ad enti creati dalle cooperative per la loro difesa e promozione (cfr. E. GADEA et al, Regimen jurídico de la sociedad cooperativa del siglo XXI, cit., p. 502). Si deve inoltre menzionare l’art. 75 della Legge statale n. 27/1999, dove si stabilisce che, nel caso di liquidazione di una cooperativa, il fondo per l’educazione e la promozione è devoluto alla federazione alla quale la cooperativa aderisca (art. 75, comma 2, (a)), ed in particolare che: “El haber líquido sobrante, si lo hubiere, se pondrá a disposición de la sociedad cooperativa o entidad federativa que
figure expresamente recogida en los Estatutos o que se designe por acuerdo de Asamblea General. De
no producirse designación, dicho importe se ingresará a la Confederación Estatal de Cooperativas de la
clase correspondiente a la cooperativa en liquidación y de no existir la Confederación correspondiente,
se ingresará en el Tesoro Público con la finalidad de destinarlo a la constitución de un Fondo para la
Promoción del Cooperativismo. Si la entidad designada fuera una sociedad cooperativa, ésta deberá incorporarlo al fondo de reserva obligatorio, comprometiéndose a que durante un período de quince años
tenga un carácter de indisponibilidad, sin que sobre el importe incorporado se puedan imputar pérdidas originadas por la cooperativa. Si lo fuere una entidad asociativa, deberá destinarlo a apoyar proyectos de inversión promovidos por cooperativas” (art. 75, comma 2, (d)).
125
Antonio Fici
x) In precedenza si è osservato come il diritto italiano permetta alle
cooperative di possedere quote o azioni di società di capitali, consentendo
in tal modo la costituzione di gruppi di società (e non già di cooperative)
diretti da una cooperativa nella qualità di società madre (un “gruppo eterogeneo”). Come rilevato, questo è un modello di espansione imprenditoriale che le cooperative italiane, e non solo quelle italiane, hanno utilizzato ampiamente. Tuttavia, esso non ha niente a che vedere con il tema dell’integrazione tra società cooperative, poiché non ha la funzione di aggregare le cooperative tra loro, bensì una cooperativa con organizzazioni imprenditoriali di tipo non-cooperativo (salva l’ipotesi in cui la proprietà delle società di capitali sia divisa tra due o più cooperative, nel qual caso le società sussidiarie potrebbero agire alla medesima stregua di una cooperativa di secondo grado al fine di soddisfare gli interessi delle cooperative che
le dirigono). Tutt’al più, tale possibilità solleva la questione se una cooperativa possa perseguire il suo fine mutualistico anche, o addirittura esclusivamente (nel caso di cooperativa holding), attraverso società sussidiarie105.
Ad ogni modo, è necessario osservare come l’analisi comparativa
abbia incidentalmente rivelato come in alcuni ordinamenti, che costituiscono eccezioni, una cooperativa possa in linea di principio essere soggetta a controllo esterno. Ciò, tra le altre cose, può consentire la costituzione di “gruppi cooperative omogenei”, formati da una cooperativa che,
alla testa del gruppo, diriga altre cooperative nella veste di sussidiarie.
Questa può essere una valida ragione per cui, in queste leggi cooperative, una cooperativa con un solo socio è giuridicamente configurabile
o persino espressamente prevista dalla legge106.
105
La mutualità indiretta è esplicitamente riconosciuta nella disciplina francese delle “sociétés coopératives de commerçants détaillants” (v. art. L 124-1 del Codice del Commercio, dove si stabilisce che queste cooperative “peuvent notamment exercer directement ou indirectement pour le compte de leurs associés” attività varie nell’interesse dei loro soci, e che a
tal fine possono anche “prendre des participations même majoritaires dans des sociétés directement ou indirectement associées exploitant des fonds de commerce”), nel diritto finlandese (v. cap.
1, sezione 2, n. 1, della Legge n. 1488/2001, secondo cui i servizi ai soci possono essere erogati o dalla cooperativa o da sue società sussidiarie), in quello olandese (v. art. 2:53, comma 1, del Codice Civile olandese e G.J.H VAN DER SANGEN, Netherlands, cit., p. 546 f.), e in
quello norvegese (v. art. 1, comma 3, della Legge 29 giugno 2007, n. 81: “A cooperative society also exists if the interests of the members […] are promoted through the members’ trade with
an enterprise, which the cooperative society owns alone or together with other cooperative societies,
including a secondary cooperative […]. The same applies if the interests of the members are promoted through the members’ trade with an enterprise, which the secondary cooperative owns alone …”;
nonché T. FJØRTOFT, O. GJEMS-ONSTAD, Norway and Scandinavian Countries, in D. CRACOGNA,
A. FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 567).
106
La cooperativa con un solo socio è adesso esplicitamente prevista nella nuova legge finlandese sulle cooperative n. 421/2013 (cfr. H. HENRŸ, Finland, cit., p. 390), mentre nel
126
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
xi) L’analisi comparatistica ha dimostrato che determinate leggi cooperative contemplano altre misure che possono essere veramente importanti al fine di incrementare il numero totale di cooperative in un paese
e di agevolarne l’integrazione. Tra queste, la disposizione che permetta ad una cooperativa di investire o depositare i propri fondi in una banca cooperativa (ma naturalmente, nello stesso senso, una norma di questo tipo potrebbe fare riferimento ad operazioni commerciali di qualunque natura tra cooperative di qualsiasi genere e tipo)107. Non facendo sorgere un’obbligazione ma contemplando una semplice facoltà, una norma come questa chiaramente non può assicurare l’inter-cooperazione, ma,
questo sì, può sicuramente operare alla stregua di criterio direttivo idoneo a stimolare la cooperazione tra cooperative108. Essa sarebbe di sicuro più efficace qualora fosse accompagnata da incentivi pubblici, quale
ad esempio uno specifico trattamento tributario delle operazioni commerciali tra cooperative109.
xii) Vi sono infine ordinamenti giuridici in cui è promossa anche l’in-
diritto olandese non costituisce causa di liquidazione obbligatoria la circostanza che la cooperativa sia rimasta con un solo socio (cfr. G.J.H VAN DER SANGEN, Netherlands, cit., p. 549).
Diversamente, nel diritto danese, sebbene una sola persona possa costituire una cooperativa, la cooperativa deve avere almeno due soci al momento della sua formazione (cfr. T.
FJØRTOFT, O. GJEMS-ONSTAD, Norway and Scandinavian Countries, cit., p. 570).
107
V. in India la sezione 64, comma 1, (a), del “Multi-State Cooperative Societies Act”
del 2002. Ciò sollecita una riflessione più generale sull’importanza che il diritto cooperativo preveda (come ad esempio fanno gli articoli 98 e 99 della Legge colombiana n. 79/1988)
entità finanziarie specifiche per le cooperative, così da porre rimedio ai tipici problemi di
finanza (ordinaria) che le cooperative normalmente incontrano in ragione delle loro caratteristiche strutturali ed identitarie.
108
Come correttamente sottolineato da G. VEERAKUMARAN, India, in D. CRACOGNA, A.
FICI, H. HENRŸ (eds.), International Handbook of Cooperative Law, cit., p. 462.
109
Ancorché abbia una natura differente, è importante qui menzionare la disposizione della Legge statale spagnola n. 27/1999, in cui, non solo si contempla l’attività tra
cooperative, ma la si qualifica come “actividad cooperativizada”, ponendola in tal modo sullo stesso livello dell’attività tra una cooperativa e i suoi soci, ciò che certamente ne favorisce lo svolgimento (se si considerano, ad esempio, gli ostacoli che altrimenti una cooperativa potrebbe incontrare a causa dei limiti all’attività con terzi non soci): “Las cooperativas podrán suscribir con otras acuerdos intercooperativos en orden al cumplimiento de sus objetos
sociales. En virtud de los mismos, la cooperativa y sus socios podrán realizar operaciones de suministro, entregas de productos o servicios en la otra cooperativa firmante del acuerdo, teniendo tales hechos la misma consideración que las operaciones cooperativizadas con los propios socios. Los
resultados de estas operaciones se imputarán en su totalidad al fondo de reserva obligatorio de la cooperativa” (art. 79, comma 3). V. anche art. 7 della Legge colombiana n. 79/1988: “Serán actos cooperativos los realizados entre sí por las cooperativas, o entre éstas y sus propios asociados,
en desarrollo de su objeto social”.
127
Antonio Fici
tegrazione tra società cooperative ed altri enti a struttura non capitalistica e senza fini di lucro, ciò che appare molto significativo sotto il profilo del complessivo rafforzamento dell’economia sociale, in quanto opposta all’economica capitalistica a scopo di lucro, e della coesione tra le
entità che vi appartengono110.
6. Conclusioni
Non sussiste in principio alcuna ragione per cui le organizzazioni
imprenditoriali debbano aggregarsi sulla sola base della forma giuridica comune. Le cooperative rappresentano l’eccezione: la forma giuridica cooperativa unisce le imprese che la assumono di per sé e a prescindere dalla natura dell’attività svolta o dal settore di mercato in cui operano. Questo avviene perché la forma giuridica cooperativa, differentemente da quanto accade per altre forme giuridiche di esercizio d’impresa, reca con sé particolari valori e principi di organizzazione e condotta. Questi valori e principi permeano le relazioni tra la cooperativa e i suoi
soci e tra i soci stessi, ed influenzano la condotta della cooperativa nei
confronti dei suoi stakeholder esterni, di altre cooperative ed altri soci
di cooperative, e della comunità in generale.
Come la storia e l’analisi comparatistica dimostrano, la “cooperazione tra cooperative” è uno degli elementi che danno forma ad un’identità così particolare da essere capace di unire imprese autonome nel perseguimento di obiettivi comuni.
Sebbene la integrazione tra società cooperative possa aver luogo anche in assenza di una normativa specifica, la legge può sicuramente favorire la costruzione di un movimento cooperativo più attivo e strutturato nel quale le cooperative possano prosperare individualmente e come
sistema.
Questo articolo ha esaminato, mediante un’analisi comparatistica
basata su una disciplina, come quella italiana, dettagliata ed idonea a promuovere la cooperazione, vari approcci legislativi alla materia dell’intercooperazione, nonché strumenti e misure per affrontare le varie questioni che essa solleva.
Ancorché principale obiettivo di questo articolo era porre le basi per
uno studio più approfondito ed un approccio maggiormente critico al-
110
Un esempio paradigmatico è rappresentato dalle “unioni di economia sociale” previste e regolate dagli articoli 19 bis e ss. della Legge francese n. 47-1775.
128
La cooperazione tra società cooperative nel diritto italiano e comparato
l’argomento, una possibile conclusione che si può qui offrire è che le leggi cooperative che promuovono la inter-cooperazione incentivando (e non
già obbligando) le cooperative ad integrarsi; che obbligano le cooperative a contribuire allo sviluppo del movimento cooperativo, assicurando altresì che questi contributi obbligatori siano efficientemente utilizzati nell’interesse del movimento cooperativo; ed infine, che contemplano la cooperativa (secondaria) come struttura tipica di integrazione (per
lo meno allorché l’integrazione abbia finalità economiche principali), sono
le leggi cooperative che applicano il sesto principio di identità cooperativa dell’ACI nel modo più efficace e soprattutto compatibile con gli altri tratti di identità cooperativa, in particolar modo l’autonomia della cooperativa e il suo controllo democratico da parte dei soci.
129
MARIA ROSARIA MAURO
L’Inspection Panel della Banca mondiale:
da meccanismo di accountability
a strumento di tutela dei diritti umani?
SOMMARIO: 1. Il ruolo delle organizzazioni economiche internazionali nella tutela dei
diritti umani. - 2. La neutralità politica della Banca mondiale e l’evoluzione del
suo mandato originario. - 3. Verso il riconoscimento di un’accountability della Banca: l’adozione delle Operational Policies e l’istituzione dell’Inspection Panel. - 4. Le
condizioni di ammissibilità e la procedura davanti all’Inspection Panel. - 5. La funzione dell’Inspection Panel e il suo contributo alla salvaguardia dei diritti umani.
- 6. Il pilot approach dell’Inspection Panel: un nuovo meccanismo di early solutions.
- 7. Conclusioni.
1. Il ruolo delle organizzazioni economiche internazionali nella tutela
dei diritti umani
Il rapporto tra istanze del mercato e tutela dei diritti umani e, in genere, valori di natura non economica è divenuto un tema centrale nel dibattito sulla globalizzazione economica, poiché si è avvertita sempre più
l’esigenza di ricercare una globalizzazione “sostenibile”, volta cioè non
solo alla crescita economica ma anche al perseguimento di altri obiettivi, quali, ad esempio, la tutela dei diritti dell’uomo, la salvaguardia dell’ambiente, la preservazione delle identità culturali.
Ciò si collega anche a una differente nozione di sviluppo, che si è
affermata nel tempo, derivante dal graduale riconoscimento, sul piano
internazionale, dello stretto collegamento tra diritti umani e sviluppo economico, venendo subordinato quest’ultimo alla concreta attuazione di
tali diritti, principalmente di quelli economici, sociali e culturali1. Tale
“rights-based approach to development”, che ha favorito l’affermarsi del diritto allo sviluppo, risulta in particolare dalla Dichiarazione sul diritto
allo sviluppo adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel
1
Si veda al riguardo I.F.I. SHIHATA, Human Rights, Development, and International Financial Institutions, in “American University International Law Review”, 8 (1992), pp. 2737; D. MCGOLDRICK, Sustainable Development and Human Rights: an Integrated Conception, in
“International and Comparative Law Quarterly”, 45 (1996), pp. 796-818.
131
Maria Rosaria Mauro
19862, nella quale sono contenuti due importanti principi. In primo luogo, si ha la subordinazione dei processi di sviluppo all’effettivo godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali3, dai quali lo sviluppo non
può prescindere. Inoltre, si sottolinea l’importanza della cooperazione internazionale per promuovere lo sviluppo su scala globale4. Questo secondo aspetto evidenzia il possibile ruolo delle organizzazioni internazionali, quale strumento di cooperazione intergovernativa, nella promozione dello sviluppo e dei diritti umani in genere.
Attualmente, il contemperamento tra esigenze e interessi apparentemente contrastanti costituisce uno degli aspetti più delicati della global economic governance, poiché le organizzazioni internazionali con un
mandato di natura economica possono avere un ruolo importante nella promozione e tutela di valori di natura non economica.
Invero, il nuovo concetto di sviluppo, che si è affermato sul piano
internazionale, ha indotto diverse organizzazioni internazionali, che operano in tale campo, a valutare le implicazioni operative della relazione
tra crescita economica e valori di altra natura, comportando, spesso,
un’espansione delle loro funzioni e responsabilità5. In tale contesto, le organizzazioni economiche internazionali hanno via via dedicato, nell’at-
2
Cfr. la risoluzione 41/128 dell’Assemblea generale, Declaration on the Right to Development, U.N. Doc. A/Res/41/128, del 4 dicembre 1986, consultabile nel sito www.un.org.
3
Secondo l’art. 1 della Dichiarazione: «1.The right to development is an inalienable
human right by virtue of which every human person and all peoples are entitled to participate in, contribute to, and enjoy economic, social, cultural and political development,
in which all human rights and fundamental freedoms can be fully realized. 2. The human
right to development also implies the full realization of the right of peoples to self-determination, which includes, subject to the relevant provisions of both International
Covenants on Human Rights, the exercise of their inalienable right to full sovereignty over
all their natural wealth and resources».
4
Secondo l’art. 4 della Dichiarazione: «1. States have the duty to take steps, individually and collectively, to formulate international development policies with a view to facilitating the full realization of the right to development. 2. Sustained action is required to
promote more rapid development of developing countries. As a complement to the efforts
of developing countries, effective international co-operation is essential in providing these
countries with appropriate means and facilities to foster their comprehensive development».
5
Cfr. Report of the Intergovernmental Group of Experts on the Right to Development on Its
Second Session (Ginevra, 29 Settembre - 10 Ottobre 1997), UN Doc. E/CN.4/1998/29, consultabile nel sito daccess-dds-ny.un.org, paragrafi 40-41. Si veda in argomento I.F.I. SHIHATA, Human Rights, cit., p. 28, secondo cui «The pressing issue should be further distinguished from
the policy question of whether the charters of international financial institutions should be amended to enable them to serve all the purposes of development. In other words, the question which
must be asked is whether these institutions should be required to move beyond addressing
freedom from poverty, into the realm of addressing all types of freedoms».
132
L’Inspection Panel della Banca mondiale
tuazione dei propri obiettivi statutari, maggiore attenzione all’individuo
e dato spazio alla tutela di valori di natura non economica.
Un esempio importante di quanto osservato è raffigurato dalla Banca mondiale, organizzazione che ha subito un’evoluzione del proprio mandato statutario sia grazie alla prassi, sia attraverso un’importante cambiamento istituzionale. Infatti, nel 1993, è stato istituito l’Inspection Panel, che
rappresenta il primo esempio di organo costituito da un’organizzazione internazionale di natura economica allo scopo di consentire a soggetti privati di ricorrere contro di essa, permettendone un controllo dell’operato.
Tale organo, che è stato istituito essenzialmente come meccanismo
di accountability dell’Organizzazione, ha consentito gradualmente un integrazione della tutela dei diritti umani nell’attività della Banca.
2. La neutralità politica della Banca mondiale e l’evoluzione del suo mandato originario
L’International Bank for Reconstruction and Development (IBRD) è stata la prima organizzazione di quell’insieme di istituzioni finanziarie – di
cui fa parte anche l’International Development Association (IDA) - conosciuto generalmente come Banca mondiale, costituita nel 1944 in occasione
della Conferenza di Bretton Woods.
Secondo gli Articles of Agreement di tale Organizzazione i suoi scopi sono essenzialmente: contribuire alla ricostruzione delle economie colpite dalla guerra e allo sviluppo dei territori dei Paesi membri, favorendo l’investimento di capitali per scopi produttivi; promuovere l’investimento privato straniero attraverso la fornitura di garanzie o mediante la
partecipazione a prestiti e altri investimenti effettuati da investitori privati; promuovere una crescita equilibrata e a lungo termine del commercio internazionale e il mantenimento di un equilibrio nelle bilance dei pagamenti, incoraggiando gli investimenti internazionali per lo sviluppo
delle risorse produttive nei Paesi membri; organizzare i prestiti effettuati o le garanzie concesse in relazione a prestiti internazionali attraverso
altri canali in maniera tale che i progetti più utili e urgenti, per grandi o
piccoli che siano, vengano trattati per primi; condurre le proprie operazioni con il dovuto riguardo agli effetti degli investimenti internazionali sulle condizioni degli affari nei territori dei Paesi membri e, nell’immediato dopoguerra, favorire una transizione regolare da un’economia
di guerra a un’economia di pace6. Tale articolo, pertanto, vincola l’Orga6
Cfr. l’art. I. Lo Statuto dell’Organizzazione è stato adottato in occasione della Uni-
133
Maria Rosaria Mauro
nizzazione all’attuazione di obiettivi che hanno un evidente carattere economico-finanziario7.
Originariamente, invero, l’IBRD venne istituita allo scopo di favorire la ricostruzione nei Paesi coinvolti nel secondo conflitto mondiale e
lo sviluppo negli Stati membri; a tal fine le fu assegnato il compito di concedere finanziamenti a lungo termine. Nel corso degli anni, però, con il
mutare del contesto economico, politico e sociale internazionale, le finalità della Banca si sono gradualmente trasformate ed essa è divenuta la
principale organizzazione internazionale per il sostegno allo sviluppo e
la riduzione della povertà. A tale scopo, dal 1960 l’IBRD è stata affiancata dall’IDA, istituita per promuovere lo sviluppo economico, aumentare la produttività ed elevare lo standard di vita nelle aree meno avanzate del mondo8.
Gli statuti di entrambe le organizzazioni prevedono la cosiddetta “neutralità politica”, che mira ad assicurare un mandato concentrato essenzialmente sullo sviluppo economico. Ciò significa, in primo luogo, che tali istituzioni e i loro dirigenti non interverranno negli affari politici degli Stati
membri, né si lasceranno influenzare nelle loro decisioni dall’orientamento politico di tali Stati. Inoltre, le loro decisioni si fonderanno esclusivamente su ragioni economiche, che saranno valutate in maniera imparziale per
conseguire gli scopi della Banca. Infine, l’IBRD e l’IDA dovranno fare in
modo che i risultati dei prestiti concessi siano collegati esclusivamente agli
obiettivi per i quali essi vengono accordati, tenuto conto debitamente di
considerazioni economiche e di rendimento, senza lasciare intervenire influenze o valutazioni politiche o extra-economiche9.
ted Nations Monetary and Financial Conference, che ha avuto luogo a Bretton Woods dall’1
al 22 luglio 1944, ed è entrato in vigore il 27 dicembre 1945.
7
Inoltre, a chiusura dell’articolo contenente gli obiettivi dell’Organizzazione, si specifica che essa deve essere guidata dagli scopi indicati in tutte le sue decisioni.
8
Cfr. l’art. I degli Articles of Agreement dell’IDA. Oltre all’IBRD e all’IDA fanno parte del “Gruppo della Banca mondiale” anche l’International Finance Corporation (IFC), l’International Centre for Settlment of Investment Disputes (ICSID) e la Multilateral Investment Guarantee Agency (MIGA), organizzazioni associate, ma giuridicamente e finanziariamente separate. L’IFC, istituita nel 1956, ha il compito di finanziare investimenti per lo sviluppo del
settore privato nei Paesi in via di sviluppo; l’ICSID, creata nel 1965, si occupa della soluzione delle controversie tra investitori privati stranieri e Stati, attraverso l’istituzione di tribunali arbitrali o commissioni di conciliazione; la MIGA, infine, istituita nel 1985, ha lo scopo di promuovere gli investimenti stranieri nei Paesi in via di sviluppo, fornendo loro una
copertura assicurativa contro rischi non commerciali.
9
Cfr. l’art. IV, sez. 10, degli Articles of Agreement dell’IBRD, secondo cui «The Bank
and its officers shall not interfere in the political affairs of any member; nor shall they be
influenced in their decisions by the political character of the member or members concer-
134
L’Inspection Panel della Banca mondiale
Si evince, dunque, che l’intenzione originaria era quella di preservare il carattere finanziario e tecnico della Banca mondiale. In particolare, a causa del divieto esplicito negli Articles di ogni considerazione di
tipo politico, la Banca ha, tradizionalmente, ispirato la propria azione a
giudizi di natura esclusivamente economica, senza dare, per molto tempo, alcuna attenzione alle questioni relative ai diritti umani; infatti, il legal department di tale Organizzazione ha ritenuto, inizialmente, le attività relative alla tutela dei diritti umani questioni di natura politica e, quindi, al di fuori del mandato della Banca10. Tuttavia, la linea di demarcazione tra considerazioni economiche e valutazioni politiche si è rivelata, nella prassi della Banca, alquanto incerta e il principio di neutralità
politica si è dimostrato di difficile interpretazione e attuazione, provocando numerose critiche al suo operato.
Nel contempo, come si è osservato, si è affermata sempre più l’esigenza di integrare la tutela dei diritti umani, anche quelli civili e politici, nel concetto di sviluppo economico e, perciò, nell’operato della Banca. Tale tendenza si è fondata, principalmente, su tre argomentazioni: in
primo luogo, i diritti umani sono indivisibili e interdipendenti; inoltre,
gli statuti delle organizzazioni vanno interpretati tenendo conto dell’evoluzione nel tempo dei valori e dei principi fondamentali che li ispirano;
infine, le norme internazionali in materia di diritti umani dovrebbero prevalere sugli statuti delle organizzazioni, che vanno, pertanto, interpretati tenendo conto di tale preminenza11.
Perciò, a seguito di questi cambiamenti, la Banca ha visto evolve-
ned. Only economic considerations shall be relevant to their decisions, and these considerations shall be weighed impartially in order to achieve the purposes stated in Article I».
Cfr. anche l’art III, sez. 5, lett. b), secondo il quale la Banca assicurerà che i fondi prestati
saranno usati solo per gli scopi per i quali sono stati erogati «with due attention to considerations of economy and efficiency and without regard to political or other non-economic influences or considerations». Si veda, infine, l’art. V, sez. 5, lett. c), secondo il quale
«The President, officers and staff of the Bank, in the discharge of their offices, owe their duty
entirely to the Bank and to no other authority. Each member of the Bank shall respect the
international character of this duty and shall refrain from all attempts to influence any of
them in the discharge of their duties». In senso analogo si esprimono l’art. V, sez. 1, lett.
g) e l’art. V, sez. 6, degli Articles of Agreement dell’IDA.
10
Si veda in argomento S. MCINERNEY-LANKFORD, Human Rights and Development: a
Comment on Challenges and Opportunities from a Legal Perspective, in “Journal of Human Rights
Practice”, 1 (2009), p. 55; R.T. COULTER, L.A. CRIPPA, E. WANN, Principles of International Law
for Multilateral Development Banks. The Obligation to Respect Human Rights, Indian Law Resource Center, gennaio 2009, consultabile nel sito www.indianlaw.org, p. 2.
11
Si veda al riguardo I.F.I. SHIHATA, La Banque mondiale et les droits de l’homme, in “Revue belge de droit international”, 1 (1999), pp. 91-92.
135
Maria Rosaria Mauro
re gradualmente il suo ruolo da mera agenzia di sviluppo economico a
organizzazione internazionale con un più ampio mandato. Ciò è avvenuto, essenzialmente, attraverso la prassi e senza specifiche modifiche
statutarie12, anche se le disposizioni degli Articles of Agreement sono state oggetto nel tempo di diverse interpretazioni, formali e informali, esplicite e implicite, che hanno consentito un’estensione delle attività dell’Organizzazione13.
Il nuovo orientamento seguito dalla Banca ha ispirato, nel 1999, il
Comprehensive Development Framework, che propone un approccio olistico dello sviluppo, nell’ambito del quale vengono coniugati elementi sociali, strutturali, umani, di governance, ambientali, economici e finanziari14. In tal modo, è stata avviata una strategia di sviluppo integrata, venendo ritenuti necessari, ai fini di una crescita economica sostenibile, adeguate riforme istituzionali, la tutela dei diritti umani, la good goverance,
la lotta alla corruzione, una maggiore alfabetizzazione, un miglioramento del sistema sanitario e una maggiore attenzione per l’ambiente15.
La Banca, dunque, ha sviluppato progressivamente, de facto, il proprio
mandato e campo d’azione, includendovi nuove aree come l’ambiente16, lo
sviluppo sostenibile17, la governance18, la democrazia19, lo sviluppo cultura12
Peraltro, lo Statuto dell’Organizzazione è stato emendato tre volte: il 17 dicembre
1965, il 16 febbraio 1989 e il 27 giugno 2012.
13
Cfr. S. KILLINGER, The World Bank’s Non Political Mandate, Berlin, Munich, Koln, Heymann, 2003, p. 97.
14
Cfr. J.D. WOLFENSOHN, A Proposal for a Comprehensive Development Framework, del
21 gennaio 1999, consultabile nel sito web.worldbank.org, p. 10, par. 2, in cui si riconosce
che «Without the protection of human and property rights, and a comprehensive framework of laws, no equitable development is possible».
15
Si veda al riguardo D. GILLIES, Humar Rights, Democracy and Good Governance:
Stretching the World Bank’s Policy Frontiers, in The World Bank: Lending on a Global Scale,
a cura di J.M. GRIESGRABER, B.G. GUNTER, London, Pluto Press, 1996, pp. 101-141; L. BOISSON DE CHAZOURNES, Issues of Social Development: Integrating Human Rights in the Activities of the World Bank, in Commerce mondial et protection des droits de l’homme: les droits de
l’homme à l’épreuve de la globalisation des échanges économiques, Bruxelles, Bruylant, 2001,
pp. 47-70.
16
Si veda al riguardo M.A. BEKHECHI, Some Observations Regarding Environmental Covenants and Conditionalities in World Bank Lending Activities, in “Max Planck Yearbook of United Nations Law”, 3 (1999), pp. 287-314.
17
Si veda C.R. TAYLOR, The Right of Participation in Development Projects, in Sustainable Development and Good Governance, a cura di K. GINTHER, E. DENTERS, P.J.I.M. DE WAART,
Dordrecht, Boston, London, Martinus Nijhoff, 1995, pp. 205-229.
18
Si veda N.H. MOLLER, The World Bank: Human Rights, Democracy and Governance,
in “Netherlands Quarterly of Human Rights”, 15 (1997), pp. 21-45.
19
Cfr. I.F.I. SHIHATA, Democracy and Development, in “International and Comparative Law Quarterly”, 46 (1997), pp. 635-643.
136
L’Inspection Panel della Banca mondiale
le, la ricostruzione post-conflitto, i programmi di lotta alla corruzione e, ovviamente, i diritti umani20, temi che sono divenuti parte integrante della strategia di tale Organizzazione contro la povertà e il sottosviluppo.
3. Verso il riconoscimento di un’accountability della Banca: l’adozione
delle Operational Policies e l’istituzione dell’Inspection Panel
All’inizio degli anni ’90 vari fattori, interni ed esterni, hanno indotto la Banca ad avviare una profonda riflessione sulle proprie operazioni di prestito, soprattutto a seguito delle richieste del riconoscimento di
un’accountability di tale Organizzazione per il proprio operato21. In risposta a queste esigenze la Banca, da una parte, ha adottato una serie di politiche volte a tutelare gli interessi sociali e ambientali, note come Operational Policies (OPs), dall’altra, ha deciso di istituire un apposito organo di controllo incaricato di valutare il rispetto di tali politiche.
Le prime proposte operative e note applicative vennero adottate dalla Banca già negli anni ’70, allo scopo di individuare, prevenire e attenuare un eventuale danno ambientale o sociale dei suoi progetti. Solo negli
anni ’80, però, la Banca ha deciso di modificare il proprio manuale operativo, per reagire alle critiche di mancanza di trasparenza dei criteri di selezione dei progetti da finanziare e, soprattutto, di assenza di attenzione alle conseguenze derivanti dall’attuazione di alcuni progetti finanziati sulle popolazioni locali e sull’ambiente.
A tal fine, l’Organizzazione ha deciso di adottare norme di autoregolamentazione cui avrebbero dovuto attenersi gli organi nell’esercizio
delle proprie funzioni. Inizialmente, tali regole erano contenute principalmente nelle Operational Manual Statements (OMSs)22 e nelle Operational Policy Notes (OPNs). Nel 1987, poi, al fine di organizzare in modo sistematico il manuale operativo della Banca, furono introdotte le cosiddette Operational Directives (ODs), contenenti contemporaneamente aspetti re20
Si veda in argomento I.F.I. SHIHATA, The Dynamic Evolution of International Organizations: the Case of the World Bank, in “Journal of the History of International Law”, 2 (2000),
pp. 217-249.
21
Si veda al riguardo N. WAHI, Human Rights Accountability of the IMF and the World
Bank: a Critique of Existing Mechanisms and Articulation of a Theory of Horizontal Accountability, in “U.C. Davis Journal of International Law and Policy”, 12 (2006), pp. 333-334.
22
Nel 1984, ad esempio, la Banca pubblicò una Operational Manual Statement on Environmental Aspects, in cui si delineavano le policies e le procedures dell’Organizzazione relative ai progetti, all’assistenza tecnica e ad altri aspetti della sua attività che potevano avere implicazioni ambientali, includendo nel concetto di ambiente condizioni sia naturali sia
sociali e il benessere delle generazioni presenti e future.
137
Maria Rosaria Mauro
lativi a politiche, procedure e tecniche operative, che sostituirono le OMSs.
Tuttavia, in seguito, si affermò la necessità di distinguere tra i vari aspetti,
chiarendo meglio le prassi e le responsabilità della Banca: così, nel 1992 le
ODs vennero distinte in OPs, che determinano i parametri per la condotta delle operazioni della Banca, e Bank Procedures (BPs), che spiegano le modalità di attuazione delle politiche operative, entrambi vincolanti per lo staff
dell’Organizzazione23. Nel 1997, infine, la Banca ha raggruppato le 10 OPs
in specifiche Safeguard Policies (SPs), sei ambientali, due sociali e due giuridiche24, linee guida volte ad assicurare che le operazioni dell’Organizzazione non danneggino le popolazioni e l’ambiente interessati dai suoi interventi. Nell’ottobre 2012 la Banca mondiale ha avviato una revisione e un
aggiornamento delle proprie SPs sociali e ambientali, che interessano 8 politiche e dovrebbero avere una durata di due anni25.
Gli strumenti citati rappresentano direttive interne vincolanti imposte dal Management della Banca al proprio staff; tali strumenti sono volti a
garantire la sostenibilità sul piano economico, finanziario, sociale e ambientale dell’operato dell’Organizzazione e riguardano numerosi aspetti relativi all’attuazione di un progetto, quali la protezione dell’ambiente e la tutela delle popolazioni locali che possono subire un pregiudizio a causa della realizzazione di tale progetto26.
23
Tra gli strumenti adottati nel contesto della Banca vi sono anche le good practices
(GPs), che però non hanno natura vincolante.
24
Si tratta, in particolare delle seguenti OPs: OP 4.01 (Environmental Assessment); OP
4.04 (Natural Habitats); OP 4.09 (Pest Management); OP 4.10 (Indigenous Peoples); OP 4.11 (Physical Cultural Resources); OP 4.12 (Involuntary Resettlement); OP 4.36 (Forests); OP 4.37 (Safety
of Dams); OP 7.50 (Projects on International Waterways); OP 7.60 (Projects in Disputed Territories).
La Banca ha adottato anche procedure amministrative per favorire il rispetto delle SPs durante la preparazione e attuazione di un progetto. Vi sono, inoltre, le Fiduciary Policies, che
regolano l’uso dei fondi della Banca e le Disclosure of Information Policies, elaborate originariamente nel 1993 allo scopo di garantire la trasparenza delle attività della Banca.
25
Si tratta, in particolare, delle seguenti politiche: OP 4.01 (Environmental Assessment),
OP 4.04 (Natural Habitats), OP 4.09 (Pest Management), OP 4.10 (Indigenous Peoples), OP 4.11
(Physical Cultural Resources), OP 4.12 (Involuntary Resettlement), OP 4.36 (Forests), OP 4.37
(Safety of Dams). Inoltre, è oggetto di revisione anche l’OP 4.00 (Policy on Piloting the Use of
Borrower Systems for Environmental and Social Safeguards - ‘Use of Country Systems’). Si veda
al riguardo World Bank, Review and Update of the World Bank Safeguard Policies: Objectives and
Scope, consultabile nel sito web.worldbank.org.
26
Si vedano in argomento L. BOISSON DE CHAZOURNES, Policy Guidance and Compliance: the World Bank Operational Standards, in Commitment and Compliance: the Role of Non-Binding Norms in the International Legal System, a cura di D. SHELTON, Oxford, New York, Oxford University Press, 2000, pp. 281-303; D.D. BRADLOW, Operational Policies and Procedures
and an Ombudsman, in Accountability of the IMF, a cura di B. CARIN, A. WOOD, Aldershot, Ashgate, 2005, pp. 88-107.
138
L’Inspection Panel della Banca mondiale
In caso di mancato rispetto delle suddette policies, si può ricorrere
all’Inspection Panel, che è stato istituito, quindi, quale meccanismo di accountability della Banca27.
Un primo strumento di accertamento delle responsabilità della Banca per il suo operato fu la cosiddetta Commissione Morse, nominata nel
1991. Si trattava di una commissione di inchiesta incaricata di indagare
su un progetto molto contestato, il Sardar Sarovar Dam and Canal Projects
on the Narmanda River, in India, la cui attuazione comportava il trasferimento forzato di 200.000 persone. La Commissione pubblicò il suo rapporto nel giugno 1992, dichiarando che il progetto in questione non rispettava le policies della Banca e raccomandandone l’interruzione.
Nel 1993, poi, si giunse all’istituzione dell’Inspection Panel28, attraverso due risoluzioni identiche adottate dal Board of Executive Directors
27
Tali politiche sono oggetto di una valutazione interna a opera dell’Independent Evaluation Group (IEG), operativo dal 1973. Nel 2010 l’IEG ha effettuato la prima valutazione completa di tutte le SPs e dei Performance Standards del Gruppo della Banca mondiale. Da tale valutazione è risultato che le SPs hanno consentito di evitare o mitigare eventuali effetti sfavorevoli, in particolare nei progetti ad alto rischio. Cfr. IEG World Bank, IFC, MIGA, Safeguards
and Sustainability in a Changing World: an Independent Evaluation of World Bank Group Experience, Washinngton, DC, World Bank, 2010, consultabile nel sito siteresources.worldbank.org.
28
La bibliografia sul tema è ampia. Si vedano, in particolare, D.D. BRADLOW, World Bank’s Independent Inspection Panel, in “Indian Journal of International Law”, 33 (1993) pp. 59-71;
R.E. BISSELL, Recent Practice of the Inspection Panel of the World Bank, in “American Journal of
International Law”, 91 (1997), pp. 741-744; L. UDALL, The World Bank Inspection Panel: a Three
Year Review, Washington, DC, Bank Information Center, 1997; The World Bank Inspection Panel: the First Four Years (1994-1998), a cura di A. UMAÑA, Washington, DC, World Bank, 1998;
I.F.I. SHIHATA, The World Bank Inspection Panel: in Practice, 2° ed., New York, Oxford University Press, 2000; R.E. BISSELL, Institutional and Procedural Aspects of the Inspection Panel, in The Inspection Panel of the World Bank: a Different Complaints Procedure, a cura di G. ALFREDSSON, R.
RING, The Hague, Kluwer Law International, 2001, pp. 107-126; L. BOISSON DE CHAZOURNES,
Compliance with International Standards - The Contribution of the World Bank Inspection Panel, ivi
pp. 67-86; J.TH. MÖLLER, The Independent Inspection Panel of the World Bank – Comparison with
Other International Complaints Procedures, ivi, pp. 219-248; I.F.I. SHIHATA, The World Bank Inspection Panel – Its Historical, Legal and Operational Aspects, ivi, pp. 7-46; S. SCHLEMMER-SCHULTE, The
World Bank Inspection Panel: a Model for Other International Organizations?, in Proliferation of International Organizations, a cura di N.M. BLOKKER, H.G. SCHERMERS, The Hague, Kluwer Law
International, 2001, pp. 483-548; D.L. CLARK, The World Bank and Human Rights: the Need for Greater Accountability, in “Harvard Human Rights Journal”, 15 (2002), pp. 205-226; E. BAIMU, A. PANOU, Responsibility of International Organizations and the World Bank Inspection Panel: Parallel Tracks
Unlikely to Converge?, in “The World Bank Legal Review: Law and Justice for Development”,
3 (2012), pp. 147-172; A. DEL VECCHIO, International Courts and Tribunals between Globalisation
and Localism, The Hague, Eleven International Publishing, 2013, pp. 53-54; E. HEY, The World
Bank Inspection Panel and the Development of International Law, in International Courts and Development of International Law: Essays in Honour of Tullio Treves, a cura di N. BOSCHIERO, T. SCOVAZZI, C. PITEA, C. RAGNI, The Hague, TMC Asser Press, 2013, pp. 727-738.
139
Maria Rosaria Mauro
(Comitato esecutivo o Consiglio di amministrazione) rispettivamente dell’IBRD e dell’IDA29. Questo meccanismo è stato poi oggetto di una revisione da parte del Board nel 1996 e nel 199930.
Tale organo ha il compito, dunque, di verificare se l’attività della Banca, nella fase di elaborazione, valutazione e realizzazione di un progetto, sia stata conforme alle sue policies e procedures31. Al contrario, il Panel
non ha un mandato specifico in materia di tutela dei diritti umani, potendo e dovendo solo verificare se eventuali violazioni dei diritti umani siano state determinate dal mancato rispetto da parte della Banca di
tali policies. Tuttavia, esso ha contributo, con la sua azione, a una maggiore tutela dei diritti umani nell’operato della Banca.
Si tratta di un organo indipendente, composto da tre membri nominati, per la loro competenza e professionalità, dai Direttori esecutivi su proposta del Presidente della Banca32, che restano in carica per cinque anni con
un mandato non rinnovabile33. Gli ispettori devono provenire da Stati differenti, che sono membri della Banca. Essi sono funzionari dell’Organizzazione34; peraltro, a garanzia dell’indipendenza del Panel, non devono avere lavorato per la Banca nei due anni prima della nomina e non potranno
lavorarvi per i due anni successivi alla cessazione del mandato.
4. Le condizioni di ammissibilità e la procedura davanti all’Inspection
Panel
L’aspetto più significativo e innovativo dell’Inspection Panel si col29
Anche le banche regionali di sviluppo, ovvero l’Inter-American Development Bank (IDB),
l’Asian Development Bank (ADB), la European Bank for Reconstruction and Development (EBRD)
e l’African Development Bank (AfDB), hanno istituito meccanismi simili all’Inspection Panel.
30
Cfr. Review of the Resolution Establishing the Inspection Panel 1996: Clarification of Certain Aspects, 17 ottobre 1996, consultabile nel sito web.worldbank.org; Review of the Resolution and 1999 Clarification of the Board’s Second Review of the Inspection Panel, 20 aprile 1999,
consultabile nel stesso sito.
31
Secondo il par. 12 delle risoluzioni n. 93-10 dell’IBRD e n. 93-6 dell’IDA del 22 settembre 1993, istitutive del Panel, consultabile nel sito web.worldbank.org: «For purposes
of this Resolution, “operational policies and procedures” consist of the Bank’s Operational Policies, Bank Procedures and Operational Directives, and similar documents issued
before these series were started, and does not include Guidelines and Best Practices and
similar documents or statements». Si veda in argomento I.F.I. SHIHATA, The World Bank Inspection Panel - Its Historical, Legal and Operational Aspects, in The Inspection Panel of the World
Bank, cit., p. 40 ss.
32
Cfr. il par. 2 delle risoluzioni n. 93-10 dell’IBRD e n. 93-6 dell’IDA.
33
Cfr. i paragrafi 2 e 3 delle risoluzioni n. 93-10 dell’IBRD e n. 93-6 dell’IDA.
34
Cfr. il par. 10 delle risoluzioni n. 93-10 dell’IBRD e n. 93-6 dell’IDA.
140
L’Inspection Panel della Banca mondiale
lega alle condizioni di ammissibilità delle richieste di ispezione, che rendono evidente l’originalità, nell’ambito del diritto internazionale, dell’organo considerato.
Vi sono quattro condizioni cui è subordinata la giurisdizione del Panel, relative allo statuto giuridico del richiedente, all’oggetto della richiesta di ispezione, alla fase del project cycle in relazione a cui si inserisce la
richiesta, all’ammissibilità della richiesta di ispezione in assenza di altri
motivi ostanti in conformità con le norme della risoluzione istitutiva del
Panel35. Tra questi elementi, quello che maggiormente indica la novità del
Panel è, indubbiamente, il requisito riguardante la sua competenza ratione personae.
In particolare, possono presentare domanda di apertura di un’inchiesta il Comitato esecutivo dell’IBRD o dell’IDA o un Direttore esecutivo con l’approvazione del rispettivo Comitato esecutivo di appartenenza. Ma la peculiarità del meccanismo è data dal fatto che sono legittimate ad agire direttamene le persone (almeno due), residenti nell’area in cui
deve essere realizzato il progetto finanziato dalla Banca36. Il fatto che siano legittimati a presentare un’istanza davanti al Panel gli individui colma, quanto meno in parte, il gap esistente tra gli organi decisionali della Banca e le persone, sulle quali, poi, ricade concretamente l’impatto delle decisioni dell’Organizzazione.
L’organo può ricevere richieste di ispezione qualora vi sia un effetto avverso, attuale o potenziale, che pregiudichi i diritti o gli interessi di
un gruppo di individui e sia riconducibile ad azioni od omissioni della
Banca non conformi alle sue OPs e BPs sull’elaborazione, valutazione e
attuazione di un progetto da essa finanziato37.
Finora, quasi la metà delle richieste ricevute ha portato all’apertura di un’inchiesta38.
Per potere agire, i richiedenti devono dimostrare di avere già perseguito altre vie per tutelare i propri interessi presso la Banca e indicare, eventualmente, le OPs e le BPs di cui sostengono la violazione.
La procedura di inchiesta si articola in quattro fasi: la richiesta di ispe-
35
Cfr. il par. 12 delle risoluzioni n. 93-10 dell’IBRD e n. 93-6 dell’IDA e gli articoli 1
e 2 del regolamento operativo.
36
La richiesta può essere avanzata anche da rappresentanti dei residenti, ad esempio un’organizzazione non governativa.
37
Cfr. il par. 12 delle risoluzioni n. 93-10 dell’IBRD e n. 93-6 dell’IDA.
38
La maggior parte di queste riguardano le politiche della Banca sull’impatto ambientale, sulla supervisione della realizzazione del progetto, sul trasferimento forzato di
abitanti e sulle popolazioni indigene.
141
Maria Rosaria Mauro
zione; l’esame preliminare; l’inchiesta; l’adozione del rapporto finale.
La richiesta di indagine deve essere presentata in forma scritta e contenere le informazioni riguardo alle OPs e BPs che sarebbero state violate. La domanda, che non risulti manifestamente infondata, è registrata e notificata al Management della Banca, che, entro 21 giorni, dovrà fornire al Panel le prove di avere agito in conformità con le politiche e procedure operative della Banca nella realizzazione del progetto, oppure che
intende conformarvisi a partire da quel momento.
Entro 21 giorni dalla risposta del Management, il Panel dovrà accertare, in via preliminare, se sussistono le condizioni previste per l’avvio
di una procedura di inchiesta, in particolare: la legittimazione del richiedente (competenza ratione personae); la pertinenza dell’oggetto del ricorso (competenza ratione materiae)39; la presentazione del ricorso prima della scadenza del prestito o della corresponsione di una somma pari, o superiore, al 95% del finanziamento (competenza ratione temporis); altri requisiti indicati nella risoluzione40. Dopo avere valutato la risposta del Management e la ricevibilità della richiesta, il Panel decide se domandare al
Comitato esecutivo dell’IBRD o dell’IDA l’autorizzazione ad avviare l’inchiesta attraverso un elegibility report. Se ottiene l’autorizzazione, il Panel
continua la propria indagine, che si conclude con un investigation report,
in cui viene accertato se la Banca si sia conformata alle proprie OPs e BPs
e in cui sono contenute le raccomandazioni dell’organo. Tale rapporto è
inviato al Comitato esecutivo e al Presidente della Banca. Il Management
può replicare entro sei settimane, sottoponendo ai Direttori esecutivi un
rapporto di risposta41. In seguito, le repliche e l’investigation report sono
discussi dal Comitato esecutivo, che dovrà decidere se adottare modifiche del progetto in corso sulla base delle indicazioni del Panel.
Dopo l’istituzione dell’Inspection Panel, anche altre organizzazioni
del Gruppo si sono dotate di meccanismi interni di compliance e hanno
adottato parametri di valutazione del loro operato, per consentire alle popolazioni locali di presentare reclami per eventuali danni sociali e/o ambientali. Infatti, sia l’IFC, nel 2006, sia la MIGA, nel 2007, hanno adottato propri performance standards on social and environmental sustainability,
che costituiscono un codice di condotta non vincolante, in cui vengono
indicate le procedure da seguire qualora l’attuazione di un progetto possa avere un impatto sociale o ambientale o conseguenze sulla salute del-
39
Cfr. il par. 14, lett. c), delle risoluzioni n. 93-10 dell’IBRD e n. 93-6 dell’IDA.
Cfr. il par. 14, lettere a) e b), delle risoluzioni n. 93-10 dell’IBRD e n. 93-6 dell’IDA.
41
Cfr. il par. 23 delle risoluzioni n. 93-10 dell’IBRD e n. 93-6 dell’IDA.
40
142
L’Inspection Panel della Banca mondiale
la popolazione o sugli interessi delle popolazioni indigene. Inoltre, nel
1999, è stato istituito il Compliance Advisor Ombudsman (CAO), un organismo indipendente incaricato di considerare i reclami relativi alle attività dell’IFC e della MIGA e promuovere il dialogo, in modo equo oggettivo e costruttivo, tra individui, gruppi di individui od organizzazioni colpiti da un progetto e le due agenzie. Tuttavia, il CAO non è assimilabile all’Inspection Panel, poiché rappresenta soltanto un meccanismo
informale di tipo conciliativo e consultivo per la soluzione dei conflitti
tra i soggetti interessati. I reclami possono essere presentati da ogni individuo, gruppo, comunità o ente che ritenga di essere stato, o di avere
la possibilità di essere, danneggiato dalle ricadute sociali o ambientali di
un progetto che coinvolga una delle due istituzioni; inoltre, esso può essere proposto anche da un terzo, se dimostra di agire in qualità di rappresentante del soggetto leso. Il reclamo può essere presentato in ogni
fase del progetto finanziato o garantito dall’ente; tuttavia, l’Ombudsman
non può attribuire risarcimenti, né bloccare il progetto in attesa di una
sua valutazione, né annullarlo. Dopo avere accertato che il reclamo rientra nel suo mandato e deciso in merito all’ammissibilità, l’organo lo notifica al personale dell’istituzione finanziaria interessata, che deve fornire le informazioni necessarie sul progetto. L’Ombudsman, quindi, sentite tutte le parti coinvolte, decide come risolvere la questione che gli è stata sottoposta, secondo un approccio molto flessibile e concreto. Tale organo, inoltre, svolge una funzione di compliance audit, verificando la conformità dell’attività svolta dal personale tecnico delle due istituzioni alle
rispettive politiche, procedure e linee guida. Infine, esso esprime un parere sull’adeguatezza delle politiche interne dell’ente e sulla loro applicazione.
5. La funzione dell’Inspection Panel e il suo contributo alla salvaguardia dei diritti umani
Il Panel, nell’accertare se i diritti o gli interessi della parte colpita siano stati (o potrebbero essere) toccati da un atto od omissione della Banca, si basa sulle OPs, sulle BPs e sulle ODs di tale Organizzazione. Pertanto, l’organo non effettua le proprie valutazioni sulla base del diritto
internazionale in generale, ma esclusivamente delle regole contenute in
questi strumenti. Può, quindi, porsi la questione dell’eventuale applicabilità e rilevanza, nell’attività di ispezione del Panel, di altre norme del
diritto internazionale, che non sono presenti in tali atti della Banca, in particolare quelle concernenti i diritti umani.
Invero, sebbene raramente sia stato chiesto al Panel di prendere in
143
Maria Rosaria Mauro
considerazione questioni direttamente legate alla tutela dei diritti umani, nell’attività di controllo di tale organo l’obiettivo di fare fronte a eventuali aspetti sociali negativi derivanti dai progetti esaminati ha tradizionalmente avuto rilievo, venendo in tal modo impediti arretramenti nella tutela di certi diritti. Perciò, sia i rapporti investigativi del Panel sia le
raccomandazioni con cui il Board of Executive Directors hanno dato seguito all’Action Plan sottopostogli dal Management della Banca, elaborato sulla base di tali rapporti, contribuiscono ad assicurare un maggiore rispetto dei diritti umani nell’ambito dell’operato dell’Organizzazione42.
Inoltre, in varie occasioni il Panel ha ricevuto richieste di ispezione
per progetti che mettevano a rischio il godimento dei diritti umani delle popolazioni residenti nelle aree interessate dalle attività finanziarie. Ad
esempio, è noto il caso del Chad-Cameroon Petroleum and Pipeline Project,
del 2002, in cui l’organo ispettivo si è domandato se «human rights issues as violations of proper governance would impede the implementation of the project in a manner that was incompatible with Bank policies»43, concludendo con un rapporto particolarmente critico nei confronti del Management della Banca, accusato di avere una visione ristretta in
materia di tutela dei diritti umani. Poi, nel caso Honduras Land Administration, del 2007, il Panel ha interpretato una policy della Banca nel senso che l’Organizzazione avrebbe dovuto considerare prima di tutto gli
obblighi internazionali in materia di diritti umani che uno Stato può avere nei confronti delle popolazioni indigene interessate44.
42
Si veda al riguardo P. DE SENA, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e diritti
dell’uomo, in Problemi e tendenze del diritto internazionale dell’economia. Liber amicorum in onore
di Paolo Picone, a cura di A. LIGUSTRO, G. SACERDOTI, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011, p. 852.
43
In particolare, il Panel doveva accertare se la situazione dei diritti umani in Ciad intaccasse la conformità alle policies della Banca in materia di informed and open consultation. Cfr.
Inspection Panel, investigation report, Chad: Petroleum Development and Pipeline Project, Management of the Petroleum Economy Project, and Petroleum Sector Management Capacity Building Project, 17 luglio 2002, consultabile nel sito siteresources.worldbank.org. Si vedano in argomento S. HERZ, A. PERRAULT, Bringing Human Rights Claims to the World Bank Inspection Panel, ottobre 2009, consultabile nel sito www.bicusa.org; Inspection Panel, Accountability at the World
Bank. The Inspection Panel at 15 Years, 2009, consultabile nel sito siteresources.worldbank.org.
44
In particolare, nel caso Honduras Land Administration Project, l’Inspection Panel ritenne che la policy OMS 2.20 (Project Appraisal) della Banca richiedeva di prendere i considerazione i trattati in materia di diritti umani pertinenti. Secondo l’organo la Banca avrebbe dovuto valutare se il progetto violava gli impegni di cui era destinatario l’Honduras in
virtù della Convenzione n. 169 dell’ILO (International Labour Organization) sui diritti dei popoli indigeni. Il legal department della Banca, però, non concordava con tale interpretazione, rendendo evidente la confusione interna sulla rilevanza dei diritti umani nelle policies
e nelle operations dell’Organizzazione (cfr. Inspection Panel, investigation report, Honduras: Land
Administration Project, 12 giugno 2007, consultabile nel sito siteresources.worldbank.org).
144
L’Inspection Panel della Banca mondiale
In generale, tale organo ha individuato quattro circostanze in cui le
questioni relative ai diritti umani devono essere tenute in considerazione, dal momento che le politiche della Banca devono conformarsi al contesto giuridico in cui viene realizzato il progetto.
In primo luogo, la Banca deve garantire che i suoi progetti non contravvengano agli impegni internazionali in materia di diritti umani dello Stato che ottiene il finanziamento45. Inoltre, l’Organizzazione è tenuta ad accertare se le questioni relative ai diritti umani possano impedire il rispetto
delle sue policies nell’ambito della due-diligence del progetto46. La Banca deve,
altresì, interpretare le disposizioni dell’Indigenous Peoples Policy conformemente agli obiettivi concernenti la tutela dei diritti umani di tale politica47.
45
Cfr. al riguardo Inspection Panel, investigation report, Honduras: Land Administration
Project, cit. Questo è il primo caso in cui il Panel esplicitamente ha preso in considerazione un claim fondato sulle norme internazionali in materia di diritti umani, avanzato dalla comunità indigena Garífuna. La comunità sosteneva che il progetto finanziato dalla Banca violasse non solo l’Indigenous Peoples Policy della Banca e altre OPs, ma anche gli obblighi di cui era destinatario il Governo dell’Honduras in virtù della Convenzione n. 169 dell’ILO. Il Panel, pur ritenendo di non potere giudicare circa l’eventuale violazione della Convenzione dell’ILO, essendo il suo mandato limitato a verificare il rispetto delle OPs della
Banca, tuttavia, concluse che le disposizioni di tale Convenzione erano applicabili alla Banca attraverso l’OMS 2.20 (l’OP in materia di Project Appraisal) dell’Organizzazione, in virtù della quale la Banca deve assicurare che le attività che finanzia siano compatibili con gli
accordi internazionali del borrower in materia di ambiente, salute e benessere dei suoi cittadini (paragrafi 243-258).
46
Cfr. Inspection Panel, investigation report, Chad: Petroleum Development and Pipeline Project, cit. I richiedenti ritenevano che il progetto finanziato fosse in violazione delle ODs in materia di governance e human rights. Secondo il Management della Banca la possibilità di prendere in considerazione questioni connesse ai diritti umani era limitata dagli Articles of Agreement, in virtù dei quali la Banca deve ispirarsi solo a considerazioni economiche e, pertanto, le questioni relative ai diritti umani potrebbero essere rilevanti per l’attività dell’Organizzazione soltanto se avessero un «significant direct economic effect on the project». Secondo
il Management il progetto poteva conseguire i suoi obiettivi di sviluppo nonostante la repressione politica in Ciad; pertanto, la questione del rispetto dei diritti umani non doveva essere presa in considerazione. Invece il Panel, rifiutando una tale posizione, sostenne che le considerazioni relative ai diritti umani sono importanti non soltanto se hanno un effetto economico diretto sul progetto, ma anche quando «impede the implementation of the Project in
a manner compatible with the Bank’s policies». Perciò, il Panel concluse che la situazione dei
diritti umani in Ciad poneva seri problemi circa il rispetto da parte della Banca delle sue policies in materia di informed and open consultation (paragrafi 210-217).
47
Cfr. Inspection Panel, investigation report: China: Western Poverty Reduction Project,
28 aprile 2000, consultabile nel sito siteresources.worldbank.org. Secondo i richiedenti le
popolazioni indigene tibetane e mongole, che vivevano nelle aree “move-in”, sarebbero state danneggiate dal progetto, a causa del mancato rispetto da parte della Banca delle proprie policies e Operational Procedures. In particolare, era controverso se la Banca avesse preparato un Indigenous Peoples Development Plan (IPDP) secondo quanto previsto dall’Indigenous Peoples Policy (OD 4.20). Secondo il Management, un IPDP era richiesto per il Qinghai
145
Maria Rosaria Mauro
Infine, essa deve considerare la protezione dei diritti umani alla luce di
quanto previsto dagli ordinamenti nazionali e, in particolare, nelle costituzioni statali48; infatti, diverse sue policies chiedono al Management di tenere in considerazione le condizioni previste dal diritto interno nella valutazione e attuazione dei progetti49.
Peraltro, l’Inspection Panel presenta alcune caratteristiche che ne possono limitare l’efficacia quale strumento di tutela dei diritti umani. In primo luogo, esso non propone rimedi o azioni correttive, che invece devono essere approvati dal Management della Banca50; tale organo, poi, esamina solo i progetti finanziati dall’IBRD e dall’IDA, mentre non può condurre indagini formali sulle attività dell’IFC e della MIGA51; inoltre, il suo
mandato include esclusivamente un esame della conformità alle OPs, BPs
e ODs, non riguardando invece altri documenti di indirizzo della Banca quali guidelines e best practices.
Va anche aggiunto che il Panel si è sempre preoccupato di rispetta-
Project, ma esso asseriva che il progetto costituiva nel suo insieme l’IPDP, poiché la maggioranza dei beneficiari del progetto erano minoranze indigene. Il Panel non volle accettare tale interpretazione, ritenendo che questa lettura avrebbe consentito al progetto di minare gli obiettivi di sviluppo dei popoli indigeni nella “move-in area”, assicurando benefici a una popolazione molto più ampia degli altri popoli indigeni provenienti dalla “moveout area”. Per il Panel, ciò sarebbe stato incompatibile con gli obiettivi della policy di «…ensure that the development process fosters full respect for [indigenous peoples’] dignity, human rights, and cultural uniqueness…» e di «ensure that indigenous peoples do not suffer adverse effects during the development process … and that they receive culturally compatible social and economic benefits» (paragrafi 271-280).
48
Nel caso Honduras Land Administration, ad esempio, il Panel ha ritenuto che il Management avesse un obbligo di valutare l’impatto del quadro giuridico interno sulle popolazioni indigene in virtù dell’Indigenous Peoples Policy (OD 4.20) della Banca (Inspection Panel, investigation report, Honduras: Land Administration Project, cit., par. 242).
49
Ad esempio l’OP 4.01 (Environmental Assesment) richiede che la valutazione ambientale di un progetto consideri «…the country’s overall policy framework, [and] national legislation…related to the environment and social aspects…» (par. 3). Poi, la BP 4.01
(Environmental Assessment) specifica che la Banca deve «identify any matters pertaining to
the project’s consistency with national legislation or international environmental treaties
and agreements» (par. 10). Analogamente, l’OP 4.10 (Indigenous Peoples) richiede al borrower di condurre «a review…of the legal and institutional framework applicable to Indigenous Peoples» (Annex A - Social Assessment, par. 2, lett. a)) come parte della sua valutazione dell’impatto sociale del progetto sui popoli indigeni (par. 9). Infine, l’OP 7.00 (Lending
Operations: Choice of Borrower and Contractual Agreements) chiarisce che la Banca «tries to work
within existing law to the extent possible» (par. 14).
50
Peraltro, gli Action Plans elaborati in risposta alle carenze della Banca spesso non soddisfano pienamente o in maniera adeguata le esigenze individuate dall’Inspection Panel.
51
Si veda in argomento E. SCISO, Appunti di diritto internazionale dell’economia, 2° ed.,
Torino, Giappichelli, 2012, p. 112.
146
L’Inspection Panel della Banca mondiale
re i limiti giurisdizionali del proprio mandato, valutando esclusivamente se l’operato della Banca fosse conforme alle sue policies, evitando invece considerazioni circa l’osservanza, da parte dello Stato che chiedeva il prestito, dei suoi obblighi internazionali, anche nel caso in cui tali
obblighi concernessero la protezione dei diritti umani52.
Infine, da alcuni elementi propri del meccanismo e della procedura seguita, si evince che non si attua alcun sistema di tutela giurisdizionale. Ciò emerge, infatti, da diversi aspetti: ad esempio, l’Inspection
panel non ha poteri decisionali, che spettano invece ai Direttori esecutivi, i quali devono autorizzare la procedura di inchiesta e decidere, successivamente, se dare seguito o meno alle raccomandazioni del Panel;
la richiesta non può essere avanzata da una sola persona, poiché solo
i gruppi sono legittimati ad agire; l’avvio dell’indagine non è automatico, ma è subordinato all’autorizzazione del Comitato esecutivo; il report del Panel non è vincolante per la Banca, ma ha valore di mera raccomandazione; lo scopo di tale report è solo di evidenziare alla Banca
fallimenti o effetti negativi delle sue politiche e procedure operative, mentre non sono previsti risarcimenti monetari per i richiedenti; l’unica forma possibile di riparazione è rappresentata dalla modifica del progetto da parte del Comitato esecutivo della Banca; ai richiedenti, una volta presentata la domanda, non è riconosciuto lo ius standi nella procedura; infine, non vi è una possibilità di appello per i richiedenti nel caso
in cui non venga data l’autorizzazione all’indagine del Panel o essi non
siano d’accordo sui risultati.
Vi sono, poi, due aspetti che potrebbero mettere in discussione la
terzietà, l’indipendenza e l’imparzialità del Panel: in primo luogo, tale organo è stato creato attraverso un atto interno della Banca, essendo, perciò, formalmente subordinato agli organi amministrativi della stessa; i
suoi membri, inoltre, sono considerati dalle risoluzioni istitutive funzionari dell’Organizzazione53.
52
Ad esempio, nel caso Chad: Petroleum Development and Pipeline Project, il Panel ha limitato le sue osservazioni relativamente alle richieste di tutela dei diritti umani, specificando che «[i]t is not within the Panel’s mandate to assess the status of governance and human
rights in Chad in general or in isolation…» (Inspection Panel, investigation report: Chad: Petroleum Development and Pipeline Project, cit., par. 215). In modo analogo, nel caso Honduras: Land
Administration Project, quando i richiedenti affermarono che il sostegno della Banca al progetto avrebbe facilitato una violazione da parte del governo dei suoi obblighi convenzionali, il Panel osservò che «it is a matter for Honduras to implement the obligations of an international agreement to which it is party and [the Panel] does not comment on this matter»
(Inspection Panel, investigation report: Honduras: Land Administration Project, cit., par. 258).
53
Cfr. il par. 10 delle risoluzioni n. 93-10 dell’IBRD e n. 93-6 dell’IDA.
147
Maria Rosaria Mauro
Peraltro, pur in presenza di tali limiti, secondo una corrente dottrinaria, l’Inspection Panel, consentendo una procedura di controllo sul
rispetto dei meccanismi della Banca, si inserirebbe nel più ampio sistema di tutela internazionale dei diritti umani54. Mentre, altri ritengono che la funzione propria di tale organo sia di assicurare un controllo preventivo, dal momento che la sua esistenza induce la Banca
a tenere in considerazione l’eventualità di una sua ispezione e a garantire a priori, perciò, la conformità dei propri progetti e operato alle proprie politiche e procedure, per evitare costi inutili legati all’avvio di
un’eventuale inchiesta55.
Invero, la funzione specifica dell’Inspection Panel è quella di strumento di accountability dell’Organizzazione. Tale sua caratteristica lo rende
un organo certamente molto innovativo nell’ambito del diritto delle organizzazioni internazionali, alla cui evoluzione la sua istituzione ha contribuito in maniera molto significativa. Infatti, con l’Inspection Panel per
la prima volta si è riconosciuto a gruppi di individui, senza alcuna relazione giuridica con un determinato ente internazionale, il diritto di agire nei confronti di tale ente, per avere giustificazione del suo operato56.
La peculiarità di questa procedura, dunque, risiede nel fatto che si stabilisce una forma di responsabilità della Banca nei confronti di individui
e gruppi; infatti, nel caso in cui venga accertata la non conformità alle politiche e procedure interne, il Management della Banca deve sottoporre ai
Direttori esecutivi un rapporto sulle misure che intende adottare57, rimediando alla violazione delle regole interessate. Si crea, in tal modo, una
relazione tra la Banca e gli individui colpiti, che è indipendente dallo Stato coinvolto nel progetto, il cui contenuto normativo è dato appunto dalle OPs, dalle BPs e dalle ODs.
Peraltro, solo la responsabilità della Banca è in causa, poiché ogni
54
Si veda al riguardo S. SCHLEMMER-SCHULTE, The World Bank Inspection Panel: a Record of the First International Accountability Mechanism and Its Role for Human Rights, in “Human Rights Brief”, 6 (1999), pp. 1, 6, 7, 20.
55
Si veda in argomento L. BOISSON DE CHAZOURNES, Public Participation in Decision–Making: the World Bank Inspection Panel, in The World Bank, International Financial Institutions,
and the Development of International Law: a Symposium Held in Honor of Dr. Ibrahim F. I. Shihata, a cura di E.B. WEISS, A. RIGO SUREDA, L. BOISSON DE CHAZOURNES, Washington, DC, The
American Society of International Law, 1999, p. 91 ss.
56
Si veda al riguardo L. BOISSON DE CHAZOURNES, The World Bank Inspection Panel, in
International Human Rights Monitoring Mechanisms. Essays in Honour of Jakob Th. Möller, a
cura di G. ALFREDSSON, J. GRIMHEDEN, B.G. RAMCHARAN, A. DE ZAYAS, 2° ed. rivista, Leiden,
Boston, Martinus Nijoff Publishers, 2009, pp. 311-312.
57
Cfr. il par. 23 delle risoluzioni n. 93-10 dell’IBRD e n. 93-6 dell’IDA.
148
L’Inspection Panel della Banca mondiale
azione od omissione esterna all’Organizzazione resta al di fuori della competenza ratione materiae del Panel, la cui indagine riguarda esclusivamente la condotta della Banca e non anche quella dello Stato che ha ottenuto il finanziamento.
6. Il pilot approach dell’Inspection Panel: un nuovo meccanismo di early solutions
Nell’aprile 2014 l’Inspection Panel ha adottato l’aggiornamento delle sue Operating Procedures58.
In tale contesto, è stata ipotizzata anche una nuova modalità di intervento del Panel, volta a consentire delle early solutions nell’ambito della procedura. A tal fine è stato sviluppato un pilot approach, sulla base del
quale, prima della registrazione di una richiesta e senza avviare immediatamente l’intero procedimento, l’Inspection Panel potrebbe affrontare
e risolvere le questioni di interesse dei richiedenti.
Lo scopo del pilot approach è di offrire una prima opportunità al Management e ai richiedenti di prendere in considerazione le questioni concernenti presunti danni, che emergono da una specifica richiesta di ispezione, rinviando la decisione del Panel sulla registrazione di tale richiesta.
L’Inspection Panel può considerare questa modalità di intervento
nel caso in cui sussistano alcune condizioni. In particolare, gli argomenti relativi al presunto danno espressi nella richiesta devono essere definiti in modo chiaro, mirati, limitati nell’ambito di applicazione e dimostrarsi compatibili con una early resolution nell’interesse dei richiedenti. Inoltre, il Management deve informare il Panel delle misure o degli steps già intrapresi e/o pianificati per affrontare il presunto danno
e del periodo previsto per la loro attuazione, e deve confermare che si
tratta di questioni che il Management può affrontare a questo stadio. Infine, i richiedenti devono informare il Panel che sono favorevoli a un
rinvio della decisione sulla registrazione per esplorare questa opportunità aggiuntiva di early solutions, alla luce delle misure o degli steps
indicati dal Management.
Per quanto riguarda la procedura, se il Panel ritiene che il caso in
questione si presta a una soluzione secondo tale approccio e il Management indica una preferenza per questa modalità facoltativa, conferisce con
i richiedenti immediatamente. Se i richiedenti anche accettano questo ap58
Cfr. al riguardo Update of the Panel Operating Procedures, consultabile nel sito ewebapps.worldbank.org.
149
Maria Rosaria Mauro
proccio, il Management, in due settimane circa, si esprime sulle misure e/o
gli steps proposti e il periodo previsto per affrontare le questioni concernenti il presunto danno che risultano dalla richiesta. Il Panel informa i richiedenti che rinvierà la propria decisione sulla registrazione in attesa
di ulteriori informazioni sull’esito dell’intervento del Management volto ad affrontare i loro specifici interessi.
Se l’Inspection Panel decide di seguire questo approccio facoltativo, informa il Board, attraverso una notifica di ricezione della richiesta (notice of receipt of a request), che rinvia la decisione sulla registrazione. Nella notifica viene spiegata la motivazione della scelta di tale
approccio e indicati le misure o gli steps proposti dal Management, nonché il periodo previsto. Tale notifica, inoltre, riconosce il diritto dei richiedenti di manifestare, in ogni momento, la propria insoddisfazione e la volontà di una registrazione della richiesta da parte del Panel.
Infine, nella notifica l’organo ispettivo chiede ai richiedenti e al Management di tenerlo aggiornato sui progressi fatti nell’affrontare le questioni di interesse dei richiedenti.
Se il Panel decide di non adottare tale approccio facoltativo, emana una notifica di registrazione (notice of registration), secondo la prassi
attuale.
Entro tre mesi dalla presentazione della notifica di ricezione di una
richiesta, il Panel esaminerà la situazione. Se i richiedenti sono soddisfatti e ritengono che le loro questioni siano state affrontate con successo, ne
informano il Panel per iscritto, che non registrerà la richiesta e adotterà
una notice of non-registration. Negli altri casi, per decidere se interrompere la procedura o registrare la richiesta, il Panel può incontrare i richiedenti e visitare l’area cui si riferisce il progetto. Se tale organo decide di
registrare la richiesta secondo la procedura abituale, indicherà il processo intrapreso fino a quel momento e il fondamento per la registrazione
nella notice of registration inviata al Board e al Management.
I risultati e l’efficacia del pilot saranno valutati entro la fine del 2015.
7. Conclusioni
Come si è osservato, la Banca mondiale è stata istituita con un mandato limitato a temi di natura economico-finanziaria, in quanto incaricata di assicurare lo sviluppo economico degli Stati membri. Tuttavia, nel
tempo aspetti concernenti la tutela dei diritti umani sono stati ricondotti nell’ambito delle attività di tale Organizzazione, poiché tali diritti sono
stati collegati sempre più all’obiettivo dello sviluppo economico.
La Banca, infatti, ha cercato di superare i limiti imposti dal proprio
150
L’Inspection Panel della Banca mondiale
Statuto riassorbendo la tutela di valori di natura non propriamente economica all’interno del suo mandato. Tale evoluzione si è avuta, in primo luogo, attraverso la prassi, poiché questa Organizzazione ha ampliato gradualmente il proprio campo di azione senza formalmente modificare il proprio Statuto, grazie, soprattutto, a una nuova interpretazione del concetto di sviluppo, dovuta all’affermazione di un right-based approach to development, che ha inciso non tanto sugli scopi quanto sulle funzioni della Banca.
Inoltre, vi è stato un importante cambiamento istituzionale, determinato dalla creazione dell’Inspection Panel, che è proprio il risultato di
un’esigenza funzionale interna della Banca: quella di ampliare il proprio
mandato in conseguenza di un’evoluzione dei suoi obiettivi.
Invero, l’evoluzione dinamica del mandato della Banca è stata innescata, principalmente, dalle proteste della società civile per la mancanza iniziale di una responsabilità di tale Organizzazione per i danni provocati dalle sua attività, che hanno indotto all’elaborazione delle OPs e
delle BPs e, soprattutto, all’istituzione dell’Inspection Panel.
Il Panel rappresenta il primo tentativo, da parte di un’organizzazione internazionale, di istituzione di un organo autonomo permanente di
controllo, finalizzata ad accrescere la trasparenza e l’accountability degli
interventi dell’organizzazione interessata nei confronti dei soggetti beneficiari della sua attività finanziaria. L’istituzione di tale organo conferma che, sul piano internazionale, si averte sempre più l’esigenza di assicurare un maggiore collegamento tra le attività economiche e il perseguimento della tutela dei diritti umani e, in genere, di interessi di natura non economica59. Peraltro, a tal fine sarebbe necessario che il Panel divenisse un vero organo di controllo, infatti, al momento vari elementi ne
limitano l’efficacia quale strumento di human rights accountability, ad esempio, l’impossibilità di invocare in maniera specifica le norme in materia
di diritti umani, l’assenza di un decision-making power, la mancanza di un
ruolo dei richiedenti nell’ambito della procedura, la limitata esperienza
59
Ad esempio, di recente, il Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani ha istituito (sulla base del par. 12 della sua risoluzione 17/4, Human Rights and Transnational Corporations and Other Business Enterprises, del 16 giugno 2011, consultabile nel sito daccess-ddsny.un.org il Forum on Business and Human Rights, sotto la guida del Working Group on the Issue of Human Rights and Transnational Corporations and Other Business Enterprises, allo scopo
di «discuss trends and challenges in the implementation of the Guiding Principles [on Business and Human Rights] and promote dialogue and cooperation on issues linked to business and human rights, including challenges faced in particular sectors, operational environments or in relation to specific rights or groups, as well as identifying good practices».
151
Maria Rosaria Mauro
specifica del Panel in materia di diritti umani60.
Perciò, occorrerebbe un potenziamento della struttura e dei poteri
dell’Inspection Panel, in modo da consentire l’adozione da parte dell’organo di decisioni vincolanti in caso di violazione delle procedure previste e la possibilità di un rimedio effettivo ai soggetti danneggiati. Sarebbe, altresì, necessaria un’estensione delle sue competenze alle agenzie della Banca che operano nel settore privato.
In realtà, sebbene i diritti umani gradualmente siano entrati nelle
valutazioni della Banca, essa non ha ancora riconosciuto formalmente di
essere vincolata nel suo operato dalle norme internazionali in materia,
né di potere estendere formalmente il proprio mandato oltre quanto previsto dagli Articles61, continuando a ribadire l’esigenza di preservare il proprio carattere economico-finanziario. Perciò, pur adottando la Banca misure volte a garantire il rispetto dei diritti umani nell’attuazione dei progetti da essa finanziati, tuttavia, questa Organizzazione non ha ancora
chiaramente definito il suo ruolo nella promozione di tali diritti nei Paesi in cui opera62, non avendo ancora specifiche politiche in materia di tutela dei diritti umani63 e non essendovi un agenda al riguardo per le istituzioni che compongono il Gruppo della Banca mondiale. Infatti, la posizione ufficiale del Gruppo continua a essere che il ruolo della Banca non
è di enforcer dei diritti umani, ma di soggetto che collabora con gli Stati
affinché essi rispettino gli impegni assunti in materia64.
60
Si veda, al riguardo, W. VAN GENUGTEN, Tilburg Guiding Principles on World Bank,
IMF and Human Rights, in World Bank, IMF and Human Rights, a cura di W. VAN GENUGTEN,
P. HUNT, S. MATHEWS, Nijmegen, Wolf Legal Publishers, 2003, pp. 247-255.
61
Secondo A. PALACIO, The Way Forward: Human Rights and the World Bank, ottobre
2006, consultabile nel sito web.worldbank.org: «it is now clear that the Bank can and sometimes should take human rights into consideration as part of its decision-making process». Sebbene, nel contempo «the Bank must also respect the legal limits imposed by its
Articles of Agreement».
62
Si veda al riguardo K. RAFFER, Good Governance, Accountability and Official Development Cooperation: Analyzing OECD-Demands at the Example of the IBRD, in Sustainable Development, cit., pp. 343-359; M. WADRZYK, Is It Appropriate for the World Bank to Promote Democratic Standards in a Borrower Country?, in “Wisconsin International Law Journal”, 17 (1999),
pp. 553-577.
63
Cfr. al riguardo il documento The World Bank’s Safeguard Policies Proposed Review
and Update. Approach Paper, 10 ottobre 2012, consultabile nel sito siteresources.worldbank.org.
64
Si veda K. HERBERTSON, K. THOMPSON, R. GOODLAND, A Roadmap for Integrating Human Rights into the World Bank Group, World Resources Institute, 2010, consultabile nel sito
www.wri.org, p. 9.
152
LORENZA PAOLONI
Il Crofting nello sviluppo di un’agricoltura sostenibile in Scozia*
SOMMARIO: 1.Cosa è il Crofting - 2. La vicenda storica e giuridica - 3. Il quadro normativo vigente - 4. Attualità e prospettive del Crofting
1. Cosa è il Crofting
Nell’ambito delle molteplici e diversificate modalità di gestione collettiva delle terre agricole ancora vigenti in Europa, il Crofting si caratterizza come un peculiare modello di organizzazione e gestione della piccola
proprietà fondiaria sviluppatosi nelle regioni settentrionali della Scozia e
nelle Isole scozzesi intorno al 1800. Rappresenta un sistema sociale unico
nel suo genere che affonda le radici nell’evento storico delle Clearances avvenuto proprio, come sarà illustrato nel prosieguo, nel perimetro delle Highlands. Grazie alle sue specifiche connotazioni esso ha svolto e continua
a svolgere, seppure con modalità diverse dal passato, un’importante funzione per il miglioramento economico, sociale ed ambientale delle aree rurali dislocate in territori molto lontani dai centri abitati. Non trascurabile
è, altresì, l’apporto dato alla preservazione della biodiversità locale attraverso il mantenimento delle importanti coltivazioni autoctone e delle varietà vegetali così come delle razze rare degli animali nativi1.
*Il presente contributo, in una versione parzialmente modificata, comparirà anche
nella raccolta di “Scritti in onore di Alberto Germanò”, in corso di pubblicazione per i titoli della UTET
1
In occasione del Convegno internazionale “Let’s Liberate Diversity - Scotland 2012 Celebrating crofters seeds & breeds” Strathpeffer (Highlands), 9th to 11th March 2012 , finanziato dall’Unione europea ed organizzato dall’ European Coordination of Let’s Liberate Diversity insieme con Scottish Crofting Federation, Heritage Seed Library/Garden Organic, Practical
Action e altri membri dell’UK Food group a cui ho avuto l’opportunità di partecipare, le organizzazioni di rappresentanza dei Crofters, ivi presenti, hanno ribadito la loro contrarietà all’utilizzo di sementi OGM, convinti, secondo quanto affermato da un Crofter delle Shetland nonchè direttore della Scottish Crofting Federation, Norman Leask, che: “We will defend
our seeds and breeds and our local food system. The gathering of these people in Strathpeffer was a gathering of hearts and of a strong spirit that will defend our rights and traditions
and strengthen our opposition to GMOs.” http://www.thescottishfarmer.co.uk/news/thisweeks-news/crofters-versus-the-seed-cartels, 15 marzo 2012
153
Lorenza Paoloni
La struttura economico-giuridica dell’istituto in esame si caratterizza anche per un ulteriore dato piuttosto significativo: la produzione di
cibo in piccola scala e la cura dell’ambiente convergono nell’assolvere,
da sempre, un compito unitario di sostentamento delle popolazioni ivi
insediate.
Il sistema organizzativo e gestionale del Crofting svolge, altresì, una
funzione essenziale nel dare “forma” al paesaggio scozzese ma anche nel
miglioramento dell’ambiente naturale, del patrimonio culturale e dell’economia sociale delle zone terrestri ed insulari della Scozia; contribuisce inoltre al sostegno delle popolazioni, che vivono in quelle aree fragili e marginali, ed incoraggia il legame unico ed inestricabile fra le persone e la terra, una terra il cui uso è inesorabilmente assoggettato alle impervie condizioni climatiche, alle caratteristiche del suolo e alla topografia. Non a caso le superfici agricole delle Highlands e delle Islands sono
state classificate come aree decisamente sfavorite ( ‘Less Favoured Areas’)
ai sensi della Dir. 75/268 sulle aree svantaggiate introdotta nel 1975 nell’ambito della Politica agricola comune delle strutture.
Il Crofting, in sostanza, si radica sui principi antichi ma quanto mai
moderni della sostenibilità, della diversificazione, della cooperazione, dell’imprenditorialità ed anche del senso di comunità nell’ambito della quale i singoli crofters condividono una visione comune per il “bene comune”.
L’apparato normativo che, nel corso dei secoli si è cristallizzato nella regolamentazione del Crofting, va inquadrato nel contesto più ampio
della materia relativa alla produzione alimentare e allo sviluppo rurale in Scozia. Il sistema legislativo del settore si fonda, infatti, sui principi della coesione delle comunità rurali, della preservazione della popolazione indigena e dei metodi di produzione alimentare su piccola scala nonché della gestione di un territorio efficiente e in buone condizioni ambientali. Questo approccio appare, senza dubbio, di grande attualità e trova rispondenza nelle scelte operate, a livello globale, da molti organismi e governi internazionali anche nella prospettiva più ampia della produzione sostenibile di cibo nel mondo.
L’organizzazione interna del Crofting prevede la presenza di apposite comunità operative, le Crofting communities2. Esse sono dedite principalmente alla gestione dei pascoli e delle foreste grazie al lavoro dei
2
Le Crofting Communities sono costituite da persone che (in alternativa o contemporaneamente) occupano i crofts all’interno di una cittadina costituita da due o più crofts
registrati presso la Crofting Commission oppure condividono un pascolo in comune associato a quella cittadina
154
Il Crofting nello sviluppo di un’agricoltura sostenibile in Scozia
crofters; mediamente 15-20 crofters gestiscono circa 400-500 ha dove ogni
operatore è responsabile di una specifica area ed è soggetto alla supervisione del comitato dei crofters, secondo quanto statuito dal Crofting Act
del 1886. Attualmente, tali unità aziendali si estendono su 800 mila ha
(circa il 20% dei territori delle Highlands e delle Islands scozzesi).
Dai dati più recenti risulta che nel territorio scozzese si contano ancora ben 17.725 crofts, piccole unità terriere situate nelle antiche comunità dei Crofting , prevalentemente collocati nelle Highlands e nelle Scottish Islands, dove vivono circa 33.000 persone residenti all’interno di nuclei familiari ristretti3.
Il Crofting è riconosciuto e considerato dal Governo scozzese che
si è impegnato a revisionarne la disciplina, anche in tempi recenti, al fine
di assicurarne la sopravvivenza in futuro, nella convinzione che valorizzando e sostenendo le comunità all’interno dei Crofting , tale arcaico
istituto potrà continuare a contribuire allo sviluppo delle aree rurali della Scozia.
Taluni, tuttavia, osservano che non sarà facile il mantenimento in
vita di tale originale istituto, come peraltro insegnano anche le esperienze giuridiche nostrane riguardo alla difficile convivenza dei modelli degli usi civici e delle proprietà collettive con quello della proprietà privata4. La formula tradizionale del Crofting, che combina la locazione individuale di un croft, accanto all’utilizzo di una quota dei pascoli comuni,
3
Tali dati sono disponibili in http://www.crofting.org/index.php/aboutus, Un ruolo centrale, ai fini della conoscenza dell’istituto in esame, è svolto dalla Scottish Crofting Federation (SCF), associazione di beneficenza e organizzazione non governativa indipendente profondamente radicata nella comunità locale. Essa costituisce l’unica organizzazione
dedita alla promozione e alla salvaguardia del crofting; promuove, inoltre, i diritti, la sussistenza e il patrimonio culturale dei Crofters e delle loro comunità. La SCF è anche la più
grande associazione rappresentativa degli interessi dei produttori di cibo su piccola scala operante nel Regno Unito
4
Sulle radici di tale storico contrasto Paolo Grossi ha dedicato pagine mirabili e sempre attuali. Oltre al più che noto P. Grossi, ‘Un altro modo di possedere’ – L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria”, Milano, 1977, in particolare si
richiamano i seguenti scritti: P. Grossi, Gli assetti fondiari collettivi e le loro peculiari fondazioni antropologiche, in Archivio Scialoja-Bolla, Annali di studi sulla proprietà collettiva, 1.2012,
1 ss.; Id., La proprietà collettiva e le sue dimensioni ambientale e sociale: introduzione ai lavori, in
Archivio Scialoja-Bolla, Annali di studi sulla proprietà collettiva, 1.2008, 11 ss.; Id., “Usi civici”: una storia vivente, in Archivio Scialoja-Bolla, Annali di studi sulla proprietà collettiva, 1.2008,
19 ss.; Id., ‘Un altro modo di possedere’ rivisitato, in Archivio Scialoja-Bolla, Annali di studi sulla proprietà collettiva, 1.2007, 1 ss.; Id., Aspetti storico-giuridici degli usi civici, Giornata di studio: ”Gli usi civici oggi”, Firenze, 30 giugno 2005, in I Georgofili – Quaderni – 2005- II, Firenze, 2006, 21 ss.
155
Lorenza Paoloni
si scontra con l’archetipo della proprietà individuale che rimane la forma abituale di detenzione del bene terra anche nelle moderne latitudini normative scozzesi.
All’interno del Crofting (inteso come sistema agricolo) si colloca, come
si è visto, il croft (il bene, ovvero l’appezzamento di terra) e vive il crofter,
ossia il soggetto che detiene un croft per il quale versa un canone al locatore (generalmente anche proprietario) della terra. Il canone viene appunto corrisposto per il godimento del bene terra sulla quale deve trovarsi una
casa (con recinto) avente i requisiti di un’abitazione rurale adeguata ove
il crofter possa vivere in modo confortevole con la sua famiglia. Può anche
accadere che il crofter detenga il bene in veste di proprietario-occupante di
un croft collocato, ovviamente, sempre all’interno del Crofting.
2. La vicenda storica e giuridica
La nascita del Crofting , sia come istituto giuridico che come sistema agricolo, è relativamente recente sebbene gran parte della cultura e
delle pratiche agricole ad esso riconnesse, come può desumersi dalla particolare fisionomia che lo distingue, siano alquanto risalenti.
Tale peculiare esempio di attività e di organizzazione agricola trova le sue origini strutturali nelle specificità della natura e della qualità
non solo della terra ma anche del paesaggio delle Highlands e delle Isole scozzesi, nonché nella posizione geografica di tali territori, soprattutto per quanto riguarda le isole, che risultano piuttosto lontani dalla terraferma.
Dette condizioni di base hanno determinato per diversi secoli un sistema agricolo di sussistenza e, segnatamente, di tipo pastorale con preferenza per l’allevamento delle vacche dal manto nero (Black cattle) che
garantivano un’ottima adattabilità al pascolo ed alle condizioni climatiche oltre che buone rese, fertilità e longevità.
L’utilizzo di terre incolte e non sfruttate per l’allevamento in comune è stata per secoli, come è noto, una caratteristica delle economie tradizionali e rurali nelle regioni collinari e montane delle zone temperate
di tutta l’Europa ed ha favorito, nei territori scozzesi, lo svolgimento delle attività agricole in forma collettiva5 nonché l’affermazione del “souming”,
5
Si veda, al riguardo, il lavoro di J. R. Coull, Crofters’ Common Grazings in Scotland,
in The Agricultural History Review, vol. 16, n. 2 , 1968, pp. 142-154 che contiene anche alcune interessanti e dettagliate considerazioni in merito alle caratteristiche agronomiche dei
crofts ed al loro funzionamento
156
Il Crofting nello sviluppo di un’agricoltura sostenibile in Scozia
ovvero un peculiare diritto del crofter di pascolare su terreni comuni.
Le aree agricole erano, così, generalmente utilizzate per l’attività
di pascolo piuttosto che di coltivazione sebbene si fossero affermate alcune colture di orzo ed avena e, in tempi più recenti, avesse prosperato
anche la coltivazione della patata.
Intorno alla metà del 18° secolo, come nel resto della Gran Bretagna,
le aree agricole erano prevalentemente possedute da famiglie di proprietari terrieri (secondo il modello tipico dell’antico sistema introdotto dai
Clan presenti nelle Highlands scozzesi) e concesse in godimento agli affittuari. A loro volta gli affittuari subaffittavano a piccoli agricoltori le
terre in uso dividendole in appezzamenti dalle misure ridotte: si trattava, spesso, di pochi acri di terra coltivabile integrati da una porzione di
terra da pascolo. La vita non era facile per i piccoli affittuari; gli affitti potevano essere elevati, la carestia sempre imminente, e non c’era un modo
per innovare o incrementare l’agricoltura. Nonostante ciò, si svilupparono floride industrie, non ultime le distillerie di whisky, la tessitura e
la pesca che apportarono notevoli introiti all’economia locale.
Nella fase di affermazione del Crofting, nelle forme che oggi è dato
conoscere, trasformazioni epocali stavano segnando i territori delle Scottish Highlands.
Tali mutamenti toccarono soprattutto l’organizzazione sociale delle Scottish Highlands e della popolazione locale, in particolare dopo l’ultima battaglia dei Jacobite repressa nel 1746 a Culloden. Infatti, i grandi proprietari terrieri cominciarono ad introdurre radicali cambiamenti
con riguardo alle modalità di gestione della terra nella regione, seguendo i modelli già sperimentati in Scozia, Gran Bretagna ed Irlanda6.
Al fine di massimizzare i profitti provenienti dagli affitti dei terreni, i proprietari terrieri iniziarono a consolidare i loro possedimenti incrementando l’allevamento di pecore; i terreni venivano in tal modo concessi in affitto ad alti canoni sfrattando i piccoli detentori che erano vissuti su quelle terre. Centinaia di migliaia di persone furono allontanate
dalle valli interne delle Highlands così che le pecore potessero pascolare sui terreni resi liberi e senza che venissero previsti indennizzi per gli
agricoltori trasferiti altrove.
6
“In 1737, the Duke of Argyll – owner of the largest Highland estate – began to offer leases to the highest bidder, a prelude to traditional notions of clanship being superseded by commercial imperatives. The subsequent decades witnessed the first phase of Clearance in the Highlands, resulting in an increase in single-tenant farms, the break-up of communal townships, and the development of crofting”, così A. G. Newby, Land and the “crofter question” in nineteenth-century Scotland, IRSS 35, 2010, 8
157
Lorenza Paoloni
Il Crofting cominciava a prendere forma proprio in concomitanza della caduta dei Clan scozzesi i cui capi si trasformarono in proprietari terrieri dediti alle attività commerciali e la cui reputazione, una volta dipendente dal numero di combattenti che le loro terre riuscivano a mantenere, nella nuova situazione creatasi era connessa alla capacità di aumentare gli introiti provenienti dai loro immobili. L’attività commerciale si basava, prevalentemente, su due commodity: la lana, la cui richiesta
era in costante aumento in quanto destinata alla realizzazione dei vestiti dei cittadini del Regno Unito, e le alghe marine necessarie per l’industria alcalina.
Al fine di consentire gli allevamenti su ampia scala delle pecore, migliaia di famiglie - come si è detto - furono trasferite sulla costa.
Questo processo di allontanamento delle popolazioni locali dalle loro
terre è stato definito con il noto termine “Clearences”, che sta ad intendere il fenomeno della rimozione coatta delle genti autoctone per far spazio agli allevamenti degli ovini. Esso ha riguardato le Highlands e le isole scozzesi, in grandi ondate periodiche, dal 1790 al 1850.
Dai “Clearances” è dunque originato il Crofting: gli abitanti di quelle zone del nord Europa, oggetto di spopolamento forzato, vennero trasferiti sulle coste e collocati in piccoli appezzamenti di terreni non utilizzati ove dovettero cominciare a riorganizzare le loro vite dal nulla costruendosi anche le case. Ogni croft era destinato ad una singola famiglia mentre le attività di pascolo e di allevamento continuarono ad essere svolte in comune, così come accadeva prima dell’avvento dei Clearences e come succede ancora oggi.
Le terre occupate erano tuttavia troppo scarse per consentire l’autosufficienza e così i crofters furono costretti ad integrare i limitati proventi svolgendo altre attività: coltivazione delle alghe, pesca, lavori pesanti, migrazione verso le città per trovare un’occupazione.
Ma, nonostante le intenzioni di coloro che introdussero e praticarono i Clearences, gli agricoltori non persero mai il loro fiducioso attaccamento alla terra.
Come è stato asserito, la vicenda dei Clearences costituisce uno degli episodi più ignobili della storia della Scozia e rimane tutt’oggi una questione assai dibattuta che ha segnato la memoria degli scozzesi. Le pratiche di allontanamento coatto sono state condotte nell’interesse di una
piccola elite di proprietari terrieri ed il fatto che, viceversa, gli interessi
di una vasta maggioranza di persone siano stati ignorati e i metodi con
i quali sono stati condotti fuori dalle loro terre siano da considerarsi quantomeno brutali, hanno lasciato un profondo risentimento tra le popolazioni delle Highlands, che è stato trasmesso alle generazioni successive.
158
Il Crofting nello sviluppo di un’agricoltura sostenibile in Scozia
Un’ampia compagine di persone, rimosse dalle loro terre d’origine, lasciò, dunque, definitivamente l’isola britannica e prese la via del mare
dirigendosi a grandi frotte in Canada, ai primi anni del diciannovesimo
secolo mentre molti altri agricoltori si diressero verso le terre dell’Australia e della Nuova Zelanda intorno al 1850.
Il territorio del nord ovest delle Highlands e delle isole acquistò, così,
la fisionomia che, in linea di massima, mantiene attualmente: ovvero, le
zone interne risultavano spopolate e destinate all’allevamento delle pecore e, in epoca più recente, ad insediamenti sportivi mentre le aree della fascia costiera apparivano più densamente popolate.
Il periodo storico che intercorre tra il 1840 ed il 1850 fu importante per la regione delle Highlands e delle isole anche per altri motivi. Dopo
lo sconvolgimento determinato dai Clearances giunsero la carestia ed il
dissesto economico7. Come nella vicina Irlanda, ci fu un’epidemia che colpì la coltura della patata, fondamentale per l’autosufficienza alimentare dei crofters e sebbene non ci fosse mortalità per inedia - ma comunque
si trattò di una vera e propria carestia – a questo tragico evento seguì un’ulteriore ondata di emigrazione per le popolazioni delle Highlands.
Un altro passaggio significativo, per comprendere la storia del Crofting, è costituito dalla Crofters War (1882-1886) durante la quale i crofters
si ribellarono ai loro proprietari terrieri. Le richieste che essi avanzavano erano semplici ma sostanziali per la loro sopravvivenza: affitti equi,
libertà dallo sfratto e libertà di vendita (compensazione con i miglioramenti apportati)8. Le modalità della battaglia consistevano in incursioni nelle terre, mancato pagamento dell’affitto, costituzioni di gruppi di
rivoltosi sostenuti dalla classe politica9.
Spronato dalle ripetute sommosse e dalle veementi proteste organizzate dai crofters, che coinvolsero anche altri cittadini senza terra, il Go-
7
“ The two decades after 1840 saw a new wave of Clearance in the Highlands, the
focus now changing to the western seaboard and Hebrides. The famine of the mid-1840s
caused social upheaval on a huge scale, and the thinning of the land of its population was
often perceived by landowners as a way of ensuring that financial responsibility for a destitute population would never again fall at their door”, A. G. Newby, op. cit., 10
8
Le richieste vengono tradizionalmente riassunte nelle “3 F”: Fair rent, Freedom from
eviction, Free sale.
9
Al riguardo è stato osservato, sempre in A. G. Newby, op. cit., 28, che “Factors outside the Highlands undoubtedly gave impetus to the Crofters’ War, and these include external agitators; the inevitable shadow of Ireland; the growth of a radical/labour movement which saw the crofters’ struggle very much in symbolic terms; and the growth of a
popular press which allowed isolated and disparate incidences of protest to be portrayed
as part of a broader land movement”.
159
Lorenza Paoloni
verno emanò nel 1886 il Crofters Holdings (Scotland) Act.
Con questo provvedimento il sistema del Crofting venne disciplinato nelle forme giuridiche esistenti al momento e venne così protetto dalle azioni arbitrarie dei proprietari terrieri. La nuova legge introdusse un
sistema con un doppio regime dominicale nel quale il proprietario terriero continuava ad essere titolare del diritto di proprietà sulla terra e percepiva l’affitto; egli, inoltre, manteneva la facoltà di sfratto con breve preavviso ma il complesso di regole inerenti gli affitti e l’arbitrato sugli arretrati fu rimosso ed assegnato al potere di una Land Court designata dal
governo e denominata Crofters Commission. Così, in altri termini, lo Stato, nelle vesti della Crofters Commission, sottrasse ai proprietari terrieri una
parte dei poteri, che erano stati da essi in precedenza legittimamente esercitati come effettivi dominus delle aree agricole interessate.
La legge in esame comportò, così, una radicale revisione dei diritti di proprietà e i proprietari terrieri reagirono di conseguenza, condannando l’attacco su quelli che loro consideravano i principi fondamentali dei diritti di proprietà in Gran Bretagna. Ma quanto la rinomata legge del 1886 aveva effettivamente indebolito i proprietari terrieri delle Highlands?
Si può affermare che il provvedimento non consisteva in una nuova
regolamentazione che andava a sconvolgere completamente il potere dei
proprietari terrieri nelle zone contraddistinte dalla presenza del sistema
del Crofting; infatti, ce ne sono ancora molti di essi e tuttora operativi. Forse il motivo che era dietro a quel fallito tentativo di rinnovare radicalmente l’attribuzione dei poteri sulle terre agricole nelle Highlands poteva rinvenirsi nel fatto che il testo di legge si rivolgeva al possessore di un croft
(non un qualsiasi contadino), e non ai poteri ed ai privilegi dei proprietari terrieri; tale modo di operare del legislatore è stato, peraltro, un modello che si è ripetuto nel corso degli anni a partire dal 1886.
Si trattava , dunque, della gestione del Crofting e dei programmi di
insediamento proposti dal governo, ma la legislazione (fino quasi ai nostri giorni) non si rivolgeva o attaccava segnatamente i diritti di proprietà consolidati, come si è detto. Inoltre, c’è da rilevare che la legge non ha
contributo in modo significativo ad aiutare quei contadini o crofters senza terra, sia in merito alla protezione degli stessi dal rischio di sfratto o
della diffusione del latifondo. Si può affermare che, sebbene sia ancora
considerata una conquista di rilevanza notevole, la legge del 1886 ha complessivamente lasciato molte lacune ed insoddisfazione tra coloro ai quali si rivolgeva.
Ciò che la legge, tuttavia, dimostrò fu che gli sforzi dei crofters nelle mobilitazioni per il cambiamento avevano avuto successo; essi rico160
Il Crofting nello sviluppo di un’agricoltura sostenibile in Scozia
noscevano questa vittoria e l’avrebbero ricordata in futuro.
Dopo la legge fondamentale del 1886, numerosi furono infatti gli
interventi del legislatore fino ai nostri giorni10, interventi sempre stimolati da proteste, irruzioni, dimostrazioni organizzate dalla comunità dei crofters.
Oggi il Crofting, dopo il lungo percorso storico qui rapidamente
descritto, ha assunto una sua specifica fisionomia ed una valenza anche simbolica.
Il Crofting, come si è visto, fu l’esito della triste esperienza dei Clearences; essenzialmente, fu un’invenzione dei proprietari terrieri, che resistette e fu poi protetta con la legge del 1886, giunta fino ai giorni nostri.
La legge fondamentale fu la prima vittoria chiave per le comunità appartenenti al sistema dei Crofting ed il primo controllo imposto
sui diritti di proprietà dei proprietari terrieri. Questa legge fu possibile esclusivamente per merito dell’attivismo delle popolazioni delle
Highlands; esse si mobilitarono, resero pubbliche le loro richieste e motivazioni, che furono affermate e contribuirono a proteggere e migliorare il loro stile di vita.
Sebbene la legislazione statale avesse posto le fondamenta giuridiche che consentivano ai crofters di garantirsi le loro posizioni sulla terra
e il diritto di trasferire i crofts ai propri discendenti, non si riuscì però ad
affrontare praticamente il problema chiave delle Highlands ovvero la penuria di terre, le difficoltà economiche e l’intensa emigrazione avvenuta nel ventesimo secolo. Naturalmente, queste questioni strutturali su ampia scala non potevano rientrare nelle competenze specifiche del legislatore ma forse hanno costituito un utile precedente per l’intervento del
governo nella regione scozzese.
Dopo tutto, se il governo si fosse preparato ad intervenire direttamente sui diritti di proprietà fondiari, si sarebbe costituito un punto di
riferimento per una radicale riforma.
10
Dal Crofters Holdings (Scotland) Act 1886 al Crofters (Scotland) Act 1993, i principi del diritto all’abitazione, del diritto ad un affitto equo e del diritto del crofter al risarcimento per i miglioramenti permanenti non sono cambiati sostanzialmente. Comunque
il Crofting Reform (Scotland) Act 1976 ha attribuito ai crofters un diritto assoluto all’acquisto della casa d’abitazione presente nel croft e un diritto qualificato a negoziare con il proprietario al fine di conseguire un titolo abilitante per il possesso del loro croft. Il 1976 Act
fu anche importante per consentire il decrofting, e abilitare i crofters a condividere il valore di ciascuna terra da loro acquisita ai fini dell’ulteriore sviluppo. Infine, sebbene , la figura dei ’“owner-occupiers”, intesa come proprietari terrieri di crofts liberi, fu creata dalla legge del 1976 , i crofters “owner-occupier” non furono qualificati giuridicamente fino all’emanazione del Crofting Reform (Scotland) Act 2010.
161
Lorenza Paoloni
Con la Crofting Reform (Scotland) Act 201011, vengono nuovamente
affrontate, seppure non risolte definitivamente, alcune delle questioni rilevanti di cui si è fin qui trattato. In primis, si riforma e si rinomina la Crofters Commission, che diventa – come si è visto - la Crofting Commission;
poi si prevede l’istituzione di un nuovo registro dei crofts riguardante sia
la registrazione dei crofts, che dei pascoli comuni e dei terreni coltivati,
secondo la tecnica del runrig12, in esso presenti; si dispone, altresì, in merito ai doveri dei crofters e dei proprietari che occupano i crofts nonché
alle modalità di esecuzione di essi; si apportano ulteriori modifiche alla
legge previgente.
In particolare, è necessario rimarcare che la recente legislazione sul
Crofting detta norme molto dettagliate relative al funzionamento del registro dei crofts e delle altre forme di gestione della terra ammesse nel Crofting, di cui si è fatto cenno; ciò nell’intento di razionalizzare il sistema,
iscrivendo sia i crofts già censiti che quelli non ancora denunciati alle pubbliche autorità. La registrazione è a carico del proprietario della terra ove
è sito il croft, del locatore, del crofter stesso e, laddove il croft sia occupato dal proprietario, dal crofter proprietario-occupante.
Puntuali sono anche le disposizioni che descrivono i compiti assegnati dalla legge ai crofters e alle altre figure titolate ad occupare le terre di uso comune. In particolare, i doveri che incombono sul crofter sono
quelli di coltivare il croft o destinarlo ad altro uso mirato e mantenere la
terra in un buono stato di coltivazione o comunque in buone condizioni se non coltivato. L’obbligo di residenza, nel croft o entro i 32 chilometri dell’ambito poderale, si coniuga con il dovere di non trascurare il croft
anche quando volontariamente e intenzionalmente viene usato per fini
diversi dalla coltivazione che rimane la destinazione principale13. Segna-
11
La presente legge del Parlamento scozzese è stata approvata dal Parlamento il 1
° luglio 2010 e ha ricevuto l’assenso reale il 6 Agosto 2010
12
“Run rig, or runrig, was a system of land occupation practised in northern and western Great Britain, especially Scotland. The name refers to the ridge and furrow pattern characteristic of this system (and some others), with alternating “runs” (furrows) and “rigs” (ridges). In areas where arable farming was abandoned and the land surface remained unchanged, the characteristic corrugated topography of run rig is still visible” (voce di Wikipedia).
13
Ai fini della legge scozzese qui in esame con il termine “coltivare” si intende l’uso
di un croft per l’orticoltura o per qualsiasi scopo di allevamento, tra cui il possesso o l’allevamento di bestiame, pollame o api; la coltivazione di frutta, verdura e simili e l’impianto di alberi e uso della terra come i boschi. Oltre alla coltivazione, il croft può essere usato in modo mirato per finalità, pianificate e gestite, che non minino la struttura del croft;
l’interesse pubblico; gli interessi del detentore della casa o (se diverso) del proprietario;
l’uso del terreno adiacente.
162
Il Crofting nello sviluppo di un’agricoltura sostenibile in Scozia
tamente, un crofter trascura un croft se il bene non è gestito in modo da
soddisfare lo standard di buone condizioni agronomiche e ambientali stabilito dai regimi della Politica agricola comune a meno che, secondo criteri programmati ed adeguatamente organizzati, non svolga un’attività, a fini di conservazione, delle bellezze naturali del luogo, ove è sito il
croft, o della flora e della fauna di quella località.
Norme specifiche, che prendono in considerazione varie casistiche
giuridicamente rilevanti in merito alle modalità di acquisizione del croft,
sono poi destinate a disciplinare la figura di nuovo conio dell’owner-occupier le cui incombenze sono, peraltro, analoghe a quelle del crofter tradizionale ivi compreso l’obbligo di residenza per scongiurare l’accusa di
assenteismo dall’unità poderale.
Nonostante i reiterati tentativi di un legislatore, che ha dato e cerca
di continuare a dare vitalità ad un istituto così antico qual è quello del Crofting, occorre ricordare che la vexata quaestio della riforma terriera non è stata interamente risolta o eliminata, come i recenti sforzi del Parlamento scozzese, declinati in tal senso, hanno purtroppo dimostrato. Sono ancora presenti, infatti, proprietari terrieri di vecchia matrice, difficoltà economiche,
pressioni dei vari gruppi in competizione, dalla lobby ambientale e caritatevole (ora in molti casi, essa stessa proprietaria di beni immobili) alle discussioni sopra le quote di pesca volute dalla Unione europea ma, si ritiene, che nelle attuali condizioni sociali, politiche ed economiche, la riforma
terriera potrebbe essere senz’altro portata a termine.
3. Il quadro normativo vigente
Con il Crofters Act del 1886 i proprietari terrieri vennero privati di
ogni significativo controllo sui crofts in loro possesso e ciò causò una drastica interferenza sia sui singoli diritti di proprietà che sul mercato immobiliare. Nonostante la straordinaria vittoria del Crofting - che avrebbe peraltro inibito per il futuro ogni ulteriore azione di Clearance e di sfratto sulle popolazioni delle terre scozzesi - assicurasse l’esistenza in vita
dell’istituto fino al ventunesimo secolo, la legge varata fu tuttavia condannata dai crofters del tempo. In particolare, essi contestavano che la nuova normativa non li avrebbe ristorati delle perdite di terreni agricoli avvenute a causa dei Clearances. Per questo motivo si susseguirono una serie di manifestazioni, dirette a rivendicare il recupero delle terre perse,
che raggiunsero il loro culmine immediatamente prima e dopo la prima
guerra mondiale.
L’esito di tali dimostrazioni fu un’ulteriore serie di interventi legislativi radicali che, come si è detto, giunsero fino ai nostri giorni.
163
Lorenza Paoloni
Uno dei particolari fenomeni, che si manifestò successivamente al
Crofters Act del 1886, fu quello del c.d. assenteismo dei crofters. Tale fenomeno non esisteva al tempo del varo della prima legge fondamentale in quanto il croft, di norma, comprendeva anche l’abitazione del crofter e dunque rappresentava il luogo di riferimento in cui questi viveva,
abitualmente, con la sua famiglia. Tale fenomeno fu ufficialmente riconosciuto nel 1917 allorché le corti, pronunciandosi sulla base di un precedente giudiziario, interpretarono erroneamente lo Small Landholders Act
del 1911, che aveva integrato e parzialmente sostituito la legge del 1886,
per spiegare che la sicurezza del possesso non poteva essere condizionata dall’occupazione fisica della proprietà terriera di riferimento e quindi si poteva essere considerati possessori di una porzione di terra anche
se non la si occupava effettivamente.
Il problema dell’assenteismo ed altre questioni irrisolte condussero, pertanto, alla riformulazione della allora vigente Crofters Commission,
un organismo dai connotati ormai dissimili da quello originario, che si
occupò di risolvere la controversia in materia di possesso delle terre da
parte degli “assenteisti”, di giudicare riguardo al trasferimento o l’assegnazione dei possedimenti dei crofts, per creare e mantenere un registro
dei crofts e altrimenti prendersi cura del crofting.
Con il Crofting Reform (Scotland) Act del 2010, viene dunque introdotta la Crofting Commission, in sostituzione della preesistente Crofters Commission; essa è entrata solo di recente in funzione, precisamente il 1 ° aprile 2012. Si tratta di un Ente pubblico non dipartimentale (NDPB), svolgente funzioni principalmente consultive, indipendente dal governo, ma
di cui i ministri scozzesi sono in ultima analisi responsabili.
La Commissione è composta da sei Crofting Commissioners eletti da
sei aree geografiche nelle contee dei Crofting e da tre commissari nominati dal governo scozzese. Il presidente (Convener) viene nominato dai
Ministri Scozzesi e scelto tra i nove commissari. La Commissione è supportata da uno staff di circa 54 persone, guidata da un direttore generale (che è nominato dal governo scozzese d’intesa con il Convener della Commissione). La sede centrale della Commissione è in Great Glen House,
nella amena cittadina di Inverness, nel nord della Scozia.
La legge del 2010, una legge molto complessa e che deve essere ancora pienamente testata, rafforza, senz’altro, le funzioni di regolamentazione ed i poteri già assegnati alla Crofting Commission. Nella sua nuova versione, la Commissione dovrà impegnarsi a garantire che i crofts siano occupati dal loro legittimo inquilino o dal crofter owner-occupier, a frenare la
speculazione ma anche ad evitare abusi e l’abbandono della terra in modo
che i crofts vengano lavorati o destinati ad usi specifici e pertinenti.
164
Il Crofting nello sviluppo di un’agricoltura sostenibile in Scozia
Un ulteriore compito assegnato alla Commissione, e prescritto
esplicitamente dal Crofting Reform (Scotland) Act 2010, riguarda la redazione di un piano, da presentare ai Ministri Scozzesi, che definisca
la politica dell’organismo commissariale e formuli le proposte di esercizio delle sue funzioni14.
Le linee guida generali, all’interno delle quali la Crofting Commission
opererà, saranno fondate sulla consapevolezza che i crofts e il sistema del
Crofting sono stati e rimangono una risorsa preziosa e limitata che deve essere salvaguardata e sostenuta anche a vantaggio delle generazioni future. Poiché l’incertezza dell’approvvigionamento di energia, cibo e acqua
diventerà sempre più un problema di rilevanza globale, si ritiene che il sistema del Crofting possa fornire molte risposte a queste sfide crescenti e contribuire al benessere dei soggetti che vi partecipano. L’obiettivo della Commissione è proprio quello di assicurare ancora una lunga vita ai crofts ed
alle persone che li occupano ma anche molti vantaggi a favore della comunità più ampia della Scozia sia in termini di sicurezza alimentare, grazie ai
prodotti provenienti dalle attività di coltivazione e di allevamento svolte
all’interno delle unità poderali, sia con riguardo all’edificazione di un modello virtuoso di sovranità alimentare sull’intero territorio scozzese.
Infine, la Commissione interviene nelle situazioni di decrofting, soprattutto per evitare la deriva speculativa che esso potrebbe ingenerare.
Il decrofting è un processo amministrativo attuato dalla Crofting Commission che ha per effetto di liberare il terreno dalle restrizioni imposte
dalla legge del 1993. La legge prevede che un proprietario di un croft affittato possa chiedere alla Land Court di riprendere il croft ( o una qualsiasi parte di esso compresi i pascoli comuni ) . L’effetto dell’esercizio del
diritto di ripresa è che la terra ritorna nella piena disponibilità del locatore il quale non può più essere costretto dalla Crofting Commission a rilasciare la terra. Ciò consente al proprietario terriero-locatore di dispor-
14
Lo scopo della Commissione, nel pubblicare scelte politiche e procedure nell’ambito del suddetto Piano, è quello di mostrare come si assumano decisioni nei singoli casi
. La legge sul Crofting conferisce, infatti, alla Commissione un certo potere discrezionale.
Il Piano e le politiche della Commissione possono essere soggetti a revisione in seguito alle
decisioni prese nella Scottish Land Court. Il Piano può essere modificato anche attraverso
un’ulteriore consultazione e con l’accordo dei ministri scozzesi. La Commissione si impone, attraverso le sue politiche di settore ed in osservanza delle previsioni normative, di: promuovere la residenza nel croft per evitare l’assenteismo; l’uso mirato dei crofts; la gestione condivisa delle terre comuni; la prevenzione della perdita di crofts e terreni per pascoli comuni; la promozione di buone pratiche; il mantenimento di informazioni accurate, aggiornate e accessibili sui crofts tramite il Registro dei Crofts e il Registro del Crofting; la promozione di rapporti di collaborazione virtuosi tra crofters e proprietari terrieri..
165
Lorenza Paoloni
re della terra libera dagli effetti della legislazione vigente in materia di
Crofting . È anche possibile che la Land Court possa autorizzare un ordine di ripresa temporaneo.
Al riguardo, il Crofting Reform (Scotland) Act 2010 attribuisce alla Commissione nuovi importanti poteri; il che significa che nell’esercizio di tutte le sue funzioni occorre tener conto dell’opportunità di sostenere il mantenimento della popolazione locale in cui il Crofting opera e dell’impatto dei cambiamenti della superficie totale dei terreni detenuti in Crofting
sulla sostenibilità del Crofting stesso. Per quanto riguarda il decrofting, al
momento di decidere se esso sia nel pubblico interesse, la Commissione può prendere in considerazione la sostenibilità delle aree poderali, l’impatto sulla comunità rurale e sull’ambiente ed il paesaggio in quella zona,
così come l’effetto sugli aspetti sociali e culturali associati al sistema del
Crofting . Si può pervenire alla decisione di chiedere un decrofting, anche
se il terreno ha già un permesso di costruire. Compito della Commissione è dunque quello di monitorare e controllare le richieste di decrofting non
essenziali, la vendita di parte di croft, la divisione di crofts in unità insostenibili. La Commissione dovrà evitare di ridurre la perdita di terra per
finalità non essenziali e rallentare, così, la frammentazione del territorio
del croft mirando, in tal modo, alla conservazione della popolazione nelle aree rurali, all’aumento dell’occupazione dei crofts e delle case nei villaggi rurali, alla gestione attiva del territorio, alla disponibilità di crofts ed
all’incremento dell’ accesso ai crofts per i nuovi richiedenti.
4. Attualità e prospettive del Crofting
Dopo aver descritto i profili più significativi di questo importante
e misconosciuto istituto del diritto scozzese, si deve far presente che piuttosto esiguo è stato il numero delle superfici agricole liberamente rese disponibili all’uso di singoli agricoltori che volessero accedervi. Più specificamente, quando trattando del Crofting si menzionano le terre comuni o collettive, si fa riferimento, come si desume anche dalle argomentazioni sopra svolte, alle terre che risultano in gestione collettiva esclusivamente da parte di una determinata comunità residente in una località specificamente individuata e non da singoli individui15.
15
Per un’approfondita indagine, anche storica oltre che giuridica, sulle terre di uso
comune nell’area dell’Inghilterra e del Galles, si rinvia a C. Rodgers, E. A. Straughton, A.
J. L. Winchester, M. Pieraccini, Contested Common Land. Environmental Governance Past and
Present, Earthscan, London, 2011
166
Il Crofting nello sviluppo di un’agricoltura sostenibile in Scozia
Oggi si sta delineando, grazie agli sforzi di gruppi sociali e di movimenti di particolari categorie di soggetti interessati, un nuovo modello di
terre collettive, che è sempre riferito alle comunità locali ma si distingue
da quello storicamente datato essendo indirizzato all’acquisizione della
proprietà e della gestione della terra in modo da apportare maggiori benefici alle comunità stesse, in una logica non di mera sussistenza quanto
di pratiche agricole più redditizie economicamente e sostenibili.
Infatti, negli ultimi anni, un crescente numero di comunità rurali presenti, segnatamente, nelle Highlands e nelle Isole scozzesi sono state direttamente coinvolte nell’acquisizione della proprietà e nella gestione della terra attraverso forme di acquisto, godimento o nuove organizzazioni imprenditoriali.
Si calcola che oltre 94 Community Land Trusts16 , figura assimilabile
alle nostre cooperative, controllano circa 130.242 ettari di terra che costituiscono quasi l’1,98 percento delle aree rurali. Le prime richieste verso questo passaggio dalla proprietà collettiva alla proprietà privata provenivano dalle remote comunità rurali i cui membri erano prevalentemente i possessori di vasti appezzamenti di terra. Essi costituirono organismi collettivi attraverso i quali poterono acquistare la proprietà dei
terreni secondo le regole del libero mercato, preferendo così di essere essi
stessi i proprietari delle terre da loro occupate in precedenza piuttosto
che continuare a dipendere da un altro proprietario terriero.
Sono state diverse e piuttosto rinomate le vicende17 che hanno riguardato gli acquisti operati dalle comunità degli agricoltori e realizzati quando i proprietari terrieri si erano resi responsabili di bancarotta o stavano incorrendo in difficoltà finanziarie e dunque le comunità rurali erano in grado di negoziare con i creditori principali o i curatori fallimentari.
Come si diceva poc’anzi, al fine di acquistare le proprietà terriere, le
comunità locali possono costituire un organismo associativo a base democratica avente un’appropriata forma legale in grado di rappresentare l’intera comunità oppure ricorrono a soggetti collettivi già esistenti. In genere, il modello giuridico più utilizzato è quello della società a responsabilità limitata; a tale soggetto collettivo può essere concessa la qualifica di ente
assistenziale se per il fisco risulta in grado di svolgere una funzione di pubblico interesse. L’organismo collettivo esercita e gestisce i diritti di proprietà in nome della comunità e del bene comune della stessa.
16
A. Wightman, R. Callander, G. Boyd, Common land in Scotland. A Brief Overwiew,
Securing the commons No.8, London, 2003, 13
17
Si ricordano, in particolare, i casi Assynt, Eigg e Knoydart riportati da K. Stewart,
Crofts and Crofting, Mercat Press, Edinburgh, 2005
167
Lorenza Paoloni
Nell’ambito di questo nuovo trend, che caratterizza il sistema delle terre collettive in Scozia, non tutti gli acquisti provengono da una comunità intesa nella sua globalità. Proprio nelle aree dei Crofting, ad esempio, si può verificare che sia il singolo possessore a compiere l’acquisto
del terreno pur in presenza di altri residenti all’interno della comunità
locale (Crofting Trusts) di riferimento18.
Le comunità, nell’alveo di questo moderno paradigma, appaiono
solo come una delle tante e diverse tipologie di proprietario terriero attualmente esistenti fra altre figure simili di soggetti singoli e collettivi che
detengono la terra. Una volta acquisita la proprietà , esse possono godere della sicurezza giuridica e dei diritti che accompagnano la proprietà terriera secondo la legislazione scozzese. Possono, così, alienare la terra quando ritengono opportuno farlo, mentre per gli organismi collettivi aventi lo status di ente senza scopo di lucro ci sono una serie di restrizioni riguardo alla disponibilità dei beni.
Ad oggi continuano gli acquisti delle proprietà immobiliari da parte delle comunità ed aumentano le diverse modalità delle acquisizioni
nel senso che possono riguardare singoli edifici o specifici appezzamenti di terra, anche di piccole dimensioni, ma che sono ritenuti di particolare pregio ed utilità per l’economia dei cittadini locali.
Mentre le terre collettive originarie in Scozia erano vitali e necessarie per la sussistenza agricola ed il soddisfacimento dei bisogni alimentari fondamentali nell’economia rurale del tempo, quando tali beni comuni vennero ampliati, gli acquisti delle nuove comunità risultarono mirati prevalentemente a conseguire un’utilità più ampia. Così, a volte gli
acquisti di nuove terre venivano compiuti perché si correva il rischio di
perdere l’accesso ad alcune risorse importanti, oggi l’acquisto di risorse presenti nelle aree agricole fa parte di una strategia locale mirata allo
sviluppo sostenibile della comunità insediata nel territorio.
E’ utile notare che oltre ai Crofting Trusts, sopra menzionati, le diverse tipologie di comunità che sono state individuate come possibili soggetti proprietari di terre collettive sono di vario genere: le Community Trusts,
le Community Partnerships, i Club Farms & Sheep Stock Clubs 19.
18
Un caso di acquisto di Crofting lands e di creazione di un Crofting “Trust”, con l’illustrazione dei principali passaggi giuridici, si può leggere in The purchase of the CROFTING LANDS
of BORVE and ANNISHADDER, and the creation of BORVE and ANNISHADDER TOWNSHIP
- a CROFTING ‘TRUST’, http://www.caledonia.org.uk/socialland/borve.htm
19
A. Wightman, G. Boyd, Not-for-Profit Landowning Organisations in the Highlands and
Islands of Scotland, Caledonia Centre for Social Development, April 2001; A review of Community Woodlands in Scotland, Reforesting Scotland, May 2003; Scottish Land Fund Approvals
up until January 2003, Scottish Land Fund
168
Il Crofting nello sviluppo di un’agricoltura sostenibile in Scozia
Le singole proprietà acquisite si distinguono, prevalentemente ma
non esclusivamente, in Community facilities, importanti per la vita delle comunità, perché destinate a sala riunioni, uffici o abitazioni economiche e aree verdi da utilizzare per attività sportive o come cimiteri; in
Heritage assets, destinati ad accrescere il senso di identità o di benessere delle comunità locali quali edifici storici o boschi ed aree di particolare amenità; in Economic resources, idonei a soddisfare i bisogni locali, come
negozi, uffici postali, pompa di benzina, pontile, o altre aree che possano generare reddito quali, ad esempio, piantagioni di alberi, commercializzazione diretta di prodotti agricoli (Community Supported Agriculture),
diritti di pesca o parti di un parco eolico.
Tali diversi orientamenti delle comunità locali, emersi da quanto
sopra, sono ora sostenuti dal Land Reform (Scotland) Act del 2003 che consente la presenza di organismi rappresentativi, adeguatamente costituiti, nelle aree rurali e riconosce alle suddette comunità il diritto ad acquistare terre o edifici anche con l’assistenza dello Scottish Land Fund il quale riceve un sostegno economico dalla Lotteria Nazionale.
Un’importante sezione del Land Reform Act riguarda, segnatamente, i terreni comuni destinati al pascolo. La legge consente alle comunità dei Crofting di acquistare questi pascoli comuni dal proprietario senza dover attendere che egli decida di vendere ad un prezzo che rifletta
il valore del pascolo esistente ed i relativi diritti dei crofters sulla terra.
Come risultato si ottiene che i singoli crofters diventano affittuari di un
proprietario che ha rappresentato gli interessi collettivi di tutti i possessori. In aggiunta, i crofters potranno sfruttare, collettivamente, un’ampia
gamma di utilità provenienti dall’uso della terra e dei pascoli comuni in
quantità superiori a quanto avveniva in precedenza, poiché essi avranno conseguito i diritti che, di norma, accompagnano l’acquisizione della proprietà.
La gestione delle aree rurali presenti nel sistema del Crofting, secondo le multiformi modalità sopra illustrate, apporterà benefici nell’uso attivo della terra. In particolare, grazie anche all’impegno della Crofting Commission, si punterà a garantire che le risorse naturali, i pascoli comuni,
i terreni, le recinzioni, le costruzioni ed il drenaggio siano tenuti in buone condizioni per le generazioni future. Un altro obiettivo importante è
quello di aumentare il numero degli affittuari attivi e dei crofters proprietari-occupanti , in modo che cresca la possibilità di condivisione dei compiti agricoli, dei macchinari e delle competenze tra i crofters. Come si è
già detto, il sistema del Crofting è di ausilio al consolidamento della sicurezza alimentare ed al conseguimento della sovranità alimentare nell’intera Scozia ma anche alla riduzione dell’ impronta di carbonio attra169
Lorenza Paoloni
verso la produzione di cibo locale con un’evidente riduzione dei food miles. Anche dal punto di vista ambientale il mantenimento della particolare struttura economica, giuridica e sociale in osservazione, contribuisce alla conservazione ed alla valorizzazione della biodiversità, all’aumento dei sistemi boschivi e forestali, alla tutela del paesaggio per creare un attraente luogo di soggiorno e di interesse culturale, legato alla tradizione ed a modelli condivisi di gestione della terra, sia per i residenti che per i turisti.
In conclusione, la storia della proprietà fondiaria in Scozia ci testimonia che , nonostante la significativa presenza di grandi proprietà private, le piccole tradizionali terre collettive sono riuscite a sopravvivere
e sono ancora importanti per alcune comunità locali20 sebbene la convinzione generale è che esse risultino confinate nei libri di storia.
E proprio contro questo (apparente) statico quadro di riferimento che
i nuovi movimenti, di cui si è trattato, proiettati all’acquisto di terre e costruzioni rurali locali, assumono un particolare significato agli occhi degli osservatori moderni. Tale tendenza segna, difatti, un maggiore sviluppo nella capacità delle comunità presenti nei Crofting ad incontrare i bisogni locali e ad influenzare positivamente il loro futuro e può rappresentare un modello virtuoso da sperimentare alle nostre latitudini ove le comunità locali stanno acquisendo nuova consapevolezza e cercano un maggiore protagonismo nell’uso in comune dei beni essenziali21.
20
“Although partial apportionment is now frequent in Shetland and occasional elsewhere, commons are still very much part of the crofting scene. Despite the modern trend
towards economic individualism, they seem likely to continue so in most of the crofting
area for the future; even if the amalgamation of crofts is achieved, it would still be uneconomic and impractical in most cases to apportion the commons” (J.R. Coull, op. cit., 154)
21
Su questi profili nazionali, tra gli altri N. Lucifero, Proprietà fondiaria e attività agricola. Per una rilettura in chiave moderna, Milano, 2013; P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Roma, 2014; M. R. Marella, (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012; G.
Ricoveri, Beni comuni vs merci, Milano, 2010; G. Viale, Virtù che cambiano il mondo. Partecipazione e conflitto per i beni comuni, Milano, 2013 oltre alla rubrica “Terre civiche e proprietà collettive” presente nella Rivista di Diritto Agrario puntualmente curata, con passione
e sapienza, da Alberto Germanò ove ampi riferimenti bibliografici.
170
FEDERICO PERNAZZA
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa.
Profili di diritto interno ed europeo
SOMMARIO: 1. Modelli di collaborazione imprenditoriale e finalità di internazionalizzazione. - 2. Le politiche di sostegno all’internazionalizzazione ed i consorzi export. 3. I consorzi per l’internazionalizzazione ex lege 7 agosto 2012, n. 134 e le reti d’impresa. - 4. Reti d’impresa ed internazionalizzazione. - 5. Le prospettive di internazionalizzazione nei programmi dei contratti di rete. - 6. La partecipazione di operatori
economici stranieri ad una rete d’impresa. - 7. La partecipazione alle reti d’impresa
di società controllate o di sedi secondarie di imprese estere. - 8. L’attività delle reti all’estero. - 8.1. Le reti con soggettività giuridica. - 8.2. Le reti prive di soggettività giuridica. - 9. Le reti d’impresa e l’ordinamento dell’Unione Europea. - 9.1. Reti d’impresa e GEIE. - 9.2. La politica europea di incentivazione dei clusters. - 9.3 Le reti di imprese nelle più recenti fonti europee e la prospettiva di una Rete Europea di Imprese. - 9.4. Reti d’impresa e diritto europeo della concorrenza. - 10. Conclusioni
1. Modelli di collaborazione imprenditoriale e finalità di internazionalizzazione
Le forme di collaborazione strutturata presenti tradizionalmente nel
tessuto delle imprese italiane, soprattutto tra quelle medio – piccole, si
caratterizzano per una pluralità di finalità.
Senza indugiare nelle molteplici categorizzazioni proposte dalla
scienza economica, possono individuarsi, per quanto di interesse nel presente contributo, diverse forme di collaborazione distinte per finalità, rispettivamente correlate alla produzione, alla promozione ed alla commercializzazione, alla finanza ed all’assicurazione del credito, all’innovazione ed al trasferimento tecnologico.
Anche sul piano strutturale sono presenti vari modelli, in parte elaborati dalla prassi, in parte incentivati da normative intese a favorire, con
trattamenti fiscali agevolati o altri strumenti di promozione, la formazione di relazioni collaborative tra imprese.
Ai più tradizionali modelli consortili, utilizzati in prevalenza con
la finalità di agevolare l’accesso al credito o la difesa dei marchi e delle
produzioni nonché la creazione di reti logistiche e distributive, anche internazionali, si sono affiancate, trovando poi riconoscimento giuridico in
epoca più recente, diverse forme aggregative.
Le aggregazioni correlate alle produzioni in filiera, assai diffuse spe171
Federico Pernazza
cie nel settore manifatturiero, sono state oggetto della legislazione in materia di distretti e di contratti di subfornitura; le aggregazioni correlate
alla partecipazione ad opere o servizi complessi per conto di committenti pubblici sono state regolate attraverso le discipline delle associazioni
temporanee d’impresa o del project financing; le catene distributive monomarca hanno trovato nuove forme di regolazione negoziale attraverso il contratto di franchising nazionale ed internazionale; per le collaborazioni specificamente caratterizzate da elementi di internazionalità in
Italia sono stati introdotti i consorzi per il commercio estero, da ultimo
sostituiti con i consorzi per l’internazionalizzazione, mentre all’interno
del contesto europeo, l’UE ha introdotto il modello del GEIE.
Se tale ultimo modello è caratterizzato da una proiezione internazionale, in primo luogo endocomunitaria, non di meno anche nelle forme aggregative regolate dal legislatore italiano non è preclusa né in termini soggettivi né in termini oggettivi una prospettiva che travalichi i confini nazionali.
Da ultimo, con il contratto di rete di cui alla legge n. 33/2009 e sue
modificazioni è stato introdotto un modello di aggregazione che, in termini finalistici, abbraccia gran parte dei modelli negoziali preesistenti,
poiché lo scopo di accrescere individualmente e collettivamente la capacità innovativa e la competività sul mercato che gli imprenditori possono perseguire con la sottoscrizione di un contratto di rete trova nel programma di rete una determinazione, in termini di obbligazioni delle parti, suscettibile di essere declinata in varie forme e modelli ed orientata
ad attività estremamente varie.1 La collaborazione, infatti, può avere ad
oggetto forme ed ambiti di esercizio delle rispettive imprese, ma anche
consistere nello scambio di informazioni, in prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica, ovvero nell’esercizio in comune di una o più attività rientranti nell’esercizio della propria impresa.
1
Sui contratti di rete gli studi sono ormai numerosi; tra le opere monografiche di carattere giuridico F. CAFAGGI, Reti di imprese tra regolazione e norme sociali, Bologna, 2004; F.
CAFAGGI – P. IAMICELI, Reti di imprese tra crescita e innovazione organizzativa, Bologna, 2007;
F. CAFAGGI (a cura di), Il contratto di rete. Commentario, Bologna, 2009; P. IAMICELI (a cura di),
Le reti di imprese e i contratti di rete, Torino, 2009; F. CAFAGGI – P. IAMICELI – G. MOSCO (a cura
di), Il contratto di rete per la crescita delle imprese, Quaderni di Giur. Comm., Milano, 2012;
con prospettiva multidisciplinare i volumi a cura di A.I.P., Reti d’impresa oltre i distretti, Milano, 2008; ID, Fare reti d’impresa, Milano, 2009; ID. Reti d’impresa: profili giuridici finanziamento e rating, Milano, 2011, e da ultimo A. TUNISINI, G. CAPUANO, T. ARRIGO, R. BERTANI, Contratto di rete. Lo strumento made in Italy per integrare individualità e aggregazione, Franco Angeli, 2013.
172
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
Manca nella delineazione normativa dei potenziali scopi dei contratti di rete lo specifico richiamo ai processi di internazionalizzazione,
ma esso si ricava, in primo luogo, dallo scopo di accrescimento della capacità competitiva sul mercato, termine che non può che essere interpretato riferendosi quantomeno al mercato comune europeo a seguito della caduta delle barriere doganali, tecniche e giuridiche alla circolazione
delle merci e dei servizi nell’UE. Inoltre, nel delineare i poteri di gestione e rappresentanza del soggetto eventualmente prescelto dalle imprese in rete per svolgere l’ufficio di organo comune esplicitamente il comma 4-ter, comma primo, lett. e) dell’art. 3 del d. l. 10.2.2009, n. 5, convertito in legge 3.4.2009, n. 33, enumera, salva diversa disposizione contrattuale, anche il potere di rappresentanza degli imprenditori “nelle procedure inerenti allo sviluppo del sistema imprenditoriale nei processi di internazionalizzazione”.
È dunque pacifico che negli auspici del legislatore il contratto di rete
dovrebbe costituire un modello negoziale destinato ad incrementare tutte le diverse forme di integrazione delle imprese italiane con i mercati esteri e con i loro operatori.
Prima di esaminare nel dettaglio le modalità, gli strumenti ed i limiti con cui il contratto di rete consente di perseguire tale obiettivo, occorre ripercorrere per sommi capi gli istituti preesistenti con tali finalità per compararne le caratteristiche ed evidenziare, ove sussistenti, gli
elementi innovativi dello strumento in esame.
2. Le politiche di sostegno all’internazionalizzazione ed i consorzi export
Le politiche di sostegno all’internazionalizzazione si sono venute
sviluppando in Italia sin dagli anni ’70 secondo la triplice direttrice del
sostegno all’esportazione, del supporto agli investimenti diretti all’estero e dell’attrazione degli investimenti esteri in imprese italiane.
A partire dalle legge Ossola n. 277 del 1977 si è costituito un sistema di agevolazioni pubbliche per il credito all’esportazione orientato prevalentemente alle piccole e medie imprese, che è stato poi integrato da
programmi di sostegno alla penetrazione commerciale finanziati con le
leggi n. 394 del 1981 e n. 304 del 1990. Numerose istituzioni centrali e periferiche sono state coinvolte in tale essenziale aspetto della politica economica del Paese a partire dai Ministeri del Commercio Estero e degli Affari Esteri, dal CIPE, dalla SACE, già articolazione dell’INA e poi divenuta un istituto autonomo con la legge n. 143 del 1998, e dall’ICE, Istituto nazionale per il Commercio Estero, recentemente trasformato in ICE
- Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle im173
Federico Pernazza
prese italiane.2
Agli interventi di copertura dei rischi correlati al commercio internazionale tipicamente effettuati attraverso la SACE, si sono affiancate agevolazioni atte a consentire alle imprese esportatrici di offrire dilazioni di
pagamento e poi finanziamenti per la costituzione di rappresentanze, uffici o filiali di vendita, centri di assistenza ai clienti, magazzini, depositi
e sale espositive, o per sostenere le spese per la partecipazione a gare internazionali. Con l’istituzione della SIMEST S.p.a. ad opera della legge n.
100 del 1990 l’intervento pubblico si arricchisce della possibilità di affiancare le imprese italiane nella acquisizione di imprese extra UE attraverso una compartecipazione temporanea al capitale ed un contributo agli
interessi sul finanziamento assunto per l’acquisizione.3 Gli interventi sin
qui delineati non hanno inciso, se non indirettamente nell’ultimo caso, sulle forme delle relazioni contrattuali o associative con cui le imprese italiane hanno inteso organizzare i rapporti tra di loro o con eventuali partner stranieri nel processo di internazionalizzazione dell’attività.
Un primo intervento in tal senso è invece costituito dalla disciplina dei cosiddetti consorzi per l’esportazione, di cui alla legge 21 febbraio 1989, n. 83.
Il fenomeno dei consorzi per l’esportazione ha largamente preceduto la legge, come attesta l’attività della Federexport, la Federazione Italiana dei Consorzi per l’esportazione, che in seno a Confindustria riunisce dal 1974 i consorzi con tale finalità.4
La legislazione a partire dal 1989 ha però delimitato le finalità, i presupposti soggettivi e le caratteristiche richieste ai consorzi al fine di beneficiare di agevolazioni tributarie e di poter accedere a contributi pubblici.
Con riferimento al perimetro dei destinatari di agevolazioni la legge n. 83 del 1989 prendeva in considerazione i consorzi e le società consortili che svolgessero esclusivamente attività di esportazione di prodot-
2
Per una critica alla legislazione in materia di sostegno all’internazionalizzazione
delle imprese dovuto allo scarso coordinamento normativo ed istituzionale cfr. C. DE CESARE, Il D. Lgs. n. 143/98: nuove regole per il sostegno all’internazionalizzazione del sistema imprenditoriale italiano, in “Dir. comm. internazionale”, 1998, pag. 941 ss.
3
I servizi della SIMEST includono la ricerca di opportunità all’estero e l’individuazione di potenziali soci nonché il finanziamento per la realizzazione di studi di fattibilità ed assistenza tecnica. Un intervento analogo in favore, inizialmente, delle imprese aventi stabile
e prevalente organizzazione nel Veneto, Friuli-Venezia Giulia e nel Trentino Alto Adige in
relazione all’acquisizione di quote di partecipazione nel capitale di rischio di imprese miste
nei Paesi dell’Europa Centrale, dei Balcani e dell’Unione Sovietica è stato previsto con la legge n. 19 del 1991, poi modificata con il D. Lgs. 143 del 1998.
4
Cfr. www.federexport.confindustria.it
174
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
ti delle imprese consorziate e le correlate attività promozionali, con la mera
facoltà di importazione di materie prime e semilavorati finalizzati a tali
produzioni. Il supporto all’internazionalizzazione era dunque concentrato sul potenziamento della rete distributiva, sulla promozione dei prodotti, sulle attività finalizzate alla vendita di beni all’estero ed eventualmente di servizi correlati, senza prendere in considerazione forme di collaborazione con imprese ed operatori economici stranieri diverse da quelle a ciò finalizzate.
I consorzi che intendevano beneficiare delle agevolazioni dovevano presentare requisiti soggettivi assai vincolanti: dovevano essere costituiti da piccole e medie imprese italiane operanti nei settori dell’industria, del commercio, dei trasporti e dei servizi (con esclusione delle attività bancarie ed assicurative) o da imprese artigiane ex lege n. 443 del
1985. Vi era dunque una triplice limitazione soggettiva: non erano ammesse imprese straniere; erano escluse attività agricole, finanziarie ed assicurative; potevano consorziarsi soltanto imprese piccole o medie ex lege
n. 675 del 1977.
Infine, erano richiesti ulteriori requisiti che contribuivano a delimitare ulteriormente l’ambito di intervento delle agevolazioni. In primo luogo, era richiesto un minimo di cinque o otto imprese a seconda della natura o della collocazione geografica, ma i contributi erano concessi in misura progressivamente più rilevante se i consorzi riunivano almeno venticinque o settantacinque imprese.
In secondo luogo, era richiesto un capitale minimo pari a quello delle società di capitali per le società consortili e le imprese socie erano tenute a versare individualmente un fondo minimo, ma anche a non superare la percentuale del 20% del capitale o del fondo.
Da ultimo, gli eventuali avanzi di esercizio non erano distribuibili neppure in caso di scioglimento o recesso.
Nel complesso i benefici, costituiti principalmente dall’esenzione dalle
imposte dirette sugli avanzi di gestione destinati al fondo indivisibile e
dai contributi in misura variabile dal 40% al 70% delle spese di gestione, erano ottenibili soltanto a fronte del rispetto di condizioni assai rigide e tali da limitare significativamente l’ambito di applicazione della disciplina rispetto sia alle caratteristiche soggettive delle imprese potenziali beneficiarie sia alle finalità delle organizzazioni consortili da esse costituite.
È comprensibile quindi che, una volta che la prospettiva dell’internazionalizzazione si è aperta ad interventi ulteriori rispetto alla mera promozione delle esportazioni, lo strumento dei consorzi ex lege n. 83 del
1989 sia apparso obsoleto e sia stato quindi abrogato.
175
Federico Pernazza
3. I consorzi per l’internazionalizzazione ex lege 7 agosto 2012, n. 134 e
le reti d’impresa
Nel quadro del Decreto Sviluppo di cui al d.l. 22 giugno 2012, n. 83,
convertito con legge 7 agosto 2012, n. 134, sono significativamente presenti due misure di segno opposto attinenti ai consorzi per l’internazionalizzazione.
L’art. 23, al settimo comma, per un verso, abroga la legge n. 83 del
1989, facendo così venir meno le agevolazioni già previste per i consorzi per l’esportazione, come delineati in quella normativa. Di fatto quindi tale figura giuridica, creata in funzione della fruizione delle descritte agevolazioni all’esportazione, ha perduto di pratica importanza, ma
i consorzi già costituiti sono stati abilitati a fruire delle agevolazioni le
cui procedure di attribuzione erano in corso al momento dell’abrogazione e possono eventualmente essere riqualificati, ove ne ricorrano i presupposti, quali “consorzi per l’internazionalizzazione”.
Con l’art. 42 del decreto, infatti, per altro verso, si istituiscono agevolazioni strutturalmente similari a quelle già riconosciute ai consorzi per
l’esportazione in favore di una nuova figura consortile denominata “consorzi per l’internazionalizzazione”.5 Come emerge dalla diversa denominazione, le attività della nuova figura consortile sono più ampie ed abbracciano, oltre alla diffusione internazionale dei prodotti e dei servizi delle piccole e medie imprese italiane e all’importazione di materie prime e
di semilavorati - attività già proprie dei consorzi per l’esportazione - anche la formazione finalizzata all’internazionalizzazione, la tutela della qualità e quella dei prodotti e dei servizi attraverso i marchi sui mercati esteri nonché il supporto alle imprese anche attraverso l’attivazione di collaborazioni e partenariati con imprese estere. Per ciò che concerne l’attività dei consorzi, questi ultimi profili appaiono i più rilevanti. Infatti, i nuovi consorzi per l’internazionalizzazione, pur essendo costituiti esclusivamente da imprese italiane, non sono deputati soltanto, come i consorzi per
l’esportazione, a favorirne lo sviluppo nei mercati esteri in termini di distribuzione di prodotti e di acquisizione di quote di mercato, ma sono chiamati anche ad implementare progetti di internazionalizzazione che coinvolgano, anche attraverso contratti di rete, imprese piccole e medie, anche non consorziate, e ad attivare ogni forma di collaborazione e partenariato con imprese straniere utile al raggiungimento dello scopo della
diffusione dei prodotti e dei servizi del Made in Italy.
5
I requisiti soggettivi, i criteri e le modalità per la concessione dei contributi sono stati poi precisati con il Decreto del Ministro dello Sviluppo Economico del 22 novembre 2012.
176
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
Occorre poi considerare che nei consorzi per l’internazionalizzazione possono partecipare piccole e medie imprese turistiche, di servizi ed
agroalimentari, oltre alle imprese industriali, artigiane e commerciali, purché aventi sede in Italia. Risultano quindi superate alcune delle limitazioni soggettive di cui alla legge n. 83 del 1989. Peraltro è stata opportunamente consentita la partecipazione anche di enti pubblici e privati,
di banche e di grandi imprese, purché non beneficino di agevolazioni.
Si è così contemperata l’opportunità di rafforzare i consorzi attraverso
l’apporto finanziario, tecnico e di know how di imprese di maggiori dimensioni o di strutture pubbliche, con i limiti imposti alle agevolazioni
derivanti dal Regolamento CE n. 1998/2006, ora sostituito dal Regolamento (UE) n. 1407/2013, sui cosiddetti aiuti “de minimis”, che consente il sostegno delle piccole e medie imprese in deroga al divieto degli aiuti di stato.
Inoltre, la regolazione dei consorzi per l’internazionalizzazione non
fa richiamo ad un numero minimo di consorziati, a criteri di riparto delle quote, né ad importi minimi per il capitale, per il fondo consortile o per
le singole quote dei consorziati, rinviando opportunamente alla disciplina generale senza creare inutili ostacoli alla fruizione delle agevolazioni.
È quindi logico ritenere che i consorzi per l’esportazione già costituiti presentino i requisiti richiesti per i nuovi “consorzi per l’internazionalizzazione” e, previa eventuale modifica in termini estensivi del proprio oggetto, potranno essere qualificati come tali, accedendo così al relativo status e beneficiando delle correlate agevolazioni fiscali e pubbliche contribuzioni.6
Interessante è infine il prospettato coordinamento tra i due istituti
più recentemente introdotti nel sistema di promozione delle collaborazioni tra imprese, ovvero, da un lato, la nuova figura soggettiva dei consorzi per l’internazionalizzazione, che risultano potenziati rispetto alle
forme consortili incentivate in precedenza, per l’apertura a nuove tipologie di imprese e di attività, e, dall’altro, i contratti di rete, quale strumento di coinvolgimento in forme di collaborazione e partenariato a più
6
Queste ultime sono peraltro semplificate con la previsione di una sola aliquota (50%)
riferita opportunamente soltanto alle spese per l’attività specifica dei programmi di internazionalizzazione e non più complessivamente alle spese sostenute dagli ormai aboliti consorzi per l’esportazione. Ciò è tanto più logico e necessario in quanto le attività volte a promuovere l’internazionalizzazione non sono più previste come esclusive e non è dunque più
ammissibile un meccanismo di sussidi correlati alla complessiva attività del soggetto, dovendosi invece concentrare su quelle proprie dei programmi di supporto all’internazionalizzazione. E’ anche prevedibile che tale modifica del criterio di determinazione dei contributi risulti più trasparente ed eviti il rischio di finanziare organizzazioni poco efficienti.
177
Federico Pernazza
ampio spettro di imprese non consorziate sia italiane sia straniere.
S’impone quindi ormai l’analisi delle prospettive che, con il coinvolgimento o meno di consorzi per l’internazionalizzazione, il contratto di rete offre per la promozione di collaborazioni internazionali delle
imprese italiane.
4. Reti d’impresa ed internazionalizzazione
Tra gli strumenti normativi più recenti che vengono evocati per favorire l’internazionalizzazione delle PMI figura anche il contratto di rete.
A ben vedere, però, ad una superficiale analisi del complesso di norme
che si sono venute succedendo e che sono ora vigenti in tema di contratti di rete il richiamo alle finalità dell’internazionalizzazione non è esplicito. Come noto, l’art. 3, comma 4-ter del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, come
convertito dalla legge 9 aprile 2009, n. 33 e successivamente modificato,
da ultimo dal d.l. 18 ottobre 2012 n. 179, convertito con legge n. 17 dicembre 2012, n. 221, lo scopo che due o più imprenditori possono perseguire con il contratto di rete è quello di “accrescere, individualmente e collettivamente la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato”
senza alcuna specificazione circa la dimensione locale, regionale, nazionale o internazionale di quest’ultimo. Né può derivarsi una specifica vocazione del contratto di rete al sostegno dell’internazionalizzazione dell’attività dai potenziali contenuti del programma di rete delineato dalla
stessa norma secondo, peraltro assai generici, modelli della collaborazione “in forme o in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese” ovvero dello scambio di “informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica” ovvero ancora dell’esercizio “in comune di una o più attività rientranti nell’esercizio della propria impresa”.
Un richiamo esplicito in tal senso è tuttavia presente nello stesso comma 4-ter nel terzo paragrafo alla lettera c), laddove nell’enumerazione dei
poteri di rappresentanza dell’organo comune rispetto alla rete, quando
dotato di soggettività giuridica, o rispetto agli aderenti, in caso contrario, si indicano anche “le procedure inerenti allo sviluppo del sistema imprenditoriale nei processi di internazionalizzazione e di innovazione previsti dall’ordinamento”.
Tuttavia, se ci si dovesse basare esclusivamente su tale richiamo normativo per delineare le potenzialità del contratto di rete rispetto ai processi di internazionalizzazione delle imprese, i risultati sarebbero certo
assai modesti.
In realtà, l’intera normativa va letta in una diversa prospettiva.
In primo luogo, la stessa distinzione tra mercato nazionale e mer178
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
cati esteri, anche nella ristretta ottica dell’esportazione dei beni e di servizi, è venuta perdendo di significato. Nell’ambito comunitario la creazione del mercato unico rende giuridicamente irrilevante la distinzione tra il
mercato nazionale e quello europeo, pur persistendo, di fatto, difficoltà di
natura dimensionale, logistica, linguistica che possono rendere più difficile la distribuzione di beni e servizi in altri Paesi dell’U.E. Anche in un contesto più ampio, la progressiva adesione al WTO di sempre più numerosi ed importanti Paesi, l’incremento degli strumenti di scambio di informazioni e dei collegamenti transnazionali, lo sviluppo di grandi e popolose aree del globo, hanno consentito un accrescimento in misura esponenziale dell’interscambio di beni e servizi ed impongono un ripensamento
radicale dell’internazionalizzazione delle imprese italiane, anche delle PMI.
Ciò implica, però, una nuova e più ampia visione dello stesso processo di
internazionalizzazione, che non deve essere concepito soltanto nella forma del collocamento all’estero di prodotti e servizi.
In tale prospettiva tutti i profili dell’attività di impresa sono suscettibili di internazionalizzazione e possono trovare supporto e stimolo dall’integrazione tra operatori di diversi Paesi e mercati. In quest’ottica, lo
scopo del contratto di rete di “accrescere, individualmente e collettivamente, le capacità innovative e la competitività nel mercato degli aderenti” passa
necessariamente attraverso processi di integrazione transnazionale.
Conseguentemente tutti i potenziali contenuti dei programmi di rete debbono essere letti anche in prospettiva transnazionale, dalla collaborazione “in forma ed ambiti predeterminati attinenti all’esercizio dell’impresa” allo
“scambio di informazioni e prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica e tecnologica”, fino all’esercizio “in comune di una o più attività imprenditoriali”. Pertanto appare limitativo valutare l’internazionalizzazione quale aspetto del programma di rete contrapponendolo ad altri profili dell’attività.7 Lo
svolgimento di attività in Paesi diversi dall’Italia ovvero la partecipazione
alla rete di soggetti stranieri deve essere esaminato rispetto a tutte le forme di collaborazione imprenditoriale, da quella connessa alla creazione del
progetto imprenditoriale, al suo finanziamento, al suo sviluppo tecnico, even7
L’ambito operativo dell’Internazionalizzazione viene contrapposto a quelli delle Promozioni commerciali, della R&S - Ideazione e progettazione e della Creazione di un marchio collettivo nelle analisi effettuate nella ricerca coordinata da Fabrizio Cafaggi e Gian Domenico Mosco per la Fondazione Bruno Visentini nell’ambito del Laboratorio sulle reti diretto da Fabrizio Cafaggi e promossa da ReImpresa –Confindustria e da Unioncamere, che
si legge in F. CAFAGGI – P. IAMICELI – G. D. MOSCO, Prime evidenze sui contratti di rete (20102011), in F. CAFAGGI – P. IAMICELI – G. D. MOSCO, Il contratto di rete per la crescita delle imprese, cit., p. XXV, tab. 10. Correttamente si evidenzia, però, che si tratta di “ambiti operativi” coesistenti.
179
Federico Pernazza
tualmente previa una fase di R&S, alla realizzazione del servizio o degli impianti di produzione ed alla loro attivazione, fino alla promozione, commercializzazione e distribuzione dei beni o dei servizi.
Il contratto di rete si colloca dunque nell’ambito di quelle forme negoziali, di scambio o associative, emerse nella prassi internazionale (Joint
Venture) o dalla legislazione comunitaria (GEIE, Società Europea), che si
prospettano quando due o più operatori economici situati in Paesi diversi intendano formalizzare un proprio rapporto di collaborazione.
Occorrerà quindi valutarne le caratteristiche anche comparativamente con gli strumenti giuridici potenzialmente concorrenti.
5. Le prospettive di internazionalizzazione nei programmi dei contratti di rete
La proiezione internazionale del contratto di rete è stata sicuramente già colta dalle imprese che hanno registrato accordi di tale natura, ma
probabilmente ancora non in tutte le potenzialità, peraltro accresciute dalle più recenti modifiche normative.
Da uno studio commissionato dalla Fondazione Bruno Visentini
emerge che dei 214 contratti di rete censiti da Unioncamere fino al 5 dicembre 2011 ben 126 presentavano tra gli ambiti operativi del programma di rete quello della internazionalizzazione.8 Dai dati offerti da tale importante studio emerge, da un lato, come in oltre la metà dei casi le imprese aderenti abbiano colto nella rete uno strumento per favorire l’internazionalizzazione dell’attività ma, dall’altro, non si evince rispetto a
quale ambito di attività (R&S, finanziamento, produzione, promozione,
distribuzione o altro) tale prospettiva sia stata inserita nel programma
né se sia stata poi effettivamente implementata.
Di notevole interesse è anche l’analisi dei risultati pubblicati dall’Osservatorio sui contratti di rete del Dipartimento per l’Impresa e l’Internazionalizzazione del Ministero dello Sviluppo Economico.9 Ne risulta
8
F. CAFAGGI – P. IAMICELI – G. D. MOSCO, Prime evidenze sui contratti di rete (2010-2011),
op. cit., p. XXV, tab. 10.
9
Ministero dello Sviluppo Economico-Osservatorio nei contratti di rete, Indagine qualitativa sui contratti di rete: primi risultati, 23 luglio 2012, in www.sviluppoeconomico.gov.it.
Lo studio è stato condotto sottoponendo questionari ad un campione di più di 300 imprese appartenenti a 159 contratti di rete sulle circa 2100 imprese aderenti ai 412 che risultavano registrati a tutto giugno 2012. L’Osservatorio fornisce anche dati più recenti, ma di
carattere soltanto quantitativo e quindi non utili per acquisire gli elementi di valutazione
rilevanti ai fini in discorso.
180
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
che tra gli obiettivi del contratto figura l’aumento della capacità di penetrazione sui mercati europei ovvero nei mercati extraeuropei rispettivamente per il 50.7% e per il 42.4% delle imprese intervistate.
Sebbene tali dati siano inferiori a quelli relativi al mercato italiano,
che evidentemente resta quello di riferimento (63.8% delle imprese intervistate), essi attestano la consapevolezza delle imprese aderenti alle
reti di tali potenzialità del contratto, tanto più che, secondo i dati emergenti dallo stesso studio, il 59.2% delle imprese dichiara di non far parte di altre forme di aggregazione, mentre il 19.7% aderisce già ad un ATI
ed il 16.4% ad un Consorzio con attività esterna.
In termini di performances, dopo almeno un anno dall’adesione al contratto di rete è significativo che il 21.8% delle imprese attribuisca alla rete
l’incremento delle esportazioni ed il 38.5% l’aumento del fatturato; dati
ancora migliori emergono dalle previsioni di evoluzione delle imprese
che hanno aderito da meno di un anno a contratti di rete (25.2% prevedono aumenti delle esportazioni, 42.5% aumenti del fatturato).
I dati sopra rappresentati che emergono dall’utilizzazione di contratti di rete nel breve periodo dei primi due anni dalla loro istituzione
e prima delle recenti evoluzioni normative che hanno implementato l’istituto, sono certamente confortanti anche rispetto al processo di internazionalizzazione delle imprese aderenti, ma, se ben letti, mostrano come
essi possano essere ulteriormente interpretati.
Per comprendere, in effetti, in che forma ed in che misura un’impresa internazionalizzi la propria attività non ci si deve limitare a considerare l’entità delle esportazioni e le relative percentuali sul fatturato.
Occorre, invece, valutare se e come in tutti i segmenti dell’attività imprenditoriale, dallo sviluppo del progetto ed alle correlate ricerche tecnicoscientifiche e/o commerciali al finanziamento, alla produzione dei beni
e/o servizi fino alla loro promozione e distribuzione siano state colte le
opportunità offerte dai mercati esteri e si sia giunti ad una efficiente integrazione di componenti nazionali e straniere.
Ciò richiede, in primo luogo, relazioni stabili e durevoli. Sotto tale
profilo soltanto una parte dei contratti di rete registrati presenta caratteristiche adeguate.10
10
Secondo il citato studio della Fondazione Bruno Visentini (FBV) soltanto il 36.92%
dei contratti avrebbe durata superiore ai 10 anni, il 31.78% tra i 5 ed i 10 anni, il 28.97% inferiore ai 5 anni; i dati che emergono dall’Osservatorio del MISE sono ancora più netti: il 31.2%
la durata superiore a 10 anni, il 16.1% da 5 a 10 anni ed il 32.69% fino a 5 anni. Peraltro, la stabilità del rapporto è potenzialmente minata dalla previsione del diritto al recesso sine causa
nella grande maggioranza dei casi (184 contratti su 214, secondo lo studio FBV).
181
Federico Pernazza
Inoltre, per comprendere che tipo di rapporti internazionali le imprese in rete abbiano inteso sinora avviare non possono non tenersi in considerazione i dati relativi agli investimenti operati anche attraverso il fondo comune ed alla natura dei partecipanti alla rete. Lo studio dell’Osservatorio del MISE dà conto del fatto che le imprese che hanno aderito da
oltre un anno a contratti di rete riferiscono nel 33.3% dei casi che ciò avrebbe condotto ad un incremento degli investimenti e la percentuale è anche più alta (42.5%) se si considerano le previsioni delle imprese che hanno aderito da meno di un anno a contratti di rete.
Tali investimenti, però, non vengono convogliati nel fondo comune
della rete se non in misura esigua, tanto è vero che sulla base dei dati dello studio della FBV emerge che nel 29.8% dei casi il fondo comune sarebbe inferiore ad € 5.000, nel 39.8% tra € 5.000 ed € 50.000, nel 6.3% tra € 50.000
ed € 300.000 e soltanto nel 12% superiore ad € 300.000.11 L’entità ordinariamente esigua del fondo comune dimostra indirettamente che il processo di internazionalizzazione che si pensa di attivare attraverso il contratto di rete è circoscritto e presumibilmente si limita ad attività di promozione e di supporto alla distribuzione; certamente non si concreta in altra attività di sviluppo tecnico-scientifico, produttivo, in investimenti diretti all’estero o in altre attività che richiedano fondi di qualche entità.
L’altro dato che emerge chiarissimo dai contratti registrati nel primo biennio attiene alla natura dei partecipanti. Dallo studio della FBV
emerge che dei 1735 soggetti partecipanti alle reti esaminate quasi il 70%
sono società di capitali, in prevalenza s.r.l., ed in minor misura società
di persone (224), imprese individuali (189) società cooperative (95) e fondazioni (2), ma non vi figurano imprese, società, o altri soggetti giuridici non registrati in Italia.12 Dati analoghi emergono dall’analisi quantitativa dell’Osservatorio sulle reti del 1 marzo 2014 in base al quale delle 7.010 imprese aderenti ai 1414 contratti di rete stipulati, 4.613 riguardano imprese costituite sotto forma di società di capitali (3.943 S.r.l., 670
S.p.a.), 955 società di persone, 801 imprese individuali, 521 società cooperative, 120 altre forme di società, ma non vengono segnalate ancora società o imprese straniere.13
È evidentemente difficile immaginare che un profondo processo di
11
F. CAFAGGI – P. IAMICELI – G. D. MOSCO, Prime evidenze sui contratti di rete (2010-2011),
op. cit., p. XVIII, tab. 1.
12
F. CAFAGGI – P. IAMICELI – G. D. MOSCO, Prime evidenze sui contratti di rete (2010-2011),
op. cit., p. XXV, tab. 10.
13
Osservatorio dei contratti di rete. Analisi aggiornata dei dati al 1 marzo 2014, p.
5 in www.sviluppoeconomico.gov.it
182
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
integrazione internazionale del tessuto imprenditoriale italiano possa essere compiuto mediante contratti o rapporti negoziali limitati esclusivamente ad imprese registrate in Italia. E’ necessario comprendere allora
se tale fenomeno derivi da una precisa scelta delle imprese aderenti alle
reti, da vincoli normativi o da altri elementi che ostacolino di fatto l’integrazione nelle reti di operatori stranieri.
La prima ipotesi appare poco credibile ed è confutata dal citato
studio dell’Osservatorio sulle reti del MISE secondo il quale tra gli auspici maggiormente diffusi tra le imprese aderenti alle reti (39.1%) vi
sarebbe quello dell’apertura delle reti stesse ad imprese od operatori
economici stranieri. Tale importante indicazione sulla prospettiva dell’internazionalizzazione delle reti d’impresa impone di verificare
quali siano gli eventuali ostacoli alla partecipazione di operatori economici stranieri ad una rete.
6. La partecipazione di operatori economici stranieri ad una rete d’impresa
La definizione normativa del contratto di rete non prevede vincoli di nazionalità alla partecipazione. Come noto, il comma 4-ter dell’art.
3 del d.l. n. 5 del 2009 si limita a caratterizzare soggettivamente i partecipanti alla rete facendo riferimento alla qualifica di “imprenditori”. Per
la verità, in base al mero incipit della norma, anche tale limitazione soggettiva potrebbe essere messa in discussione, ove si ipotizzasse che il contratto di rete necessiti la presenza di due o più imprenditori, ma non perciò escluda che, verificatasi tale condizione, possano partecipare anche
soggetti diversamente qualificabili.
È piuttosto dallo scopo del contratto, ovvero dalla sua causa giuridica, che emerge la logica delimitazione soggettiva dei partecipanti a coloro che siano qualificabili come imprenditori.14 Infatti, lo scopo di accrescere la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato, o ancor di più, i mezzi attraverso i quali il contratto di rete si propone di contribuire al predetto scopo (collaborazione in forme ed ambiti predeterminati di impresa, scambio di informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica, esercizio in comune di una o più attività rientranti nell’oggetto dell’impresa), sono propri
ed esclusivi degli imprenditori nel senso proprio delineato nell’ordina-
14
In tal senso F. CAFAGGI, Il contratto di rete e il diritto dei contratti, in Contratti, 2009,
p.920 e M. MALTONI - P. SPADA, Il contratto di rete, Studio n. 1-2011/1 per il Consiglio Nazionale del Notariato, p. 4 in www.notariato.it
183
Federico Pernazza
mento italiano dagli artt. 2082 e seguenti del codice civile.15
La circostanza che tali norme, e più in generale lo statuto dell’imprenditore delineato dall’ordinamento italiano, non siano logicamente applicabili ad operatori economici soggetti all’ordinamento di altri Stati, non è
motivo ragionevole per vietare loro la possibilità di aderire ad un contratto di rete quando abbiano caratteristiche soggettive coerenti con lo scopo
tipico, ovvero normativamente definito, di tale forma negoziale.
In altri termini nella valutazione circa la possibilità per un operatore economico straniero, sia esso persona fisica o giuridica, di aderire
ad un contratto di rete non si dovrà verificare se esso sia soggetto alla disciplina di cui agli artt. 2082 e seguenti c.c., che evidentemente non gli
sono applicabili, ma se ricorrano i presupposti soggettivi che, se operasse in Italia, condurrebbero alla sua qualificazione come imprenditore.
Tale operazione di qualificazione di operatori economici stranieri
quali imprenditori ai fini dell’adesione ad un contratto di rete non è sempre agevole.
E’ noto, infatti, che anche in ambito europeo lo stesso concetto di
impresa assume significati e delimitazioni diverse, mentre sono piuttosto rari gli ordinamenti che hanno costruito uno statuto giuridico intorno ad una figura soggettiva assimilabile a quella dell’imprenditore secondo i connotati di cui al codice civile italiano.
A livello comunitario, in particolare, il concetto di impresa, e di conseguenza le caratteristiche di coloro che ne sono soggettivamente i potenziali titolari, si è venuto costruendo in base al diritto della concorrenza ed abbraccia quindi figure soggettive (professionisti, enti pubblici, gruppi), cui tradizionalmente non si applica in Italia lo statuto dell’imprenditore e che quindi non potrebbero essere ammesse quali aderenti ad una
rete d’impresa.16
Non potendo quindi fare riferimento ad una definizione comunitaria di imprenditore coerente con quella nazionale, il notaio chiamato
15
Di qui la riconduzione pacifica in dottrina del contratto di rete a forme di collaborazione inter-imprenditoriale e per alcuni la qualificazione dello stesso come un sottotipo del contratto di consorzio: cfr. D. CORAPI, Dal consorzio al contratto di rete: spunti di riflessione, p. 167 ss, specie a p. 173, in P. IAMICELI, Le reti di imprese e i contratti di rete, cit.
16
Per una ricostruzione complessiva dell’istituto cfr. M. LIBERTINI – S. MAZZAMUTO,
L’impresa e la società in C. CASTRONOVO – S. MAZZAMUTO (a cura di), Manuale di diritto privato europeo, Milano, 2007, III, p. 3 ss.; D. CORAPI – B. DE DONNO, L’impresa in A. TIZZANO
(a cura di), Diritto Privato dell’Unione Europea, Torino, 2° ed., 2006, II p. 1197; M. VENEZIA,
La nozione comunitaria di impresa, in M. CASSOTTANA – A. NUZZO (a cura di), Lezioni di Diritto Commerciale Europeo, Torino, 2006, p. 267; L. DI VIA, L’impresa in N. LIPARI (a cura di), Diritto Privato Europeo, Padova, 2003, II, p. 54.
184
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
a redigere l’atto17 con cui si dà vita al contratto di rete o ad una sua modifica per l’adesione di nuova impresa dovrà effettuare una non agevole verifica dell’attività svolta dall’operatore economico straniero al fine
di accertare se sia riconducibile a quelle di cui all’art. 2082 c.c. Laddove
si tratti di società o altri enti dotati di uno statuto depositato presso un
pubblico registro sarà possibile effettuare una verifica di quanto riferito in tali documenti; analogamente, per le persone fisiche o giuridiche
che svolgano attività che richiedano l’iscrizione in appositi registri, si potrà fare riferimento a quanto dichiarato a tali fini. In mancanza, potrebbe richiedersi un’autocertificazione o una dichiarazione espressa da parte del titolare e del legale rappresentante dell’ente avente ad oggetto l’attestazione dello svolgimento di attività qualificabili come imprenditoriali ex art. 2082 c.c..
Non sarebbe giustificato, invece, escludere la partecipazione a contratti di rete di persone fisiche o giuridiche per il solo fatto che esse siano assoggettate ad un ordinamento straniero e quindi non iscritte ad un
registro delle imprese in Italia. Tale discriminazione per ragioni di nazionalità, oltre che contrastante con i principi generali del nostro ordinamento e di quello comunitario, sarebbe logicamente contraddittoria con la finalità di internazionalizzazione delle reti d’impresa che trova nella partecipazione diretta di imprese straniere uno strumento fondamentale d’implementazione.
L’affermazione di principio che imprese soggette ad ordinamenti giuridici stranieri possano aderire ad un contratto di rete non può far sottacere, tuttavia, alcune problematiche.
Ai sensi del comma 4-quater dell’art. 3 del d.l. n. 5 del 2009 il contratto di rete e le sue modificazioni sono soggetti a pubblicità attraverso
i registri delle imprese ed anzi inizialmente l’efficacia del contratto era sempre subordinata all’intervenuta iscrizione presso tutti i registri delle imprese aderenti. A seguito della modifiche apportate dalla recente legislazione che ha previsto espressamente la possibilità che le reti dotate di fondo comune acquisiscano soggettività giuridica,18 in tale ultimo caso l’iscrizione viene effettuata presso il registro delle imprese ove la rete ha sede.
Resta comunque l’obbligo della registrazione quale condizione di
17
Ai sensi dell’art. 4-ter, comma secondo, secondo paragrafo prevede la sottoscrizione del contratto di rete per atto pubblico, scrittura privata autenticata ovvero per atto
firmato digitalmente a norma degli artt. 24 o 25 del d.lgs. n. 82 del 2005; è ipotizzabile quindi che non intervenga sempre un controllo notarile di legittimità.
18
Le modifiche sono intervenute con l’articolo 45, comma 2, del d.l. 22 giugno 2012
n. 83, decreto convertito, con modificazioni, con legge 7 agosto 2012, n. 134.
185
Federico Pernazza
“efficacia” per le reti non soggettivate.
Tale pubblicità è posta a tutela dei terzi rilevando ai fini della conoscenza e se del caso della opponibilità dei poteri degli organi, della individuazione della sede, della esistenza di un fondo, della situazione patrimoniale aggiornata e, per quanto di rilevanza, delle regole interne di
funzionamento.19
L’applicazione di tale disciplina a soggetti stranieri appare tuttavia
oggettivamente ardua. In primo luogo, poiché non è detto che tutti i soggetti stranieri che svolgano attività qualificabili come imprenditoriali ai
sensi dell’art. 2082 c.c. siano iscritti in pubblici registri con le funzioni e
le caratteristiche proprie dei registri delle imprese italiani. In secondo luogo, è presumibile che, laddove siano presenti pubblici registri, questi, come
in Italia, siano soggetti ad un principio di tipicità degli atti soggetti a deposito e pubblicazione. Pertanto, rispetto ai contratti di rete stipulati in
Italia, in mancanza di apposita disposizione o di accordi internazionali, il loro deposito presso i pubblici registri dove sono iscritte le imprese straniere potrebbe risultare impossibile o essere rifiutato.
Ciò considerato, ove, come è assai probabile, si verifichi una delle
due descritte ipotesi, o si ritiene che il contratto di rete sia inefficace, non
concretandosi la condizione prevista dal citato comma 4-quater, ovvero
tale condizione deve considerarsi riferita soltanto alle imprese contraenti con sedi in Italia. Entrambe le soluzioni appaiono insoddisfacenti: nel
primo caso, poiché escludono, di fatto, la partecipazione al contratto di
rete di imprese straniere e nel secondo perché creano una diversità di regime, in termini di conoscibilità del contratto di rete, tra soci e creditori
delle imprese aderenti italiane e straniere.
Tale ultima soluzione, benché certamente non del tutto coerente con
le finalità perseguite dalla legge, non sembra tuttavia improcedibile. Infatti, non spetta evidentemente al legislatore italiano determinare quali
atti debbano essere pubblicati nei registri e in altri strumenti pubblicitari relativi ad imprese soggette ad altro ordinamento; né la semplice adesione ad un contratto di rete integra un criterio di collegamento tale da
giustificare che la tutela delle imprese aderenti e dei terzi sia assicurata
esclusivamente dalla legge italiana.
Piuttosto la conoscibilità attraverso i registri delle imprese in cui sono
19
M. MALTONI – P. SPADA, in Il contratto di rete, cit., p. 4, precisano che “l’efficacia cui fa
riferimento (la citata norma) deve essere intesa non già come idoneità del contratto interaziendale a
produrre effetti tra le parti (ex art. 1372 c.c.), ma come rilevanza del medesimo quale (atto costitutivo di una) rete di imprese a tutti gli effetti normativamente ricollegati a tale qualificazione”.
186
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
iscritti gli aderenti può assumere rilevanza per le Agenzie delle Entrate
rispettivamente competenti, che ai sensi dell’art. 42, comma 2-quater del
d.l. 31 maggio 2010, n. 78 convertito con legge n. 122 del 2010 sono chiamate a vigilare sui contratti di rete e sulla realizzazione degli investimenti che hanno dato accesso alle agevolazioni fiscali.
È evidente, però, che tale funzione di vigilanza viene esercitata soltanto sulle imprese italiane o soggette ad imposizione fiscale in Italia. L’imposizione quindi dell’obbligo di pubblicazione del contratto di rete nel
registro delle imprese degli aderenti per quanto correlato a tale funzione di vigilanza, è privo di rilievo per eventuali imprese aventi sede all’estero e non assoggettate ad imposizione fiscale in Italia.
È dunque sostenibile, in base agli interessi sottostanti alla normativa, che al contratto di rete possano partecipare anche imprese con sede
all’estero e che in tal caso l’efficacia del contratto di rete non sia condizionata all’avvenuta iscrizione in registri che abbiano finalità ed efficacia analoga al registro italiano delle imprese.
Occorre tuttavia considerare che, sulla base delle indagini sin qui
espletate,20 allo stato non risulta aderire a contratti di rete nessuna impresa straniera. Ciò non sembra, peraltro, derivare da una carenza di interesse da parte delle imprese italiane aderenti ai contratti di rete. Infatti, secondo l’indagine dell’Osservatorio sui contratti di rete del MISE tra
i miglioramenti da apportare al contratto di rete una quota consistente
delle imprese (39.1%) segnala quella di “estendere il contratto ad imprese
estere”. D’altronde, dalle indagini più recenti risulta che abbiano aderito a contratti di rete anche società italiane controllate da gruppi internazionali.
Preso atto, quindi, del diffuso interesse al coinvolgimento diretto di
imprese estere nei contratti di rete, è necessario comprendere quali siano
le motivazioni che escludano, di fatto, allo stato la loro partecipazione.
Il primo motivo presumibilmente rilevante è costituito dall’attuale formulazione della normativa, che impone uno sforzo interpretativo
per giungere ad un esito positivo: in primo luogo, l’equiparazione alle
imprese iscritte nei registri italiani delle imprese di operatori economici stranieri che svolgono le medesime attività; in secondo luogo, l’interpretazione restrittiva alle sole imprese italiane della norma che fa decorrere l’efficacia del contratto di rete dalla sua iscrizione in tutti i registri
delle imprese aderenti. L’opinabilità dell’interpretazione proposta ed i ri-
20
Cfr. le indagini dell’Osservatorio sui contratti di rete del MISE e la Ricerca della
Fondazione Bruno Visentini citate alla nota 7.
187
Federico Pernazza
schi, specie di natura fiscale, che la prevalenza di una contrapposta interpretazione testuale potrebbe indurre, possono certamente aver indotto i contraenti (ed il ceto notarile) ad un atteggiamento di prudenza escludendo potenziali imprese straniere interessate.
Per superare i suddetti rischi e l’atteggiamento di prudenza che essi
ragionevolmente inducono, è sicuramente opportuno un intervento del
legislatore che espliciti la possibilità della adesione ai contratti di rete di
imprese estere, ne precisi i presupposti e, salve più radicali riforme, limiti la condizione di efficacia del contratto di rete alla iscrizione sui registri delle imprese delle sole imprese aderenti italiane.
Vi è però un secondo e più radicale motivo che può aver disincentivato imprese straniere dall’aderire a contratti di rete.
I benefici fiscali previsti con il d.l. n. 78 del 2010 consistono in una
sospensione temporanea dell’imposta sul reddito della quota degli utili destinati “al fondo patrimoniale comune o al patrimonio destinato all’affare
per realizzare entro l’esercizio successivo gli investimenti previsti dal programma comune di rete, preventivamente asseverato da organismi espressione dell’associazionismo imprenditoriale o da organismi pubblici” se accantonati in
apposita riserva che diviene tassabile se utilizzata per scopi diversi dalla copertura di perdite di esercizio ovvero al venir meno dell’adesione
al contratto di rete.21 E’ pacifico che essi si applichino soltanto alle imprese italiane e a quelle estere con stabile organizzazione in Italia.22 Le imprese straniere che non abbiano una società controllata o una stabile organizzazione in Italia non traggono quindi alcun beneficio dal regime fiscale previsto per le imprese aderenti a contratti di rete.
A conclusioni parzialmente simili può giungersi rispetto agli interventi di sostegno alle imprese operanti a livello regionale. Le Regioni sono
protagoniste di numerosi e cospicui interventi intesi a promuovere le attività imprenditoriali site sul proprio territorio con interventi strutturati in varie forme e destinati sia a singole imprese sia ad aggregazioni im-
21
Un’analisi delle agevolazioni fiscali si legge in G. MELIS, Le agevolazioni tributarie
finalizzate all’aggregazione delle imprese e il contratto di rete: alcune considerazioni, in F. CAFAGGI – P. IAMICELI – G.D. MOSCO, Il contratto di rete per la crescita delle imprese, cit., p. 395 ss. L’Autore sottolinea tuttavia come i benefici fiscali assicurati dalla citata disciplina non possano, né debbano costituire la motivazione principale per la conclusione di contratti di rete
di imprese.
22
Cfr. Agenzia Entrate n. 15/E del 14 aprile 2011, par. 2.1. E’ anzi ipotizzabile che la
circostanza che delle agevolazioni possano fruire soltanto imprese italiane o con stabile organizzazione in Italia abbia disincentivato l’inclusione di imprese straniere per evitare il
rischio, a mio avviso infondato, di veder messi in discussione i benefici fiscali per tutte le
imprese aderenti in caso di partecipazione di un soggetto straniero.
188
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
prenditoriali. A seguito dell’istituzione dei contratti di rete sono ormai
numerosissimi i bandi in cui i potenziali destinatari di sussidi ed agevolazioni sono imprese organizzate in forma di contratto di rete.
Anche in tal caso il presupposto soggettivo è ordinariamente che le
imprese abbiano la sede operativa nel territorio regionale. I bandi non
escludono ovviamente che ai contratti di rete possano aderire anche imprese con sede in altre regioni o eventualmente all’estero, ma logicamente cercano di convogliare le risorse su imprese regionali. Tale fine è perseguito per lo più secondo due modalità: in molti casi si prevede che la
maggioranza o un numero minimo di imprese abbiano sede nel territorio regionale; in altri è esplicitamente indicato che qualora partecipino
al contratto di rete o al raggruppamento anche imprese o altri soggetti
che non abbiano la sede operativa sul territorio regionale, questi ultimi
non potranno accedere alle contribuzioni. Nel complesso, quindi, tanto
gli interventi normativi di agevolazione fiscale di carattere nazionale quanto i sussidi erogati dalle Regioni, pur non precludendo la partecipazione di imprese estere, non esplicano effetti incentivanti in tal senso.23
Al fine di favorire l’internazionalizzazione delle reti, invece sarebbe opportuno prevedere anche interventi incentivanti che abbiano la funzione di integrare nei contratti di rete partners stranieri. Potrebbero prevedersi in particolare sussidi o regimi fiscali agevolati applicabili direttamente alle reti, quando dotate di soggettività giuridica, a condizione
che le stesse siano finalizzate anche a creare aggregazioni imprenditoriali transazionali.24
7. La partecipazione alle reti d’impresa di società controllate o di sedi
secondarie di imprese estere
A differenza di quanto sopra evidenziato rispetto ad imprese che
abbiano la propria sede all’estero, l’attuale regolamentazione del contratto di rete non pone ostacoli alla partecipazione di imprese estere attraverso società controllate o partecipate con sedi in Italia ovvero attraverso sedi secondarie italiane.
23
È inoltre ipotizzabile che l’esclusione dalla possibilità di beneficiare dei secondi,
quando esplicitamente prevista, possa costituire una remora alla inclusione sui contratti
di rete di imprese straniere, ingenerando il dubbio che contratti di rete con imprese estere possano essere valutati con minor favore dalle pubbliche amministrazioni.
24
Tali misure non risulterebbero necessariamente in contrasto con i principi comunitari in materia di aiuti di Stato; cfr. infra par. 9.4.
189
Federico Pernazza
Nel primo caso il soggetto partecipante alla rete è a tutti gli effetti
una società retta dal diritto italiano e come tale iscritta nel registro delle imprese e la circostanza che in misura totalitaria, maggioritaria o minoritaria essa sia partecipata da soci stranieri è priva di rilevanza ai fini
del regime delle reti. Non sussistono quindi difficoltà in ordine alla partecipazione al contratto di rete.
A risultati non dissimili si può giungere rispetto a sedi secondarie
di società estere. Ai sensi degli artt. 2508 e seguenti del codice civile le
società estere che costituiscono in Italia una o più sedi secondarie con rappresentanza stabile sono soggette all’iscrizione nel registro delle imprese del luogo ove è posta la sede secondaria e sono soggette alle norme
italiane in tema di pubblicità e degli atti sociali.25
Ai fini fiscali le sedi secondarie costituiscono stabili organizzazioni e sono pertanto assoggettate per i redditi generati in Italia alla disciplina tributaria nazionale. Conseguentemente possono beneficiare della sospensione d’imposta di cui all’art. 2-quater e 2-quinquies del d.l. 31
maggio 2010, n. 78 convertito con legge n. 122 del 2010 anche le stabili
organizzazioni, in quanto soggette a tassazione sul reddito d’impresa.26
La disamina dei contratti di rete sin qui stipulati evidenzia che alcune società italiane controllate da gruppi stranieri figurano tra i partecipanti. Anzi nella pubblicistica tali casi sono stati presentati come i primi esempi di imprese straniere partecipanti a contratti di rete, assimilando a tali ipotesi quella in cui l’impresa straniera, società madre, ha costituto ovvero acquisito una società controllata italiana partecipe della rete.27 E’ interessante prendere in considerazione più da vicino tali casi per comprendere meglio le finalità perseguite dalle imprese straniere con la partecipazione a contratti di rete con imprese italiane attraverso le proprie controllate.
Gli obiettivi dei contratti di rete sono formalmente quelli previsti
dalla legge: scambio di informazioni, acquisti e marketing in comune, etc.;
in concreto la partecipazione di imprese con case madri estere sembra poter agevolare l’incremento di fatturato all’estero.28 Si sono anche verifi25
Per le società rette dagli ordinamenti di Paesi dell’Unione Europea, l’applicazione dell’art. 2508 e ss. del codice civile e dell’art. 25 della legge n. 218 del 31 maggio 1995
in materia di legge applicabile alle società è comunque subordinata ai principi comunitari in materia di libera circolazione delle persone (anche giuridiche), merci e capitali e della libera prestazione dei servizi all’interno del mercato unico.
26
Circolare Agenzia Entrate n. 15/E del 14 aprile 2011, par. 2.1.
27
Cfr. “Il Sole 24 Ore”, 18 aprile 2012, p. 52.
28
Cfr. il caso della rete “Five for Foundry” di Brescia, riferito da Luca Orlando, Dati,
acquisti e marketing in comune; in realtà dalla visura camerale non risultano partecipazioni straniere o appartenenti a gruppi stranieri in “Il Sole 24 Ore”, 18 aprile 2012, p. 52.
190
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
cati casi in cui imprese multinazionali, leader di settore, abbiano fatto da
capofila attraverso le loro controllate, per la conclusione di contratti di
rete con piccole imprese italiane, costituenti comunque eccellenze nella
loro nicchia di mercato. Si è operata così la formalizzazione di rapporti
produttivi e commerciali già in essere, che attraverso la conclusione del
contratto di rete si sono evoluti al fine di migliorare la flessibilità produttiva e di offrire alla clientela un servizio più puntuale e tempestivo grazie alle elevate competenze dei partecipanti.29
Nel complesso la partecipazione in contratti di rete di società appartenenti a gruppi stranieri appare allo stato molto limitata e certamente non corrispondente alle aspettative delle imprese italiane e alla percentuale di contratti di rete in cui figura esplicitamente l’internazionalizzazione quale scopo primario del programma di rete. D’altronde, gli
incentivi fiscali in favore delle imprese partecipanti a contratti di rete non
sono tali da giustificare per se stessi la costituzione di una filiale o di una
sede secondaria in Italia.
Le imprese straniere che dispongano già di una filiale in Italia, presumibilmente, attraverso quest’ultima intendono sviluppare le proprie
attività produttive e distributive in Italia. E’ ragionevole ritenere pertanto che in tal caso il contratto di rete sia utilizzato principalmente o per
consolidare i rapporti con i fornitori italiani (si veda il caso dell’AIDA sopra citato) o per incrementare la vendita del proprio prodotto in Italia.
Anche tali obiettivi rientrano evidentemente nelle forme di internazionalizzazione del tessuto produttivo e commerciale italiano, ma costituiscono una prospettiva assai più limitata di quella che si aprirebbe se i contratti di rete coinvolgessero direttamente imprese straniere.
8. L’attività delle reti all’estero
L’attività che le reti di impresa possono proporsi di svolgere all’estero sono le più varie ed attengono potenzialmente a tutte le fasi del processo produttivo e distributivo.30
Di fatto, l’analisi dei contratti di rete sinora stipulati evidenzia che le
29
Cfr. Lecco: con AIDA nasce una rete per le press, in “La Provincia di Lecco”, 10 apri-
le 2012.
30
Con mero fine esemplificativo possono enumerarsi le seguenti attività: a) ricerca
e sviluppo, specie qualora si prospetti l’attivazione attraverso la rete di rapporti con imprese dotate di un know how tecnologico avanzato suscettibile di creare sinergie con le imprese italiane; b) acquisizione di materie prime o di servizi e/o di prestazioni correlate con
191
Federico Pernazza
attività estere sono prevalentemente incentrate sulla distribuzione: il mercato internazionale è dunque preso in considerazione al fine di collocare prodotti e servizi e non per creare sinergie più articolate. Le prospettive usualmente ipotizzate vanno da quella minimale della partecipazione ad eventi e fiere internazionali con creazione di uno stand e di materiale divulgativo, alla creazione di prodotti che rispondano alle specifiche esigenze di
mercati esteri, alla costituzione di filiali, rappresentanze ed agenzie all’estero. In qualche caso si ipotizza anche la partecipazione a progetti di ricerca
europei e/o a gare internazionali. La timidezza con cui sono rappresentate le attività estere nei programmi dei contratti di rete sin qui conclusi è probabilmente dovuta alla novità dello strumento giuridico ed ai dubbi finora circolati circa il possibile coinvolgimento di imprese straniere.
In realtà, il regime giuridico, specie dopo le ultime modifiche, non
giustifica tali cautele e consente l’integrazione nei programmi di rete di
tutte le attività riconducibili alle fasi di R&S, di produzione e di distribuzione. Piuttosto, limitazioni alla dislocazione dell’attività produttiva
possono derivare dal regime di alcuni sussidi di fonte regionale, la cui
erogazione è logicamente correlata alla presenza sul territorio dell’Amministrazione incentivante dell’intera attività produttiva o della parte prevalente della stessa.
Ciò premesso, occorre però sottolineare che sul piano giuridico, a
prescindere dall’attività che si intende porre in essere all’estero, le modalità e le problematiche si differenziano a seconda del modello di rete
adottato ed in particolare se si opta o meno per l’attribuzione alle reti di
soggettività giuridica.
8.1. Le reti con soggettività giuridica
Le reti dotate di soggettività giuridica debbono essere riconosciute anche all’estero quali enti giuridici con finalità lucrative di diritto italiano e
come tali trattate ad ogni fine. Si applicano le norme in materia di diritto
internazionale privato dello stato ospitante che ordinariamente utilizzano
a tal fine il criterio della legge di costituzione e/o della legge della sede principale; in entrambi i casi dunque il riconoscimento della rete soggettivata
è rimessa al diritto italiano. Per ciò che attiene poi alle attività che la rete
soggettivata intende svolgere all’estero, trovano applicazione le norme della produzione da effettuarsi in Italia; c) produzione di materiali, di semilavorati, o di parti del prodotto finito; d) produzione di prodotti finiti tramite l’assemblaggio, la trasformazione o comunque l’utilizzo di materiali o di pezzi realizzati in Italia e / o altrove; e) distribuzione con le correlate attività di marketing e di servizio a valle; f) attività di consulenza, assistenza ed i servizi correlati alle fasi predette.
192
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
lo Stato ospitante circa i requisiti soggettivi ivi eventualmente previsti e si
applicheranno, ove sussistenti, i principi e le norme che vietano discriminazioni tra enti giuridici nazionali ed enti giuridici stranieri.
Nell’ambito dell’Unione Europea trovano applicazione le norme del
TFUE in tema di diritto di stabilimento primario e secondario. L’art. 54
del TFUE estende, infatti, il diritto di stabilimento a tutte le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro aventi la
sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro dell’attività principale all’interno dell’Unione Europea. La norma equipara alle società le altre “persone giuridiche” contemplate dal diritto pubblico o privato,31 ad
eccezione delle società prive di scopo di lucro. In tale ambito possono essere ricondotte senz’altro le reti di impresa che, quand’anche non perseguano uno scopo lucrativo in proprio, certamente hanno una finalità mutualistica rispetto alle imprese che partecipano alla rete e non sono quindi riconducibili al settore no-profit.
Ne consegue che gli Stati Membri dell’U.E. sono tenuti a riconoscere le reti costituite in Italia come enti giuridici di diritto italiano e non possono frapporre ostacoli alla loro attività né creare discriminazioni rispetto ad enti nazionali. Pertanto le reti soggettivate, tramite i loro rappresentanti legali, possono porre in essere operazioni, singoli rapporti negoziali e finanziari, ma anche stabilirsi in altri Paesi europei, costituendo sedi
secondarie, uffici di rappresentanza o altre strutture permanenti.
Rispetto alle singole operazioni, quali acquisti, operazioni bancarie e finanziarie, contratti di vendita, di distribuzione ecc., la rete d’impresa soggettivata opera all’estero come un qualsiasi ente giuridico, nella specie di diritto italiano.
Gli atti possono essere posti in essere da coloro che, in base alle determinazioni del contratto, rivestono la qualifica di legali rappresentanti o da eventuali procuratori. L’iscrizione della rete nel registro delle imprese in Italia agevola l’attestazione della qualifica del legale rappresentante e dei relativi poteri.32
Ciò premesso, l’ordinamento che regola le singole operazioni dipende di volta in volta dai criteri di diritto internazionale privato applicabili.
Poiché la rete soggettivata è un soggetto giuridico costituito e con
sede dell’amministrazione in Italia, la legge regolatrice dell’ente è la leg31
Il richiamo alle persone giuridiche di cui all’art. 54 TFUE deve essere interpretato seguendo l’accezione francese di “personnes morales” e quindi ricomprendendo tutti gli
enti dotati di soggettività giuridica.
32
L’iscrizione della rete soggettivata agevola notevolmente l’attività, in quanto consente al terzo una verifica on-line dei nominativi dei legali rappresentanti e dei relativi poteri.
193
Federico Pernazza
ge italiana ai sensi dell’art. 25 della legge n. 218 del 1995. Ciò non esclude, tuttavia, che l’ordinamento straniero possa dettare norme di ordine
pubblico, specie a tutela della sicurezza, della salute, etc., che si impongano anche agli enti stranieri e quindi anche alle reti di imprese. Lo svolgimento di attività all’estero e le operazioni ivi poste in essere non mutano, comunque, le norme giuridiche applicabili ai rapporti “interni” alla
rete, che sono e restano logicamente quelle di diritto italiano. Pertanto le
obbligazioni dei contraenti nei confronti della rete ed eventualmente tra
di loro restano soggette al diritto italiano e così anche la responsabilità dei
contraenti rispetto ai terzi, in quanto tali regole costituiscono un elemento proprio dell’ordinamento dell’ente. L’applicazione di regole diverse ad esempio l’introduzione da parte della legge straniera di un regime di
responsabilità dei contraenti per le obbligazioni assunte dagli organi della rete, ove non prevista nel contratto – non è legittima nei limiti in cui entri in contrasto con la libertà di circolazione e di prestazione di servizi nell’ambito dell’Unione. La giurisprudenza della Corte di Giustizia europea,
infatti, ha chiaramente stigmatizzato e dichiarato in contrasto con i principi dei Trattati le normative nazionali che applicavano uno status giuridico deteriore a società ed enti di altri Paesi dell’Unione, di fatto ostacolandone lo stabilimento.33 Lo stesso approccio deve essere adottato anche rispetto ad altri enti economici dotati di soggettività giuridica, come
le reti, riconducibili alla sfera di applicazione dell’art. 54 del TFUE.
A conclusioni analoghe deve giungersi rispetto a tutte le forme di
stabilimento, ivi incluse quelle instaurate con la creazione di sedi secondarie o rappresentanze. La rete d’impresa, come le società o altri enti giuridici con fini lucrativi costituiti secondo l’ordinamento di un Paese dell’Unione, può quindi aprire sedi secondarie, senza la necessità di costituire un nuovo soggetto giuridico e mantenendo inalterato il proprio status.34 Al fine di consentire un’adeguata operatività alle sedi secondarie
33
Si vedano principalmente le notissime decisioni Centros, Corte di Giustizia, 9 marzo 1999, C-212/97, e Inspire Art, Corte di Giustizia 30 settembre 2003, C-167/01, rispetto ad
ipotesi di stabilimento secondario, e Überseering, Corte di Giustizia 5 novembre 2002, C-280/00,
rispetto ad ipotesi di stabilimento primario. Sul tema sia consentito rinviare ex multis a F. PERNAZZA, Libertà di stabilimento in Europa e tutela dei creditori in “Le società”, 2004, p. 373 ss.
34
Alle reti di impresa soggettivate non si applica l’XI direttiva societaria in materia
di pubblicità delle succursali estere che prevede l’iscrizione nel registro delle imprese dello stato ospitante. La direttiva, infatti, è riferita esplicitamente alle società cui si applica la
I direttiva, ovvero nel caso italiano alle s.p.a., alle s.a.p.a. ed alle s.r.l.. Occorre, però, considerare che ormai, grazie ad Internet ed alle interconnessioni instaurate tra i gestori dei
Registri delle Imprese in Europa, è estremamente agevole acquisire informazioni e dati su
società ed enti iscritti in registri di altri Paesi Europei (cfr. l’art. 5 bis dell’undicesima di-
194
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
o alle rappresentanze, possono nominarsi institori e procuratori, cui si
applicano le relative norme di cui agli artt. 2203/2209 del codice civile
italiano.
8.2. Le reti prive di soggettività giuridica
Qualora i partecipanti non attribuiscano soggettività giuridica
alla rete è più complesso individuare il regime giuridico applicabile in
relazione all’attività da svolgersi all’estero.
In assenza di entificazione il rapporto tra le imprese in rete non può
che essere preso in considerazione dalle norme di diritto internazionale privato degli ordinamenti stranieri quale contratto. Pertanto, in base
al Regolamento (CE) n. 593/2008 del 17 luglio 2008 (Regolamento Roma
I), il diritto applicabile, fatte salve eccezioni che qui non rilevano, è in primo luogo quello scelto dalle parti. Se le parti hanno fatto riferimento alla
legge italiana, tale disposizione è quindi vincolante anche per eventuali organi giurisdizionali stranieri che dovessero essere chiamati a dirimere controversie attinenti al contratto di rete o a rapporti tra terzi ed imprese in rete, nei limiti in cui a tali fini rilevante.
Qualora, invece, le parti non avessero inserito uno specifico richiamo all’applicazione della legge italiana, probabilmente alla stessa conclusione si potrà giungere in base al criterio generale per cui trova applicazione la legge dello Stato con il quale il contratto presenta il collegamento più stretto. In tale prospettiva la conclusione del contratto
in Italia, in base ad una legislazione speciale propria dell’ordinamento italiano, con la partecipazione, presumibilmente, di imprese in prevalenza italiane non lascia dubbi circa l’applicabilità della normativa
italiana.
Tanto premesso, anche all’estero la rete non dotata di soggettività
giuridica autonoma, non potrà essere come tale parte di contratti o in genere di rapporti con terzi siano essi enti privati o pubblici. Né la rete come
tale potrà aprire succursali o rappresentanze o tantomeno costituire delle filiali.
In mancanza di una propria soggettività, la rete non beneficia in proprio del diritto di stabilimento primario e secondario all’interno dello spa-
rettiva inserito dall’art. 1 della Direttiva n. 17 del 13 giugno 2012). Anche in mancanza di
registrazione delle sedi secondarie delle reti, che resta quindi rimessa alla disciplina nazionale, il legale rappresentante della rete potrà documentare tale qualifica richiamando
gli atti pubblicati nel Registro delle Imprese italiane, ove richiesto, con traduzione nella lingua del Paese ospitante.
195
Federico Pernazza
zio europeo né può prestare servizi in virtù dei principi del TFUE. Ciò
non esclude, tuttavia, che gli organi della rete possano operare, anche all’estero, in rappresentanza degli imprenditori partecipanti al contratto.
Anzi, ai sensi dell’art. 3, comma 4 ter, terza frase, lett. e) della nota legge, è specifico compito dell’organo comune, salvo che sia diversamente
disposto dal contratto di rete, agire in rappresentanza dei partecipanti
anche nelle “procedure inerenti allo sviluppo del sistema imprenditoriale nei
processi di internazionalizzazione e di innovazione previsti dall’ordinamento”.
La previsione normativa sembra riferita, per la verità, in primo luogo ai
rapporti con le pubbliche amministrazioni e con le istituzioni volte a sostenere l’internazionalizzazione delle imprese italiane.35 Essa non è quindi idonea ad attribuire all’organo comune un potere ex lege di rappresentanza delle imprese in rete per ogni ulteriore attività. A tal fine, specie per
le attività da realizzarsi all’estero, è perciò necessario che nel contratto
di rete o in apposito atto autonomo le imprese che costituiscono la rete
conferiscano mandato con rappresentanza o sottoscrivano una procura
in cui vengono specificati i compiti ed i poteri dell’organo comune rispetto alle rispettive posizioni individuali. In tal modo potranno essere conferiti poteri concernenti anche la costituzione di uffici di rappresentanza, la stipula di contratti di fornitura, di promozione, di distribuzione.
L’organo comune agirà quindi individualmente per ciascuna impresa in
rete, ma qualora le iniziative delle stesse siano concordate ed operate in
parallelo, si potranno ottenere comunque benefici derivanti da fattori di
scala (abbattimento di costi di beni e servizi) o dalla fruizione comune
di informazioni, dei network e dei servizi delle singole imprese. Si potrà,
ad esempio, avere un unico rappresentante che operi per tutte le imprese in rete, ovvero un unico stabile per le rispettive sedi secondarie o di
rappresentanza ripartendone i costi.
È facilmente intuibile, tuttavia, che, qualora i rapporti divengano
più complessi – presenza di sedi stabili, di dipendenti, di rapporti contrattuali di durata – la gestione di più posizioni parallele, soprattutto all’estero, possa generare rilevanti oneri e difficoltà burocratiche e di organizzazione dei rapporti.
Evidentemente in tal caso le imprese in rete non soggettivate (rectius le imprese ad esse partecipanti) potranno costituire all’estero, come
35
Sui rapporti tra reti e pubbliche amministrazioni, specie nel settore degli appalti,
cfr. P. CHIRULLI, La partecipazione delle reti ai procedimenti amministrativi in F. CAFAGGI, P. IAMICELI, G.D. MOSCO (a cura di), Il contratto di rete per la crescita delle imprese, Milano, 2012,
p. 347 ss.
196
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
d’altronde anche in Italia, una società che si affianchi alla rete, eventualmente per una specifica finalità, un determinato territorio o una delimitata area di attività. Ciò però ingenera i costi economici ed amministrativi che il contratto di rete, in particolare se non soggettivato, intende specificamente evitare. In tali ipotesi la rete soggettivata appare una soluzione più efficiente, in quanto media l’esigenza della creazione di un centro di imputazione unitario riconoscibile anche all’estero con la flessibilità di rapporti e la limitazione degli oneri che sono inferiori nel contratto di rete rispetto ad altre forme di collaborazione imprenditoriali.
9. Le reti d’impresa e l’ordinamento dell’Unione Europea
9.1 Reti d’impresa e GEIE
Sin dal 1985 la Comunità Europea con il Reg. n. 2137/1985 sul GEIE
ha introdotto un modello contrattuale europeo volto ad agevolare la collaborazione transnazionale tra imprese dei Paesi della Comunità (ora dell’Unione).36
È legittimo chiedersi, allora, se il contratto di rete costituisca una duplicazione ovvero se le finalità dallo stesso perseguite e le caratteristiche
del modello organizzativo non coincidano con quelle del GEIE. In realtà, tra i due istituti non vi è coincidenza né rispetto ai soggetti potenziali membri né rispetto alle finalità perseguite ed alle caratteristiche dell’organizzazione.
Rispetto al primo profilo, il GEIE è senz’altro aperto alla partecipazione di categorie ulteriori rispetto a quelle ammesse a costituire le reti
d’impresa; infatti, oltre alle società ed alle imprese in senso stretto, siano esse agricole o commerciali, alle imprese mutualistiche ed alle società consortili, possono essere membri del GEIE anche liberi professionisti, altri prestatori di servizi nonché enti giuridici di diritto pubblico.37 Le
reti così come concepite dalla legislazione italiana vigente, invece, sono
riservate alle imprese in senso proprio, con esclusione di liberi professio-
36
Sul Geie per tutti P. MASI, Il gruppo europeo di interesse economico, Torino, 1994; A.
MONGIELLO, Il gruppo europeo di interesse economico, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, vol. XVII, Padova, 1994; E. ALBY, Geie (gruppo europeo di interesse economico), in Digesto comm., appendice, Torino, 1994, vol. X, 1995.
37
Cfr. F. POCAR, Sull’attività del Geie costituito tra liberi professionisti in “Riv. dir. civ.”,
1996, II, p. 387. La possibilità di partecipazione al GEIE anche di enti pubblici è pacifica;
segnala la partecipazione ad un GEIE (EMARC) della stessa Comunità Europea G. BENACCHIO, Diritto Privato della Unione Europea, 5° ed,., 2010, p. 257.
197
Federico Pernazza
nisti, lavoratori autonomi ed enti pubblici. Ciò costituisce un grave limite soprattutto per l’impossibilità di coinvolgere Università ed enti pubblici di ricerca e quindi di attivare attraverso le reti d’impresa quei meccanismi di trasferimento di conoscenze dalla ricerca di base alla produzione industriale ed alle attività di servizi che costituiscono uno dei motori fondamentali del moderno sviluppo.
Sotto altro profilo, la necessaria transnazionalità del GEIE dovuta alla
natura comunitaria dello strumento, non certo ai suoi scopi, lo rende inutilizzabile per raggruppamenti di imprese della stessa nazionalità.
Anche il modello organizzativo è sensibilmente diverso.
Il GEIE ha una struttura variabile, ma in misura assai più limitata
rispetto alle reti d’impresa, poiché i membri strutturati in un collegio sono
un organo necessario del Gruppo, così come l’organo amministrativo (amministratore unico, una pluralità di amministratori o un organo più complesso). Le reti d’impresa, invece, nella forma di reti di mero scambio, possono anche rinunciare alla istituzione di un organo comune, restando in
tal caso ogni decisione rimessa alla volontà unanime dei singoli partecipanti; d’altra parte, qualora la rete intenda assumere una propria soggettività giuridica, necessariamente deve istituire uno o più organi amministrativi e delinearne poteri e competenze.38
Particolarmente rilevante è poi la possibilità che la rete soggettivata garantisca ai partecipanti il beneficio della limitazione della responsabilità all’apporto, mentre principio generale del GEIE è la responsabilità illimitata e solidale dei membri.
Per ciò che concerne le finalità, i due istituti sono molto simili, in
quanto in entrambi i casi lo scopo è prevalentemente mutualistico nel senso che il contratto è proteso a migliorare la produttività ed i risultati economici dei partecipi e non di porre in essere una nuova ed autonoma attività, pur essendo tale esito non precluso. Maggiore enfasi è data nel GEIE
al carattere ausiliario rispetto all’attività dei membri, mentre nel contratto di rete le imprese svolgono in comune una o più attività, sia pure con
lo scopo di accrescere i risultati dei contraenti, ma, di fatto, dando potenzialmente vita a nuove attività comuni di impresa.
Non può sottacersi, infine, che, mentre il contratto di rete è regola-
38
Sulla struttura interna delle reti cfr. F. CAFAGGI – P. IAMICELI, La governance del contratto di rete, in F. CAFAGGI (a cura di), Il contratto di rete. Commentario, Bologna, 2009, p. 45;
G. SCOGNAMIGLIO – E.M. TRIPPUTI, Il contratto di rete per l’esercizio di attività comune: profili patrimoniali e organizzativi, in AIP (a cura di), Reti d’impresa: profili giuridici, finanziari e rating,
Milano, 2011, p. 37 ss. e A. DAMIANO, L’organizzazione nella rete, in F. CAFAGGI, P. IAMICELI,
G.D. MOSCO (a cura di), Il contratto di rete per la crescita delle imprese, cit., p. 205 ss.
198
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
to esclusivamente dalla legge italiana, nel caso del GEIE si applica principalmente il regolamento integrato, nei limiti di cui all’art. 9, sia dalle
leggi nazionali di recepimento sia nel loro complesso dagli ordinamenti del Paese ove è posta la sede.
Si tratta in definitiva di strumenti giuridici che perseguono finalità sicuramente omogenee, ma che, per i vari profili sopra riferiti, non sono
fungibili.
9.2
La politica europea di incentivazione dei clusters
L’ordinamento comunitario prende in considerazione i raggruppamenti di imprese anche secondo una diversa visione funzionale, in base
alla quale essi sono considerati uno strumento di innovazione e sviluppo.
Sin dal Programma quadro per la competitività e l’innovazione (20072013) le reti di imprese, specie quelle costituite da PMI per il coordinamento e lo sviluppo delle loro attività economiche e industriali, sono destinatarie di interventi di incentivazione.39 Nello stesso 2006 con la comunicazione sulla “Disciplina comunitaria in materia di aiuti di stato a favore di ricerca, sviluppo e innovazione” la Commissione, richiamate le
finalità di cui all’art. 163 del Trattato CE (ora art. 179 TFUE) e ritenuto
insufficiente l’attuale livello di R&S per l’economia europea, ha operato una modifica delle regole in materia di aiuti di Stato per espandere le
possibilità di intervento.40 La Comunicazione fissa quindi i principi in base
ai quali gli aiuti possono beneficiare di un’esenzione al divieto ed enumera le fattispecie compatibili ex art. 87 del Trattato CE (ora 107 TFUE),
paragrafo 3, lett. c. Tra queste figurano gli aiuti ai poli d’innovazione (pôles d’innovation o innovation clusters).41 Tale espressione è definita nella Comunicazione con riferimento ai “raggruppamenti di imprese indipendenti – start-up innovatrici, piccole, medie e grandi imprese, nonché organismi
di ricerca, attivi in un particolare settore o regione e destinati a stimolare l’attività innovativa incoraggiando l’interazione intensiva, l’uso in comune di istallazioni e lo scambio di conoscenze ed esperienze, nonché contribuendo in ma-
39
Decisione n. 1639/2006/CE del Parlamento Europeo, Programma Quadro per la
competitività e l’innovazione ed ivi in particolare gli artt. 12 sulle reti di cooperazione tra
PMI e 13 sulle reti di innovazione.
40
Comunicazione della Commissione 2006/C in GUCE del 30 dicembre 2006 C/323/1.
41
Il ruolo dei clusters quale motore di sviluppo è stato posto in piena luce con l’opera di M. PORTER, Il vantaggio competitivo delle nazioni, New York, 1990, che riprende studi
di economia delle aggregazioni originati dal pensiero di Alfred Marshall e che anche in Italia hanno avuto grande sviluppo nei lavori di Giacomo Beccattini sui distretti industriali;
cfr. per tutti ID., Distretti industriali e Made in Italy, Torino, 1998.
199
Federico Pernazza
niera effettiva al trasferimento di tecnologie, alla messa in rete e alla diffusione delle informazioni tra le imprese che costituiscono il polo” (art 2.2 lett. m).
È evidente che la Commissione non fa specifico riferimento ad un unico modello di raggruppamento tra imprese, attesa la pluralità di soluzioni giuridiche adottate nei diversi Paesi Europei, ma, d’altra parte, non si
riferisce a mere situazioni di fatto. La Direzione Impresa ed Industria ha
opportunamente evidenziato che il concetto di “innovation cluster” assume diverse accezioni a seconda che venga utilizzato dalla scienza economica per spiegare i punti di forza per la competitività e lo sviluppo di
un determinato contesto imprenditoriale ovvero dal legislatore quale presupposto soggettivo per l’applicazione di una determinata regolamentazione.42
Infatti, nell’art. 5.8 della Comunicazione, specificamente dedicato
ai poli d’innovazione entrambi i tipi di aiuti di Stato presi in considerazione (aiuti all’investimento per la creazione, l’ampliamento e l’animazione del polo; aiuti al funzionamento per l’animazione del polo) sono
esclusivamente riferiti “alla persona giuridica che gestisce il polo di innovazione”. Affinché gli Stati possano erogare aiuti che, in presenza degli altri presupposti fissati nella comunicazione, sono consentiti in deroga al
generale divieto, è necessario quindi che il raggruppamento di imprese
sia formalizzato e sia creato un soggetto gestore in grado di beneficiare
in proprio degli aiuti. Le citate fonti comunitarie non consentono di delineare le caratteristiche organizzative del soggetto gestore del cluster, ma
offrono alcune indicazioni circa i soggetti partecipanti e le caratteristiche
delle loro relazioni economiche.
Rispetto ai primi, la stessa definizione di polo d’innovazione pone
quali soggetti protagonisti del raggruppamento le imprese piccole, medie e grandi, ed anzi la Commissione invita gli Stati a ricercare un equilibrio tra PMI e grandi imprese per garantire il raggiungimento di una
“massa critica” in grado di assicurare efficienza. La definizione include,
però, anche gli “organismi di ricerca” ovvero istituzioni pubbliche e private tendenzialmente prive di fini di lucro; esse hanno un ruolo caratterizzante nel cluster innovativo, in quanto questo è concepito come uno
strumento per agevolare lo sviluppo di applicazioni industriali delle ricerche di base. Nessun richiamo figura, invece, rispetto alla nazionalità
dei soggetti partecipanti siano essi imprese o istituzioni di ricerca. In ef-
42
Commission Staff Working Document SEC (2008) 2637 “The Concept of Cluster and
Cluster Policies and their Role for Competitiveness and Innovation: main Statistical Results and
Lessons Learned”.
200
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
fetti, nella concezione comunitaria il raggruppamento può avere una connotazione territoriale, ma essa non è necessaria. Di fatto, tuttavia, sono
generalmente le norme nazionali e infranazionali sugli aiuti a richiedere quale presupposto che il raggruppamento svolga tutta o la maggior
parte dell’attività nel territorio dell’ente erogatore dei contributi.
Infine, rispetto alle caratteristiche dell’attività, i poli di innovazione hanno evidentemente un raggio d’azione molto più limitato delle reti
di imprese italiane. Infatti, atteso che la deroga al divieto di aiuti è consentita in funzione dello sviluppo tecnologico, la Comunicazione considera soltanto le attività rilevanti in tale prospettiva, quali l’uso in comune di installazioni, lo scambio di conoscenze ed esperienze, il trasferimento di tecnologie, la messa in rete e la diffusione delle informazioni tra le
imprese. Ciò non vieta, evidentemente, che i clusters innovativi presi in
considerazione dalla normativa comunitaria svolgano anche altre attività di produzione, distribuzione, marketing.43
Dopo il primo approccio del 2006 al tema degli innovation clusters
nella prospettiva della deroga al divieto di aiuti di Stato, la Commissione è tornata sul tema nel 2008 con la Comunicazione Com (2008) 652 definitiva del 17 ottobre 2008 intitolata “Verso cluster competitivi di livello mondiale nell’Unione Europea”.
L’atteggiamento adottato con tale documento mostra un radicale mutamento di approccio: non ci si limita più a consentire gli aiuti degli Stati e degli Enti Territoriali allo sviluppo dei clusters, ma è la stessa Unione Europea che, qualificati i clusters come uno tra i principali “motori della competitività europea”, individua il loro rafforzamento come una priorità strategica per promuovere con successo l’innovazione.
La Commissione riconosce che i clusters sono un fenomeno che insorge spontaneamente nel mercato (di qui la definizione degli stessi come
“un gruppo di imprese, di operatori economici collegati e di istituzioni geograficamente vicine le une alle altre e che ha raggiunto una scala sufficiente per sviluppare perizie, servizi, risorse, fornitori e competenze specializzate”, definizione che prescinde dalla necessità di un organismo di gestione o di un rapporto giuridico formalizzato, presupposto che invece è poi richiesto per
43
La Comunicazione precisa, tuttavia, le categorie di costi ammissibili: costi del personale e spese amministrative inerenti al marketing per attirare nuove imprese nel polo,
alla gestione delle istallazioni del polo ad accesso aperto e all’organizzazione di programmi di formazione seminari e conferenze per facilitare la condivisione delle conoscenze e
il lavoro in rete tra i membri del polo (art. 5.8 della Comunicazione 2006/C 323/01) al fine
di delimitare la deroga al divieto di aiuti alle attività finalizzate agli scopi di sviluppo tecnologico.
201
Federico Pernazza
attivare le politiche di sostegno), ma evidenzia come gli Stati, gli Enti territoriali, le Università e le Istituzioni di ricerca abbiano validamente promosso, sostenuto e finanziato lo sviluppo dei clusters. Attesa la dimensione del fenomeno e del numero dei clusters presenti sul territorio dell’Unione,44 la Commissione si propone di contribuire ulteriormente al loro
sviluppo.
Oltre ai programmi per la promozione dell’innovazione nelle regioni ed alla creazione di reti transnazionali delle regioni,45 la Commissione incoraggia le politiche nazionali e regionali in favore dei clusters e si
propone di completarle fornendo alcuni strumenti per il loro coordinamento e perseguendo tre obiettivi: la cooperazione transnazionale dei clusters; l’eccellenza delle organizzazioni dei clusters; l’integrazione di
PMI innovative.
La comunicazione della Commissione non richiama la necessità di
dar vita a specifici strumenti giuridici per dare forma alle organizzazioni di gestione dei clusters, ma si limita a prospettare azioni per la formazione di dirigenti in grado di gestire con elevata professionalità tali organismi.
In effetti, nel già citato Staff Working Document sul concetto di cluster e le relative politiche (Commission Staff Working Document SEC (2008)
2637), che è allegato alla Comunicazione della Commissione si prende
atto dell’importanza delle “cluster organizations” per i servizi che offrono ai membri del cluster, per il ruolo di catalizzatori di nuove iniziative
e di riferimento per gli strumenti di finanziamento e supporto pubblico, ma non si coglie l’esigenza di prevedere appositi modelli strutturali. E’ così definita “cluster organization”, genericamente, “the legal entity
engineering, steering and managing the clusters, including usually the participation and access to the cluster’s promises, facilities and activities”.
L’impostazione così adottata dall’Unione Europea non è mutata ed
è perseguita anche nel nuovo quadro strategico comune in materia di ricerca e innovazione per il periodo 2014-2020 adottato con la Comunicazione COM (2011) 808 def. della Commissione.
In ossequio a tale orientamento comunitario anche il Governo italiano ha avviato procedure per lo sviluppo e il potenziamento di clusters
44
L’European Cluster Observatory già nel 2007 aveva quantificato in circa 2000 i clusters con rilevanza statistica e nel 38% della manodopera europea i soggetti impiegati da
imprese incluse nei clusters; cfr. www.clusterobservatory.eu
45
Cfr. le iniziative “Le regioni per il cambiamento economico” in http://ec.europa.eu/regional_policy/cooperation/ interregional/ecochange/index_en.cfm e “Le regioni della conoscenza” in http://cordis.europa.eu/fp7/capacities/regions-knowledge_en.html
202
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
tecnologici nazionali. Con il Decreto Direttoriale del 30 maggio 2012, n.
257 è stato pubblicato un avviso per la concessione di agevolazioni ai clusters tecnologici nazionali, definiti come “aggregazioni organizzate di imprese, università, altre istituzioni pubbliche o private di ricerca, altri soggetti
anche finanziari attivi nel campo dell’innovazione, articolate in più aggregazioni pubblico-private, ivi compresi distretti tecnologici già esistenti, presenti su
diversi ambiti territoriali, guidate da uno specifico organo di coordinamento e
gestione, focalizzate su uno specifico ambito tecnologico e applicativo, idonee a
contribuire alla competitività internazionale sia dei territori di riferimento sia
del sistema economico nazionale”. Lo stesso decreto prevede che il cluster
può essere strutturato secondo diversi modelli organizzativi (modello hub
& spoke o modello “federato”).
È evidente nel complesso che il modello italiano del contratto di rete
non è assimilabile ai clusters, così come concepiti nell’ordinamento europeo e nella legislazione italiana che ad esso si ispira, né per i soggetti
partecipanti né per i modelli organizzativi (più ampi nei clusters), né per
le finalità perseguite (più ampie nei contratti di reti).
9.3 Le reti di imprese nelle più recenti fonti europee e la prospettiva di
una Rete Europea di Imprese
Il quadro della strategia europea sugli interventi economici è radicalmente mutato a seguito della crisi del 2008 e trova la prima individuazione delle linee di intervento nella Comunicazione della Commissione “Europa 2020 – Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”.46 La stessa Commissione nel 2012 ha preannunciato una modifica della regolamentazione sugli aiuti di Stato47 ed ha
definito nel 2011 il nuovo programma quadro per il periodo 2014-2020.48
L’attuazione del nuovo Programma quadro è stata avviata nel 2013 con
una serie di Regolamenti alcuni dei quali investono anche il tema delle aggregazioni di impresa non riconducibili al cluster e sono quindi direttamente rilevanti ai fini dell’utilizzazione in ambito europeo dello
strumento del contratto di rete di imprese, così come concepito nella legislazione italiana.
Tra questi si segnalano in particolare il Regolamento (UE) n.
46
COM(2010) 2020 definitivo del 3 marzo 2010.
Comunicazione COM(2012) 209 final dell’8 maggio 2012 sulla “Modernizzazione degli aiuti di Stato dell’UE”.
48
Comunicazione COM(2011) 808 definitivo del 30 novembre 2011 sul Programma
quadro di ricerca e innovazione “Orizzonte 2020”.
47
203
Federico Pernazza
1407/2013 della Commissione del 18 dicembre 2013 sull’applicazione degli articoli 107 e 108 del TFUE agli aiuti “de minimis”, di cui si parlerà nel
prossimo paragrafo, ed il Regolamento (UE) n. 1287/2013 del Parlamento e del Consiglio dell’11 dicembre 2013, che istituisce un programma per
la competitività delle imprese e le piccole e le medie imprese (COSME)
(2014 – 2020).49
Tra le azioni prospettate dal regolamento almeno due investono direttamente il fenomeno delle reti di impresa. In primo luogo, tra le azioni volte a migliorare l’accesso delle PMI ai mercati la Commissione è impegnata a sostenere la Rete Enterprise Europe Network, che fornisce servizi di supporto alle PMI che vogliano esplorare le opportunità del mercato interno e dei paesi terzi. Attraverso tale strumento è prevista anche
l’agevolazione di “partenariati transfrontalieri in materia commerciale, di ricerca e di sviluppo, trasferimenti di tecnologia e di conoscenza e tecnologia e innovazione”. Le forme giuridiche di tali partenariati non sono specificate,
ma sulla base degli ambiti delineati dal regolamento può affermarsi che
anche le reti di imprese transfrontaliere che avessero le predette finalità
potrebbero beneficiare di tali azioni di supporto.
Ancor più esplicito è l’art. 11 lett. a) del regolamento, che impegna
la Commissione a sostenere le azioni volte a sviluppare nuove strategie
di competitività e sviluppo, tra cui la condivisione di “buone prassi sulle
condizioni generali e sulla gestione di cluster e reti di imprese a livello mondiale” e la promozione di una “collaborazione transnazionale fra cluster e reti
di imprese”, che conduca allo sviluppo di prodotti, tecnologie, servizi e processi sostenibili, nonché l’uso efficiente delle risorse, l’efficienza energetica e la responsabilità sociale delle imprese”. Tali linee strategiche hanno già trovato
una prima attuazione nella decisione della Commissione C(2014) 247 final del 22 gennaio 2014, che ha adottato il Programma di lavoro per il 2014.
Tra le azioni finanziate figurano, infatti, quelle per l’internazionalizzazione dei clusters e delle “business network organisations”. I soggetti legittimati a partecipare a tale bando sono definiti come “consortia … composed
49
Il Regolamento COSME è ispirato al c.d. Small Business Act per l’Europa (Comunicazione della Commissione del 25 giugno 2008 recepita dal Consiglio sulla competitività del 1 e 2 dicembre 2002 e Comunicazione di riesame dello stesso progetto del 23 febbraio 2011) e si articola su quattro obiettivi specifici: a) migliorare l’accesso delle PMI ai finanziamenti sotto forma di capitale proprio e di debito; b) migliorare l’accesso ai mercati, in
particolare all’interno dell’Unione, ma anche a livello mondiale; c) migliorare le condizioni quadro per la competitività e la sostenibilità delle imprese dell’Unione, specie le PMI,
incluse quelle nel settore del turismo; d) promuovere lo spirito imprenditoriale e la cultura dell’imprenditorialità.
204
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
of minimum one independent legal entity representing a cluster or a business
network organisation established in minimum three EU Member States or countries participating in the COSME program under art. 6 of the COSME Regulation”. La fonte comunitaria è piuttosto generica circa le caratteristiche
giuridiche dei soggetti connessi a tali forme di incentivo, ma sembra evidente che rientrano nella definizione le reti di imprese italiane, purché
siano soggettivate ed abbiano gli elementi di transnazionalità richiesti ed
imprese partecipanti con le caratteristiche sopra indicate. Tuttavia, le azioni previste dall’art. 11 del regolamento COSME sono suscettibili di applicazioni anche più ampie, in cui il modello delle reti di imprese, purché utilizzato in una prospettiva transnazionale, può trovare pieno riconoscimento e risultare destinatario di azioni di incentivazione direttamente dall’Unione.
In quest’ottica sarebbe raccomandabile, però, che anche a livello europeo venissero delineati, senza carattere di esclusività, modelli contrattuali / organizzativi suscettibili di essere riconosciuti ai fini di cui al regolamento COSME. In tale prospettiva la regolamentazione italiana della rete di imprese, tanto nella forma meramente contrattuale, quanto, più
utilmente, in quella soggettivata, potrebbe costituire il modello di una “Rete
Europea di Imprese”.
Sebbene le numerose implicazioni e problematiche giuridiche non
possano essere qui rappresentate, sembra degna di approfondimento
la prospettiva di istituire con regolamento una Rete Europea di Imprese50 ovvero di individuare mediante direttiva principi armonizzati in
base ai quali, ai fini dell’accesso alle descritte forme di finanziamento
europeo allo sviluppo, siano riconosciute tra le organizzazioni di diritto nazionale anche quelle con caratteristiche similari alle reti di imprese italiane, ivi inclusa la limitazione della responsabilità dei partecipanti, purché controbilanciata da idonea regolamentazione contabile, organica e pubblicitaria.51
50
È evidente che in tale ambito il Geie si candida a costituire la figura di riferimento; tuttavia alcune sue caratteristiche circa i profili organizzativi e la responsabilità dei partecipanti ne limitano drasticamente l’utilizzazione. Di qui l’ipotesi di affiancarlo con un modello organizzativo ulteriore ed autonomo modellato sulla rete d’imprese disciplinata dal
diritto italiano.
51
Manca rispetto ai clusters ed alle business network organisations una determinazione delle forme organizzative rilevanti. D’altronde, i clusters, così come delineato nelle fonti europee, presentano caratteristiche tanto soggettive quanto funzionali che, come già rilevato, non sono coincidenti con quelle delle reti di impresa; per le business network organisations i profili soggettivo e funzionale appaiono ancora incerti.
205
Federico Pernazza
9.4
Reti d’impresa e diritto europeo della concorrenza
Le istituzioni comunitarie promuovono e sostengono la formazione e lo sviluppo di clusters di imprese situati all’interno del territorio degli Stati membri e nell’ultimo decennio, in particolare, ne hanno fatto una
delle principali misure di politica economica a sostegno dello sviluppo
e dell’occupazione. In tale quadro, vengono anche consentiti ed incoraggiati aiuti di stato con le stesse finalità, in quanto sottratti al divieto di
cui all’art. 107 TFUE ai sensi del comma 3 lett. c).
Le caratteristiche di innovatività e pro-competitività dei clusters, li
riconducono, infatti, a misure che implicano interventi non distorsivi della concorrenza.
Occorre ora considerare se tale approccio possa essere esteso alle reti
di imprese così come delineate dalla legislazione italiana.
Come si è già evidenziato, le reti di impresa non hanno una caratterizzazione territoriale, ovvero non richiedono che le imprese aderenti abbiano le proprie sedi o il centro di produzione aziendale all’interno
di uno stesso territorio né tanto meno presuppongono la collocazione in
territori depressi tali per cui gli eventuali sussidi possano essere esentati ex art. 107, comma 3, lett. a) TFUE.
D’altra parte, l’oggetto dell’attività della rete, come normativamente descritto, non presuppone un particolare tasso di innovatività tecnologica o una specifica rilevanza dell’attività ovvero un legame con uno
specifico territorio come i clusters sì da ricondurre automaticamente gli
eventuali sussidi nell’ambito degli aiuti di Stato compatibili ex art. 107,
comma 3, lett. c).
Le agevolazioni tributarie di cui all’art. 42 della legge 30 luglio 2010
n. 122, come già evidenziato, consistono in una sospensione d’imposta.
Infatti, la quota di utili destinata dalle imprese partecipanti alla realizzazione dell’obiettivo del contratto e accantonamento ad apposita riserva è esclusa dal calcolo del reddito imponibile per la durata del contratto. Le misure di cui alla descritta normativa sono già state sottoposte al
vaglio della Commissione Europea che si è pronunciata con decisione
C(2010) 8939 def. del 26 gennaio 2011. Il provvedimento ha qualificato
le agevolazioni fiscali in esame come non costituenti aiuto di Stato ex art.
107 TFUE, in quanto misure di carattere generale. La Commissione ha,
infatti, rilevato, richiamando la comunicazione C384 del 10 dicembre 1998
sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione dirette alle imprese, che le misure fiscali sono considerate aiuti
di Stato se relative ovvero mirate a favorire talune imprese o talune produzioni. Nel caso di specie, invece, la misura non prevede limiti né di localizzazione territoriale, né di dimensioni aziendali, né sul numero di im206
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
prese partecipanti, né vi è una determinazione dei settori di attività rilevanti. Infine, la misura non può essere applicata discrezionalmente dallo Stato: infatti, il meccanismo previsto per accedere al beneficio è di tipo
automatico, potendo le imprese procedere all’esclusione dal calcolo dell’imposta della riserva pari agli utili accantonati, in quanto destinati alla
realizzazione del contratto di rete. Né vi è un limite, ma lo Stato ripartisce ex post il beneficio nei limiti dell’ammontare annualmente stanziato ripartendolo in proporzione all’ammontare complessivo delle detrazioni richieste.
Le agevolazioni sin qui accordate attraverso le norme tributarie hanno dunque superato il vaglio della Commissione sin dalla loro entrata
in vigore.
Ci si deve chiedere, però, se la pronuncia della Commissione non
potrebbe considerarsi superata alla luce delle modificazioni recentemente intervenute sulla disciplina delle reti. In particolare, nella citata comunicazione (punti 29 e 30) la Commissione si era posta il quesito se il contratto di rete dia vita ad un’impresa distinta ai sensi dell’art. 107, par. 1,
del Trattato.
Nel corso dell’istruttoria condotta dalla Commissione le Autorità
italiane sostennero, però, che la rete di imprese non aveva “personalità giuridica autonoma”. Peraltro si rilevava che le reti possono essere gestite sia
attraverso una dotazione speciale sia attraverso un semplice accantonamento di risorse gestite, per esempio su mandato ad un rappresentante
o ad un organo. Sulla base di tali presupposti la Commissione escludeva il carattere di selettività della misura, in quanto non limitata alle imprese che istituiscono una dotazione speciale.
A seguito della riforma del 2012, come noto, qualora le parti costituenti adottino la forma richiesta dalla legge e dotino la rete di un fondo comune e la iscrivano nella sezione ordinaria del registro delle imprese, la rete acquista soggettività giuridica.52
La modifica normativa non mette tuttavia in discussione le conclusioni già raggiunte dalla Commissione circa la compatibilità delle agevolazioni fiscali alle reti. Fermi restando tutti gli altri elementi già considerati, l’introduzione della facoltà per le parti di dotare la rete di un fondo comune e della soggettività giuridica non incide, infatti, sulla natura della misura di sostegno nell’ottica europea.
È ben vero che in tal modo potrebbe considerarsi creata una nuo-
52
Comma 4-quater dell’art. 3 del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, come da ultimo modificato dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 173 convertito con legge 17 dicembre 2012, n. 221.
207
Federico Pernazza
va impresa, circostanza in precedenza negata dalle autorità italiane nel corso del procedimento di valutazione dinanzi alla Commissione poi conclusasi con il citato provvedimento C(2010) 8939 def. Tuttavia, ciò non implica che la misura di sostegno assuma un carattere selettivo. In primo luogo, la detrazione fiscale è riconosciuta alle parti contraenti la rete e non al
soggetto/impresa che eventualmente si costituisce attraverso tale contratto. Ciò consente, ad esempio, in caso di aiuti in favore delle imprese partecipate che non superino individualmente la soglia di € 200.000 di beneficiare dell’esenzione dall’applicazione degli artt. 107 e 108 TFUE ai sensi del regolamento UE n. 1407 del 18 dicembre 2013 sugli aiuti “de minimis”. In ogni caso, la misura non è selettiva in quanto la possibilità di partecipare alla costituzione di una rete è aperta a tutte le imprese, senza discriminazioni territoriali, dimensionali o di settore di attività.53
Tale tipo di valutazioni dipendono tuttavia dalla rilevanza delle
imprese partecipanti, dagli scopi perseguiti con la rete e dagli effetti
prodotti sul mercato e sono dunque comuni ai contratti di rete che non
implichino la costituzione di nuovi soggetti dotati di personalità giuridica.
Non a caso la Commissione sullo stesso provvedimento con cui riteneva le agevolazioni fiscali compatibili con il Trattato, evidenziava comunque l’applicabilità dell’art. 101 del TFUE. Coerentemente l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato si è espressa già rispetto alla
normativa precedente alle recenti modifiche che hanno consentito l’acquisizione della personalità giuridica ritenendo i contratti di rete potenzialmente qualificabili come intese, ma la valutazione va effettuata caso
per caso e non può essere riferita all’istituto giuridico in se stesso.54
10. Conclusioni
Alla luce delle valutazioni sopra espresse il modello italiano delle
reti di imprese si presenta tra gli strumenti più efficaci e coerenti con le
recenti strategie europee per la promozione di attività di ricerca, sviluppo ed internazionalizzazione delle imprese.
53
La costituzione attraverso il contratto di rete di un soggetto esercente un’attività
di impresa, però, imporrà di prendere eventualmente in considerazione il contratto anche
per diversi aspetti del diritto della concorrenza (divieto di intese restrittive della concorrenza, concentrazioni).
54
Provvedimento n. 22362 del 16 maggio 2011, in Boll. n. 17/2011; sul tema v. anche
G. OLIVIERI – P. ERRICO, Contratto di rete e diritto antitrust, in F. CAFAGGI – P. IAMICELI – G.D.
MOSCO (a cura di), Il contratto di rete per la crescita delle imprese, cit., pp. 367 ss.
208
L’internazionalizzazione delle Reti di Impresa. Profili di diritto interno ed europeo
In tale prospettiva è auspicabile, in primo luogo, che siano rimossi nella legislazione nazionale gli ostacoli che hanno sinora impedito o
disincentivato la partecipazione di imprese straniere, con o senza sedi secondarie in Italia, a contratti di rete. Inoltre, appare particolarmente rilevante che sia prevista la possibilità che nei contratti di rete partecipino, a fianco delle imprese, enti ed istituzioni, anche non lucrativi, in grado di dare un apporto tecnico, scientifico, organizzativo e/o finanziario
allo sviluppo delle attività comuni.
A livello europeo esistono ormai vari richiami normativi ad aggregazioni soggettivate di imprese, distinte dai clusters, genericamente definite “business networks”, quali destinatarie di misure di incentivazione.
La genericità di tali espressioni se, da un lato, ha il vantaggio di non precludere l’erogazione di incentivazioni a forme di aggregazioni non tipizzate, lascia tuttavia incertezza circa i requisiti ed i modelli organizzativi che possono essere riconosciuti a tali fini. E’ pertanto auspicabile l’introduzione di fonti europee intese a definire un modello armonizzato, ma
non esclusivo, di Rete Europea di Imprese. La Rete Europea di Imprese,
caratterizzata per il persistere dell’autonomia delle imprese partecipanti ed il carattere transnazionale dell’iniziativa, potrebbe essere utilmente costruita sulla base del modello della legislazione italiana, al fine di
agevolare l’accesso agli incentivi europei soprattutto da parte di PMI e
microimprese che trovano proprio nell’aggregazione uno strumento fondamentale di efficiente utilizzazione delle risorse e di penetrazione nei
mercati internazionali, assicurando nel contempo la sussistenza di presupposti minimi predeterminati a garanzia della corretta destinazione delle risorse pubbliche.
209
PAOLO PIZZUTI
Nozione di orario di lavoro
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La nozione di orario di lavoro. - 3. Tempo-tuta. - 4. Servizio di guardia e servizio di reperibilità. - 5. Tempo viaggio e trasferta.
1. Premessa
Come è noto, nel nostro ordinamento la materia dell’orario di lavoro è stata a lungo disciplinata dal R.D.L. n. 692/1923, secondo cui l’orario
massimo non poteva eccedere le 8 ore giornaliere e le 48 ore settimanali. Successivamente, gli artt. 2107, 2108 e 2109 del Codice Civile hanno previsto
generici limiti alla durata giornaliera e settimanale della prestazione lavorativa, mentre l’articolo 36 della Costituzione ha introdotto i princìpi di annualità e irrinunciabilità delle ferie (in applicazione dei quali la Corte Costituzionale ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’articolo 2109 c.c.1).
In sede comunitaria, il primo intervento direttamente vincolante per
gli Stati membri è rappresentato dalla direttiva del Consiglio Europeo n.
93/104/CE che ha introdotto delle prescrizioni minime di sicurezza e salute per i lavoratori2; tale direttiva è stata modificata dalle successive direttive 2000/34 e 2000/88/CE che si sono limitate a risistemare organicamente la materia. Il termine per l’attuazione della direttiva 93/104/CE
era fissato al 23 novembre 1996, ma il primo intervento parziale vi è stato soltanto con l’art. 13 della l. n. 196/1997 che fissava l’orario settimanale normale di lavoro a 40 ore, conferendo nel contempo alla contrattazione collettiva ampia facoltà di modulazione dell’orario. Soltanto dopo
qualche anno si è giunti al D.Lgs. n. 66/2003 che rappresenta il definitivo risultato del recepimento della direttiva comunitaria n. 93/104/CE.
1
Corte Cost. 10 maggio 1963 n. 66 in “Il Foro Italiano”, 1963, I, 854, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 2109 cc. nella parte in cui poneva il decorso di un anno di
ininterrotto servizio come presupposto del diritto del lavoratore ad un periodo annuale di
ferie retribuite; sul principio di irrinunciabilità delle ferie v. R. PESSI, Lezioni di diritto del
lavoro, Torino, Giappichelli, 2012, p. 286; v. anche A. VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro, II, Il rapporto di lavoro, Milano, Cedam, 2012, p. 244.
2
Di fatto la direttiva assume un concetto ampio di tutela della salute e pur attribuendo larga facoltà di deroga alle normative e alla contrattazione collettiva nazionale, tocca
taluni aspetti essenziali legati all’orario di lavoro.
211
Paolo Pizzuti
2. La nozione di orario di lavoro
L’art. 1, comma 2, lett. a) del D.Lgs. n. 66/2003 definisce l’orario di
lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni3”.
Tale nuova nozione di orario di lavoro si presenta più ampia rispetto a quella precedente di cui al R.D.L. n. 692/19234. Infatti, l’art. 3 del Regio Decreto definiva l’orario di lavoro come “quel lavoro che richiede un’applicazione assidua e continuativa”; la stessa norma aggiungeva quindi che “non
sono comprese nella dizione di cui sopra quelle occupazioni che richiedono per la
loro natura e nella specialità del caso, un lavoro discontinuo o di semplice attesa
o custodia”. In conseguenza dell’esclusione dal computo dell’orario di lavoro dei cosiddetti lavori discontinui, nel nostro ordinamento si era affermata una nozione di “lavoro effettivo”5 la cui caratteristica principale veniva individuata nella continua disponibilità richiesta al lavoratore6.
Nella nuova disciplina, invece, le attività discontinue o di semplice attesa e custodia vengono esplicitamente escluse solo dalla durata settimanale (art. 16 D.Lgs. n. 66/2003)7. Rispetto alla definizione previgen-
3
La nozione generale di orario di lavoro non è applicabile a tutti i settori; esistono
infatti nozioni specifiche per la gente di mare di cui alla direttiva 99/63/CE e per i lavoratori che svolgono azioni mobili di autotrasporto di cui alla direttiva 99/15/CE ed al D.Lgs.
n. 234 del 2007.
4
F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI E T. TREU, Diritto del lavoro, il rapporto di lavoro subordinato, Milano, Giuffrè, 2013, p. 227 e ss.; V. BALLESTRERO, G. DE SIMONE, Diritto del
lavoro, Torino, Giappichelli, 2012, p. 407 e ss.; R. DEL PUNTA, La riforma dell’orario di lavoro,
in “Diritto e pratica del lavoro”, 2003, n. 22, p. 8; M.G. MATTAROLO, Nozione di orario di lavoro, in Trattato di diritto del lavoro, Contratto di lavoro e organizzazione, diretto da M. PERSIANI, F. CARINCI, a cura di M. MARTONE, Milano, Cedam, 2012, p. 626 e ss.; v. anche Circolare Ministero del Lavoro n. 8/2005; Corte di Giust., 3 ottobre 2000, Causa C-303/98, caso
Simap, ripresa e sviluppata da Corte Giust. 9 settembre 2003, caso Jaeger.
5
Sul tema M. MARTONE, Sulla nozione di “lavoro effettivo”, in “Argomenti di Diritto
del Lavoro,” 1998, p. 463 e ss.; P. ICHINO, L’orario di lavoro e i riposi, a cura di P. SCHLESINGER, Il Codice Civile, commentario art. 2107-2109, Milano, Giuffrè, 1987, p. 255.
6
S. BELLOMO, sub. art. 2107-2109, in G. AMOROSO, V. DI CERBO, A. MARESCA, Diritto
del lavoro, La costituzione, il Codice Civile e le Leggi speciali, Milano, Giuffrè, 2013, p. 906; v.
anche Cass. 2 aprile 1986, n. 2268; Cass. 19 febbraio 1983, n. 1462, in “Orientamenti Giurisprudenza del Lavoro”, 1985, p. 819.
7
M. MARRUCCI, Orario di lavoro e riposi, Milano, Giuffrè, 2012, p. 26; una conferma dell’accezione allargata della nozione di orario di lavoro è data anche dalla Circolare n. 8/2005
del Ministero del Lavoro secondo cui “l’attuale formulazione ha una accezione certamente più
ampia, così come ha chiarito la stessa Corte di Giustizia Europea, che ha ritenuto compresi nell’orario di lavoro i periodi in cui i lavoratori sono obbligati ad essere fisicamente presenti sul luogo indicato dai datori di lavoro e a tenervisi a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la loro opera in caso di necessità”.
212
Nozione di orario di lavoro
te, la nozione di orario di lavoro introdotta dal D.Lgs. n. 66/2003 è quindi più ampia, comprendendo anche quei periodi in cui il lavoratore è al
lavoro8, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle sue attività o funzioni, anche se non stia effettivamente lavorando9.
Questi tre criteri devono coesistere al fine di ricondurre la prestazione lavorativa nell’orario di lavoro10, mentre non è di per sé sufficiente la mera disponibilità del dipendente o il semplice esercizio di attività11. Per tale ragione la Corte di Giustizia ha ritenuto compresi nell’orario di lavoro i periodi in cui il lavoratore è obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo indicato dal datore e a tenersi a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria attività in caso di
necessità12. In particolare, l’espressione “nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni” rappresenta una formula ampia che indica una precisa
volontà legislativa di considerare non solo l’attività lavorativa in senso
stretto, ma un concetto più esteso, che comprende anche operazioni funzionali alla prestazione13. Ad esempio, l’espletamento del servizio di guardia viene considerato rientrante nell’orario di lavoro se effettuato sul luogo di lavoro anche qualora all’interessato sia consentito riposare durante i periodi in cui non è richiesta la sua attività14. In linea generale la nuova nozione di orario fa si che nel calcolo della durata della prestazione
debbano essere inclusi anche i periodi durante i quali il dipendente è soggetto ad un obbligo di permanenza sul luogo di lavoro e, anche se impegnato in attività di intensità variabile con intervalli notevolmente prolungati, è comunque tenuto a mantenersi costantemente a disposizione
del datore di lavoro15.
8
Cioè nel luogo di lavoro, V. FERRANTE, Il tempo di lavoro tra persone e produttività, Torino, Giappichelli, 2008, p. 228 e ss.
9
P. RAUSEI, Amministrazione del personale, in “Lavoro e Previdenza Oggi”, 2011, p. 267.
10
Si v. la risposta del Ministero del Lavoro all’interpello n. 15 del 2 aprile 2010; v. anche sentenza Corte di Giustizia del 9 settembre 2003 n. 151/02; contra Trib. Bergamo 23 marzo 2010, in “Guida al Lavoro”, 2010, 17, p. 40 che non ritiene necessaria la ricorrenza congiunta dei tre criteri.
11
D. SIMONATO, La nuova nozione di orario di lavoro, a cura di C. CESTER, Il lavoratore subordinato costituzione e svolgimento, diretto da F. CARINCI, Diritto del lavoro Commentario, Torino, Giappichelli, 2007, p. 1042.
12
Corte di Giust. 9 settembre 2003, n. 151/02.
13
Cass. 8 febbraio 2012, n. 1817.
14
Corte Giust. CE, 9 settembre 2003, Causa C-151/02; Corte Giust. CE, 3 ottobre 2000,
Causa C-241/99; Corte Giust. CE, 5 ottobre 2004, cause riunite C- 397/01 e C- 403/01; Corte Giust. CE, 11 gennaio 2007, C-437/08.
15
S. BELLOMO, Sub. art. 2107-2109, cit., p. 907.
213
Paolo Pizzuti
3. Tempo-tuta
Come è noto, per tempo-tuta si intende il tempo impiegato dal lavoratore per indossare la divisa aziendale. Il dubbio sorge circa la possibilità di far rientrare queste attività preparatorie alla prestazione lavorativa nell’orario di lavoro con conseguente onere retributivo da parte del
datore16. La giurisprudenza17 si è espressa in modo uniforme sulla questione in esame sottolineando che per valutare se il tempo occorrente ad
indossare la divisa aziendale debba essere retribuito è necessario fare riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data
la facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa, la relativa attività farà parte degli atti di diligenza preparatoria allo
svolgimento dell’attività lavorativa e come tale non dovrà essere retribuita; mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientrerà nel lavoro effettivo
e di conseguenza il tempo necessario a vestirsi sarà retribuito.
L’elemento essenziale che permette di includere il tempo tuta nell’orario di lavoro è, pertanto, l’eterodirezione18, cioè lo svolgimento dell’attività in ambiente di lavoro con la possibilità del datore di controllare puntualmente il tempo ed il luogo di esecuzione di essa.
4. Servizio di guardia e servizio di reperibilità
La problematica della configurabilità del servizio di guardia nell’orario di lavoro si è riproposta in modo puntuale con la sentenza della Corte di Giustizia del 9 settembre 2003 n. 151. La Corte ha precisato che il
servizio di guardia che il medico svolge in un regime di presenza fisica
obbligatoria in ospedale (e quindi sul luogo ove si presta l’attività lavorativa) va considerato rientrante nell’orario anche qualora all’interessato sia consentito riposare sullo stesso luogo di lavoro19.
16
A. CASOTTI, M.R. GHEIDO, Orario di lavoro, Milano, Giuffrè, 2009, p. 26.
Cass. 7 febbraio 2014, n. 2837; Cass. 7 giugno 2012, n. 9215; Cass. 31 gennaio 2011,
n. 2135, in “Guida al lavoro”, 2011, n. 19, p. 24; Cass. 10 settembre 2010, n. 19358; Cass. 2
luglio 2009, n. 15492; Cass. 22 luglio 2008, n. 20179; Cass. 21 ottobre 2003, n. 15734; Cass.
14 aprile 1998, n. 3763 in “Rivista Critica di Diritto del Lavoro.”, 1998, n. 3, p. 701.
18
Cass. 10 settembre 2010, n. 19358 per cui sono da comprendere nell’orario di lavoro effettivo, e come tali da retribuire, anche le attività preparatorie o successive allo svolgimento del lavoro, purché eterodirette dal datore, fra le quali deve ricomprendersi anche
il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale, qualora lo stesso datore ne disciplini il tempo ed il luogo di esecuzione.
19
Sul tema, V. LECCESE, Commento Sub art. 1, in M. NAPOLI, L’orario di lavoro tra ordi17
214
Nozione di orario di lavoro
Nel caso di specie, la controversia era stata instaurata da un medico del comune di Kiel (in Germania), il quale aveva adito il giudice nazionale ai fine di far dichiarare che i servizi di guardia effettuati rientrassero nell’orario di lavoro.
In proposito la giurisprudenza tedesca proponeva una distinzione tra servizio di permanenza fisica obbligatoria, servizio di guardia e
servizio di reperibilità, considerando solo la prima ipotesi rientrante nell’orario di lavoro. Di fronte alla questione, mentre il giudice di primo
grado aveva accolto la domanda del prestatore di lavoro, il giudice d’appello rinviava la questione alla Corte di Lussemburgo, la quale - come
detto - considerava anche il servizio di guardia rientrante nella nozione di orario di lavoro.
Un discorso a parte, invece, va fatto per quanto concerne il servizio di reperibilità20.
Sul punto, l’orientamento dominante tende a separare il periodo di
reperibilità dall’orario di lavoro, in quanto, seppur presente il requisito
della “messa a disposizione” a favore del datore, mancherebbero gli altri
due elementi di cui all’art. 1 del D.Lgs. n. 66/2003 (ovvero il lavoratore
al lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, requisiti
che non ricorrono per il lavoratore reperibile)21.
Inoltre, la stessa autonomia collettiva tende a riconoscere ai lavoratori in regime di reperibilità non una vera e propria retribuzione, ma
una semplice indennità, al fine di compensare il loro disagio. Lo stesso
Ministero del lavoro22, richiamando una consolidata giurisprudenza europea23, ha ribadito che il servizio di mera reperibilità non rientra nell’orario di lavoro se non per il tempo in cui comporta l’effettiva prestazione
lavorativa.
namento interno e disciplina comunitaria, in “Nuove Leggi Civili Commentate”, 2004, p. 1246;
F. BANO, Il lavoro subordinato, Il rapporto individuale di lavoro: costituzione e svolgimento, a cura
di F. CARINCI, Torino, Giappichelli, p. 345 e ss.
20
Compensato da una specifica indennità contrattuale, c.d. di reperibilità: Cass. 28
giugno 2011, n. 14301; Cass. 22 dicembre 1995, n. 13055; Cass. 13 maggio 1995, n. 5245. In
senso conforme anche Cass. 2 aprile 1998, n. 3419; Trib. Milano 10 luglio 2001, in “Rivista
Critica di Diritto del Lavoro”, 2001, p. 1031.
21
D. GAROFALO, Il D. lgs. 66/2003 sull’orario di lavoro e la disciplina previgente: un raccordo problematico, in “Il Lavoro nella Giurisprudenza”, 2003, n. 11, p. 997.
22
Interpello del Ministero del lavoro n. 13 del 2008.
23
Corte Giustizia CE 3 ottobre 2000, n. 303; Cass. 7 giugno 1995, n. 6400 in “Il Lavoro nella Giurisprudenza”, 1996, p. 255.
215
Paolo Pizzuti
5. Tempo viaggio e trasferta
Altro problema giurisprudenziale di rilievo è quello della computabilità o meno del cosiddetto tempo viaggio nell’orario di lavoro. A tal
proposito l’art. 8 del D.Lgs. n. 66/2003, disciplinando le pause, prevede
espressamente che “salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi, rimangono non retribuiti o computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti
di durata i periodi di cui all’art. 5, R.D. 1955 e successivi atti applicativi di cui
all’art. 4, R.D. 1956 e successive integrazioni”24. In forza di questa norma,
il tempo impiegato per raggiungere il posto di lavoro viene escluso dalla nozione di orario effettivo, anche se, come detto, lo stesso art. 8 del D.Lgs.
n. 66/2003 fa salve le “diverse disposizioni dei contratti collettivi25”. La giurisprudenza, a tal proposito ritiene che il tempo impiegato per raggiungere il luogo di lavoro rientri nell’attività lavorativa vera e propria - e va
quindi sommato al normale orario di lavoro - allorché sia funzionale rispetto alla prestazione26. Il principio della funzionalità sussiste nel caso
in cui il lavoratore, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia
poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgere la sua prestazione di lavoro27; il tempo in questione, necessario per lo svolgimento dell’attività lavorativa,0 rientra nell’orario di lavoro e deve essere retribuito28.
Diversa, ovviamente, è l’ipotesi dell’invio in trasferta con percezione della relativa indennità29. Il tempo impiegato giornalmente dal lavo-
24
V. Cass. 9 aprile 2003, n. 5544 in “Massimario Giurisprudenza del Lavoro”, 2003,
p. 565, secondo la quale l’elencazione dei periodi che non possono essere considerati di lavoro, contenuta dell’art. 5, R.D. n. 1955/1923, non è esaustiva.
25
M. PAPALEONI, Interrogativi applicativi sulla riforma dell’orario di lavoro e dei riposi, in
“Argomenti di Diritto del Lavoro”, 2003, p. 442.
26
Cass. 11 aprile 2003, n. 5775 e Cass. 22 marzo 2004, n. 5701; Cass. 1 settembre 1997,
n. 8275; Cass. 7 giugno 1996, n. 5323.
27
Cass. 14 marzo 2006, n. 5496 secondo cui “Il tempo per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell’attività lavorativa vera e propria (e va, quindi, sommato al normale orario di lavoro
come straordinario), allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione; in particolare, sussiste il carattere di funzionalità nei casi in cui il dipendente, obbligato a presentarsi presso
la sede aziendale, sia poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa. Analogo carattere deve riconoscersi, in generale, in tutte le ipotesi in cui il lavoratore sia obbligato dal datore di lavoro, per ragioni inerenti alla prestazione, a risiedere in un determinato luogo, si che lo spostamento da questo alla sede aziendale per lo svolgimento delle ordinarie attività lavorative è senz’altro computabile nell’orario di lavoro”.
28
Sul punto v. Cass. 22 marzo 2004, n. 5701, in “Diritto e Pratica del Lavoro”, 2004,
n. 25, p. 1701.
29
Cass. 10 aprile 2001, n. 5359; Cass. 3 febbraio 2000, n. 1202.
216
Nozione di orario di lavoro
ratore per raggiungere la sede di lavoro durante il periodo della trasferta non può – salvo diversa previsione contrattuale – considerarsi incluso nell’attività lavorativa vera e propria, né sommarsi al normale orario
di lavoro; esso viene infatti compensato con l’indennità di trasferta, la quale è diretta a monetizzare il disagio psicofisico e materiale dato dalla fatica degli spostamenti30.
30
V. Interpello del Ministero del lavoro del 2 aprile 2010 n. 15; v. anche Cass. 10 aprile 2001, n. 5359; Cass. 3 febbraio 2000, n. 1170; Cass. 3 febbraio 2000, n. 1202.
217
ANDREA RALLO
Garanzie e soccorso procedimentale per il contenimento
del contenzioso: ADR e processo amministrativo1
1) Sul tema delle ADR, va detto che il diritto amministrativo assume quel po’ di sussiego di chi tratta l’argomento, pur se con nomi diversi, da oltre 150 anni: si ricorderà infatti che la legge di unificazione n.
2248/1865, All. E, individuava come unico rimedio per la lesione degli
interessi legittimi ad opera della p.A. l’esperimento di “ricorsi amministrativi”2, escludendosi il controllo giurisdizionale sino all’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato del 1889, ma lasciando tuttavia la concorrenza – e sino alla Costituzione Repubblicana, anche la pregiudizialità (sub specie di “definitività”) – di questi rimedi “interni”, peraltro tuttora vigenti.
Non deve quindi stupire se il diritto amministrativo guarda alle ADR
con quell’antico sospetto esplicitato nel “Discorso non pronunciato” del 1890,
con il quale Silvio Spaventa definiva fonti di “arbitrio” tutti i rimedi che
non fossero il ricorso giurisdizionale avverso gli atti della p.A., dubitando che si potesse trovare “nell’organismo dell’amministrazione stessa un controllo efficace, in modo da offrire qualche guarentigia di giustizia ed imparzialità, desiderabile sempre in ogni sfera dell’amministrazione d’un paese civile”.
Che questa o le altre esternazioni del primo Presidente del Consiglio di Stato (come l’altrettanto noto “Discorso di Bergamo” del 6 maggio 18803) fossero riconducibili ad una sua adesione all’idea hegeliana di
giustizia4, ovvero fossero frutto della verifica sul campo della deriva arbitraria dell’autodikia amministrativa, resta tuttora essenziale la consapevolezza che il diritto amministrativo ha dei limiti storici ed operativi nell’accogliere rimedi alternativi al sindacato giurisdizionale per il control-
1
Questo lavoro, rivisto, aggiornato e con la bibliografia essenziale di riferimento, è
stato presentato al Convegno “Risoluzione alternativa delle controversie: questioni aperte e prospettive” tenuto a Campobasso presso il Dipartimento Giuridico il 16 maggio 2014
2
Si v. N. LONGOBARDI, Modelli amministrativi per la risoluzione delle controversie, in
Dir. Proc. Amm., 2005, pp. 56 e ss.
3
Entrambi i “discorsi” di S. SPAVENTA sono pubblicati nella Sezione “Studi e Contributi” di www. giustizia-amministrativa.it
4
E’ l’opinione di S. ZEULI, Il pensiero di Silvio Spaventa, così attuale anche dopo 131 anni,
in www.anmdirettivo.it, 2011
219
Andrea Rallo
lo sull’esercizio del potere pubblico.
C’è però da notare che, rispetto al passato, la perdurante tendenza
alla privatizzazione del rapporto cittadino-p.A. e il sempre più ampio caratterizzarsi di gran parte delle rispettive relazioni in termini tipicamente contrattuali5 comportano che tutto ciò che potrà dirsi ed acquisirsi in
ordine alle ADR nei rapporti di diritto privato, potrà essere esteso facilmente anche all’attività contrattualizzata della p.A.6, senza che sorgano
problematiche di qualche reale spessore, ma solo eventuali statuti normativi speciali, confinati in nicchie temporali di breve momento (si pensi ai divieti più o meno ciclici del ricorso all’arbitrato rituale7).
Tuttavia, quando si consideri l’attività dell’Amministrazione che risponde al “complesso di norme che disciplina i rapporti tra cittadini e lo stato in quanto esso agisce, come autorità, nei casi concreti per il raggiungimento dei suoi scopi d’ordine, civiltà o benessere giuridico”8, e dunque quella, che
in tempi moderni si preferisce definire come attività autoritativa, la questione cambia completamente prospettiva.
2) Il problema delle ADR nel diritto amministrativo “puro” ha infatti due valenze, l’una sostanziale e l’altra giuridico formale9:
a) sul piano sostanziale domina il dogma dell’indisponibilità del potere pubblico, ovvero – ma è la medesima prospettiva – dell’indisponibilità dell’interesse pubblico, individuato dalla legge ed attribuito alla cura
dell’Amministrazione, secondo lo schema tipico del principio di legalità.
La questione è al tempo stesso nota ed infinita nella sua latitudine (basti pensare all’inesauribilità del potere sanzionatorio amministrativo, visto come esercizio di amministrazione attiva), solo leggermente scalfita da
5
Per tutti P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione, Padova, 2005, in part. pp. 87 e ss.
6
Cfr. G. VERDE, Arbitrato e pubblica amministrazione”, in Dir. Proc. Amm., 1996,
pp. 215 e ss
7
Per una ricostruzione accurata, S. CASSESE, L’arbitrato nel diritto amministrativo”,
in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1996, pp. 311 e ss.; S.S. SCOCA, L’arbitrato nei contratti pubblici e
l’inossidabile saggezza del legislatore, in Dir. Proc. Amm., 2009, pp. 1161 e ss.; G. MISSERINI,
L’esclusione dell’arbitrato in materia di appalti pubblici dal codice del processo amministrativo, in
Urb. e App., 2012, pp. 394 e ss.
8
Attingendo alla classica definizione di F. CAMMEO, Corso di Diritto Amministrativo, Napoli, 1960
9
Si v. M.P. CHITI, Le forme di risoluzione delle controversie con la pubblica amministrazione alternative alla giurisdizione, in Riv. Ital. Dir. Pubbl. Comunitario, 2000, pp. 1 e ss.; F.
CINTIOLI, Le tecniche di Alternative Dispute Resolution, in www.giustamm.it, 2009
220
Garanzie e soccorso procedimentale per il contenimento del contenzioso
qualche norma, latamente interpretabile come legittimante una cogestione amministrazione-privato dell’interesse pubblico (ci si riferisce ovviamente agli accordi integrativi ex art. 11 L. 241/90 ed al project financing).
Ma il punto centrale è altro: è evidente infatti che se potere pubblico e interesse pubblico non sono disponibili, allora essi difficilmente potranno essere sindacati da soggetti che non siano il Giudice o Apparati
amministrativi, in base a leggi specifiche (tutte ancora da inventare), per
il semplice motivo che all’Amministrazione è inibita la cessione della gestione degli interessi pubblici ad altro soggetto non previsto dalla legge,
dal momento che in tal modo si violerebbe immediatamente il principio
di attribuzione e pertanto quello della legalità.
Naturalmente si potrebbe obiettare che l’affidamento volontario della mera verifica della legittimità degli atti amministrativi non comporterebbe alcuna “cessione” del potere di gestione dell’interesse pubblico.
Tuttavia un controllo oggettivo dell’atto potrebbe essere limitato ai soli
casi di violazioni di legge o di procedimento, venendo però a mancare
(e sarebbe comunque difficilmente separabile dai primi) quell’essenziale sindacato sull’esercizio della funzione, tipico dell’eccesso di potere10,
che costituisce il proprium del sindacato di legittimità sull’esercizio del
potere e che presuppone necessariamente l’attribuzione legislativa ad
un’Autorità terza, non potendo appunto essere “volontariamente” ceduto dalle singole Amministrazioni (quantomeno ai fini dell’annullamento e non della semplice disapplicazione);
b) Ma qui interviene il limite giuridico-formale dato dagli artt. 24
e 113 Cost., che impongono al “sistema” di garantire il diritto del cittadino di rivolgersi al Giudice contro gli atti lesivi della p.A.
Ed il nodo è più stretto di quanto possa sembrare:
- da una parte, la Corte Costituzionale si mostra attento presidio del
diritto di ricorrere al Giudice: è dello scorso mese di Aprile l’ultima pronuncia con la quale la Corte ha ribadito il principio, elaborato sin dalla
Sent. n. 47/64, secondo cui il legislatore deve attentamente bilanciare l’obbligo – pur in astratto ammissibile – di attivazione di strumenti non contenziosi preliminari all’accesso all’azione giudiziaria, in quanto essa non
può essere totalmente condizionata (o resa più difficoltosa o eccessivamente ritardata) dal previo esperimento di rimedi di carattere amministrativo11;
10
F. BENVENUTI, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in Rass. Dir.
Pubbl., 1950, pp. 1 e ss.
11
Cfr. da ult. Corte Cost. 16 aprile 2014 n. 98, Red. Mattarella
221
Andrea Rallo
- dall’altra, l’ordinamento – salvo casi del tutto particolari (ad es. in
materia di accesso ai documenti12 o di silenzio inadempimento) – non coordina l’esperimento di rimedi amministrativi con le norme sulla decorrenza del termine breve per l’impugnazione giurisdizionale. Sicchè, anche nei casi previsti dalla legge, la scelta del rimedio extragiudiziario (o
ADR) comporta – nei fatti – la rinuncia alla difesa giurisdizionale, ma senza che vi sia una chiara alternatività consapevole da parte del cittadino,
ovvero poteri di risoluzione e di conformazione analoghi a quelli derivanti dalla sentenza.
Basti vedere da ultimo il Procedimento dinanzi all’AVCP per la risoluzione delle controversie in tema di Contratti Pubblici, previsto dall’art. 6, co. 7, del Codice dei Contratti e recentemente disciplinato con il
Regolamento AVCP del 13.2.201413.
Qui ci si trova dinanzi ad un reale tentativo di ADR, poiché si
tratta di un vero e proprio procedimento contenzioso dinanzi ad un’Autorità indipendente e terza, con ricorso, repliche, contraddittorio ed udienze. Dunque ad un moderno e significativo case study sulle ADR nel diritto amministrativo contemporaneo.
Tuttavia i limiti all’introduzione delle ADR nel diritto amministrativo si manifestano immediatamente, come può vedersi approfondendo
l’indagine. Infatti i poteri conferiti all’Autorità di Vigilanza sono limitati all’emissione di un parere non vincolante; la proposizione del ricorso
all’AVCP non sospende il termine di proposizione del ricorso giurisdizionale; il ricorso all’AVCP diviene immediatamente improcedibile se sopravviene una qualunque pronuncia del Giudice di I grado.
Ma se questo è il regime possibile dei rimedi alternativi in una materia (contratti della p.A.) già in sé a spiccato contenuto privatistico anche
nella fase autoritativa del procedimento ad evidenza pubblica, e per di più
in un settore nel quale operano le Direttive UE nn. 89/665 e 04/66 (che autorizzano gli stati ad affidare il contenzioso anche ad autorità non giurisdizionali), è facile desumere quale possa essere l’effetto dei descritti limiti all’introduzione delle ADR nei settori dove più propriamente si manifesta l’autoritatività del diritto amministrativo e l’indisponibilità degli interessi pubblici (urbanistica, sicurezza, paesaggio, ambiente, salute, ecc.);
c) Altro limite significativo, sia pure esterno, è stato poi introdotto
dal Codice del Processo Amministrativo del 2010, che sancisce l’unicità
12
Si v. ad esempio, per la decorrenza a seguito di accesso informale agli atti di gara,
TAR Perugia, 10.9.2014 n. 448, che interpreta Corte di Giustizia UE 8.5.2014 (pronunciatasi dopo la rimessione di Ad. Plen. 20.5.2013 n. 14), in www.lexitalia.it
13
In GU n. 54 del 6.3.2014
222
Garanzie e soccorso procedimentale per il contenimento del contenzioso
del ricorso impugnatorio dinanzi al GA quale esclusivo rimedio per determinate materie (appalti, elettorale, accesso, ecc.)14, ma anche quale condizione essenziale (ipocritamente poi definita come pregiudiziale sostanziale e non più processuale) per il risarcimento del danno da lesione di
interessi.
d) Va da ultimo aggiunto che gli stessi ricorsi amministrativi, pure
ben noti e disciplinati con interventi normativi anche recenti, sono oggi
relegati al rango di eccezioni, situate in pochi procedimenti marginali e
settoriali.
Essi inoltre non possono essere qualificati come ADR, mancando il
carattere essenziale della “terzietà” dell’Autorità decidente: infatti, seguendo al contrario questa linea di pensiero, lo stesso Ricorso Straordinario
al Capo dello Stato, il cui procedimento conosce invece il requisito della terzietà, è stato recentemente classificato come azione giurisdizionale propria e non come rimedio amministrativo15.
3) Dunque l’ingresso delle ADR nel diritto amministrativo autoritativo presupporrebbe anzitutto una modifica costituzionale, che tuttavia non sembra auspicabile.
Può apparire una considerazione fuori tempo, ma al di là della perdurante attualità delle osservazioni di Silvio Spaventa, occorre ricordare che gli artt. 24 e 113 Cost. vennero introdotti come norme di garanzia,
frutto dell’esperienza maturata con il Fascismo.
Il dispotismo di quel regime infatti si manifestò anche sottraendo
alla cognizione del Consiglio di Stato atti e materie scomode, dopo aver
verificato l’impossibilità di piegare l’indipendenza di questo Organo, come
invece gli riuscì con la Cassazione16.
Oggi non c’è più il Fascismo, ma analoghi poteri burocratici, finanziari e tecnocratici attualizzano le medesime esigenze per la delicatezza delle questioni trattate. Dunque la necessità di garantire un livello di terzietà ed indipendenza dell’autorità decidente può (ragionevolmente) raggiun-
14
V. anche V. DOMENICHELLI, Le prospettive dell’arbitrato nei rapporti amministrativi (tra marginalità, obbligatorietà e con sensualità, in Dir. Proc. Amm., 1998, pp. 243 e ss.
15
Si v. Cass. SS. UU. 19.12.2012 n. 23464; Ad. Pl. 6.5.2013 n. 9 e da ult., a seguito della riforma della L. 68/09, anche Corte Cost. 2 aprile 2014 n. 73, Red. Cassese. Cfr. A. SCOGNAMIGLIO, Il ricorso straordinario al capo dello Stato: un istituto ancora irrisolto, in Giur.it.,
2014; P. TANDA, Le nuove prospettive del ricorso straordinario al Capo dello Stato, Torino, 2014
16
O. ABBAMONTE, La politica invisibile: Corte di Cassazione e Magistratura durante il
Fascismo, Milano 2003
223
Andrea Rallo
gersi solo con lo status giudiziario, possibilmente ancor meglio precisato
con la preclusione irreversibile per i Giudici Amministrativi delle Sezioni giurisdizionali di assumere incarichi governativi di gestione diretta, di
consulenza ministeriale o di redazione di Testi Unici e di Codici!
E va infine rilevato, a conferma dell’universalità delle esigenze sopra ricordate, il sempre più frequente ricorso al Judicial Review, per la soluzione di controversie tra cittadini e pubblica Amministrazione, proprio
in quegli ordinamenti di Common Law che tradizionalmente affidavano
questo contenzioso alla cognizione di Autorità o Agenzie Indipendenti
non togate17.
4) Resta la domanda se sia opportuno pensare ad introdurre ADR
quale rimedio per l’eccesso di contenzioso gravante sul G.A..
Ad aver ascoltato i risultati ed i numeri richiamati il 31 gennaio scorso dal Presidente del Consiglio di Stato Giovannini18, sembrerebbe che
se ne potrebbe fare a meno (n. 322.456 ricorsi pendenti per l’intera giurisdizione amministrativa). Anche perché, se è vero che nel 2013 sarebbero stati definiti quasi il doppio dei ricorsi proposti (114.592 decisi su
64.483 pervenuti), allora può ritenersi che non sussista una vera e propria “emergenza giustizia amministrativa”, tale da imporre la “moda”
delle ADR19. Tanto più che il trend verso la riduzione del contenzioso è
destinato a perdurare, aiutato dall’incostituzionale previsione del Codice sulla perenzione ultraquinquennale e dall’astronomico costo della tassazione per l’accesso al processo amministrativo (contributo unificato),
parimenti incostituzionale, per quanto a danno soprattutto del “cittadino allo stato brado”20.
5) Diversa e ben più percorribile ed auspicabile è invece la strada
dello sviluppo degli strumenti di deflazione del contenzioso, e dunque
17
Si v. B. MARCHETTI, Pubblica amministrazione e Corti negli Stati Uniti, Padova 2005;
ma anche il più risalente e critico H.T. EDWARDS, Alternative dispute resolution: panacea or
anathema?, Harward Law Review, 1986, pp. 667 e ss.
18
Pubblicato in www.giustizia-amministratva.it
19
Moda infatti anche recentissima nel processo civile: si v. il D.L. 12.9.2014 n. 132 e
la nuova “negoziazione assistita da un avvocato”
20
Secondo la straordinaria “definizione” di M. NIGRO del semplice ed “indifeso”
utente dei servizi e delle funzioni amministrative, Il procedimento amministrativo tra inerzia
legislativa e trasformazioni dell’amministrazione (a proposito di un recente disegno di legge), in Dir.
Proc. Amm., 1989, p. 8
224
Garanzie e soccorso procedimentale per il contenimento del contenzioso
di quelle disposizioni attraverso cui il sistema amministrativo consente
di correggere ab origine i vizi degli atti nei quali cade l’Amministrazione nell’esercizio della propria funzione.
Andranno in particolare implementate quelle norme che intervengono garantendo un riesame prima che il provvedimento finale venga
formalmente emesso, mediante l’interlocuzione con il privato destinatario in un momento antecedente al definitivo esercizio del potere: dunque con garanzie e soccorsi procedimentali.
Vi sono almeno tre punti dai quali muovere e sui quali riflettere21:
- il primo è che nella maggior parte dei casi in cui l’Amministrazione emette un provvedimento illegittimo, semplicemente “sbaglia”: cioè commette un errore non voluto ed in buona fede, sia sui presupposti di fatto
che di diritto, complici anche le difficoltà interpretative delle norme giuridiche e l’insopportabile non linearità dell’applicazione giurisprudenziale;
- il secondo, è che la pubblicazione del provvedimento formale costituisce la border line per la deflazione del contenzioso. Nel senso che –
una volta emanato il provvedimento finale – il funzionario pubblico quasi mai “torna indietro”, anche se convinto dell’illegittimità commessa, preferendo piuttosto far subire un costoso processo all’Amministrazione di
appartenenza. Quindi l’autotutela, soprattutto se richiesta “a caldo”, nell’immediatezza cioè del provvedimento emesso, non serve quasi a nulla, anche quando l’errore è evidente e ricostruibile con facilità (si v. la sorte del Preavviso di ricorso ex art. 243bis Cod. Appalti). Manca infatti
un’evoluta mentalità in tal senso da parte dei funzionari pubblici, oltre
che adeguate garanzie che escludano la responsabilità erariale ed adeguate sanzioni individuali (ad esempio del tipo previsto dagli artt. 2 e
2bis L. 241/90 in tema di silenzio inadempimento) per la mancata attivazione dell’autotutela richiesta, oltre che l’indispensabile sospensione
del termine di impugnazione giursdizionale;
- il terzo è la necessità di tener conto della reattività del cittadino,
leso da una decisione dell’Amministrazione, che pretende di poter interloquire e dire la sua; per poi eventualmente anche accettare la decisione negativa, senza dunque proporre ricorso giurisdizionale, purchè gli
sia stata concessa una seria presa in considerazione delle sue osservazioni ed un attento e meditato riesame22.
21
Per l’art. 10 bis della L. 241/90, sia consentito rinviare al mio, Comunicazione dei
motivi ostativi ex art. 10bis L. 241/90 e partecipazione postdecisionale:dal contraddittorio oppositivo al dialogo sul possibile, in Studi sul procedimento e sul provvedimento amministrativo, a cura
di F. LIGUORI, Bologna, 2007, pp. 35 e ss
22
Gli studi “neurogiuridici” sono ampiamente documentati: si v. ad es. E. PICOZ-
225
Andrea Rallo
6) In realtà occorrerebbe tornare al disegno originario della Commissione Nigro per far confluire, all’interno del procedimento, quell’idea
di fair procedure che ne costituiva lo scopo principale, qualificando in questo senso il rapporto procedimentale tra cittadino e pubblica Amministrazione.
Una dimostrazione di fair procedure sicuramente deflattiva del contenzioso è data ad esempio dal procedimento di cui all’art. 14bis della L.
241 (cd. Conferenza di Servizi Preliminare), dove impresa e Amministrazioni si siedono per verificare insieme la fattibilità di un progetto, prima
di procedere ad una successiva formale domanda di autorizzazione alla
localizzazione di iniziative industriali rilevanti. Qui il progetto definitivo può dirsi a formazione concordata preventiva e, se entrambe le parti si muovono con lealtà e collaborazione, difficilmente vi saranno futuri contenziosi, essendo state già da prima evidenziate e composte, anche
in caso di esito negativo, le rispettive criticità.
Per venire alle garanzie procedimentali più comuni, basterebbe l’introduzione di norme più aderenti allo spirito di quell’art. 41 della Carta di Nizza (Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che ha
valore di trattato ai sensi dell’art. 6 dell’Atto di Lisbona), che nel fissare
i contenuti minimi del cd. Diritto ad una buona amministrazione, fa emergere il diritto del cittadino ad essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga emesso un provvedimento sfavorevole. Con ciò confermando
che le garanzie procedimentali costituiscono un interesse essenziale e comunque un prius rispetto alla successiva tutela contenziosa.
In questa prospettiva sembra sempre più evidente l’insufficienza delle garanzie procedimentali “difensive” presenti nelle norme della L. 241/90
sul procedimento amministrativo23 , soprattutto perché non tengono conto del rapporto sempre più trilaterale dell’Amministrazione moderna, ormai frequentemente arbitro di interessi e posizioni private contrapposte.
Le garanzie procedimentali invero dovrebbero essere anzitutto calibrate in ragione delle differenti posizioni sostanziali dei rapporti procedimentali concreti:
I) I controinteressati, sebbene formalmente da invitare nel procedi-
ZA, Neurodiritto: ipotesi o realtà, in Il meritevole di tutela:scenari istituzionali e nuove vie di diritto, a cura di E. DE GIORGI CEZZI, P.L. PORTALURI, FF. TUCCARI e F. VETRO’, Napoli, ESI, 2012, pp. 257 e ss.
23
Ben analizzate in dottrina da A. SCOGNAMIGLIO, Il diritto di difesa nel procedimento amministrativo, Milano, 2004 e più di recente da F. GAFFURI, Il Rapporto procedimentale,
Milano, 2013 e da M. CALABRO’, La funzione giustiziale nella pubblica amministrazione, Torino, 2012
226
Garanzie e soccorso procedimentale per il contenimento del contenzioso
mento ex art. 7 L. 241, nella realtà restano fuori dal procedimento stesso (soprattutto se sono contrinteressati sostanziali) e pertanto possono
ricevere garanzia solo extraprocedimentali ed in particolare quella contenziosa.
Tuttavia, non essendo stati interpellati prima che venisse adottato
un atto (favorevole al richiedente e pertanto) per loro lesivo, l’art. 41 della Carta di Nizza potrebbe giustificare per questi un generalizzato diritto a proporre un’opposizione, per provocare un procedimento di secondo grado in autotutela.
Rispetto all’attuale semplice diritto di “denuncia”, si dovrebbe trattare di un’istanza di autotutela che l’Amministrazione sia obbligata a prendere in considerazione (il che è attualmente negato dalla dominante giurisprudenza del Giudice Amministrativo), cui andrebbero aggiunti solo pochi correttivi: sospensione dei termini di impugnazione giurisdizionale; contraddittorio obbligatorio con l’interessato principale; sanzioni disciplinari e pecuniarie significative per il funzionario che non si pronunciasse o rigettasse (o anche accogliesse) l’istanza di autotutela senza nuova istruttoria e motivata valutazione; sanzioni altrettanto forti per ricorsi in autotutela temerari, di mero disturbo o palesemente infondati.
Si disegnerebbe così per i controinteressati un’apparente partecipazione post-procedimentale, perchè successiva all’atto finale, ma invero
una partecipazione in un procedimento di secondo grado, giustificata però
dalla circostanza di essere stati completamente ignorati, perché non palesi, nel procedimento che ha condotto all’adozione dell’atto sfavorevole, pur essendo titolari di una posizione di legittimazione pari a quella
del diretto interessato rispetto all’esercizio del potere pubblico.
II) Per gli interessi pretensivi, in realtà la norma dell’art. 10 bis appare adeguata e completa, perché il rigetto preliminare viene loro comunicato prima dell’emanazione del provvedimento finale e si dà modo di
stimolare un obbligatorio esame motivato delle argomentazioni addotte.
In questo senso, di civiltà giuridica, ma anche in applicazione dell’art.
41 della Carta, è assolutamente da criticare l’orientamento del G.A., secondo cui la mancata comunicazione ex art. 10bis costituisce una mera violazione procedimentale formale, inidonea ex se, anche ai sensi dell’art. 21octies, a costituire motivo di annullamento del provvedimento impugnato.
Si tratta di un ennesimo atteggiamento riduttivo non solo del diritto del cittadino riconosciuto dalla legge, ma anche di un’esasperazione
dell’efficentismo sostanzialista dell’azione amministrativa e del diritto
di difesa, che – se pure in astratto ammissibile – tuttavia comporta la violazione dei diritti di cittadinanza e determina sicuramente la mancata crescita dello spirito di leale interlocuzione tra cittadino e p.A., che costitui227
Andrea Rallo
sce il tassello fondamentale su cui poggia l’iperlitigiosità nei confronti dell’Amministrazione.
III) Per gli interessi oppositivi invece, non c’è una norma paragonabile all’art. 10bis, essendo stata ritenuta sufficiente la partecipazione
garantita dalla Comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 e dai
diritti partecipativi ex artt. 9 e 10 L. 241/90.
A questo proposito tuttavia, anche a non voler prendere in considerazione l’art. 21octies ed il conforme orientamento del G.A. che ha originato l’introduzione di questa norma con la L. 205/00, sono da registrare profonde lacune sia sistematiche che operative perché la comunicazione di avvio ed i diritti partecipativi oggi previsti possano assurgere a garanzia procedimentale idonea alla deflazione del contenzioso.
Infatti, rispetto alla ben più evoluta norma di cui all’art. 10bis, per
gli interessi oppositivi manca sia un luogo che un momento nel quale il
cittadino possa conoscere la decisione finale dell’Amministrazione non
ancora formalizzata, e dunque quali siano le ragioni che hanno indotto
l’Amministrazione stessa a voler definitivamente adottare quello specifico provvedimento.
In realtà, per gli interessi oppositivi, manca l’esatta definizione dell’oggetto della partecipazione, non potendosi ritenere sufficiente l’indicazione, contenuta nella comunicazione di avvio, dell’oggetto del procedimento: si tratta infatti di un’indicazione troppo generica ed “anticipata”. A questa andrebbe accompagnata, al pari dell’art. 10bis, la comunicazione della decisione finale, non ancora formalizzata, in ordine alla
quale il cittadino potrebbe controdedurre in modo puntuale e consapevole.
Per far ciò, basterebbe adattare l’esatto contenuto dell’art. 10bis agli
interessi oppositivi ed ai procedimenti ad iniziativa d’ufficio, perché si
possano anche qui raggiungere gli obiettivi di deflazione del contenzioso conseguiti da quella norma.
Naturalmente a patto che, ancora una volta, la giurisprudenza muti
il proprio corso, considerando queste forme di garanzia procedimentali alla stregua di diritti di cittadinanza e non quali meri espedienti, ovvero quali meri oneri procedimentali: il che, come si è già detto, sembra
di facile conseguimento alla luce dell’art. 41 della Carta di Nizza24;
24
Tenuto anche conto della vasta e consolidata rete di ADR presente nell’ordinamento comunitario: si v. S. STICCHI DAMIANI, Le forme di risoluzione delle controversie alternative alla giurisdizione : disciplina vigente e prospettive di misurazione statistica, in Riv. It. Dir. Pubbl.
Comunitario, 2003, p. 743 e ss
228
Garanzie e soccorso procedimentale per il contenimento del contenzioso
IV) Comune a tutte le garanzie procedimentali è poi la necessità di
introdurre e garantire l’audizione personale e non già la sola partecipazione a mezzo di scritti difensivi. Nessuno può infatti dubitare che il poter verbalmente interloquire con l’autorità costituisca un mezzo ed un’occasione essenziali per far valere le proprie ragioni, e che l’audit personale possa raggiungere scopi ben più immediati della semplice interlocuzione scritta.
Del resto, a cominciare dal processo, per finire alle procedure di adjudication delle Autorità, ma anche in alcuni procedimenti di particolare delicatezza (ad es. art. 88 Cod. Appalti), l’audizione personale è strumento essenziale della difesa e di garanzia del contraddittorio, come dimostra la preferenza che gli ordinamenti amministrativi più evoluti (e
meno autoritari) riservano all’incontro personale tra cittadino e pubblica Amministrazione.
In questo caso, l’applicazione testuale dell’art. 41 della Carta potrebbe portare ad un salto di qualità delle garanzie procedimentali in favore della tutela precontenziosa del cittadino.
7) Quanto al cd. potere di soccorso procedimentale25, anch’esso costituisce un interessante genus utile alla deflazione del contenzioso e per
l’accertamento delle ragioni del cittadino in fase procedimentale, costituendo anche una delle più rilevanti espressioni di quel “dovere di protezione” spettante all’Amministrazione (secondo una teoria26 troppo presto dimenticata, quando non ristretta esclusivamente all’ambito dei diritti risarcitori).
Al contrario, i poteri di soccorso – che datano sin dalla prima stesura dell’art. 6 della L. 241, ma che solo di recente sono divenuti “di moda”
– costituiscono la migliore espressione del rapporto di leale interlocuzione tra Amministrazione e cittadino, nonché strumento indispensabile per
l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa.
Nella sua più nuda essenza, il potere di soccorso si qualifica come
quell’intervento procedimentale nel quale l’Amministrazione, solitamente il Responsabile del procedimento, consente al cittadino di correggere
25
Da ult., N. SAITTA, Sul cd. soccorso istruttorio nel procedimento e nel processo, 2013,
www.giustamm.it; E. FREDIANI, Il soccorso istruttorio: un istituto in cerca di identità, in Giorn.
Dir. Amm., 2014, pp. 503 e ss.
26
Per tutti, A. ROMANO TASSONE, Situazioni giuridiche soggettive (Diritto Amministrativo), in Enc. Dir., Agg. II, Milano, 1998. pp. 985 e ss.
229
Andrea Rallo
i propri errori e di integrare eventuali atti e documenti, per i quali non
sia intervenuta una preclusione procedimentale o la cui necessità non sia
stata sufficientemente chiarita dall’Amministrazione stessa.
Si tratta dunque quasi sempre di interventi che incidono sull’ammissibilità dell’istanza procedimentale o sugli elementi essenziali per la
futura valutazione amministrativa, ed evitano che l’autorità si trovi costretta a rigettare un’istanza per la mancanza di elementi formali o documentali non indicati o prodotti dal cittadino.
In realtà, il soccorso procedimentale, più che alla deflazione del contenzioso (che ne costituisce un effetto indiretto), mira piuttosto alla deburocratizzazione del rapporto tra cittadino e p.A. ed all’eliminazione del
formalismo inutile nella fase di ammissione al procedimento27.
Sul punto deve richiamarsi il recente intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 9 del 25.2.2014), che per la prima volta ha
posto le basi per un uniforme inquadramento di questo istituto.
In realtà, come riconosce la stessa Ad. Plen., sembra non esistere una
sola forma di soccorso procedimentale, potendo questo istituto, pur nell’ambito della disposizione generale di cui all’art. 6 L. 241/90, assumere diversificate forme, contenuti e limiti a seconda dell’esistenza o meno
di specifiche norme presenti nei singoli procedimenti.
Infatti, la stessa richiamata pronuncia dell’Adunanza Plenaria è stata originata da un contenzioso e da un contrasto giurisprudenziale sorto sulla latitudine del potere di soccorso nelle gare di appalto, come definito dall’art. 46 del Codice dei Contratti Pubblici di cui al D. Leg.vo
163/06.
È chiaro che la maggiore criticità nell’applicazione dei poteri di soccorso si rinviene tutte le volte in cui la legge o la norma amministrativa
generale stabiliscono delle preclusioni alla presentazione di documenti
o di correzioni delle istanze, solitamente connesse con la scadenza di un
termine, a tutela dell’interesse pubblico (si pensi ad una sanatoria o ad
un “condono”) o di interessi concorrenziali di altri cittadini (concorsi pubblici, gare, ecc.).
Laddove non vi siano termini decadenziali o preclusioni, il soccorso procedimentale non solo è ontologicamente doveroso, ma è anche ininfluente sul piano sostanziale, risolvendosi in una quasi ovvia norma di
deburocratizzazione formale del rapporto cittadino-p.A. nella fase di ammissione al procedimento.
27
Si v. P. LAZZARA, I procedimenti amministrativi ad istanza di parte, Napoli, 2008,
pp. 152
230
Garanzie e soccorso procedimentale per il contenimento del contenzioso
Al contrario, laddove le preclusioni siano state fissate dalla legge
o dall’atto amministrativo generale (bando, avviso pubblico, ecc.) a tutela di altri interessi pubblici e privati, questi ultimi potrebbero venire lesi
laddove si consentisse a un singolo richiedente o partecipante di integrare un’istanza o una documentazione lacunosa, sostanzialmente eludendo il termine perentorio previamente fissato ovvero ponendosi in una situazione di illegittima concorrenza con gli altri partecipanti.
La soluzione adottata dall’Ad. Plen., conformemente peraltro alla
prevalente giurisprudenza pregressa, è che il soccorso procedimentale
può in questi casi ritenersi ammissibile solo nei limiti della specificazione o della richiesta di maggior dettaglio della documentazione, che tuttavia il cittadino deve avere già prodotto ai fini dell’ammissione. Dunque un soccorso, per così dire, specificativo, ma non integrativo o costitutivo: nel senso che non potranno ad esempio prodursi documenti o svolgersi adempimenti materiali richiesti a pena di esclusione, se non già allegati, sia pure con forme o contenuti che richiedano opportune specificazioni.
La vera novità della richiamata Sentenza dell’Ad. Plen. n. 9/14 (poi
confermata da Ad. Plen. 16/14), sta invece nell’aver per la prima volta
ammesso che la latitudine del soccorso procedimentale possa estendersi sino a contenere richieste di documentazione o adempimenti non forniti dal cittadino, tutte le volte in cui tali richieste siano dovute a norme
sopravvenute, ovvero ad inesattezze o equivocità oggettive della legge
o dell’atto generale.
Qui si può notare il superamento da parte del G.A. della logica formale della “caccia all’errore”, in favore dell’applicazione dei moderni principi dell’affidamento, della leale interlocuzione, della proporzionalità e
dell’autoresponsabilità.
E’ in particolare proprio nel soccorso procedimentale che quest’ultimo principio trova applicazione sia per la p.A., che per il cittadino.
Infatti, se in assenza di interessi in competizione si deve ritenere diseconomico ed inutile – anche per l’interesse pubblico – l’avvio di un procedimento che porterà alla decisione di inammissibilità della domanda
per mere mancanze documentali e dunque formali (secondo la regola generale dell’art. 6 L. 241/90), laddove questi interessi sussistano deve vigere il principio di autoresponsabilità del cittadino – e del rispetto della par condicio tra i concorrenti – secondo cui all’Amministrazione procedente vanno forniti esattamente i documenti richiesti, nel termine e nella forma voluti.
Se tuttavia, proprio tali richieste non siano chiare o siano sopravvenute nuove norme, il medesimo principio (insieme con quelli di pro231
Andrea Rallo
porzionalità e di tutela dell’affidamento) imporrà all’Amministrazione
di ammettere anche una nuova produzione documentale e non solo la
specificazione di quella esistente.
8) D’altra parte, ed in conclusione, non va dimenticato che la miglior
fonte di deflazione del contenzioso rimane pur sempre la semplificazione normativa.
Ad esempio, il recente D.L. 24 giugno 2014 n. 90, conv. con L. 11.8.2014
n. 114, all’art. 39 ha eliminato praticamente l’intero (e vasto) contenzioso in tema di esclusione dei concorrenti dalle gare pubbliche per mancata presentazione di atti, documenti e dichiarazioni richieste a a pena
di esclusione dalla legge o dai Bandi, sostituendo l’esclusione ex lege con
una preventiva sanzione pecuniaria e con la richiesta di produzione da
parte della Stazione appaltante. E solo in caso di ulteriore inadempimento scatterà l’esclusione dalla gara.
Quì è evidente la scelta del legislatore di eliminare questo tipo di
contenzioso, mediante la sostituzione della sanzione dell’esclusione con
quella pecuniaria.
Sul piano dogmatico, questo tipo di intervento sembrerebbe aver
privilegiato il ruolo del soccorso istruttorio, rispetto al formalismo documentale imposto dalla normativa in tema di gare pubbliche28.
Appare tuttavia più corretto ritenere che l’intervento normativo non
abbia inciso sul “soccorso procedimentale”, quale istituto che consente una
“correzione” ex post, ma abbia in realtà innovato il regime sanzionatorio
delle mancate produzioni documentali, facendo precedere – quantomeno
per i documenti ritenuti “indispensabili” – una sanzione pecuniaria a quella direttamente espulsiva, collegando quest’ultima al mancato adempimento delle integrazioni richieste dalla Stazione appaltante.
Sembrerebbe quindi che il legislatore abbia inteso dare prevalenza ai
principi di massima partecipazione alle gare e di sostanziale possesso dei
requisiti di partecipazione, rispetto a quelli di par condicio tra i concorrenti e di imparzialità, che si sostanziavano nel dovere di ottemperare alle richieste di produzione documentale in maniera formale e completa.
Ciononostante è nei fatti evidente (anche per la collocazione della
norma subito prima di importanti interventi sul processo amministrativo in materia di contenzioso sulle procedure di affidamento dei contratti), come l’interesse pubblico perseguito sia stato esattamente quello di
28
È quanto affermato, in verità come semplice considerazione di prima approssimazione, dalla recenti Pronunce del Consiglio di Stato, tra cui Ad. Plen. 30.7.2014 n. 16 e III,
8.9.2014 n. 4543, in www.giustizia-amministrativa.it
232
Garanzie e soccorso procedimentale per il contenimento del contenzioso
introdurre una semplificazione delle procedure al fine di ridurre drasticamente proprio questo tipo di contenzioso (pur lasciando aperti non pochi varchi all’incertezza, a cominciare dal quesito del se i documenti non
prodotti possano o meno riferirsi anche a situazioni o fatti successivi alla
scadenza dei termini di partecipazione): con ciò dimostrando come la riduzione del contenzioso passi in primo luogo attraverso un’azione diretta alla modificazione delle norme di diritto sostanziale e procedimentale, e solo successivamente – ma in termini del tutto residuali – alla riforma delle norme processuali, tra le quali vanno evidentemente annoverate le eventuali introduzioni di nuove ADR per la risoluzione delle
controversie tra cittadino e p.A..
233
GIUSEPPE REALE
Il trasporto amichevole o di cortesia:
profili di responsabilità del vettore nelle diverse
modalità di trasferimento
SOMMARIO: 1. Il contratto di trasporto. - 2. Il trasferimento. - 3. I soggetti. - 4. Il corrispettivo del trasporto. - 5. Il trasporto oneroso. - 6. Il trasporto gratuito e il regime di responsabilità del vettore. - 7. Il trasporto amichevole o di cortesia. - 8. Distinzione fra
trasporto gratuito e trasporto amichevole o di cortesia. - 9. La responsabilità del vettore nel trasporto di cortesia. - 10. (segue:) Il regime di responsabilità nel trasporto stradale. - 11. (segue:) Il regime di responsabilità nel trasporto marittimo. - 12. (segue:) Il
regime di responsabilità nel trasporto aereo. - 13. Conclusioni.
1. Il contratto di trasporto
La definizione di trasporto1 offerta dall’art. 1678 c.c.2 ha portata ge-
1
Sul contratto di trasporto la letteratura e assai ampia e articolata. Sul tema v. A. ANCorso di diritto dei trasporti, Milano, 2008; A. ASQUINI, Trasporto di cose (Contratto di),
in Nuovo Dig. it, XVIII, Torino, 1940, p. 338 ss.; A. ASQUINI, Trasporto di persone (Contratto
di), in Nuovo Dig. it, XVIII, Torino, 1940, p. 364 ss. F. BERLINGIERI, La disciplina della responsabilità del vettore di cose, Milano, 1978; V. BUONOCORE, I contratti di trasporto e di viaggio, in
Trattato Buonocore, II, 3/V, Torino, 2003; S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, in Trattato
Cicu-messineo, Milano, 2007; N. CALLIPARI, Il contratto di autotrasporto di merci per conto terzi, Milano, 2009; M. CASANOVA-M. BRIGNARDELLO, Diritto dei trasporti. La disciplina contrattuale, Milano, 2007; G. CATURANI-A. SENSALE, Il trasporto, Napoli, 1960; M. COMENALE PINTO, Il contratto di trasporto di persone, in I contratti turistici, a cura di F. Morandi-M. Comenale Pinto-U. La Torre, Milano, 2004, 147; C. DE MARCO, La responsabilità civile nel trasporto di persone e cose, Milano, 1985; A. FLAMINI, Il trasporto amichevole, Camerino, 1974; P. GONNELLI-G. MIRABELLI, Trasporto (contratto di), in Enc. dir., XLIV, 1992, p. 1154 ss.; M. GRIGOLI,
Il trasporto, in Trattato Rescigno, XI, 3, Torino, 1984, p. 743 ss; M. IANNUZZI, Del trasporto, in
Commentario Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970; U. LA TORRE, La definizione del contratto di trasporto, Napoli-Roma, 2000; G. MASTRANDREA, L’obbligo di protezione nel trasporto aereo di persone, Padova, 1994; M. RIGUZZI, Il contratto di trasporto stradale, in Trattato Bessone,
2000; G. ROMANELLI, Il trasporto aereo di persone. Nozione e disciplina, Padova, 1966; G. ROMANELLI-G. SILINGARDI, Trasporto (terrestre), in Enc giur., XXXI, 1994; R. ROVELLI, Il trasporto di persone, Torino, 1970; G. SILINGARDI, Contratto di trasporto e diritti del destinatario, Milano, 1980; S. ZUNARELLI, La nozione di vettore, Milano, 1987; S. ZUNARELLI-M. COMENALE PINTO, Manuale di diritto della navigazione e dei trasporti, Padova, 2009.
2
Il trasporto è un contratto consensuale (A. ANTONINI, Corso, cit., p. 189; S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., p. 378; M. COMENALE PINTO, Il contratto di trasporto di persoTONINI,
235
Giuseppe Reale
nerale e comprende tutti i tipi di trasferimento3, quale che sia l’ambiente in cui esso si attua4, rappresentando il momento unificante dell’istituto che, a prescindere dalle differenze, comunque esistenti, soprattutto in
punto di disciplina, fra le varie modalità e a seconda del veicolo impiegato, in tal modo risulta riconducibile ad una sostanziale e fondamentale unitarietà5.
A tale unitaria definizione non corrisponde, tuttavia, un regime di
disciplina unitario poiché le fonti normative che regolano il trasporto si
differenziano a seconda dell’oggetto trasportato, del mezzo utilizzato, dell’ambiente in cui riceve esecuzione, identificando in tal modo molteplici sottotipi6 che possono poi combinarsi fra loro, dando vita a singole modalità provviste di concreto rilievo in quanto oggetto di disciplina normativa differenziata.
Inoltre, nell’ambito di ciascun sottotipo, la disciplina può mutare a
seconda che il trasporto abbia carattere nazionale o internazionale.
Le motivazioni poste a fondamento della menzionata diversificazione di disciplina normativa operante nell’ambito dei vari sottotipi dipendono dall’oggetto trasportato (persone o cose), soprattutto in ragione della differenza esistente fra la custodia delle merci e il mero affidane, cit., p. 194) e configura una ipotesi di locatio operis, la cui causa è rappresentata dal trasferimento di persone o cose da un luogo ad un altro, di regola a titolo oneroso (A. ANTONINI, Corso, cit., p. 64 e p. 189; M. CASANOVA-M. BRIGNARDELLO, Diritto dei trasporti, cit., p. 23 ss.).
Secondo un’opinione rimasta isolata sarebbe da escludere che possa venire ad esistenza un
contratto di trasporto di merci qualora le stesse non siano contestualmente prese in consegna dal vettore (A. PESCE, Il contratto di trasporto internazionale di merci su strada, Padova, 1984,
p. 34). Al riguardo, si è obiettato, in senso contrario alla natura reale del contratto in parola,
che nessun elemento o riferimento normativo impedisce che un soggetto assuma l’obbligazione di trasferire delle cose che gli vengano semplicemente indicate o descritte, anche se non
consegnate, dall’altro contraente interessato al loro trasporto (S. BUSTI, Contratto di trasporto
terrestre, cit., p. 378, in particolare nota 249). Difatti, il ricevimento della merce rileva propriamente per un momento successivo alla stipulazione del contratto e, segnatamente, per quello della sua esecuzione nonché per la responsabilità del vettore (S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit. p. 378, nota 249). Si tratta di un contratto di risultato, poiché il vettore è tenuto a garantire l’esecuzione della prestazione principale a suo carico, ossia il trasferimento di
persone o cose da un luogo ad un altro (cfr. Cass. 28 giugno 2005, n. 13905, in “Dir. tasp.”,
2006, p. 638; Cass. 3 settembre 1998, n. 8755, in “Dir. mar.”, 2000, p. 1354).
3
Di persone o di cose, pubblici o privati, collettivi o individuali, nazionali ed internazionali.
4
Il mare, le acque interne, lo spazio aereo, la strada, la ferroviaria, o anche attraverso
la combinazione di due o più distinte modalità, come avviene nel trasporto multimodale.
5
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 103 ss., 201; S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre,
cit., p. 29 ss.; P. GONNELLI-G. MIRABELLI, Trasporto, cit., p. 1154; M. CASANOVA-M. BRIGNARDELLO, Diritto dei trasporti, cit., p. 31 ss.
6
Ad esempio, trasporto di persone o di cose, trasporto marittimo, aereo, stradale, ecc.
236
Il trasporto amichevole o di cortesia
mento al vettore della persona del passeggero, da ragioni di carattere storico, dalle caratteristiche tecniche del mezzo di trasporto impiegato e dall’ambiente ove il trasporto avviene.
Il codice della navigazione, nel regolare il contratto di trasporto nell’ambito dei contratti di utilizzazione della nave o dell’aeromobile, presuppone la nozione fornita dall’art. 1678 c.c.7, limitandosi ad aggiungere, all’art. 414 c. nav., uno specifico riferimento al trasporto amichevole,
che risulta invece assente nella normativa generale nazionale e in quella internazionale uniforme del trasporto8.
2. Il trasferimento
L’obbligazione principale nascente dal contratto di trasporto in capo
al vettore è quella del trasferimento di persone o cose da un luogo ad un
altro, che costituisce la causa del contratto9.
Il trasferimento da un luogo ad un altro identifica il tipo contrattuale, mentre restano irrilevanti a tale effetto sia la diversa natura dell’oggetto trasportato (persone o cose), sia il mezzo che esegue il trasporto (nave,
aeromobile, treno, autoveicolo, ecc.), sia la particolarità dell’ambiente ove
il trasporto riceve esecuzione (acqua, aria, strada, ecc.), che assumono rilievo - soprattutto sotto il profilo relativo alla disciplina di riferimento
ad essi applicabile - soltanto per l’individuazione dei vari sottotipi10.
Il trasferimento consiste in uno spostamento materiale nello spazio
dell’oggetto trasportato e si realizza quando quest’ultimo lascia il punto di partenza per attraversare altri luoghi sino a giungere alla destinazione prevista, che può anche coincidere con il punto di partenza, concretizzando un viaggio, sia pur circolare, dell’oggetto stesso11.
7
Costituiscono elementi del contratto di trasporto: a) l’oggetto della prestazione a
carico del vettore (il trasferimento di persone o cose); b) l’oggetto della prestazione a carico del passeggero o del mittente (il pagamento del corrispettivo, salvo che si tratti di trasporto gratuito); c) il mezzo di trasporto attraverso il quale il trasferimento deve essere eseguito; d) il luogo di partenza, quello di destinazione ed eventualmente l’itinerario da seguire; e) il tempo di esecuzione della prestazione posta a carico del vettore. Inoltre, sussistono altre prestazioni, generalmente poste a carico del vettore, aventi carattere strumentale o accessorio rispetto a quella principale del trasferimento.
8
In tal senso, v. S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., p. 224
9
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit. p. 104, p. 202 e p. 211; S. ZUNARELLI-M. COMENALE PINTO, Manuale di diritto della navigazione e dei trasporti, cit., p. 200 ss. e p. 229 ss.
10
A. ANTONINI, Corso, cit. p. 104; S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., p. 29 ss.
e p. 161 ss.
11
In tal senso, v. A. ANTONINI, Corso, cit., 202; S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre,
cit., p. 221 ss.; U. LA TORRE, La definizione di contratto di trasporto, cit., p. 249
237
Giuseppe Reale
Il trasferimento cui fa riferimento la disposizione codicistica è quello da luogo a luogo e non, invece, un semplice spostamento in relazione al quale non rilevino, nella previsione negoziale, le località fra le quali esso avviene12.
Il trasporto deve necessariamente riguardare cose materiali, per
cui non sussiste la fattispecie con riferimento ai beni immateriali e alle
energie13.
L’esistenza e l’impiego di un veicolo (o mezzo di trasporto), tramite il quale avviene il trasferimento, è essenziale per la configurazione del
contratto e insito nella stessa nozione di trasporto14.
La tipologia del mezzo utilizzato per l’esecuzione della prestazione è legata all’ambiente in cui il trasporto deve avvenire, che costituisce,
peraltro, il discrimine fra i vari sottotipi contrattuali: trasporto terrestre
(stradale, ferroviario), trasporto per acqua (marittimo, acque interne), trasporto per aria (spazio atmosferico).
12
Cfr. U. LA TORRE, La definizione di contratto di trasporto, cit., p. 252. Ad esempio, lo spostamento di cose o di persone da un piano all’altro dello stesso edificio o l’utilizzo di ascensori o di scale mobili non concretizza un trasporto in senso tecnico-giuridico (in tal senso, S.
BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., pp. 222-223; R. ROVELLI, Il trasporto di persone, cit., p.
74. Contra, G. COTTINO, Il trasporto e la spedizione, in Trattato Galgano, Padova, 1991, p. 744, nota
6). La prevalente giurisprudenza di legittimità condivide questa impostazione escludendo
dal novero delle operazioni accessorie o preparatorie al trasporto la discesa sulle scale d’accesso alla stazione metropolitana (cfr. Cass. 17 luglio 2003, n. 11198, in “Dir. trasp.”, 2004, p.
1000). In senso conforme si è espressa anche la giurisprudenza di merito, che esclude la sussistenza del trasporto in caso di utilizzo di scale mobili all’interno di grandi magazzini o di
stazioni della metropolitana (cfr. App. Milano, 2 novembre 1982, in “Riv. giur. circolaz. e trasp.”,
1983, p. 512; Trib. Roma, 21 luglio 1983, in “Riv. giur. circolaz. e trasp.”, 1983, p. 939), ritenendo che l’uso di scale mobili, ascensori, nastri meccanici, gru o paranchi non sia idoneo a concretizzare un contratto di trasporto (Trib. Trieste, 23 maggio 1979, in “Riv. giur. circolaz. e trasp.”,
1980, p. 99). In senso contrario, invece, Trib. Genova 26.01.1990, che per le lesioni personali
subite da un utente a seguito di una caduta verificatasi sulle scale mobili esistenti all’interno della stazione ferroviaria utilizzate per raggiungere la banchina, ha ritenuto responsabile l’azienda ferroviaria per i danni subiti proprio in base alle norme che regolano il contratto di trasporto. Non esclude, in ipotesi, il possibile configurarsi di un contratto di trasporto
in caso di utilizzo delle scale mobili all’interno della stazione ferroviaria Cass. 3 ottobre 1996,
n. 8656, in “Dir. trasp.”, 1997, 2, p. 258.
13
Così, A. ANTONINI, Corso, cit., p. 203. Le energie, pur essendo considerate beni mobili (v. art. 814 c.c.), possono costituire oggetto di fornitura ma non di trasporto. Altrettanto vale per il trasferimento di fluidi o gas attraverso le apposite condutture
14
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 207; S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., p.
161 ss. e p. 165. Non costituisce mezzo di trasporto l’impianto nel quale o tramite il quale si realizza lo spostamento di materiali oppure di energie (oleodotto, acquedotto, gasdotto, elettrodotto, ecc.). In queste ipotesi non è configurabile una operazione di trasporto. In
questo senso, v. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 207; S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit.,
p. 165 ss.
238
Il trasporto amichevole o di cortesia
Nell’ambito della singola tipologia l’individuazione concreta del mezzo di trasporto da utilizzare può costituire o meno un elemento essenziale del contratto.
Dal contratto di trasporto, oltre l’obbligazione del trasferimento, possono poi sorgere ulteriori obbligazioni (strumentali o accessorie), la cui presenza non incide sulla natura del contratto, dal momento che esse, anche se
corrispondono a prestazioni tipiche di altre figure contrattuali, non acquistano autonomia e non incidono sulla qualificazione del contratto stesso15.
3. I soggetti
L’art. 1678 c.c. fa esplicito riferimento ad una sola parte contrattuale,
il vettore, che rappresenta il debitore della prestazione del trasferimento16.
Tuttavia, il fatto che la disposizione in parola non menzioni la controparte del vettore, lasciandola così indeterminata, costituisce un dato
che in realtà arricchisce la formula definitoria della fattispecie contrattuale in esame che, proprio in virtù di tale indeterminatezza, riesce a contenere tutte le varianti delle figure soggettive che nella dinamica del rapporto si possono contrapporre al vettore17.
Attorno al contratto di trasporto possono infatti ruotare vari soggetti interessati al trasferimento, che possono anche non assumere la veste di parte contraente e, ciononostante, vantare comunque dei diritti nei
confronti del vettore.
Il soggetto obbligato all’esecuzione della prestazione caratteristica
del contratto di trasporto è il vettore.
Poiché è essenziale al concetto di trasporto non già l’esecuzione materiale della prestazione di trasferimento, bensì l’assunzione del relativo obbligo, assume le vesti di vettore colui che si obbliga a realizzare il
trasferimento di cose o di persone, sia che lo faccia con mezzi propri, sia
che lo faccia rivolgendosi a terzi.
Risulta poi del tutto indifferente ai fini dell’individuazione della fi-
15
Le obbligazioni strumentali sono quelle intese a consentire oppure ad agevolare
l’esecuzione della prestazione del trasferimento, indipendentemente dalla quale non conserverebbero alcuna autonomia o ragione di essere (la protezione del passeggero, la custodia delle merci, ecc.), mentre le obbligazioni accessorie sono quelle che, pur potendo avere una propria autonoma rilevanza e formare oggetto di un separato (ed autonomo) rapporto contrattuale, sono connesse a quella principale del trasferimento quale completamento o ampliamento dell’attività posta in essere dal vettore (il vitto, l’alloggio, ecc.).
16
Cfr. M. CASANOVA-M. BRIGNARDELLO, Diritto dei trasporti, cit. p. 24.
17
Cfr. U. LA TORRE, La definizione del contratto di trasporto, cit., p. 208 ss.
239
Giuseppe Reale
gura del vettore la circostanza che l’attività di trasporto costituisca o meno
esercizio di attività imprenditoriale da parte del vettore e, in particolare, di impresa commerciale ai sensi dell’art. 2195, primo comma, n. 3, c.c.
Strumentali rispetto all’esecuzione della prestazione principale del
trasferimento di persone o di cose sono, rispettivamente, l’obbligo di protezione della persona del passeggero al fine di preservarne l’incolumità e l’obbligo di custodia delle merci18.
Quest’ultimo discende direttamente dalla presa in consegna delle
cose da trasportare, dall’assunzione della loro detenzione e dall’obbligo
di restituzione delle stesse, che evidentemente comporta l’obbligo intermedio della loro custodia, con ogni relativo rischio, secondo i lineamenti della responsabilità ex recepto19.
L’obbligo di protezione, invece, non essendo configurabile una «consegna» riferibile alla persona del passeggero, prescinde del tutto dalla custodia e dalla detenzione, non configurabili con riferimento alle persone trasportate, che fruiscono in maniera attiva, e non meramente passiva, della
prestazione di trasferimento, e assume fisionomie diverse a seconda del grado di autonomia lasciato al passeggero nelle singole modalità di trasporto e della riconnessa cooperazione che al medesimo si richiede20.
La dottrina ha chiarito che l’obbligo di protezione non si traduce in
una sorta di controllo continuativo da esercitare sulla persona del passeggero durante l’intero trasferimento ma nella predisposizione di tutte quelle misure necessarie per evitare che questi incorra in sinistri, essendo comunque tenuto a cooperare con il vettore per il raggiungimento di tale obiettivo21.
Sempre in dottrina si è posta poi la questione se l’obbligo vettoriale
di protezione dell’incolumità del passeggero sia da ritenersi insito nell’obbligazione principale del trasferimento oppure presenti natura autonoma22.
Rappresentano ulteriori prestazioni strumentali per il vettore la
messa a disposizione di un mezzo di trasporto idoneo al trasferimen-
18
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., 211 ss.; M. CASANOVA-M. BRIGNARDELLO, Diritto dei trasporti, cit., p. 27 ss.
19
In questo senso, v. M. CASANOVA-M. BRIGNARDELLO, Diritto dei trasporti, cit., p. 28.
20
A. ANTONINI, Corso, cit., p. 105 ss. e pp. 211-212.
21
Così, M. CASANOVA-M. BRIGNARDELLO, Diritto dei trasporti, cit., p. 28.
22
Per una ampia ricostruzione delle diverse posizioni, cfr. G. MASTRANDREA, Obbligo di protezione e caratteri della responsabilità del vettore di persone, in “Dir. trasp.”, 1991, II, p.
43 ss. La dottrina maggioritaria risulta orientata in senso favorevole alla prima tesi, In tal
senso, v. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 211 ss.; A. FLAMINI, Osservazioni critiche sulla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale del vettore, in “Dir. trasp.”, 2002, p. 815 ss.
240
Il trasporto amichevole o di cortesia
to da compiere e le operazioni di imbarco e di sbarco dei passeggeri
o di caricazione, stivaggio e scaricazione delle merci, salvo che sia diversamente previsto.
Costituiscono prestazioni accessorie nell’ambito del contratto di trasporto di persone la somministrazione al passeggero del vitto e dell’alloggio, indipendentemente dal fatto che il corrispettivo di esse sia ricompreso o meno in quello del trasporto.
A conclusioni diverse, invece, si giunge nell’ipotesi in cui l’esecuzione del trasporto costituisce per il passeggero la mera occasione per la
fruizione della prestazione (p. es. la ristorazione), che viene separatamente e autonomamente convenuta con il soggetto che la fornisce. In tal caso,
si è in presenza di contratti autonomi (p. es. ristorazione, compravendita di generi alimentari) conclusi dal passeggero al di fuori del contratto
di trasporto23.
Nel trasporto di persone costituisce obbligazione accessoria posta
in capo al vettore quella avente ad oggetto il trasporto del bagaglio che
il passeggero porta con sé.
Nel trasporto di persone il soggetto interessato al corretto adempimento degli obblighi contrattualmente assunti dal vettore è il passeggero, indipendentemente dal fatto che il contratto sia stato o meno stipulato direttamente dallo stesso24.
Il passeggero può essere, al contempo, parte del contratto di trasporto, fruitore della prestazione del trasferimento e oggetto materiale cui la
prestazione si riferisce25.
Al passeggero, di regola, viene rilasciato un biglietto che può indicare o meno il suo nominativo26.
Il biglietto non è un titolo di credito ma un mero documento di legittimazione27 che consente al vettore di identificare l’avente diritto alla
prestazione in colui che mostra il biglietto e che libera il vettore stesso
quando esegue la prestazione a favore di chi gli esibisce il biglietto, ai sen23
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., pp. 217-218.
Cfr. M. CASANOVA-M. BRIGNARDELLO, Diritto dei trasporti, cit. p. 24.
25
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 180.
26
Nel primo caso il biglietto identifica la persona del passeggero-creditore e non sempre è possibile la fruizione del trasporto da parte di un soggetto diverso senza il consenso del vettore-debitore (S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., p. 673), nel secondo caso,
invece, il diritto alla prestazione del trasporto può essere ceduto ad altri tramite la semplice consegna del biglietto e la qualità di passeggero compete a colui che effettivamente
usufruisce della prestazione, indipendentemente da chi lo abbia acquistato (A. ANTONINI,
Corso, cit., pp. 181-182).
27
Cfr. S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit. p. 675.
24
241
Giuseppe Reale
si dell’art. 2002 c.c.28.
Il passeggero-creditore è investito di un onere di collaborazione o
cooperazione per consentire al vettore la corretta esecuzione della prestazione del trasferimento29.
Nel trasporto di cose colui che stipula (o per conto del quale è stipulato) il contratto di trasporto è detto mittente (salvo che nel trasporto marittimo ove è definito caricatore).
Il mittente non coincide necessariamente con il destinatario, vale a
dire con il soggetto legittimato ad ottenere la consegna delle merci nel
luogo di destinazione.
Nel caso in cui il destinatario sia un soggetto diverso dal mittente
il contratto di trasporto viene ricondotto da parte della dottrina maggioritaria alla figura del contratto a favore di terzi, ai sensi dell’art. 1411 c.c.30.
Questa ricostruzione risulta oramai accolta senza oscillazioni anche
da parte della giurisprudenza31.
Nel trasporto di cose anche il mittente è investito di un onere di collaborazione e cooperazione al fine di consentire al vettore l’esecuzione
della prestazione del trasferimento32.
28
In questo senso, A. ANTONINI, Corso, cit., p. 182.
Tale cooperazione, che può assumere diverso contenuto, deve attuarsi nel corso
delle varie fasi in cui si articola il trasporto e, dunque, assume rilievo sin dal momento della partenza (p. es. presentandosi in orario), oltre che al momento dell’arrivo e nel corso dell’esecuzione del rapporto (p. es. rispettando le disposizioni regolanti il trasporto, le istruzioni impartite dal vettore, evitando di esporsi a situazioni di pericolo, ecc.), proteggendo se stesso contro possibili cause di danno. Il livello di cooperazione richiesto al passeggero varia poi a seconda della diversa autonomia di azione e di movimento che è consentita al soggetto trasportato nelle diverse modalità di esecuzione del trasporto (A. ANTONINI, Corso, cit., p. 105 ss. e p. 219 ss.). In particolare, la mancata tempestiva presentazione
del passeggero nel tempo e nel luogo stabiliti per la partenza determina secondo la dottrina maggioritaria gli effetti della mora credendi, poiché il passeggero, creditore della prestazione di trasferimento, risulta in mora nel ricevere la stessa, non ponendo il vettore nelle condizioni di eseguirla correttamente. Secondo altro indirizzo, invece, la mancata presentazione del passeggero determina l’estinzione dell’obbligazione del vettore per impossibilità sopravvenuta della stessa per fatto imputabile al creditore (v. A. ANTONINI, Corso,
cit. p. 220).
30
In tal senso, cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 184.
31
Cfr. Cass. 15 luglio 2008, n. 19451, in “Mass. Giur. it.”, 2008; Cass. 1 dicembre 2003,
n. 18300, in “Dir. trasp.”, 2004, p. 997; Cass. 11 maggio 1999, n. 4650, in “Dir. mar.”, 2000,
1358; App. Roma, 25 novembre 2002, in “Guida al diritto”, 2003, 5, p. 90.
32
Ad esempio, presentando le merci nel luogo stabilito ed in tempo utile per la caricazione, fornendo al vettore tutti i dati relativi al carico e quelli necessari per la compilazione dei documenti di trasporto, ecc. Sul tema cfr. M. CASANOVA, Il regime di responsabilità del mittente, in “Dir mar.”, 2001, p. 562 ss.
29
242
Il trasporto amichevole o di cortesia
Quella del destinatario è una figura tipica nell’ambito del trasporto di cose che non trova alcuna corrispondenza nel trasporto di persone e manca allorquando il trasporto debba essere effettuato nei riguardi dello stesso mittente.
La dottrina ha chiarito che il destinatario non assume la qualità di
parte del contratto di trasporto, né lo diventa successivamente33.
4. Il corrispettivo del trasporto
In dottrina si è tendenzialmente affermata l’opinione che il corrispettivo non costituisce un elemento essenziale del contratto di trasporto34,
anche se non mancano opinioni espresse in senso contrario, che considerano il trasporto quale contratto essenzialmente oneroso35.
In realtà, appare preferibile configuare il trasporto come un contratto non essenzialmente, ma solo naturalmente oneroso, nel senso che la
sua eventuale gratuità non può essere presunta, ma deve espressamente risultare dal contratto stesso.
Per cui, la prestazione resa dal vettore avviene di regola verso pagamento di un corrispettivo, salvo che sia stato diversamente pattuito.
In caso contrario, il contratto si presume oneroso36.
Il corrispettivo costituisce l’obbligazione principale nascente dal contratto di trasporto in capo al passeggero o al mittente e, quindi, la prestazione principale a carico di questi ultimi, rappresentando un elemento naturale del contratto di trasporto, che si inserisce nel medesimo a prescindere dalla sua previsione ad opera delle parti, salvo vi sia stata l’espressa esclusione37.
33
Così, ANTONINI, Corso, cit., p. 184. Nello stesso senso è orientata anche la giurisprudenza. Cfr. Trib. Reggio Emilia, 19 febbraio 2008, in “Obbl. e contr.”, 2008, 8-9, p. 751; Trib.
Bergamo, 4 dicembre 2002, in “Riv. dir int. priv e proc.”, 2003, p. 986. La presenza del destinatario accanto a quella del mittente ha dato luogo a particolari problemi, concernenti
la titolarità del diritto alla riconsegna della merci e di altri diritti riconessi al trasporto, tra
cui quello al risarcimento dei danni per perdita o avaria delle merci trasportate.
34
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 203; S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., p. 224
ss.; M. COMENALE PINTO, Il contratto di trasporto di persone, cit., p. 153; A. FLAMINI, Osservazioni
critiche sulla responsabilità contrattuale e extracontrattuale del vettore, cit., p. 814 ss.; S. RUSCICA, Il
contratto di trasporto stradale di persone, in Trattato Cendon, XVII, Torino, 2004, p. 515.
35
Cfr. C. GRAZIANI, Manuale di diritto commerciale, Napoli, 1961, p. 181 ss.; U. LA TORRE, La definizione del contratto di trasporto, cit., p. 218 ss.
36
Cfr. S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., pp. 226-227; P. GONNELLI-G. MIRABELLI, Trasporto, cit., pp. 1154-1155.
37
Così, A. ANTONINI, Corso, cit., p. 203 ss. e pp. 219-220.
243
Giuseppe Reale
Secondo una autorevole opinione il corrispettivo del trasporto deve
essere in denaro e non in altra prestazione offerta quale contropartita, configurandosi altrimenti un contratto innominato38.
In senso contrario, invece, si è espressa altra parte della dottrina, secondo cui il corrispettivo non deve necessariamente consistere in una somma di denaro, potendo contrattualmente assumere una forma diversa39.
L’assenza di corrispettivo configura l’ipotesi del contratto di trasporto a titolo gratuito, da non confondere con il trasporto amichevole o di
cortesia, nel quale pure difetta il pagamento.
In realtà, a parte il profilo comune costituito dall’assenza di corrispettivo, le due ipotesi risultano fra loro del tutto differenti sotto molteplici altri aspetti e, in primo luogo, in ragione della natura contrattuale
del primo e non, invece, del secondo.
5. Il trasporto oneroso
L’obbligazione principale gravante sul mittente consiste nel pagamento del prezzo quale controprestazione alla esecuzione del trasferimento da parte del vettore40.
Come già detto, il contratto di trasporto è considerato naturalmente oneroso: la prestazione del vettore avviene verso corrispettivo, salvo
che sia diversamente pattuito41.
Il corrispettivo può essere stabilito dalle parti del contratto, potendo
in alcuni casi essere oggetto di trattativa fra le stesse42, mentre in altri casi
esso viene fissato dal vettore e inserito in apposite condizioni generali di
contratto o in tariffari resi noti al pubblico oppure, infine, esso è determinato mediante tariffe approvate dall’autorità amministrativa.
Assume valenza puramente teorica il problema della determinazione del corrispettivo in mancanza di apposita previsione contrattuale.
Secondo la dottrina prevalente nell’evenienza potrebbe soccorrere l’art. 1657 c.c. in materia di appalto, applicabile in via analogica al
38
Questa l’opinione di G. ROMANELLI, Il trasporto aereo di persone. Nozione e disciplina, cit., p. 105.
39
In questo senso, v. S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., p. 234 ss.
40
Cfr. S. ZUNARELLI-M. COMENALE PINTO, Manuale di diritto della navigazione e dei trasporti, cit., p. 231.
41
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., 194 ss.; M. CASANOVA-M. BRIGNARDELLO, Diritto dei trasporti, cit., p. 29.
42
Come può avvenire, ad esempio, nei contratti di utilizzazione della nave o dell’aeromobile.
244
Il trasporto amichevole o di cortesia
trasporto, per cui il prezzo, se non determinato dalle parti e non determinabile secondo i criteri dalle stesse concordati, è quello stabilito
dalle tariffe vigenti o dagli usi esistenti e, in difetto, viene stabilito dal
giudice43.
Il soggetto passivo dell’obbligazione avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo è colui che stipula oppure a nome del quale è stipulato il contratto di trasporto44.
Nel trasporto di cose il mittente e il vettore possono pattuire che il
corrispettivo sia pagato dal destinatario.
Tale pattuizione, comunque, non determina una modifica del soggetto debitore, che resta il mittente, cui il vettore può sempre rivolgersi
se il destinatario non provveda al pagamento45.
6. Il trasporto gratuito e il regime di responsabilità del vettore.
Quando non è dovuto alcun corrispettivo per il trasporto il contratto è a titolo gratuito46.
E’ rimasta pressoché isolata in dottrina l’opinione secondo la quale il trasporto gratuito integrerebbe un tipo contrattuale diverso dal trasporto oneroso, ricondotto alla figura della donazione47.
Anche le disposizioni concernenti l’equiparazione della responsabilità del vettore a titolo gratuito a quella del vettore a titolo oneroso, disposta in via generale dall’art. 1681, terzo comma, c.c., dall’art. 413 c. nav.
per il trasporto marittimo di persone e dalla Convenzione di Montreal
del 1999 per il trasporto aereo, confermano che il trasporto gratuito rientra nel tipo «contratto di trasporto»48.
43
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 204; F. GALGANO, Diritto commerciale. L’imprenditore, Bologna, 2001, p. 198.
44
In questo senso, A. ANTONINI, Corso, cit., p. 205 ss.
45
In questo senso, A. ANTONINI, Corso, cit., p. 206.
46
Fra le ipotesi di trasporto gratuito individuate dalla dottrina è possibile annoverare: a) il trasporto organizzato dal datore di lavoro per condurre presso lo stabilimento e
poi riportare a casa i propri dipendenti; b) il trasporto organizzato da un istituto scolastico in favore dei propri allievi; c) il trasporto offerto dal professionista al cliente o viceversa in relazione alla prestazione professionale da svolgere, attuale o in vista della sua futura acquisizione; d) il trasporto organizzato da amici o colleghi con l’accordo di suddividere fra lori i relativi costi (carburante, pedaggio autostradale, ecc.); e) il trasporto organizzato da associazioni senza scopo di lucro verso i propri associati senza versamento di
corrispettivo per il compimento di una gita.
47
Cfr. M. IANNUZZI, Del trasporto, cit., p. 21 ss.
48
In talo senso, cfr. S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., pp. 226-227.
245
Giuseppe Reale
L’obbligazione negoziale di trasportare (cose o persone) in assenza di un compenso per lo svolgimento di tale attività è espressamente contemplata dalla normativa generale interna e da quella internazionale uniforme, ove invece manca uno specifico riferimento al trasporto amichevole, cui fa riferimento soltanto l’art. 414 c. nav.49.
Il trasporto gratuito, in definitiva, è regolato in maniera identica al
trasporto oneroso, differenziandosi da quest’ultimo per l’assenza di corrispettivo a fronte della prestazione resa dal vettore.
Difatti, le norme sulla responsabilità del vettore nel trasporto di persone riguardanti i sinistri che colpiscolo la persona del passeggero, l’inadempimento, il ritardo e i danni al bagaglio si applicano anche al trasporto gratuito, sia nel trasporto terrestre50, sia nel trasporto marittimo51, sia
nel trasporto aereo52.
Altrettanto vale per le norme relative alla responsabilità del vettore nel trasporto di cose in ambito aeronautico53, mentre manca una specifica disposizione nel settore marittimo54.
Appare opportuno segnalare che il carattere gratuito dell’obbligazione del trasferimento non determina una più tenue responsabilità del
vettore rispetto all’ipotesi dell’onerosità, contrariamente al diffuso favor,
in punto di responsabilità, previsto in altri casi per il contraente a titolo
gratuito55.
Al riguardo, è stato argomentato che lo scopo specifico degli artt.
1681, terzo comma, c.c. e 413 c. nav. è quello di escludere l’applicazione
al trasporto di persone del principio del più tenue rigore nella valutazione dell’operato del debitore in caso di assenza di corrispettivo, altrove
49
V. S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., p. 224.
Cfr. art. 1681, terzo comma, c.c..
51
Cfr. art. 413 c. nav.
52
Cfr. art. 1, n. 1, della Convenzione di Montreal del 1999. Prima delle riforma introdotta dai d.lgs. n. 96/2005 e 151/2006 il codice della navigazione, all’art. 947, stabiliva
che le norme in tema di responsabilità del vettore nel trasporto di persone e bagagli si applicavano anche ai contratti di trasporto gratuito.
53
Cfr. art. 1, n. 1, della Convenzione di Montreal del 1999.
54
Ciò anche in ragione dell carattere puramente teorico della fattispecie. In tal senso, v. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 194.
55
Ad esempio, se il contratto è a titolo gratuito la responsabilità del mandatario e
del depositario è valutata con minor rigore, rispettivamente, dagli artt. 1710 e 1768 c.c.; se
il mutuo è gratuito il mutuante è responsabile, ex art. 1821 c.c., solo nel caso in cui, conoscendo i vizi, non abbia avvertito il mutuatario; in tema di interpretazione del contratto,
qualora dopo l’utilizzo dei generali criteri interpretativi il senso del contratto rimanga oscuro, se è a titolo gratuito il contratto deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato in virtù dell’art. 1371 c.c.
50
246
Il trasporto amichevole o di cortesia
invece espressamente previsto, in ragione dell’esigenza di tutelare il bene
supremo dell’integrità personale del passeggero attraverso l’imposizione al vettore a titolo gratuito degli stessi obblighi di diligenza previsti nel
caso del trasporto a titolo oneroso56.
Sul trasporto gratuito di cose mancano norme corrispondenti a quelle sopra richiamate riguardanti il trasporto di persone. Tuttavia, il principio dell’equiparazione, sotto il profilo della responsabilità, tra vettori
a titolo oneroso e a titolo gratuito non può ritenersi strettamente limitato alle esigenze di salvaguardia dell’incolumità del passeggero, per cui
risulta estensibile ai contratti di trasporto gratuito di merci, anche se per
essi manca nel dettato codicistico quell’esplicità equiparazione al trasporto oneroso, esistente invece in riferimento al trasporto gratuito di persone e bagagli negli artt. 1681, terzo comma, c.c. e 413 c. nav.57
Infine, in presenza di un trasporto di natura negoziale (sia oneroso che gratuito) la responsabilità del vettore può essere impegnata a doppio titolo, essendo possibile in caso di sinistro il concorso fra l’azione contrattuale e quella extracontrattuale58.
7. Il trasporto amichevole o di cortesia
Il trasporto amichevole o di cortesia59 si configura invece nel caso
in cui il trasferimento di persone o cose da un luogo ad un altro avvenga al di fuori di qualsiasi rapporto contrattuale, per ragioni di amicizia,
di cordialità o di cortesia60.
Il codice civile non contempla espressamente la figura del trasporto amichevole.
Il codice della navigazione, invece, pur presupponendo la nozione
56
Cfr. S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit., pp. 228-229; G. CATURANI-A. SENIl trasporto, cit., p. 10.
57
Cfr. S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit. p. 229 ss. e p. 231.
58
Sul tema, cfr. A. ANTONINI, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: il diritto
dei trasporti, banco di prova di una adeguata evoluzione del regime del concorso, in “Resp. civ. prev.”,
2010, 2, p. 253 ss.
59
In generale, sul trasporto di cortesia, cfr. A. ALIBRANDI, Il trasporto di cortesia, in “Riv.
giur. circ. trasp.”, 2001, p. 537; S. BUSTI, Il contratto di trasporto terrestre, cit. p. 238; C. DE MARCO, L’inquadramento giuridico del trasporto «amichevole o di cortesia»: un problema ancora aperto, in “Dir. prat. assic.”, 1984, 503; A. FLAMINI, Il trasporto amichevole, cit.
60
In tal senso, cfr. G. CATURANI-A. SENSALE, Il trasporto, cit., p. 72; M. IANNUZZI, Trasporto, cit., p. 46. Fra le ipotesi più comuni di trasporto amichevole è stato annoverato il trasporto effettuato nei confronti di familiari, di amici o di autostoppisti.
SALE,
247
Giuseppe Reale
generale di trasporto offerta dall’art. 1678 c.c., reca all’art. 414 uno specifico riferimento al trasporto amichevole che, come già detto, risulta assente nella normativa generale nazionale e in quella internazionale uniforme sul trasporto, entrambe accomunate alla disciplina interna della
navigazione dall’espressa previsione di una obbligazione negoziale di trasportare in assenza di un corrispettivo per tale attività.
È rimasta isolata la tesi secondo cui l’art. 414 c. nav. costituirebbe la
norma cardine del regime di responsabilità relativo al trasporto amichevole, applicabile per analogia anche al trasferimento terrestre di cortesia61.
Inizialmente, infatti, una parte della dottrina aveva teorizzato tale
estensione, presto criticata in ragione della impossibilità di applicare in
via analogica l’art. 414 c. nav. al trasporto stradale di cortesia. Ciò sia in
ragione della sua natura di norma eccezionale che alla luce del fatto che
il regime di responsabilità ivi contemplato determinerebbe un conflitto
con il regime della responsabilità aquiliana delineato in via generale dall’art. 2043 c.c. e risulterebbe, peraltro, sfavorevole per il trasportato-danneggiato62.
Sorge poi il problema di individuare gli esatti confini del trasporto effettuato a titolo di cortesia e di delineare i rapporti e le differnenze
fra quest’ultimo e il trasporto gratuito.
Dal punto di vista concettuale la distinziona appare netta, mentre
meno agevole risulta la distinzione nella pratica.
Secondo la tesi prevalente, mentre il trasporto gratuito è un contratto il trasporto di cortesia non lo è, costituendo soltanto l’effettuazione materiale del trasferimento di persone o di cose in assenza di un obbligo contrattualmente assunto. Pertanto, nel trasporto gratuito il trasferimento avviene in adempimento di un obbligo contrattuale mentre nel trasporto
amichevole esso avviene al di fuori di qualsiasi obbligo e in via del tutto spontanea63.
Una parte minoritaria della dottrina ha attribuito al trasporto amichevole carattere negoziale, ritenendo applicabili alla fattispecie gli artt.
61
L’art. 414 c. nav. era originariamente applicabile sia in campo marittimo che aereo. Difatti, il vecchio testo dell’art. 949 c. nav., operando il rinvio alle disposizioni della
parte marittima del codice, disponeva che «al trasporto aereo di persone e di bagagli si applicano, per quanto non disposto in questa sezione, le norme degli articoli 397 a 418». Per
cui operava il richiamo anche all’art. 414 c. nav. sulla responsabilità del vettore nel trasporto amichevole. Il rinvio in precedenza operato dall’art. 949 c. nav. è venuto nemo a seguito della riforma introdotta dai d.lgs. n. 96/2005 e n. 151/2006.
62
Questi i principali rilievi di A. ALIBRANDI, Il trasporto di cortesia, cit., p. 559; A. FLAMINI, Il trasporto amichevole, cit., p. 78 ss.
63
In tal senso, A. ANTONINI, Corso, cit., p. 194.
248
Il trasporto amichevole o di cortesia
1176 e 1218 c.c. in tema di inadempimento e di ritardo, individuando nell’art. 414 c. nav. una ipotesi di responsabilità contrattuale64.
Altra dottrina, pur dubitando della natura contrattuale del trasporto amichevole ritiene si tratti di una concessione precaria dell’esercizio
di talune facoltà con conseguente instaurazione di un rapporto65.
La dottrina prevalente, invece, è concorde nel considerare il trasporto amichevole o di cortesia un’attività di mero fatto, da cui può conseguire soltanto una responsabilità di natura extracontrattuale qualora essa
sia fonte di danno per le persone o le cose trasportate66.
La giurisprudenza di legittimità e quella di merito sono pressoché concordi nell’affermare la natura extracontrattuale del trasporto amichevole67.
8. Distinzione fra trasporto gratuito e trasporto amichevole o di cortesia
Come già accenato, in concreto non è sempre agevole distinguere
il trasporto gratuito dal trasporto amichevole o di cortesia.
Il criterio che consente di distinguere le due fattispecie è tradizionalmente stato rinvenuto nell’esistenza di un interesse giuridicamente
64
Per questa soluzione, v. G. GHEZZI, Cortesia (prestazioni di), in Enc. dir., X, Milano,
1962, p. 1048 ss.; A. MONTEL, Ancora in tema di responsabilità per trasporto terrestre a titolo di
cortesia, in “Foro pad.”, 1948, I, p. 203;, in “Riv. dir. comm.”, 1948, I, 109 ss.; D.R. PERETTI
GRIVA, Trasporto amichevole o di cortesia, in “Foro pad.”, 1957, I, p. 481 ss.; U. VIOLANTE, Irresponsabilità del vettore in caso di trasporto aereo a titolo di cortesia, in “Danno e resp.”, 1998,
p. 588 ss.
65
Cfr. S. ROMANO., Il trasporto di cortesia, in “Riv. dir. civ.”, 1960, I, p. 485 ss.
66
In questo senso, v. A. ASQUINI, Trasporto, cit., p. 616 ss.; M. BERRI, Sulla natura della responsabilità nel trasporto amichevole di persone, in “Giur. compl. Cass. civ.”, 1952, I, 57 ss.;
S. BUSTI, Contratto di trasporto terrestre, cit. p. 250 ss.; F. D’ORSI, Il trasporto amichevole di persone e di cose, in “Giur. compl. Cass. civ.”, 1955, III, p. 733 ss.; S. FERRARINI, Trasporto gratuito; trasporto amichevole e viaggi con mezzi di fortuna, in “Temi”, 1947, p. 445; A. FLAMINI, Il trasporto amichevole, cit., p. 144 ss.; A. LEFEBVRE D’OVIDIO - G. PESCATORE - L. TULLIO, Manuale,
cit., pp. 469-470; L. MASALA, Trasporto di cortesia e tutela del passeggero, in “Contratti”, 1999,
p. 361 ss.; G. MASTRANDREA, L’obbligo di protezione nel trasporto aereo di persone, cit., 273 ss.;
M. RIGUZZI, Il contratto di trasporto stradale, cit., p. 57 ss.; G. ROMANELLI, Il trasporto aereo di
persone, cit., p. 111 ss.; A. VENDITTI, Della responsabilità del vettore nel trasporto amichevole, in
“Giust. civ.”, 1952, p. 125.
67
Cfr. Cass. 8 ottobre 2009, n. 21389, in “Mass Giur. it.”, 2009; Cass. 22 agosto 2007,
n. 17848, in “Arch. giur. circolaz.”, 2008, 7-8, p. 682; Cass. 1 giugno 2006, n. 13130, in “Danno e resp.”, 2007, 3, p. 291; Cass. 30 gennaio 2006, n. 1873, in “Arch. giur. circolaz.”, 2007,
1, p. 67; Cass. 18 maggio 1999, n. 4801, in “Resp. civ. prev.”, 1999, p. 1273; Cass. 26 ottobre
1998, n. 10629, in “Arch. giur. circolaz.”, 1998; Cass. 3 marzo 1995, n. 2471, in “Mass. Giur
it.”., 1995; Trib. Milano, 27 giugno 2003, in “Gius”, 2004, 6, p. 884; Trib. Firenze, 8 aprile 1993,
“Arch. giur. circolaz.”, 1994, p. 135.
249
Giuseppe Reale
rilevante in colui che esegue la prestazione del trasporto: in presenza di
tale interesse sussiste fra le parti un rapporto contrattuale (seppure a titolo gratuito), mentre in sua assenza il trasporto viene effettuato senza
alcun obbligo in capo al vettore, fondandosi su correnti relazioni umane e rientrando nell’ambito della mera cortesia e, quindi, è riconducibile al trasporto amichevole68.
Secondo la dottrina la semplice relazione sociale di cortesia è inidonea a fondare un rapporto contrattuale mentre l’effettuazione di un trasporto per un interesse giuridicamente rilevante e nella prospettiva di una
qualche utilità realizza fra le parti un vero e proprio accordo, eventualmente correlato ad altri gia sussistenti fra le medesime parti, che fa nascere un contratto pur in assenza di corrispettivo69.
Deve trattarsi poi di un interesse di natura patrimoniale70.
Al riguardo, è stato ritenuto inidoneo a dar vita ad un rapporto contrattuale il mero interesse a godere della compagnia altrui71, in quanto,
ove così non fosse, tutti i trasporti privi di corrispettivo sarebbero di natura contrattuale, mentre le ipotesi riconducibili al trasporto amichevole resterebbero assurdamente confinate a quei casi in cui il trasportato è
una persona sgradita al vettore.
Anche secondo la giurisprudenza l’aspetto fondamentale che consente di individuare la differenza fra il trasporto gratuito e quello amichevole o di cortesia si concretizza nell’elemento negoziale, che sussiste
nel primo e manca, invece, nel secondo72.
In conclusione, mentre nel trasporto gratuito il vettore, per un suo
interesse economico-patrimoniale, si impegna contrattualmente al trasferimento, nel trasporto amichevole, effettuato in via spontanea e per pura
68
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 195; A. LEFEBVRE D’OVIDIO - G. PESCATORE - L. TULManuale, cit., pp. 469-470.
69
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 194.
70
Cfr. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 195.
71
Un orientamento giurisprudenziale oramai superato aveva cercato di individuare l’esistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile nell’assunzione da parte del vettore del trasporto di persone anche per mero godimento dell’altrui compagnia nel corso
del viaggio. In questo senso, cfr. Cass. 14 marzo 1978, n. 1287, in CED Cassazione. La giurisprudenza successiva, invece, ha chiarito, mantenendo poi sino ad oggi fermo questo orientamento, che deve trattarsi pur sempre di un interesse suscettibile di valutazione economica. In questo senso, cfr. Cass. 5 marzo 1990, n. 1700, in “Giur. it.”, 1990, I, 1, p. 1586, secondo cui affinché un trasporto possa dirsi caratterizzato dall’elemento negoziale è necessario che sussista un interesse del vettore suscettibile di valutazione economica (e tale non
è il godimento della compagnia del passeggero, ancorché al fine di non percorrere da solo
di notte una strada poco sicura).
72
Cfr. Cass. 5 marzo 1990, n. 1700, cit., p. 1586.
LIO,
250
Il trasporto amichevole o di cortesia
cortesia, non sussiste alcuna obbligazione di natura contrattuale73.
L’esame del dato normativo conferma questa soluzione.
Difatti, il testo dell’art. 1681, terzo comma, c.c., quello dell’413 c. nav.
e il vecchio testo dell’art. 947 c. nav. fanno espresso riferimento al «contratto» o ai «contratti» di trasporto gratuito.
Pertanto, per il legislatore non sussiste alcun dubbio sulla natura negoziale del trasferimento effettuato senza corrispettivo e, dunque, a titolo gratuito.
Al contrario, nel testo dell’art. 414 c. nav., trattando del trasporto amichevole, il legislatore omette ogni riferimento alla figura del contratto.
In sintesi, gli elementi caratterizzanti il trasporto di cortesia possono essere rinvenuti nella mancanza di rapporto contrattuale fra il vettore e il passeggero e nell’assenza di un interesse giuridicamente rilevante di natura patrimoniale.
Il «legame» tra il vettore e il passeggero in questo peculiare ambito resta dunque relegato e circoscritto alla sfera morale e sociale, giustificandosi esclusivamente sul piano dell’amicizia, della parentela o della cordialità.
Dunque, per l’appunto, nello spirito di mera cortesia che induce il
vettore a eseguire il trasferimento di cui trattasi.
In concreto, tuttavia, in presenza di fattispecie di trasferimento caratterizzate dall’assenza di corrispettivo, non è sempre agevole distinguere se la mancanza del compenso sia accompagnata o meno dalla presenza di un interesse giuridicamente rilevante ad eseguire il trasporto.
9. La responsabilità del vettore nel trasporto di cortesia
Mentre le norme sulla responsabilità del vettore nel trasporto di persone si applicano anche all’ipotesi del trasporto gratuito più problematica e difficoltosa si presenta la questione inerente l’individuazione del
regime di responsabilità nell’ambito del trasporto amichevole, che suscita essenzialmente due ordini di problemi.
Il primo riguarda la mancata esecuzione del trasporto iniziato o il
ritardo, mentre il secondo concerne il regime di responsabilità del vettore in caso di danni alle persone o alle cose trasportate amichevolmente.
73
In tal senso, v. A. ALIBRANDI, Il trasporto per cortesia, cit., p. 537 ss; A. ANTONINI, Il
trasporto amichevole: lineamenti generali ed inadeguatezza della disciplina del codice della navigazione, in “Dir. trasp.”, 2004, p. 91 ss.; M. CASANOVA-M. BRIGNARDELLO, Diritto dei trasporti,
cit., p. 29-30; A. FLAMINI, Il trasporto amichevole, cit., p. 28 ss.
251
Giuseppe Reale
Il primo dei due problemi pare avere rilievo esclusivamente teorico, non essendo nota al riguardo casistica giurisprudenziale.
Si tratta dell’ipotesi in cui, iniziato il trasporto a titolo di cortesia,
lo stesso venga arbitrariamente interrotto dal vettore.
In tal caso, secondo la dottrina non sussiste l’obbligo di eseguire la
prestazione del trasporto non dovuta ma spontaneamente iniziata74.
Peraltro, il vettore potrebbe rispondere nella siffatta ipotesi a titolo extracontrattuale per i danni subiti dal trasportato non già a causa del
mancato compimento della prestazione (c.d. interesse positivo) ma dell’inizio della stessa e della sua inesecuzione (c.d. interesse negativo).
In pratica, la responsabilità potrebbe riguardare il pregiudizio che
il trasportato non avrebbe riportato se la prestazione non fosse stata iniziata, ma non quello che il trasportato ha eventualmente riportato come
conseguenza della mancata completa esecuzione del trasporto75.
Di gran lunga più ampia si presenta, invece, la casistica concernente la responsabilità del vettore nel trasporto di cortesia per i sinistri che
colpiscono la persona del passeggero o le cose trasportate.
In tal caso, sebbene, come vedremo, il regime di responsabilità si presenta differenziato in relazione alle varie modalità di trasporto, la dottrina76 e la giurisprudenza77 convergono sul fatto che si tatti di responsabilità di natura extracontrattuale.
10. (segue:) Il regime di responsabilità nel trasporto stradale
Nel trasporto stradale, in assenza di una specifica disposizione normativa, trovano applicazione le norme sulla responsabilità per fatto illecito78.
Al riguardo, va segnalato che la giurisprudenza ha assunto diver-
74
In questo senso, v. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 196.
Così, A. ANTONINI, Corso, cit., p. 196, che ipotizza il caso dell’autostoppista che ottenga un passaggio da un automobilista in una zona centrale e con notevole traffico e poi
il trasporto di cortesia venga interrotto in un luogo poco frequentato dove l’autostoppista ha scarse possibilità di trovare un passaggio. In tal caso, l’ipotetico pregiudizio riportato non è dato dalla mancata esecuzione del trasferimento amichevole bensì dal’inizio della prestazione in mancanza del quale il soggetto non avrebbe riportato alcun danno.
76
In tal senzo, v. A. ANTONINI, Corso, cit., p. 197; M. CASANOVA-M. BRIGNARDELLO, Diritto dei trasporti, cit., p. 30; M. VITI, Tutela della persona, principio di solidarietà sociale e responsabilità del vettore nel trasporto amichevole e di cortesia, in “Dir. trasp.”, 2004, p. 872 ss.
77
Cfr. Cass. 21 maggio 2014, n. 11270, in CED Cassazione, 2014;
78
V. art. 2043 ss. c.c.
75
252
Il trasporto amichevole o di cortesia
si orientamenti, mutando sensibilmente nel corso degli anni l’indirizzo
seguito.
La giurisprudenza meno recente, infatti, riteneva inapplicabile al trasporto amichevole o di cortesia l’art. 2054 c.c.79 che, come è noto, prevede un regime probatorio di favore per il danneggiato in quanto la responsabilità del conducente per i danni derivanti dalla circolazione del veicolo è presunta, salva la dimostrazione positiva di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, nonché la responsabilità solidale fra conducente e proprietario del veicolo80.
In particolare, spicca il severo regime di responsabilità a carico del
conducente-vettore81 che risponde oggettivamente82 in virtù del collegamento fra l’attività svolta (circolazione del veicolo) e il danno prodotto
(dalla circolazione, appunto, del veicolo da lui condotto) salvo fornire la
79
Cfr. Cass. 19 marzo 1997, n. 2424, in “Danno e resp.”, 1997, 4, p. 515; Cass. 3 marzo 1995, n. 2471, in “Mass. Giur. it.”, 1995; Cass. 16 novembre 1987, n. 8384, in “Arch. giur.
circolaz.”, 1988, p. 308; Trib. Napoli, 25 ottobre 1997, in “Riv. giur. circolaz. e trasp.”, 1998,
p. 726.
80
Secondo l’art. 2054 c.c. «Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non
prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. In caso di scontro tra veicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli. Il proprietario del veicolo o, in sua vece, l’usufruttuario o l’acquirente con patto di riservato dominio, è responsabile in solido con il conducente, se non prova che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà. In ogni
caso le persone indicate dai commi precedenti sono responsabili dei danni derivanti da vizi
di costruzione o da difetto di manutenzione del veicolo».
81
Dal punto di vista terminologico l’art. 2054 c.c. utilizza una terminologia apparentemente differente rispetto a quella ordinariamente in uso nel settore del trasporto: non parla infatti di «trasporto» ma di «circolazione», non fa riferimento al «vettore» bensì al «conducente», non indica il «passeggero» ma le «persone» che hanno subito il danno. A parte
i differenti termini utilizzati, dal punto di vista sostanziale, non può sussistere dubbio che,
nel caso di specie, susista piena assimilazione fra le fattispecie prese in considerazione e
le figure soggettivie contemplate.
82
Il criterio di imputazione contemplato dall’art. 2054, primo comma, c.c. non è fondato sulla colpa. Il conducente, infatti, non è liberato dalla responsabilità se si limita soltanto a provare di avere tenuto una condotta rispondente al modello della diligenza nella guida del veicolo e, ovviamente, di non aver violato disposizioni del codice della strada. E’ invece tenuto a provare l’esistenza del caso fortuito, ossia di un evento idoneo ad eludere il nesso di causalità tra la circolazione del veicolo e il prodursi del danno. Ne discende che grava
sul conducente il rischio legato anche all’imprudenza dei terzi. In tal caso, per sottrarsi alla
responsabilità egli deve dimostrare che, a fronte della situazione di pericolo in concreto emersa e non dovuta a sua negligeza, ha comunque adotato le manovre di fortuna possibili nelle
concrete circostanze per impedire il prodursi del danno oppure che, date le modalità del fatto stesso, non sussisteva da parte sua una reale possibilità di evitare l’incidente. In tal senso,
v. M. BESSONE, Istituzioni di diritto privato, Torino, 2000, p. 1010.
253
Giuseppe Reale
prova liberatoria83.
In caso di scontro fra veicoli, per superare la presunzione di colpa
paritaria tra i conducenti prevista dall’art. 2054, secondo comma, c.c. entrambi devono fornire la prova liberatoria idonea a superare la presunzione di legge84, che invece non opera quando uno dei due ha causato lo
scontro con dolo85.
La presunzione di colpa paritaria opera anche nel caso in cui uno
dei veicoli coinvolti non abbia riportato danni (Corte cost., 29 dicembre
1972, n. 205).
Infine, il proprietario del veicolo (o, in sua vece, uno degli altri soggetti indicati nel terzo comma dell’art. 2054 c.c.) per evitare la responsabilità solidale con il conducente deve fornire la prova che la circolazione è avvenuta contro la sua volontà.
La ratio della norma è evidentemente quella di garantire in maniera più ampia il danneggiato.
La prova liberatoria che deve fornire il proprietario consiste nella
dimostrazione della contraria volontà alla circolazione del veicolo86.
La regolamentazione della responsabilità offerta dall’art. 2054 c.c.
veniva ritenuta applicabile soltanto ai soggetti estranei all’autoveicolo e
non, invece, ai trasportati presenti a bordo del mezzo di trasporto87.
83
Secono la giurisprudenza, la prova liberatoria che il conducente deve fornire consiste nel dimostrare l’esistenza di un fatto che ha interroto il nesso eziologico e del tutto
indipendente dalla sfera dell’agente che, a sua volta, ha fatto tutto il possibile per evitare
il danno. Quindi per esonerarsi da responsabilità il conducente deve dimostrare l’inevitabilità del fatto dannoso. La prova liberatoria può consistere anche nella concreta dimostrazione che il comportamento del danneggiato sia stato il fattore causale esclusivo dell’evento dannoso, non evitabile da parte del conducente Sul tema della prova liberatoria,
cfr. Cass. 11 giugno 2010, n. 14064, in CED Cassazione; Cass. 28 novembre 2007, n. 24745,
in “Mass. Giur. It.”, 2007; Cass. 18 ottobre 2001, n. 12751, in “Giur. it.”, 2002, p. 1609; Trib.
Bologna, 21 maggio 2013, inedita, Trib. salerno, 7 marzo 2011, inedita.
84
Cfr. Cass. 9 gennaio 2007, n. 195, in “Arch. giur. circolaz.”, 2007, 7-8, p. 808.
85
In tal senso, v. Cass. 27 giugno 2007, n. 14834, in “Mass. Giur. it.”, 2007.
86
Per contraria volontà deve intendersi non già la mancanza di assenso, bensì la dimostrazione di avere diligentemente adottato tutte le misure necessarie per evitare la circolazione del veicolo. Per cui tale volontà deve estrinsecarsi in un concreto e idoneo comportamento specificamente inteso a vietare e impedire la circolazione del veicolo mediante l’adozione di cautele tali che la volontà del proprietario non possa essere superata. Sulla prova liberatoria ex art. 2054, terzo comma, c.c., v. Cass. 14 luglio 2011, n. 15478, in CED
Cassazione, 2011; Cass. 21 giugno 2004, n. 11471, in “Resp. civ.”, 2004, p. 178; Cass. 1 agosto 2000, n. 10027, in “Danno e resp.”, 2001, 1, p. 101.
87
Cfr. Cass. 19 marzo 1997, n. 2424, in “Danno e resp.”, 1997, 4, p. 515; App. Lecce
6 novembre 2000, in “Arch. giur. circolaz.”, 2002, p. 486; Trib. Lodi 31 ottobre 1987, in “Arch.
giur. circolaz.”, 1988, p. 320.
254
Il trasporto amichevole o di cortesia
Secondo questo primo indirizzo, oramai superato, il trasportato, al
fine di rendere operante la presunzione di responsabilità del vettore doveva provare l’esistenza di un rapporto contrattuale (a titolo oneroso o
gratuito). In mancanza di tale prova il trasporto si considerava avvenuto a titolo di cortesia e il danneggiato doveva avvalersi della disposizione generale di cui all’art. 2043 c.c., che prevede l’onere della prova in capo
al danneggiato stesso88.
Per cui, ai sensi dell’art. 2043 c.c., il danneggiato doveva farsi carico di dimostrare, oltre al danno subito e al nesso causale fra il danno e
il fatto del conducente, anche la colpa (o il dolo) di quest’ultimo89.
La soluzione, accolta anche dai giudici di merito, trovava fondamento nella circostanza che il trasportato a titolo di cortesia partecipava ai
vantaggi del trasporto svolto a suo favore con la consapevolezza dei rischi insiti nella effettuazione del trasferimento e, quindi, non poteva essere assimilato ad un soggetto terzo ed estraneo alla circolazione del veicolo che, invece, qualora danneggiato dalla circolazione del medesimo,
poteva invocare il regime di maggior favore previsto espressamente dall’art. 2054 c.c.90
La giurisprudenza più recente, invece, modificando il precedente orientamento, ha affermato che in materia di responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli, l’art. 2054 c.c. esprime dei principi di portata e carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che comunque da tale circolazione subiscano dei danni e, quindi, anche a coloro che sono trasportati a
qualsiasi titolo e, dunque, anche a titolo gratuito o di mera cortesia91.
88
Cfr. Cass. 19 marzo 1997, n. 2424, cit.; Cass. 3 marzo 1995, n. 2471, in “Mass. Giur.
it.”, 1995; Cass. 16 giugno 1990, n. 6059, in “Mass. Giur. it.”, 1990.
89
Cfr. Cass. 8 ottobre 2009, n. 21389, in “Mass. Giur. it.”, 2009.
90
Cfr. App. Lecce 6 novembre 2000, in “Arch. giur. circolaz.”, 2002, p. 486; Trib. Lodi
31 ottobre 1987, in “Arch. giur. circolaz.”, 1988, p. 320. Secondo questo indirizzo la presunzione di colpa prevista dall’art. 2054 c.c. non trova applicazione in favore della persona trasportata sul veicolo per mera cortesia, la quale, come ogni persona a qualsiasi titolo trasportata, non può, rispetto all’autore del danno, assimilarsi ai terzi estranei alla circolazione ed è in grado di valutare preventivamente ogni possibile rischio cui può trovarsi esposta, anche in considerazione delle qualità del conducente cui si affida.
91
La prima decisione di legittimità in tal senso è Cass. 26 ottobre 1998 n. 10629, in
“Giust. civ.”, 1998, I, 2716, nonché in “Contratti”, 1999, 361, con nota di L. MASALA, Trasporto di cortesia e tutela del passeggero. Nel medesimo senso, v. anche Cass. 21 gennaio 2000,
n. 68, in “Giur. it.”., 2000, p. 1360, con nota di A. AMATO, Tutela piena del trasportato, quale
che sia il titolo del trasporto, di cortesia ovvero contrattuale (oneroso o gratuito), in “Nuova giur.
civ. comm.”, 2001, I, p. 64, con nota di F. CALVARI, In tema di applicabilità dell’art. 2054 c.c. al
trasporto di cortesia. Per la giurisprudenza più recente, cfr. Cfr. Cass. 21 maggio 2014, n. 11270,
in CED Cassazione, 2014; Cass. 7 ottobre 2010, n. 20810, in “Resp. civ.”, 2001, 7, p. 496; Cass.
255
Giuseppe Reale
Va rilevato che una parte della giurisprudenza di merito, anticipando il mutamento di indirizzo della Suprema Corte, si era già pronuniciata a favore dell’estensione del regime previsto dall’art. 2054 c.c. al trasportato a titolo amichevole92.
Pertanto, in virtù di questo ragionamento, l’orientamento della Suprema Corte è nel senso di estendere l’applicazione dell’art. 2054
c.c. a tutti i soggetti comunque danneggiati a seguito della circolazione stradale, tanto se estranei al veicolo quanto se trasportati a bordo dello stesso.
11. (segue:) Il regime di responsabilità nel trasporto marittimo
La fattispecie del trasporto amichevole risulta specificamente disciplinata nell’ambito del trasporto marittimo dall’art. 414 c. nav., la cui applicazione al trasporto aereo è venuta meno a seguito della riforma della parte aeronautica del codice della navigazione degli anni 2005-200693.
Tale disposizione, secondo cui nel trasporto amichevole o di cortesia di persone e bagagli il vettore risponde solo se il danneggiato dimostra che il danno dipende da dolo o colpa grave del vettore o dei suoi dipendenti e preposti, introduce alcune importati deroghe a favore del vettore rispetto all’ordinario regime di responsabilità inerente il contratto
di trasporto: in primo luogo, l’onere della prova dell’elemento soggetti-
23 giugno 2009, n. 14644, in “Resp. civ. on line”, 2009; Cass. 28 novembre 2007, n. 24749,
in “Mass. Giur. it.”, 2007; Cass. 19 novembre 2007, n. 23918, in “Mass. Giur. It.”, 2007; Cass.
24 ottobre 2007, n. 22336, in “Arch. giur. circolaz.”, 2008, 7-8, p. 682; Cass. 31 ottobre 2005,
n. 21115, in “Mass. Giur. it.”, 2005. Nello stesso senso anche la giurispridenza di merito.
Cfr. App. Venezia, 7 maggio 2012, in “Danno e resp.”, 2013, 7, p. 773; Trib. Lecce 16 febbraio 2013, in “Corriere del merito”, 2013, 6, p. 610.
92
Cfr. Trib. Roma 15 dicembre 1994, in “Arch. giur. circolaz.”, 1995, p. 845; Trib. Roma
19 gennaio 1995, in “Riv. giur. circolaz. e trasp.”, 1995, p. 183. Secondo queste pronunce il
trasportato di cortesia che riporti danni alla persona in conseguenza di un sinistro stradale può invocare sia nei confronti del vettore che del proprietario del veicolo le presunzioni di cui all’art. 2054 c.c.
93
Con l’art. 2 della legge 9 novembre 2004, n. 265, il Governo è stato delegato a riformare la parte aeronautica del codice della navigazione. Tale parte, infatti, nonostante
vari interventi operati nel corso degli anni, era ritenuta inadeguata sotto molteplici profili, risalendo l’impianto fondamentale del codice ad otre sessanta anni prima. Con il d.lgs.
9 maggio 2005, n. 96, è stata emanta una prima revisione della parte aeronautica del codice. Successivamente, è stato emanato il d.lgs. 15 marzo 2006, n. 151, recante interventi correttivi e integrativi al d.lgs. n. 96/2005. Si è trattato di un intervento assai ampio, in quanto la riforma ha interessato circa decento articoli del codice che sono stati coinvolti nel procedimento di revisione.
256
Il trasporto amichevole o di cortesia
vo è a carico del danneggiato, in secondo luogo, la sola colpa grave94 (oltre ovviamente al dolo) impegna la responsabilità del vettore che non risponde in caso di colpa lieve95.
L’art. 414 c. nav. riguarda, tuttavia, la navigazione c.d. mercantile
e non si applica alla navigazione svolta a scopo sportivo o ricreativo e
senza fine di lucro (c.d. navigazione da diporto)96.
Nella navigazione marittima da diporto, originariamente regolata
dal codice della navigazione agli artt. 213-218, successivamente dalla legge 11 febbraio 1971, n. 50, più volte modificata e, da ultimo, dopo il complessivo riordino della materia, dal d.lgs. 18 luglio 2005, n. 171 (codice
della nautica da diporto), l’art. 414 c. nav. non trova applicazione.
Difatti, già l’art. 47 della legge n. 50/197197 disciplinava la responsabilità civile verso terzi operando il rinvio all’art. 2054 c.c.98.
La riforma della materia, come già detto avvenuta con il d.lgs. 18
luglio 2005, n. 171, ha confermato la precedente impostazione.
94
Per colpa grave deve intendersi la qualificazione soggettiva di una condotta, commissiva o omissiva, caratterizzata dalla mancanza di qualsiasi minima diligenza o dal non
prevedere ciò che chiunque riuscirebbe a prevedere. In tal senzo, S. ZUNARELLI - A. ROMAGNOLI, Contratto di trasporto marittimo di persone, Milano, 2012, p. 395. Secondo la giurisprudenza, per colpa grave deve intendersi un comportamento consapevole dell’agente che,
senza la volontà di recare danno ad altri, operi con straordinaria e inescusabile imprudenza o negligenza, omettendo di osservare non solo la diligenza media del buon padre di famiglia, ma anche quel grado minimo ed elementare di diligenza generalmente osservato
da tutti. In tal senso, Cass. 13 ottobre 2009, n. 21679, in “Mass. Giur. it.”, 2009; Trib. Milano 15 ottobre 2009, inedita; Trib. Pinerolo, 31 marzo, 2009, in “Contratti”, 2009, 6, p. 600.
95
Dall’eame dell’art. 414 c. nav. si evince chiaramente che, a differenza di quanto accade nel regime di responsabilità delineato dagli artt. 408, 409 e 413 c. nav. con riferimento al trasporto oneroso e gratuito, non vi è alcuna presunzione di colpa in capo al vettore,
per cui l’onere della prova grava sul trasportato-danneggiato che è tenuto a dimostrare il
dolo o la colpa grave del vettore.
96
Ai sensi dell’art. 1 del d.lgs. n. 171/2005 per navigazione da diporto si intende quella effettuata in acque marittime e interne a scopi sportivi o ricreativi e senza fine di lucro.
97
Nel testo modificato da legge n. 8 luglio 2003, n. 172. Prima della modifica apportata dalla legge n. 172/2003 l’art. 2054 c.c. era applicabile soltanto alla responsabilità civile derivante dalla circolazione dei natanti e delle imbarcazioni da diporto, mentre per le
navi da diporto trovava applicazione il regime speciale previsto dagli artt. 482 ss. c. nav.
Dopo la menzionata modifica legislativa era stata invece prevista l’applicabilità dell’art.
2054 c.c. a tutte le unità da diporto: natanti, imbarcazioni e navi, estendendola quindi alle
navi da diporto che in precedenza ne erano escluse.
98
Per cui, nel trasporto di cortesia effettuato mediante unità da diporto il regime di
responsabilità per il danno occorso alla persona trasportata è disciplinato dall’art. 2054 c.c.
così come richiamato dalla legge n. 50/1971 e non già dall’art. 414 c. nav., riferibile alla sola
nagivazione marittima mercantile. In tal senso, Cass. 19 novembre 2013, n. 25902, in “Giur.
it.”, 2014, 6, 1353.
257
Giuseppe Reale
Per cui, in virtù del richiamo oggigiorno operato dall’art. 40 del codice sul diporto, la responsabilità civile verso terzi derivante dalla circolazione di tutte le unità da diporto, così come definite dallart. 3 del medesimo codice, risulta regolata ai sensi dell’art. 2054 c.c., al pari di quanto avviene per i veicoli senza guida di rotaie destinati alla circolazione
stradale99.
Ciò, come vedremo, incide in maniera sostanziale sulla applicazione pratica dell’art. 414 c. nav., pur non risolvendo il problema originato
dalla convivenza, in campo marittimo, di due disposizioni normative che
regolano in maniera assai diversa la responsabilità del vettore nel trasporto di cortesia.
12. (segue:) Il regime di responsabilità nel trasporto aereo
Nel settore aereo, venuta meno l’applicabilità dell’art. 414 c. nav. a
seguito dell’intervenuta abrogazione dell’art. 949 c. nav.100 in virtù della riforma della parte aeronautica del codice intervenuta negli anni 20052006, non essendo possibile il ricorso all’art. 2054 c.c., che espressamente si riferisce ai soli veicoli stradali senza guida di rotaie, il trasporto amichevole resta regolato dalla disposizione di portata generale in materia
di illecito aquiliano, ossia dall’art. 2043 c.c.101.
Per cui, in caso di sinistro aereo, il trasportato a titolo di cortesia (o
per esso l’erede) ha l’onere di provare in concreto la colpa del vettore e
gli altri elementi richiesti ai sensi dell’art. 2043 c.c.102, mentre in precedenza era tenuto a dimostrare la colpa grave del vettore ai sensi dell’art. 414
c. nav., già richiamato per i trasporti aerei dal vecchio art. 949 c. nav.103.
13. Conclusioni
In conclusione, mentre per il trasporto gratuito sussiste una regolamentazione della responsabilità del vettore fondata sulla medesima di-
99
Cfr. art. 40 cod. dip. Il citato articolo ha quindi confermato il regime di responsabilità così come già delineato dalla legge n. 172/2003.
100
Il testo dell’art. 949 c. nav. vigente prima della riforma del 2005-2006 stabiliva che
al trasporto di persone e di bagagli si applicavano le norme degli articoli da 397 a 418, quindi anche l’art. 414 c.nav, riguardante il trasporto amichevole a mezzo nave.
101
Cfr. ANTONINI, Corso, cit., p. 198.
102
Cfr. Trib. Roma, 20 marzo 1997, in “Dir. trasp.”, 1998, p. 553.
103
Cfr. Trib. Roma, 5 febbraio 1997, in “Danno e resp.”, 1998, 6, p. 588.
258
Il trasporto amichevole o di cortesia
sciplina applicabile al trasporto oneroso (con possibilità, quindi, di concorso fra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale),
nel trasporto amichevole la normativa di riferimento viene individuata
esclusivamente in quella regolante la responsabilità per fatto illecito.
Come già evidenziato, le disposizioni appicabili variano a seconda
delle diverse modalità di trasferimento, determinando un regime di responsabilità del vettore sensibilmente diverso e, quindi, una tutela differenziata per i soggetti (o i beni) trasportati amichevolmente.
Tuttavia, una differenza di trattamento, con riferimento alla medesima fattispecie (trasporto amichevole), deve essere supportata da una
ragionevole giustificazione che, nel caso di specie, non pare sussista.
Allo stato attuale, il trasportato a titolo di pura cortesia dispone di
una tutela assai ampia e di un regime di notevole favore nel campo del
trasporto terrestre, che si riduce nel trasporto aereo e ancor di più in quello marittimo di tipo mercantile.
Difatti, mentre nel trasporto terrestre con autoveicoli il vettore di cortesia è ritenuto presunto responsabile, ex art. 2054 c.c., dei danni riportati dal trasportato a seguito di sinistro, salvo fornire la prova liberatoria consistente nell’avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, nel
campo del trasporto aereo è il passeggero che deve essere in grado di fornire la prova della responsabilità del vettore, ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Nel settore del trasporto marittimo mercantile, ex art. 414 c.c., oltre
al medesimo onere probatorio già posto in capo al trasportato nei casi in
cui risulti applicabile l’art. 2043 c.c., è necessaria altresì la presenza (e la
dimostrazione) di un particolare livello di colpa (c.d. colpa grave), non
essendo sufficiente per radicare la responsabilità e, quindi, per ottenere
il risarcimento dal vettore una colpa (soltanto) lieve.
Nella navigazione marittima da diporto, invece, si torna al regime
di favore per il passeggero già esaminato nel campo del trasporto stradale, poiché l’art. 40 del codice della nautica da diporto opera una regolamentazione della responsabilità richiamando integralmente il regime
offerto dall’art. 2054 c.c. rigardante i veicoli terrestri.
Orbene, non appare possibile non evidenziare il livello differenziato di tutela di cui il passeggero trasportato amichevolmente può avvalersi e, dunque, la diversa posizione in cui viene a collocarsi il vettore di
cortesia nel caso in cui sia chiamato a rispondere.
Soprattutto, spicca la differenza di trattamento nel campo marittimo, in cui la tipologia o lo scopo della navigazione praticata (mercantile o diporto) è stato ritenuto elemento idoneo a determinare una disparità di trattamento tra il trasportato di cortesia che riporti un danno su
una nave mercantile rispetto al passeggero che, nel medesimo contesto,
259
Giuseppe Reale
riporti lo stesso tipo di danno a bordo di una unità impegnata nella navigazione da diporto.
A maggior ragione, tale difformità emerge in ragione del fatto che
sia la navigazione mercantile che quella da diporto avvengono nel medesimo elemento naturale (ossia le acque del mare o quelle interne) e che
in entrambi i casi il mezzo utilizzato è considerato a tutti gli effetti una
nave ex art. 136 c. nav., emergendo quale unica differenza fra le due ipotesi unicamente lo scopo concreto perseguito dalla navigazione che, tuttavia, sempre in virtù della fondamentale disposizione codicistica richiamata, non incide sulla configurazione della fattispecie nave104, essendo
tale ogni costruzione destinata al trasporto per acqua e idonea a spostarsi in tale elemento105.
Nella pratica, comunque, l’applicazione dell’art. 414 c. nav. appare assai rara, in quanto è estremamente difficile configurare un trasporto amichevole o di cortesia su una nave impiegata nella navigazione mercantile.
Lo stesso dicasi nel settore del trasporto aereo106, in cui non pare proprio frequente la possibilità di un trasferimento a titolo amichevole.
In ogni caso, nel trasporto aereo, l’operatività dell’art. 414 c. nav. è
venuta meno a seguito della riforma del 2005-2006.
In concreto, dunque, nel campo marittimo e in quello aereo, il trasporto di cortesia appare effettivamente configurabile nelle sole ipotesi
di navigazione per scopi sportivi o ricreativi107 (diporto nautico e diporto aeronautico) e, in questi settori, la responsabilità per i danni subiti dal
passeggero è regolata, rispettivamente, dagli artt. 2054 e 2043 c.c.
Per cui, il ricorso all’art. 414 c. nav. risulta escluso, ex lege, nel settore dove l’ipotesi è più ricorrente e in concreto effettivamente realizzabile (ossia nel campo del diporto) e resta quindi limitata all’ipotesi della sola navigazione marittima mercantile in cui, per comune esperienza,
104
Ai sensi dell’art. 136 c. nav. «per nave s’intede qualsiasi costruzione destinata al trasporto per acqua, anche a scopo di rimorchio, pesca, diporto, o ad altro scopo».
105
Sul tema, v. G. REALE, Attitudine alla navigazione, destinazione al trasporto e fattispecie nave, in “Dir. trasp.”, 2007, p. 827 ss.
106
Nel quale, come già visto, è comunque venuto meno il rinvio operato dal vecchio
art. 949 c. nav. all’art. 414 c. nav.
107
Questo non significa, ovviamente, che la «cortesia» coincida sempre con gli «scopi sportivi o ricreativi». La relazione che in concreto può intercorrere fra cortesia e fine lusorio può articolarsi in vario modo, conducendo anche ad una eventuale coincidenza fra
loro, ma non necessariamente. Su queste problematiche, v. R. AMAGLIANI, Trasporto di cortesia e navigazione da diporto: profili di responsabilità, in “Riv. dir. nav.”, 2013, p. 3 ss.; U. LA
TORRE, «Ospite» e membro di equipaggio: una singolare commistione, in “Dir. turismo”, 2006,
p. 234 ss.
260
il trasporto amichevole è assai difficilmente configurabile essendo la fattispecie estranea all’esperienza dei traffici marittimi commerciali.
In definitiva, pur essendo pienamente vigente, l’art. 414 c. nav. resta una norma in concreto disapplicata.
Se questo consente, dal punto di vista pratico, di evitare quella disparità di trattamento cui sopra si è fatto cenno, non incide invece sull’esistenza, in linea di principio, della problematica prospettata.
Ciò anche in ragione del fatto che, essendo vigente, la disposizione in esame potrebbe comunque essere applicata ove si verifichi l’ipotesi di un trasporto amichevole in ambito mercantile.
Permane, quindi, la delicata questione della ingiustificata disparità di trattamento del passeggero nel trasporto amichevole terrestre, aereo e marittimo e, in particolare, all’interno di quest’ultimo, fra il settore mercantile e quello del diporto.
Per le ragioni sopra esposte, l’irragionevolezza e la disparità di trattamento è vieppiù evidente proprio all’interno del settore marittimo, ove
il trattamento ingiustificatamente differenziato emerge a chiare lettere dal
confronto fra la disposizione di maggior favore applicabile nell’ambito
del diporto nautico (art. 2054 c.c.) e quella assai più gravosa applicabile invece nel settore della navigazione mercantile (art. 414 c. nav.).
In passato il gravoso regime imposto dall’art. 414 c. nav. è stato giustificato da una parte della dottrina in vario modo: ora evidenziando l’opportunità di non far pesare su chi effettua il trasferimento esclusivamente per mero spirito di cordialità o per motivi solidaristici il medesimo regime di responsabilità di chi invece ha l’obbigo giuridico di eseguire il
trasferimento108, ora, invece, facendo leva sulla maggiore pericolosità del
trasporto marittimo e di quello aereo rispetto al trasferimento via terra,
cui potrebbe ragiovevolmente ricollegarsi un certo abbassamento del livello di tutela risarcitoria soprattutto nei conforti di chi fruisce del trasferimento a titolo di mera cortesia.
Tuttavia, tali argomentazioni risultano oggigiorno superate anche
alla luce delle scelte operate dal legislatore, che con la riforma del 20052006 ha eliminato l’operatività dell’art. 414 c. nav. in campo aeronautico e, in precedenza, aveva già assoggettato il regime di responsabilità verso terzi nella navigazione da diporto a quelle medesime regole operanti nella circolazione dei veicoli terrestri (art. 47 della legge n. 50/1971),
108
Per cui, mentre la posizione del vettore vettore contrattuale è quella di chi ha l’obbligo giuridico di eseguire la prestazione, diversa è la posizione del vettore di cortesia, che
non è legato al passeggero da alcun vincolo giuridico che imponga di eseguire il trasferimento, che risulta eseguito per pura benevolenza e del tutto spontaneamente.
261
Giuseppe Reale
riconfermando poi tale scelta in sede di riforma complessiva della materia del diporto (art. 40 del d.lgs. n. 171/2005).
Ciò, a maggior ragione, dopo la recente previsione dei «fini commerciali» nel contesto del diporto nautico109
Infine, la maggiore pericolosità dei trasferimenti per mare o per aria
appare oggigiorno smentita dai dati statistici che, al contrario, confermano la maggiore sicurezza degli stessi rispetto al trasporto stradale con autoveicoli.
Sotto questo profilo, quindi, gli interrogativi permangano, soprattutto nel momento in cui si raffronta il sistema di responsabilità operante nel
trasporto marittimo amichevole in ambito mercantile con quello operante
nel trasporto di cortesia stradale o nella navigazione da diporto.
Anche alla luce della disamina effettuata, non pare proprio sussistano motivazioni atte a giustificare ragionevolmente la coesistenza di
regimi così diversi per la regolamentazione della medesima fattispecie.
In definitiva, appare fondata una censura di legittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 3 cost., nei confronti dell’art. 414 c. nav. sotto il profilo della ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento del passeggero trasferito per ragioni di pura cortesia, soprattutto in relazione al
valore primario del bene in gioco, vale a dire l’integrità fisica o la stessa vita del viaggiatore.
Pertanto, con un intervento da parte della Corte costituzionale potrebbe essere espunta dal sistema attuale una disposizione di legge fondata su presupposti irragionevoli e non in linea con i tempi e con l’evoluzione complessiva che ha conosciuto, nel nostro ordinamento, il trasporto di cortesia nelle altre modalità di trasferimento.
La circostanza che si tratti di una norma disapplicata non favorisce,
come è evidente, l’intervento della Consulta, alla luce del meccanismo
introduttivo del giudizio di legittimità sulle disposizioni di legge ritenute di dubbia costituzionalità.
Tuttavia, questa situazione non impedisce al legislatore un agevole intervento atto a riallineare il sistema, riaffermando il criterio generale della responsabilità fondata sulla colpa e sopprimendo l’ipotesi, certamente eccezionale, costituita dalla necessità per il passeggero di cortesia di dimostrare la colpa grave del vettore per poter aspirare al risarcimento del danno subito, riequilibrando, sotto questo specifico aspetto, il sistema generale della responsabilità per fatto illecito.
109
Cfr. art. 1 del d.lgs. n. 171/2005, come sostituito dall’art. 3, settimo comma, del
d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 2011, n. 106.
262
ANDREINA SCOGNAMIGLIO
La giustizia-legalità nella amministrazione:
l’eterno problema amministrativo e l’attualità
delle indicazioni di Silvio Spaventa1
SOMMARIO: 1. Il problema della “giustizia nell’amministrazione” come problema amministrativo. - 2. Le ragioni della centralità del problema amministrativo nello stato moderno e, in particolare, nell’Italia appena unificata. - 3. I rimedi al problema amministrativo nella analisi di Silvio Spaventa. - 3.1. La separazione tra governo (politica) e amministrazione. - 3.2. La sottoposizione dell’amministrazione alla legge (“buone e concrete
leggi”) ed al sindacato giurisdizionale. - 4. Il problema amministrativo emerge come problema politico centrale dell’Italia di oggi. 5.- Qualche riflessione sulle ragioni dell’attualità del problema amministrativo: se l’insuccesso della cura spaventiana sia dovuto ad
un errore della diagnosi e dei rimedi prescritti o alla insofferenza del paziente.
1. Il problema della “giustizia nell’amministrazione” come problema amministrativo
“Giustizia nell’amministrazione” è il titolo del discorso tenuto da
Silvio Spaventa davanti all’Associazione costituzionale di Bergamo il 7
maggio 18802.
Raramente una formula ha avuto maggiore fortuna. Recepita dalla costituzione del 1948, che all’art. 100 indica nel Consiglio di Stato l’organo di tutela della “giustizia nell’amministrazione”, è impiegata oggi,
quasi nel linguaggio comune, per indicare, con il termine riassuntivo di
giustizia amministrativa, il complesso di istituti che garantiscono la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi del cittadino nei confronti della amministrazione.
Il profilo della tutela del singolo, come fine del processo che si svolge dinanzi agli organi di giustizia amministrativa, è presente nella costituzione, dove il ricorso contro l’amministrazione è una manifestazione
del più generale diritto di azione, ovvero del diritto dell’individuo di agi-
1
Relazione tenuta al convegno “Silvio Spaventa e la giustizia amministrativa”, organizzato dalla Fondazione Silvio e Bertrando Spaventa presso l’Università degli Studi del
Molise, Campobasso, il 19 luglio 2014.
2
Il “Discorso di Bergamo” è disponibile sul sito www.giustizia-amministrativa.it.
263
Andreina Scognamiglio
re in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi. È poi sviluppato dalla giurisprudenza e dalla legislazione, che sempre più sono venute disegnando il processo amministrativo come strumento di protezione degli interessi sostanziali delle parti. È portato a compimento nel recente codice del processo ammnistrativo.
Con la codificazione delle regole del processo, possiamo dire che l’assetto oggi raggiunto dal complesso degli istituti che mirano a garantire
la tutela giurisdizionale degli interessi sostanziali dei singoli nei confronti dell’amministrazione è soddisfacente, almeno dal punto di vista tecnico. Adattabili alle esigenze specifiche di tutela le misure cautelari, congrui i mezzi istruttori, ampi i poteri del giudice, che sono estesi oltre l’annullamento dell’atto fino alla condanna della amministrazione ad un “fare”
e al risarcimento del danno per equivalente monetario.
Queste rapide osservazioni sembrerebbero dover condurre alla rassicurante conclusione che il seme, gettato da Spaventa, ha dato buoni e
maturi frutti e che quello di approntare gli strumenti tecnici per la “giustizia nell’amministrazione” è un problema oggi risolto.
Ma nel pensiero di Spaventa la formula “giustizia nell’amministrazione”, evoca, o evoca solo, il problema della tutela del cittadino contro
l’arbitrio dell’amministrazione? È questa la questione che Spaventa affronta nel discorso e rispetto alla quale si propone di ricercare rimedi?
La lettura del discorso fornisce una risposta sicura. Una giurisdizione sul potere amministrativo viene invocata da Spaventa non solo e
non tanto come strumento di garanzia dei diritti e degli interessi dei cittadini. Piuttosto la giurisdizione è pretesa come strumento imprescindibile per realizzare la legalità nella amministrazione e dunque è pretesa
nell’interesse obiettivo dell’ordine giuridico.
L’oggetto del discorso è chiaro, fin dalle prime battute: le condizioni attuali (ovvero dell’epoca) delle amministrazioni italiane, che Spaventa giudica deplorevoli.
Il problema in primo piano è quello ammnistrativo e non già quello della tutela dei diritti dei singoli. La giustizia nell’amministrazione, che
è il fine del processo, coincide con la legalità dell’amministrazione.
E’ dunque seguendo il filo conduttore della giustizia-legalità, che
vorrei provare a leggere il discorso di Bergamo. Di estremo interesse, nelle sue due parti: la prima, dove Spaventa, in veste di storico, spiega le
ragioni della centralità del problema della legalità dell’amministrazione nello stato moderno; la seconda, propositiva, dove egli esprime la consapevolezza del dovere per l’uomo politico e per il giurista di ricercare
i rimedi idonei a ricondurre la legalità, e quindi la giustizia, nell’amministrazione.
264
La giustizia-legalità nella amministrazione
2. Le ragioni della centralità del problema amministrativo nello stato
moderno e, in particolare, nell’Italia appena unificata
La prima parte del discorso illustra le ragioni per le quali il problema della legalità e della giustizia nell’amministrazione assume una centralità assoluta nello stato moderno.
Spaventa individua due cause: le dimensioni raggiunte dall’amministrazione; la forma di governo parlamentare e di partito.
Le dimensioni della amministrazione si allargano inevitabilmente
ed i compiti dello stato si ampliano in una società che proclama il principio di uguaglianza. L’uguaglianza non può restare solo un’uguaglianza di diritto, non può restare sulla carta. Deve essere resa effettiva – diremmo oggi – e per rendere l’uguaglianza effettiva è necessario assicurare a tutti gli individui “condizioni e mezzi” perché essi conquistino uno
stato, corrispondente alla uguaglianza proclamata in astratto. Di qui il
moltiplicarsi dei compiti dell’amministrazione, cui spetta creare quelle
condizioni e provvedere quei mezzi (ad esempio provvedendo alla istruzione pubblica o alla tutela della salute).
La seconda ragione della centralità del problema della legalità nella amministrazione nello stato moderno risiede nella forma del governo parlamentare di partito. Questa forma di governo assegna di volta in
volta al partito di maggioranza la direzione dello stato. In tal modo le istituzioni sono esposte al pericolo che “le passioni di parte si vengano a sostituire al criterio del pubblico interesse e della eguale misura ed imparzialità dei poteri pubblici verso i cittadini”. La Destra storica, al potere
nei primi sedici anni dell’unità d’Italia, aveva commesso non pochi abusi. Spaventa non assolve il precedente governo. Ma i primi quattro anni
del governo della Sinistra storica avevano rivelato comportamenti ancora peggiori, accanto all’incapacità politica di risolvere il problema della
legalità nella amministrazione.
Riportati alcuni episodi di malgoverno, Spaventa conclude a voce
alta e ferma: occorre evitare che l’adozione della forma di governo parlamentare di partito comporti l’assoggettamento dello stato all’interesse di parte.
3. I rimedi al problema amministrativo nella analisi di Silvio Spaventa
Alla analisi critica del sistema, alla individuazione delle cause delle deplorevoli condizioni dell’amministrazione, segue la parte propositiva del discorso, in cui Spaventa analizza i rimedi idonei a far fronte al
pericolo di deterioramento dello stato.
265
Andreina Scognamiglio
Spaventa non pensa affatto che la soluzione vada ricercata in un ritorno al passato, allo stato censitario. L’Italia, appena unificata, non può
rinunciare al governo parlamentare di partito. L’alternanza dei partiti politici rappresenta la garanzia essenziale di un corretto e vitale governo
parlamentare. Neppure è accettabile che l’uguaglianza di tutti davanti
alla legge resti un mero proclama astratto. Così come sarebbe se lo stato non provvedesse a fornire a tutti i cittadini i mezzi per conquistarsi
con il proprio lavoro una condizione corrispondente alla eguaglianza di
diritto. Il rimedio non può consistere neppure nel solo spostamento dei
poteri dalle autorità centrali alle autorità locali: le pressioni di parte potrebbero anzi manifestarsi a livello locale in maniera persino più aspra.
3.1. La separazione tra governo (politica) e amministrazione
La soluzione da percorrere per evitare che lo stato sia asservito all’interesse di parte è individuata da Spaventa ed è enunciata con estrema chiarezza: il primo passo è quello di operare una chiara distinzione
fra governo ed amministrazione.
La separazione necessaria tra governo e amministrazione rappresenta il punto di svolta per realizzare un’amministrazione moderna, in
linea con uno stato democratico e retto da un governo parlamentare di
partito.
Dal punto di vista della storia costituzionale e della storia della nostra amministrazione il periodo in cui si colloca il discorso di Bergamo
è in effetti cruciale. La ragione è quella che correttamente Spaventa individua: il passaggio da uno Stato di tipo oligarchico, in cui il potere è
concentrato nelle mani del ceto degli abbienti, ad uno stato di tipo democratico, che rappresenta interessi di classi più vaste.
Secondo Spaventa, il passaggio è segnato dall’avvento al governo
della sinistra storica. Più tardi Massimo Severo Giannini3 segnerà una data
diversa. Quella dell’allargamento del suffragio, nel 1882. L’ipotesi di Spaventa è forse più attendibile in quanto egli coglie i segni del mutamento già nel 1880, data del discorso di Bergamo.
Quale che sia la data esatta, è indubbio che in quel momento storico si realizza un passaggio decisivo. Giannini lo descrive benissimo, nello scritto sopra ricordato. Nello stato di tipo oligarchico, l’amministrazione pubblica è ancora sostanzialmente amministrazione della Corona.
Rispetto al Re, al quale solo appartiene il potere esecutivo (art. 5 Statu3
M. S. GIANNINI, Parlamento e amministrazione (1961), ora in Scritti, vol. IV, Milano, 2004,
p. 831 ss.
266
La giustizia-legalità nella amministrazione
to albertino) e che ha il potere di nomina a tutte le cariche dello stato, l’amministrazione si pone in una posizione di soggezione quasi piena “la carriera dei pubblici dipendenti è embrionale ed è rimessa alla discrezionalità dei ministri”.
Eppure in quel sistema, caratterizzato dunque da una piena indistinzione tra l’amministrazione ed il vertice politico, alcuni correttivi avevano operato in modo efficace in via di fatto, si da alzare un argine alle
possibili interferenze del vertice politico sull’amministrazione.
In primo luogo, l’amministrazione aveva dimensioni ridotte. La legge di contabilità pubblica era applicata in modo ferreo. Il controllo della Corte dei conti, reso possibile dalle ridotte dimensioni della amministrazione, era penetrante.
Inoltre la maggior parte dei dipendenti dei gradi gerarchicamente
più elevati proveniva dalle classi abbienti, “onde essi non trovavano nell’impiego statale una fonte di sussistenza e i legami di parentela costituivano per essi una valida tutela nei confronti del potere da cui essi dipendevano”4.
Con il passaggio allo stato democratico e di partito, l’amministrazione acquista dimensioni notevoli. Le ragioni sono quelle già indicate
da Spaventa. Al tempo stesso, il baricentro del potere passa dalla corona al parlamento e al governo e l’amministrazione tende a divenire l’apparato del governo staccandosi dal capo dello Stato.
Non essendo più riscontrabili le condizioni, che nel periodo precedente avevano efficacemente operato un freno, il pericolo di turbativa politica sulla amministrazione si manifesta.
L’apparato amministrativo avverte la necessità di garantire sé stesso contro il governo.
È a questa esigenza che Spaventa dà voce, indicando i rimedi acconci: la separazione tra governo ed amministrazione e la professionalizzazione di questa, con il riconoscimento di uno statuto, proprio della amministrazione e garantito da un giudice.
Dopo aver enunciato la necessità di separare governo ed amministrazione, Spaventa disegna le regole proprie dello statuto della amministrazione: l’amministrazione deve essere sottoposta a leggi certe e di
contenuto dettagliato, in modo da ridurre la sfera della discrezionalità
riconosciuta alle autorità amministrative; deve essere sottoposta ad un
giudice la cui giurisdizione sia estesa oltre la sfera dei diritti, riconosciuti dalla legge, fino a coprire tutte le controversie collegate a rapporti giu-
4
Così ancora M. S. GIANNINI, op. loc. cit.
267
Andreina Scognamiglio
ridici d’indole puramente amministrativa; infine va affermata la rigorosa responsabilità degli amministratori.
Siffatte regole assegnano all’amministrazione una dimensione giuridica ed in tale dimensione l’amministrazione rinviene la tutela di sé stessa nei confronti del potere politico.
3.2. La sottoposizione dell’amministrazione alla legge (“buone e concrete leggi”) ed al sindacato giurisdizionale
In questo contesto assume la sua centralità il discorso sulla giustizia e sul processo, cui Spaventa assegna dunque il fine di garantire la legalità dell’azione amministrativa. L’azione, avviata su impulso del cittadino leso in un suo diritto o in un suo interesse è lo strumento di cui
l’ordinamento si avvale per mantenere l’amministrazione nell’ambito della legalità.
Non a caso, in tutta la prima fase della giustizia amministrativa (quella più vicina alla sua fondazione che risente fortemente del pensiero di
Spaventa) prevale l’idea della giurisdizione amministrativa come “giurisdizione di diritto oggettivo”5, ovvero strumento di garanzia della legalità nell’interesse obiettivo dell’ordine giuridico. Ed è anche significativa la definizione che viene data dell’interesse del singolo, idoneo a dare
impulso al processo, come interesse occasionalmente protetto. L’interesse del singolo, e la lesione da questo subita, rappresentano solo l’occa-
5
La formula è riassuntiva di una concezione che assegna al processo il fine di realizzare l’interesse obiettivo dell’ordine giuridico alla legalità. Ad essa si contrappone quella che attribuisce al processo dinanzi al giudice amministrativo il carattere di giurisdizione di “diritto soggettivo” cioè volta essenzialmente a garantire la tutela degli interessi protetti dei singoli. Il tema della natura “di diritto oggettivo” o di “diritto soggettivo” del processo amministrativo, che sembrava invero superato, ha preso di recente nuovo vigore. Hanno contribuito a tale rinnovato interesse le varie norme che assegnano ad autorità pubbliche la legittimazione ad agire in giudizio, dinanzi al giudice amministrativo, per la tutela di interessi pubblici generali, assegnati alla loro cura. L’esempio che ha suscitato maggiore interesse è quello della legittimazione dell’autorità garante della concorrenza e del
mercato ad agire in giudizio “contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato” ex art. 35 d.l. 201/2011 conv. in l. 214/2011. Su questo fenomeno,
definibile nei termini di legittimazione “oggettiva” delle amministrazioni pubbliche, vedi
V. CERULLI IRELLI, Legittimazione soggettiva e legittimazione oggettiva ad agire nel processo amministrativo, in “Diritto Processuale Amministrativo”, 2014, p. 342 ss. In generale, sul tema
della giurisdizione di diritto oggettivo, di recente, B. MARCHETTI, Il giudice amministrativo tra
tutela soggettiva e oggettiva: riflessioni di diritto comparato, ivi, 2014, 74 ss., la quale conclude
per la natura marcatamente soggettiva del processo amministrativo in tutti gli ordinamenti presi in esame. In entrambi gli scritti, altre indicazioni bibliografiche.
268
La giustizia-legalità nella amministrazione
sione per attivare un sistema di tutela in realtà volto a realizzare l’interesse pubblico alla legalità6.
Dalle indicazioni di Spaventa non si discosta la costituzione repubblicana. Lo statuto della pubblica amministrazione da questa delineato
corrisponde in pieno alle indicazioni spaventiane: la separazione tra governo ed amministrazione è sancita dagli artt. 97 e 98; la sottoposizione
dell’amministrazione alla legge, dall’art. 23; la completezza del sindacato giurisdizionale dagli artt. 24, 103 e 113; la piena responsabilità dei funzionari secondo le leggi civili e penali, dall’art. 28.
4. Il problema amministrativo emerge come problema politico centrale dell’Italia di oggi
Eppure, stando anche alla cronaca recente, dobbiamo concludere con
amarezza e sconcerto che il problema amministrativo, che Spaventa indicava come il problema centrale dell’Italia unificata, ancora oggi è irrisolto.
Nel programma di ogni nuovo governo, fino al governo attuale, la
riforma amministrativa è un tema ricorrente.
Nel 1992, Sabino Cassese, ministro della funzione pubblica per meno
di un anno (ministero altrettanto breve di quello del 1979 di Giannini, autore del Rapporto sullo stato dell’amministrazione pubblica), curò la pubblicazione di un quaderno sui progetti di riforma precedenti al suo. Il quaderno ne annovera ben 62. Molti altri se ne sono aggiunti negli ulteriori venti anni che ci separano da quel dicastero.
Malgrado gli sforzi compiuti, quello dell’amministrazione, della buona amministrazione, resta un problema aperto. I mali dell’amministrazione denunciati da Spaventa sussistono ancora oggi. Forse si
sono aggravati.
In uno scritto sulla attualità del pensiero di Spaventa, Giuseppe Guarino7 dopo aver constatato l’accuratezza della analisi svolta nel discorso di
Bergamo, la precisione dei rimedi individuati e però l’attualità del problema amministrativo anche nel momento in cui egli scriveva, il 1991, pone
un interrogativo, che suona come una provocazione: la ricetta, individuata da Spaventa per curare i mali dell’amministrazione era forse sbagliata?
La domanda solleva questioni estremamente complesse.
Ma, prima ancora di affrontare un compito così impegnativo, è for-
6
Vedi A. SALANDRA, La giustizia amministrativa nei governi liberi, Torino, 1904, 777 ss.
G. GUARINO, E’ ancora attuale il pensiero di Silvio Spaventa?, in Silvio Spaventa. Filosofia, diritto politica. Napoli, 1991, p. 423 ss.
7
269
Andreina Scognamiglio
se utile porsi una domanda diversa: il paziente si è attenuto scrupolosamente alla cura? quelle condizioni, che il politico e giurista di fine ottocento afferma essenziali a garantire la legalità della amministrazione, sono
state effettivamente realizzate?
5. Qualche riflessione sulle ragioni dell’attualità del problema amministrativo: se l’insuccesso della cura spaventiana sia dovuto ad un errore della diagnosi e dei rimedi prescritti o alla insofferenza del paziente
La prima prescrizione della ricetta spaventiana, quella della separazione tra governo e amministrazione e della autonomia di questa rispetto al potere politico, trova eco nei lavori dell’Assemblea costituente, nelle parole di Mortati8, ed espressione nella Carta del 1948. L’art. 97
dispone che i pubblici uffici debbano essere organizzati in modo da assicurare l’imparzialità ed il buon andamento dell’amministrazione;
l’art. 98 che gli impiegati pubblici siano a servizio esclusivo della nazione. In apparenza, le indicazioni di Spaventa hanno trovato piena attuazione, nella organizzazione e nelle istituzioni dello stato repubblicano.
Se così fosse, nessun appunto sarebbe da muovere al paziente.
Ma ancora agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, Vincenzo Caianiello constatava come l’autonomia e la separatezza dell’amministrazione rispetto alla politica, ancorché predicate già dai padri fondatori dello stato unitario ed ancorché enunciate dalla costituzione, fossero tutt’altro che realizzate9.
8
Vedi Atti della II sottocommissione, prima sezione, n. 15, seduta del 14 gennaio 1947
e, in particolare, la proposta del relatore Mortati di inserire in Costituzione questo articolato: “ 1.Ogni Ministro dirige l’amministrazione ad esso affidata. Nell’ambito delle sue direttive, i funzionari dirigenti dei vari servizi assumono la diretta responsabilità per gli atti
inerenti i medesimi. 2. I pubblici impiegati sono a servizio esclusivo della nazione ed è garantita la loro piena indipendenza da influenze politiche. 3.I pubblici impiegati che sono
membri del Parlamento non possono, durante il loro mandato, conseguire promozioni se
non per anzianità. Essi devono fornire, a richiesta dell’amministrazione della quale fanno parte, le giustificazioni degli accrescimenti patrimoniali conseguiti durante la permanenza in servizio”. La formulazione finale dell’art. 98 è più sintetica: il primo comma è caduto; nel secondo è stato cassato il riferimento alla garanzia dell’indipendenza dei funzionari dirigenti rispetto alla politica; dal terzo è stato espunto l’obbligo, per i funzionari dirigenti di fornire le giustificazioni degli accrescimenti patrimoniali conseguiti durante la
permanenza in servizio. Obbligo, quest’ultimo, che anticipa le più recenti disposizioni della legislazione anticorruzione.
9
Vedi V. CAIANIELLO, I compiti della dirigenza amministrativa nel quadro costituzionale,
in “Giurisprudenza Italiana”, 1993, V, p. 7ss.
270
La giustizia-legalità nella amministrazione
Per l’illustre giurista e profondo conoscitore della macchina pubblica, la realizzazione della autonomia della amministrazione “sia pure
motivata dall’esigenza di sottrarre l’amministrazione alla soggezione dei
partiti ed escluderne perciò ogni ruolo politico, in funzione dell’imparzialità e del buon andamento”, ha sempre trovato ostacolo e resistenza
nei “centri istituzionali della politica – quali ad esempio i ministri del governo centrale e gli organi elettivi in quello locale”. Tale resistenza si è
manifestata “anche quando al rafforzamento di quella autonomia, sempre in tale funzione, ha provveduto lo stesso legislatore”.
La situazione non è migliorata negli anni a venire.
La riluttanza del ceto politico ad accettare la autonomia dell’amministrazione ed anzi la tendenza della politica a prendere il sopravvento
si manifestano con prepotenza nella legislazione 1998-2002. Il riferimento è ovviamente ai decreti legislativi delegati 31 marzo 1998, n. 80 e 29
ottobre 1998, n. 387, nonché alla legge 15 luglio 2002, n. 145, che hanno
introdotto la regola della cessazione automatica degli incarichi dirigenziali con l’entrata in carica del nuovo governo10. Il sistema dello spoil syatem è poi dilagato a livello regionale e degli enti locali e, in alcuni casi,
è stato ritenuto addirittura applicabile agli amministratori ed ai sindaci
delle società a partecipazione pubblica11. Gli effetti perversi, e prevedibilissimi, della precarizzazione della dirigenza e del dominio dei politici sui burocrati sono stati appena arginati dagli interventi della Corte costituzionale, che ha parzialmente censurato il sistema12.
La riluttanza ad accettare il principio di separazione, cui sopra ho
fatto cenno, trova una conferma nella cronaca. Basti pensare alla involuzione del fenomeno delle autorità indipendenti, la cui autonomia ed
indipendenza – presidiata dal legislatore attraverso norme particolarmente stringenti - non sempre hanno impedito l’ingresso di valutazioni politiche nella scelta dei vertici.
Se dunque la prescrizione della separatezza tra governo ed amministrazione è stata tradita, più che attuata, una verifica empirica della effi10
In termini estremamente critici su tale legislazione imputabile rispettivamente ad
un governo di centro-sinistra e ad uno di centro-destra, S.CASSESE, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici italiani, in “Giornale di Diritto Amministrativo”, 2002, 1341 ss.
11
In termini critici, di recente, A. CAPRARA, La revoca del sindaco nominato dal socio pubblico è un affare (di diritto) privato, in “Le Società”, 2013, p. 1036 ss.
12
La Corte è intervenuta più volte. Fondamentale la sentenza 23 marzo 2007, n. 103
su cui M. CAMMELLI, Corte costituzionale e dirigenza pubblica: segnale forte e sistema debole; M.
CLARICH, Corte costituzionale e spoils system, ovvero il ripristino di un rapporto più corretto tra
politica e amministrazione; F. MERLONI, Verso una maggiore delimitazione dello spoil system?; M.
RUSCIANO, Dirigenze pubbliche e spoils system, tutti in www.astrid.it.
271
Andreina Scognamiglio
cacia della cura spaventiana è forse possibile sul versante del processo.
La giurisdizione amministrativa ha assolto ed assolve efficacemente al compito di garantire la giustizia e la legalità nella amministrazione?
Un interrogativo che sembrerebbe emergere nei discorsi più recenti intorno all’eterno problema amministrativo che collocano spesso sul
banco degli imputati proprio la giurisdizione amministrativa.
Non voglio indulgere alle polemiche innescate dal d.l. 90/2014, che,
con disposizioni solo parzialmente rivisitate dalla legge di conversione
114/2014, ha additato una possibile soluzione alla inefficienza dell’amministrazione nell’abolizione delle sezione distaccate dei tar, nella limitazione del ricorso sugli atti di alcune amministrazioni ad alcuni vizi soltanto, ed in particolare al vizio di eccesso di potere manifesto (salvo verificare quale sia la modica quantità di eccesso di potere che la società civile è disposta a sopportare), nell’accelerazione massima impressa al rito
in materia di appalti pubblici (già definito un processo senza giudizio),
e quindi in definitiva in una riduzione del controllo giurisdizionale.
Mi sembra utile invece tornare sull’interrogativo che nasce dal raffronto tra la precisione dei rimedio all’arbitrio dell’amministrazione, individuato da Spaventa nella previsione di un controllo giurisdizionale
di legittimità sugli atti amministrativi, la pronta attuazione di questo con
la istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato, e lo stato ancora deplorevole della amministrazione di oggi.
Nello scritto sopra citato, Guarino non esclude che la cura spaventiana, pure utile e necessaria, possa aver prodotto alcuni effetti collaterali negativi. Il sindacato, improntato sulla verifica della legittimità, ha
comportato che la massima attenzione degli uffici sia prestata alla redazione di atti corretti dal punto di vista formale, più che alla cura ottimale dell’interesse pubblico. L’effetto di annullamento, collegato ad ogni vizio, indipendentemente dalla sua gravità o dalla sua collocazione nella
serie procedimentale, può tradursi in una causa di effettiva ingiustizia
sostanziale o di effettivo pregiudizio per l’interesse pubblico.
Un altro illustre studioso del processo amministrativo, Mario Nigro13, storicizza il problema. La giurisdizione amministrativa di legittimità resta un deterrente valido rispetto a quella parte di attività che si
esprime attraverso atti amministrativi. E’ inadeguata per la parte restante, ed oggi forse prevalente, in cui lo stato non amministra autoritativamente, ma gestisce imprenditorialmente ed eroga servizi. Su questo ver-
13
M. NIGRO, Spaventa e la giustizia amministrativa, in “Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico”, 1971, p. 747 ss.
272
La giustizia-legalità nella amministrazione
sante, la tutela giurisdizionale non può consistere nella verifica della legittimità e piuttosto dovrebbe gravitare sull’accertamento dell’adempimento e delle connesse responsabilità della amministrazione e degli amministratori.
L’esattezza dei rilievi è indubbia.
Dobbiamo però anche constatare che entrambe le preoccupazioni,
quella di un sindacato sostanziale e non formale, quella di un sindacato di responsabilità, più che di annullamento, sono entrambe ben presenti nel pensiero di Spaventa.
Il sindacato giurisdizionale che egli delinea non è affatto un sindacato di tipo formale. Il compito, per il quale auspica la istituzione di un
giudice ammnistrativo, non consiste affatto nella mera verifica della osservanza della legge.
Spaventa osserva apertamente che a ciò, ovvero ad un sindacato di
mera violazione di legge, avrebbe potuto provvedere il giudice ordinario, la cui competenza non è esclusa dalla presenza nel processo di una
pubblica amministrazione, in base alla legge abolitrice del contenzioso
del 1865.
Ma quel sindacato – secondo Spaventa – non è sufficiente ad assicurare la legalità sostanziale o la legalità giustizia dell’amministrazione.
Le ragioni dell’insufficienza risiedono nei caratteri intrinseci del sindacato di mera legittimità proprio del giudice ordinario, da un lato, e nei
connotati dell’attività dell’amministrazione, dall’altro. Il giudice ordinario, nell’esercizio della sua giurisdizione, dichiara e definisce “i rapporti di diritto tra le parti” così come essi “già esistono, grazie alla norma
giuridica”. Ma “il compito della autorità amministrativa, nella vita reale” travalica l’attività di mera esecuzione della legge. La legge non può
preveder tutto, né dar norma per ogni cosa. Perciò l’attività della amministrazione “sorpassa il contenuto di quella (…) lasciando al governo un
campo assai largo di libera azione ed estimazione per agire nel pubblico interesse e raggiungere i suoi fini”.
In questo campo, che non è di mera esecuzione della legge e dove
dunque il sindacato della autorità giudiziaria ordinaria è impotente ad
assicurare la legalità, l’amministrazione deve essere pur sempre subordinata al diritto. Deve perciò esservi un giudice che imponga all’amministrazione l’osservanza delle norme del suo statuto: l’obbligo di osservare “il diritto obiettivo”; l’obbligo di perseguire “l’interesse generale”
e non “l’utile proprio”; il divieto che gli atti ammnistrativi, per quanto
liberi, arrechino “a terzi ed alla volontà degli individui restrizioni maggiori di quello che è richiesto dall’interesse generale”; il dovere per l’amministrazione, “così in queste restrizioni, come nei vantaggi che le acca273
Andreina Scognamiglio
de di largire agli individui nell’interesse generale, di serbare sempre
un’eguale misura, ossia quella imparzialità, che è l’idea suprema di giustizia”.
I passi, che ho sopra sinteticamente riportato, sono del discorso preparato per l’inaugurazione della IV sezione del Consiglio di stato, discorso poi mai tenuto e rimasto incompleto.
Il sindacato che Spaventa consegna al nuovo giudice è un sindacato per clausole generali e non di mera violazione di legge. Un sindacato, quindi, in linea di continuità con quello, di legittimità e di merito, che,
prima della riforma del 1865, era proprio del sistema del contenzioso. In
più, rispetto a quel sistema, il giudizio dinanzi alla neo istituita IV sezione avrebbe dovuto però essere organizzato in modo da assicurare le “garanzie di discussione pubblica e di difesa, quali possono aversi nei tribunali di diritto privato; cioè a dire con quelle garanzie per una risoluzione giusta ed imparziale di una controversia, che sono il carattere essenziale di una giurisdizione”14.
L’impostazione che Spaventa dà al problema della giustizia e del sindacato sulla amministrazione è moderna e per niente formalistica.
Un’intenzione, forse, non completamente attuata (se non addirittura tradita, anche in questo caso) dalla riforma del 1889 che comportò “solo l’aggiunta di un processo di impugnazione degli atti amministrativi alla generale giurisdizione ordinaria sulla violazione dei diritti civili e politici
da parte della pubblica amministrazione, previsto dalla legge abolitrice
del 1865”15.
Veniamo all’altra critica: l’insufficienza del sindacato di legittimità rispetto ad una attività dell’amministrazione che è essenzialmente di
erogazione di servizi e la necessità, su questo versante, di una giurisdizione di responsabilità.
Nel discorso di Bergamo, è però ripetuta l’affermazione che il rimedio
alla ingiustizia della amministrazione deve cercarsi non solo nelle leggi e nei
giudici – “buone e concrete leggi amministrative, giudici imparziali ed indipendenti” – ma nella rigorosa responsabilità degli amministratori.
14
In alcuni casi il contenzioso preunitario aveva raggiunto livelli di perfezione notevole anche dal punto di vista processuale, tanto da poter apparire come un modello per
il processo amministrativo di oggi. Così il codice del ducato di Parma, secondo la preziosa analisi fornita da F. MERUSI, Premessa, in Il contenzioso amministrativo di Maria Luigia. Giusto processo nel Ducato di Parma (1814-1865), di F. MERUSI, G. SPATTINI, E. FREGOSO, Milano, 2013,
121, p. 6 ss.
15
Così F. MERUSI, Debito pubblico e giudice amministrativo, in “Diritto Processuale Amministrativo”, 2014, p. 9.
274
La giustizia-legalità nella amministrazione
Il percorso per l’attuazione concreta del principio di responsabilità dell’amministrazione è stato lungo e tortuoso. Ancora oggi è tutt’altro che concluso. Con la giustificazione, esplicita o implicita, del contenimento della spesa pubblica, che potrebbe essere messo a rischio dalla
comminatoria di condanne al risarcimento per equivalente monetario, la
disciplina dettata dal legislatore per la responsabilità della amministrazione pubblica presenta forti tratti di specialità rispetto al diritto comune. Il giudice amministrativo, cui la materia è devoluta nella maggior parte dei casi, mostra scarsissima sensibilità per lo strumento. E’ mancata
e manca la percezione del valore che il principio di responsabilità assume come strumento di deterrenza rispetto a comportamenti ingiusti, in
questo caso, dell’amministrazione16.
In conclusione, direi che, il rimedio alle odierne ed ancora deplorevoli condizioni della amministrazione non va inseguita al di fuori dei
dettami forniti da Spaventa.
Anche sul versante del processo, la soluzione va piuttosto ricercata seguendo quelle prescrizioni con maggiore rigore. Gli obiettivi indicati sa Spaventa restano validi: un sindacato che non si arresti alla verifica della legittimità formale, ma che – nelle sue varie articolazioni – assicuri l’osservanza sostanziale del principio di legalità, comprensivo di
giustizia, proporzionalità ed imparzialità; una giurisdizione di responsabilità, civile e non solo penale, altrettanto estesa e penetrante di quella di legittimità.
16
Sulla funzione di deterrenza dell’istituto della responsabilità civile, vedi M. PAC-
CES, Il ruolo economico della responsabilità giuridica, in Economia per il diritto, a cura di P. CIOCCA
e I. MUSU, Bollati Boringhieri, 2009.
275
MARIA AUSILIA SIMONELLI
Le fonti del dionisiaco nietzscheano.
Georg Friedrich Creuzer, Friedrich Gottlieb Welcker,
Johann Jakob Bachofen *
SOMMARIO: 1. La prospettiva simbolica: Georg Friedrich Creuzer. - 2. La prospettiva filologica: Friedrich Gottlieb Welcker. - 3. La prospettiva etnologico-giuridica: Johann
Jakob Bachofen. - 4. Cenni conclusivi: la ‘reinvenzione’ nietzscheana di Dioniso.
Uno dei passaggi più caratteristici e insieme meno agevoli della esplorazione storico-critica del pensiero nietzscheano è il ricorrente tentativo
di individuarvi categorie fondamentali e, in apicibus, una logica unificante. Impresa ardua, essendo Nietzsche non solo pensatore per eccellenza
asistematico, ma, nella sua posizione emblematicamente antitetica alle
grandi architetture dei sistemi filosofici, teorizzatore dell’individuale e
dell’irripetibile, e quindi del carattere per così dire ‘diffuso’ – sicché anche rapsodico, occasionale, frammentario – della riflessione filosofica. Eppure, nonostante il continuo richiamo ‘individualizzante’, non vi è dubbio che negli scritti nietzscheani – come in tutte le opere filosofiche, per
la condizione stessa della ricerca filosofica in quanto indagine di verità
prime – è dato cogliere alcuni temi dominanti che ne compendiano l’intonazione e configurazione fondamentale.
Uno di questi motivi di fondo, forse il più qualificante, è quel ‘dionisiaco’ che percorre tutta l’opera nietzscheana dalla Nascita della tragedia fino alle lettere della follia. Notissimo tra queste l’estremo messaggio
a Cosima Wagner, firmato appunto Dioniso: nella follia Nietzsche giunge ad identificare se stesso con il dio in cui aveva visto la cifra simbolica del caos del mondo, l’immagine mitica del principio vitale1, contrapposto al principio apollineo dell’equilibrio e della misura, espressione prodromica della socratica razionalità scientifica ordinante 2.
*
Questo scritto, sebbene in sé compiuto, costituisce uno studio preparatorio ad una
ricerca sul pensiero giuridico di Friedrich Nietzsche, di prossima pubblicazione.
1
“Il dire sì alla vita perfino nei problemi più duri e stranianti, la volontà di vita che
gode, nel sacrificio dei suoi tipi più alti, della propria inesauribilità: ciò io chiamai dionisiaco” (F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere (1964 – ), a cura di G. Colli e
M. Montinari, Milano, Adelphi, 1974, vol. VIII, t. 3, 24 [1], 9).
2
“[...] la scienza, spronata dalla sua robusta illusione, corre senza sosta fino ai suoi li-
277
Maria Ausilia Simonelli
L’impegno filologico cui deve legarsi una vigilata ricostruzione critica della genesi e dello sviluppo del pensiero nietzscheano trova così nella categoria del dionisiaco una delle più salienti linee di attenzione; le fonti di tale concetto vengono pertanto ad occupare un posto di singolare
preminenza nel quadro degli antecedenti più o meno diretti della speculazione nietzscheana. Tra i più autorevoli ispiratori del filosofo di Röcken troviamo, in questo orizzonte di indagine, Georg Friedrich Creuzer,
Friedrich Gottlieb Welcker e Johann Jakob Bachofen3.
1. La prospettiva simbolica: Georg Friedrich Creuzer
Non vi è dubbio sul fatto che Nietzsche abbia conosciuto e studiato approfonditamente l’opera più rappresentativa e più discussa di Creuzer, professore di filologia e storia antica ad Heidelberg, Symbolik und Mythologie der alten Völker, besonders der Griechen (1810-1812)4.
La lettura di Creuzer consolida e precisa in Nietzsche la teoria del mito
tragico di Dioniso. Inizialmente, secondo il simbolista romantico di Heidelberg, si ha in Grecia un culto di Apollo che lotta “all’ultimo sangue”5 con-
miti, dove l’ottimismo insito nell’essenza della logica naufraga. Infatti la circonferenza che chiude il cerchio della scienza ha infiniti punti, e mentre non si può ancora prevedere come sarà
mai possibile misurare interamente il cerchio, l’uomo nobile e dotato [il futuro Übermensch]
giunge a toccare inevitabilmente, ancor prima di giungere a metà della sua esistenza, tali punti di confine della circonferenza, dove guarda fissamente l’inesplicabile”: F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo, in Opere, cit., 1972, vol. III,
t. 1, p. 103. Da qui in avanti l’opera sarà citata con la sola sigla N. T.
3
In questa sede, il discorso è circoscritto all’analisi della rete di ascendenze che stanno alla base del pensiero di Nietzsche sul dionisiaco, così come emerge nella sua opera La
nascita della tragedia (1872). La triade Creuzer – Welcker – Bachofen non esaurisce, peraltro, il complesso quadro delle fonti del dionisiaco nietzscheano. Il filosofo, infatti, trae suggestioni e stimoli anche dalle riflessioni di altri studiosi (tra i quali, Anselm Feuerbach, Friedrich Schlegel, Karl Otfried Müller, Friedrich Wilhelm Ritschl), ma Creuzer, Welcker e Bachofen sono senz’altro, nel contesto considerato, le voci di maggiore influenza.
4
La Symbolik è ancora conservata a Weimar tra i libri personali di Nietzsche. È probabile, comunque, che Nietzsche l’abbia acquistata dopo averla già consultata. Dai registri della Biblioteca universitaria di Basilea risulta infatti che il giovane professore di filologia (Nietzsche ebbe nell’aprile del 1869, non ancora venticinquenne, la cattedra di Lingua e letteratura greca presso l’Università di Basilea) la chiese in prestito due volte: l’8 giugno 1871 e il 9 agosto 1872. Queste date sono eloquenti: dalla lettera a Erwin Rohde del 7
giugno 1871 si ricava l’importante notizia che, appunto in tale periodo, Nietzsche lavora
alla rielaborazione della conferenza su Socrate e la tragedia e ad un saggio sul dionisiaco e
l’apollineo, che – come scritto indipendente – non sarà mai portato a termine, ma che confluirà, in gran parte, nella Nascita della tragedia (F. NIETZSCHE, Lettere a Erwin Rohde, trad. di
M. Montinari, Torino, Boringhieri, 1959, pp. 125-128).
5
“auf Blut und Tod”: G. F. CREUZER, Symbolik, 3ª ed., Leipzig-Darmstadt, Heyer und
278
Le fonti del dionisiaco nietzscheano
tro la forza orgiastica dionisiaca. I vecchi misteri orfici sono misteri apollinei: dignità sacerdotale, astinenza da cibi e da vestimenti di origine animale, culto sacrificale incruento e puro sono gli aspetti caratterizzanti la
vita orfica che nella misura e nella serenità luminosa della razionalità trova la propria norma di condotta. Secondo la leggenda, la lira, accompagnatrice quotidiana dell’esistenza apollinea, compie miracoli nelle mani
di Orfeo, addolcendo i selvaggi cuori dei Traci, ammansendo le bestie feroci e vivificando una natura inerte.
Ma verso il 1500 a. C. in Asia Minore cominciano a manifestarsi segni di una rivoluzione destinata a scuotere la Grecia intera: sui monti sacri a Cibele6 appare l’immagine della dea, Iagnide inventa il flauto “eccitante”7 e compone, alla maniera frigia, canti in onore della Grande Madre, di Dioniso e di Pan. Il nuovo culto dilaga, si scatenano lotte sanguinose: Penteo, sovrano di Tebe, subisce una atroce morte per essersi opposto alla nascente religione; Orfeo, servitore di Apollo, viene dilaniato
dalle Menadi infuriate; il re Licurgo, che ha osato ostacolare l’espandersi del dionisismo, viene aspramente castigato. Tale patrimonio mitologico attesta la forza violenta del nuovo selvaggio fuoco che investe e corrusca la luce pura dell’antico culto sacrificale: il suono assordante dei cimbali e dei flauti sommerge la mite melodia della cetra e la quieta contemplazione religiosa deve cedere il posto all’orgasmo fremente che trova nel
flauto lo strumento espressivo più adatto8. In breve tempo tutta la Grecia è pervasa dal nuovo culto.
Per quanto aspra sia stata l’opposizione dei seguaci di Apollo nei
confronti della religione dionisiaca, la pacificazione comunque avviene9:
le nuove Scuole Orfiche parlano di un Apollo conciliato con Bacco e della lira congiunta con il flauto. Sulle tombe appare il fallo di Dioniso, simbolo della forza vitale che mai si esaurisce; comincia a circolare l’imma-
Leske, 1836-1842, t. IV, p. 31. Quest’opera fu apprezzata più dai filosofi che dai filologi, ai
quali era diretta. Oltre Nietzsche, anche Hegel la lodò nelle sue Grundlinien der Philosophie
des Rechts (1821): “Che cosa può esser più interessante per questa materia [il lavoro della terra], delle spiegazioni tanto ingegnose, quanto dotte del mio assai venerato amico signor Creuzer, che il medesimo ci ha date, particolarmente nel quarto volume della sua “Mitologia e
Simbolica”, sulle feste agronomiche immagini e cose sacre degli antichi, i quali sono divenuti coscienti dell’introduzione dell’agricoltura e delle istituzioni ad essa connesse, come di
fatti divini, e loro dedicarono così religiosa venerazione?” (trad. it., Lineamenti di filosofia
del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 202-203, § 203).
6
“Cybelischen Gebirgen”: G.F. CREUZER, Symbolik, cit., p. 32.
7
“erregende”: ibidem.
8
Ivi, p. 33.
9
Ivi, pp. 34-35.
279
Maria Ausilia Simonelli
gine di un Orfeo che inventa i misteri di Dioniso; si leva la voce del saggio Sileno, seguace di Dioniso, sulla nullità della vita terrena e sull’illusorietà del vestimento corporeo. Così la figura del dio proveniente dall’Oriente, opportunamente depurata dai suoi aspetti più minacciosi per
la misura e la serenità apollinee, entra prepotentemente nella religiosità greca. Le vecchie teorie della luce si connettono con il culto purificato di Dioniso, le cui caratteristiche più violente sono tenute a freno dal
μέτρον della tradizione ellenica. Appare una nuova immagine divina, frutto di una intesa trasfigurante: l’“Apollo dionisiaco”10 che, rifiutando il fuoco sensuale della frenesia bacchica, ne assorbe tuttavia il profondo significato vitale e la forte carica creativa. In questo contesto, la rozza ebbrezza dionisiaca, severamente interdetta, viene sostituita dall’esaltazione della maternità, della grazia e della compostezza che rimangono, ancora, tratti caratteristici dello spirito ellenico.
Alcune linee direttive dell’analisi creuzeriana del dionisiaco si ritroveranno nelle pagine della Nascita della tragedia: il contrasto originario tra Apollo e Dioniso; la lenta riconciliazione; la ‘purificazione’ apollinea del culto dionisiaco.
Dapprima, contro le eccitazioni febbrili delle feste dionisiache “di
cui i Greci avevano notizia per tutte le vie di terra e di mare, essi furono – scrive Nietzsche – per qualche tempo pienamente difesi e protetti
dalla figura, ergentesi ora in tutta la sua fierezza, di Apollo, che non poteva opporre la testa di Medusa a nessuna forza più pericolosa di questa dionisiaca, così grottescamente rozza”11. Ma non è più possibile resistere alle lusinghe del dio straniero quando, attraverso le smagliature
apertesi nella difesa apollinea, che nasconde il mondo dionisiaco, l’uomo greco sente risvegliarsi dentro di sé una forza istintuale sino ad allora sconosciuta: i due nemici divini si conciliano, limitandosi il dio delfico “a togliere di mano al poderoso avversario [...] le armi annientatrici”12. Il ‘greco dionisiaco’ acquista così caratteri assolutamente diversi da
quelli propri del ‘barbaro dionisiaco’: la compostezza ellenica neutralizza la furia selvaggia che si manifestava nelle feste in onore di Dioniso e
che portava all’imbestiamento stesso dell’uomo attraverso l’erompere sfrenato di voluttà e crudeltà mescolate insieme, definito da Nietzsche l’autentico “beveraggio delle streghe”13. Apollo permette a Dioniso di entra-
10
“Dionysischen Apollo”: ivi, p. 36.
F. NIETZSCHE, N. T., p. 28.
12
Ibidem.
13
Ibidem.
11
280
Le fonti del dionisiaco nietzscheano
re nella vita ellenica soltanto in seguito ad una pratica di addomesticamento artistico: l’energia sessuale, propria del dio straniero, viene trasposta e sublimata nella creazione artistica14. Gli stessi riti dionisiaci assumono “il significato di feste di redenzione e di giorni di trasfigurazione”15;
così le selvagge celebrazioni Sacee di Babilonia vengono filtrate e purificate dalla potenza del dio delfico.
Il ‘debito’ di Nietzsche nei confronti del simbolista-filologo di Heidelberg non si limita a queste ascendenze e suggestioni: nella trattazione creuzeriana della passione e della morte di Dioniso, Nietzsche trova
la mediazione filologico-poetica della filosofia schopenhaueriana che costituisce lo sfondo teoretico della Nascita della tragedia.
Secondo la ricostruzione di Creuzer, il nuovo culto di Dioniso corretto dall’etica apollinea, si innesta sulla leggenda cretese di Dioniso-Zagreo,
figlio di Zeus e di Persefone, signore della molteplicità e del frazionamento dell’unità nelle individualità scisse che costituiscono l’universo. In base
al mito, mentre i Cureti eseguono attorno a Dioniso-Zagreo bambino la danza delle armi, i Titani si introducono furtivamente nel palazzo e, adescato
il dio con dei balocchi, lo fanno a pezzi. Un dado, delle trottole, dei rombi,
delle palle, delle mele prese alle vergini Esperidi ed uno specchio sono gli
strumenti di attrazione. Importante soprattutto lo specchio, nel quale Nonno di Panopoli16 fa guardare Dioniso-Zagreo mentre viene sbranato dai Titani17. Nello specchio il dio bambino vede la propria persona lacerata, fatta a pezzi – immagine e simbolo della pluralità degli esseri divisi18.
Apollo, al contrario, sempre secondo Creuzer e le fonti da lui citate, rappresenta l’unità: è colui che raccoglie le membra sparse di Dioniso-Zagreo e le seppellisce sul monte Parnaso19; è il dio che salvaguarda
la natura dal frazionamento per ricollegarla di nuovo con l’uno primigenio. In accordo con questo carattere di unitarietà, appare sempre in eterna divina giovinezza. Dioniso, invece, è per definizione il “varioforme”20,
14
Ivi, p. 29.
Ibidem.
16
NONNUS, Dionisiache, VI, 172-173.
17
G. F. CREUZER, Symbolik, cit., p. 119.
18
Secondo il mito, Atena riuscì a strappare ai Titani il cuore del fanciullo Zagreo e
lo portò a Zeus, che lo inghiottì; quindi, il padre degli dei generò, con Semele, (un nuovo)
Dioniso. Cfr. J. SCHMIDT, Zagreus, in W. H. ROSCHER, Ausführliches Lexicon der griechischen
und römischen Mythologie, Leipzig [poi: Leipzig und Berlin], G. B. Teubner, 1884-1937, VI,
col. 532 e segg.
19
G. F. CREUZER, Symbolik, cit., p. 116.
20
“buntgestaltete”: ivi, p. 126.
15
281
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che esprime la propria natura molteplice nelle forme sempre variate
del ditirambo, nell’irrequietezza delle feste bacchiche, nel suo apparire sotto mutevoli sembianze: ora di adolescente, ora di uomo adulto, altre volte ancora di vecchio. Egli è la personificazione divina di tutto ciò che nel mondo vi è di particolare, è il signore della natura, creatore delle anime singole che conduce nel vestimento corporeo. Nel cratere inebriante di Dioniso, le anime bevono l’oblio della loro natura una
e divina e precipitano nell’individualità. Diversi i motivi per cui può
avvenire tale caduta nei corpi: vi sono anime nuove che vengono calate nella materialità della carne per il mantenimento dell’economia del
mondo (Weltöconomie); altre che così scontano un’ancestrale colpa; altre ancora che soccombono all’inclinazione terrestre per avere guardato in quello specchio in cui Dioniso, signore del mondo dei sensi, ha
visto riflesso il proprio corpo smembrato. Così le anime si lanciano verso l’esistenza individuale, abbandonando la patria, il cui ricordo gradatamente si spegne. La Maia ingannatrice – la Proserpina dei Greci
– aiuta il parto degli esseri singoli, tessendo il vestimento corporeo che
cinge le anime. Il mondo variopinto della molteplicità appare agli spiriti caduti bello e desiderabile, nonostante sia in realtà simile ad una
caverna buia e umida21.
All’anima, però, viene offerto anche un altro calice, “il calice della
sapienza”22. Bevendo da questa coppa, essa guarisce dall’incantesimo; risvegliatasi dall’oblio, intuisce la realtà delle cose ed è invasa dalla struggente nostalgia dell’unità perduta. Il demiurgo supremo, il padre Zeus,
mostra agli individui la via del ricongiungimento, perché desidera che
essi non si intrattengano a lungo nel vano bramare per tutto quanto è diviso e molteplice. Le catene con cui i demoni avevano legato le anime al
mondo sensibile divengono fragili e l’anelito del rimpatrio, ridestato dal
calice della sapienza, si fa sempre più imperioso. È Dioniso, signore della vita e della morte, “custode della palingenesi di tutti gli esseri scesi nel
mondo sensibile”23, che stabilisce la durata dell’esilio e che assiste le anime nel lungo e travagliato ritorno. Occorre, infatti, che queste – per soddisfare il desiderio di riunificazione – si assoggettino a pratiche purificatrici rese possibili dall’iniziazione ai misteri tragici di Dioniso, necessaria mediazione per la vita superiore.
21
Ivi, pp. 130-131.
“der Becher der Weisheit”: ivi, p. 119.
23
“Aufseher über die Palingenesie aller in die Sinnenwelt herabgekommen Wesen”: ivi, pp.
134-135.
22
282
Le fonti del dionisiaco nietzscheano
Non è difficile figurarsi la forza di seduzione che la leggenda di Dioniso, ripresa da Creuzer, esercitò su Nietzsche, già nutrito di idee schopenhaueriane e wagneriane; la narrazione riportata dal simbolista di Heidelberg si pone infatti come la traduzione in termini mitici dell’Unico Volere di Schopenhauer, che si frantuma nelle soggettività separate e che,
in tale frazionamento, genera dolore e sofferenza: la Volontà dilaniata dalla dolorosa individuazione è il correlato filosofico del mito di Zagreo cretese dilaniato dai Titani. Nietzsche riprenderà da Creuzer l’immagine dell’anima perduta nella contemplazione delle ricche espressioni della vita
individuale, appagata da visioni confortanti di sogno, difesa dalla serena compattezza dell’epos, e sottolineerà come tale gioia sia effimera: le
nebbie dell’apparenza si diradano, l’illusione dell’individuazione viene
meno e l’uomo, sciolto dai lacci della particolarità, aspira a rituffarsi nel
fondo unitario primigenio da cui proviene. Anche per Nietzsche sarà Dioniso colui che indica all’individuo sgomento la via da percorrere, rivelandogli l’essenza delle cose attraverso la forza sublime delle melodie musicali; peraltro, tale iniziazione non avviene senza dolore: la passione e
la morte di Dioniso sono l’emblema della sofferenza da sempre e per sempre connessa alla vita, l’espressione mitica della tragicità dell’esistere. La
vita stessa è un miraggio, una realtà apparente, nella quale si attua un’illusione in eterno ritornante. La serena gioia di vivere attribuita ai Greci
come carattere costitutivo del loro spirito si rivela in tal modo una difesa per non soccombere, un velo che ammanta una triste realtà: l’individuazione è una caduta dolorosa e l’anima, acquisita questa drammatica consapevolezza, tende a ricongiungersi con la perduta unità.
L’estasi connessa all’esperienza dionisiaca del trascendimento della molteplicità è però momentanea. Lo straziante riconfiggersi nella quotidianità fenomenica, l’ineluttabile distacco dall’unità ritrovata nell’estasi, l’oscuro presentimento di un peccato d’origine conducono alla
disperata saggezza popolare che parla per bocca di Sileno 24. Ai Greci non
24
“L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re
domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile,
il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che
per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non
essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto’. In che rapporto sta con questa saggezza popolare il mondo degli dèi olimpici? Nello stesso rapporto in cui la visione estatica del martire torturato sta rispetto ai suoi
tormenti. Ora si apre a noi per così dire la montagna incantata dell’Olimpo e ci mostra le
sue radici. Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comun-
283
Maria Ausilia Simonelli
mancava una profonda cognizione del dolore che governa il mondo: ecco
quello che Creuzer scopre dietro gli splendenti miti dell’antichità e che
Nietzsche riprenderà anche attraverso la suggestione schopenhaueriana. Se però Creuzer oscilla fra l’attribuire ad Apollo il potere della riunificazione e il far coesistere nella figura divina di Dioniso le due opposte istanze – l’individuazione e il ricongiungimento con l’unità –, Nietzsche opterà per una netta demarcazione: riguardo ad Apollo vale quanto Schopenhauer dice del velo di Maia; egli è “la magnifica incarnazione divina del principium individuationis, dai cui gesti e sguardi ci parla tutta la gioia e la saggezza della ‘parvenza’, insieme alla sua bellezza”25; Dioniso, dio dell’ebbrezza, distrugge invece l’individuazione, cancellando
la soggettività separata degli esistenti. Ed ecco che, miracolosamente, “nel
vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso con il prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo
di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla
misteriosa unità originaria”26.
Queste diverse articolazioni del pensiero nietzscheano non devono, peraltro, far dimenticare il considerevole debito che il filosofo tedesco contrae con il simbolista-filologo di Heidelberg: Creuzer, per primo, rimuove dal quadro dell’antichità quella patina che maldestri restauratori avevano sovrapposto al dipinto originario, occultandone il
tormentato gioco cromatico. Sotto la precisione plastica e la rassicurante misura dei miti dell’antichità, si nasconde un mondo di divinità lacerate e di consapevolezze tragiche. Nietzsche erediterà questa intuizione, affrancandola definitivamente dal registro filologico e ponendola alla base di una nuova drammatica filosofia della cultura e della vita27.
que vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici [...] Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi” (F. NIETZSCHE, N.T., cit., pp. 31-32).
25
Ivi, p. 24.
26
Ivi, p. 26.
27
“La rammollita tesi del mondo omerico come mondo giovanile, come primavera
del popolo, eccetera, mi è venuta a noia! Nel senso in cui è enunciata, essa è falsa. Che preceda una lotta enorme, selvaggia, di cupa rozzezza e crudeltà; che Omero stia come vincitore alla conclusione di questo lungo e desolato periodo: questa è per me una delle mie
convinzioni più salde. I greci sono molto più antichi di quanto si pensi. Si può parlare di
primavera, a patto che si presupponga prima della primavera l’inverno: ma questo mondo della purezza e della bellezza non è certo caduto dal cielo”: Nietzsche a Rohde, 16 luglio 1872, in F. NIETZSCHE, Lettere a Erwin Rohde, cit., p. 168.
284
Le fonti del dionisiaco nietzscheano
2. La prospettiva filologica: Friedrich Gottlieb Welcker
Nietzsche conobbe Friedrich Gottlieb Welcker, il principale ellenista della Scuola di Bonn, quando – tra il 1864 ed il 1865 – frequentò quella Scuola. Nel 1826, Welcker aveva pubblicato l’Abhandlung über das Satyrspiel (insieme al Nachtrag zu der Schrift über die Aeschylische Trilogie) in
cui, oltre alla caratterizzazione della figura di Dioniso, è contenuta una
seducente interpretazione del dramma greco.
In questo scritto, l’Autore pone l’accento sulla natura rustica del culto di Dioniso, dio dei pastori e dei vignaioli, cresciuto ed educato in una
caverna sotto la custodia delle ninfe, errante per le valli e le foreste adorno di tralci di edera e di foglie di lauro28. Gli stessi epiteti con i quali il
dio viene appellato29 sottolineano la sua stretta connessione con il mondo vegetale e indicano la fede nell’immanenza del divino nella ricchezza delle specie arborescenti e nelle misteriose virtù delle secrezioni floreali. Il dio campestre è altresì un dio fallico30, che detiene e dispensa fertilità alle piante, agli animali, agli uomini. Alle donne che lo invocano dà,
in particolare, gioia e benedizione nei matrimoni.
Dioniso, come ogni genio del ciclico rinnovamento della natura, è
anche in rapporto con l’aldilà e le forze del mondo dei morti. L’aspetto
infernale di Dioniso non sfugge a Welcker che, a sostegno della sua tesi,
riporta la testimonianza di Eraclito di Efeso, il quale ha fatto di Dioniso
e di Hades un’unica divinità31. Il motivo profondo del legame tra
l’aspetto ctonio del dio ed il suo essere espressione della vita della natura risiede nel fatto che liberare le energie vitali, dopo il lungo sonno invernale, significa strappare gli esistenti alla morte e permettere il loro rinnovato manifestarsi; per questo ogni nume della fecondità è sempre anche un conduttore di anime.
Welcker analizza altresì la dimensione sociale del culto del dio: Dioniso, nell’ebbrezza che accompagna le sue celebrazioni, infonde coraggio alla plebe rurale e la rende capace di ribellarsi ai dominatori. Certo,
Welcker si rende perfettamente conto che il culto di Dioniso non può essere considerato la causa stessa della ribellione di una classe soggetta, ma
è comunque naturale che il popolo delle campagne attribuisca al suo dio
28
F. G. WELCKER, Nachtrag zu der Schrift über die Aeschylische Trilogie, nebst einer Abhandlung über das Satyrspiel, Frankfurter am Main, Heinrich Ludwig Brönner, 1826, p. 186.
29
“Colui che frequenta i monti”, “l’amante delle rupi”, “il nutrito dai monti”, “il nato
nelle paludi”, “il fiorito”, “il pluvio” e così via: ivi, p. 186 e segg.
30
Ivi, p. 189.
31
Ivi, p. 192.
285
Maria Ausilia Simonelli
tutto ciò che è riuscito ad ottenere, celebrandolo come “Liberatore”32 e
come “Dispensatore di uguaglianza in senso materiale”33. Nelle Dionisie rustiche tutti appaiono riconciliati: gli schiavi bevono con i padroni,
invocando l’apparizione del dio e intonando canti fallici in suo onore. Il
carattere ‘rivoluzionario’ del culto e delle feste bacchiche è attestato anche da numerose leggende riguardanti i terribili castighi inflitti a quei re
che avevano ostacolato la diffusione dell’ebbrezza gioiosa e livellatrice;
allo stesso modo, il fatto che la presenza di Dioniso e di Demetra sia così
scarsa nell’epos aristocratico non deriva dalla loro particolare natura, ma
dalla classe sociale alla quale appartenevano i seguaci34. È per questa connotazione ‘sovversiva’ che Dioniso rimane lontano dagli Olimpici: nei poemi omerici il dio, menzionato solo incidentalmente, non è riconosciuto
quale membro della famiglia divina e non è mai invocato dagli eroi35.
L’estraneità di Dioniso all’epopea omerica è esplicitamente affermata anche da Nietzsche, ma di ciò egli dà una spiegazione non limitata all’aspetto sociale. La festa della riconciliazione che la natura celebra “col
suo figlio perduto, l’uomo”36 e che l’uomo celebra con l’altro uomo non
è soltanto lo specchio di una conquista di classe37, ma è soprattutto la manifestazione gioiosa e terribile di un ricongiungimento ‘metafisico’, di un
ritorno all’unità indistinta. Quella che in Welcker è preoccupazione descrittiva, in Nietzsche diviene sforzo di spiegazione globale, in cui i particolari storico-mitici servono da semplice supporto. Così è anche per
l’aspetto ‘campestre’ del dio: ciò che interessa al giovane professore di
filologia è la caratterizzazione di Dioniso come dio della sovrabbondanza vitale, dell’esistenza ‘piena’ contro la censura apollinea. I fiori, le ghirlande, la terra che si ridesta sono mere allusioni decorative ad una più
intensa espressione di vita, simboli dell’epifania divina.
Welcker affronta anche il problema cruciale dell’origine della tragedia
greca: su questa strada, Nietzsche lo seguirà, ereditando insieme a vigorose
intuizioni anche errori e fraintendimenti. L’ellenista di Bonn si appoggia ai
pochi ed ambigui dati offerti, riguardo a questo tema, dalla tradizione38. Pri-
32
“Freimacher”, “Freiheitsretter”: ivi, p. 195.
“Geber der Gleichheit in einem materiellen Sinn”: ibidem.
34
Ivi, p. 197.
35
Ivi, p. 198.
36
F. NIETZSCHE, N. T., cit., p. 25.
37
“il coro ditirambico è un coro di trasformati, in cui il passato civile e la posizione
sociale sono completamente dimenticati: essi sono diventati i servitori senza tempo del loro
dio, viventi al di fuori di ogni sfera sociale”: ivi, p. 60.
38
F. G. WELCKER, Abhandlung, cit., p. 228 e segg.
33
286
Le fonti del dionisiaco nietzscheano
mo tra tutti, il IV capitolo della Poetica di Aristotele, in cui si sostiene la derivazione della tragedia dai corifei del ditirambo e dall’elemento satiresco.
Accanto al coro dei satiri, secondo Welcker, appaiono delle brevi narrazioni
mimate, che probabilmente all’inizio hanno la sola funzione di riempire gli
intervalli tra un ballo e l’altro, tra un canto e l’altro. Lo stile di queste corte
recite è comico, vaporoso, danzante; resta peraltro da spiegare come da esse,
poi, si abbia una conversione al genere tragico. Per Welcker, il passaggio avviene quando i satiri, riuniti attorno alla vittima sacrificale, celebrano la passione e la morte di Dioniso. Seguendo questa interpretazione l’interrogativo
di fondo resta però senza risposta: se è indubbia la connessione del culto di
Dioniso con il ditirambo e con l’elemento satiresco, si deve dar ragione anche del fatto che nei drammi che ci sono pervenuti non vi è alcun indizio che
possa giustificare la caratterizzazione della tragedia originaria come un ‘ludo’
della passione di Dioniso39, tanto più che il contenuto dei drammi superstiti solo occasionalmente presenta relazioni con il culto del dio, mentre più spesso riprende una materia mitica propria della poesia epica40.
Nietzsche segue l’interpretazione di Welcker; ma una perplessità lo
assale: come spiegare la presenza dell’epos nella passione di Dioniso? Bisogna intendere – questa la risposta di Nietzsche – “la tragedia greca in quanto coro dionisiaco, che sempre di nuovo si scarica in un mondo apollineo
di immagini. Quelle parti corali di cui la tragedia è intrecciata sono dunque in certo modo la matrice di tutto il cosiddetto dialogo, cioè dell’intero mondo scenico, del vero e proprio dramma. Questo originario fondamento della tragedia diffonde, attraverso varie irradiazioni successive, quella visione del dramma, la quale è in tutto e per tutto apparenza di sogno
e perciò di natura epica, ma che d’altra parte, come oggettivazione di uno
stato dionisiaco, non rappresenta la liberazione apollinea nell’illusione, ma
al contrario lo spezzarsi dell’individuo e il suo unificarsi con l’essere originario 41. E’ vero che in questo modo “i dati della tradizione vengono integrati attraverso un’intuizione estetico-pedagogica”42, ma è anche vero
39
Cfr. a questo riguardo, H. JEANMAIRE, Su alcune teorie circa l’origine della tragedia, in
Dioniso. Religione e cultura in Grecia, Torino, Einaudi, 1972 (tit. or. Dionysos. Histoire du culte de Bacchus, Paris, Payot, 1951), pp. 321-330.
40
K. ZIEGLER, nella voce Tragoedia della Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft (la cosiddetta Pauly–Wissowa; Stuttgart, J. B. Metzler, 1893-1978), rileva che di circa seicento drammi analizzati, meno di venti presentavano un qualche rapporto con il mito
di Dioniso; nessuno trattava specificamente della passione del dio.
41
F. NIETZSCHE, N. T., cit., p. 61.
42
G. COLLI e M. MONTINARI, “La Nascita della Tragedia” e le “Considerazioni inattuali,
I-III” nell’opera di Nietzsche, in Opere, cit., vol. III, t. I, p. 461.
287
Maria Ausilia Simonelli
che la Nascita della tragedia non reca un’interpretazione storico-filologica legata a rigidi criteri di ‘scientificità’. Per questo l’utilizzazione dei modelli è stata libera, tanto che la stessa memoria delle fonti si è perduta in
una visione affatto nuova, in cui permane solo un’eco lontana delle teorie lette e sentite, rintracciabili piuttosto nella formulazione stilistica che
nei contenuti. Ancora qualche tempo e Nietzsche conquisterà anche il ‘suo’
linguaggio.
3. La prospettiva etnologico-giuridica: Johann Jakob Bachofen
Nella genesi del Dioniso nietzscheano notevole rilievo ha la teoria
elaborata da Johann Jakob Bachofen, magistrato e professore di diritto,
profondo conoscitore della cultura ellenica, che, in un originale tentativo di superamento delle conoscenze dell’archeologia e del metodo filologico del suo tempo, offre un’audace interpretazione dei miti, dei culti, dei simboli e delle forme giuridiche dell’antichità.
La sua opera più rappresentativa, Das Mutterrecht, pubblicata nel
43
1861 , è accolta con sospetto dagli ‘specialisti’ che, nella diversità di metodo e nel romantico estro dell’autore, vedono un attentato all’ortodossia filologica di cui si ritengono fedeli custodi. La loro risposta è uno sdegnoso silenzio e lo scritto di Bachofen resta, all’epoca, senza eco. Una forte impressione, invece, generano le concezioni del vecchio giurista nell’animo di Nietzsche che più tardi, a sua volta, susciterà con il suo lavoro sull’origine della tragedia “fiere polemiche tra i filologi tedeschi [...]
ricordando alquanto bruscamente ai maneggiatori di testi che quei testi
sono anime”44.
Dietro la storia apparente, l’unica valida per la cosiddetta ‘storiografia critica’, si cela spesso una complessa dimensione spirituale che il documento, nella sua estrinseca ‘oggettività’, non ci svela. Lì dove gli strumenti critici ed analitici si arrestano, deve intervenire la difficile decodificazione del simbolo a far luce su una realtà più profonda, sotterranea, una realtà che genera l’altra, quella dell’apparenza. In questo modo, come è stato
detto, “ci si apre la via ad una metafisica della storia, che poi non è nulla più
che la storia integrale, la storia, in cui la dimensione più importante – la ter-
43
Das Mutterrecht. Eine Untersuchung über die Gynaikokratie der alten Welt nach ihrer
religiösen und rechtlichen Natur, Stuttgart, Hoffmann, 1861.
44
B. CROCE, Le “Origini della Tragedia” di F. Nietzsche, in Saggio sullo Hegel seguito da
altri scritti di storia della filosofia, 4ª ed. riv., Bari, Laterza, 1948, p. 413.
288
Le fonti del dionisiaco nietzscheano
za dimensione – sta propriamente in rilievo”45. E’ tale convinzione che permette a Bachofen, dotato di un’erudizione immensa ma anche del coraggio dell’ipotesi audace e della forza dell’immaginazione intuitiva, di elaborare una nuova imponente morfologia delle antiche civiltà.
Nietzsche conosce personalmente Bachofen e, dal 1871, prende a frequentare con assiduità la sua casa basileese. L’intesa tra i due è sin dall’inizio profonda: li accomuna la volontà di scavare nella storia antica per ritrovare il volto di un’Ellade morta, sopraffatta dallo spirito apollineo, e la
scelta di un metodo d’indagine ‘afilologico’46, che, superando il semplicismo angusto dei ‘dotti’, permetta di penetrare antichi segreti dimenticati.
L’analisi delle epoche passate rimanda, per Bachofen, ad un campo “che non è mai stato ancora coltivato”47, assai diverso e assai più originario, avente “un suo proprio modo di sentire, comprensibile solo sulla base della sua legge fondamentale”48: la sepolta civiltà ginecocratica,
completamente sorpassata dal successivo sviluppo del mondo antico, caratterizzata dalla sovranità del principio femminile, sia nell’ambito sociale che religioso. La civiltà della madre ha costituito infatti l’elemento
arcaico rispetto ad altri stadi di civiltà contrassegnati dal dominio del principio paterno. Nella congerie dei culti, dei miti, dei simboli, dei costumi,
delle forme di diritto delle antiche culture mediterranee, Bachofen introduce un elemento ordinatore: la polarità madre-padre, l’antitesi tra idea
tellurico-femminile e idea olimpico-virile, in modo da ricondurre ogni modalità di vita al proprio ambito di appartenenza – quello ctonico-lunare
della madre, e quello solare del padre. La civiltà della madre – nel periodo afroditico-eterico della donna – è improntata ad un selvaggio naturalismo, alla celebrazione del corpo, alla promiscuità orgiastica: la legge della materia rifiuta ogni limitazione, considerando addirittura l’esclusivismo sessuale come una colpa nei confronti di Afrodite, dea della bellezza, dell’amore, della fertilità. Nella storia della ginecocrazia, l’anarchia eterica rappresenta, però, soltanto uno stadio: il primo grande scontro tra il
mondo asiatico e quello ellenico – la guerra di Troia – si configura come
la lotta tra il principio afroditico e quello demetrico monogamico.
45
J. EVOLA, Introduzione a: J. J. BACHOFEN, Le madri e la virilità olimpica. Studi sulla
storia segreta dell’antico mondo mediterraneo, Milano, Bocca, 1949, p. 7.
46
Cfr. su questo, B. CROCE, Il Bachofen e la storiografia afilologica, in “La Critica”, 1928,
vol. 26, pp. 418-431.
47
“Wir betreten also ein Gebiet, das die erste Urbarmachung erwartet”: J. J. BACHOFEN, Das
Mutterrecht, cit., p. V.
48
“ein Weltalter selbständigen Gepräges, eine Gesittung, die nur nach ihrem eigenen Grundgesetz beurtheilt werden kann”: ibidem.
289
Maria Ausilia Simonelli
Nella lotta tra questi due princìpi prorompe la figura di Dioniso49,
avversario irriducibile della degenerazione amazzonica, conciliante
verso la legge monogamica e benevolo nei confronti di quelle donne che
riprendono la loro funzione di madre. Sotto questo profilo, il culto bacchico sembra abbia sostenuto il principio demetrico del matrimonio e contribuito alla più tarda vittoria della teoria paterna. Ma Dioniso – in contrappunto dialettico – favorisce anche il ritorno della vita femminile al
selvaggio naturalismo afroditico. La sua personalità misteriosa in cui coabitano oscuramente l’elemento sensuale e quello sovrasensuale, desta grande entusiasmo tra le donne che passano dalla decisa resistenza amazzonica alla dedizione a colui che, divino liberatore, le riscatta dalla prigione innaturale di una vita militaresca. I riti dionisiaci, congeniali alla natura femminile50, nella quale si uniscono la tensione verso la vita ideale
e il piacere dell’immediatezza sensibile, “erodono sempre di più il rigore e la disciplina del matronato demetrico, fino a ricondurre la femminilità verso quell’eterismo afroditico che ha per suo modello la piena spontaneità della vita naturale”51. In questo modo, il culto dionisiaco porta ad
una sensualizzazione dell’esistenza ed al progressivo dissolversi dell’organizzazione politico-statuale. Contro la celebrazione della ‘differenza’,
propria di una vita gerarchicamente ordinata, si afferma la legge della
democrazia e dell’uguaglianza, sino ad arrivare al culto della promiscuità: esempio di come “l’emancipazione della carne e quella politica costituiscano una coppia gemellare necessariamente congiunta”52. La religione dionisiaca determina, così, una ginecocrazia afroditica che Bachofen
considera come uno stadio inferiore dello sviluppo umano, da collocare nelle più basse sfere dell’esistenza tellurica53. L’ellenista di Basilea non
si sottrae, infatti, alla moda evoluzionistica del suo tempo e crede che le
grandi epoche storiche da lui individuate si ordinino progressivamente in un lineare sviluppo della civiltà umana.
Non è questa successione ciò che interesserà Nietzsche. Lo attrae,
piuttosto, la considerazione relativistica della moralità che cambia e l’intuizione che dietro la società ‘ordinata’, basata sull’etica ‘superiore’ del-
49
Ivi, p. XXII e segg.
Ivi, pp. 211-213, 235-239 e passim.
51
“die Strenge und Zucht des demetrischen Matronenthums nothwendig mehr und mehr
untergraben, und zuletzt das Dasein wieder zu jenem aphroditischen Hetärismus zurückführen,
der in der vollen Spontanität des Naturlebens sein Vorbild erkennt”: ivi, p. XXIII.
52
“die fleischliche und die politische Emancipation als nothwendige und stets verbundene
Zwillings-brüder”: ibidem.
53
Ivi, p. XXIV.
50
290
Le fonti del dionisiaco nietzscheano
la misura, vi siano forme di vita che glorificano la sola legge naturale della materia. Anche Nietzsche dirà, seguendo Bachofen, che l’armonia olimpica, tradizionalmente considerata come condizione originaria dell’uomo greco, è stata in realtà faticosamente raggiunta attraverso la cultura
apollinea, che “dovrà anzitutto avere abbattuto un regno di Titani e ucciso mostri ed essere risultata vittoriosa, per mezzo di forti immagini chimeriche e liete illusioni, su una terribile profondità di contemplazione
del mondo e una eccitabilissima capacità di soffrire”54. Diversa è però in
Nietzsche la valutazione dei due princìpi, apollineo e dionisiaco. Bachofen vede nel passaggio dalla concezione materna, dionisiaca, a quella paterna, apollinea, un segno di progresso, caratterizzato dall’affrancarsi dello spirito dal mondo naturalistico dei fenomeni e dall’elevarsi della umana esistenza al di sopra della legge di vita animale55, e definisce il principio apollineo ‘virile’, contrapponendolo alla ‘femminilità’ del dionisismo. Nietzsche invertirà tale valutazione: veramente ‘virile’ è l’atteggiamento dell’uomo dionisiaco, che non frappone tra sé e la realtà delle cose
alcuno specchio trasfigurante e non si ritrae inorridito alla vista degli spaventevoli abissi dell’esistenza.
Ciò che, invece, Nietzsche eredita da Bachofen è l’estensione del simbolismo religioso a vari e diversi registri culturali, la trasfigurazione divina cioè degli stadi storici delle antiche civiltà: non vi sono state, secondo Bachofen, soltanto una religiosità apollinea ed una dionisiaca, ma si
sono avute anche due civiltà, apollinea e dionisiaca, non esistendo nel mondo antico discrepanze tra religione e vita. Il dionisismo conferisce ad ogni
aspetto dell’esistenza un carattere essenzialmente femmineo-materialistico, esaltando la corporeità, sciogliendo ogni vincolo, distruggendo le
differenze sul piano politico e liberando le classi servili. Apollo, invece,
dio della luminosità solare e signore del νου̃ς, dà valore al singolo, favorisce lo sviluppo spirituale ed infrange i limiti della materialità. E’ il
dio delle apparenze pure e della paternità ‘incontaminata’: durante il suo
regno si afferma il diritto paterno, razionale ed immateriale, mentre la
madre è relegata al ruolo di mero ricettacolo di una ‘ύλη che prende forma. Trionfa il principio maschile, a tutti i livelli, e la donna viene condannata ad una posizione subordinata. L’esistenza è ‘purificata’ attraverso
54
F. NIETZSCHE, N.T., cit., pp. 33-34.
Il patriarcato “indica uno stadio più alto della religione e dello sviluppo dell’umanità rispetto a quello contrassegnato dalla legge materiale del matriarcato” (“Es bezeichnet
also eine höhere Stufe der Religion und der menschlichen Entwicklung als das stoffliche Mutterrecht”): J. J. BACHOFEN, Das Mutterrecht, cit., p. 38.
55
291
Maria Ausilia Simonelli
un movimento ascendente guidato dallo spirito apollineo: dalla terra al
cielo, dalla materialità all’immaterialità, dalla madre al padre56.
Il diverso giudizio di valore formulato da Nietzsche sul simbolismo
di Apollo e Dioniso non gli impedisce di attingere dall’analisi bachofeniana la caratterizzazione dei due princìpi divini e, soprattutto, l’idea che
religioni e culti diversi apportino rivolgimenti radicali nei modi stessi di
essere di un popolo, nei suoi costumi e nella scelta di particolari forme
politico-giuridiche: la civiltà delle madri inclina verso la promiscuità comunistica ed il dominio dello ius naturale, mentre la civiltà degli eroi favorisce l’aristocraticismo della differenza e l’emergere del diritto positivo. Ma gli stimoli che Bachofen fornisce al giovane Nietzsche non si limitano a questo: le riflessioni sull’aspetto ctonio di Dioniso – quali appaiono in Das Mutterrecht57– ritorneranno nell’opera del filosofo tedesco,
sia pure rivisitate ed inserite in un quadro diverso. Bachofen presenta Dioniso come dio della morte, della materia, della madre-notte, del divenire, contrapponendolo ad Apollo, dio della luce solare e dell’immortalità; non si ferma però a tale constatazione ‘negativa’ e fa del dio ebbro colui che presiede all’avvento della morte, ma anche alla genesi della vita.
Il senso drammatico della indisgiungibile polarità vita-morte, simboleggiata dalla dottrina dei misteri tragici, conquisterà l’animo di Nietzsche
e permeerà il suo pensiero. Il mito di Dioniso, signore delle anime e insieme genio del rinnovamento, è un mito di morte e di resurrezione; per
questo costituisce lo ‘ιερòς λόγος dei riti agrari. Nella riflessione nietzscheana, tuttavia, le sofferenze del dio alludono a qualcosa di più profondo del semplice ciclo vegetale: nell’ebbrezza dionisiaca si sperimenta l’annullamento dell’individuo, e la possibilità intravista di una vita “al
di là di ogni apparenza”58 nell’uno primigenio, indistruttibile ed eterno.
4. Cenni conclusivi: la ‘reinvenzione’ nietzscheana di Dioniso
La ricostruzione della genesi del dionisiaco nietzscheano, attraverso l’analisi di alcune delle principali fonti a cui attinse il filosofo tedesco,
permette di chiarire l’illusorietà del presunto carattere ‘originario’ del Dioniso di Nietzsche e, per converso, di distinguere con nettezza la novità
della sua prospettiva. Continuità di temi non significa ripetizione di pen-
56
Ivi, p. XXVIII.
Ivi, p. 181 e segg., p. 235 e segg. e passim.
58
F. NIETZSCHE, N.T., cit., p. 110.
57
292
Le fonti del dionisiaco nietzscheano
sieri: Nietzsche eredita un mito, non la preconfezionata interpretazione
di esso; riprende frammenti di discorso, ritagli di lettura, echi accademici e li combina in un’organizzazione che si fa produzione. Il suo comporre, il suo ‘mettere insieme’, si dilata nella creazione, dando forma ad una
realtà che non è la semplice somma eclettica di elementi sparsi. Alla mera
indagine filologica, Nietzsche sostituisce la rifondazione, lo stravolgimento strumentale del mito: il dio è innalzato a simbolo del paradosso esistenziale, e a lui Nietzsche affida il suo messaggio filosofico.
La Nascita della tragedia rappresenta l’inizio della sua avventura intellettuale nel segno del dionisismo. E “discepolo del filosofo Dioniso”
Nietzsche si proclamerà in una delle sue ultime opere: “così – scrive nel
Crepuscolo degli idoli (1889) – io torno a toccare il punto da cui una volta
presi le mosse – la Nascita della tragedia è stata la mia prima trasvalutazione di tutti i valori”59. A favorire tale ‘ritorno’ non è il caso, ma una coerente, sebbene non sistematica, volontà di ripensamento e di unità. L’intuizione del dionisiaco, già presente nel suo primo scritto filosofico, acquisterà nelle opere più tarde e mature vigore di argomenti e sicurezza
espressiva, ma i termini principali del problema si conserveranno inalterati: il dionisiaco, sia pure con varianti terminologiche e sfumature concettuali, resta la categoria centrale del suo pensiero, il punto di riferimento obbligato per una corretta comprensione dei motivi nei quali si articola la sua Weltanschauung.
Nell’opera sull’origine della tragedia greca, Nietzsche infatti non affronta – contraddicendo il titolo – un problema caro alla tradizione di studi sull’antichità, ma pone le basi per lo svolgimento futuro del suo pensiero, orientato in senso ontologico. Il riferirsi ad un materiale proprio
della filologia costituisce il residuo sedimento della sua attività accademica60, che viene ora messa al servizio della domanda radicale sul fon-
59
F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, in Opere, cit., 1970, vol. VI, t. III, p. 161.
Che il Nietzsche della Nascita della tragedia non si sia ancora liberato della sua veste di filologo e che tenti, conseguentemente, di salvaguardare una dignità professionale
‘compromessa’ è, a nostro avviso, piuttosto il segno del sempre difficile distacco dal proprio ambiente e dai propri studi, che non la mancata presa di coscienza del ‘salto’ compiuto. In questa prospettiva vanno inquadrati i ripetuti inviti di Nietzsche a Rohde, affinché
questi sostenga lo scritto sul piano della validità filologica. Ma Rohde, da pensatore acuto qual è, si rivolge nella sua recensione-difesa agli animi metafisici e agli esteti, prendendo ironicamente le distanze da quei “saggi [...] abituati a dedicare una deplorevole serietà a ciò che è futilmente effimero” (E. ROHDE, Comunicazione per il “Litterarisches Centralblatt”,
in NIETZSCHE, ROHDE, WILAMOWITZ, WAGNER, La polemica sull’arte tragica, a cura di F. Serpa,
Firenze, Sansoni, 1972, p. 197).
60
293
Maria Ausilia Simonelli
damento dell’esistenza.
Quando Charles Andler 61 sosteneva che gli ‘addetti ai lavori’ si sarebbero scandalizzati meno, all’apparire dello scritto nietzscheano, se non
avessero ignorato la letteratura sul tema consultata dall’Autore, mostrava di trascurare la particolarità culturale di alcune fonti62 e di non tenere nel dovuto conto la lontananza del Dioniso di Nietzsche dall’ortodossia scientifica e anzi dallo stesso ‘registro’ filologico.
Il dio è, per così dire, ‘reinventato’, trascende la collocazione cronologica del suo culto e si pone in un contesto tutto peculiare di atemporalità. Il mito diviene occasione per esprimere il senso profondo dell’istinto vitale, puro pretesto per trascorrere dalla dimensione storica alla celebrazione del ‘valore’, dalla rappresentazione alla produzione, dalla memoria alla presenza. Con la Nascita della tragedia fa la sua apparizione un
Dioniso nuovo, perenne cifra simbolica della vitalità universa, distinto
dal Dioniso ‘archeologico’ confisso all’inattualità del passato e vittima del
tempo.
61
C. ANDLER, Nietzsche sa vie et sa pensée, Paris, Bossard, 1958, vol. I, p. 394.
Fatta eccezione per Welcker, filologo ‘puro’, sia Creuzer che Bachofen urtarono contro l’ortodossia filologica del tempo: l’opera di Creuzer, Symbolik, diede luogo a vivaci polemiche e fu criticata da Gottfried Hermann, da Johann Heinrich Voss e da Christian August Lobeck; sulla ‘afilologicità’ dello scritto di Bachofen si veda quanto si è avuto occasione di osservare in precedenza.
62
294
MARIA AUSILIA SIMONELLI
Nietzsche, lo Stato, la politica
“Là dove lo Stato finisce – guardate,
guardate fratelli! Non vedete l’arcobaleno
e i ponti del superuomo? –”
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Un pensiero “nomade”1 come quello di Nietzsche, che si rifiuta ai
tentativi di definizione ed agli schemi logici unificanti, si presenta meglio avvicinabile attraverso formulazioni mobili, aperte, apparentemente inconclusive. Voler dare sostanza descrittiva al complesso ed esoterico messaggio nietzscheano significa, in certo senso, restare legati al
dogma della conoscenza come ‘verità’, residuo gnoseologico di menti a
lungo abituate alla metafisica della rappresentazione.
Per Nietzsche la coscienza, come attività generalizzante preservata da aporie e dispersioni, non è in grado di cogliere la molteplicità irriducibile delle forze che compongono il reale: essa si ferma all’aspetto
fenomenico significante, conciliativo, dialettico, e non avverte il fluire continuo e caotico delle cose2, non ‘sente’ la vita, tenacemente avversa al formalismo linguistico e concettuale; non coglie cioè quell’esistere che è dissonanza3, pluralità, mutamento perenne, trasgressione.
1
Nel convegno nietzscheano di Cerisy-La-Salle del 1972, Deleuze notava: “Le nomade avec sa machine de guerre s’oppose au despote avec sa machine administrative; l’unité nomadique extrinsèque s’oppose à l’unité despotique intrinsèque [...]. Voilà peut-être le
plus profond de Nietzsche, la mesure de sa rupture avec la philosophie, telle qu’elle apparaît dans l’aphorisme: avoir fait de la pensée une machine de guerre, avoir fait de la pensée une puissance nomade” (G. DELEUZE, Pensée nomade, in AA. VV., Nietzsche aujourd’hui?
1 - Intensités, sous la direction de M. de Gandillac et B. Pautrat, Paris, Union Générale d’Edition, 1973, pp. 172-174).
2
Cfr., sul punto, B. ROMANO, La forma è la morte della vita? Il destino del diritto in
Nietzsche e Pirandello, in Id., Due studi su forma e purezza del diritto, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 11-51.
3
“un farsi uomo della dissonanza – e che cos’altro è l’uomo?” (F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo [1872], in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1964 – , vol. III, t. I (1972),
25, p. 162).
295
Maria Ausilia Simonelli
È Dioniso, dio “senza nome”, “spirito con bisogni estranei”4, il genio polimorfo della vita: se la ripetizione è un segno di morte, Dioniso, l’inafferrabile, si situa fuori dello spazio in cui il divenire si cristallizza in legge e l’attimo in memoria. Non è difficile, al di là delle continue metamorfosi del dio varioforme, rintracciarne la presenza costante nel pensiero di
Nietzsche: Dioniso è il filo d’Arianna per percorrere il labirinto nietzscheano, nel quale il mutamento, la molteplicità ed il caso hanno sostituito le vie
rettilinee dell’essere, dell’uno, della necessità. Dioniso è il simbolo della distruzione di codici irrigiditi, l’annientatore delle forme apollinee, il nemico implacabile di quel dio delfico che “vuole dar pace agli esseri singoli
proprio col tracciare fra loro linee di confine e col richiamarle poi sempre
di nuovo alla memoria, mediante i suoi precetti della conoscenza di sé e
della misura, come le più sacre leggi del mondo”5. Dioniso, al contrario,
si oppone ad ogni regolazione, ad ogni adattamento: è il profeta di una nuova immagine di pensiero, l’annunciatore di una volontà di potenza che vuole “qualcosa al di sopra di ogni conciliazione”6.
Se il messaggio di Nietzsche è stato così spesso mal compreso e se,
in particolare, è stato possibile coinvolgerlo in equivoche solidarietà ideologiche, ciò è dipeso anche dal non avere seguito, nel labirinto della sua
riflessione, la traccia di Dioniso, figura divina del prospettivismo infinito e della volontà di decodificazione globale7. La filosofia di Nietzsche
ha – come è noto – una vocazione essenzialmente critica, un intento demistificante. Momento fondamentale di tale critica è la trasvalutazione
di tutti i valori (Umwertung aller Werte), che non significa simpliciter cambiamento dei valori, bensì distruzione del fondamento da cui deriva il
valore dei valori; una distruzione, questa, operata nel nome di Dioniso,
il dio che conosce “l’eterno piacere del divenire – quel piacere che comprende in sé anche il piacere dell’annientamento”8.
All’interno di tale contesto generale, interrogarsi sull’appartenenza ideologico-politica di Nietzsche, chiedersi quale partito egli prenda,
4
F. NIETZSCHE, Tentativo di autocritica [1886], in Opere, vol. III, t. I, cit., 3, p. 7.
F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 9, p. 70. Si vedano, in tema: Luigi ALFIERI, Apollo tra gli schiavi. La filosofia sociale e politica di Nietzsche, 1869-1876, Milano, Franco
Angeli, 1984; Luigi ALFIERI e Domenico CORRADINI BROUSSARD, Quia viator: riflessioni di filosofia politica e sociale tra Hegel e Nietzsche, Pisa, Tipografia editrice pisana, 1994.
6
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra [1883-1885], in Opere, cit., vol. VI, t. I (1968), “Della redenzione”, p. 173.
7
Cfr. G. BATTIONI, Dioniso contro il Crocifisso. Uno sguardo sul pensiero politico di Nietzsche, Roma, Aracne, 2010.
8
F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli [1888], in Opere, cit., vol. VI, t. III (1970), “Quel
che devo agli antichi”, p. 161.
5
296
Nietzsche, lo Stato, la politica
risulta del tutto improprio. Per Nietzsche, infatti, il fenomeno politico trova la sua ragion d’essere in quel valore dei valori proprio della razionalità metafisica tradizionale, contro il quale è indirizzata tutta la sua vis
polemica: politica e Stato sono, qualunque sia la traduzione storica e il
programma dichiarato, forze reattive9, negazioni di vita, potenze annientanti il fluido gioco delle molteplici possibilità individuali: “proprio a questo tendono – scrive Nietzsche – tutti gli ordinamenti dell’uomo, a fare
cioè in modo che la vita, in una continua distrazione dei pensieri, non venga sentita”10.
Le istituzioni, le norme, tutto ciò che si dà come significazione stabile, come rigida rappresentazione, costringe il perenne e caotico movimento della realtà, che viene ridotta in schemi dotati non di verità, ma
di mera coerenza interna (“Il mondo ci appare logico perché prima noi
stessi lo abbiamo logicizzato”11). La polemica nietzscheana contro lo Stato si intreccia indissolubilmente con la critica della logica, della storia come
memoria, del linguaggio ancorato ontologicamente alle cose, del meccanicismo che sorregge la visione scientifica del mondo; distruggere l’affermazione di valore che fonda tali dinamiche reattive e recuperare la complessità della vita: questo il messaggio di Dioniso. Già nella Nascita della tragedia, Apollo “genio del principium individuationis”, è definito “il formatore di Stati” e la sua attività viene contrapposta alla “liberazione dionisiaca dai vincoli dell’individualità”, che si fa sentire “a tutta prima a
pregiudizio degli istinti politici, fino all’indifferenza verso di essi, anzi
all’ostilità”12. Un’ostilità che nasce dall’irriducibile contrasto tra “furor
philosophicus” e “furor politicus”13, tra esistenza autentica ed esistenza inau-
9
Sulla distinzione tra forze “attive” e forze “reattive” nel pensiero di Nietzsche, si
veda G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, Paris, Presses Universitaires de France, 1962;
trad. it Nietzsche e la filosofia, Firenze, Colportage, 1978, p. 71 sgg. e passim.
10
F. NIETZSCHE, Schopenhauer come educatore [1874], in Opere, vol. III, t. I , cit., 4, p. 399.
11
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, cit., vol. VIII, t. II (1971), n. 9
[144], p. 72.
12
F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 21, p. 137. Uno degli attributi più frequenti e più antichi di Dioniso è quello di Λύσιος (Liberatore). Epiteto polisemico, che esprime un’azione articolata di affrancamento: dalle angosce esistenziali mediante il suono, la
danza, il canto; dalle angustie dell’individualizzazione nel vestimento corporeo (Dioniso
conduttore delle anime); dalle catene della schiavitù e della soggezione come dispensatore di uguaglianza (’Ελευθέριος); dal letargo invernale in quanto genio del ciclico rinnovamento della natura (Dioniso celebrato nelle feste primaverili). Per un quadro completo delle testimonianze storiche su Dioniso, si veda: H. JEANMAIRE, Dionysos. Histoire du culte de
Bacchus, Paris, Payot, 1951; trad. it Dioniso. Religione e cultura in Grecia, Torino, Einaudi, 1972.
13
F. NIETZSCHE, Schopenhauer come educatore, cit., 7, p. 438.
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Maria Ausilia Simonelli
tentica, tra cultura e Stato. È per questo che “deve essere più che mai permesso ad alcuni di astenersi dalla politica e di farsi un po’ in disparte [...].
Poi bisogna perdonare a questi pochi di non dare troppa importanza alla
felicità dei molti, s’intendano con ciò popoli o strati di popolazione, e di
permettersi qua e là un’espressione ironica; poiché la loro serietà risiede
in altro, la loro felicità è un altro concetto, il loro fine non può essere abbracciato da ogni goffa mano che abbia appunto solo cinque dita”14.
Credere che la politica sia tutto e che servire lo Stato sia non solo il
dovere più alto, ma anche lo scopo supremo dell’umanità, più che “una
ricaduta nel paganesimo”, è – Nietzsche non esita a dirlo – un’ “idiozia”15.
Esistono altri doveri, altri fini, un altro pathos: per le cose “realmente spirituali”16, per la cultura. È per questa incompatibilità tra realtà politica
e sapere autentico che lo sviluppo dello spirito rappresenta, per ogni forza politica, un impedimento ed un pericolo; d’altronde, quando la volontà e l’intelligenza vengono messe al servizio del potere, la cultura – amante gelosa che esige dedizione totale – infiacchisce e muore. Al suo posto
subentra una falsa cultura, orrendamente deformata dagli avvilenti servigi che rende alle istituzioni esistenti, dalla sottomissione ad una verità ufficiale, una cultura “addomesticata” come un ruscello nel bosco che
“viene in parte deviato con argini e su armature perché, con la sua forza diminuita, faccia girare la macina: mentre la sua forza intera sarebbe
più pericolosa che utile alla macina”17.
L’intellettuale deve, perciò, rimanere estraneo a quel sapere ridotto “dai governi, dalle Chiese, dalle accademie, dai costumi e dalle viltà
degli uomini ad un’apparenza erudita”18. La vera ricchezza dello spirito è infatti non-politica, addirittura antipolitica; non a caso, le grandi epoche della cultura sono tutte malate di decadenza politica, perché le energie vitali sono rivolte alla conoscenza, all’ “essenziale – e l’essenziale rimane la cultura –”19.
In un mondo caratterizzato dalla Sinnlosigkeit, dalla mancanza di senso, cercare il valore ed il significato intrinseco delle cose, salvaguardare
14
F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, I [1878], in Opere, cit., vol. IV, t. II (1965), “Uno
sguardo allo Stato”, pp. 243-244 (corsivo nostro).
15
F. NIETZSCHE, Schopenhauer come educatore, cit., 4, p. 390.
16
F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, cit., “Quel che i tedeschi non hanno”, 1, p. 99.
17
F. NIETZSCHE, Schopenhauer come educatore, cit., 6, p. 416.
18
F. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita [1874], in Opere, vol. III, t.
I, cit., 5, p. 298.
19
F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, cit., “Quel che i tedeschi non hanno”, 4, p. 102.
298
Nietzsche, lo Stato, la politica
la legalità dell’ordine dominante, vuole dire rimanere vittima di quell’Apollo saettante che scaglia le sue mortali frecce a difesa dell’unità di senso
contro la pluralità irriducibile delle interpretazioni possibili. Nietzsche
rifiuta la categoria stessa del politico in quanto orientata all’organizzazione ed alla fondazione assiologica. La critica è radicale: dal suo pensiero è assente l’idea rousseauiana di una originaria natura incorrotta che,
seppellita dal sorgere delle istituzioni della civiltà, sarebbe in qualche modo
recuperabile mediante l’azione rivoluzionaria: “Come potrebbe – egli si
chiede – un’innovazione politica bastare a rendere gli uomini una volta
per sempre soddisfatti abitatori della terra?”20. L’illusione rivoluzionaria è soltanto una pericolosa utopia, un sogno appassionato di esaltati in
cui si sente l’eco della “superstizione” di Rousseau, padre sovrastorico
dell’uomo catilinario21. La polemica contro lo Stato non è pertanto desiderio di rimpatrio in una naturalità aurorale, ma bisogno di andare oltre le sicurezze artificiali e l’imposizione di senso. In quest’opera di dissacrazione, Nietzsche infrange anche altri miti: quello della presunta eticità dello Stato e quello della rappresentatività popolare. Lo Stato vuole in effetti il sacrificio delle individualità libere, della vitalità prorompente, per edificare false tutele nelle quali si proietta soltanto l’affermazione della sua potenza: “ ‘Nulla al mondo è più grande di me: io sono il
dito imperioso di Dio’ – così ruggisce la belva”22.
Dio è morto, ma la sua morte sarà stata un feroce ed inutile assassinio se un altro idolo – freddo e bugiardo – ne prenderà il posto: “Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri. Esso è gelido anche quan-
20
F. NIETZSCHE, Schopenhauer come educatore, cit., 4, p. 389.
F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, I, cit., “Uno sguardo allo Stato”, pp. 254-255.
Cfr., in tema: Keith ANSELL-PEARSON, Nietzsche contra Rousseau. A study of Nietzsches moral
and political thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1991.
22
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., “Del nuovo idolo”, p. 55. Anche nei suoi
ultimi scritti, Nietzsche continuerà a parlare dello Stato nei medesimi termini; ad esempio,
nel brano che segue, tratto dalla Genealogia della morale, insiste sulla caratterizzazione dello Stato come“violenza organizzata” e sulla natura mitica del contratto sociale: “un qualsiasi branco d’animali da preda, una razza di conquistatori e di padroni che, guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli
su una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora informe, ancora
errabonda. In questo modo ha inizio sulla terra lo ‘Stato’: penso che sia liquidata quella fantasticheria che lo faceva cominciare con un ‘contratto’ ” (F. NIETZSCHE, Genealogia della morale [1887], in Opere, cit., vol. VI, t. II (1968), parte II, § 17). Annota, a questo proposito, Paul
Valadier: “toute société commence sous la tyrannie d’une violence dominatrice, et non par
le conte de fée ou selon la superstition pieuse d’un contrat social que les individus coalisés passeraient entre eux pour se protéger de la violence naturelle ou sociale” (P. VALADIER,
Nietzsche. Cruauté et noblesse du droit, Paris, Éditions Michalon, 1998, p. 29).
21
299
Maria Ausilia Simonelli
do mente; e questa menzogna gli striscia fuori di bocca: ‘Io, lo Stato, sono
il popolo’ ”23. I linguaggi che il nuovo dio parla sono falsi e la sua stessa natura è, in realtà, annientante (lo Stato è il luogo “dove tutti si perdono, buoni e cattivi: Stato è dove il lento suicidio di tutti – è chiamato
‘vita’ ”24); nello Stato infatti l’individuo oblitera se stesso, rinunciando alla
considerazione soggettiva delle cose per immergersi nell’impersonalità,
dove perisce il suo proprium esistenziale. La dinamica psicologica che spinge ad offrirsi in olocausto al potere è, secondo Nietzsche, quella di un insano autolesionismo, della mortificazione della parte migliore di sé – la
vitalità, l’affermazione plurale – per ‘purgarsi’, in un’ottica deformata,
dello slancio dionisiaco, della mobilità esistenziale, del prospettivismo
ermeneutico, costringendoli nelle catene dell’istituzione e nell’obbedienza alla norma; in tal modo, l’energia della volontà viene martirizzata: essa
diviene un peccato25.
In questo contesto si comprende l’impraticabilità di una interrogazione che voglia ricondurre il pensiero nietzscheano nei binari della riflessione politica: la risposta di Nietzsche sopprime infatti la stessa domanda. Non c’è nessuna legge, in quanto violenza impositiva di senso
ad una pluralità fluttuante, che non sia ‘ingiusta’; non vi è alcuno Stato,
in quanto garante di quel fondamento di valore, che sia buono. Anzi, data
la natura comunque ‘reattiva’ del politico, un’organizzazione statale che
si presenti con requisiti ‘positivi’ risulta massimamente pericolosa: paradossalmente (ma si tratta di un paradosso illusorio, che infrange invece l’ovvietà di ciò che appare evidente), “quanto migliore è la struttura dello Stato, tanto più fiacca è l’umanità”26. Lo Stato ideale, realtà di dominio perfetta, fornendo una rete di significati senza smagliature – con la
quale si ammanta la complessità contraddittoria delle cose – costringe l’uomo a consegnare senza riserve la propria capacità di scegliere e la propria volontà: “una volta che la vita sia ordinata nello Stato ideale, non è
più possibile un’invenzione poetica del presente: nel migliore dei casi la
fantasia guarderà indietro con nostalgia ai tempi dello Stato non ideale”27.
Nietzsche sfida dunque al superamento, non al cambiamento: qualunque riforma non intaccherebbe, infatti, la logica che regge la realtà po23
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., p. 54.
Ivi, p. 55.
25
Si veda, sul punto, F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, I, cit., “Per la storia dei sentimenti morali”, p. 73.
26
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1875-1876, in Opere, cit., vol. IV, t. I (1967), n. 5 [178], p. 154.
27
Ivi, n. 5 [185], p. 155.
24
300
Nietzsche, lo Stato, la politica
testativa, non ne determinerebbe il crollo. Andare oltre si può solo accettando l’esortazione di Zarathustra – “ai re e alla Chiesa, e a tutto quanto soffre per decrepitezza e virtù, io dico: lasciatevi rovesciare! Per tornare in vita e perché in voi torni – la virtù”28 – e rinunciando a credere
alle lusinghe del “cane di fuoco”, l’oscura immagine zarathustriana simbolo del fragore fumoso degli annunciatori di grandi eventi, di rovesciamenti radicali che restano puro verbo, latrato informe. Non intorno a questi “demoni del rifiuto”, ma “intorno agli inventori di valori nuovi ruota il mondo; impercettibile – così esso ruota”29. Il tracciato della nuova
Wertsetzung si muove lungo le linee della decostruzione nichilista, dello smantellamento dell’Hintergrund metafisico, ma non si arresta alla sterilità della pura negazione: sotto lo sguardo di Dioniso il no diventa affermazione, la distruzione necessaria premessa per un ritorno vitale, la
contraddizione coraggioso rischio del caos.
Ai vincoli della legge si sostituisce il regno della libertà, la libertà
che perennemente conferisce senso alle cose per garantire l’eterno ripetersi di una uguale, eppure sempre diversa creazione (è il tema complesso e, sotto molti aspetti, enigmatico dell’eterno ritorno dell’identico30): “la
volontà – insegna Zarathustra – è qualcosa che crea”31, istituendo significati, interpretazioni, valori. In questa accezione, la volontà è volontà legiferante32, continua donazione di senso, non riducibile – in quanto tale
– a quel potere che “ordina, semplifica, falsifica, separa artificialmente”33,
proprio dell’orizzonte politico, logico ed epistemologico.
Il Wille zur Macht, come conoscenza34, è gioco di forze ermeneuti-
28
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., “Di grandi eventi”, p. 160.
Ivi, rispettivamente p. 159 e p. 160.
30
Sull’eterno ritorno come “struttura edipica del tempo”, si veda G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano, Bompiani, 1974, pp. 249-281.
31
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., “Della redenzione”, p. 172.
32
Cfr. F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male [1886], in Opere, vol. VI, t. II, cit., “Noi
dotti”, p. 120: “Ma i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano ‘così deve
essere!’, essi determinano in primo luogo il ‘dove’ e l’ ‘a che scopo’ degli uomini e così facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato – [...]. Il loro ‘conoscere’ è creare, il loro creare è una legislazione, la
loro volontà di verità è – volontà di potenza”.
33
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [89], p. 40.
34
Nella complessa morfologia della volontà di potenza, questa si declina anche come
conoscenza: “Volontà di potenza come conoscenza. Non ‘conoscere’ ma schematizzare, imporre al caos tutta la regolarità e tutte le forme necessarie per soddisfare il nostro bisogno
pratico”. E ancora: “Logica come volontà di potenza, di autodominio, di ‘felicità’ ” (F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, cit., vol. VIII, t. III (1974), n. 14 [152], p. 122 e
n. 14 [92], p. 60).
29
301
Maria Ausilia Simonelli
che, che lottano eternamente tra loro; soltanto il perenne fluire delle volontà gareggianti restituisce la realtà del prospettivismo teoretico e pratico35. Racchiudere la nietzscheana volontà di potenza negli angusti limiti di una mera volontà di sopraffazione significa fraintenderla, lasciandosi sfuggire il segreto che la vita ha confidato a Zarathustra: “Che io non
possa essere se non lotta e divenire e scopo e contraddizione degli scopi: ah, colui che indovina la mia volontà, indovina certo anche per quali sentieri tortuosi egli è obbligato a camminare!”36. La vita, in quanto volontà di potenza (“Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche
trovato volontà di potenza”37), è celebrazione della pluralità interpretante, rifiuto dell’unità di senso e della sua logica di tirannico dominio38 .
L’orizzonte problematico nel quale Nietzsche si muove non permette dunque di agganciare il suo pensiero, se non attraverso letture decontestualizzate, e quindi distorsive, al carro nazionalsocialista (come nelle interpretazioni-manipolazioni di autori quali Bäumler, Härtle, Oehler,
Rosenberg, che si servirono spesso della funesta retorica sociobiologistica per tratteggiare una malintesa supremazia degli “uomini superiori”39);
d’altra parte, non sembra neppure legittimare dislocazioni rovesciate, in
direzione ideologicamente opposta. Nietzsche non è il fondatore di un
materialismo antidialettico capace di risolvere “la critica marxiana dell’economia politica in un’operazione ermeneutica”40; ma non è neppu-
35
Karl Jaspers fu tra i primi a porre in evidenza la natura ermeneutica della conoscenza in Nietzsche: “l’essere del mondo – scrive – è un puro e semplice essere interpretato” (K. JASPERS, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, Berlin, W.
de Gruyter, 1936; trad. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Milano,
Mursia, 1996, p. 264).
36
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., “Della vittoria su se stessi”, p. 139. Si veda,
in argomento, J.-C. WOLF, Nietzsches Begriff der Macht, in Nietzsche und das Recht (Vorträge
der Tagung der Schweitzer Sektion der Internationalen Vereinigung für Rechts– und Sozialphilosophie, 9. – 12. April 1999 in Basel), herausgegeben von K. Seelmann, Stuttgart, Franz
Steiner Verlag, 2001, pp. 203-218.
37
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., p. 138.
38
Secondo l’interpretazione heideggeriana – che fu elaborata, nel suo nucleo originario, nelle lezioni che Heidegger tenne all’Università di Friburgo tra il 1936 ed il 1940 –
la volontà di potenza costituisce il carattere fondamentale dell’ente. Tale carattere si specifica essenzialmente come capacità ermeneutica, come creazione di significati, come principio istitutivo di valori; pertanto, la lotta tra le opposte volontà di potenza è anzitutto lotta tra diverse interpretazioni del mondo (M. HEIDEGGER, Nietzsche, Pfullingen, Günther Neske Verlag, 1961; ed. it. a cura di F. Volpi, Nietzsche, Milano, Adelphi, 1994).
39
Cfr. A. MÜNSTER, Nietzsche et le nazisme, Paris, Kime, 1995.
40
L’espressione è usata, in senso critico, da F. MASINI, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 23.
302
Nietzsche, lo Stato, la politica
re l’apologeta dell’imperialismo, come vorrebbe Lukács41, né altro ancora che si è ritenuto talvolta di intendere con sottili ma arbitrarie sovrapposizioni42.
La radicalità e la carica demistificante del pensiero di Nietzsche si
estendono a tutti gli aspetti del politico, comprese quelle azioni sovvertitrici orientate comunque alla trasformazione interna di esso. Nota Deleuze: “Marx et Freud sont peut-être l’aube de notre culture, mais Nietzsche, c’est tout à fait autre chose, l’aube d’une contre-culture”43. Una “contro-cultura”, dunque: espressione adatta ad indicare una posizione che
nega tutti i codici, che rivendica la realtà della contraddizione e della dissonanza, che sopporta la precarietà dello Zwischenzustand, spazio critico di sospensione tra la decostruzione nichilista e il superamento dionisiaco della negazione.
Nelle Considerazioni di un impolitico, Thomas Mann vede in Nietzsche la manifestazione superba e fedele di un’antica “cultura borghese
e impolitica”44, propria dello spirito tedesco, tradita dalle aspirazioni dell’uomo dall’animo non-germanico che sogna “la conversione spirituale
della Germania alla politica, alla democrazia”45. Nell’interpretazione manniana Nietzsche diviene il simbolo prestigioso di un odio verso il politico che percorre la storia tedesca sin dall’epoca della lega anseatica,
“un’epoca di pura cultura, non di politica”46. Nietzsche, “il più grande
ed esperto psicologo della decadenza”47, sarebbe dunque, in tale contesto, profondamente tedesco: “Parlare di Nietzsche anti-tedesco [...] è una
41
Cfr. G. LUKÁCS, Die Zerstörung der Vernunft, Berlin, Aufbau-Verlag, 1954; trad. it.
La distruzione della ragione, Torino, Einaudi, 1959, pp. 308-402. Cfr. anche, nel solco di questo filone interpretativo, gli scritti recenti di D. LOSURDO, Nietzsche e la critica della modernità, Roma, Manifestolibri, 1997 (Nietzsche è definito come “il più grande pensatore tra i reazionari e il più grande reazionario tra i pensatori”, ivi, p. 3). Dello stesso Autore, si veda:
Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino, Bollati Boringhieri, 2002.
42
Si può ad esempio citare, a tale riguardo, l’oscura commistione operata da Lyotard tra pensiero nietzscheano ed elementi economico-politici. All’interrogativo su che cosa
Nietzsche rappresenti per noi oggi, egli risponde che “Le Retourn réglé, c’est le Kapital”
(J.-F. LYOTARD, Notes sur le Retour et le Kapital, in: Nietzsche aujourd’hui?, cit., p. 146).
43
G. DELEUZE, Pensée nomade, cit., p. 160.
44
T. MANN, Betrachtungen eines Unpolitischen, Berlin, Fischer, 1918; trad. it. Considerazioni di un impolitico, Bari, De Donato, 1967, p. 96.
45
Ivi, p. 24. Su queste tematiche cfr.: F. INGRAVALLE, Stato, große Politik ed Europa nel
pensiero politico di F. W. Nietzsche, Alessandria, Università del Piemonte orientale Amedeo
Avogadro, 2004.
46
T. MANN, Considerazioni di un impolitico, cit., pp. 95-96.
47
Ivi, p. 64.
303
Maria Ausilia Simonelli
goffaggine non minore che definirlo anti-wagneriano”48.
Non c’è dubbio che qui Mann metta in risalto aspetti autenticamente presenti nella storia culturale germanica; ma la posizione di Nietzsche
non è risolvibile in una continuità di costume e di tradizione: la sua non
è critica ‘storica’, bensì il segno tragico di una lacerazione, il gesto che scopre la realtà del dominio e – in quest’ottica – fa giustizia di ogni copertura ideologica e di ogni fondazione di valore: “L’ ‘impolitico’ nietzschiano – scrive Cacciari – è la critica del ‘politico’ in quanto affermazione di Valore. [...] esso va oltre la maschera del ‘politico’ (il suo disincanto, la sua
necessità, il suo essere destino) per scoprirvi i fondamenti di valore, il discorso di valore che ancora lo fonda [...]. L’ ‘impolitico’ non rappresenta
il valore che si libera dal dis-valore del ‘politico’, ma la critica radicale
dell’essere-valore della dimensione del ‘politico’ ” 49.
Come è ampiamente noto, il superuomo è stato uno dei concetti più
fraintesi dell’opera nietzscheana. L’attenta considerazione dei fondamenti gnoseologici del pensiero di Nietzsche permette di ritrovare nello Übermensch un significato più profondo e radicale, riconoscendo in lui il travalicatore dei limiti della soggettività della ratio classica, colui che nella
danza afferma l’eterno divenire e nel riso la verità del molteplice50. Il ballo e la risata esprimono la rivalutazione del corpo e della sua grande ragione: una ragione plurale, trasgressiva, che rinuncia a confortanti certezze e frantuma la logica della conoscenza assoluta. La frammentarietà, l’incompletezza, la precarietà e persino la contraddizione – in questo
riproporre i diritti del corpo, a lungo sacrificati da una tradizione di intellettualismo – divengono caratteri costitutivi di un sapere critico che si
affida al gesto per manifestarsi. La mimica del corpo restituisce la fantasmagoria dell’individuale, superando la tendenza astrattiva dell’atti-
48
Ivi, p. 62.
M. CACCIARI, L’impolitico nietzschiano, in appendice a: F. Nietzsche, Il libro del filosofo [1873-1875], (con saggi di M. Cacciari, F. Masini, S. Moravia e G. Vattimo), a cura di
M. Beer e M. Ciampa, Roma, Savelli, 1978, pp. 109-110. Vattimo definisce “illuminante” questo saggio di Cacciari ed aggiunge: “Per non far torto a Nietzsche, dobbiamo [...] riconoscere [...] che anche in politica la volontà di potenza funziona come principio selettivo solo
nella misura in cui dissolve la stessa dimensione del politico, mediante la sua generalizzazione (che si può vedere realizzata proprio nella democrazia moderna)” (G. VATTIMO, Introduzione a Nietzsche, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 102 e nota).
50
Cfr. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., “Dell’uomo superiore”, p. 359: “Elevate i vostri cuori, buoni ballerini, in alto! più in alto! E non dimenticatemi la buona risata! Questa corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: a voi, fratelli, getto
questa corona! Io ho santificato il riso; uomini superiori, imparatemi – a ridere!”.
49
304
Nietzsche, lo Stato, la politica
vità concettuale che occulta la ‘materialità’ ed appiattisce le differenze.
Pronunciare l’ ‘indicibile’, comunicare ciò che non si lascia restringere nello spazio della trascrizione rappresentativa, creare senso e non arrestarsi ad un significato già fissato, è compito dell’uomo superiore, inteso come
nuova possibile forma di vita dell’essente. Un compito gravoso che esige tutto il coraggio della solitudine, senza “nemmeno più un dio” che faccia “da spettatore”51.
Costruire il “futuro dell’uomo” è difficile, e frequenti sono gli inciampi; ma non c’è “da meravigliarsi, se qualche pentola va in pezzi! Imparate a ridere di voi come si deve! Uomini superiori, oh quante cose sono
ancora possibili!”52. La personalità più elevata è quella che va ‘oltre’ l’uomo, rompendo gli schemi di pensiero e di comportamento che costituiscono – nella loro rassicurante cristallizzazione – dei baluardi contro il
caos del mondo: “La suprema misura di vigore è data da quanto uno può
continuare a vivere sulla base di ipotesi, lanciandosi per così dire su di
un mare infinito, invece che sulla base di una ‘fede’. Tutti gli spiriti inferiori periscono”53. I tentativi di dare definiti contorni alla figura dell’oltreuomo54, spesso vista in chiave di eroismo decadente, tra sogni violenti di dominio ed imprese erotiche vissute con il distacco del seduttore routinier, sono frutto di letture corrotte, di rappresentazioni ancora “troppo
umane” di un ideale inattraversabile dai linguaggi organici della ragione unitaria.
Sul terreno della concezione politica si sperimentano in modo emblematico la grande forza critica e l’estrema suggestività dell’opera nietzscheana e, ad un tempo, i suoi ‘limiti’. Ma questi ultimi si costituiscono
come tali in rapporto al pensiero rappresentativo, vale a dire in una prospettiva antitetica rispetto a quella di Nietzsche; all’interno della sua riflessione essi appaiono come lo sviluppo coerente delle premesse e, dunque, tutt’altro che ‘limiti’. Ne consegue che l’avvicinamento partecipativo o la presa di distanza dalla concezione politica di Nietzsche sono ne-
51
Ivi, p. 350.
Ivi, p. 355.
53
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, cit., 25 [515], p. 132.
54
“Il ‘super’ nella denominazione ‘superuomo’ contiene una negazione e significa
il sorpassare e l’andare oltre l’uomo finora esistito. Il no di questa negazione è incondizionato, poiché proviene dal sì della volontà di potenza e colpisce in assoluto l’interpretazione del mondo platonica, morale-cristiana, in tutte le sue varianti palesi e occulte. L’affermazione che nega decide, pensando in termini metafisici, che la storia dell’umanità diventi una nuova storia” (M. HEIDEGGER, Nietzsche, cit., p. 774).
52
305
Maria Ausilia Simonelli
cessariamente mediati, in un corretto approccio di analisi, dalla relazione che si istituisce con i profili gnoseologici del suo pensiero55. In tale
contesto, l’ipotesi interpretativo-ricostruttiva che sottolinea la centralità del mito di Dioniso nell’intero corso dell’elaborazione del filosofo
di Röcken si rapporta all’estrema difficoltà di definire ‘settori’ o ‘blocchi’ di questa elaborazione da considerare con giudizio individualmente differenziato.
55
Di qui un’impronta originalissima, una peculiarità irriducibile, che fa sì che non
si possa parlare, come fa invece il Touchard (J. TOUCHARD, Storia del pensiero politico, Milano, Etas libri, 1974², p. 572) di un “nietzschianesimo politico” inteso quale scuola di pensiero. Diverso è il discorso se ci si riferisce a quello che nello stesso testo del Touchard, in
un altro dei suoi pochi e sparsi richiami a Nietzsche (p. 616), viene definito “una sorta di
nietzschianesimo elementare”, diffusosi “molto oltre la cerchia dei lettori di Nietzsche e
spesso contro gli stessi profondi intendimenti di quest’ultimo”. Tra Nietzsche e tale “nietzschianesimo elementare”, pervaso di grossolane semplificazioni e strumentali travisamenti, corre una differenza paragonabile a quella tra Machiavelli e il machiavellismo. La singolarità e la difficoltà di inquadramento della filosofia politica nietzscheana si riflettono
caratteristicamente nel modo in cui se ne occupa la generalità delle opere di storia del pensiero politico, che si limitano a qualche sporadico cenno qua e là, come appunto il Touchard,
oppure presentandola nell’ambito dell’ideologia fascista e nazionalsocialista, come si fa ad
esempio in un altro notissimo manuale, quello del Sabine (G. H. SABINE, Storia delle dottrine politiche, II, Milano, Universale Etas, 1981, p. 683 sgg.), sia pure con l’avvertenza che “nonostante le ovvie somiglianze delle idee di Nietzsche col fascismo e col nazionalsocialismo,
il rapporto non era così semplice come spesso si è supposto”. Sul legame tra pensiero filosofico e riflessione politica in Nietzsche, si veda: H. OTTMANN, Philosophie und Politik bei
Nietzsche, Berlin-New York, W. de Gruyter, 1987.
306
ORIZZONTI
FRANCESCO BELMONTE
Le tutele del padre lavoratore
SOMMARIO: 1. Quadro normativo - 2. I congedi di paternità – 3. Il congedo parentale. 4. I Riposi giornalieri. - 5. Il congedo per malattia del figlio. - 6. Divieto di licenziamento. - 7. Dimissioni. - 8. Diritto al rientro. - 9. Riflessioni finali: uno sguardo al sistema europeo di tutele
1. Quadro normativo
L’esigenza di adottare misure specifiche a tutela del padre lavoratore, affonda le sue radici già nella Costituzione (artt. 31 e 37) e nel Codice Civile (art. 2110), ma ha assunto rilievo crescente soltanto a partire
dagli anni 2000.
Le disposizioni contenute nella Costituzione1 e nel Codice Civile2,
come noto, sono finalizzate alla protezione del nucleo familiare; tuttavia
il legislatore, ha per lungo tempo focalizzato l’attenzione solo sulla madre lavoratrice in ragione della particolare debolezza economica della donna all’interno del nucleo familiare3.
Un primo intervento verso la tutela della paternità4 viene attuato
1
In materia, v. G. AMOROSO, V. DI CERBO, A. MARESCA, Le fonti del diritto italiano. Diritto del lavoro. La Costituzione, il codice civile le leggi speciali, vol. I, IV ed., Milano, Giuffrè, 2013,
p. 1889 ss.; T. MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, Giuffrè, 2013.
2
In tema v. AA. VV. , Artt. 2060-2246 cod. civ. Disciplina delle attività professionali. Impresa in generale, in Commentario al Codice Civile, a cura di A. SCIALOJA, G. BRANCA, Libro quinto. Del lavoro, Bologna, Zanichelli, 2008.
3
A tale riguardo le prime norme cardini sono le disposizioni contenute nelle leggi
30 dicembre 1971 n. 1204 ( “Tutela delle lavoratrici madri”) e 9 dicembre 1977, n. 903 (“Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”).
4
Tra i numerosi contributi sul tema, v. M. CAGARELLI, I congedi parentali, Torino, Giappichelli, 2002; C. CARNOVALE, Il lavoro durante il congedo familiare non giustifica sempre il licenziamento, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2011, p. 645 ss.; D. CIRIOLI, Congedi parentali, Milano, Ipsoa, 2001; G. COTTRAU, La tutela della donna lavoratrice, Torino, Giappichelli, 1972, p. 389; R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, Cedam, 2013; S. FACELLO, M. TIRABOSCHI, Congedi aspettative e permessi: al via
il riordino della normativa, in “Guida al lavoro”, 2011, n. 24, p. 15 ss.; M. R. GHEIDO, A. CASOTTI, Congedi per la famiglia: maggior flessibilità, in “Diritto e pratica del lavoro”, 2013, p. 248;
309
Francesco Belmonte
con la legge 8 marzo 2000, n. 535; anche se, una disciplina più organica,
si delinea, soltanto, a partire dal 2001 con il D. Lgs. 26 marzo 2001 n. 1516
(d’ora in poi T.U.), con il quale il legislatore effettua un integrale ricognizione della materia includendo, le disposizioni che regolano la maternità che quelle a tutela della paternità7.
La normativa introdotta dal T. U. ha un triplice obiettivo: proteggere la salute, la vita della madre e del bambino; estendere al padre lavoratore, laddove possibile, le misure di tutela della maternità, corresponsabilizzandolo, al tempo stesso, nella cura dei figli; e salvaguardare, le
esigenze fisiologiche, relazionali ed affettive del figlio, anche adottivo o
in affidamento. L’essenziale funzione sociale della famiglia si espande così
«dalla fase biologica della procreazione sino alle fasi successive di crescita e di educazione dei figli naturali, adottivi o affidatari»8.
Di recente, il quadro normativo è stato arricchito, in linea con la direttiva 2010/18/EU, dalle disposizioni introdotte dalla legge 28 giugno
2012 n. 92 (c.d. Riforma Fornero) e dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228
(legge di stabilità).
ID., Maternità e paternità per la riforma Fornero, in “Il Lavoro nella giurisrudenza”, 2012, p.
973.; M. MAGNANI, M. TIRABOSCHI, La nuova riforma del lavoro, Milano, Giuffrè, 2012; A. MURATORIO, L’unione europea sui congedi parentali tra legislazione ed orientamenti giurisprudenziali, in “ Il lavoro nella giurisprudenza”, 2011, p. 939; G. SANTORO PASSARELLI, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Torino, Giappichelli, 2014, p. 1149 ss.; M. PERSIANI,
F. CARINCI, Trattato di diritto del lavoro, IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, Cedam, 2012, p. 1197 ss.; T. RENZI, La sospensione del rapporto di lavoro, in AA.VV., Il rapporto
di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, a cura di C. CESTER, in Diritto del lavoro – Commentario diretto da F. CARINCI, Torino, Utet, 2007, p. 1724 ss.; P. SANNA, L. VICHI, A. BOSCO
(a cura di), Maternità e paternità nel rapporto di lavoro, in “Manuali de Il Sole 24 Ore”, 2012,
n. 7; G. SANTORO PASSARELLI, Diritto dei lavori, Diritto sindacale e rapporti di lavoro, Torino, Giappichelli, 2013; R. SCHIAVONE, Riordino di congedi, aspettative e permessi, in “Diritto e pratica
del lavoro”, 2011, p. 2007; P. SORDI, C. PAPETTI, A. PALLADINI, G. MIMMO, I. FEDELE, L. DI PAOLA, La riforma del lavoro, Milano, Giuffrè, 2013.
5
«Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla
formazione e per il coordinamento dei tempi delle città».
6
«Testo unico delle disposizioni legislative in materia e sostegno della maternità e paternità».
7
Gli elementi essenziali della normativa del 2001, consistono: nel riconoscimento di una astensione dal lavoro a favore della madre (Capo III T.U.), denominata congedo di maternità (art. 2, co.
1, lett. a, T.U.); nonché del padre (Capo IV T.U.), definita congedo di paternità (art. 2, co. 1, lett.
b, T.U.); di una successiva astensione a titolo di congedo parentale (art. 2, co. 1, lett. c, T.U.), riconosciuto ad entrambi i genitori (Capo V T. U.); di riposi giornalieri (artt. 39, 40, 41 e 45 co. 1, T.U.);
di congedi per malattia del figlio (Capo VII T.U.) e del divieto di licenziamento, dimissioni e diritto al rientro (artt. 54, 55, e 56 T. U.).
8
In tale linea, F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI, T. TREU, Diritto del lavoro II, Il
rapporto di lavoro subordinato, Torino, Utet, 2001, p. 344.
310
Le tutele del padre lavoratore
In particolare con la legge «Fornero» si è affiancato al previgente congedo di paternità (ex. art. 28 T.U.), rivolto ai casi patologici, un «nuovo»
congedo di paternità fisiologico (art. 4, co. 24, lett. a) L. n. 92/2012) che
ammonta nel suo complesso a tre giorni, integralmente compensati, distinti al loro interno in due mini-segmenti, l’uno di un giorno, l’altro di
due, con diversa qualificazione giuridica e diverse condizioni di fruizione e di copertura finanziaria9.
2. I congedi di paternità
La principale innovazione della legislazione a tutela del padre lavoratore è costituita dalla previsione del congedo di paternità, declinato per la prima volta dall’art. 13 della L. n. 53/2000 (che ha aggiunto alla
legge n. 903/77 l’art. 6 bis10) e disciplinato ora dall’art. 28 del T. U.
Al congedo previsto dal T.U. se ne aggiungono altri due disposti dalla L. n. 92/2012 (art. 4, comma 24, lett. a)).
Con il T. U. il congedo di paternità trova una propria autonoma collocazione nella disciplina della materia in quanto finalizzato alla protezione della sfera affettiva del bambino nel nucleo familiare. Infatti, il legislatore del 2001 dedica all’istituto un intero Capo, il IV, prevedendo,
la possibilità per il padre, lavoratore dipendente o libero professionista11,
9
Cfr. D. GOTTARDI, La condivisione delle responsabilità genitoriali in salsa italiana, in “Lavoro e diritto”, 2012, 611; T. VETTOR, Congedo di maternità, di paternità e parentale tra orientamenti giurisprudenziali e recenti novità legislative, in “Argomenti di diritto del lavoro”, 2013,
p. 717 e 718.
10
Ai sensi dell’art. 6 bis della L. n. 903/77: «1. Il padre lavoratore ha diritto di astenersi dal lavoro nei primi tre mesi dalla nascita del figlio, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del
bambino al padre.
2. Il padre lavoratore che intenda avvalersi del diritto di cui al comma 1 presenta
al datore di lavoro la certificazione relativa alle condizioni ivi previste. In caso di abbandono, il padre lavoratore ne rende dichiarazione ai sensi dell’articolo 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15.
3. Si applicano al padre lavoratore le disposizioni di cui agli articoli 6 e 15, commi 1 e 5, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni.
4. Al padre lavoratore si applicano altresì le disposizioni di cui all’articolo 2 della
legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni, per il periodo di astensione dal lavoro di cui al comma 1 del presente articolo e fino al compimento di un anno di
età del bambino».
11
Per la spettanza del diritto anche al padre libero professionista in alternativa alla
madre, cfr. Corte Cost. 14 ottobre 2005, n. 385, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2006, 131; Cass. 15 gennaio 2013, n. 809, in “Diritto e pratica del lavoro”, 2013, 2778.
311
Francesco Belmonte
in alternativa alla madre12, di assentarsi dal lavoro per tutta la durata del
congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice (art. 28, co. 1, T. U., e successive modifiche ed integrazioni)13.
L’astensione del padre14, però, non è automatica essendo subordinata al verificarsi di alcuni casi particolarmente gravi e tassativamente
previsti (art. 28, co. 1, T.U.), e cioè: - decesso o grave infermità della madre15; - abbandono del figlio da parte della madre16; - affidamento esclusivo del figlio al padre17.
Si tratta, a ben vedere, di specifiche situazioni in cui il figlio appena
nato non può usufruire dell’assistenza materna e nelle quali, quindi, il dovere di assistenza si trasferisce sul padre lavoratore, seppur con diverse gradazioni: in caso di decesso, abbandono della madre ed affidamento esclusivo al padre, il periodo di congedo riguarda i 3 mesi successivi al parto;
mentre nell’ ipotesi di grave infermità della madre, insorta già durante la
gravidanza, il periodo tutelato comprende sia i 2 mesi precedenti la data
presunta del parto, sia i 3 mesi successivi alla nascita18.
12
Beneficiaria, a sua volta, di una specifica tutela all’interno dei T. U. (v. Capo II e III).
Tale diritto era già stato riconosciuto da Corte Cost. 19 gennaio 1987, n. 1, in “Rivista giuridica di lavoro e previdenza sociale”, 1987, II, 3, secondo cui: «ferma restando la
tutela della salute della madre nel periodo immediatamente successivo al parto, per consentire il recupero delle energie necessarie per riprendere il lavoro la ratio della normativa sul congedo di maternità è volta soprattutto a tutelare il rapporto che in tale periodo
si sviluppa tra madre e figlio, sia per quanto attiene ai bisogni biologici, sia con riferimento alle esigenze di carattere razionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della persona». Anche la giurisprudenza di merito appare sempre più orientata ad incentivare la
presenza dei padri lavoratori, rilevando che «stante il diritto autonomo del padre, la durata del congedo cui lo stesso ha diritto deve essere riferita a quello di maternità cui entrambi i genitori hanno autonomamente diritto» (Trib. Firenze, 16 novembre 2009, in “Rivista critica di diritto del lavoro”, 2009, 288, con nota di A. RANFAGNI). Si veda anche P. BELLOCCHI, La nuova previdenza sociale, Padova, Cedam, 2012, p. 691.
14
Non è invece condizione necessaria per la fruizione del congedo di paternità che
la madre sia titolare del diritto a godere del congedo di maternità. Sul punto cfr. Trib. Firenze 16 novembre 2009, cit.; R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1519.
15
Cfr. Trib. Firenze 16 novembre 2009, cit., secondo cui «il congedo spetta al padre
anche nell’ipotesi in cui la madre, ammalata, non sia o non sia stata lavoratrice».
16
v. R. DEL PUNTA, La nuova disciplina dei congedi parentali, familiari e formativi, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2000, p. 164 secondo cui «l’ipotesi di abbandono rinvia ad una situazione di fatto nella quale il padre si trova a curare da solo, come unico genitore, anche solo temporaneamente, la vita del neonato, indipendentemente da eventuali provvedimenti dell’autorità giudiziaria competente».
17
Cfr. Corte Cost. 14 gennaio 1987, n. 1, cit.; L. GALANTINO, Diritto del lavoro, Torino,
Giappichelli, 2012, p. 245.
18
Il padre lavoratore che intende avvalersi del congedo deve presentare la domanda
secondo le modalità telematiche (disciplinate dalla Determinazione INPS 24 giugno 2011, n.
13
312
Le tutele del padre lavoratore
Durante il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, il padre ha
diritto al medesimo trattamento economico previsto per le madri lavoratrici; egli ha cioè diritto ad un’ indennità pari all’80% della retribuzione19 di regola corrisposta in via anticipata dal datore di lavoro e successivamente posta a conguaglio con i contributi previdenziali da versare
all’INPS (art. 29, co. 1,T. U.; INPS Msg. 18 aprile 2013, n. 6499).
La tutela di cui gode il padre lavoratore riguarda sia i padri di figli legittimi e naturali che quelli adottivi e affidatari. In caso di adozione nazionale il padre può fruire del congedo entro il 5° mese dall’effettivo ingresso in famiglia del minore; mentre, nel caso di adozione internazionale ne può beneficiare entro i 5 mesi successivi all’ingresso del minore in Italia. (art. 31,T. U., come sostituito dall’art. 2, co. 454 , L. n.
244/2007; INPS Circ. 4 febbraio 2008, n. 16)20.
In linea con alcuni indirizzi risalenti della Corte Costituzionale21, la
L. n. 92/2012 affianca, alle misure previste dal T. U., altre (sperimentali
per gli anni 2013 – 2015), volte alla promozione di una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia
e con lo scopo di favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro22.
277) e deve produrre al datore di lavoro, la certificazione relativa alle condizioni sopra elencate (art. 28, co. 2, T.U.; INPS, msg. 4 aprile 2007, n. 8774); ossia: -certificazione di morte della madre (nell’ipotesi di decesso); -certificazione medica attestante la grave infermità della madre (nell’ipotesi di grave infermità); -autocertificazione relativa all’abbandono del bambino
da parte della madre (nell’ipotesi di abbandono del figlio);-provvedimento giudiziale che attesti l’affidamento esclusivo al padre (nell’ipotesi di affidamento esclusivo del figlio).
19
Il lavoratore padre a tempo parziale, beneficiario, in virtù del principio di non discriminazione, del diritto al congedo di paternità, può godere del relativo trattamento economico (indennità di paternità) che è, in tal caso, riproporzionato in ragione della ridotta
entità della prestazione lavorativa (art. 60, co. 1, T. U.).
20
Il padre adottivo o affidatario può fruire del congedo di paternità all’unica condizione che la madre non abbia richiesto di godere del corrispondente congedo di maternità, come disciplinato dall’art. 26, co. 1, 2 e 3 T. U. Cfr. R. DE LUCA TAMAJO , O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1520.
21
Una sentenza chiave è stata quella della Corte Cost. n. 1/1987, che ha condizionato l’evoluzione legislativa e iniziato quel processo che ha condotto la Corte a «riscrivere alcune delle norme in tema di tutela del lavoro femminile nella duplice prospettiva dell’affermazione di una parità sostanziale uomo-donna anche nello svolgimento dei c.d. compiti di cura nei confronti dei figli e di una più sviluppata coscienza della funzione sociale
della maternità e della concorrente considerazione degli interessi del bambino». Così, P.
CHIRULLI, La Corte cost. pronuncia una parola chiara in merito alla (non) spettanza dell’indennità di maternità al padre libero professionista in caso di filiazione naturale, in “Giurisprudenza costituzionale”, 2010, p. 4013.
22
v. G. AMOROSO, V. DI CERBO, A . MARESCA, op. cit., 1935 ss.; M. MAGNANI, M. TIRABOSCHI, op. cit., p. 326; P. SORDI, C. PAPETTI, A. PALLADINI, G. MIMMO, I. FEDELE, L. DI PAOLA,
op. cit., p. 619 ss.
313
Francesco Belmonte
Si tratta tuttavia di misure sperimentali.
Nel dettaglio, sono stati introdotti due nuovi congedi: il primo obbligatorio (non sostitutivo della madre) di 1 giorno ed il secondo facoltativo (alternativo al congedo obbligatorio della madre) di 2 giorni23, entrambi non frazionabili ad ore (art. 4, co. 24, lett. a), L. n. 92/2012; D.M.
22 dicembre 2012; INPS Circ. 14 marzo 2013, n. 40 e 23 dicembre 2013,
n. 181; INPS Msg 26 luglio 2013, n. 12129)24.
Il congedo obbligatorio di un giorno è fruibile dal padre entro e non
oltre 5 mesi dalla nascita del figlio25 e spetta anche al padre che si avvale del congedo di paternità ex art. 28, T. U. nei casi di grave infermità, decesso o assenza della madre (art. 1, co. 6, D.M. 22 dicembre 2012).
Tale congedo si configura come un diritto autonomo e pertanto è
aggiuntivo al congedo di maternità della madre ed è fruibile dal padre
anche durante la fruizione da parte della lavoratrice dello stesso congedo di maternità (art. 1, co. 2, D.M. 22 dicembre 2012; INPS Circ. n. 40/2013).
Il padre lavoratore, può anche beneficiare di un congedo facoltativo (alternativo alla madre) astenendosi, entro il 5° mese di vita del minore26 dal lavoro per un periodo di 1 o 2 giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre e in sostituzione del congedo obbligatorio spettante alla stessa27.
Pertanto, la fruizione, da parte del padre, del congedo facoltativo
è «condizionata alla scelta della madre lavoratrice di non fruire di altret23
In argomento, v. AA. VV., Congedo obbligatorio e facoltativo del padre lavoratore, in “Pratica lavoro”, 2013, p. 597.
24
Tali particolari istituti non sono direttamente applicabili ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’art.1, co. 2, T. U., in quanto, come disposto dall’art.1, co.
7 e 8, L. n. 92/2012, l’applicazione delle disposizioni della medesima legge è subordinata
all’approvazione di apposita normativa su iniziativa del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione. Di conseguenza, per i dipendenti pubblici rimangono validi ed applicabili gli ordinari istituti, di cui agli artt. 28, 29, 30, 31, T. U., e quelli disciplinati nel CCNL di comparto (DFP Nota 20 febbraio 2013, n. 8629).
25
Ovvero entro il 5° mese dall’effettivo ingresso in famiglia del minore, nel caso di adozione nazionale o dall’ingresso del minore in Italia, nel caso di adozione internazionale.
26
Ovvero entro il 5° mese dall’effettivo ingresso in famiglia del minore, nel caso di adozione nazionale o dall’ingresso del minore in Italia, nel caso di adozione internazionale.
27
v. R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. loc. cit., p. 1520, ove si rileva che il diritto a fruire di tali giorni spetti in via prioritaria alla madre e solo in via subordinata al padre. Nella stessa direzione, F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI, T. TREU, op. cit., p. 347,
secondo cui « i due giorni di astensione facoltativa sono previsti come “sostitutivi” di un
numero pari di giorni di astensione obbligatoria della madre, che vengono perciò da questa sottratti: ne deriva che solo nel caso in cui la madre non abbia ancora concluso il proprio periodo di astensione obbligatoria, il congedo del padre sia fruibile, risultandone invece impedito nel caso in cui la madre sia già tornata al lavoro».
314
Le tutele del padre lavoratore
tanti giorni del proprio congedo di maternità, con conseguente anticipazione del termine finale del congedo post partum della madre per un
numero di giorni pari al numero di giorni fruiti dal padre» (art. 1, co. 3,
D.M. 22 dicembre 2012)28.
L’Inps è intervenuta in materia con la Circolare 14 marzo 2013, n.
40 chiarendo che, il congedo facoltativo del padre spetta anche se la
madre, pur avendone diritto, non si avvale del congedo di maternità29
e, qualora quest’ultima se ne avvalga, può essere goduto anche contemporaneamente all’astensione della madre (art. 1, co. 4, D.M. 22 dicembre 2012)30.
Per fruire dei congedi introdotti dalla legge Fornero, il padre lavoratore dipendente ha l’onere di comunicare preventivamente al datore di
lavoro, in forma scritta, i giorni prescelti per il congedo obbligatorio o facoltativo, con un preavviso di almeno 15 giorni, ove possibile in relazione all’evento nascita, e in base alla data presunta del parto (art. 3, co. 1, D.M.
22 dicembre 2012; INPS Circ. n. 40/2013)31. La forma scritta di tale comunicazione può essere sostituita dall’utilizzo, ove presente, del sistema informativo aziendale per la richiesta e la gestione delle assenze.
Inoltre, nel caso di domanda di congedo facoltativo, trattandosi, come
detto, di fruizione alternativa a quella del congedo di maternità, alla richiesta deve essere allegata una dichiarazione della madre «di non fruizione del congedo di maternità a lei spettante per un numero di giorni
equivalente a quello fruito dal padre, con conseguente riduzione del medesimo»(art. 3, co. 2, D.M. 22 dicembre 2012). Tale dichiarazione va presentata anche al datore di lavoro della madre a cura di uno dei due genitori (INPS Circ. n. 40/2013).
L’Inps (Circ. n. 40/2013) ha specificato che «il congedo obbligatorio ed il congedo facoltativo del padre sono fruibili in costanza di rap-
28
Si tratta, pertanto, di un diritto non autonomo (come il congedo obbligatorio), bensì derivato da quello della madre (INPS Circ. n. 40/2013).
29
Si ritiene che tale eventualità ricorra, ad esempio, nell’ipotesi di parto prematuro
o di decesso del bambino; eventi che danno luogo alla possibilità di richiedere, nel primo
caso, di posticipare la fruizione del congedo di maternità al momento dell’effettivo rientro a casa della madre e del bambino e, nel secondo caso, di rientrare al lavoro rinunciando alla parte restante del congedo di maternità previa richiesta al datore di lavoro. Così P.
SALAZAR, Tutela della maternità e paternità, in “Officina del Diritto”, 2013, p. 42.
30
Sul punto v. anche, AA.VV.,Congedo obbligatorio, cit., p. 597.
31
«Il preavviso minimo di 15 giorni non ammette eccezioni, neppure il ricorrere di
casi di oggettiva impossibilità, potendo il padre, in tal caso, far ricorso al congedo parentale secondo quanto disposto dall’art. 32, co. 3, T. U.(“Congedo parentale”)». Così, R. DE
LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1520.
315
Francesco Belmonte
porto di lavoro, nonché nelle ipotesi descritte dall’art. 24, T. U.32 In particolare, entrambi i congedi possono essere richiesti anche durante il periodo indennizzato per disoccupazione (ASpI e mini ASpI) e, nel periodo transitorio, durante la percezione dell’indennità di mobilità e del trattamento di integrazione salariale a carico della cassa integrazione guadagni con le stesse modalità previste dall’art. 24, T. U., con riferimento
ai periodi di congedo di maternità.
32
L’art. 24, T. U. così dispone: «1. L’indennità di maternità è corrisposta anche nei casi
di risoluzione del rapporto di lavoro previsti dall’articolo 54, comma 3, lettere b) e c), che si
verifichino durante i periodi di congedo di maternità previsti dagli articoli 16 e 17. (1)
2. Le lavoratrici gestanti che si trovino, all’inizio del periodo di congedo di maternità, sospese, assenti dal lavoro senza retribuzione, ovvero, disoccupate, sono ammesse al
godimento dell’indennità giornaliera di maternità purché tra l’inizio della sospensione, dell’assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni.
3. Ai fini del computo dei predetti sessanta giorni, non si tiene conto delle assenze
dovute a malattia o ad infortunio sul lavoro, accertate e riconosciute dagli enti gestori delle relative assicurazioni sociali, né del periodo di congedo parentale o di congedo per la
malattia del figlio fruito per una precedente maternità, né del periodo di assenza fruito per
accudire minori in affidamento, né del periodo di mancata prestazione lavorativa prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale.
4. Qualora il congedo di maternità abbia inizio trascorsi sessanta giorni dalla risoluzione del rapporto di lavoro e la lavoratrice si trovi, all’inizio del periodo di congedo stesso, disoccupata e in godimento dell’indennità di disoccupazione, ha diritto all’indennità
giornaliera di maternità anziché all’indennità ordinaria di disoccupazione.
5. La lavoratrice, che si trova nelle condizioni indicate nel comma 4, ma che non è
in godimento della indennità di disoccupazione perché nell’ultimo biennio ha effettuato
lavorazioni alle dipendenze di terzi non soggette all’obbligo dell’assicurazione contro la
disoccupazione, ha diritto all’indennità giornaliera di maternità, purché al momento dell’inizio del congedo di maternità non siano trascorsi più di centottanta giorni dalla data
di risoluzione del rapporto e, nell’ultimo biennio che precede il suddetto periodo, risultino a suo favore, nell’assicurazione obbligatoria per le indennità di maternità, ventisei contributi settimanali.
6. La lavoratrice che, nel caso di congedo di maternità iniziato dopo sessanta giorni dalla data di sospensione dal lavoro, si trovi, all’inizio del congedo stesso, sospesa e in
godimento del trattamento di integrazione salariale a carico della Cassa integrazione guadagni, ha diritto, in luogo di tale trattamento, all’indennità giornaliera di maternità.
7. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai casi di fruizione
dell’indennità di mobilità di cui all’articolo 7 (“Indennità di mobilità”) della legge 23 luglio 1991, n. 223 (“Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre
disposizioni in materia di mercato del lavoro”).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza del 14 dicembre 2001, n. 405, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui non esclude la corresponsione dell’indennità di maternità nell’ipotesi prevista dall’art. 54, co. 3, lett. a), del
medesimo decreto legislativo».
316
Le tutele del padre lavoratore
Inoltre, per entrambi i congedi sono riconosciuti gli assegni per il
nucleo familiare (ANF)».33
A differenza del congedo ex art. 28 T.U.34, per i giorni di congedo
obbligatorio e facoltativo, l’indennità giornaliera, a carico dell’INPS, è pari
al 100% della retribuzione (art. 2, D.M. 22 dicembre 2012; INPS Circ. n.
40/2013). Le modalità di erogazione sono le medesime previste dal T.
U.: pertanto, l’indennità sarà anticipata dal datore di lavoro e successivamente conguagliata, fatti salvi i casi in cui sia previsto il pagamento
diretto da parte dell’INPS (INPS Circ. 14 marzo 2013, n. 40)35.
I congedi di paternità36 ( ex art. 28 T. U e art. 4 co., 24, lett. a) L. n.
92/2012), producono degli effetti sul rapporto di lavoro (art. 29 e 30 T.
U.). Tali periodi, infatti, si computano nell’anzianità di servizio a tutti gli
effetti, compresi quelli relativi alla tredicesima mensilità (o alla gratifica natalizia) ed alle ferie (art. 22, co. 3, e art. 29 T. U.). Le assenze dal lavoro motivate dalla fruizione dei congedi di paternità sono considerate, ai fini della progressione nella carriera, come attività lavorativa, quando i contratti collettivi non richiedano a tale scopo particolari requisiti37
(art. 22, co. 5 e art. 29 T. U.). Diversamente, le ferie annuali e tutte le altre assenze eventualmente spettanti al lavoratore ad altro titolo non possono essere usufruite contemporaneamente ai periodi di congedo di paternità (art. 22, co. 6, e art. 29 T. U.) considerato che diverse sono le funzioni attribuite alle due tipologie di sospensione del rapporto di lavoro38.
33
Così, INPS Circ. 14 marzo 2013, n. 40, punto 5.
Che da diritto ad un indennità, ai sensi dell’art. 29, co. 1 T. U., pari all’80% della
retribuzione.
35
In tema cfr. F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI, T. TREU, op. cit., p. 347; R. DE
LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1513 ss.; P. SANNA, L. VICHI, A. BOSCO, op. cit., p. 20.
36
Così come il congedo di maternità.
37
In merito si è espressa la Corte di Giustizia UE 18 novembre 2004, C-284/02, la quale ha riconosciuto che «nel rispetto del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione
professionali e le condizioni di lavoro, è escluso che un contratto collettivo possa escludere dal computo di un periodo minimo di anzianità di servizio per essere inquadrati ad un
livello retributivo superiore, la parte del periodo durante il quale la lavoratrice ha usufruito di un congedo di maternità (anche se eccedente il periodo di astensione dal lavoro minimo), perché comunque i periodi di congedo di maternità rispondono agli obiettivi di tutela della donna per quanto riguarda la gravidanza e la maternità». Cfr. anche P. BELLOCCHI, op. cit., p. 682 e 683.
38
Al riguardo, si segnala la sentenza della Corte di Giustizia UE 18 marzo 2004, C342/01, in cui si precisa che «la finalità delle ferie annuali è diversa da quella del diritto
al congedo di maternità; le ferie, infatti, assicurano riposo effettivo per permettere il recu34
317
Francesco Belmonte
Infine, per quel che concerne il trattamento previdenziale, ai fini dell’accreditamento dei contributi figurativi per il diritto alla pensione e per
la sua determinazione, non è richiesta, in costanza di rapporto di lavoro, alcuna anzianità contributiva pregressa (art. 25, co. 1, e art. 30 T. U.).
3. Il congedo parentale
Nel titolo V del T. U. il Legislatore procede ad una sostanziale rivisitazione della disciplina dell’astensione facoltativa sulla scia delle novità introdotte, a livello nazionale, dalla legge n. 53 del 2000 e in ambito comunitario, dalla direttiva n. 96/34/CEE. In tal senso, il T. U., parla
espressamente di «congedo parentale»39; cioè di quel congedo facoltativo, fruibile da entrambi i genitori, ulteriore rispetto ai congedi di maternità e paternità.40
I genitori, in alternativa o contemporaneamente41, possono beneficiare del congedo per ogni figlio nei primi 8 anni di vita dello bambino42
o, in caso di adozione o affidamento, entro i primi 8 anni dall’ingresso
del bambino nel nucleo familiare (artt. 32, co. 1, e 36, co. 2 T. U.).
pero psico-fisico ed assicurano una tutela efficace della salute e sicurezza dei lavoratori.
Il congedo di maternità, invece, è finalizzato a proteggere sia la condizione biologica della lavoratrice che il rapporto tra madre e figlio successivamente al parto». La Corte ha sostenuto, inoltre, che «le ferie annuali vanno godute in un periodo diverso dal congedo di
maternità anche in caso di coincidenza tra quest’ultimo e quello stabilito a titolo generale, da un contratto collettivo, per le ferie annuali della totalità del personale».
39
Art. 2, lett. c), T. U., e successive modifiche ed integrazioni.
40
v. G. AMOROSO, V. DI CERBO, A. MARESCA, op. cit., p. 1916.
41
Il congedo parentale spetta al genitore richiedente anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto
(art. 32, co. 4, T. U.).
42
Secondo Cass. 16 giugno 2008 n. 16207, in “Foro italiano”, 2008, I, p. 2451 e in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2009, p. 151: « iI congedo deve essere utilizzato per
l’accudienza diretta del bambino, sicché costituisce illecito disciplinare sanzionabile col licenziamento la destinazione del congedo ad altre attività (nella specie lavoro nella pizzeria di famiglia)». A proposito dell’attività di vendita al mercato del pesce in sostituzione
di un congiunto svolta dalla lavoratrice madre in astensione facoltativa, considerata compatibile con la cura del figlio stante la sua limitazione a poche ore per una o due mattine
la settimana, cfr. Cass. 27 aprile 1987 n. 4079, in “Foro italiano”, 1988, I, p. 203. Il lavoro sporadico per una ditta concorrente durante un congedo familiare non retribuito è stato ritenuto insufficiente a giustificare il licenziamento anche in considerazione della necessità di
percepire una retribuzione (Cass. 25 marzo 2011 n. 7021, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2011, 645). Per la possibilità di godimento frazionato del congedo anche prima della previsione legale espressa, cfr. Cass. 28 ottobre 1981 n. 5660, in “Rivista giuridica di lavoro e previdenza sociale”, 1981, n. 3, p. 247.
318
Le tutele del padre lavoratore
Tra le principali innovazioni vi è l’ampliamento del novero dei soggetti beneficiari: di fatti, con il T. U., la tutela in esame è destinata ai lavoratori e alle lavoratrici subordinati e alle lavoratrici autonome43. Restano esclusi, invece, i lavoratori autonomi44, le lavoratrici e i lavoratori addetti a servizi domestici e familiari e i lavoratori e le lavoratrici a domicilio.
Nel dettaglio, il diritto al congedo parentale è riconosciuto:
- alla madre lavoratrice45, trascorso il periodo di congedo di maternità, per un periodo (continuativo o frazionato) non superiore a 6 mesi
(art. 32, co. 1, lett. a), T. U.);
- al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo (continuativo o frazionato) non superiore a 6 mesi elevabile a 746 (art. 32, co.1,
lett. b),T. U.);
- ad entrambi i genitori47 (fruizione contemporanea) per un periodo complessivo massimo di 11 mesi (art. 32, co. 2, T. U.);
- qualora vi sia un solo genitore (c.d. genitore “solo”)48, per un periodo (continuativo o frazionato) non superiore a 10 mesi (art. 32, co. 1,
43
Ossia: lavoratrici a progetto e categorie assimilate, coltivatrici dirette, mezzadre,
colone, artigiane ed esercenti attività commerciali.
44
Si veda INPS Circ. 17 marzo 2006, n. 46.
45
Le lavoratrici madri autonome ( a progetto e categorie assimilate, coltivatrici dirette, mezzadre, colone, artigiane ed esercenti attività commerciali) possono astenersi dal
lavoro per 3 mesi entro il primo anno di vita del bambino (art. 69, co. 1, T. U., modificato
dall’art. 6, co. 1, lett. a), D. Lgs. n. 115/2003 e art. 1, co. 788, L. n. 296/2006).
46
«Qualora il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a tre mesi, il limite complessivo dei congedi parentali dei genitori è elevato a undici mesi». (art. 32, co. 2, T. U.). L’opportunità di poter fruire di un mese in più di congedo, a ben vedere, ha la precisa finalità di motivare il lavoratore padre a usufruire dei congedo parentale. In tema v. AA. VV., Il diritto privato nella giurisprudenza, Lavoro II, Il lavoratore, a cura di P. CENDOM, Torino, Utet, 2009, p. 497.
47
In attuazione del principio di non discriminazione, la lavoratrice e il lavoratore a
tempo parziale beneficiano del medesimo diritto al congedo parentale previsto per i dipendenti a tempo pieno comparabili, con riproporzionamento del relativo trattamento economico (indennità per congedo parentale), in ragione della ridotta entità della prestazione
lavorativa (art. 60, co. 1,T. U.).
48
L’INPS ha chiarito in più occasioni la condizione di genitore «solo». Secondo Circ.
17 gennaio 2003, n. 8, “la situazione di «genitore solo» è riscontrabile, «oltre che nei casi
di morte dell’altro genitore o di abbandono del figlio o di affidamento esclusivo del figlio
ad un solo genitore, anche nel caso di non riconoscimento del figlio da parte di un genitore»; con Msg. 20 settembre 2007, n. 22911, ha riconosciuto la condizione di genitore «solo»
anche nel caso in cui «l’altro sia colpito da grave infermità, trattandosi di situazione che,
anche se circoscritta, può di fatto impedire al genitore gravemente infermo di prendersi
cura della prole. In tale ipotesi, pertanto, il genitore solo potrà fruire del maggior periodo
di congedo riconosciuto fino al compimento degli otto anni di età del bambino».
319
Francesco Belmonte
lett. c), T. U.);
- al lavoratore e alla lavoratrice49 adottivi o affidatari, secondo le modalità previste dall’art. 32 T. U., entro i primi 8 anni dall’ingresso del minore nel nucleo familiare, indipendentemente dall’età del bambino all’atto dell’adozione o affidamento e, comunque, non oltre il compimento della maggiore età (art. 36 T. U. ).
In caso di parto gemellare o plurigemellare, ciascun genitore ha diritto a fruire, per ogni nato, del numero di mesi di congedo parentale previsti dall’art. 32, T. U. Conseguentemente, anche il limite massimo dei mesi
usufruibile va moltiplicato per il numero di gemelli nati50.
Per usufruire del congedo parentale, la lavoratrice o il lavoratore deve
presentare apposita domanda51 all’INPS ed all’azienda52.
Salvo casi di oggettiva impossibilità53, il genitore che intenda eser-
49
Per le lavoratrici madri autonome adottive o affidatarie, il periodo di astensione
facoltativa è usufruibile entro il 1° anno dall’ingresso in famiglia del minore (art. 69, co. 1bis,
T. U.; art. 1, co. 788, L. n. 296/2006; INPS Circ. nn. 137/2007 e 77/2013).
50
Il periodo di congedo massimo usufruibile complessivamente non può, comunque,
superare i 20 mesi, elevabili a 22 nel caso in cui il padre usufruisca del congedo parentale per
un periodo non inferiore a tre mesi per ciascun figlio. La medesima disciplina trova applicazione anche per le adozioni e gli affidamenti plurimi (INPS Circ. 17 gennaio 2003, n. 8).
51
Tramite il modello “AST/FAC” (INPS, Msg. 25 maggio 2006, n. 15195) al quale va
allegata la seguente documentazione:
a) per i figli biologici: - certificato di nascita o autocertificazione, da cui risultino la
paternità e la maternità;
b) per le adozioni e gli affidamenti nazionali: copia del provvedimento di adozione o di affidamento e copia del documento rilasciato dall’autorità competente da cui risulti la data di effettivo ingresso del minore in famiglia;
c) per le adozioni e gli affidamenti internazionali:
1) copia del certificato dell’Ente autorizzativo da cui risulti la data di effettivo ingresso del minore in famiglia;
2) copia dell’autorizzazione all’ingresso in Italia del minore rilasciata dalla commissione adozioni internazionali;
3) nel caso di provvedimento straniero di adozione, copia del decreto di trascrizione nel registro di stato civile emesso dal tribunale dei minori (o autocertificazione);
d) per il genitore “solo”, alternativamente, a seconda dei casi: - certificato di morte
dell’altro genitore o autocertificazione; - specifica certificazione medica rilasciata dal Servizio Sanitario Nazionale che attesti la grave infermità dell’altro genitore; - autocertificazione dell’abbandono del figlio da parte dell’altro genitore; - copia del provvedimento del
giudice da cui risulti l’affidamento esclusivo del figlio al richiedente.
52
In presenza di 2 o più figli gemelli occorrerà presentare separate domande sul modello AST/FAC (INPS Msg 27 giugno 2001, n. 569).
53
Nei quali il lavoratore sarà tenuto semplicemente a comunicare l’astensione al datore di lavoro, per evitare di incorrere in sanzioni disciplinari. In tal senso v. M. L. VALLAURI, Il congedo parentale .Commento alla Legge 8 marzo 2000, n. 53, a cura di R. DEL PUNTA, D.
GOTTARDI, in “Il sole 24 ore”, 2001, p. 43.
320
Le tutele del padre lavoratore
citare il diritto al congedo parentale è tenuto a dare preavviso al datore
di lavoro, secondo le modalità ed i criteri definiti dai contratti collettivi,
entro un termine non inferiore a 15 giorni, indicando l’inizio e la fine del
periodo di congedo54 (art. 32, co. 3, T. U., come modificato dall’art. 1, co.
339, L. n. 228/2012).
La contrattazione collettiva di settore55 può, però, prevedere modalità di fruizione del congedo parentale anche su base oraria, con individuazione dei criteri di calcolo della stessa e con l’equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa (art. 32, co. 1-bis,T.
U. , introdotto dall’art. 1, co. 339, L. 24 dicembre 2012, n. 228)56.
Il lavoratore ed il datore di lavoro57 possono concordare adeguate
misure di ripresa dell’attività lavorativa, tenendo conto di quanto eventualmente previsto dalla contrattazione collettiva (art. 32, co. 4-bis T. U.,
introdotto dall’art. 1, co. 339, lett. c), L. n. 228/2012).
Per quanto attiene al trattamento economico ai lavoratori e alle lavoratrici58 (anche adottivi o affidatari) che fruiscono del congedo paren-
54
Sul punto cfr. Trib. Venezia 7 settembre 2001, in “Il lavoro nella giurisprudenza”, 2001,
1052, con nota di R. NUNIN, Congedi parentali e tutela dei diritti del padre lavoratore: novità normative ed orientamenti giurisprudenziali; Trib. Venezia 3 luglio 2001, ivi, 956, con nota di R. NUNIN, Diritti dei padri lavoratori ed esigenze dell’impresa: primi interventi della giurisprudenza e tutela della fruizione dei congedi parentali. Diversamente, T.a.r. Trentino Alto Adige 24 febbraio 2003,
n. 79, in “Foro amministrativo”, 2003, 403, secondo cui il congedo parentale non può essere
fruito ad libitum, bensì in un contesto programmato dall’amministrazione di appartenenza,
in relazione alle particolari esigenze di servizio. V., altresì, Trib. Trieste, 13 luglio 2007, in “Il
lavoro nella giurisprudenza”, 2007, p. 1114, secondo cui il diritto di godere dei congedi parentali deve essere esercitato secondo buona fede ed in modo da non recare nocumento alla
regolare attività aziendale; R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1522.
55
Il Ministero del Lavoro, con Interpello 22 luglio 2013, n. 25, ha chiarito che «stante l’assenza di un esplicito riferimento a livello “nazionale” della contrattazione, non vi sono
motivi ostativi ad una interpretazione in virtù della quale i contratti collettivi abilitati a disciplinare le modalità di fruizione del congedo parentale di cui al comma 1 [dell’art. 32 D.
Lgs. n. 151/2001] su base oraria, nonché i criteri di calcolo della base oraria e l’equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa” possano essere anche
i contratti collettivi di secondo livello».
56
Per la legittimità di un “furbo” godimento frazionato, con rientro al lavoro il solo
venerdì escludente il computo nel congedo dei giorni di sabato e domenica, cfr. Cass. 4 maggio 2012, n. 6742, in “Foro italiano”, 2012, I,1707, che non ha ritenuto di utilizzare, come
avrebbe dovuto, la categoria dell’abuso del diritto. v. A. VALLEBONA, Istituzioni II, Il rapporto di lavoro, Padova, Giappichelli, 2012, p. 406.
57
Qualora il datore di lavoro rifiuti od ostacoli il diritto al congedo, è soggetto ad
una sanzione amministrativa da euro 516 a euro 2.582 (art. 38,T. U.).
58
Le lavoratrici madri autonome (a progetto e categorie assimilate, coltivatrici dirette, mezzadre, colone, artigiane ed esercenti attività commerciali hanno diritto a percepire
321
Francesco Belmonte
tale, è dovuta un’indennità pari al 30% della retribuzione media giornaliera (RMG) a carico dell’INPS, anticipata dal datore di lavoro e poi recuperata da quest’ultimo attraverso il sistema del conguaglio in sede di
denuncia mensile dei contributi previdenziali (art. 34, co. 1 e 4, T. U., e
successive modifiche ed integrazioni; INPS, Msg. 18 aprile 2013, n. 6499)59.
L’ammontare della prestazione economica è diversificata a secondo del
momento di fruizione del congedo stesso. Difatti, nei casi di congedo fruito per un periodo massimo complessivo tra i genitori di sei mesi e goduto entro il terzo anno di vita del bambino60, l’indennità viene erogata
a prescindere dalle condizioni reddituali dei genitori. Per gli ulteriori periodi di congedo parentale ( oltre il 6° mese e, comunque, fino a 10 (o 11)
mesi, nonché per il congedo fruito oltre il compimento del 3° anno del
bambino), invece, l’indennità e dovuta soltanto « a condizione che il reddito individuale dell’interessato sia inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria» (art. 34, co. 3, T. U.). Quindi la lavoratrice o il lavoratore che possiede un reddito superiore a quello fissato dalla legge, mantiene comunque il diritto a godere del congedo, ma senza retribuzione61.
La fruizione del congedo parentale, ha dei riflessi sul rapporto di
lavoro. Quanto al trattamento normativo, i periodi di congedo parentale sono regolarmente computati nell’anzianità di servizio; ma, a differenza dei congedi obbligatori (di maternità e di paternità), non concorrono
alla maturazione delle ferie né al calcolo della tredicesima mensilità e della gratifica natalizia (art. 34, co. 5, T. U).
una indennità pari al 30% della retribuzione per un periodo di 3 mesi, entro il 1° anno di
vita del bambino (art. 69, co. 1, T. U.; art. 1, co. 788, L. n. 296/2006; INPS Circ. 13 maggio
2010, n. 64; INPS Circ. n. 137/2007).
59
L’indennità è invece erogata direttamente dall’INPS a favore degli operai agricoli, dei lavoratori stagionali a termine e dei lavoratori dello spettacolo a tempo determinato o a prestazione.
60
In caso di adozione e affidamento, “l’indennità di cui all’art. 34, co. 1, T.U.,è dovuta per il periodo massimo complessivo ivi previsto, nei primi tre anni dall’ingresso del
minore in famiglia” (art. 36, co. 3, T. U.)
61
I genitori che durante il periodo di congedo parentale intraprendono una nuova
attività lavorativa di qualsiasi tipo (subordinata, parasubordinata o autonoma), anziché beneficiare del periodo concesso al solo fine di dare sostegno alla famiglia provvedendo alle
cure del neonato, non hanno diritto a percepire alcuna indennità e sono eventualmente obbligati a restituire quanto indebitamente percepito. Le sedi INPS, di conseguenza, dovranno attivarsi per il recupero delle somme già erogate relativamente ai periodi in cui risulti
la contemporaneità tra periodo indennizzato a titolo di congedo parentale e svolgimento
di una nuova attività lavorativa (art. 22, D.P.R. n. 1026/1976; INPS, Circ. n. 134382/1982
e INPS Ferrara, Circ. interna 1 agosto 2005).
322
Le tutele del padre lavoratore
Inoltre, l’astensione facoltativa è computabile ai fini del calcolo del
T.F.R. come periodo lavorato (art. 2110, co. 3, cod. civ.)62.
Per di più, analogamente al congedo di maternità e paternità, i periodi di congedo parentale “si computano ai fini del raggiungimento del
limite minimo di sei mesi di lavoro effettivamente prestato per poter beneficare dell’indennità di mobilità” (art. 34, co. 4 T. U.)63.
In merito al trattamento previdenziale invece, la disciplina è differente se riguarda congedi parentali che danno diritto al trattamento economico (art. 34, co. 1 T. U.) o meno (art. 34, co. 3 T. U. ). Nel primo caso,
infatti, ai fini dell’accreditamento dei contributi figurativi per il diritto
alla pensione e per la sua determinazione, non è richiesta, in costanza di
rapporto di lavoro alcuna anzianità contributiva pregressa (art. 25, co. 1
T. U.); mentre, nel secondo, i periodi di congedo parentale sono coperti
da contribuzione figurativa, il valore retributivo per tale periodo è pari
al 200 per cento del valore massimo dell’assegno sociale, proporzionato ai periodi di riferimento (art. 35, co. 2 T.U.) 64.
4. I riposi giornalieri
Prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 1987, i riposi giornalieri65 erano una prerogativa esclusiva della madre, la quale,
poteva fruirne entro il 1° anno di vita del figlio, per provvedere alle esigenze del bambino stesso (c.d. permessi per allattamento)66 (art. 39, T. U.).
62
Cfr. G. AMOROSO, V. DI CERBO, A. MARESCA, op. cit., p. 921; A. VALLEBONA, op. cit.,
p. 408; Cass. 22 febbraio 1993, n. 2114, in “Rivista giuridica di lavoro e previdenza sociale”, 1994, II, p. 737.
63
Il genitore che durante il periodo di congedo rifiuti l’offerta di lavoro, di impiego in opere o servizi di pubblica utilità, ovvero l’avviamento a corsi di formazione professionale, non viene cancellato dalle liste di mobilità (art. 34, co. 7, T. U.)
64
Salva la facoltà di integrazione da parte dell’interessato, con riscatto ai sensi dell’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, ovvero con versamento dei relativi contributi
secondo i criteri e le modalità della prosecuzione volontaria (art. 35, co. 2 T.U.).
65
Sulla natura giuridica dei riposi giornalieri cfr. Cass., 24 ottobre 1986, n. 6236, in
“Diritto e pratica del lavoro”, 1987, 894 secondo cui: «Il diritto ai riposi giornalieri ha carattere potestativo, sicché il soggetto che non lo esercita non ha diritto al risarcimento del
danno per il suo mancato godimento».
66
In origine l’istituto dei riposi giornalieri era stato concepito come strumento idoneo a consentire alla madre l’allattamento del bambino. Siffatta destinazione è stata estesa, più in generale, alla soddisfazione di ogni esigenza di cura del bambino nel 1° anno di
vita. Cfr. sul punto, Corte Cost. 10 dicembre 1987, n. 559; Cass. 20 dicembre 1986, n. 7800,
in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 1987, p. 60; F. BORGOGELLI, Il lavoro femminile nel contesto italiano, in “Prospettive sindacali”, 1989, n. 72, p. 169; G. COTTRAU, op. cit.,
323
Francesco Belmonte
Poi, in seguito alla pronunzia della Corte, è stato introdotto per la priva
volta, con l’art. 13 della L. n. 53 del 2000 (che ha aggiunto alla L. n. 903/77
l’art. 6 ter67), il diritto ai riposi giornalieri del padre, ora disciplinati dall’art. 40 T. U.
L’attuale disciplina della materia, contenuta nel Capo IV del T. U.,
consente al padre lavoratore (anche adottivo o affidatario)68 di fruire dei
riposi giornalieri69, in alternativa alla madre, al ricorrere di determinate ipotesi. Ossia quando: - i figli siano stati affidati al solo padre; - in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; - nel
caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente70; - in caso di morte
p. 389; R. DEL PUNTA, in Commentario a cura di P. SCHLESINGER, sub. Artt. 2110-2111 c.c., 1992,
p. 715; R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1527.
67
Secondo l’art. 6 ter, L. n. 903/77: «1. I periodi di riposo di cui all’articolo 10 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni, e i relativi trattamenti
economici sono riconosciuti al padre lavoratore:
a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga;
c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”.
68
Ai sensi dell’art. 45, co. 1 , T. U.: “1. Le disposizioni in materia di riposi di cui agli
articoli 39, 40 e 41 si applicano anche in caso di adozione e di affidamento entro il primo
anno dall’ingresso del minore nella famiglia (1) (2).
(1) La Corte Costituzionale con sentenza 1 aprile 2003, n. 104 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui prevede che i riposi di cui agli
articoli 39, 40 e 41, del presente decreto, si applichino, anche in caso di adozione e di affidamento, “entro il primo anno di vita del bambino” anziché “entro il primo anno dall’ingresso del minore nella famiglia».
(2) Comma modificato dall’articolo 8, comma 1, lettera a), del D. Lgs. 18 luglio 2011, n. 119”.
69
Il diritto del padre ai riposi giornalieri è un diritto «derivato» da quello della madre. Sul punto v. P. SALAZAR, op. cit., p. 66.
70
Secondo una prima interpretazione fornita dall’INPS per madre «lavoratrice non
dipendente» doveva intendersi la madre «lavoratrice autonoma (artigiana, commerciante, coltivatrice diretta o colona, imprenditrice agricola, parasubordinata, libera professionista) avente diritto ad un trattamento economico di maternità a carico dell’Istituto o di
altro ente previdenziale» e non anche la madre casalinga, con conseguente esclusione, in
tale ultima ipotesi, del diritto del padre a fruire dei riposi giornalieri salvi, ovviamente, i
casi di morte o grave infermità della madre (cfr. Circ. INPS nn. 109/2000, 8/2003 e 95 bis
2006). Successivamente, il Consiglio di Stato (con sentenza 6 giugno 2008, n. 4293) ha ritenuto che il diritto al riposo giornaliero di cui all’art. 40, T.U. da usufruire fino ad 1 anno
di età del bambino, spetti anche al lavoratore nel caso in cui la moglie sia impegnata come
casalinga. Il Ministero del Lavoro, con Circ. 12 maggio 2009, n. 8494, aveva interpretato l’orientamento del Consiglio di Stato nel senso che i permessi spettavano al padre lavoratore nell’ipotesi in cui la madre casalinga non potesse occuparsi della cura del figlio perché impegnata in altre attività, opportunamente documentate (ad es. accertamenti sanitari, partecipazione a pubblici concorsi, cure mediche, ecc.). Successivamente, il Ministero del Lavoro è tornato sulla questione con lettera circolare 16 novembre 2009, riconoscendo il diritto del padre a fruire dei riposi giornalieri, ex art. 40 T.U., sempre nel caso di madre ca-
324
Le tutele del padre lavoratore
o di grave infermità della madre (art. 40 T. U.).
Le ore di permesso sono considerate lavorative a tutti gli effetti e
comportano il diritto per il genitore ad uscire dall’azienda71. la relativa
distribuzione durante l’orario di lavoro va concordata tra la lavoratrice
(o il lavoratore nei casi previsti dall’art. 40, T. U.) ed il datore di lavoro72,
tenendo anche conto delle esigenze del servizio. I riposi giornalieri non
possono, comunque, subire spostamenti o soppressioni a seguito di particolari eventi che riducono l’orario di lavoro in determinate giornate come,
ad esempio, nel caso di sciopero73.
La durata dei riposi giornalieri è modulata in relazione all’orario di
lavoro. Infatti, se l’orario giornaliero di lavoro è inferiore a 6 ore74 il lavoratore o la lavoratrice avranno diritto ad 1 ora di permesso (un solo
riposo); invece, qualora l’orario giornaliero di lavoro sia pari o superiore alle 6 ore, le ore di permesso saranno 2 (2 riposi di un’ora ciascuno,
anche cumulabili)75 (art. 39, T. U.).
salinga, senza eccezioni ed indipendentemente dalla sussistenza di comprovate situazioni che determinano l’oggettiva impossibilità della madre stessa di accudire il bambino. V.
anche INPS Circ. 15 ottobre 2009, n. 12 e 25 novembre 2009, n. 118; Trib. Venezia 9 febbraio 2012, in “Diritto delle relazioni industriali”, 2012, 852, con nota di T. VETTOR, Riposi giornalieri e congedo per malattia del bambino ex articoli 40 e 47 del decreto legislativo n. 151/2001:
riconoscimento al padre lavoratore anche quando la madre svolga attività casalinga; da ultimo v.
Consiglio di Stato, sentenza 10 settembre 2014, n. 4618 secondo cui: il padre lavoratore può
beneficiare dei riposi giornalieri previsti dall’art. 40 T. U., anche se la moglie è una “casalinga” priva di occupazione.
71
Cfr. A. COSTA, A. FUSCO, Maternità, assistenza a parenti e disabili, in “Diritto e pratica del lavoro”, 2012, p. 1261.
72
Il datore di lavoro che non consenta ai genitori di usufruire dei permessi in esame è punito con una sanzione amministrativa da euro 516 a euro 2,582 (art. 46, T. U.).
73
Infatti, secondo Cass. 20 dicembre 1986, n. 7800, in “Massimario della giurisprudenza italiana”, 1986, “ il diritto ai riposi non è escluso né limitato quantitativamente dalla partecipazione ad uno sciopero effettuato dalla madre in ore diverse da quelle stabilite
per i riposi stessi, mentre il diritto viene meno quando i riposi coincidono con lo sciopero”. V. sul punto anche P. BELLOCCHI, op. cit., p. 701.
74
È possibile riconoscere i riposi giornalieri nel caso limite della lavoratrice madre
a tempo parziale c.d. orizzontale, tenuta, in base al programma contrattuale, ad effettuare solo 1 ora di lavoro nell’arco della giornata (INPS Circ. n. 95 bis/2006). La legge (art. 39,
co. 1,T. U.) non impedisce una tale possibilità, limitandosi soltanto a prevedere l’orario giornaliero di lavoro (6 ore) al di sotto del quale il riposo è pari ad 1 ora, ma non anche l’orario di lavoro minimo necessario per poter fruire del riposo giornaliero. L’eventuale coincidenza del riposo giornaliero con l’unica ora di lavoro, pur comportando la totale astensione della lavoratrice dall’attività lavorativa, non precluderà pertanto il riconoscimento
del diritto al riposo in questione.
75
È ammissibile cumulare le “ore di recupero” – ossia le ore espletate oltre il previsto orario giornaliero di lavoro ed accumulate con il sistema della “banca ore” previsto dai
contratti collettivi – con i riposi giornalieri ex art. 39, T. U. Secondo l’interpretazione del-
325
Francesco Belmonte
Nel caso in cui, però, il datore di lavoro istituisca un asilo nido o un’altra struttura idonea nell’unità produttiva di lavoro o nelle immediate vicinanze, e il genitore ne fruisca, i periodi di riposo saranno di mezz’ora
ciascuno (art. 39, co. 3, T. U.).
Il T. U. prende in considerazione anche le ipotesi di parto plurimo
o plurigemellare. Di conseguenza, a prescindere dal numero dei gemelli, i periodi di riposo spettanti alla lavoratrice madre durante il primo anno
di vita del bambino saranno raddoppiati (art. 41,T. U.)76.
Pertanto, i periodi di riposo saranno pari a:
-2 ore (1+1), qualora l’orario di lavoro sia inferiore alle 6 ore giornaliere;
-4 ore (2+2), qualora l’orario di lavoro è pari o superiore alle 6 ore giornaliere77.
Anche il padre lavoratore può beneficiare delle ore aggiuntive rispetto a quelle previste dall’art. 39 T. U. qualora la madre78 non ne usufruisca (art. 41 T. U.).
Entrambi i genitori e nello specifico il padre che usufruisce dei riposi in questione, hanno diritto ad un’indennità, a carico dell’ INPS, pari
all’intero ammontare della retribuzione relativa ai riposi medesimi (art.
43,T. U.; Circ. INPS 2 dicembre 2003, n. 185). L’indennità è anticipata dal
datore di lavoro ed è portata a conguaglio con gli apporti contributivi dovuti all’ente assicuratore.
In relazione ai riflessi dei riposi sul rapporto di lavoro, questi sono
computati nell’anzianità di servizio, esclusi, però, gli effetti relativi alle
l’INPS, ai fini del diritto ai riposi giornalieri (e al relativo trattamento economico), si deve
prendere a riferimento l’orario giornaliero contrattuale normale – quello, cioè, in astratto
previsto – e non l’orario effettivamente prestato in concreto nelle singole giornate (INPS
Circ. 6 settembre 2006, n. 95-bis). Ne consegue, pertanto, che i riposi sono riconoscibili anche laddove la somma delle ore di recupero e delle ore di allattamento esauriscano l’intero orario giornaliero di lavoro comportando, di fatto, la totale astensione dall’attività lavorativa.
76
La formulazione della previsione, che genericamente fa riferimento a casi di parto plurimo, lascia intendere che trovi applicazione anche nei casi in cui i gemelli siano più
di 2, senza che in tale frangente possa essere richiesta una moltiplicazione delle ore di pausa, previste dalla prima parte della norma, per il numero di figli nati. V. R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1528; Pret. Venezia 15 settembre 1998, in “Guida al lavoro”,1998,
n. 49, p. 24, con nota di D. GOTTARDI.
77
Sul punto cfr. INPS Circ. 6 giugno 2000, n. 109; P. BELLOCCHI, op. cit., p. 702.
78
In caso di parto plurimo di madre lavoratrice autonoma (artigiana, commerciante, coltivatrice diretta, colona, mezzadra, imprenditrice agricola professionale, parasubordinata, libera professionista) e di mancata fruizione da parte della madre per inesistenza
del diritto, il padre lavoratore può usufruire dei predetti riposi giornalieri aggiuntivi (Min.
Lav. Interpello 3 settembre 2007, n. 23; Circ. INPS 6 settembre 2006, n. 95-bis).
326
Le tutele del padre lavoratore
ferie e alla tredicesima mensilità o gratifica natalizia (art. 34, co. 5,T.U.,
richiamato dall’art. 43, co. 2, T. U.). Invece, in merito al trattamento previdenziale la disciplina è la medesima prevista per i congedi parentali che
non danno diritto al trattamento economico: ossia sono coperti da contribuzione figurativa, attribuendo come valore retributivo per tale periodo il 200 per cento del valore massimo dell’assegno sociale, proporzionato ai periodi di riferimento79 (art. 35, co. 2 T. U.).
5. Il congedo per malattia del figlio
Nell’ambito delle tutele predisposte dal T. U. una posizione di rilievo è rivestita dalle misure tese a fronteggiare situazioni imprevedibili determinate dalla malattia della prole.
Con l’entrata in vigore del T. U., la disciplina del congedo per malattia del figlio è risultata ampliata. Di fatto, ha un ambito soggettivo di
applicazione più esteso che comprende entrambi i genitori, titolari ciascuno iure proprio del diritto a fruire del congedo anche quando l’altro genitore non ne abbia diritto80 (art. 47, co. 6 T. U.).
I genitori (anche adottivi e affidatari)81, alternativamente82, hanno cioè
diritto di astenersi dal lavoro per i periodi corrispondenti alle malattie83 di
ciascun figlio (art. 47, co. 1, T. U., e successive modifiche ed integrazioni).
Il sistema di tutela predisposto in caso di malattia del figlio, però,
risulta diversificato, distinguendo a seconda che il bambino abbia superato o meno i 3 anni d’età84. In particolare, il diritto al congedo spetta:
79
Salva la facoltà di integrazione da parte dell’interessato, con riscatto ai sensi dell’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, ovvero con versamento dei relativi contributi
secondo i criteri e le modalità della prosecuzione volontaria.
80
Ad esempio quando la lavoratrice sia una libera professionista o una lavoratrice
a domicilio o un’addetta ai servizi domestici. Sul punto v. R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1536.
81
Secondo l’art. 50 T. U.
82
Il genitore che decide di occuparsi della cura del bambino deve presentare al proprio datore di lavoro un’autocertificazione da cui risulti che l’altro genitore non si assenta dal lavoro negli stessi giorni e per il medesimo motivo.
83
In merito al concetto di «malattia», la giurisprudenza (Cass.4 aprile 1997, n. 2953,
in “Massimario di giurisprudenza italiana”, 1997) ha indicato la sussistenza di tale situazione «sia durante la fase patologica, sia durante la successiva fase di convalescenza in cui
il bambino, dopo il superamento dei sintomi acuti, deve ancora recuperare le proprie normali condizioni biopsichiche e quindi ha necessità dell’assistenza del genitore per prevenire ricadute ed assicurare il completo suo ristabilimento».
84
Cfr. F. RIVELLINI, Congedi per malattia del figlio, in “Diritto e pratica del lavoro”, 2013,
p. 2428.
327
Francesco Belmonte
- fino a 3 anni (o 6 anni nel caso di adozione o affidamento) di età
del bambino: senza limiti di tempo85 (art. 47, co. 1, e 50, co. 2 T. U.);
- tra il 3° (o 6°86 in caso di adozione o affidamento) e l’8° anno d’età87:
per un massimo di 5 giorni lavorativi all’anno (artt. 47, co. 2, e 50. co. 2
T. U.).
Superati gli otto anni (o i 12 anni in caso di adozione o affidamento) i genitori potranno o dovranno per così dire «arrangiarsi»88.
Per poter fruire dei congedi, il medico curante del Servizio Sanitario Nazionale (o con esso convenzionato) che ha in cura il minore deve
trasmettere per via telematica all’INPS il certificato di malattia del minore (art. 47, co. 3,T. U. , come modificato dall’art. 7, co. 3, L. 17 dicembre 2012, n. 221, di conversione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179). A sua
volta, l’INPS provvederà ad inoltrare la medesima certificazione, sempre per via telematica, al datore di lavoro89 interessato e all’indirizzo di
posta elettronica della lavoratrice o del lavoratore che ne abbiano fatto
richiesta.
Per quel che concerne, invece, il trattamento economico, le assenze per malattia del figlio non sono retribuite, anche se sono fatte salve
le condizioni di miglior favore, previste dai contratti collettivi di qualsiasi livello, che oltre alla possibilità di astenersi dal lavoro, prevedono
anche la retribuzione parziale o totale delle giornate di astensione90.
Tali astensioni, tuttavia, sono considerate periodo utile per la maturazione dell’anzianità di servizio ed è escluso, comunque, ogni effetto su ferie e tredicesima mensilità (art. 48, co. 1, T. U.).
Venendo al trattamento previdenziale, i periodi di congedo sono co-
85
Medesima è la disciplina in caso di parto gemellare o plurimo o di figli di età diversa e fino al compimento dei 3 anni di età. Cfr. M. BERRUTI, A. VASSALINI, La donna e il lavoro: diritti e tutela, Padova, Cedam, 2003, p. 44.
86
Qualora però, all’atto dell’adozione o dell’affidamento, il bambino abbia un’età
compresa fra 6 e i 12 anni, il congedo per malattia è fruibile nei primi 3 anni dall’ingresso
del minore nel nucleo familiare, nel limite di 5 giorni lavorativi all’anno per ciascun genitore (art. 50, co. 3,T .U.).
87
Il diritto di astensione dal lavoro è riconosciuto in favore di ciascun genitore per
ogni figlio di età superiore ai 3 anni e decorre, pertanto, dal giorno successivo al compimento del 3° anno di età e fino agli 8 anni, compreso il giorno del compimento dell’8° anno
di età (Min. Lav. Interpello 19 agosto 2008, n. 33, in “Diritto e pratica del lavoro”, 2008, p.
2726, con nota di A. CASOTTI, Congedi parentali - Malattia del figlio e diritto di astensione dal
lavoro).
88
Cfr. F. RIVELLINI, op. loc. cit.
89
Il datore di lavoro che ostacoli o non conceda l’esercizio del diritto al congedo,
sarà punito con la sanzione amministrativa da euro 516 a euro 2.582 (art. 52,T. U.).
90
v. RIVELLINI, op. loc.cit.
328
Le tutele del padre lavoratore
perti da contribuzione figurativa fino al compimento del 3° anno di vita del
bambino (art. 49, co. 1,T. U.); mentre, dal 3° anno e fino al compimento dell’8°
anno, è dovuta la contribuzione figurativa ridotta (art. 49, co. 2,T. U.).
La disciplina prevista in caso di malattia del figlio, fin qui esaminata, è senza dubbio espressione di un obiettivo cardine della normativa del 2001: la tutela della salute e della vita del bambino. Ciò è ancora
più palese e lo si evince, dai rapporti del congedo con altri istituti. Difatti, nel caso in cui, il genitore fruisca del congedo parentale e durante
lo stesso insorga la malattia del figlio, al fine di accudire il bambino, il
periodo di astensione facoltativa è sospeso91.
Non di meno, qualora la malattia del bambino sia tale da determinare un ricovero ospedaliero, il genitore può richiedere l’interruzione del
decorso di un eventuale periodo di ferie in godimento, per usufruire del
congedo per malattia del figlio (art. 47, co. 4, T. U.). Ciò senz’altro al fine
di realizzare la ratio dell’istituto delle ferie, che è quella di garantire al
lavoratore di godere di tempo libero a scopo ricreativo, ma soprattutto,
per assistere al meglio il bambino.
Per di più, a tali particolari congedi non si applicano le disposizioni in tema di controllo della malattia del lavoratore (art. 47, co. 5,T. U.).
in particolare, il datore di lavoro non può richiedere la visita fiscale nei
confronti del proprio dipendente, beneficiario del congedo per malattia
del figlio, il quale non è tenuto a rispettare alcuna fascia di reperibilità92.
6. Divieto di licenziamento
L’art 54 del T. U. consolida quelle previsioni relative alla disciplina del recesso dei genitori lavoratori, che erano contenute nei diversi testi di legge (in particolare nella L. n. 1204/71, n. 902/77, n. 53/00). Di essa
sono destinatari seppur con qualche differenza, tanto la madre quanto
il padre lavoratore, siano essi genitori naturali, adottivi o affidatari93.
In particolare, è vietato: a) il licenziamento della lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di 1 anno di età del bambino94; b) il licen-
91
In tema cfr. INPS Circ. 17 gennaio 2003, n. 8 e Min. Lav. Interpello 28 agosto 2006,
n. 3004.
92
Sul punto v. P. BELLOCCHI, op. cit., p. 709.
v. R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1539.
94
Nel caso, però, in cui il bambino sia nato morto o deceduto durante il periodo di
93
329
Francesco Belmonte
ziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore (art. 54, co. 6, T. U.); c) il licenziamento del padre in caso di fruizione del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso (art. 54,
co. 7, T. U.), nonché in ogni caso fino al compimento di 1 anno di età del
bambino.
Nel caso di inosservanza del datore di lavoro dei divieti di licenziamento la tutela prevista è duplice.
In primo luogo, egli è punito con una sanzione amministrativa prevista dal comma 8 dell’art. 54 T.U95.
In secondo luogo, qualora egli proceda a licenziare la madre o il padre lavoratore in violazione del divieto di licenziamento per maternità/paternità, l’atto è nullo, a prescindere dalla conoscenza di tale evento al momento del recesso96.
La nullità dell’atto datoriale, comporta l’applicazione del regime della reintegra di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, riscritto dalla
L. 28 giugno 2012 n. 92, che ha incluso, espressamente nell’ambito di applicazione della tutela più «forte», le ipotesi di licenziamenti intervenu-
interdizione dal lavoro, il divieto di licenziamento cessa alla fine di tale periodo. Invece,
qualora il bambino deceda dopo il periodo di interdizione e prima del compimento dell’anno di età, il suddetto divieto cessa 10 giorni dopo la sua morte. Sul punto v. P. SALAZAR, op. cit., p. 80.
95
Di un importo variabile «da euro 1.032 a euro 2.582. Non è ammesso il pagamento in misura ridotta di cui all’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689».
96
Sul punto, v. Cass., 20 maggio 2012 n. 12693, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2013, II, 96; Cass. 20 maggio 2000, n. 6595, secondo cui il licenziamento intimato nonostante il divieto comporta, anche in mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del
rapporto e ancorché il datore di lavoro sia inconsapevole dello stato della lavoratrice, il pagamento delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto che maturano dalla presentazione della certificazione attestante lo stato di gravidanza. Ciò significa che la certificazione inviata al datore di lavoro assolve ad una funzione informativa e
probatoria (Cass. S.U. 4 maggio 1988, n. 2248; Cass. 22 giugno 1998, n. 6199, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 1998, II, 562; App. Roma 19 luglio 2000). In tale linea, v. T. RENZI, op. cit., p. 1756 ss. Per la giurisprudenza di merito, v. Trib. Como (ord.) 16 maggio 2013,
in “Guida al lavoro”, 2013, n. 42, p. 22, con nota di M. G. GRECO, Licenziamento discriminatorio della lavoratrice madre; Trib. Nocera Inferiore 29 aprile 2011, n. 925, ivi., 2011, n. 28, p.
40; Trib. Prato 9 aprile 2010, in “Il lavoro nella giurisprudenza”, 2010, p. 631; App. Ancona, 19 aprile 2005, in “Diritto e lavoro delle Marche”, 2006, n. 4, p. 480; App. Roma, 19 luglio 2001, in “Notiziario di giurisprudenza del lavoro”, 2002, p. 68; Trib. Roma 10 aprile
2003, in “Il lavoro nella giurisprudenza”, 2003, p. 1172; Pret. Milano 23 dicembre 1996, in
“Rivista critica di diritto del lavoro”, 1997, p. 646. Del resto, la lavoratrice gestante non ha
l’obbligo di rendere edotto il datore di lavoro del proprio stato al momento della stipula
del contratto, anche se si tratta di un contratto a termine (Cass. 1 febbraio 2006, n. 2244, in
“Guida al lavoro”, 2006, n. 12, p. 56).
330
Le tutele del padre lavoratore
ti in violazione dei divieti di cui ai commi 1, 6, 7, 9 dell’art. 54, T. U97. In
questi casi, alla dichiarazione di nullità del licenziamento consegue sempre, a prescindere dalle dimensioni dell’impresa: la reintegrazione del lavoratore o della lavoratrice nel posto di lavoro98 (art. 18, co.1 Stat. Lav.);
il risarcimento del danno subìto, con il pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del
licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione, dedotto
l’aliunde perceptum e comunque non inferiore a 5 mensilità ed il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali (art. 18, co. 2 Stat. Lav.).
Al lavoratore è riconosciuta la possibilità di optare, invece della reintegrazione nel posto di lavoro, per il versamento di un’indennità pari a
15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, non assoggettata
a contribuzione previdenziale; il lavoratore o la lavoratrice sono tenuti
a riprendere l’attività lavorativa o ad optare per l’indennità sostitutiva,
entro 30 giorni dall’invito da parte del datore di lavoro, ovvero dal deposito della sentenza. Se l’invito a riprendere l’attività succede alla comunicazione del deposito della sentenza di condanna, i 30 giorni per la
richiesta del pagamento dell’indennità decorrono da quest’ultimo momento (art. 18, co. 3 Stat. Lav.)99.
La tutela specifica prevista dall’art. 54 T. U., cessa di avere applicazione con l’effettiva ripresa dell’attività lavorativa da parte dei genitori
purché sia stata presentata, al datore di lavoro, la certificazione richiesta per garantire la ripresa dell’attività lavorativa100.
Il divieto di licenziamento su esposto, non trova applicazione in
97
All’impugnazione del licenziamento per ragioni di maternità/paternità non si applica il termine di decadenza di 60 giorni previsto dall’art. 6, L. 15 luglio 1966, n. 604. Cfr.
sul punto Cass. 30 maggio 1997, n. 4809, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”,
1997, p. 628; Cass. 14 luglio 1984, n. 4144. Contra Cass. 9 luglio 2004, n. 12786, in “Impresa”, 2005, p. 143. v. R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1540. Inoltre, la mancata
impugnazione del licenziamento impedisce il ripristino del rapporto di lavoro, anche se,
peraltro, resta il diritto al risarcimento del danno subito. In merito v. Cass. 9 settembre
1995, n. 9549, secondo cui la lavoratrice licenziata non ha diritto alla reintegrazione ma al
semplice risarcimento dei danni in base all’art. 1223 cod. civ.; Cass. 23 aprile 1980, n. 2696.
Contra, Cass. 22 luglio 1987, n. 6384.
98
Secondo Trib. Roma (ord.) 31 ottobre 2012, «il licenziamento intimato in periodo
di interdizione per maternità trattasi di una fattispecie tutelata non dall’art. 18 L. n.300/70
ma da quella dell’inadempimento di diritto comune e della nullità, non rientranti nell’applicazione del rito “Fornero”.
99
Cfr. G. AMOROSO, V. DI CERBO, A. MARESCA, op. cit., p. 1941 ss.; P. BELLOCCHI, op. cit.,
p. 713; F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI, T. TREU, op. cit., p. 398; R. DE LUCA TAMAJO,
O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1540.
100
Cfr. IINPS, Circ. 27 ottobre 2011, n. 139.
331
Francesco Belmonte
caso di101:
- colpa grave della lavoratrice o del lavoratore costituente giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro (art. 54, co. 3, lett. a), T. U.)102;
101
Secondo Trib. Bolzano 4 febbraio 2010, in “Guida al lavoro”, 2010, n. 32 e 33, p.
28: «è nullo il licenziamento adottato nei confronti di una lavoratrice nel periodo di gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bambino, per motivi al di fuori delle
ipotesi tassative di non operatività del divieto di licenziamento previste dal decreto legislativo n. 151/2001». In senso conforme, cfr. Trib. Frosinone 9 agosto 2011, ivi, 2011, n. 47,
38. Al di là dei casi tassativi previsti dalla legge, ogni altro motivo non può giustificare il
licenziamento nel periodo vietato, neppure nel caso in cui accadano fatti che impediscano il regolare funzionamento del rapporto e che configurino dunque un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta. In tal senso, T. RENZI, op. cit., p. 1757.
102
Per quanto concerne la nozione di «colpa grave», non si tratterebbe in tal caso di
fatti rientranti nella fattispecie di cui all’art. 2119 cod. civ. in quanto la «colpa grave» è un concetto più pesante della colpa, risultando di una gravità tale da rasentare il dolo. Si tratterebbe più correttamente di una «colpa qualificata» dal particolare stato in cui si trova la lavoratrice e comprende situazioni ben più complesse rispetto ai comuni schemi previsti dal codice e dalla contrattazione collettiva quale giusta causa di licenziamento. Il giudice di merito è tenuto a compiere una valutazione complessiva del comportamento della lavoratrice,
onde poter decidere dell’idoneità o meno di tale comportamento ad essere qualificato come
giusta causa di licenziamento. Peraltro, le condizioni psichiche e fisiche legate allo stato di
gravidanza possono venire in considerazione solo ed in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali del comportamento colposo della lavoratrice (Cass. 29 settembre 2011,
n. 19912; Cass. 21 settembre 2000 n. 12503; Cass. 20 gennaio 2000, n. 610; Cass. 4 marzo 1996,
n. 1667; Cass. 9 settembre 1995, n. 9549; Cass. 18 febbraio 1993, n. 1973). In tali termini, T. RENZI, op. cit., p. 1757 e 1758. Con riferimento al licenziamento della lavoratrice madre, secondo
il pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, l’individuazione dei fatti che legittimano la risoluzione in tronco del rapporto di lavoro deve essere effettuata in maniera
più rigorosa tenendo conto delle particolari condizioni psico-fisiche della lavoratrice (Cass.
21 settembre 2000, n. 12503, cit.); tuttavia, Cass. 11 giugno 2003, n. 9405, ha ritenuto legittimo il licenziamento giustificato da gravi inadempimenti (assenze ingiustificate ed inaffidabilità della lavoratrice). La Cassazione ha escluso che concretizzi «colpa grave» la condotta
della lavoratrice che al momento dell’assunzione occulti al datore il suo stato di gravidanza: Cass. 6 luglio 2002, n. 9864; in tema v. anche Corte di Giustizia UE 27 febbraio 2003, n. C320/01; Corte di Giustizia UE 4 ottobre 2001, n. C-109/00. Cfr. F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI, T. TREU, op. cit., p. 346. La valutazione della eventuale colpa grave va effettuata alla
luce del comportamento complessivo della lavoratrice e delle sue particolari condizioni psico-fisiche. Cfr. Cass. 29 settembre 2011, n. 19912, in “Guida al lavoro”, 2011, n. 46, p. 37, in
cui la Cassazione ha stabilito che la colpa grave non si configura nell’ipotesi di una lavoratrice in congedo parentale, che rientri in servizio con un ritardo di una settimana dalla scadenza del congedo stesso; Cass. 13 luglio 2009, n. 16342, secondo cui è legittimo il licenziamento della lavoratrice che muova accuse false e calunniose nei confronti del proprio datore di lavoro. Ad ogni modo, la lavoratrice licenziata ha diritto alla corresponsione dell’indennità di maternità: la Corte costituzionale, con sentenza 14 dicembre 2001 n. 495, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.24, T. U., nella parte in cui esclude la corresponsione dell’indennità di maternità nell’ipotesi di licenziamento per giusta causa intimato durante il periodo di irrecedibilità. v. F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI, T. TREU, op. cit., p. 399;
L. GALANTINO, op. cit., p. 240.
332
Le tutele del padre lavoratore
-cessazione dell’attività dell’azienda (art. 54, co. 3, lett. b), T. U.)103;
-ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice o il lavoratore sono stati assunti o risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine (art. 54, co. 3, lett. c), T. U.)104;
-esito negativo della prova (art. 54, co. 3, lett. d), T. U.)105.
7. Dimissioni
In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo in cui
vige il divieto di licenziamento, sia la lavoratrice che il lavoratore (anche
103
In tema di cessazione dell’attività aziendale, la giurisprudenza è divisa fra l’orientamento propenso a considerare la necessità della cessione totale (Cass. 31 luglio 2013, n.
18363, cit., ha rilevato che la deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre non
opera nell’ipotesi di cessazione dell’attività del ramo di azienda alla quale la lavoratrice
è addetta e che grava sul datore di lavoro l’onere di fornire la prova dell’impossibilità di
ogni altra utile collocazione della lavoratrice in altri rami dell’azienda diversi da quello la
cui attività è cessata; analogamente, Cass. 7 febbraio 1992, n. 1334) e l’altro indirizzo, secondo cui l’ipotesi sarebbe rinvenibile anche nel caso di chiusura del solo reparto cui è addetto il lavoratore, a patto che detto reparto abbia autonomia funzionale e che il lavoratore non sia collocabile in altro reparto (Cass. 8 settembre 1999, n. 9551, in “Massimario di
giurisprudenza italiana”,1999) ed a condizione che il datore di lavoro assolva l’onere probatorio dell’impossibilità di repechage (Cass. 16 febbraio 2007, n. 3620, in “Foro italiano”,
2007, I, p. 1453; Cass. 21 dicembre 2004, n. 23684, in “Massimario di giurisprudenza italiana”, 2004). La deroga al divieto di licenziamento in caso di cessazione dell’attività dell’azienda non è, invece, applicabile in caso di cessione di azienda in quanto in tale ipotesi non si
ha cessazione dell’attività di impresa, ma la prosecuzione del rapporto di lavoro con l’acquirente (Cass. 22 giugno 2009, n. 14583); né in caso di ristrutturazione o ridimensionamento dell’ organico (Cass. 3 dicembre 2013, n. 27055, cit.).
104
In questa ipotesi, affinché sia possibile il legittimo licenziamento della lavoratrice madre, occorre che la durata determinata del rapporto di lavoro risulti per iscritto, mediante l’indicazione della data di scadenza o la specificazione degli elementi idonei ad individuare l’opera od il servizio, per la cui esecuzione l’assunzione sia avvenuta (Cass. 22
giugno 2009, n. 14583, in “Diritto e pratica del lavoro”, 2010, p. 888; Cass. 27 agosto 2003,
n. 12569, in “Repertorio del Foro italiano”, 2003, voce Lavoro (rapporto), n. 1479). Non costituisce legittimo elemento per licenziare la lavoratrice assunta a termine per ragioni sostitutive, l’incompatibilità del sopravvenuto stato di gravidanza con le mansioni assegnate (Trib. Pavia 28 aprile 2011, in “Rivista critica di diritto del lavoro”, 2011, p. 96). Si ritiene in dottrina che l’ipotesi di «ultimazione della prestazione» non abbia uno spazio concettuale autonomo rispetto a quella della scadenza del contratto a termine. Così, DE LUCA
TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1541.
105
Il licenziamento è legittimo soltanto se il datore di lavoro non sia a conoscenza
dello stato di gravidanza: per tutelare la lavoratrice da eventuali abusi, il datore di lavoro deve motivare il giudizio relativo all’esito negativo della prova per consentire alla lavoratrice di fornire prova contraria e, al giudice, di valutare i motivi effettivi del recesso
al fine di escludere, con ragionevole certezza, che lo stesso sia stato determinato dallo stato di gravidanza (Cass. 31 maggio 1996, n. 172; Trib. Bologna 5 febbraio 2002).
333
Francesco Belmonte
adottivi o affidatari) beneficiano di una particolare tutela (art. 55, T. U.,
come modificato dall’art. 4, co. 16, L. n. 92/2012).
Nello specifico, la lavoratrice madre dimissionaria, per il periodo
in cui vige il divieto di licenziamento106 ed il lavoratore padre dimissionario che ha usufruito del congedo di paternità107, hanno diritto all’indennità di mancato preavviso di cui all’art. 2118 cod. civ.108, nonché alla
percezione dall’Assicurazione Sociale per l’Impiego (ASpI).
Entrambi i genitori che hanno usufruito del congedo di maternità
o paternità, non sono tenuti a rispettare il termine di preavviso nei confronti del datore di lavoro (art. 55, co. 5, T. U.).
Inoltre, la richiesta di dimissioni volontarie presentate dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi 3 anni di vita del bambino, deve essere convalidata109 dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio110 (art. 55, co. 4, T. U., come modificato dall’art. 1, co. 16, L. n. 92/2012) 111.
Dalla data delle dimissioni (o della risoluzione consensuale) il da-
106
Vale a dire, ai sensi dell’art. 54 T. U., dall’inizio del periodo di gravidanza fino
al compimento di 1 anno di età del bambino.
107
In tali termini, cfr. Cass. 11 luglio 2012, n. 11676.
108
Detta indennità non è dovuta se il datore di lavoro provi che la lavoratrice/lavoratore abbia, senza intervallo di tempo, iniziato un nuovo lavoro dopo le dimissioni e la
medesima/o, a sua volta, non provi che il nuovo lavoro sia meno vantaggioso sia sul piano patrimoniale che non patrimoniale (Cass. 12 aprile 2000, n. 10994). Cfr. P. SANNA, L. VICHI, A. BOSCO, op. cit., p. 125.
109
La convalida delle dimissioni costituisce una condizione essenziale di validità delle stesse, senza la quale l’atto unilaterale è da considerarsi viziato da nullità assoluta ed
inidoneo ad estinguere il rapporto di lavoro (alla convalida è “sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro”). Così, R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. loc. cit.; v. anche G. AMOROSO, V. DI CERBO, A. MARESCA, op. cit., p. 1940.
110
Con Accordo Interconfederale 3 agosto 2012, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno previsto che tale convalida possa essere validamente effettuata - oltre che presso la DTL
o il Centro per l’impiego territorialmente competenti, ovvero altra sede individuata dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle OOSS comparativamente più rappresentative a livello nazionale - anche in sede sindacale, ai sensi delle disposizioni del codice di procedura civile e fatta salva la possibilità che i contratti collettivi nazionali individuino sedi sindacali ulteriori. In alternativa, la convalida può essere validamente effettuata mediante la
sottoscrizione di una apposita dichiarazione confermativa della volontà di estinzione del
rapporto, apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione amministrativa di cessazione del rapporto di lavoro, inoltrata dal datore al Centro per l’impiego (art.
4, co. 18, L. 92/2012).
111
V. Min. Lav. Nota 9 dicembre 2013, n 21490, contenente il modulo per la convalida delle dimissioni o della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro durante il c.d.
“periodo protetto”.
334
Le tutele del padre lavoratore
tore di lavoro ha 30 giorni di tempo per inoltrare al lavoratore un invito112 a presentarsi presso le sedi indicate per la convalida o, in alternativa, a sottoscrivere la ricevuta di trasmissione della comunicazione (obbligatoria) di cessazione del rapporto inoltrata al Centro per l’impiego.
Il rapporto di lavoro si intende risolto, per il verificarsi della condizione sospensiva, qualora il lavoratore, entro il termine di 7 giorni dalla ricezione dell’invito, non si presenti presso le sedi competenti per la convalida o non sottoscriva la ricevuta della comunicazione amministrativa trasmessa dal datore di lavoro al Centro per l’impiego (art. 4, co. 19,
L. 92/2012). Lo stesso si intende altresì risolto qualora, entro 7 giorni113
dall’invito, il lavoratore non abbia revocato le dimissioni o la risoluzione consensuale.
Dal giorno successivo alla comunicazione della revoca, invece, il rapporto di lavoro torna ad avere corso normale. Per il periodo intercorso
tra il recesso e la revoca delle dimissioni, mancando l’esecuzione di prestazione lavorativa, non matura alcun diritto retributivo (art. 4, co. 21, L.
n. 92/2012). Analogamente accade per il periodo intercorso tra il recesso e la convalida o la sottoscrizione richiesta.
8. Diritto al rientro
A vantaggio dei lavoratori e delle lavoratrici che fruiscono delle diverse forme di congedo previste dalla legge, l’art. 56 T. U. garantisce ad
entrambi i genitori (anche adottivo e affidatari) di rientrare nella stessa
unità produttiva ove prestavano la propria attività prima dell’astensione. Più precisamente, la lavoratrice madre, al termine del periodo di interdizione dal lavoro, e il padre lavoratore, che abbia fruito del congedo di paternità, salvo che espressamente non vi rinuncino, hanno diritto a riprendere servizio, con le mansioni precedentemente espletate o
con mansioni equivalenti, nella stessa unità produttiva cui erano adibiti prima della sospensione o in altra unità dello stesso comune. Hanno
altresì diritto a non essere trasferiti fino al compimento di 1 anno di età
del bambino ed ad eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro,
112
L’invito si considera validamente effettuato se la relativa comunicazione viene recapitata al domicilio del lavoratore indicato nel contratto di lavoro o se tale comunicazione è consegnata al lavoratore stesso, che deve sottoscriverne copia per ricevuta (art. 4, co.
20, L. 92/2012)
113
Il previsto lasso di tempo di 7 giorni può sovrapporsi con il periodo di preavviso. In argomento v. F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI, T. TREU, op. cit., p. 382.
335
Francesco Belmonte
previsti dai contratti collettivi ovvero in via legislativa o regolamentare,
che gli sarebbero spettati durante l’assenza114 (art. 56, co. 1 e 2,T. U.).
Al fine di evitare comunque forme di discriminazione, la tutela viene estesa anche agli altri casi di congedo, permesso o di riposo disciplinati dal T. U. Invero, entrambi i lavoratori beneficiano degli stessi diritti sopra elencati, ad eccezione del divieto di trasferimento (art. 56, co. 3 T. U.).
Inoltre, allo scopo di rafforzare le garanzie previste dall’articolo in
commento, il Legislatore, ha contemplato, per l’ipotesi di inosservanza
del datore di lavoro di tali disposizioni, la stessa sanzione amministrativa fissata nel caso di violazione del divieto di licenziamento115.
9. Riflessioni finali: uno sguardo al sistema europeo di tutele
Alla luce di quanto detto sin qui è forse utile svolgere qualche considerazione conclusiva.
Come si è visto l’analisi della normativa a tutela della paternità non
può che muovere dalla legislazione a protezione della donna lavoratrice.
Il padre lavoratore, infatti, è titolare di una “propria” astensione obbligatoria in via derivata, ossia quando la madre, al verificarsi di specifiche e tassative ipotesi, non possa fruire del congedo di maternità (art. 28 T. U.).
La disciplina del congedo di paternità, al pari di quella prevista per
i congedi parentali (ex art. 32 T . U.), è il frutto di un processo evolutivo,
volto alla parificazione del padre lavoratore rispetto alla lavoratrice madre nello svolgimento della funzione genitoriale, iniziato sul piano nazionale, con l’ impulso della Corte Costituzionale (n. 1/1987) e sviluppatosi, poi, a livello comunitario sulla spinta del legislatore europeo (direttive 96/34/CE e 2010/18/UE)116.
Il legislatore nazionale del 2012 ha fatto propria tale tendenza evolutiva introducendo un “nuovo” congedo di paternità, obbligatorio e facoltativo (art. 4, co. 24, lett. a), L. n. 92/2012) e prevedendo la possibilità per entrambi i genitori di fruire del congedo parentale ad ore (art. 32,
co. 1 bis, T. U., introdotto dall’art. 1, co. 339, L. n. 228/2012).
114
v. R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, op. cit., p. 1544.
Ossia, ai sensi dell’art. 54, co. 8 T. U. a cui rimanda l’art. 56, co. 4 bis,: «…..da euro
1.032 a euro 2.582. Non è ammesso il pagamento in misura ridotta di cui all’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689».
116
Cfr. R. CARAGNANO, Il congedo obbligatorio di paternità, i voucher baby-sitting e la fruizione ad ore del congedo parentale, in “Diritto delle relazioni industriali”, 2013, p. 192 ss.; T.
VETTOR, op. cit., p. 735.
115
336
Le tutele del padre lavoratore
Tuttavia, fermo restando l’importanza dell’intervento, la sua portata reale appare ancora un po’ flebile se si considera l’obiettivo della direttiva 2010/18/EU che prevede l’istituzione, da parti degli stati membri dell’Unione, di un congedo obbligatorio di paternità di almeno due
settimane da godere in concomitanza con il congedo di maternità. La debolezza della disciplina italiana si evidenzia ancor più se viene raffrontata con i sistemi di tutele a favore dei genitori previsti negli altri paesi
europei, dove le leggi nazionali e la contrattazione collettiva hanno introdotto disposizioni specifiche con margini di protezione più ampi.
Rappresentano un’eccellenza in materia i casi di Svezia e Norvegia
dove, oltre ai congedi di paternità, sono previsti congedi parentali, usufruibili da entrambi i genitori, in maniera condivisa.
In particolare in Svezia, nonostante non sia previsto neanche un congedo di maternità specifico, entrambi i genitori, hanno diritto di astenersi dal lavoro, fino agli otto anni di vita del bambino, per un totale di 480
giorni (se è la madre ad assentarsi, sessanta giorni devono essere usufruiti dal padre)117.
In un tale contesto, il sistema italiano, comparato con il panorama
europeo, dove sono fortemente presenti forme di flessibilità legate all’utilizzo dei congedi, presenta una flessibilità più che fattuale simbolica (vista l’esiguità del periodo di astensione del padre) e a volte non di immediata applicazione (stante la possibilità per i genitori di fruire del congedo parentale ad ore solo in seguito ad un intervento della contrattazione collettiva di settore)118.
In questo senso, e prendendo spunto dalle esperienze europee, spetta alla contrattazione collettiva, quale strumento di integrazione delle disposizioni in materia di congedi, realizzare un’effettiva equiparazione
del lavoratore padre rispetto la lavoratrice, modificando l’approccio «culturale» allo svolgimento della funzione genitoriale, basato sull’ineguaglianza nella distribuzione del lavoro e delle responsabilità familiari.
117
In materia, v. International Review of Leave policies and Related Research 2011,
International Network on Leave policies and Research, a cura di P. MOSS, settembre 2011;
K. NERGAARD, Tackling gender inequality by extending paternity leave, in “Fafo institute
for Applied Social Science”, 2009.
118
Cfr. R. CARAGNANO, op. cit., p. 197; T. VETTOR, op. loc. cit., p. 735.
337
CAROLINA CAPALDO
L’indebito oggettivo nascente dalla riforma della sentenza
di primo grado: problematiche sulla decorrenza del termine
per la proposizione della domanda restitutoria
SOMMARIO: 1. Premesse metodologiche. - 2. L’Indebito oggettivo ob causam finitam per
difetto di causa solvendi sopravvenuta o ab origine carente. - 3. La decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione di indebito ob causam finitam. - 4. L’interruzione della prescrizione e gli effetti del passaggio in giudicato della sentenza. - 5. L’attuale situazione giurisprudenziale ed i punti ancora controversi. - 6. Conclusioni.
1. Premesse metodologiche
L’azione di restituzione delle somme riscosse a seguito di una sentenza, provvisoriamente esecutiva ex lege, poi riformata con una sentenza che accerti la nullità del titolo, può essere promossa dalla data del pagamento delle somme, per effetto della caducazione ab origine dell’atto
nullo e/o dalla pubblicazione della sentenza d’appello e tuttavia, laddove la sentenza di primo grado abbia efficacia costitutiva del diritto di
credito, l’azione di ripetizione può essere promossa dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce l’intero giudizio.
La Corte d’Appello di Roma, sezione lavoro, ha di recente esaminato (sentenza n°3400/2014) la fattispecie del diritto alla ripetizione di
somme relative a differenze retributive ricevute in forza di una sentenza di primo grado esecutiva ex lege, sentenza poi riformata, nel successivo grado d’appello, nel rito del lavoro con lettura del dispositivo; sulla sentenza di appello si è formato il giudicato. L’effettivo pagamento delle somme in virtù della sentenza di primo grado, provvisoria, unitamente alla riforma della sentenza di primo grado nel successivo grado d’appello, ha determinato l’insorgenza dell’indebito ed il diritto di ripetere
quanto pagato dal soccombente in primo grado.
La sentenza in questione, le problematiche ivi affrontate e le soluzioni interpretative assunte, oltre ad offrire la possibilità di realizzare una
trattazione unitaria e sistematica dell’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., consentono di delineare alcune peculiarità
tipiche, se non esclusive, di quella ipotesi di rilevante interesse etico-sociale rappresentata dal “diritto alla ripetizione d’indebito ob causam fini-
339
Carolina Capaldo
tam”; ovvero del diritto ad ottenere la restituzione di somme di danaro
che siano state pagate in esecuzione di una sentenza (provvisoriamente dotata di “capacità esecutiva” ex art. 282 c.p.c.) poi riformata in appello e/o in Cassazione.
La formulazione astratta e generale dell’art. 2033 c.c. ha consentito di sostenere una lettura estremamente ampia della sua sfera d’applicazione. Una parte della dottrina ha ritenuto che l’ipotesi disciplinata abbracciasse tanto l’originaria inesistenza dell’obbligo quanto il suo successivo venir meno, ricomprendendo anche le ipotesi estreme in cui le parti non abbiano avuto alcun contatto prima dell’esecuzione del pagamento non dovuto e dunque non solo le ipotesi in cui esso indebito nasca da
un contratto nato o divenuto inefficace1. Altra parte della dottrina ritiene che il pagamento dell’indebito debba essere per certi versi considerato, insieme alle promesse unilatelari, alla gestione d’affari ed all’arricchimento senza causa, una fonte diversa dal fatto illecito e dai contratti2. Per questa ragione, in tema di azione di ripetizione d’indebito, la dottrina3 si è mossa nel senso di ritenere che, sebbene il legislatore abbia considerato inizialmente l’istituto dal punto di vista dei fatti produttivi dei
rapporti obbligatori, essa potrebbe e dovrebbe ricevere una diversa collocazione nell’ambito propriamente delle attribuzioni patrimoniali e non
nella sede dell’adempimento delle obbligazioni.
1
In questo senso Rescigno, voce “Ripetizione d’indebito”, in Noviss. Dig. It., XV, Torino, 1968, 1223 e segg., Breccia, voce “Indebito”, in Enc. Giur. Treccani, XVI, Roma, 1989,
1 e 6 e segg.; Bargelli, voce “Indebito”, in Enc. Giur. Sole 24ore a cura di Patti, Milano, 634
e segg. Sull’istituto v. anche Albanese, L’indebito oggettivo nell’evoluzione giurisprudenziale,
in Corriere Giur., 2004, secondo il quale «l’i.o. ha assunto nel corso dei secoli i caratteri di
un rimedio generale diretto a reagire all’oggettivo compimento di una prestazione senza
valida causa giustificatrice. […] L’estensione della disciplina dell’indebito a tutte le ipotesi di caducazione ha dalla sua parte i richiami espressi che il codice fa a quella disciplina
sia in tema di nullità (art. 1422 c.c.) sia in tema di risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.). Dall’art. 1422 c.c., si evince che l’imprescrittibilità dell’azione diretta
a far dichiarare la nullità del contratto non influisce sulla prescrizione dell’azione di ripetizione: quest’ultima, pertanto, è un’azione a sé stante e la restituzione è subordinata anche al suo esercizio nel termine ordinario. L’obbligo restitutorio, infatti, si ricollega ad un
fatto, il pagamento, che è fonte di effetti distinti rispetto all’azione diretta a far dichiarare
la nullità del contratto. L’art. 1463 c.c., poi, dimostra che fonte dell’obbligazione restitutoria può essere il successivo venir meno del titolo giustificativo, poiché l’azione è collegata al difetto sopravvenuto del rapporto obbligatorio, a prescindere da ogni valutazione sulla validità o meno dell’atto».
2
Cfr. Moscati, voce “Indebito-ripetizione dell’indebito”, in Enc. Dir., Milano, 1981,
83 e segg.
3
Cfr. Giorgianni, voce “Diritto Privato”, in Noviss. Dig. It., XI, Torino, 1965, 582.
340
L’indebito oggettivo nascente dalla riforma della sentenza di primo grado
L’impressione di parte autorevole della dottrina4 è che l’azione di
ripetizione d’indebito, in realtà, sia stata legislativamente concepita proprio per rendere un mezzo di tutela più snello e più efficace dell’azione
di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. e che anzi questa azione fosse
addirittura fuori dalla sfera privatistica, dovendosi intendere per indebito qualsiasi pagamento effettuato senza una causa solvendi.
2. L’Indebito oggettivo ob causam finitam per difetto di causa solvendi sopravvenuta o ab origine carente
Da tale impostazione dovrebbe pertanto derivare che, nell’azione
di cui all’art. 2033 c.c. risulta appieno tutelata l’ipotesi, quivi esaminanda, di ripetizione del pagamento di una somma effettuata in virtù o in
forza di un titolo giudiziale provvisoriamente esecutivo, poi obliterato
in sede di gravame (condicio indebito ob causam finitam). Con essa azione
il solvens “reagisce” nei confronti dell’accipiens5 in ragione della sussistenza di un fatto lesivo, ovvero dell’indebita ritenzione di somme. È azione dunque volta a tutela del soggetto che ha effettuato il pagamento, rimasto poi privo di causa6, avente come finalità il ripristino della situazione giuridica patrimoniale previgente del solvens, il quale, in tanto aveva effettuato il pagamento, in quanto la sua fonte era insita in un decisum,
sebbene incertum, di condanna, mirando essa azione all’annullamento di
tutte le conseguenze che la esecutività non definitiva della sentenza ex
art. 282 c.p.c. poi obliterata, abbia potuto far conseguire sulla parte che
ha avuto definitivamente, ed ob causam finitam, ragione.
Del resto la dottrina7 aveva già da tempo ed all’interno del “genus”
4
Per tale posizione cfr. a proposito del quasi contratto Rescigno, voce “Ripetizione
d’indebito”, cit., 1968, 1224.
5
In questo senso cfr. soprattutto Moscati, voce “Indebito- ripetizione dell’indebito”, cit.,
93, ma anche, nella stessa direzione, Andreoli, La ripetizione dell’indebito, Padova, 1940, 63.
6
In dottrina Urangia, Tazzoli, voce “Indebito”, in Enc. Giur. It., II Parte I), Milano,
1902, 777, secondo il quale la condicio indebiti che nasce da un quasi-contratto dà diritto
alla ripetizione sempreché vi siano le seguenti condizioni: un pagamento fatto a persona
capace e il pagamento non sia dovuto e/o sia stato fatto per errore.
7
Moscati, Pagamento dell’indebito, Bologna, 1980, sub artt. 2033-40, 134 e 144 e segg.;
onde viene meno, nel vigente ordinamento, ogni ragione per distinguere fra condictio indebiti e condictio ob causam finitam. Gabrielli, Gabrielli-Padovini, voce “Recesso (dir. privato)”, in Enc. Dir., XXXIX, Milano, 1988, 740, nt. 24. La dottrina più recente in tema di ripetizione delle prestazioni di fare non dovute (v. soprattutto Moscati, Pagamento dell’indebito, in Comm. C.C. a cura di Scialoia, Branca, Bologna, 1981, sub art. 2033-40, 166 e segg.,
anche per ulteriori riferimenti) inclina a distinguere a seconda che l’accipiens sia stato in
341
Carolina Capaldo
dell’indebito oggettivo, enucleato la diversa e più specifica figura dell’indebito “oggettivo sopravvenuto ob causam finitam”; istituto che identificava la sua “specificità (e la sua sostanziale diversità rispetto a tutte le
altre ipotesi di indebito oggettivo8 nella quale sostanzialmente l’atto traslativo non era giustificato da un negozio), con la circostanza che ad esso
non andava ad applicarsi la disposizione codicistica contenuta nel art.
2033, comma 2, c.c. (norma derogatoria rispetto alle diposizioni generali in materia), quanto al regime degli accessori, proprio in ragione della
non rilevanza della buona o mala fede dell’accipiens, il quale aveva ricevuto nella consapevolezza della aleatorietà del titolo esecutivo, in tal senso ormai anche unanime la giurisprudenza.
Risulta, pertanto, per tali versi “irrilevante” lo stato soggettivo dell’accipiens, nel senso che l’animus solvendi era collegato all’ottemperanza
di una pronuncia giurisdizionale e/o conseguente all’esecutorietà provvisoria di una sentenza di condanna. L’azione di ripetizione di quanto
pagato (anche in sede di esecuzione coattiva) in forza di titolo riformato definitivamente, sorge «per il solo fatto della riforma ex c.p.c. art. 336
della sentenza provvisoriamente esecutiva» e sorge automaticamente, trovando applicazione il principio della “restitutio ante omnia”9.
Da ciò dovrebbe derivare che essa può essere attivata unitamente
buona o mala fede; a quest’ultimo — e tale è, ovviamente, l’accipiens che risulti inadempiente — incombe l’obbligo di restituire il valore di mercato della prestazione di fare eseguita da controparte. V. anche sull’elemento soggettivo della buona e/o male fede. Breccia, La buona fede nel pagamento dell’indebito, in Rass. Dir. Civ., 1974, I, 130 e segg.
8
Sul punto di principio, cfr. Cass., 26 giugno 2003, n. 6579, Id., 29 ottobre 2003, n.
16254, Id., 24 giugno 2004, n. 11729.
9
Cass., Sez. lav., 5 agosto 2005, n. 16559, secondo la quale «l’azione di ripetizione di
somme pagate in esecuzione di sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva non
si inquadra nell’istituto della condicio indebiti dalla quale differisce per natura e funzione,
atteso che il diritto alla restituzione sorge direttamente in conseguenza della riforma, la quale, facendo venir meno ex tunc e definitivamente il titolo delle attribuzioni in base alla prima sentenza, impone di porre la controparte nella medesima situazione in cui si trovava
in precedenza»; sempre la suprema Corte ha ritenuto che l’azione di restituzione e/o riduzione in pristino, che venga proposta, a norma dell’art. 389 c.p.c. dalla parte vittoriosa
nel giudizio di Cassazione, in relazione alle prestazioni eseguite in base alla sentenza d’appello poi annullata, non è riconducibile allo schema della condicio indebiti, perché si ricollega ad una esigenza diversa di restaurazione patrimoniale anteriore alla sentenza riformata e prescinde dall’esistenza o meno del rapporto sostanziale; né si presta a valutazioni di buona o mala fede dell’accipiens, non potendo venire in rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del
titolo e della provvisorietà dei suoi effetti; in tal senso Cass., 12 maggio 2003, n. 7270, in
Mass. Giur. It., 2003, conforme la successiva sent. Id., Sez. III, 20 ottobre 2011, n. 21699, in
C.E.D. Cass., 2011.
342
L’indebito oggettivo nascente dalla riforma della sentenza di primo grado
al gravame nel caso di sentenza di primo grado10; il solvens può (rectius
deve) in sede di gravame formulare la domanda di condanna alla restituzione di quanto pagato in forza della sentenza di primo grado. Secondo parte della giurisprudenza può esservi una pronuncia d’ufficio in ordine alla restituzione in grado d’appello11, oppure alla riforma della sen-
10
Sull’obbligo di restituzione delle somme ricevute dalla parte vittoriosa in primo grado, quale effetto automatico e consequenziale della riforma della sentenza in appello, cfr. Cass.,
Sez. II, 5 luglio 2006, n. 15295, in Guida Dir., 2006, 36, 47. Negli stessi termini v. anche Cass.,
19 luglio 2005, n. 15220, in Mass. Giur. It., 2005, secondo la quale «la riforma o la cassazione
estende i suoi effetti ai provvedimenti ed agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, comporta che, non appena sia pubblicata la sentenza di riforma, vengono meno immediatamente sia l’efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con conseguente obbligo di restituzione delle somme pagate e di ripristino della situazione precedente». In senso conforme anche Cass.,
Sez. III, 24 giugno 2004, n. 11729, in Mass. Giur. It., 2004, «l’obbligo di restituzione delle somme pagate in esecuzione di una decisione successivamente cassata, ovvero di sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello, sorge per il solo
fatto della cassazione o della riforma della sentenza, ancorché questa non contenga la condanna alle restituzioni. Ne consegue che, a seguito della riforma della sentenza, la spontanea esecuzione di tale obbligo da parte del soccombente non configura acquiescenza, non dimostrando una volontà di accettare la sentenza, incompatibile con la volontà di valersi delle impugnazioni». Da ultimo si registra Cass., Sez. III, 8 giugno 2012, n. 9287, in C.E.D. Cass., 2012, «Una
sentenza d’appello che, riformando quella di primo grado, faccia per ciò sorgere il diritto alla
restituzione degli importi pagati in esecuzione di questa, non costituisce titolo esecutivo se
non contenga una espressa statuizione di condanna in tal senso».
11
Sulla automaticità del diritto Cass., Sez. III, 13 aprile 2007, n. 8829, in Mass. Giur. It.,
2007, nel senso che «non incorre nel vizio di omessa pronuncia il giudice di appello il quale, nel riformare completamente la decisione impugnata, non dispone la condanna della parte vittoriosa in primo grado a restituire gli importi ricevuti in forza dell’esecuzione della sentenza appellata, atteso che tale obbligo sorge automaticamente, quale effetto consequenziale, dalla riforma della sentenza» di contro sulla contestazione dell’automaticità della pronuncia in assenza di domanda cfr. Cass., Sez. III, 5 febbraio 2013, n. 2662, in C.E.D. Cass., 2013,
nel senso che «Incorre nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato il giudice che, accogliendo l’appello avverso sentenza provvisoriamente esecutiva,
ometta di ordinare la restituzione di quanto corrisposto in forza della decisione riformata,
pur essendo stata ritualmente introdotta con l’atto di impugnazione la relativa domanda restitutoria, non potendosi utilizzare la riforma della pronuncia di primo grado, agli effetti di
quanto previsto dall’art. 474 cod. proc. civ., nonché dall’art. 389 cod. proc. civ. per le domande conseguenti alla cassazione, come condanna implicita» nonché sulla inammissibilità della domanda restitutoria Cass., Sez. III, 17 luglio 2012, n. 12218, in C.E.D. Cass., 2012: «In sede
di legittimità non è mai ammissibile una pronuncia di restituzione delle somme corrisposte
sulla base della sentenza cassata, neanche nel caso in cui la Corte di cassazione, annullando
la sentenza impugnata, decida la causa nel merito, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., in quanto per tale domanda accessoria non opera, in mancanza di espressa previsione, l’eccezione
al principio generale secondo cui alla Corte compete solo il giudizio rescindente, sicché la
stessa, ove il pagamento sia avvenuto sulla base della sentenza annullata, va proposta al giudice che ha pronunciato quest’ultima, a norma dell’art. 389 c.p.c.».
343
Carolina Capaldo
tenza provvisoriamente eseguita e quindi proprio per effetto del pronunciamento sul gravame, la parte che ha eseguito in via spontanea e/o coattiva la condanna contenuta nella sentenza riformata, può attivarsi con
una autonoma domanda di restituzione, ed anche in via monitoria12.
3. La decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione di
indebito ob causam finitam
La scelta di proporre la domanda di ripetizione in via autonoma rispetto al gravame, comporta che la relativa azione soggiaccia al termine prescrizionale “ordinario” in assenza di deroghe, trovando dunque
applicazione il combinato disposto degli artt. 2033 e 2935 c.c. Pertanto la
prescrizione del diritto di restituzione dell’indebito oggettivo decorre dal
giorno del pagamento e può dal titolare essere interrotta, secondo la disciplina generale di cui all’art. 2943 c.c., anche mediante atti diversi dalla domanda giudiziale13.
Nello stesso senso depone una parte della giurisprudenza che in tema
di termine prescrizionale per la domanda di restituzione a seguito di una
sentenza di nullità del titolo sulla base del quale è stato effettuato un pagamento, precisa che il termine di prescrizione dell’azione inizia a decorrere non dalla data di pronuncia della sentenza bensì dalla data del pagamento effettuato al momento della stipula dell’atto nullo, ossia dalla
data alla quale retroagisce l’accertamento della nullità del titolo negoziale, nella fattispecie, costituito da un contratto. A tal fine, la decisione richiamata aveva infatti statuito che la pronuncia di nullità di un negozio
è di mero accertamento ed ha portata ed efficacia retroattiva con caducazione dell’atto divenuto giuridicamente irrilevante fin dall’origine con
12
In tal senso ed ex plurimis Cass., Sez. lav., 26 aprile 2003, n. 6579, in Mass. Giur. It.,
2003, secondo la quale «Il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una
decisione successivamente cassata, ovvero di sentenza di primo grado provvisoriamente
esecutiva, successivamente riformata in appello, sorge per il solo fatto della cassazione o
della riforma della sentenza e può essere richiesto automaticamente, se del caso, anche con
procedimento monitorio».
13
In dottrina Amendolagine, Il pagamento indebito: nozione e valutazione nella comune
esperienza giurisprudenziale, in Corriere Giur., 2010, 1; in giurisprudenza Cass., 19 giugno 2008,
n. 16612, in Mass. Giur. It., 2008, secondo la quale «In tema di azione di ripetizione, l’indebito oggettivo opera non solo quando l’originaria causa di pagamento sia venuta meno,
ma anche quando essa manchi fin dall’origine; ai sensi degli artt. 2033 e 2935 cod. civ., la
prescrizione del diritto di restituzione dell’indebito oggettivo decorre dal giorno del pagamento e può dal titolare essere interrotta secondo la disciplina generale di cui all’art. 2943
cod. civ. anche mediante atti diversi dalla domanda giudiziale».
344
L’indebito oggettivo nascente dalla riforma della sentenza di primo grado
conseguente definitivo venir meno della modifica della situazione giuridica preesistente.
Inoltre, anche la prescrizione decennale del diritto alla ripetizione
di quanto pagato, in applicazione di una norma successivamente dichiarata incostituzionale — con sentenza avente efficacia retroattiva — decorre, ai sensi dell’art. 2935 c.c. dal giorno del pagamento, anziché dalla data della pronuncia d’incostituzionalità o della pubblicazione della
medesima, configurandosi la vigenza della norma viziata da incostituzionalità non ancora dichiarata, come una mera difficoltà di fatto, che non
impedisce la possibilità di far valere la pretesa restitutoria, e può dal titolare essere interrotta, secondo la disciplina generale, anche mediante
atti diversi dalla domanda giudiziale14.
In giurisprudenza, tuttavia, vi sono orientamenti discordanti quanto al momento in cui il diritto alla ripetizione può essere fatto valere15.
Secondo una parte16 l’esordio della decorrenza della prescrizione del diritto del solvens andrebbe ancorata alla data del pagamento, e non alla
data della decisione, ma l’orientamento era senz’altro relativo alla pronuncia di nullità di un contratto, pronuncia quindi di nullità con effetto retroattivo non di una sentenza di primo grado in sé fonte obbligatoria del pagamento indebito, che è la fattispecie quivi esaminanda17.
4. L’interruzione della prescrizione e gli effetti del passaggio in giudicato della sentenza
La decorrenza del termine per la proposizione della domanda di ripetizione ob causam finitam appare invero coincidente con il fatto della sua
intrinseca legittimazione ovvero, per poter essere proposta (il momen-
14
Su quest’ultimo aspetto cfr. Cass., Sez. lav., 15 marzo 2001, n. 3796, in Mass. Giur.
It., 2001; Id., Sez. lav., 1° giugno 2000, n. 7289, ivi, 2000.
15
Oltre alla cit. Cass., n. 7651/2005, v. anche Cass., Sez. III, 15 luglio 2011, n. 15669,
in C.E.D. Cass., 2011, secondo cui «L’accertata nullità del negozio giuridico, in esecuzione
del quale sia stato eseguito un pagamento, dà luogo ad un’azione di ripetizione di indebito oggettivo, volta ad ottenere la condanna alla restituzione della prestazione eseguita
in adempimento del negozio nullo, il cui termine di prescrizione inizia a decorrere non già
dalla data del passaggio in giudicato della decisione che abbia accertato la nullità del titolo giustificativo del pagamento, ma da quella del pagamento stesso».
16
In dottrina Amendolagine, op. cit.
17
La prescrizione può essere interrotta secondo la disciplina generale di cui all’art.
2943 c.c. anche mediante atti diversi dalla domanda giudiziale (Cass., 19 giugno 2008, n.
16612).
345
Carolina Capaldo
to dirimente l’esercizio del diritto e di cui all’art. 2935 c.c. ovvero «il giorno in cui il diritto può essere fatto valere»), deve essere intervenuto il fatto empirico ulteriore rispetto al pagamento da parte del solvens, che è il
giudicato contenuto solo in una sentenza di riforma definitiva, che determini quindi la fine del processo, la cessazione dell’incertezza, con tutti i travolgimenti conseguenti ad un giudicato definitivo; in questo senso va quell’orientamento che stabilisce che il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo ob causam finitam, inizia a
decorrere con il passaggio in giudicato della sentenza di accertamento
della nullità del titolo sulla base del quale è stato effettuato il pagamento, in quanto prima di tale momento, permane l’esistenza del titolo, così
rimanendo esclusa la possibilità di esercizio processuale del diritto18, la
suprema Corte aveva infatti stabilito che qualora l’accertamento della nullità del titolo che aveva giustificato il versamento di una determinata somma è l’effetto di una sentenza, soltanto dal giorno del relativo passaggio
in giudicato inizierà a decorrere il termine prescrizionale per il “solvens”
per ottenere la restituzione di quanto corrisposto.
Correttamente è stato affermato che l’ipotesi di indebito ob causam finitam è ipotesi tipica di accertamento sopravvenuto del difetto
di causa solvendi19 ed è proprio il più recente orientamento della Supre-
18
Per Cass., Sez. I, 22 settembre 1988, n. 5198, in Fisco, 1988, 6129, «il termine di prescrizione per poter utilmente esercitare il diritto al rimborso comincia a decorrere dal momento in cui lo stesso diritto sorge e cioè dall’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza che ha dichiarato la nuova devoluzione ereditaria; l’applicabilità della specie delle
norme in materia di rimborso e di rispetto dei termini (quindi, procedurali) dettate dal d.p.r.
n. 637/1972, non resta inficiata dal rilievo che la successione risulta aperta in epoca antecedente dal 1° gennaio 1973, vigente ossia, in materia successoria, il testo di cui al r.d. 30
dicembre 1923, n. 3270; l’art. 86 previgente dava diritto alla restituzione dell’imposta nel
termine prescrizionale triennale decorrente dalla data del pagamento dell’imposta, ma altresì era previsto (art. 7) il diritto alla restituzione dell’imposta anche nel caso in cui il testamento fosse stato annullato, in tutto o (come nella specie) in parte con sentenza; circostanza, questa, che non identificandosi con una all’apertura della successione, cioè con accertamento successivo giudiziale ai fini della decorrenza dei termini, non può che far sorgere il diritto al rimborso se non dal momento in cui sia accertato giudizialmente il mutamento della devoluzione ereditaria e l’annullamento conseguente della disposizione testamentaria in relazione alla quale l’imposta era stata pagata ». Secondo la Cass., Sez. II, 12
settembre 2000, n. 12038, in Riv. Notar., 2001, 922, «L’accertamento con sentenza della nullità del titolo sulla base del quale è stato effettuato un pagamento dà luogo ad un’azione
di ripetizione di indebito oggettivo, il cui termine di prescrizione inizia a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza medesima; infatti, prima di tale momento permane l’esistenza del titolo che aveva dato luogo al versamento della somma ed è esclusa la possibilità legale dell’esercizio del diritto».
19
In dottrina Amendolagine, op. cit.
346
L’indebito oggettivo nascente dalla riforma della sentenza di primo grado
ma Corte20, a statuire che se nei casi in cui la “causa solvendi” manca
“ab origine”, il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito comincia a decorrere dal giorno dell’intervenuta esecuzione della prestazione, il suddetto termine decorrerà dal giorno in cui l’accertamento dell’indebito è divenuto definitivo (poiché solo da questo
momento diviene attuale l’interesse del soggetto alla restituzione della somma indebitamente percepita).
Dunque proprio e solo nel caso in cui il difetto della “causa solvendi” sopravvenga al pagamento il termine prescrizionale decorre dal venire in essere del difetto. Pertanto nell’ipotesi di indebito ob causam finitam il termine dovrebbe iniziare a decorrere proprio e solo dal momento in cui vi sia altra sentenza che, in via definitiva, ponga fine alla res controversa e che accerti anche implicitamente che il pagamento effettuato
in forza della prima sentenza riformata non era dovuto.
La decorrenza del termine prescrizionale dell’azione di ripetizione
ob causam finitam tuttavia deve necessariamente ricollegarsi alla lettura
dell’art. 2935 c.c. determinandosi «il momento in cui il diritto può essere fatto valere» anche al momento in cui la sentenza di riforma d’appello ex art.336 c.p.c. abbia esplicitato i suoi effetti espansivi esterni siccome caducatori degli atti compiuti in precedenza21. Del resto la ragione del-
20
Nella sentenza della Cass., Sez. II, 19 luglio 2012, n. 12472, in Banche Dati Pluris, 30, 101,
secondo la quale per la decorrenza della prescrizione dell’azione di ripetizione bisogna operare un distinguo tra l’ipotesi di indebito oggettivo per causa sopravvenuta ovvero per la statuizione giudiziale costitutiva sopravvenuta e quella pur sempre giudiziale ma di mero accertamento dell’inesistenza originaria ed in tal senso «la pronuncia della nullità di un negozio costituisce una statuizione di mero accertamento ed ha portata ed efficacia retroattiva con caducazione dell’atto divenuto giuridicamente irrilevante fin dall’origine, con conseguente definitivo venir meno della modifica della situazione giuridica preesistente. A tal proposito si ricorda che, ai fini della determinazione del momento in cui inizia a decorrere la prescrizione del
diritto alla ripetizione dell’indebito, occorre preliminarmente distinguere l’ipotesi della mancanza originaria della causa, da quella della mancanza sopravvenuta, poiché l’istituto della ripetizione dell’indebito trova applicazione sia all’ipotesi in cui la ragione giustificativa di un atto
di disposizione patrimoniale non sia mai esistita, sia a quella in cui sia successivamente venuta a mancare. Ed è indubbio che, nell’ambito della casistica dell’inesistenza originaria della “causa solvendi”, si inserisce l’ipotesi dell’esecuzione di una prestazione patrimoniale riferibile ad
un contratto dichiarato nullo, proprio perché la nullità del contratto implica il difetto originario della causa. Pertanto, in tal caso come in quelli in cui la “causa solvendi” manca “ab origine”,
il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito comincia a decorrere dal giorno dell’intervenuta esecuzione della prestazione, mentre il suddetto termine decorrerà dal giorno in cui l’accertamento dell’indebito è divenuto definitivo (poiché solo da questo momento
diviene attuale l’interesse del soggetto alla restituzione della somma indebitamente percepita) solo nel caso in cui il difetto della “causa solvendi” sopravvenga al pagamento».
21
La norma ha subito nel tempo diversi interventi, la riforma del 1950 aveva inciso
347
Carolina Capaldo
la riforma del 1990 sulla disciplina delle sentenze d’appello fu proprio
quella di scoraggiare la proposizione del ricorso per Cassazione al solo
fine di ritardare gli effetti esecutivi provvisori di primo grado, nell’ottica di una rivalutazione della sentenza d’appello22. Dunque tutte le questioni dottrinali che avevano riguardato la questione dell’effetto espansivo esterno della sentenza non definitiva di riforma, dopo l’ingresso della l.n. 353/90 non avevano più ragione di esistere, atteso il tenore dell’art.336 c.p.c. gli atti di esecuzione compiuti sulla base della sentenza riformata erano immediatamente caducati per effetto della riforma in appello, indipendentemente dal passaggio in giudicato della stessa23.
In questa direzione la giurisprudenza ha riconosciuto l’obbligo immediato e per effetto della riforma in appello di restituzione da parte dell’attore di quanto conseguito spontaneamente o a seguito di esecuzione
forzata in base alla sentenza riformata24.
Sul punto va allora riqualificata la fattispecie dell’indebito “ob causam finitam” nel senso di determinarsi l’insorgenza dell’indebito non per
effetto dell’epilogo del giudizio ma per il fatto anche solo di una temporanea riforma. Orbene nel più generale quadro normativo e sotto l’egida del pregnante principio di autorità della cosa giudicata ex art. 2909 c.c.
una sentenza passata in giudicato che ha travolto altra precedente, ha una
portata autoritativa che vale non solo incontestabilmente a disciplinare
fra le parti il caso oggetto del processo ma anche a vincolare i giudici successivi che tra le medesime parti decidendo, dovranno attenersi alla precedente statuizione se pregiudiziale. Si tratta di quel vincolo decisorio
irretrattabile che rende indiscutibile l’accertamento. È allora evidente che
il diritto alla ripetizione di indebito ob causam finitam intanto esiste in quanto esiste un processo finito e una decisione inattaccabile ovvero che è cosa
giudicata. Il diritto di ripetere l’indebito sorge per effetto della pronunsulla disposizione di cui all’art.336 c.p.c. proprio subordinando l’effetto espansivo esterno al passaggio in giudicato della sentenza d’appello di riforma ( cfr. Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, II, Roma ,1951, 155). La riforma operata con la l.n. 353/90 ha
espunto l’inciso “con sentenza passata in giudicato”. Leffetto espansivo esterno consegue
ora alla mera riforma , o cassazione, della sentenza anche se non passata in giudicato; esso
si verifica dunque immediatamente, sin dal momento della pubblicazione senza che sia più
necessario attenderla scadenza dei termini per proporre ricorso per cassazione o l’esaurimento del giudizio di legittimità (Attardi,Le nuovedisposizioni sul processo civile,Padova,
1991,140; Comoglio, Ferri, Taruffo, Lezioni sul nprocesso civile, 2° ed., Bologna, 1998,796).
22
Tarzia, Lineamenti, 293.
23
Redenti, Sull’interpretazione dell’art. 336capoverso e disposizioni connesse o…sconesse,
in Diritto processuale civile, II, 3° ed., Milano, 1985,531
24
C. 26171/2006; C.19296/2005 sulla possibilità in separato giudizio di chiederla restituzione CSU 12190/2004
348
L’indebito oggettivo nascente dalla riforma della sentenza di primo grado
cia definitiva di riforma, che prende sostanza per il fatto della “solutio”,
il pagamento intervenuto a seguito e per effetto della sentenza di primo
grado provvisoriamente esecutiva potrebbe esserci stato anche oltre dieci anni prima dell’intervenuta riforma e non sembrerebbe avere alcuna
rilevanza rispetto all’insorgenza del diritto alla ripetizione dell’indebito oggettivo laddove lo stesso sia ingenerato dalla riforma definitiva della sentenza di primo grado. L’eccezione di prescrizione così come interpretata nella sentenza in commento prende le mosse dall’applicazione
del dato letterale dell’art. 2935 c.c. ovvero determina la decorrenza della prescrizione dal momento in cui il diritto “può essere fatto valere” e
siccome il diritto di ripetere quanto corrisposto in base a sentenza riformata sorge per il fatto della riforma ed anche dalla sola lettura del dispositivo di sentenza nel rito del lavoro, la decorrenza coincide con la riforma. Detta interpretazione per certi diversi aspetti appare confliggente
con il concetto stesso di indebito oggettivo ob causam finitam. La decorrenza dei termini di prescrizione dell’azione di ripetizione nella ipotesi
specifica è determinata dall’esistenza del diritto alla ripetizione della somma divenuta indebita per il fatto dato dalla riforma in via definitiva (ob
causam finitam) della sentenza di primo grado, definitività che è data o
dal passaggio in giudicato della sentenza di riforma in appello o dalla
sentenza di Cassazione. Dunque il diritto di ripetere sorge solo per detto effetto definitivo di riforma.
5. L’attuale situazione giurisprudenziale ed i punti ancora controversi
Dunque nel quadro attuale: una parte della giurisprudenza ricollega il termine prescrizionale per l’esercizio dell’azione di ripetizione al
tempo della “solutio” intervenuta in forza della sentenza di primo grado poiché detto evento sembrerebbe il fatto generativo dell’indebito25, altra parte al momento «dal quale il diritto può essere fatto valere» ovvero dalla sentenza di riforma e/o dalla lettura del dispositivo nel processo del lavoro, che comunque ed ex art.336 c.p.c. propaga immediatamente l’effetto caducativo sul titolo di primo grado indipendentemente dal
passaggio in giudicato della sentenza di riforma26. Tuttavia va segnalato che la nascita del diritto alla ripetizione di un indebito oggettivo per
effetto della definitiva cessazione e definizione della res controversa si ha
solo con la sentenza definitiva ex art. 2909 c.c. (condicio indebiti ob cau25
26
Cass. 7651/2005 cit.
In questo senso la sentenza in commento.
349
Carolina Capaldo
sam finitam), che oblitera la sentenza di primo grado generativa del pagamento indebito, e dunque è solo la definitività della statuizione a determinare il momento di insorgenza del diritto di ripetere ex art. 2033 c.c.
che è, quindi causa sopravvenuta. Il processo, nelle sue pronunce intermedie, ha generato l’indebito ed è evidente che solo la cessazione definitiva del processo a determinare nelle rispettive attribuzioni di diritti, l’insorgenza di un indebito oggettivo ob causam finitam; solo la definitiva statuizione determina l’inizio o la fine di diritti accertati e/o costituiti con
le sentenze intermedie. L’azione di ripetizione come azione personale sorge solo per effetto del diritto a ripetere quanto corrisposto in virtù di una
sentenza obliterata. Sul punto i diversi orientamenti di merito che si sono
affacciati proprio in ragione della intrinseca capacità della sentenza di appello a “sostituire” la sentenza riformata27, detta capacità è insita nell’art.
336 c.p.c. così come novellato dalla L.n. 353 del 1990, hanno determinato pronunce tese a chiarire la facoltà della parte nel richiedere la ripetizione in sede d’appello28 piuttosto che successivamente allorquando sia
venuto in esistenza un diritto definitivo alla ripetizione di somme per causa terminata. L’effetto sostitutivo della sentenza d’appello deve secondo
la sentenza in commento determinare comunque l’inizio della decorrenza del termine prescrizionale ai fini dell’azione di ripetizione delle somme già pagate indipendentemente dalla definitività della stessa in ciò confortata da una cospicua parte della giurisprudenza di legittimità29, e tut-
27
Cfr., in dottrina Tarzia, Profili della sentenza civile impugnabile, Milano, 1967; Id., Il
valore della causa e l’appellabilità della sentenza, in Riv. Dir. Priv., 1967, 566, e in Studi Raselli,
II, Milano, 1972.
28
La Cass., 3 ottobre 2005, n. 19299, in Guida Dir., 2005, 45, 40, ha confermato che «La
pretesa restitutoria conseguente alla riforma in appello della sentenza di primo grado può
trovare ingresso nella fase del gravame, al fine di precostituire il titolo esecutivo per la restituzione, tale non essendo la sentenza di riforma».
29
Cass. 27 giugno 200 n.8745; Cass. 14 gennaio 2005 n.637; Cass. 19 luglio 2005 n. 15220;
nonché Cass. 5 marzo 2009 n.5323 secondo la quale: “L’art. 336 cod. proc. civ., nella nuova formulazione introdotta dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, non subordina più al passaggio in giudicato della sentenza di riforma i cosiddetti effetti espansivi esterni, comportando perciò non soltanto la caducazione immediata della sentenza riformata (le cui statuizioni vengono sostituite automaticamente da quelle della sentenza di riforma), ma altresì l’immediata propagazione delle conseguenze della sentenza di riforma agli atti dipendenti dalla sentenza impugnata. Ove, peraltro, la sentenza di riforma sia stata, a sua volta, oggetto di cassazione, non possono perdurare tali effetti espansivi esterni, posto che,
in detta ipotesi, viene meno il loro stesso presupposto e, qualora il giudice del rinvio confermi la sentenza di primo grado, la temporanea inefficacia di quest’ultima pronuncia nel
periodo tra sentenza di riforma e quella di cassazione non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dei diritti da essa riconosciuti, con conseguente risarcibilità delle relative lesioni eventualmente realizzatesi “medio tempore”. (Rigetta, App. Catania, 14/04/2005)”;
350
L’indebito oggettivo nascente dalla riforma della sentenza di primo grado
tavia detto schema sembrerebbe ancora confliggente con l’assetto normativo in tema di decorrenza della prescrizione laddove il diritto di ripetizione dell’indebito ob causam finitam possa dirsi sorto.
Nell’ambito di un processo in itinere le sentenze non hanno la definitività e l’interruzione della prescrizione è legislativamente riconosciuta nell’ambito dei diritti in contesa giudiziaria. Parte della giurisprudenza riconosce l’interruzione della prescrizione del diritto alla ripetizione
di somme erogate in virtù di sentenza non definitiva nel corso del giudizio ovvero laddove il giudizio sia incorso, tanto ai sensi dell’art. 2943,
commi 1 e 2, c.c. ed ad essa interruzione devono riconoscersi poi gli effetti permanenti ex art. 2945, comma 2, c.c. sino alla sentenza che ha deciso in ordine alla domanda proposta in primo grado, cioè sino a quando la stessa non sia divenuta più impugnabile ed abbia acquistato autorità ed efficacia di cosa giudicata sostanziale30. La già esaminata esclusione da parte del legislatore dell’obbligo di formulazione a pena di decadenza della domanda di restituzione delle somme corrisposte in virtù della sentenza gravata comporta non la fuoriuscita del diritto di ripetizione dal processo, ma la sua latenza sino al momento in cui per effetto
di una pronuncia definitiva esso diritto di ripetizione dell’indebito oggettivo ob causam finitam potrà ritenersi definitivamente sorto. L’art. 2943 c.c.
in tema di prescrizione va posto in relazione con la disposizione del comma 2 dell’art. 2945 c.c. a mente del quale l’interruzione della prescrizione
operata dalla domanda giudiziale ha effetti permanenti fino alla sentenza che definisce il giudizio (in dottrina, Roselli). Solo all’atto processuale
consegue questo effetto che è espressione del principio generale di civiltà giuridica, che trova oggi il suo addentellato normativo nella norma di
cui all’art. 24, comma 1, Cost., secondo cui la necessità del processo per far
valere un proprio diritto non deve andare a detrimento di chi ha ragione31
(Chiovenda). Chi ha ragione è chi ha definitivamente un diritto accertato
30
Va richiamata recente la pronuncia della Cass., Sez. III, 29 maggio 2013, n. 13438, in
C.E.D. Cass., 2013, «La mera proposizione, da parte del debitore, di una citazione in revocazione ex art. 395, n. 3, cod. proc. civ. non impedisce il passaggio in giudicato, ex art. 324 cod.
proc. civ., della sentenza impugnata, sicché termina l’effetto interruttivo permanente della prescrizione prodotto dalla notificazione dell’atto introduttivo del corrispondente giudizio. Tuttavia, se il creditore convenuto in revocazione si costituisce formulando una domanda comunque tendente all’affermazione del proprio diritto (ed in tale categoria va ricompresa certamente anche la mera richiesta di rigetto della revocazione) compie un’attività processuale rientrante nella fattispecie astratta prevista dal secondo comma dell’art. 2943 cod. civ.; e, quindi, ai sensi dell’art. 2945, secondo comma, cod. civ., la prescrizione non corre fino al momento in cui
passa in giudicato la sentenza che definisce il relativo procedimento».
31
Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1932, I, 41.
351
Carolina Capaldo
e non conteso, in tal senso l’effetto espansivo della sentenza d’appello ex
art.336 c.p.c. stabilisce una sostituzione della pronuncia con quella di riforma ma non determina una certezza nel diritto di ripetere.
Deve inoltre osservarsi che la Suprema Corte ha sul punto affermato il principio che la proposizione della domanda giudiziale ha efficacia
interruttiva della prescrizione che si protrae sino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, ai sensi dell’art. 2945 c.c., con
riguardo a tutti i diritti che si ricolleghino con stretto nesso di causalità
a quel rapporto, senza che occorra che il loro titolare proponga, nello stesso o in altro giudizio, una specifica domanda diretta a farli valere, ed anche quando tale domanda non sia proponibile nel giudizio pendente, ove
l’apprezzamento della consequenzialità logico-giuridica del diritto stipite, ai fini dell’individuazione del rapporto logico-giuridico tra diritti,
è rimesso al giudice di merito32; ed il collegamento ritenuto necessario
dalla giurisprudenza appena citata deve ritenersi sussistere tra la domanda di accertamento della non debenza del credito — riconosciuto in primo grado al ricorrente — proposta in appello dalla società e perseverata in Cassazione con controricorso e la conseguente domanda di restituzione delle somme corrisposte in virtù della sentenza di primo grado poi
riformata, atteso che l’accertamento richiesto con il giudizio costituisce
presupposto del diritto alla restituzione delle somme.
Peraltro se, secondo la giurisprudenza, le pretese restitutorie conseguenti alla riforma della sentenza di primo grado possono trovare ingresso anche nella fase di gravame, al fine di precostituire il titolo ese-
32
In tal senso va richiamato l’orientamento Cass., 4 settembre 2007, n. 18570, in Mass.
Giur. It., 2007, a mente del quale «La proposizione della domanda giudiziale ha efficacia
interruttiva della prescrizione che si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza
che definisce il giudizio, ai sensi dell’art. 2945 cod. civ., con riguardo a tutti i diritti che si
ricolleghino con stretto nesso di causalità a quel rapporto, senza che occorra che il loro titolare proponga, nello stesso o in altro giudizio, una specifica domanda diretta a farli valere, ed anche quando tale domanda non sia proponibile nel giudizio pendente, ove l’apprezzamento della consequenzialità logico-giuridica del diritto stipite, ai fini dell’individuazione del rapporto logico-giuridico tra diritti, è rimesso al giudice di merito. Conseguentemente, la domanda giudiziale di qualifica superiore interrompe la prescrizione del
diritto alle differenze retributive consequenziali»; conforme Id., 15 luglio 2011, n. 15669, in
Mass. C.E.D., 2011, per cui «La proposizione della domanda giudiziale ha efficacia interruttiva della prescrizione, ai sensi degli artt. 2943 e 2945 cod. civ., con riguardo a tutti i diritti che si ricolleghino con stretto nesso di causalità al rapporto cui essa inerisce; pertanto, la proposizione di una domanda di adempimento in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto, ex art. 2932 cod. civ., non spiega efficacia interruttiva della prescrizione dell’autonoma azione volta ad ottenere la restituzione delle somme pagate in esecuzione del contratto preliminare poi dichiarato nullo».
352
L’indebito oggettivo nascente dalla riforma della sentenza di primo grado
cutivo, fermo restando che la condanna restitutoria va subordinata al passaggio in giudicato e in ogni caso non può essere eseguita prima di quel
momento33, appare irragionevole non applicare l’effetto interruttivo della prescrizione del diritto alla restituzione delle somme accertate come
indebitamente corrisposte anche nel caso in cui l’appellante non abbia
ritenuto di proporre la domanda restitutoria nel giudizio d’appello, attendendo l’esito del giudizio d’ultimo grado o comunque il passaggio in
giudicato, prima di proporre la pretesa restitutoria conseguente.
6. Conclusioni
L’analisi dottrinale e giurisprudenziale consente pertanto logicamente di ritenere che il diritto alla restituzione di somme pagate in esecuzione di una sentenza di condanna poi riformata in appello e confermata in
Cassazione è soggetto, ai sensi dell’art. 2946 c.c., al termine di prescrizione decennale che inizia a decorrere dal giorno in cui è divenuto definitivo l’accertamento della sussistenza o meno del diritto e quindi l’accertamento dell’indebito.
Un percorso logico giuridico diverso finirebbe col discostarsi non
solo dalle citate norme di carattere generale, e come innanzi precisato ad
un principio generale di civiltà giuridica, ma anche alle più recenti pronunce in tema di prescrizione del diritto di credito, ovvero in tema di tutela al creditore attivo, nell’esercizio del diritto di ripetizione dell’indebito oggettivo nascente da sentenza di mero accertamento negativo: il decorso del termine decennale nel caso della ripetizione d’indebito in fattispecie analoghe si ha dal passaggio in giudicato della sentenza che oblitera il titolo di primo grado; la giurisprudenza, “sub” art. 2033 c.c. distingue infatti tra la “condictio indebiti sine causa” e quella “ob causam finitam”34.
33
Cass., 14 luglio 1997, n. 6387, in Mass. Giur. It., 1997: «Le pretese restitutorie conseguenti alla riforma in appello della sentenza di primo grado possono trovare ingresso nella fase di gravame, al fine di precostituire il titolo esecutivo per le restituzioni, fermo restando che la condanna restitutoria va subordinata al passaggio in giudicato e, in ogni caso, non
può essere eseguita prima di quel momento». Conforme Cass., n. 19299/2005, cit.
34
Ex plurimis Cass., Sez. III, 1° luglio 2005, n. 14084, in Obbl. e Contr., 2006, 1, 71 dove
in generale si opera il distinguo: «L’indebito oggettivo si verifica o perché manca la causa originaria giustificativa del pagamento o perché la causa del rapporto, originariamente esistente, è poi venuta meno in virtù di eventi successivi che hanno messo nel nulla o
reso inefficace il rapporto giuridico», ma più specificamente anche Cass., n. 5755/2003, l’inesistenza della “causa debendi” è un elemento costitutivo (unitamente all’avvenuto pagamento e al collegamento causale) della domanda di indebito oggettivo la relativa prova incombe all’attore (Cass., 23 agosto 2000, n. 11029 Cass., Sez. III, 13 novembre 2003, n. 17146.
353
Carolina Capaldo
La prima si verifica quando la causa originaria manca, la seconda quando è venuta meno. Il diritto infatti non era ancora esistente e la ricorrente era stata inerte perché pendeva un procedimento dal cui esito era subordinata la nascita di quel diritto. Ciò è quanto ha chiarito la Suprema
Corte. Se il difetto della “causa solvendi” sopravviene al pagamento, il termine prescrizionale decorre soltanto da quando è stato accertato che l’“accipiens” non aveva il diritto di detenere quanto ricevuto; d’altra parte fino
alla definitiva statuizione non era sorto il diritto del “solvens”: ovvero il
diritto di agire per la ripetizione.
In tema di azione di ripetizione dell’indebito (oggettivo) è stato
correttamente affermato che «l’esordio della decorrenza della prescrizione del diritto del solvens di ripetere quanto indebitamente pagato
(ex art. 2033 c.c.) coincide — relativamente all’ipotesi di dichiarazione giudiziale di nullità del titolo sulla base del quale sia stato effettuato un pagamento — con il passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della nullità del titolo sulla base del quale è stato effettuato il pagamento in quanto, prima di tale momento, permane l’esistenza del titolo così rimanendo esclusa la possibilità di esercizio processuale del diritto»35.
Pertanto, solo con la definitività della sentenza si può ritenere correttamente e legittimamente (in virtù dei citati artt. 2943, commi 1 e 2, 2945
e 2953 c.c.) ed anche in virtù di una buona fede processuale di dover reclamare gli importi pagati, ovverosia con il passaggio in giudicato sostanziale della sentenza: la pendenza del giudizio in appello e/o Cassazione non consentiva di ritenere formatosi il “giudicato”, ovvero la sussistenza di situazione giuridica definitiva facente stato tra le parti36. La de-
35
La Cass., 12 settembre 2000, n. 12038, in Riv. Notar., 2001, 922, secondo la quale:
«L’accertamento con sentenza della nullità del titolo sulla base del quale è stato effettuato un pagamento dà luogo ad un’azione di ripetizione di indebito oggettivo, il cui termine di prescrizione inizia a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza medesima;
infatti, prima di tale momento permane l’esistenza del titolo, così rimanendo esclusa la possibilità di esercizio processuale del diritto».
36
Cfr. Cass., 16 luglio 2001, n. 9642, in Mass. Giur. It., 2001, nonché per il commento in Contratti, 2001, 11, 1023; in Danno e Resp., 2002, 3, 264, nota di Dellachà, secondo la quale — in tema di diritti di garanzia per evizione — è il passaggio in giudicato della sentenza e non la conclusione del contratto di vendita a segnare l’esordio della prescrizione del
diritto del compratore alla garanzia per evizione, atteso che tale diritto presuppone non
solo l’esistenza di diritti del terzo sulla res compravenduta, ma anche il loro esercizio ed
il relativo accertamento positivo. Dunque la prescrizione dell’azione inizia a decorrere dal
momento in cui il diritto del terzo sul bene è incontestabilmente accertato. Tale incontestabilità può coincidere con il passaggio in giudicato della sentenza.
354
L’indebito oggettivo nascente dalla riforma della sentenza di primo grado
finizione di un giudizio civile (nella fattispecie, il processo era terminato con la sentenza d’appello passata in giudicato per la mancata proposizione del ricorso per Cassazione) — si pone come condizione non
solo logica ma propriamente giuridica: da ciò ne è derivato che la pronuncia di riforma in appello ed il passaggio in giudicato di detta sentenza si affermassero come necessario antecedente alla pronunzia sul
petitum processuale di ripetizione. La suprema Corte aveva già statuito su come la prescrizione della domanda di restituzione, conseguente alla sentenza di Cassazione di cui all’art. 389 c.p.c., decorresse dalla data di tale sentenza, trattandosi di azione conseguente, direttamente alla sopravvenuta inefficacia della decisione cassata e, quindi, esperibile dal solo momento della caducazione del titolo esecutivo precedentemente azionato dalla controparte37. Tanto più il principio espresso in detta pronuncia della suprema Corte deve valere se il diritto di
credito è sorto ed è stato costituito nel processo: nel caso in esame il
diritto di credito nasce dalla condanna alle spese processuali in primo
grado.
In conclusione, può affermarsi, il termine di decorrenza dell’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo ed ob causam finitam ai fini della prescrizione dell’azione, decorre senz’altro dalla definitività della statuizione dei diritti costituiti nel processo, non rilevando ai fini del diritto di ripetere l’atto della solutio intervenuta sulla scorta e quale effetto di
una sentenza provvisoria, che è una delle condizioni dell’azione di ripetizione ma che non può determinare da sola, il diritto di ripetere38.
Una più calzante interpretazione dell’art. 2935 c.c. correlata all’indebito oggettivo “ob causam finitam” può far ritenere che il momento in
37
Cfr. Cass., Sez. III, 5 settembre 1986, n. 5417, in Mass. Giur. It., 1986, secondo cui:
«La prescrizione della domanda di restituzione conseguente alla sentenza di cassazione,
di cui all’art. 389 c.p.c., decorre dalla data di tale sentenza, trattandosi di azione conseguente direttamente alla sopravvenuta inefficacia della decisione cassata e, quindi, esperibile
dal momento della caducazione del titolo esecutivo precedentemente azionato dalla controparte. La prescrizione della domanda di restituzione conseguente alla sentenza di cassazione, di cui all’art. 389 c.p.c., decorre dalla data di tale sentenza, trattandosi di azione
conseguente direttamente alla sopravvenuta inefficacia della decisione cassata e, quindi,
esperibile dal momento della caducazione del titolo esecutivo precedentemente azionato
dalla controparte».
38
Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 908; Satta, Comm. C.P.C., II, 2, Milano, 1962, 291: «Il titolo della restituzione è unicamente nella cassazione della sentenza
in forza della quale gli adempimenti volontari o forzati sono avvenuti: il giudice non ha
quindi altro potere che quello di accertare l’avvenuta cassazione».
355
Carolina Capaldo
cui il diritto può essere fatto valere è quello in cui v’è la certezza (definitività alias passaggio in giudicato) della riforma del diritto già costitituito nella sentenza provvisoria di primo grado39.
39
Per un termine di prescrizione che pertanto decorre immediatamente dalla data
della sentenza di cassazione, trattandosi di azione conseguente in via diretta alla sopravvenuta inefficacia della decisione cassata e, quindi, esperibile dal momento della caducazione del titolo esecutivo che precedentemente presidiava l’attribuzione patrimoniale favorevole alla controparte: Cass., 5 giugno 2006, n. 13139, in Mass. Giur. It., 2006. In tal senso in dottrina v. Marco De Cristofaro, Forma e competenza per le domande restitutorie a seguito di cassazione per difetto di giurisdizione, dopo l’introduzione della translatio iudicii, in Riv. Esec.
Forzata, 2009, 3.
356
GIOVANNI CARMELLINO
Una prospettiva d’oltralpe: la procédure d’alerte
ed il libro VI del codice di commercio francese
SOMMARIO: 1. La prévention des difficultés: un breve disamina storica del diritto moderno
delle procedure collettive francesi. - 1.1 La legge del 3 luglio del 1967 e l’ordinanza
del 23 settembre 1967. - 1.2 Le droit contemporain des entreprises en difficulté. - 1.2.1 La
consecration du droit d’alert du president du tribunal. - 1.3 La riforma della legge del 26
luglio 2005 n. 845: sauvegarde des entreprises. - 1.4 La loi du 17 mai 2011 de simplification
et d’amélioration de la qualité du droit des sociétés. – 1.5. L’ordinanza n. 326 del 12 marzo 2014. - 2. La rilevazione delle difficoltà e les procédures d’alerte: una riforma in corso di riflessione. - 3. Gli agenti della prevenzione nella procedura. - 3.1 Les commissaires aux comptes. - 3.2 Le istituzioni rappresentative del personale. - 3.3 Les associates. - 3.4 Les groupements de prévention agrees. - 4. Le quattro fasi dell’allerta. - 4.1 L’allerta nelle società anonime. - 4.2 L’allerta nelle altre società commerciali. - 4.3 L’allerta nelle persone giuridiche di diritto privato non commerciali aventi attività economica e nelle associazioni. - 4.4 Segue. Aggiornamento. - 4.5 Note in tema di responsabilità dei dirigenti. - 5. Il potere di allerta del Presidente del Tribunale.
1. La prévention des difficultés: un breve disamina storica del diritto moderno delle procedure collettive francesi
La materia del diritto delle procedure collettive ha conosciuto, in terra transalpina, una reale evoluzione, a tratti definita rivoluzione1, per
divenire, con il trascorrere delle legislazioni, una normativa che, da rimedio teleologicamente finalizzato all’estinzione delle passività del debitore, ha mutato rotta verso l’attenzione alle entreprises en difficultés, locuzione con la quale si individuano delle situazioni di dissesto imprenditoriale a monte dell’intervento giudiziario liquidatorio.
Per soddisfare l’obiettivo di améliorement del diritto delle imprese
in crisi, il legislatore francese ha affinato gli strumenti e moltiplicato le
riforme, nella ricerca di un bilanciamento tra finalità distinte, che si sono
avvicendate quali portanti dommatici di ciascuna di esse: in un primo
tempo, il legislatore ha inteso punire le commerçant che non avesse ono1
In questo senso, v. C. REGNAUT-MOUTIER, Les risques et responsabilités en droit des procédures collectives. Propos introductifs, Actes du colloque de Cane du 15 octobre 2010 «la loi de sauvegarde des entreprises. Risques et responsabilité en droit des procédures collectives», in “Revue
des procédures collectives”, 6, 2010, p. 62 ss.
357
Giovanni Carmellino
rato i suoi impegni; in seguito, l’attenzione è stata rivolta verso i creditori insoddisfatti; infine, in un’epoca più recente, la preoccupazione primaria si è sostanziata nella necessità di assicurare la sopravvivenza delle imprese che meritassero un’àncora di salvezza. A tal prosito, però, il
diritto delle imprese in crisi è divenuto negli anni sempre più complesso, senza mai pervenire a dei risultati soddisfacenti2.
É ben chiara in dottrina la circostanza secondo la quale la prévention
risponde a tre bisogni: quello del debitore di evitare il fallimento, quello dei creditori di non vedere il proprio diritto di credito svanire nella nebbia di una procedura giudiziaria liquidatoria e quello generale, che impone “d’eviter le trouble grave apporté à la vie sociale, politique et économique
du pays par la défaillance d’une entreprise”3.
In tal senso, il diritto delle imprese in crisi e, in generale, il diritto
delle procedure collettive, si è sforzato in passato (come tuttora, del resto), di conciliare questi interessi4.
Siffatte esigenze, attualmente, sgomitano in un sistema che, come
ricordano alcuni autori5, trae linfa dal diritto commerciale, del quale continua a portare i segni, con l’effetto di estendere il campo di applicazione de le droit des entreprises en difficulté, il quale ormai sconfina nei confronti degli artigiani, dell’insieme des personnes morales de droit privé6, degli imprenditori agricoli e delle professions libérales ou individuelles.
2
Queste preoccupazioni sono segnalate da Y. GUYON, Droit des affaires, II, Entreprises
en difficulté. Redressement judiciaire – Faillite, Parigi, Economica, 2003, p. 8 ss.; M.A. FRISONROCHE, Le législateur des procédures collectives et ses échecs, in AA.V.V., Procédures collectives
et droit des affaires, Mélanges en honneur d’Adrienne Honorat, a cura di M.A. FRISON – ROCHE,
Parigi, Frison-Roche, 2002, p. 109 ss.; M.H. RENAULT, La déconfiture du commerçant, du débiteur sanctionné au créancier victime, in “Revue Trimestrielle de Droit Commercial”, 2000, p.
533 ss.; F. TERRÉ, Droit de la faillite ou faillite du droit ?, in “Revue De Jurisprudence Commerciale”, 1991, p. 1 ss.
3
Così, J.F. MARTIN, La prévention: histoire d’une pratique consulaire, in “Droit & Patrimoine” Febbraio, 1998, p. 44 ss.
4
Così, letteralmente, Y. GUYON, Droit des affaires, cit., p. 7, secondo il quale le droit des
entreprises en difficulté è, allo stesso tempo, tanto un diritto conflittuale, che serve da banco di prova alla maggior parte delle tecniche giuridiche, quanto un diritto realista, che non
esita ad applicare delle soluzioni pragmatiche allorché sia necessario permettere di salvare l’impresa défaillante o migliorare il pagamento dei creditori.
5
J.P. SORTAIS, Entreprises en difficulté. Les mécanismes d’alerte et de conciliation, Parigi,
L.G.D.J., 2010, p. 14 ss.
6
Ad eccezione dei sindacati de coproprieté: v. le disposizioni applicabili alle coproprieté in difficoltà previste dagli artt. 29-1 a 29-6 della legge 65-557 del 10 luglio 1965; in dottrina, cfr. P. RAMACKERS, L’inapplicabilité du règlement amiable, du redressement judiciaire et de
la liquidation judiciaire aux syndicats de copropriété, in ”Les Petites Affiches”, 1995, gennaio,
1995, p. 17 ss.
358
Una prospettiva d’oltralpe: la procédure d’alerte ed il libro VI del codice di commercio francese
Da ciò si evince che l’intero insieme delle attività professionali private, quale che sia la loro modalità di esercizio, è oggi posto sotto l’egida del diritto delle imprese in crisi, con ciò ponendo fine al paradosso
creato dal legislatore del 1984-1985, stagione normativa tendenzialmente interessata soltanto ad imprese di particolari dimensioni, ma che non
manca di tralasciare il fatto che le piccole e le medie rappresentano, in
quel periodo, il 90% del mercato nazionale, i due terzi dell’impiego ed
un terzo dell’esportazioni7.
In via di approssimazione generale è d’obbligo sottolineare che le
droit de faillite, oggi qualificato quale droit des entreprises en difficulté, trova la sua dimora normativa nel libro sesto du Code du Commerce intitolato, forse in maniera troppo ambiziosa8, “Des entreprises en difficulté” il
quale, al suo interno si dirama in quattro titoli: il primo, “La prévention
des entreprises et la conciliation”, tende a favorire un trattamento stragiudiziale della crisi e sostituisce le règlement amiable; nel secondo, terzo e
quarto titolo, rispettivamente della sauvegarde, del redressement judiciaire e dalla liquidazione, si nota la protezione giudiziale riservata al trattamento di tali difficoltà9.
La ricerca, da parte del legislatore, di una regolamentazione anticipata des difficultés des entreprises va ascritta, quindi, al passaggio dall’obiettivo iniziale di eliminazione del debitore inadempiente a quello prioritario del suo recupero -peraltro consacrato solo di recente10-, alla tardività dell’intervento giudiziario nella crisi di impresa, e alle ricadute sociali ed economiche che ad essa sono seguite.
1.1 La legge del 3 luglio del 1967 e l’ordinanza del 23 settembre 1967
L’obiettivo della dissociazione dell’uomo dall’impresa interviene con
la stagione legislativa degli anni ’60, la quale annuncia, inoltre, la nascita del concetto di ‘entreprise en difficulté,11: in particolare, è legge del 13 lu7
In questo senso, J.P. SORTAIS, Entreprises en difficulté, cit., p. 15; J. PAILLUSSEAU, Le vicissitudes de la loi du 25 janvier 1985, in “Les Petites Affiches”, Gennaio, 1994, p. 7 ss.
8
Così, letteralmente, A. JACQUEMONT, Droit des entreprises en difficulté, Parigi, Litec,
2011, p. 2 ss.
9
Queste disposizioni sono completate dalle regole specifiche in tema di responsabilità e sanzioni (titolo V), dalle disposizioni generali della procedura (titolo VI), da quelle applicabili ai dipartimenti du Haut-Rhin, du Bas-Rhin e della Moselle. In ultimo, si segnala l’aggiunta del titolo VII concernente le disposizioni particolari applicabili all’EIRL.
10
Per uno studio puntuale della storia del diritto fallimentare francese, v. R. SZRAMKIEWICZ, Histoire du droit des affaires, Parigi, Domat-Montchrestien, 1989, passim.
11
Così C. SAINT-ALARY-HOUIN, Droit des entreprises en difficulté, Parigi, Montchrestien,
2001, p. 16 ss.
359
Giovanni Carmellino
glio 1967 a porre l’attenzione sulla necessità di eliminare le imprese economicamente condannate senza, tuttavia, colpire d’infamia i dirigenti che
non l’abbiano meritato.
Sebbene le norme non parlino che di debitore, esse si applicano a
tutte le persone morali di diritto privato anche se non commercianti, dissociando anche la procedura dalla commercialité.
È opinione consolidata in dottrina12 quella secondo cui il tribunale,
nel contesto delle nuove regole, fosse invitato ad una doppia analisi: di
fronte ad una attività imprenditoriale vitale dotata di chances di presentare un concordato, avrebbe pronunciato le règlement judiciaire; al contrario, se l’impresa oggetto del provvedimento fosse ormai avviata verso la
scomparsa, senza alcuna possibilità di recupero economico e finanziario,
sarebbe stata aperta la procedura di liquidazione giudiziaria. La dissociazione dell’uomo dall’impresa si individua laddove la sorte di quest’ultima è determinata senza avere riguardo alla situazione dei dirigenti, che
potranno essere condannati, nei casi applicabili, al fallimento personale.
I testi del 1967 organizzano quattro misure sanzionatorie, che vanno a modellarsi in relazione alle diverse esigenze sottese ed alle altrettanto diverse tipologie di dissesto: il règlement judiciaire, procedura diretta a reindirizzare l’imprenditore sul normale equilibrio di impresa grazie alla conclusione di un concordato; la liquidation des biens, con gli obiettivi della eliminazione delle imprese senza prospettive di recupero e della soddisfazione dei creditori; le faillite personelle, che si traduceva nell’interdizione di esercitare attività d’impresa, individuale o collettiva, commerciale o artigianale, nella privazione del diritto di voto e nell’interdizione ad assumere funzioni elettive; il divieto de diriger, gérer, administrer
ou controler, sia tutte le imprese individuali, commerciali o artigianali, sia
le sole persone morali sottoposte alla procedura.
Il dispositivo legislativo viene completato dall’ordinanza del 23 settembre 1967, che dà i natali alla procedura di suspension provisoire des poursuites et d’apurament collectif du passif, funzionale al recupero di quelle imprese che non siano ancora in stato di cessazione di pagamenti, ma la cui
scomparsa sia tale da provocare un pregiudizio grave per l’economia nazionale o regionale13.
12
V. A. JACQUEMONT, Droit des entreprises en difficulté, cit., p. 9 ss.; cfr. C. SAINT-ALADroit des entreprises en difficulté, cit., p. 17, la quale ritiene che la statuizione sulle diverse procedure avrebbe dovuto essere oggetto di una opzione economica esercitata
dal tribunale, e non più legata al requisito soggettivo della colpa dei dirigenti.
13
La verifica di tale condizione veniva svolta in funzione del montante dei ricavi e
dal carattere dell’indispensabilità dell’attività per la regione; cfr. J.Y. CHEVALLIER, Les condiRY-HOUIN,
360
Una prospettiva d’oltralpe: la procédure d’alerte ed il libro VI del codice di commercio francese
La procedura concede, in buona sostanza, una moratoria provvisoria nel corso della quale il debitore, assistito da un curateur aux biens, presenta un plan de redressement14.
Ma i bilanci provvisori non sono stati confortanti e, in questo senso, molti autori hanno reclamato un sistema che permettesse di intervenire bien en amont della cessazione dei pagamenti. È così che il rapporto
Sudreu15, nel 1975 (v. infra 1.2), ha proposto l’individuazione di clignotants
aventi per oggetto lo scopo di mettere in guardia l’imprenditore contro
il sopravvenire delle difficoltà.
1.2 Le droit contemporain des entreprises en difficulté
È stato sottolineato16 che uno degli obiettivi delle riforme successive del diritto delle imprese in crisi sarebbe dovuto consistere nello sdrammatizzare le misure o le procedure proposte dal legislatore all’imprenditore, attraverso una regolazione che riposasse su relazioni confidenziali e, inoltre, su una precisa definizione delle responsabilità dei rispettivi attori: l’idea di prevenire la faillite trova la sua ragion d’essere nelle motivazioni del debitore, dei creditori e del legislatore17.
La prévention et le traitement des difficultes sono, dopo gli inizi degli
anni ’80, al centro delle preoccupazioni del legislatore, che vuole agire
efficacemente per ridurre il numero crescente delle imprese che vedono
la sorte della scomparsa dal mercato.
I testi fondatori, da qualcuno considerati “le trois piliers legilatifs du
régime originarie18”, sono, da una parte, la legge n. 84 -148 del 1° marzo
1984, relativa alla prevenzione ed al règlement e, dall’altra, la loi n. 85-98
tions d’ouverture des nuovelles procédures collectives, in AA.VV., Faillite, diretto da R. RODIERE,
Parigi, Dalloz, 1970, p. 57 ss. La dottrina maggioritaria non ha dubbi sul suo carattere preventivo, tanto da considerarla una rottura con il diritto anteriore: C. SAINT-ALARY-HOUIN, Droit
des entreprises en difficulté, cit., p. 21; A.M. BAUDRON, La suspension provisoire des poursuites et
l’apurament collectif du passif selon l’ordonnance du 23 septembre 1967, Paris, Librairie générale
de droit et de jurisprudence, 1972, p. 1 ss. Secondo A. JACQUEMONT, Droit des entreprises en
difficulté, cit., p. 10, è da questo momento in poi che si accetta l’idea di un intervento del potere giudiziario per permettere ad una impresa di superare delle difficoltà, al prezzo di sacrifici imposti ai creditori e, indirettamente, di distorsioni alla concorrenza.
14
V. P. BLONDEL, Le plan, in Faillites, cit., p. 367 ss.
15
In Doc. Française, p. 175 ss.
16
V. M.H. MONSÈRIÉ-BON, Entreprises en difficulté. Détection des difficultés, Tolosa, Répertoire Dalloz Droit commercial, 2012, p. 6 ss.
17
Cfr. M. BOURRIÉ-QUENILLET, E. STEPHANY, Nuovelles approches de la prévention des entreprises en difficulté, in “Les Petites Affiches”, 23 ottobre 2001, p. 6 ss.
18
Y. GUYON, Droit des affaires, cit., p. 23.
361
Giovanni Carmellino
del 25 gennaio 1985. Se quest’ultima applica delle nuove tecniche al trattamento delle crisi di impresa caratterizzate dallo stato di cessazione dei
pagamenti, la prima è considerata una innovazione rilevante nel paesaggio giuridico francese: in effetti, benché certe soluzioni fossero già conosciute dalla pratica, essa è la prima ufficialmente consacrata alla prévention des difficultés des entreprises19.
L’informazione dirigenziale e la filosofia riformista trovano il loro
punto di fuga nella necessità di facilitare, attraverso una migliore conoscenza della situazione finanziaria dell’impresa, l’adozione precoce di efficaci misure di recupero, associando, inoltre, la détection e la prévention:
se è vero che i dati fondamentali delle défaillances d’impresa risiedono nella loro vulnerabilità finanziaria, legata alla sottocapitalizzazione ed alla
insufficienza dei fondi propri, com’è vero che queste difficoltà sono generalmente prevedibili attraverso un controllo gestionale più rigoroso,
diventa allora essenziale che les chefs d’entreprises abbiano conoscenza il
più presto possibile della situazione reale, al contrario mostrando l’esperienza un fallimento delle misure prese in considerazione tardivamente. La prevenzione della crisi consiste, prima di tutto, nella possibilità che
i dirigenti prendano coscienza della situazione attuale e della evoluzione dell’impresa, affinché predispongano dei dispositivi di allerta o, nei
casi in cui essi risultino applicabili, pervengano a soluzioni concordate20.
Questi obiettivi sono perseguiti dal legislatore attraverso un miglioramento della informazione prévisionnelle, prolungata da un rinforzo del
controllo dei conti e dai meccanismi di allerta che determineranno l’eventuale possibilità di pervenire ad un règlement amiable, soluzione contrattuale e strettamente confidenziale, con la quale il debitore negozierà un
accordo con i suoi principali creditori, avente ad oggetto delle remissioni di debito o delle postergazioni di credito.
La priorità, dunque, è conferita al salvataggio di quell’impresa che
si trovi in difficoltà21, la cui ultima nozione è stata oggetto di numerosi tentativi definitori: il rapporto della commissione presieduta da M. Sudreau,
fornendo una lista di indici significativi di una situazione preoccupante,
19
C. SAINT-ALARY-HOUIN, Droit des entreprises en difficulté, cit., p. 28, secondo la quale la
riforma realizzata si è tradotta in una rifondazione totale delle procedure avente come strategia legislativa comune quella di pervenire al salvataggio delle imprese in crisi, attraverso
la messa in piazza delle tecniche di prevenzione e di traitement delle difficoltà di impresa.
20
In questo senso, Y. CHAPUT, Droit de la prévention et du règlement amiable des difficultés des entreprises, Parigi, Puf, 1986, p. 12 ss.
21
Conformemente, v. C. SAINT-ALARY-HOUIN, Droit des entreprises en difficulté, cit., p.
29, che parla di legge volontarista, in quanto persegue una politica economica precisa: pervenire ad un recupero dell’impresa.
362
Una prospettiva d’oltralpe: la procédure d’alerte ed il libro VI del codice di commercio francese
va ad inserirsi proprio in questa prospettiva. Per la prima volta, il diritto
francese mostra di mettere in piazza delle tecniche tendenti a prevenire le
manifestazioni costitutive dello stato di cessazione dei pagamenti fornendo degli elementi di diagnostica permanente22 e -con ancora un po’ troppa reticenza- di ausilio alla ricerca di una terapeutica efficace.
In questa ottica, la “commissione Sudreu” sottolinea l’importanza
delle problematiche riscontrate per informare gli azionisti, les salariés e
i creditori nel momento del sopravvenire delle difficoltà e, segnalando
l’assenza di mezzi propri diretti a rilevare i segni della crisi, propone di
accrescere il numero di documenti che le società dovrebbero depositare, e stila una lista di indici significativi di situazioni preoccupanti23.
Inoltre, il rapporto citato si segnala per aver gettato le basi della procédure d’alerte, in quanto prevede il riconoscimento di un potere di intervento ai soggetti aventi una relazione di diritto con l’impresa, se uno o
più indici siano contestati; inoltre, sancisce la possibilità di indirizzare
una domanda esplicativa ai rappresentati legali che hanno l’obbligo di
consultare il consiglio di amministrazione o di sorveglianza: in mancanza, o nel caso di risposta insufficiente, i titolari del potere di intevento possono allertare il tribunale del commercio, potendo quest’ultimo prescrivere tutte le misure utili, come il ricorso ad un esperto, l’attribuzione della gestione ad un terzo ed, eventualmente, dichiarare la suspension provisoire des poursuites, constatando lo stato di cessazione dei pagamenti24.
L’insieme di tali istanze è confluito, sebbene limato da altre esigenze,
nei testi portanti del diritto contemporaneo francese delle imprese in crisi25.
Questi si caratterizzano, innanzitutto, per l’estensione del campo del-
22
J. MASSON, Le diagnostic d’entreprise. Le point du vue du banquier, in “Revue
Banque”, 1978, 1237 ss.
23
La lista, puramente indicativa, è la seguente: le report renouvelé d’échéances; la notificazione di protesti, l’inadempimento alle cotisations fiscales e sociales; l’omissione delle
pubblicazioni legali nel termine previsto dalla legge; il non rispetto delle date legali di tenuta e della convocazione delle assemblee, del comité d’entreprise, del consiglio di amministrazione o di sorveglianza; il rifiuto di certificazione dei conti da parte dei commissaires
aux comptes o il rifiuto di approvazione da parte dell’assemblea; il licenziamento collettivo di una certa percentuale di effettivi; la perdita di tre quarti del capitale sociale; tre esercizi successivi deficitari.
24
Si segnalano, tuttavia, delle critiche mosse da alcuni autori agli indici inseriti nel
rapporto “Sudreu”, tutte facenti leva sulla circostanza secondo la quale essi denotassero
una situazione già largamente compromessa e costituissero metodi di approccio a corto,
medio e lungo termine, dando una latitudine troppo estesa della nozione d’entreprise en difficulté; così, J.Ph. HAEL, Les techniques de renfloument des entreprises en difficulté, Parigi, Thése, Linrairies Techniques, Fondation Nationale puor le droit de l’Entreprise, 1981, p. 54 ss.
25
V. C. SAINT-ALARY-HOUIN, Droit des entreprises en difficulté, cit., p. 28.
363
Giovanni Carmellino
la contabilità tradizionale, che impone ad alcune imprese, aventi particolari dimensioni, di redigere dei documenti previsionali che permettano di anticipare le difficoltà prevedibili: in considerazione dell’insufficienza della contabilità tradizionale, rivolta verso il passato, è stata predisposta la pratica della contabilità provisionnelle, al fine di permettere ai dirigenti di risultare in possesso di elementi informativi più completi ed orientati prospetticamente. In questo quadro, la legge ha imposto ad alcune
persone collettive di stabilire quattro nuovi documenti soggetti all’analisi degli organi di direzione nel contesto dei loro rapporti.
Ma la più importante innovazione della legge del 1984 si sostanzia
-ed è questo, forse, il tratto di maggior sintonia con il rapporto Sudreunella predisposizione della procédure d’alerte ad iniziativa dei commissaires aux comptes, dei dipendenti, dei soci e del Tribunale, che tende a segnalare ai dirigenti tutti quei fatti che siano di natura tale da compromettere la continuité de l’exploitation, affinché si attivino per intraprendere tutte le misure che una tale situazione impone.
Il legislatore ha scelto, quale indice rilevatore delle difficoltà, il concetto di continuité de l’exploitation26 che, di natura contabile, implica la permanenza delle operazioni in un futuro prevedibile: in altri termini, suppone una continuazione dell’attività in guisa tale che il reddito di impresa permetta di ammortizzare il suo attivo su una durata uguale a quella della sua vita, e di pagare tutti i costi differiti e tutti quelli in scadenza, compresa l’esecuzione di tutte le obbligazioni legali o contrattuali27.
In buona sostanza, può dirsi che le misure di rilevazione precoce delle difficoltà, grazie ai documenti previsionali, potranno evitare le minacce pesanti sulla continuità delle operazioni come sopra definita: in caso
di inerzia da parte dei commissaires, la palla passa ai dipendenti, fino alla
possibilità di rendere pubblica la crisi attraverso il coinvolgimento degli associati28.
La seconda volet29 è consacrata alle procedure collettive propriamen-
26
Per uno studio attento v. J. PAILLUSSEAU, Qu’est-ce qu’une entreprise en difficulté?, in
“Revue De Jurisprudence Commerciale”, 1976, p. 259 ss..
27
In questo senso, B. SOINNE, Problématique de la continuité d’exploitation dans les procédures collectives de droit commercial, in La refonte du droit de la faillite, Atti del Convegno del
maggio 1978, 11 e 12, Université de Lille III, 1978, p. 59 ss.
28
In senso conforme, Y. CHAPUT, Droit de la prévention et du règlement amiable des difficultés des entreprises, cit., p. 21.
29
L’espressione è di Y. GUYON, Droit des affaires, cit., p. 23, il quale aggiunge che un
dato essenziale della legislazione in parola è quello del criterio della cessazione dei pagamenti, prima del quale alcuna procedura collettiva può essere aperta.
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Scritti in tema di esclusione e responsabilità del socio nelle società di persone
te dette: la loi del 25 gennaio 1985, sul redressement judiciaire et la liquidation, sostituisce il règlement judiciaire, la liquidation des biens e la suspension
provisoire des poursuites.
Il terzo intervento normativo rilevante ha ad oggetto gli ausiliari di
giustizia: vengono istituite le figure professionali dell’amministratore giudiziario, votato alla gestione dell’impresa in redressement, del mandatario giudiziario al redressement e alla liquidazione, che rappresenta i creditori e, infine, degli experts en diagnostic.
Nell’ottica di umanizzare la procedura, inoltre, il legislatore ha esteso l’ambito dei soggetti interessati all’apertura e allo sviluppo della stessa30: la riforma elimina la distanza fino ad allora frapposta tra i dipendenti ed il titolare dell’impresa, ed eleva i primi al rango di creditori, prevedendo un sistema di consultazione e di informazione dei rappresentanti del personale ed istituendo un nuovo organo, c’est a dire, le représentant des salariés31.
Ciò nonostante, sebbene la riforma -soltanto a tratti sintetizzata- abbia ricevuto una approvazione generale da parte degli utenti del diritto, è stata segnalata la parziale ineffiacia dei testi sulla prevenzione a causa della radicata preferenza verso il redressement judiciaire nella morale
giudiziaria: «questa riforma non si è davvero ancorata nella mentalità»32, tant’è che la procedura d’allerta ad opera dei commissaires è stata scarsamente utilizzata33.
30
“L’obiettivo prioritario è, ormai, quello di salvare l’impresa, non più solamente quello di permettere il regolamento dei crediti derivanti da rapporto di lavoro!”; così, letteralmente, C. SAINT-ALARY-HOUIN, Droit des entreprises en difficulté, cit., p. 33; inoltre, cfr. A. COEURET, La raprésentation du personnel dans l’entreprise en difficulté, in “Droit social”, 1986, p.
651 ss.
31
Il suo ruolo si caratterizza, nel contesto di una procedura, per il controllo sul rappresentante dei creditori durante le operazioni di verifica dei crediti salariali; inoltre, rappresenta i diritti dei dipendenti ed esercita, nella procedura semplificata, le funzioni normalmente devolute alle istituzioni rappresentative propriamente dette qualora l’impresa ne sia priva.
32
C. SAINT-ALARY-HOUIN, Droit des entreprises en difficulté, cit., p. 37.
33
In senso contrario si pone J. Ph. HAEL, La consecration du droit d’alerte du president
du tribunale, in “Les Petites Affiches”, 30 settembre 1994, p. 117 ss., secondo il quale il bilancio di tali dispositivi è meno negativo di quello descritto, in quanto i commissaires hanno constatato che in ragione dell’esistenza dell’allerta i dirigenti sono stati sollecitati più
sovente ad informarli nel momento della presa di decisioni importanti, ovvero in un momento precedente ad una situazione giustificativa dell’allerta medesima: si può pensare,
in questo caso, che alcuni imprenditori hanno preferito instaurare un dialogo altresì con
il comité d’entreprise al fine di evitare l’attivazione di siffatto meccanismo.
365
Giovanni Carmellino
1.2.1 La consecration du droit d’alert du president du tribunal
Il bisogno di prevenzione, quindi, appariva di estrema rilevanza,
tanto da determinare la creazione di tecniche informali sviluppatesi nella prassi. In particolare, les tribunaux du commerce cominciavano ad organizzare un sistema di depistaggio delle défaillances e di trattamento di queste ultime attraverso la negoziazione. In questo senso, la creazione della camera di prevenzione di Parigi fornisce un esempio particolarmente istruttivo al riguardo e, insieme alle strutture ed alle tecniche spontanee di regolazione delle difficoltà d’impresa, rappresentano l’emblema
del fallimento del sistema legale. In effetti, i tribunali del commercio organizzavano delle cellules de prévention (più ampiamente v. infra 5), nelle quali spiccava la presenza di un giudice delegato alla prevenzione delle difficoltà d’impresa.
Sulla scia, pertanto, del fallimento dei dispositivi normativi, ed in sintonia con le pratiche diffuse nelle aule dei tribunali, il legislatore tenta,
nel 1994, di battere la strada del trattamento delle difficoltà di carattere
giudiziario: tappa fondamentale, la legge del 10 giugno 1994 prende in
considerazione, al contrario dei testi del 1980, la funzione curativa, e consacra il diritto d’allerta del presidente du Tribunal de commerce e di quello de grande instance34; inoltre rende obbligatorio il controllo attribuito ai
commissaires presso la maggior parte delle persone giuridiche. In materia
di allerta, difatti, il legislatore del 1984 ha operato un distinguo tra le società commerciali, nelle quali l’allerta è elevata a dovere, e le persone morali di diritto privato non commercianti esercenti una attività economica,
in cui il commisaire è maître di apprezzare l’opportunità dell’intervento35.
La legge del 10 giugno 1994 livella questa discrasia terminologica:
anche le commissaire aux comptes di una persona morale di diritto privato non commerciante, che sia di nomina obbligatoria o volontaria, ha l’obbligo di informare i dirigenti dei fatti di natura tale da compromettere
la continuità delle operazioni rilevati in occasione della loro missione36.
34
Vedi, in termini, J.Ph. HAEL, La consecration du droit d’alerte du president du tribunale,
cit., p. 117.
35
In questo senso, la formulazione letterale delle norme può rendere l’idea della differenza: “le commissaire aux comptes demande des explications” in un caso; “le commissaire ...
peut attirer l’attention” nell’altro.
36
Cfr. J.F. BARBIÉRI, L’amelioration de la prevention et la procédure d’alerte: le role des commissaires aux comptes, in “Les Petites Affiches”, 14 settembre 1994, p. 110 ss., il quale rileva, inoltre, che la scomparsa del singolare ‘fait’ a profitto del plurale ‘des faits’, raccomanda ai commissaires di non prendere in considerazione soltanto una circostanza isolata, bensì un fascio di indici di difficoltà.
366
Una prospettiva d’oltralpe: la procédure d’alerte ed il libro VI del codice di commercio francese
Ma l’innovazione di maggior rilievo è senza dubbio quella relativa all’estensione del campo di applicazione dell’allerta del tribunale: se
l’art. 34 della legge del 1984 aveva istituito, a profitto del Tribunal de commerce, la possibilità di convocare i dirigenti delle società per le quali i conti annuali facessero apparire una perdita netta contabile superiore ad un
terzo del montante dei capitali propri, la legge del 1994 ne ha esteso i confini verso una generalizzazione a tutte le imprese, aumentando le fonti
di informazione del presidente, e prevedendo un criterio unico di attivazione, in termini cronologici, piuttosto precoce37.
Sebbene non obbligatoria, le norme interessano tutti i dirigenti delle società commerciali, del GIE e delle imprese individuali, commerciali od artigianali, quale che sia la loro taglia, il loro numero di dipendenti od il loro chiffre d’affaires.
Una terza misura rilevante concerne l’esternazione dell’allerta attivata dai commissaires aux comptes. In tema è stato detto che, attraverso
questa organizzazione, i dirigenti saranno senza dubbio convinti della
necessità di prendere le misure necessarie in una fase strettamente confidenziale, che precede l’attivazione dell’allerta propriamente detta, al fine
di evitare la convocazione da parte del tribunale38.
Sotto il profilo oggettivo si omologa il criterio di allerta del Presidente: la legge prevede, difatti, che l’allerta “giudiziaria” sia attuabile nell’ipotesi in cui l’impresa conosca delle difficoltà de nature à compromettre
la continuité de l’exploitation.
Siffatta stagione normativa doveva essere completata da una riforma dei tribunaux du commerce, competenti a conoscere la maggior parte
delle procedure collettive.
La questione, riproposta nel 199839, è confluita in un progetto di legge indicante la necessità che il tribunale di commercio fosse presieduto
da un magistrato professionale competente in materia di procedure collettive. Anche tale progetto è stato male accolto dalla magistratura consolare40 sebbene presentasse due vantaggi particolari: migliore giustizia
associata alla competenza tecnica del magistrato professionale nel cam-
37
V. J.Ph. HAEL, La consecration du droit d’alerte du president du tribunale, cit., p. 117.
V. J.Ph. HAEL, La consecration du droit d’alerte du president du tribunale, cit., p. 117.
39
V., F. COLCOMBET, M. MONTEBOURG, Les tribunaux de commerce, une justice en faillite?,
Ass. Nat., rapporto 1038, luglio 1998.
40
Poi definitivamente abbandonato in favore di una mini riforma consistente nella
soppressione dei tribunali di piccole dimensioni ed in un miglioramento della formazione dei magistrati consolari.
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Giovanni Carmellino
po del mondo degli affari; miglioramento della trasparenza delle procedure collettive in considerazione della impossibilità, da parte del giudice, di essere sospettato di connivenza con il debitore in crisi.
1.3 La riforma della legge del 26 luglio 2005 n. 845: sauvegarde des entreprises
Questa terza grande riforma costituisce l’ultima tappa dell’evoluzione legislativa iniziata da tempi lontani, tanto in Francia che negli altri paesi stranieri41.
La loi n. 845 del 2005 ed il suo decreto di applicazione del 28 dicembre, testi codificati nel Code du Commerce, sono all’origine di una nuova riforma d
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