I “TECNICI” AL POTERE (Platone) “Lo scambio dei ruoli e delle professioni fra le tre classi costituirebbe […] un danno irreparabile per lo Stato, e non sarebbe errato definirlo un vero attentato”. (Platone, Repubblica, IV, 434 B-C) La crociata contro il relativismo È Platone, il più illustre discepolo di Socrate, che conduce fino alle estreme conseguenze la lotta culturale contro il relativismo. Una battaglia, credo, analoga a quella che sta conducendo il papa attuale. Sì. E non è il solo a condurla. Con lui anche intellettuali per nulla credenti. È quella che viene chiamata con un’accezione negativa una “crociata” contro il relativismo. Ma non si tratta di una battaglia persa in partenza? Come possiamo sostenere oggi verità assolute, tanto più di fronte a una crescente compresenza di religioni e culture diverse? Gli antirelativisti si pongono l’obiettivo di difendere il patrimonio di valori dell’Occidente (un patrimonio di valori non solo cristiano) contro chi sostiene che i valori, in quanto relativi, sono equipollenti. Ma se è così, mi pare sia una preoccupazione legittima: non possiamo noi occidentali, in nome del rispetto delle altre culture, giustificare tutto, magari la stessa infibulazione. Infatti: per noi l’infibulazione è una violenza nei confronti della dignità di una donna. Non possiamo quindi ammetterne la pratica nei nostri ospedali. Per noi sarebbe non solo un comportamento immorale, ma anche illegale perché l’integrità fisica di una persona è un diritto costituzionalmente garantito. Il relativismo allora non regge e la crociata in corso è sacrosanta. Una cosa è certa: i valori non sono equipollenti. Ma se non sono equipollenti, vuol dire che alcuni sono superiori ad altri. È quanto spesso si sostiene: la nostra civiltà è superiore ad altre. Si tratta di un nostro punto di vista. Altri potrebbero dire altrettanto dal loro punto di vista e sostenere che noi occidentali abbiamo distrutto valori sacri. La verginità di una giovane, ad esempio. Si tratta di un valore che è stato considerato sacro a lungo anche da noi. È vero, come è stato un valore ciò che oggi condanniamo: il fanatismo religioso. Abbiamo addirittura ucciso in nome di Dio. Ma questo è una conferma del relativismo: un relativismo temporale. Ciò che per noi consideravamo pacifico, ora per noi è un delitto orrendo. E siamo ben lieti di avere conquistato come valori la libertà di coscienza, di religione, di stampa… Ed è sulla base di questi valori, in primo luogo la dignità di ogni individuo umano, che noi ci permettiamo di stigmatizzare e condannare comportamenti lesivi di tale dignità, senza mai dimenticare che altri popoli stanno vivendo uno “stadio” di civiltà che è stato anche il nostro. Ma ora torniamo al nostro Platone. Immagino che abbia difeso il patrimonio culturale greco contro quello dei barbari. L’ambizione di Platone è ben più alta: egli punta a raggiungere delle verità e dei valori che vanno oltre i punti di vista dei popoli. Punta cioè a delle verità e a dei valori validi per tutti gli uomini? Sì. E validi anche per tutti i tempi. Ma questo è impossibile, se almeno prendiamo in considerazione i valori. Il paradosso della “ricerca” Platone altro non fa che sviluppare l’insegnamento del maestro. A me pare invece il contrario: Socrate è un ricercatore della verità, non un possessore della verità! Ma anche Platone insiste sulla necessità della ricerca, anche sulla stessa necessità di ricercare insieme: ecco perché ricorre ampiamente nelle sue opere al metodo socratico del dialogo. In tal modo però tradisce il maestro: le parole scritte, anche se in forma dialogica, sono rigide, cristallizzate e hanno ben poco a che vedere col dialogo vivo. È vero, ma il dialogo è certamente la forma più vicina al linguaggio parlato. Il dialogo, poi, esprime meglio che un trattato, i punti di vista degli interlocutori e lo sviluppo delle loro argomentazioni. È quanto appare anche dal dialogo che stiamo conducendo: esso si snoda grazie ai punti di vista di ciascuno di noi due. Nel nostro caso, tuttavia,il ruolo maieutico del dialogo non c’è. Qui nessuno di noi ha la pretesa di aiutare l’altro a partorire la verità che ha dentro di sé, ma è indubbio che, ragionando insieme, sotto la pressione di continue obiezioni, ci liberiamo man mano, step by step, dagli errori. Ma per riconoscere gli errori, dovremmo già possedere la verità: è un tema che abbiamo già affrontato a proposito di Socrate. È lo stesso Platone a porre il paradosso della ricerca: chi non conosce in alcun modo la verità non può, una volta trovata, riconoscerla e chi la conosce non ha bisogno di cercarla. Ma allora è Socrate che fa il finto tonto. Più che il finto tonto, il finto ignorante. Si tratta di una tecnica per aiutare l’interlocutore a cercare dentro di sé, in altre parole a ragionare. Una tecnica che non porta automaticamente a scoprire la verità. Negli stessi dialoghi giovanili di Platone (quelli chiamati “socratici”) il personaggio Socrate non giunge mai ad alcuna conclusione definitiva. Si tratta di dialoghi definiti “aporetici” proprio perché essi non giungono mai a una conclusione: il loro valore consiste nell’analisi, nella discussione di argomenti a favore e contro una tesi, nella ricerca di un punto di vista condiviso che supera quello di partenza, punto di vista che a sua volta solleva nuove domande. Ma un viaggio che non conduce ad alcun porto è frustrante. A monte degli stessi postulati della matematica Può essere, invece, il contrario, essere cioè una molla per un livello di ricerca più elevato. Del resto è lo stesso Platone che in tarda età rimette in discussione delle convinzioni maturate a lungo. In questo quindi è fedele al maestro: la ricerca non ha mai fine. Ciò che conta, quindi, è non accontentarsi mai dei risultati raggiunti. Ma non tutto può essere messo in discussione. È vero. La matematica ad esempio: è questo l’ambito in cui i cultori della disciplina raggiungono risultati condivisi. La matematica, però, non è la filosofia. Il problema di Platone non riguarda una o un’altra disciplina, ma lo stesso sapere umano. Problema che può essere formulato con una domanda: l’uomo in quanto tale è in grado di approdare a dei risultati incontestabili? Quelli della geometria sono incontestabili. Senza dubbio: poste determinate premesse, si deducono necessariamente determinati risultati. Si tratta di risultati che non possono essere negati da nessuno. Ma in geometria più che di verità dovremmo palare di coerenze: si tratta cioè di risultati coerenti con le premesse. Premesse che nella geometria euclidea sono dei postulati. Postulati che sono delle “convenzioni”: altro che verità! Non è quindi questo il discorso di Platone: egli va a monte delle stesse deduzioni, a monte degli stessi postulati. Ma i postulati per definizione non sono deducibili da altro. È vero. Platone va a monte nel senso che individua non delle proposizioni vere, ma gli stessi concetti-base che sono gli ingredienti delle stesse proposizioni della geometria e, quindi, degli stessi postulati. Vale a dire? Ad esempio il concetto di punto, di linea, di triangolo. Si tratta di concetti che non hanno nulla a che vedere con l’esperienza sensibile perché sono astratti e, in quanto tali, non si identificano con questo punto o questo triangolo, ma si applicano a tutti i punti e a tutti i triangoli. Non è vero che non hanno nulla a che vedere con i sensi: sono concetti che costruiamo generalizzando ciò che percepiamo con il senso della vista. Ma in natura non esistono i triangoli, i cerchi… Non esistono, ma siamo noi a disegnarli ed è dalle figure sensibili che noi ricaviamo i concetti. Ma un conto è ciò che è disegnato e un conto è il concetto. Il punto disegnato ha una sia pur minuscola estensione, mentre il concetto di punto non ne ha affatto. Così il lato di un triangolo e la circonferenza di un cerchio. La stessa superficie di una figura geometrica disegnata non è mai perfettamente liscia. È vero, ma qui ci troviamo di fronte a delle astrazioni che, in quanto tali, non possono non avere come punto di partenza le stesse figure geometriche disegnate. Platone non ne è per nulla convinto. Secondo lui è proprio perché tali concetti hanno caratteristiche del tutto opposte alle cose sensibili, che non possono derivare da esse. Ma non si tratta di caratteristiche opposte: il concetto di quadrato ricalca la figura disegnata di quadrato. Ciò che è visibile solo con gli occhi della mente Chiariamo. Le cose sono tutte particolari e concrete, mentre i concetti sono al contrario universali ed astratti: non si tratta di caratteristiche opposte? Un triangolo disegnato è sempre un particolare triangolo e un particolare tipo di triangolo, mentre il concetto di triangolo prescinde da tali particolarità e, di conseguenza, non è nessuno dei triangoli concreti. È in altre parole universale e quindi è applicabile a tutti i triangoli. Platone chiama tale concetto “idea” che significa ciò che percepito con il pensiero. Secondo lui, poi, l’idea non è solo astratta e universale, ma è anche immutabile: l’idea di triangolo non può mai mutare e trasformarsi ad esempio nell’idea di quadrato, ma è sempre immutabilmente tale. Ha allora le stesse caratteristiche dell’essere di Parmenide. Infatti: anche l’essere della scuola eleatica non è colto con i sensi, è immutabile ed eterno. Come l’essere non può per definizione mutare e diventare non essere, così l’idea di triangolo non potrà mai diventare altro da sé. E come l’essere è uno, così l’idea è una anche se si riferisce a una serie numerosa di cose: vedi, ad esempio, l’idea di uomo. Ma l’idea di uomo, se non derivasse dalla percezione sensibile degli uomini concreti e particolari, da dove potrebbe sorgere? Essendo oggetto del pensiero, non può che appartenere al mondo della mente. Anzi, è proprio perché l’idea di uomo precede l’esperienza sensibile che noi possiamo riconoscere come tali i singoli uomini. E questo vale per tutte le idee: è proprio perché ho l’idea di triangolo che posso riconoscere un triangolo isoscele particolare e concreto come un triangolo. Si tratta, quindi, di una sorta di modello delle cose. Proprio così: le idee sono dei modelli perfetti, mentre le cose sono delle copie imperfette (un cerchio, pur disegnato con accuratezza e precisione, è sempre imperfetto rispetto al modello). E sono proprio tali modelli che ci consentono di riconoscere ciò che è percepito dai sensi, ad esempio, un albero, anche se questo ha perso le foglie o è rinsecchito. Ma così Platone rovescia letteralmente la realtà: non è l’idea di albero la condizione senza la quale non potremmo percepire gli alberi concreti, ma sono questi alberi concreti colti con i sensi che ci consentono di costruire per astrazione l’idea unica ed immutabile di albero. Vedo che insisti e fai bene. Quello che sostieni è quanto affermerà il più autorevole discepolo di Platone: Aristotele. Di sicuro la dottrina platonica delle idee solleva problemi di non poco conto. Li vedremo. Per ora è il caso di precisare che secondo Platone le idee sono pure trascendenti. Trascendenti rispetto a che cosa? Alla stessa mente degli uomini? Platone ricorre all’immagine dell’“iperuranio” (letteralmente “al di là del cielo”). Un’immagine che è stata oggetto di diverse interpretazioni. Oggi si tende a vedere l’iperuranio non come un mondo spazialmente separato da quello sensibile. Un lettura che mi sembra forzata: le idee, nell’impostazione platonica, non possono appartenere al mondo sensibile. Questo è vero. Secondo Platone le idee sono trascendenti nel senso che appartengono a un mondo invisibile, a un mondo cioè visibile solo con l’occhio della mente, a differenza del mondo visibile che è quello delle cose sensibili. Faccio fatica a immaginare una sorta di mondo che di fatto è un duplicato delle cose. Ma non si tratta di un vero duplicato: l’idea di uomo è una, mentre gli uomini sono numerosi. Va bene, ma pur con questa differenza, pur con caratteristiche diverse, il mondo invisibile ha a che vedere con le stesse cose del mondo sensibile. Ha a che vedere con delle “essenze”, non con delle cose. E l’essenza è ciò di cui era alla ricerca lo stesso Socrate: ciò che questi chiedeva all’interlocutore non era un comportamento virtuoso, ma l’essenza di virtù, ciò che fa sì che tutti i comportamenti virtuosi siano tali. Platone però va oltre Socrate e per me lo tradisce: Socrate andava alla ricerca della definizione, cioè del concetto di virtù, mentre Platone approda a delle essenze trascendenti. Un approdo che secondo lui è necessario: dove starebbe la bellezza nel mondo delle cose? Nel mondo concreto esistono cose più o meno belle, ma la bellezza non esiste, mentre l’essenza di bellezza c’è: è proprio questa che ci permette di valutare più o meno bello ciò che è sensibile (un tramonto, un fiore…). Ma la bellezza è un concetto arbitrario: ciò che è bello per me potrebbe non esserlo per te. Comunque sia intesa, la bellezza è sempre ciò che è perfettamente bello. Siamo dunque in presenza di due mondi: il mondo visibile costituito da cose concrete e particolari, che nascono e muoiono e che sono imperfette, e il mondo invisibile, ciò che è immutabile, eterno, perfetto. Ma l’essenza - ribadisco la mia convinzione - è una mera astrazione! L’essenza di uomo, però, è immutabile: gli uomini nascono e muoiono, ma l’essenza di uomo non diventerà mai altro da sé. Sono due mondi, quindi, nettamente distinti. È questo il compito del filosofo: andare oltre il mondo visibile, oltre ciò che è mutevole, oltre ciò che è imperfetto. Ma questo è il mondo divino. Infatti: siamo proprio in presenza di caratteristiche divine, come divine sono le caratteristiche dell’essere parmenideo. Non siamo tuttavia di fronte a un Dio personale come nel Cristianesimo. Infatti. Non solo le idee sono molteplici (una per ogni serie di cose), ma non hanno neppure nulla a che vedere con la coscienza. Sono però percepite dalla mente degli uomini. Sì. Una concezione che caratterizzerà il modo di pensare prevalente dell’Occidente Ma come avviene la connessione? Avviene perché la natura della mente è simile a quella delle idee. Platone quindi recupera la concezione di Empedocle secondo cui la conoscenza presuppone una somiglianza tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. È così. Noi percepiamo le cose sensibili perché siamo dotati dei sensi e percepiamo ciò che non è sensibile grazie alla mente che sensibile non è. Se non è sensibile, non è materiale. Infatti: Platone considera l’anima immateriale. Che cosa intende per anima? La mente, il pensiero. Il pensiero, quindi, sarebbe immateriale. Sì, secondo Platone: proprio perché percepisce le idee che sono immateriali, il pensiero non può che essere anch’esso immateriale. Ma perché le idee dovrebbero essere immateriali? Le idee (le essenze) non hanno nulla della particolarità e della concretezza delle cose materiali. Se fossero materiali, come potrebbero essere universali? Sono universali perché astratte, cioè non materiali. E proprio perché immateriali, le idee – secondo questa logica – dovrebbero essere semplici. Certo: un uomo concreto è un composto (di atomi, cellule, organi…), ma l’idea di uomo non è composta. È quindi semplice. Semplice è, quindi, anche l’anima. Infatti: è per questo che l’anima non può morire. I corpi muoiono quando le loro parti si disgregano, muoiono quindi perché sono composti, ma l’anima non può morire perché non può disgregarsi. Una convinzione che segnerà la storia dell’Occidente e influenzerà non poco la stessa storia del Cristianesimo. Una metafora affascinante Platone adduce anche altre prove. Ad esempio sostiene che l’anima non può morire perché ogni cosa si genera dal suo contrario: come il freddo lascia il posto al caldo, così la morte di una vita non può che generare una nuova vita. Aggiunge inoltre che l’anima, in quanto fonte di vita (è l’anima che dà la vita ai corpi), non può accogliere in sé il suo contrario, cioè la morte. Mi paiono prove piuttosto deboli rispetto all’altra. La prima, è vero, convince di più. Platone riporta un’altra prova ancora: la reminiscenza dell’anima. Cioè? Abbiamo detto che le idee non possono derivare dai sensi. È un fatto, tuttavia, che noi possediamo le idee. Come si spiega tale fatto? Solo affermando che sono presenti in noi prima della nascita: l’anima è preesistita alla nascita del corpo ed ha conosciuto le idee e, una volta incarnata, non fa che ricordarle. Ma i bambini non ricordano un bel nulla e imparano tutto dall’esperienza! Secondo Platone l’esperienza sensibile è importante, ma funge solo da occasione per il ricordo. È essa che ci consente di prendere coscienza delle idee che sono sempre in noi. Mi pare un’arrampicata sugli specchi. Platone non fa che riprendere la teoria della reincarnazione, una teoria che ha radici remote nella tradizione orfico-dionisiaca e che è stata riaffermata dalla scuola pitagorica. Ma che senso ha mescolare la filosofia con la religione? Anche nella scuola pitagorica c’è questa mescolanza. Nella scuola pitagorica però la dottrina della reincarnazione è associata all’idea della purificazione che ha pure una funzione filosofica. Una funzione che è presente anche in Platone: più riusciamo a purificarci, più cioè siamo in grado di liberarci dalle passioni, più possiamo contemplare a lungo le idee e, una volta reincarnati, più idee potremo ricordarci. La tradizione religiosa che viene richiamata, dunque, risponde a un’esigenza filosofica, come risponde a un’esigenza filosofica il ricorso che fa Platone al mito. Ma utilizzare il mito mi pare un ritorno al passato, a una fase pre-razionale. Non è proprio così: Platone si serve del mito per spiegare con parole più accessibili dei problemi concettualmente difficili. Si veda il mito del “carro alato” guidato da un auriga e trainato da due cavalli. Si tratta, naturalmente, di una metafora. Sì: il carro alato è l’anima, l’auriga la componente razionale dell’uomo e i cavalli la sua componente irrazionale, passionale. Perché due cavalli? Uno rappresenta la cosiddetta anima irascibile, l’altra l’anima concupiscibile (la brama cioè dei piaceri dei sensi). È qui allora che deve intervenire la purificazione. È così: tocca alla ragione, la cosiddetta anima razionale (è questa che è semplice), controllare le passioni in modo da guidare l’anima verso il mondo delle idee. La metafora è affascinante, ma ho la sensazione che anche Platone, come Socrate, svaluti il ruolo delle passioni. Queste sono importanti. Sono anzi il motore di ogni uomo. Penso all’ambizione, allo sdegno, a un amore travolgente. Platone, come del resto Socrate, non nega affatto le passioni e il loro ruolo. Sono infatti i cavalli che trainano l’anima. Senza questi, dunque, l’anima rimarrebbe ferma. Ma è la ragione che deve guidarli. Nell’uomo non può che essere così. Pensa appunto all’ambizione: può spingere un uomo verso vette eccelse, ma può spingerlo anche a compiere azioni malvagie. Così la passione per una donna. Ci vuole sempre la misura e questa è dettata sempre dalla ragione: è grazie a questa che si può fare un uso saggio di una passione. Un’impostazione equilibrata già presente in Socrate e ben distinta dalle concezioni estremiste di alcuni “socratici” (i cinici hanno enfatizzato il dominio delle passioni approdando a un vero e proprio ascetismo, mentre i cineraici al contrario hanno identificato il bene con il piacere). Platone, dunque, non dice nulla in più di Socrate. È così, ma è il contesto che cambia: Platone inserisce il tema all’interno di un orizzonte metafisico. Un colpo d’ala Ed è proprio questo che non mi persuade: la sua ossessione per il mondo delle idee. Per Platone il mondo delle idee rappresenta la conoscenza, potremmo dire, la conoscenza scientifica del mondo, un tipo di conoscenza che va oltre i sensi, oltre il punto di vista individuale, oltre la sfera del materiale e dell’effimero. Il mondo invisibile delle idee, in altre parole, per Platone è il mondo vero contro il mondo apparente dei sensi. È l’impostazione parmenidea. Sì, da un lato c’è il mondo della dóxa, dall’altra il mondo dell’epistéme, cioè della scienza. Platone, tuttavia, va oltre il rigido dualismo della scuola eleatica: secondo lui le cose sensibili sono copie delle idee. Non ci troviamo, poi, di fronte a un dualismo netto tra anima e corpo: è vero che l’anima è immateriale (spirituale), ma è anche vero che la metafora del “carro alato” chiarisce bene il ruolo che deve svolgere l’anima razionale nei confronti delle altre “anime” legate strettamente al corpo. Sì, ma il dualismo rimane, tant’è che l’anima preesiste al corpo e sopravvive alla morte del corpo. È questa, secondo lui, un’altra prova dell’immortalità dell’anima: se l’anima è preesistita al corpo significa che è indipendente da esso e, di conseguenza, può continuare a vivere anche dopo la morte del corpo. L’argomento è coerente, ma il valore di un ragionamento dipende dalle premesse e qui la premessa è del tutto fantasiosa. Forse, però, non è così fantasiosa. Platone dimostra che l’anima, proprio perché conosce le idee, deve avere una natura simile a queste. E le idee, come sai, non avendo nulla di particolare e concreto e alcuna mutevolezza, non possono che essere immateriali. È questo il quadro metafisico in cui Platone inserisce un altro mito, il mito di Er: è il racconto di un soldato, dato per morto, che si sveglia dopo tre giorni. E che cosa racconta? Di avere compiuto un viaggio nell’aldilà dove tra l’altro ha visto le anime scegliere liberamente il destino che avrebbero avuto in una nuova reincarnazione. Un’idea che mi pare un vero e proprio colpo d’ala: in una cultura dominata dal Fato Platone introduce ciò che a mio avviso rappresenta una delle specificità dell’uomo: la libertà. L’uomo è di sicuro condizionato dalle passioni, dal carattere, dalle condizioni ambientali, ma in ultima analisi è lui che decide della sua vita. E poiché decide liberamente, è lui il responsabile. Una responsabilità che possiamo definire morale. Certo, ma quali sono i criteri di bene e di male, di ciò che è giusto e di ciò che ingiusto? Finora abbiamo rinviato il problema. Oltre l’amore volgare Platone – l’abbiamo già detto – va oltre il relativismo etico dei sofisti e va oltre lo stesso Socrate. Questi si limita a individuare l’essenza della virtù (il coraggioso, ad esempio, si differenzia dal temerario perché affronta il rischio “sapendo” di essere in pericolo), mentre Platone arriva a parlare di “buono in sé”, di “giustizia in sé”. Alla stessa stregua delle idee matematiche. Sì, come l’idea di cerchio ha una sua esistenza indipendente (l’idea di cerchio è tale eternamente, a prescindere dai soggetti e dalle epoche storiche), così l’essenza di ciò che è bene non può che essere valida per tutti e non può che essere immutabile: come potrebbe l’essenza di bene diventare l’essenza di male? Platone, dunque, libera l’etica da ogni soggettività, da ogni forma di relativismo e ritiene che le idee di bene, di giusto, di santo… siano dei valori assoluti. Platone, quindi, pone i valori sulle stesso piano delle essenze della matematica. Sì. Egli distingue le idee-modello delle cose (ad esempio, l’idea di albero), le idee matematiche e le idee-valori. I valori, di conseguenza, hanno la stessa assolutezza di cui sono dotate le idee di triangolo, di uomo… Il rapporto tra comportamenti virtuosi e virtù, tuttavia, non mi pare lo stesso che corre tra le cose e le loro rispettive idee: un albero è una copia dell’idea di albero, ma non si può dire altrettanto di un comportamento virtuoso. È vero: un uomo è giusto quando “partecipa” dell’idea di giustizia. Platone cioè introduce un nuovo concetto, quello di “partecipazione” (che è altro dall’imitazione). Un uomo è tale in quanto imita l’idea di uomo, mentre un uomo è giusto se partecipa dell’idea di giustizia. Tutto il sistema platonico ruota intorno a questo mondo delle idee e, in primo luogo, intorno alle idee-valori. È l’istanza etica il Leit-motiv di Platone. Sempre sulla scia di Socrate. Sì. E sulla scia pure del concetto orfico-dionisiaco e pitagorico della purificazione. È la strada che deve percorrere il filosofo, una strada tutt’altro che in discesa. Platone introduce l’immagine dell’Eros. Si tratta del cosiddetto amore platonico? L’amore platonico che sarà immortalato dallo stilnovismo ha naturalmente le radici nella filosofia platonica. È qui dentro, però, il suo senso genuino. Eros è una forza che spinge l’uomo verso l’alto, verso il cielo. Il cielo, naturalmente, è solo una metafora che sta a indicare il mondo invisibile, quello perfetto, un mondo a cui si può accedere soltanto con la vittoria sull’amore volgare. Una conversione radicale Un fustigatore del piacere, Platone! Tutt’altro! L’amore per la bellezza fisica è il primo gradino, ma il filosofo non può fermarsi qui: guidato dalla ragione deve puntare a godere della bellezza spirituale, di una bellezza non effimera, ma eterna perché è la stessa essenza di bellezza. Si tratta di un viaggio molto impegnativo perché comporta un coinvolgimento personale, una purificazione morale, una vera e propria conversione interiore. Quindi il filosofo non è un uomo a cui accade di scoprire la verità. Infatti. Nel Simposio il personaggio Socrate avanza la tesi secondo cui Eros non è il dio dell’amore, perché non è un dio: e non lo è perché non possiede la bellezza, ma la desidera. È lo status stesso del filosofo. Sì, il filosofo non è colui che possiede la verità, ma chi la desidera, chi quindi non è sapiente, ma è amante della sapienza. È, appunto, etimologicamente, filo-sofo. Non è però (ne abbiamo già parlato) un uomo che semplicemente non sa perché è solo il sapere di non sapere che fa scattare il desiderio, la ricerca, la tensione. È così. Ma come può un antirelativista radicale come Platone essere un mero “amante del sapere”? Platone, è vero, è certo del mondo invisibile, ma è anche convinto che a tale mondo si possa giungere solo percorrendo un itinerario faticoso: è faticoso liberarsi dalle passioni, dai luoghi comuni, navigare contro-corrente e farsi spingere da una “divina mania”. Mi viene spontaneo pensare a Socrate: anche secondo questi un individuo ha bisogno di mettere in discussione le proprie certezze, i propri pregiudizi, la propria presunzione di sapere perché è solo ciò che può consentire di prendere consapevolezza della propria ignoranza, consapevolezza che è, appunto, la molla della ricerca. Un’associazione pertinente. Anche per Platone, poi, la verità sta dentro di noi ed è solo dentro di noi che posiamo scoprirla. Significa che il mondo invisibile delle idee è dentro l’anima? È solo con gli occhi dell’anima che è possibile accedere a quel mondo e solo in seguito a una purificazione dell’anima stessa. È l’anima e solo l’anima che può condurre al mondo divino. Ma l’anima dei più è prigioniera. Prigioniera dei sensi. Di qui l’esigenza di uscire da questa prigione, da questa “caverna”. Ma come uscire? Occorre essere liberati ed essere letteralmente trascinati fuori per vedere la realtà. Ma anche la realtà sensibile è realtà. Analogie con la tradizione ebraico-cristiana Ciò che appare ai sensi non è la vera realtà. L’abbiamo già visto richiamando Parmenide. La vera realtà è quella che non si vede: è questo il mondo in cui nulla nasce e nulla tramonta e in cui tutto è perfetto. Ciò che appare ai sensi è solo un’imitazione di modelli eterni. Le stesse bellezze che incontriamo sono ben pallide rispetto alla Bellezza in sé, la Bellezza divina. Occorre quindi trascendere la sfera delle percezioni sensibili, andare oltre le credenze (la dóxa) e salire su su fino alla matematica e, ancora più in alto, fino alla filosofia. Ma la matematica non ha a che fare direttamente col mondo delle idee? Sì, ma la matematica non è ancora l’ultimo stadio. Questa infatti va oltre il mondo sensibile (studiando, ad esempio, le proprietà oggettive delle figure geometriche), ma essa è in ultima analisi una scienza deduttiva, un sapere cioè che deduce conseguenze a partire da premesse e da principi dati. L’ultimo stadio è la conoscenza intellettiva che consente di giungere ai principi da cui discende tutto il sapere. Ma quali sarebbero questi principi? Ti ricordi l’arché, l’oggetto della ricerca dei primi filosofi? Secondo Platone i principi di tutto non sono né l’acqua, né l’aria, né l’ápeiron, né i numeri… I principi sono le idee. Il principio è il Divino. Il principio, in primo luogo, è l’Idea di Bene, quella che Platone chiama “la causa universale di tutto ciò che è buono e bello”, ciò a cui gli uomini devono guardare per comportarsi moralmente. Sono le idee il presupposto delle nostre stesse conoscenze sensibili. È il Divino da cui tutto deriva. Mi pare che ci sia un’affinità con la stessa tradizione ebraico-cristiana. Sì, ma qui non vi è alcuna creazione e non vi è alcun Dio inteso come una Persona. Cristiano è, comunque, il primato dello spirito sulla materia, lo stesso primato dell’anima sul corpo. Cristiana è l’immortalità dell’anima. Cristiana è l’idea del Divino come il Bene assoluto. La missione “politica” del filosofo Cristiano è pure l’itinerario che l’uomo deve percorrere per accedere al Divino: un itinerario che coinvolge tutto l’uomo, non solo il suo intelletto. E cristiana è, infine, la missione che deve svolgere chi ha avuto il privilegio di avere avuto accesso al Divino: chi ha visto la Luce ha l’obbligo morale di illuminare gli altri, chi è stato convertito ha il compito di convertire gli altri. Sono analogie, mi pare, piuttosto forzate. Differenti, senza dubbio, sono i contesti “metafisici”, ma qualche analogia c’è. Platone parla della missione del filosofo che è quella di tornare nella caverna al fine di liberare gli altri prigionieri, condurli anche loro, quindi, al di fuori dalla prigione dei sensi. Secondo lui, in altre parole, quella del filosofo è una missione politica: condurre la collettività sui sentieri del vero e del bene. La condanna a morte di Socrate sta a indicare un netto divorzio tra potere e sapere, tra chi è sapiente ma non ha il potere e tra chi ha il potere ma non è sapiente. Di qui la necessità di progettare uno Stato in cui sapere e potere sono tra loro fusi. I filosofi allora al potere? È questa l’utopia di Platone: il potere politico deve essere guidato dai sapienti. Un po’ come nell’individuo umano: è la razionalità che deve guidare le passioni e indirizzarle a fini di bene. Esatto. È lo stesso Platone che suggerisce questo parallelismo: perché un individuo umano funzioni occorre che ciascuna componente svolga il suo compito: sono le passioni che hanno la funzione di spingere l’individuo ed è la ragione che ha il compito di guidare tali passioni. E ciò vale anche per lo Stato: perché funzioni, occorre che vi sia chi difende lo Stato, chi deve lavorare per produrre i beni per tutti e chi è destinato a guidare, a dirigere. Alle tre anime dell’individuo, quindi, corrispondono tre classi sociali. Sì. Ma è spaventoso: qui ci troviamo in presenza di vere e proprie caste chiuse dove il destino è segnato. Non si tratta di caste chiuse. Ognuno è selezionato sulla base delle sue attitudini, delle sue inclinazioni. Ognuno quindi, in questo modo, svolge al meglio la sua funzione. Ma si tratterebbe pur sempre di caste chiuse: vi è chi ha il privilegio di non lavorare e di governare. Ma non è detto che i figli abbiano le attitudini dei padri: non è quindi escluso che i figli di un governante sia collocato nella classe di chi lavora. Sarebbe quindi un modello meritocratico della società: nessuno occupa un posto che non si merita. Un modello meritocratico o aristocratico? Non è aristocratico uno Stato governato da una élite, anche se meritevole? Aristocratico, ma nel senso originario del termine: a governare sarebbero i “migliori”, gli uomini più saggi, più competenti. Anche qui vedo l’impronta di Socrate: pure lui non amava la democrazia assembleare di Atene. È vero. Anch’egli sosteneva che al governo di una comunità dovessero esserci i competenti della politica: un’assemblea democratica è troppo manipolabile e troppo umorale per prendere le decisioni più sagge per la collettività. Ma è Platone che teorizza un regime aristocratico. Egli stesso, però, mette in guardia dalle degenerazioni di tutte le forme di governo. La stessa aristocrazia può degenerare in timocrazia: accade quando a governare sono i più ambiziosi, non i migliori. La timocrazia, a sua volta, può degenerare in oligarchia: succede quando a governare sono i ricchi (un governo dei pochi contro i molti). E l’oligarchia può provocare una rivoluzione tesa a instaurare la democrazia, un regime retto dai poveri che esproprierebbero l’ex classe dominante dei propri beni. Platone ha una concezione negativa della democrazia. La democrazia è il governo dei molti (poveri) contro i pochi (ricchi). L’oligarchia e la democrazia, quindi, sono da lui concepiti come dei governi “di parte”. Non solo: secondo Platone la democrazia è in realtà un’anarchia perché laddove tutti governano, lì nessuno governa. Talvolta anche noi del XXI secolo abbiamo la sensazione che la democrazia, caratterizzata da un conflitto permanente tra opposte fazioni, sia inconcludente. Governi “tecnici” Certamente la democrazia richiede tempi più lunghi di un’aristocrazia o di un’oligarchia, e a maggior ragione di una tirannide. Ma un tempo lungo non è di per sé un fattore negativo: un provvedimento, grazie al vaglio di più assemblee, può migliorare notevolmente. Ma anche peggiorare perché sia nelle commissioni parlamentari che nelle aule della Camera e del Senato può essere inquinato da una serie di emendamenti che riflettono interessi di parte di cui i partiti sono portatori. Ma gli interessi, piaccia o non piaccia, fanno parte di una democrazia. In ogni Stato democratico i partiti intercettano interessi di determinate categorie sociali: dagli operai ai notai, dai commercianti agli imprenditori… E del resto una persona che vota non si affida a chi gli promette una maggiore tutela? È chiaro che chi vota si preoccupa del suo “particolare”, ma chi governa deve pensare all’interesse generale che possono esprimere meglio dei governi “tecnici”, dei governi cioè guidati da persone scelte solo per la loro competenza. In tal modo, però, ti stai allineando al modello aristocratico di Platone. Stai difendendo un tipo di governo “non politico”, cioè del tutto autonomo dalla volontà popolare, com’era, appunto, il governo teorizzato da Platone, governo non eletto da nessuno, ma selezionato dall’alto. Come? I futuri governanti vengono selezionati sulla base delle proprie attitudini. Ma questo non basta. Devono seguire un lungo percorso formativo fino all’età di cinquant’anni: prima un’educazione di base (paidéia) caratterizzata dalla ginnastica, dalla musica e, all’età di sette anni, dalla matematica pratica, poi una formazione scientifica dalla durata di dieci anni (dall’aritmetica alla geometria, dall’acustica all’astronomia) e infine una formazione filosofica e politica che prevede un tirocinio di quindici anni. In tale percorso Platone non prevede l’arte. Perché mai? Perché l’arte, in quanto imitazione dell’imitazione, non conduce al Vero, ma anzi allontana da esso. Perché sarebbe imitazione dell’imitazione? Che cosa fa, ad esempio, un pittore, se non creare una copia della copia? Tieni presente che la realtà sensibile è una copia del mondo invisibile. Limitandosi poi alle immagini sensibili, l’arte possiede un grado di conoscenza molto basso. Ma vi è pure un altro motivo per cui Platone condanna l’arte. Quale? Perché certe forme di arte (si veda, ad esempio, il teatro) suscitano emozioni, passioni e quindi allontanano dalla ragione. Platone condanna anche la musica? No, perché la musica ha come anima una struttura matematica e di conseguenza è una vera e propria scienza. Platone salva anche la poesia omerica purché tuttavia venga liberata da tutto ciò che eccita le passioni e che è poco rispettoso della religione. L’arte, quindi, ha un ruolo marginale nell’educazione dei giovani destinati a governare. Infatti. Nel complesso, comunque, il percorso formativo previsto da Platone mi pare lunghissimo. E in più selettivo: non tutti gli allievi sono promossi, ma solo i migliori, quelli che hanno dimostrato più capacità. Un modello che potrebbe insegnare qualcosa anche a noi. Indubbiamente, governare una società complessa come la nostra, tanto più in tempo di crisi, richiede una preparazione – anche su problematiche internazionali – adeguata. Come richiede un lungo tirocinio. Ma allora anche tu stai accarezzando un modello aristocratico. Una preparazione idonea dei politici non è in conflitto con il modello democratico. Anche senza pretendere il lungo percorso previsto da Platone, una formazione politica (nel senso più nobile del termine) delle nuove classi dirigenti sarebbe utilissima. Una volta al governo, però, i competenti non possono essere sottratti al controllo popolare. Il conflitto di interessi L’essere competente, infatti, non garantisce che si persegua l’interesse generale e non quello particolare. È quanto avverte lo stesso Platone. È proprio al fine di evitare che i governanti perseguano i loro interessi che egli prevede un antidoto: i governanti (cioè i filosofi) non possono avere dei beni propri. Se avessero, infatti, delle proprietà private, potrebbero prendere decisioni a loro favorevoli. Platone coglie bene ciò che noi chiamiamo conflitto di interessi. È vero, ma l’antidoto che propone non convince perché non è realistico. Non è realistico perché Platone non solo prevede per le classi superiori (governanti e difensori) l’assenza di proprietà privata, ma anche l’assenza di una propria famiglia. Non soltanto quindi i beni saranno per loro in comune, ma anche le donne. Non è realistico, ma la soluzione di Platone risolve alla radice il problema: senza proprietà privata e senza una propria famiglia chi governa non avrebbe alcun interesse personale da tutelare. Platone è consapevole del carattere utopistico del suo pensiero. Egli vuole proprio descrivere non uno Stato concreto, ma un modello di Stato, uno Stato non come è ma come deve essere. Di qui la soluzione “comunista” che dovrebbe garantire il totale “disinteresse” delle classi dirigenti, classi che devono occuparsi esclusivamente degli affari generali e non anche degli affari privati. Dentro tale quadro si spiega anche l’idea secondo cui i figli dei governanti e dei difensori debbano essere strappati precocemente ai loro genitori e affidati alla cura dello Stato. Cade quindi qualsiasi privilegio di nascita: tutti i bambini sono uguali senza alcuna distinzione di famiglia. Paradossalmente, il teorico delle caste, giunge a negare qualsiasi privilegio di nascita. Ma si tratta, comunque, solo dei bambini nati dalle unioni sessuali delle prime due classi sociali perché i produttori conservano sia la proprietà privata che la famiglia e questo non a caso: beni propri e famiglia propria svolgono una funzione di stimolo all’operosità dei produttori. Siamo in presenza dunque di un modello di Stato elaborato in modo organico e in tutti i particolari. Un femminismo ante-litteram È vero. Del resto per Platone lo Stato è un organismo e in un organismo tutto funziona se ciascuna componente svolge il suo specifico compito: funziona se i governanti sono sapienti, i difensori coraggiosi e i produttori operosi. È prevista qualche formazione pubblica per i produttori? No. Non ne hanno bisogno per la funzione che svolgono in quanto essi operano nel privato. Solo i governanti e i guerrieri - coloro che si occupano dell’interesse pubblico - hanno l’obbligo di seguire l’iter formativo pubblico. Quindi anche i soldati? Certo: anche loro svolgono una importante funzione “pubblica”. Fino a vent’anni sia i giovani destinati a governare sia quelli destinati a difendere lo Stato seguono un iter formativo comune in cui, come abbiamo già detto, un ruolo importante è svolto dalla ginnastica perché questa, oltre ad essere finalizzata alla preparazione militare, forma il carattere, educa al coraggio, all’impegno, alla sopportazione della fatica. Dopo i vent’anni si ha la selezione, sempre sulla base delle qualità dimostrate. Platone continua a colpirmi per la sua coerenza. È coerente, sì, fino alle conseguenze più estreme. Arriva a teorizzare il controllo dello Stato sulle unioni sessuali destinate alla procreazione. Una sorta di eugenetica? Sì: lo Stato deve creare le condizioni perché “gli uomini migliori si accoppino con le donne migliori”. Lo deve fare, ma in modo indiretto, senza darlo a vedere, mediante addirittura l’inganno: l’organizzazione di feste a cui vengono invitati gli uomini e le donne migliori (giovani che sono ingannati perché si dice loro che sono stati estratti a sorte) al fine di “conservare pura la razza dei custodi”. Quali custodi? Platone chiama custodi (custodi dello Stato) sia i governanti che i difensori, coloro cioè che si occupano dello Stato. Platone, dunque, giunge a giustificare la menzogna di Stato. È così: una menzogna a fin di bene. Ma qui vedo un vero e proprio machiavellismo ante litteram: il fine giustifica i mezzi. E vedi bene. Ma è opportuno guardare anche gli aspetti positivi di Platone. Ad esempio il ruolo delle donne. Ma la comunione delle donne non è certo un inno alla dignità della donna! È vero, ma le donne, nella concezione platonica sono tutt’altro che subalterne agli uomini: esse, infatti, hanno la stessa educazione dei maschi e funzioni e responsabilità in tutto uguali. Un femminista, quindi, ante litteram? Si tratta di sicuro di una concezione della donna avanzata per il tempo. Il rischio del totalitarismo Positiva non è certo la concezione organicistica dello Stato. Una concezione organicistica può senz’altro condurre al totalitarismo (sarà soprattutto il filosofo della scienza del XX secolo, Karl Popper, che sottolineerà i germi platonici del totalitarismo), ma è questa che Platone ritiene la più adeguata per evitare le degenerazioni dello Stato. Come un organismo biologico ha bisogno di funzioni ben precise, così lo Stato. Non può sopravvivere uno Stato in cui i produttori, invece che produrre, decidano di sostituirsi ai filosofi al governo proprio perché, in quanto produttori, non solo non hanno le attitudini di base per governare, ma non hanno neppure avuto alcuna formazione pubblica al riguardo. Ognuno deve svolgere al meglio il suo compito. È questa la giustizia: lo Stato è giusto quando ogni componente svolge la sua funzione senza pretendere di prevaricare ambiti altrui. È questa, allora, l’idea di “giustizia” di cui abbiamo parlato a proposito delle idee-valori? Sì. Ho molti dubbi che uno Stato senza alcun controllo dal basso possa essere giusto. Sono dubbi legittimi. Tieni presente, però, il contesto storico e la democrazia-anarchia del tempo. E tieni presente che a prendere decisioni non sono solo persone di provata competenza, ma anche persone disinteressate, persone che non possono preoccuparsi dei loro interessi privati. Ma in quanto persone, pur disinteressate, non possono non essere soggette a pressioni altrui. Anche se non vi sono le condizioni perché facciano favori a se stessi, nulla osta che li facciano ad altri. Più che uomini in carne ed ossa sarebbe meglio che a governare siano le leggi che per loro natura sono impersonali e quindi non guardano in faccia a nessuno. È lo stesso Platone che, in tarda età, avverte il problema e pone l’accento sulle “leggi”: queste, proprio in quanto valide per tutti, non tengono conto né di situazioni particolari né di diversità di uomini. Ma ciò può creare ingiustizia perché i casi concreti per cui le leggi sono applicate possono essere molto diversi tra loro. Uno Stato “etico” Le leggi, però, in tal modo, valgono – come diciamo noi oggi – erga omnes e non possono diventare provvedimenti ad personam. E poi sono le stesse leggi che possono indicare tassativamente le eccezioni. Eccezioni che rimangono scritte e non possono diventare oggetto di arbitrio di chi governa in un determinato momento. Platone non parla solo del carattere universale delle leggi, ma anche del loro ruolo educativo e formativo. Le leggi, in altre parole, si propongono di plasmare la coscienza dei cittadini e guidarli verso comportamenti virtuosi. Mi sembra una considerazione più che condivisibile: non è lo stesso Socrate, sulla scia di Protagora, a sostenere che un individuo senza le regole di una comunità rimarrebbe allo stadio di un animale? Sono le leggi che educano i cittadini a non comportarsi come a loro piace, ma secondo norme che rispondono al bene collettivo. Ma perché i cittadini possano comportarsi in modo virtuoso devono essere persuasi. Non devono cioè avere l’impressione di essere comandati dall’esterno. Per questo hanno bisogno di interiorizzare tali norme, norme che devono essere insegnate loro fin da bambini. Ma è difficile che i bambini comprendano la necessità di tali regole. Platone ne è perfettamente consapevole. Ecco perché sottolinea l’esigenza che le leggi siano presentate con “un alone di sacralità”. Un alone di sacralità che andrebbe conservato anche a proposito degli adulti. Platone, nelle Leggi, su alcuni valori è intransigente: lo Stato, ad esempio, deve combattere l’omosessualità e gli stessi rapporti sessuali non finalizzati alla procreazione. Non solo: deve condannare l’infedeltà coniugale perché mina alla base l’istituto della famiglia che è fondamentale in una società. Ma è lo stesso Platone che nella Repubblica distrugge la famiglia teorizzando per le classi superiori la comunione delle donne. È vero, nelle Leggi fa una sorta di retromarcia, ma la ragione è semplice: nella Repubblica Platone delinea uno Stato ideale, uno Stato perfetto, mentre nelle Leggi no. Una Santa Inquisizione In tarda età quindi Platone si rende conto del carattere utopico della Repubblica. Platone ne è consapevole anche prima: è intenzionalmente che nella Repubblica teorizza lo Stato come deve essere. Ciò che non mi convince, comunque, è la strumentalizzazione del sacro: come può un filosofo rigoroso come Platone far proprio l’uso strumentale della religione teorizzato da Crizia? Non hai torto, ma devi tener presente il contesto storico. Per dare ancora più forza ai valori Platone riprende il tema della religione cosmica, arrivando a sostenere che “tutto è pieno di dèi” e che esiste una provvidenza divina che si occupa anche dei piccoli fatti quotidiani. Si tratta di una religione di Stato? Sì. Ed è grazie a tale religione che per l’ateo sono previste sanzioni severissime, perfino la pena di morte. Un’altra mostruosità: non è uno Stato totalitario, questo? È certo che il suo è un modello di “Stato etico”, uno Stato cioè che non lascia ai cittadini la libertà di scegliere una propria concezione del mondo, ma che intende imporre una propria, addirittura una religione propria. Tutto questo a fini di bene: perché tutti si comportino in modo virtuoso. Una chiara conseguenza della concezione organicistica dello Stato. È vero: nello Stato di Platone, e in generale nella cultura politica della Grecia antica, non esiste l’individuo con i suoi diritti (sarà questa una conquista dell’età moderna), ma questi è in funzione del bene collettivo. È ciò che sosterrà, se non vado errato, il fascismo. Sì. Ma dobbiamo sempre guardare ai contesti diversi. Platone, proprio perché convinto della uguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi, giunge a teorizzare un’istituzione di controllo (il Consiglio notturno) col compito di garantire l’applicazione di tali leggi per tutti, anche per i vertici dello Stato perché nessuno deve ritenersi un privilegiato e sentirsi al di sopra delle leggi. Una sorta di Santa Inquisizione. In qualche misura sì, ma non è il caso di confondere due istituzioni così distanti nel tempo. Di sicuro in Platone c’è qualcosa di inquietante in quanto tutta la vita dei cittadini viene disciplinata dallo Stato: è prevista perfino una multa per i celibi oltre i 35 anni e la proprietà privata, reintrodotta in qualche misura, è sotto il rigido controllo dello Stato. Siamo di fronte a una forma di statalismo. Si tratta, tuttavia, di una forma di statalismo meno accentuata rispetto al modello delineato dalla Repubblica: Platone infatti, nelle Leggi, introduce un tipo di governo che è un mix di aristocrazia e di democrazia. È nell’ottica dello statalismo che si spiega anche la teologia astrale: è dentro la sacralità del cosmo che viene giustificata la sacralità delle leggi, sacralità essenziale per dare forza e autorevolezza alle leggi stesse e quindi a inculcare di più nei cittadini la virtù. In qualche misura la religione astrale riprende la concezione sviluppata precedentemente nel Timeo. Una concezione religiosa? Diciamo che siamo di fronte a uno sfondo sacro. Platone spiega l’origine dell’universo introducendo il concetto di Demiurgo. Una sorta di Dio creatore? Non proprio: il Demiurgo – che è un dio – non crea dal nulla, ma plasma la materia guardando al mondo delle idee. La materia, quindi, è preesistente al mondo come si presenta all’uomo. Sì, la materia è eterna come eterno è il Demiurgo e come eterne sono le idee. Il Demiurgo, quindi, mutatis mutandis, è una sorta di Artigiano divino che dà forma alla materia. È così. Il Demiurgo costruisce il mondo a somiglianza del mondo perfetto delle idee. Come nella tradizione ebraico-cristiana Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza. In tale caso si tratta del solo uomo. Ma non è tutto: secondo Platone il Demiurgo dà al mondo un’anima. Platone concepisce allora il cosmo alla stregua dell’uomo. Infatti: come l’uomo è costituito da corpo e anima, così l’universo materiale è permeato dall’anima che ne rappresenta la componente razionale. Un’idea destinata a cambiare il mondo Platone, quindi, considera il cosmo come una sorta di organismo. È così: un organismo vivente in quanto possiede un’anima che lo governa. Che lo guida come una Provvidenza. Esatto. Siamo allora lontanissimi dall’idea meccanicistica del mondo della scuola atomistica. Infatti: l’anima è il principio intelligente del mondo. Un principio dunque immanente al mondo: non vi è solo, secondo Platone, il mondo trascendente della razionalità divina (il mondo delle idee), ma la razionalità è presente pure nell’universo. Ed è esso che guida il mondo verso un fine che è il bene, che è l’armonia tra le parti. L’universo platonico, dunque, è un universo “teleologico” (finalizzato). Platone, in altre parole, si contrappone al meccanicismo, dando una lettura “finalistica” del cosmo. Dà, inoltre, ad esso una lettura matematica. Recupera quindi la visione pitagorica. Infatti: l’universo non ha solo un’anima razionale, ma ha anche una struttura matematica. Un’idea che sarà rilanciata dalla scienza moderna. Certo: un’idea destinata a cambiare il mondo. Una sorta di web Platone, in tarda età, non rivede solo il pensiero politico espresso nella Repubblica, ma la sua stessa dottrina delle idee. Una vera e propria sconfessione di se stesso! Sì. Egli, infatti, si rifiuta di pensare che esistono idee anche per cose come fango, sporcizia, capelli. Perché mai? Perché è convinto che le idee, proprio perché esprimono perfezione, siano per loro natura nobili. Platone introduce i “generi” che fanno letteralmente saltare la corrispondenza tra una classe di cose e un’unica idea. Non c’è più, quindi, una sola idea di uomo che costituisce l’essenza di uomo. Proprio così. Quando parliamo di Tizio non possiamo dire che è un’imitazione imperfetta dell’idea di uomo, ma che partecipa a una serie di generi: è vivente, animale, animale bipede, animale che parla, animale che ragiona. Crolla tutto, allora. Sì. Platone parla anche dei generi sommi, di idee cioè generalissime che valgono per ogni cosa: “essere”, “identico”, “diverso”. Ogni cosa “è”, è “identica” a se stessa ed è “diversa” dalle altre. Correggendo in tal modo Parmenide. Infatti. Secondo lui - ne abbiamo già parlato a proposito di Parmenide – affermare che Tizio “non è” Caio non significa attribuire all’essere il non-essere, ma semplicemente dire che Tizio “è diverso” da Caio. Platone opera la distinzione tra essere inteso come “esistere” ed essere inteso come “copula”: un conto, ad esempio, è dire “Socrate è” e un conto “Socrate è saggio”. Individua inoltre altri due generi sommi: il moto e la quiete. Ogni ente non solo “è”, “è identico a se stesso” ed “è diverso dagli altri”, ma è anche o “in moto” o “in quiete”. Il divenire, quindi, non è contraddittorio perché è un aspetto strutturale dello stesso essere. La nuova concezione platonica secondo cui le idee sono tra loro in relazione mi fa pensare all’web, vale a dire a una rete in cui un concetto richiama altri mediante una serie di link. L’idea di rete rende bene la concezione di Platone: l’idea di una classe di cose non è unica, ma è, appunto, una rete di idee. Platone, proprio al fine di cogliere e relazioni di una singola idea, suggerisce il metodo della “divisione”. Se vogliamo definire l’idea di uomo o di filosofo o di politico o di fiore, noi dobbiamo dividere i generi scegliendo quelli che si accordano con l’oggetto che vogliamo definire e scartando gli altri. Nel caso di “uomo”, nel momento in cui individuo l’idea di animale, devo dividere tale idea in “animale quadrupede” e “animale bipede”, scartare la prima e accogliere la seconda. E questo vale per le successive divisioni: “animale che parla” e “animale che non parla”. Solo alla fine della divisione io sono di fronte alla complessità delle idee che definisce l’uomo. Platone chiama questo metodo della divisione “dialettica”. Platone quindi dà al termine “dialettica” una valenza diversa da quella che diamo noi al termine. Infatti: secondo lui la dialettica rappresenta il livello più alto del sapere. La dialettica, in altre parole, coincide con la filosofia: il filosofo non solo è colui che scopre le idee, ma anche chi coglie la complessità delle loro relazioni. Un gigante del pensiero Al di là di alcune sue tesi discutibili, addirittura inaccettabili, mi pare di essere di fonte a un gigante del pensiero. Un gigante anche nei confronti del suo maestro. Di sicuro va oltre Socrate, ma rimane comunque nel suo solco. Socratica è l’aspirazione ad andare al di là del relativismo, della fragilità delle opinioni e dei beni effimeri alla ricerca di qualcosa di stabile, di punti di riferimento certi. Socratica è l’esigenza di andare al di là di una filosofia ridotta a tecnica di persuasione. Socratica l’istanza di andare al di là della stessa retorica della democrazia assembleare. Sì, ma sono le sue soluzioni che non mi convincono. Non mi convince, in primo luogo, la sua cervellotica dottrina delle idee. Non ti convince, ma è un fatto che vi è una scuola di matematica che si rifà proprio a tale concezione. Non posso certo cimentarmi con dei matematici, ma a mio modesto avviso anche la matematica altro non è che un sapere creato dalla mente umana. Non puoi negare, però, che la concezione, prima pitagorica e poi platonica, secondo cui è lo stesso cosmo che ha una struttura matematica, farà tanta strada e darà origine a quella rivoluzione culturale che è la scienza moderna, rivoluzione che ha segnato e segna ancora la nostra cultura. Sono poi gli scienziati che, man mano, “scoprono” le equazioni e i rapporti matematica che regolano l’universo: “scoprono”, non inventano. Ma gli oggetti della geometria sono “inventati”, non scoperti: nessuno ha “scoperto” il triangolo o il cerchio. È certo, tuttavia, che le proprietà di una figura geometrica sono oggettive e che tali proprietà non riguardano le figure disegnate, ma proprio quelle invisibili. Ma le figure invisibili altro non sono che figure “pensate”con determinate caratteristiche. Appunto “pensate”: è proprio il pensare, il vedere con l’occhio della mente, che è alla base sia della filosofia che della scienza. Se la scienza si fosse limitata al “visibile”, non si sarebbe evoluta. E ciò vale anche per la matematica che è il linguaggio della scienza: se non fosse volata nel cielo dell’astrazione, non avrebbe avuto il successo che ha giustamente meritato. Sono d’accordo, ma tu stesso parli della matematica come del “linguaggio” della scienza. Ora il linguaggio è una convenzione umana, cioè una creazione dell’uomo. Stiamo toccando un tema che sarà oggetto, dopo Platone, di numerose e acute riflessioni. Ne riparleremo. Torniamo ora a Platone. Questi ha avuto il merito di avere ridato alla filosofia un ruolo di primissimo piano. È vero, ma io preferisco la figura del filosofo-ricercatore incarnata da Socrate, mentre sono diffidente nei confronti di chi con inaudita presunzione vanta il possesso di verità assolute. Non è il caso di Platone: lui ha avuto l’onestà intellettuale di mettere in discussione risultati a lungo maturati. Sì, ma come si può idealizzare a tal punto il filosofo da presentarlo come un “liberatore”, una sorta di Cristo ante-litteram? Ma questo è il ruolo di qualsiasi maestro: questi non libera gli allievi dalla catena della loro ignoranza? E che cosa fa lo scienziato se non mettere in discussione le convinzioni profonde dell’uomo comune? Sì, ma non è pericoloso affidare al filosofo il ruolo del politico? Platone ti direbbe che non è meno pericoloso affidarlo al popolo: è stata proprio un’assemblea democratica a emettere la sentenza di condanna nei confronti di Socrate. Platone rimane sostanzialmente un aristocratico che disprezza il volgo: perché mai al popolo dovrebbe essere sottratto il diritto di dire la propria opinione in merito a ciò che è di interesse collettivo? Platone non sottrae diritti a nessun individuo. Egli infatti non nega, ma anzi teorizza la mobilità sociale: secondo lui - l’abbiamo già detto - un figlio di contadini, se ha meriti, può fare la scalata sociale ed entrare a far parte della classe dirigente. Platone parla di funzioni di uno Stato, funzioni da cui non si può prescindere neppure oggi. Ma oggi anche chi non ha attitudini specifiche a svolgere la funzione di governante, ha il diritto di esprimere il proprio voto nelle elezioni dei rappresentanti e il proprio parere in merito ai quesiti posti dai referendum. Ma tutto ciò è una conquista relativamente recente. Il merito di Platone è stato quello di avere posto dei problemi con cui facciamo ancora i conti oggi: il conflitto di interessi, il ruolo del “tecnico” al potere, l’istanza egualitaria, l’idea di una politica alta che vada oltre gli interessi particolari, l’esigenza di politici del tutto disinteressati. Già, disinteressati come i politici di oggi. Non è mai il caso di generalizzare: oggi vi sono, come sempre, politici interessati e politici disinteressati. Ciò che conta è che vi siano degli antidoti legislativi al conflitto di interessi e che si punisca severamente ogni forma di corruzione. Non è questa pura utopia? La politica, è vero, è l’arte del possibile, ma talvolta anche ciò che è considerato a lungo come utopico diventa, grazie alla determinazione e all’intelligenza degli uomini, realtà. Servono di sicuro gli ideali, ma occorre anche una grande passione politica. Passione che Platone ha incarnato bene: di fronte alla crisi del suo tempo (una crisi politica, ma anche culturale) ha saputo guardare avanti, ripensare il modello di società, ripensare lo stesso ruolo dell’intellettuale. È stata la morte di Socrate che gli ha acceso la passione politica, una passione animata dal primato dell’etica, dell’esigenza di giustizia. È stato, come diremmo noi, un intellettuale engagé che non solo ha elaborato a lungo un progetto di radicale rinnovamento, ma che ha anche cercato in qualche misura, pur con mille difficoltà nei suoi viaggi a Siracusa, di realizzarlo. Con esiti frustranti, immagino. Sì, ma sono questi esiti che l’hanno condotto a rimettere in discussione se stesso. E ciò è positivo. Ho la sensazione però che gli intellettuali non si trovino a loro agio in politica. Forse è vero. Ma un contributo importante lo possono dare, soprattutto in termini di progettualità. Gli intellettuali, poi, in quanto tali, dovrebbero essere meno sensibili alle pressioni corporative. Purché, tuttavia, siano eletti dal popolo e da esso controllati: la ricetta platonica non regge più oggi. Sono d’accordo con te. È il caso di aggiungere che Platone ha segnato profondamente la storia della cultura occidentale, perfino la storia del Cristianesimo. Sono rari gli uomini che hanno lasciato tracce così marcate. Avremo diverse occasioni per parlarne. Un gigante del pensiero, dunque. Infatti.