☰ Search Esplora Accedi Crea un utente Pubblicare × H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc GIURISPRUDENZA•DANNO AMBIENTALE PENALE GL Dalla l. n. 349/1986 al t.u. ambientale Il nuovo regime del danno ambientale CASSAZIONE PENALE, Sez. III, 6 marzo 2007 (dep. 2 maggio 2007), n. 16575 Pres. Lupo - Rel. Fiale P.M. Meloni - Ministero dell’ambiente c. A.R., G. G. P., V. L., F. L. Parte civile – Ministero dell’Ambiente - Danno all’ambiente - Utilità assicurata da risorse naturali - Perdita temporanea – Risarcibilità – Sussistenza. (Legge 8 luglio 1986, n. 349, art. 18; d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, all. 3, parte sesta) A giudizio della corte, le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento per danno ambientale, in particolare il superamento della funzione compensativa del risarcimento, vanno ribadite anche dopo l’entrata in vigore delle nuove disposizioni di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, che ha espressamente abrogato l’art. 18 della l. 394 del 1986 (istitutiva del ministero dell’ambiente). In particolare la corte ha ritenuto che integri il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante medio tempore dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ovvero le c.d. perdite provvisorie, già previste quali componenti del danno risarcibile dalla direttiva 2004/35/CE (massima ufficiale). Parte civile – Esercente attività turistico ricettiva - Perdite economiche conseguenti a danno ambientale – Risarcibilità – Sussistenza. (Codice civile art. 2043; d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 313, comma 7) Va riconosciuto al privato (proprietario di un albergo prospiciente la spiaggia temporaneamente non fruibile) – in sede di condanna generica a favore della parte civile nel processo penale – il risarcimento del danno patrimoniale causato alla propria attività economica dal fatto lesivo dell’ambiente. Svolgimento del processo …Omissis… Motivi della decisione I ricorsi di entrambe le parti civili sono fondati e meritano accoglimento. 1. La responsabilità civile per danno all'ambiente e l'art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 Con l'art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (istitutiva del Ministero dell'ambiente) venne data attuazione, in Italia, al principio comunitario “chi inquina paga”, secondo il quale i costi dell'inquinamento devono essere sopportati dal responsabile attraverso l'introduzione, quale forma particolare di tutela, dell'obbligo di risarcire il danno cagionato all'ambiente a seguito di una qualsiasi attività compiuta in violazione di un dispositivo di legge. L'art. 18 della legge n. 349/1986 disponeva che: 1. Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato. 2. Per la materia di cui al precedente comma 1 la giuH:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc risdizione appartiene al giudice ordinario, ferma quella della Corte dei Conti, di cui all'art. 22 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3. 3. L'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo. 4. Le associazioni di cui al precedente art. 13 e i cittadini, al fine di sollecitare l'esercizio dell'azione da parte dei soggetti legittimati, possono denunciare i fatti lesivi di beni ambientali dei quali siano a conoscenza. 5. Le associazioni individuate in base all'art. 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi. 6. Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l'ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali. 7. Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale. 8. Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile. Trattavasi di una peculiare responsabilità di tipo extracontrattuale (aquiliana) connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno “ingiusto” all'ambiente, dove l'ingiustizia era individuata nella violazione di una disposizione di legge e dove il soggetto titolare del risarcimento era lo Stato. La strada risarcitoria restava aperta al privati solo ove essi lamentassero la lesione di un bene individuale compromesso dal degrado ambientale, sia esso la salute che il diritto di proprietà o altro diritto reale. Quanto al contenuto del risarcimento, che il giudice era chiamato ad assicurare, posizione dominante rivestiva il ripristino dello stato del luoghi a spese del responsabile (art. 18, comma 8), da disporsi “ove possibile”. La previsione doveva essere confrontata con quella dell'art. 2058 c.c. - secondo cui il risarcimento in forma specifica costituisce una misura eccezionale, operabile su domanda espressa del danneggiato ed assicurata unicamente se essa non risulti eccessivamente onerosa per il debitore - e deve rilevarsi, in proposito, che il legislatore aveva inteso sottrarre alla sfera giuridica del “danneggiato” la scelta di avanzare domanda siffatta, nella consapevolezza delle notorie difficoltà di azione della pubblica Amministrazione, e però, usando l'espressione “ove possibile”, aveva inteso sintetizzare (alla stregua del 2° comma dell'art. 2058 c.c., che fa riferimento alla possibilità economica del risarcimento in forma specifica, negandolo nel caso di eccessiva onerosità per il debitore) la necessità, comunque, di una valutazione comparativa dei diversi interessi, che tenesse conto delle effettive possibilità sia ecologiche che economiche. Qualora il ripristino dello stato dei luoghi non fosse stato possibile, nel senso anzidetto, doveva farsi luogo al risarcimento per esatto equivalente, ossia per l'esatto ammontare del danno cagionato, determinabile in riferimento agli importi necessari alla riduzione in pristino. Ove poi non si potesse pervenire alla precisa quantificazione del danno, il giudice avrebbe dovuto determinarne l'importo in via equitativa, tenendo conto di alcuni parametri di giudizio che la legge indicava: nella gravità della colpa individuale del responsabile, nel conto necessario per il ripristino dello stato dei luoghi, nel profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali (art 18, comma 6). Ai sensi del 7° comma dell'art. 18, infine, nei casi di concorso di più soggetti nello stesso evento dannoso, essi rispondevano nei limiti della rispettiva responsabilità individuale (risultava così introdotta una parziarietà passiva, che invertiva la regola generale della piena solidarietà dei responsabili nella disciplina risarcitoria civilistica). 2. L'art. 18 della legge 349/1986 nell'interpretazione di questa Corte Suprema L'art. 18 della legge n. 349/1986 è stato interpretato da questa Corte Suprema con criteri ermeneutici diversi. In un primo approccio metodologico è stata evidenziata la specialità della discipline da esso introdotta rispetto alla previsione generale dell'art. 2043 c.c., individuando le differenze formali e sostanziali rispetto al regime codicistico e sottolineando la natura “adespota” dell'ambiente, quale bene immateriale, e, conseguentemente, l'irrilevanza del profilo dominicale (pubblico o privato) delle sue componenti naturali (vedi Cass., Sez. Unite, 25 gennaio 1989, n. 440). In seguito, la disciplina dell'art. 18 è stata innestata nel regime ordinario della responsabilità, con riferimento all'art. 2043 c.c. (ed all'art. 2050 c.c. per le attività pericolose), configurando una sorta di “regime misto” che ha mutuato dalla disciplina codicistica la responsabilità oggettiva per le attività pericolose e la solidarietà dei responsabili e dalla disciplina speciale il profilo della rilevanza autonoma del danno-evento (la lesione in sé del bene ambientale), sostituito al “dannoconseguenza” considerato dal codice, e parametrando il danno medesimo non al pregiudizio patrimoniale subito ma «alla gravità della colpa del trasgressore, al profitto conseguito dallo stesso ed al costo necessario al ripristino» (vedi Cass., Sez. I, 1 gennaio 1995, n. 9211). Questa Corte ha ribadito la peculiarità del danno amH:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc bientale, pur nello schema della responsabilità civile, rilevando che esso consiste nell'alterazione, deterioramento, distruzione, in tutto o in parte dell'ambiente, inteso quale insieme che, pur comprendendo vari beni appartenenti a soggetti pubblici o privati, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà immateriale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo, che costituisce, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell'ordinamento (vedi Cass. civ. 9 aprile 1992, n. 4362). Per la valutazione del danno ambientale, dunque, non può farsi ricorso ai parametri utilizzati per i beni patrimoniali in senso stretto, ma deve tenersi conto della natura di bene immateriale dell'ambiente, nonché della particolare rilevanza del valore d'uso della collettività che usufruisce e gode di tale bene. Da ciò discende il superamento della funzione compensativa del risarcimento. Con successivo orientamento questa Corte ha affermato che la stessa configurabilità del bene-ambiente e la risarcibilità del danno ambientale, pur specificamente regolato dall'art. 18 della legge n. 349/1986, trovano «la fonte genetica direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente e come diritto vigente e vivente, attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (art. 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono l'individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale e ambientale» ed ha ritenuto, pertanto, che, anche prima della legge n. 349/1986, la Costituzione e la norma generale dell'art. 2043 c.c. «apprestavano all'ambiente una tutela organica» [così Cass. 19 giugno 1996, n. 5650 (relativa alla catastrofe del Vaiont del 1963)]. Secondo tale interpretazione la disciplina speciale poste dall'art. 18 è stata retroattivamente applicata a fatti lesivi dell'ambiente posti in essere in data anteriore a quella dell'entrata in vigore della stessa legge 349/1986. È stato altresì affermato che «il danno ambientale presenta una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana - art. 2 Cost.); pubblica (quale lesione del diritto-dovere pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali). In questo contesto persone, associazioni ed anche gli enti territoriali non fanno valere un generico interesse diffuso, ma dei diritti,ed agiscono in forza di una autonoma legittimazione (così Cass., sez. III, 19 gennaio 1994, n. 439, ric. M.). 3. Il contenuto del danno ambientale nell'interpretazione della Corte Costituzionale La Corte Costituzionale - nella sentenza n. 641 del 1987 - conferisce al danno ambientale una rilevanza patrimoniale indiretta, nel senso che «la tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali impone una disciplina che eviti gli sprechi e i danni sicché si determina una economicità e un valore di scambio del bene. Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo. Consentono di misurare l'ambiente in termini economici una serie di funzioni con i relativi costi, tra cui... la gestione del bene in senso economico con fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali... E per tutto questo l'impatto ambientale può essere ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di dare all' ambiente e quindi al danno ambientale un valore patrimoniale». Avverte ancora il giudice delle leggi che «risulta superata la considerazione secondo cui il diritto al risarcimento del danno sorge solo a seguito della perdita finanziaria contabile nel bilancio dell'ente pubblico, cioè della lesione del patrimonio dell'ente, non incidendosi su un bene appartenente allo Stato.... La legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato ed agli enti minori, non trova fondamento nel fatto che essi hanno affrontato spese per riparare il danno, o nel fatto che essi abbiano subito una perdita economica ma nella loro funzione a tutela della collettività e delle comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi all'equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno capo». Lo schema di azione adottato - riconducibile al paradigma dell'art. 2043 c.c, - porta «ad identificare il danno risarcibile come perdita subita, indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino, peraltro non sempre possibile, sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato e degli enti minori». Dalle anzidette argomentazioni della Corte Costituzionale, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha desunto che il contenuto stesso del danno ambientale viene a coincidere con la nozione non di danno patito bensì di danno provocato ed il danno ingiusto da risarcire si pone in modo indifferente rispetto alla produzione di danni conseguenze, essendo sufficiente per la sua configurazione la lesione in sé di quell'interesse ampio e diffuso alla salvaguardia ambientale, secondo contenuti e dimensione fissati da norme e provvedimenti. Il legislatore, invero, in tema di pregiudizio ai valori ambientali, ha inteso prevedere un ristoro quanto più anticipato possibile al rispetto al verificarsi delle conseguenze dannose, che presenterebbero situazioni di irreversibilità. Per integrare il fatto illecito, che obbliga al risarcimento del danno, non è necessario che l'ambiente in tutto o in parte venga alterato, deteriorato o distrutto, ma è sufficiente una condotta sia pure soltanto colposa «in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge», che l'art. 18 specificamente riconosceva idonea a compromettere l'ambiente quale H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc fatto ingiusto implicante una lesione presunta del valore giuridico tutelato. Ciò trovava conferma nella circostanza che, qualora non fosse possibile una precisa quantificazione di un danno siffatto, il giudice - per espressa previsione dello stesso art. 18 della legge n. 349/1986 - procedeva in via equitativa, tenendo presenti parametri che prescindevano da termini di ristoro soggettivo quali «la gravità della colpa individuata, il costo necessario per il ripristino, il profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo del bene ambientale» (vedi, in tal senso, Cass., Sez. III, 10 giugno 2002, n. 22539, ric. K. G. ed altri). Questa III Sezione penale aveva in precedenza affermato (in tema di smaltimento di rifiuti) che: «Non danno luogo a risarcimento - di regola - violazioni meramente formali. La stessa lesione dell'immagine dell'ente, il quale, della commissione di reati vede compromesso il prestigio derivante dall'affidamento di compiti di contralto o gestione, costituisce danno non risarcibile autonomamente, in tal caso il risarcimento deve essere riconosciuto soltanto quando sia stato concretamente accertato il suddetto danno ambientale, al quale sia collegata, come aspetto non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale dell'ente» (Cass., sez. III, 14 gennaio 2002, n. 1145, C. ed altro; 25 maggio 1992, n. 6297, B.). 4. Il danno ambientale nelle disposizioni del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 Il d.lgs. n. 152/2006 (art. 318) ha espressamente abrogato (ad eccezione del comma 5) l'art. 18 della legge n. 349/1986 e, nell'art. 300: - prevede, al 1° comma, che «È danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o assicurata da quest'ultima». Tale norma riporta in termini puntuali la nozione comunitaria di “danno ambientale” posta dalla direttiva 2004/35/CE, sostituendo l'espressione “mutamento negativo misurabile” con quella di “deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto”; - specifica, al 2° comma, che «Ai sensi della direttiva 2004/35/CE costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto delle condizioni originarie, provocato... c) alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni» [che incidano in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate, quali definiti nella direttiva 2000/60/CE ...]. L'art. 311 dello stesso d.lgs. n. 152/2006 dispone poi, ai primi due commi, che: «1. IL Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale; oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto. 2. Chiunque, realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato». Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio ha, dunque, due alternative per procedere al recupero del danno ambientale: può agire in via giudiziaria ovvero procedere al recupero in via amministrativa attraverso la procedura regolata dagli artt. 312 e seguenti del d.lgs. n. 152/2006, in parte già anticipata dai commi da 439 a 443 della legge finanziaria n. 266/2005 [emissione di un'ordinanza immediatamente esecutiva con cui si ingiunge, ai responsabili del fatto che abbia causato il danno, il ripristino ambientale entro un termine fissato, a titolo di risarcimento in forma specifica, nonché - in caso di inottemperanza ovvero qualora il ripristino risulti in tutto o in parte impossibile oppure eccessivamente oneroso ai sensi dell'art. 2058 c.c. di una successiva ordinanza con la quale viene ingiunto pagamento, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica, di una somma pari al valore economico del danno accertato e residuato, a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario]. Il Ministro dell'ambiente che abbia adottato l'ordinanza di cui all'art. 313 non può proporre né procedere ulteriormente nel giudizio per il risarcimento del danno ambientale, salva la possibilità dell'intervento in qualità di persona offesa dal reato nel giudizio penale (art. 315). Ai sensi dell'art, 310 del medesimo d.lgs., pure i soggetti di cui all'art. 309, comma 1 (le Regioni, le Province autonome e gli Enti locali, anche associati, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse alla partecipazione al procedimento relativo all'adozione delle misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino) sono legittimati ad agire, secondo i principi generali, anche per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell'attivazione, da parte del Ministero, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale, avanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva. Anche a fronte di tali recenti disposizioni normative (che pure presentano difetti di coordinamento sia tra loro sia con altre disposizioni dello stesso testo legislativo), ritiene questo Collegio che debbano ribadirsi le conclusioni alle quali si è pervenuto - in materia di risarcimento per equivalente patrimoniale - nell'interH:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc pretazione dell'art. 18 della legge n. 34/1986 (di cui sia dato conto dianzi). Contrariamente a quanto argomentato nella sentenza impugnata, va affermato in particolare che integra il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore, dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d. “perdite provvisorie”, previste espressamente come componente del danno risarcibile dalla direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale) approvata il 21 aprile 2004 e già considerate risarcibili dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema sotto forma di «modifiche temporanee dello stato dei luoghi» (vedi Cass., Sez. III,15 ottobre 1999, n. La risarcibilità delle perdite temporanee è giustificata 13716). dal fatto che qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo, non può mai eliminare quello speciale profilo di danno conseguenze alla perdita di fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla condotta illecita, danno che si verifica nel momento in cui tale condotta viene tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo. 5. La posizione della parte civile L. P. Quanto alla posizione del ricorrente P., va evidenziato anzitutto che - anche ai sensi dell'art. 313, 7° comma, del d.lgs. n. 152/2006 - «resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute a nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritto e degli interessi lesi». In tale prospettiva va rilevato, quindi, che detta parte civile è coinvolta direttamente nella vicenda con profili spiccatamente personali (lesione alla reputazione Commerciale e diminuzione dell'attività di ricezione turistica dell'albergo) e l'entità oggettiva dell'intervento contestato si pone come potenzialmente idonea a compromettere, anche sotto il profilo patrimoniale, le caratteristiche della struttura alberghiera da lui gestita. Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, inoltre: - ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile, non è necessario che il danneggiato dia la prova della effettiva sussistenza dei danni e del nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito, ma è sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia, infatti, costituisce una mera declaratoria iuris, da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale a rimesso al giudice della liquidazione (vedi Cass. pen., Sez. I, 18 marzo 1992, n. 3220; Sez. IV, 15 giugno 1994, n. 7008; Sez. VI, 26 agosto 1994, n. 9266); - la facoltà del giudice penale di pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno, prevista dall'art. 539 c.p.p., non incontra restrizioni di sorta in ipotesi di incompiutezza della prova sul quantum, bensì trova implicita conferma nei limiti dell'efficacia della sentenza penale nel giudizio civile per la restituzione e il risarcimento del danno fissati dall'art. 651 c.p.p., escludendosi, perciò, l'estensione del giudicato penale alle conseguenze economiche del fatto illecito commesso dall'imputato (vedi Cass. pen., Sez. IV, 26 gennaio 1999, n. 1045). - la condanna generica al risarcimento dei danni, contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice riconosca che la parte civile vi ha diritto, non esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, ma postula soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di liquidazione del quantum la possibilità di esclusione dell'esistenza stessa di un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito (vedi Cass. civ., Sez, III, 11 gennaio 2001, n. 329). Con motivazione incongrua, dunque, alla stregua dei principi anzidetti, la Corte territoriale ha rilevato che la parte civile P. «non ha comprovato il danno subito seppure non patrimoniale». ...Omissis... PQM ...Omissis... PRIME VALUTAZIONI DEL S.C. SUL NUOVO REGIME DEL DANNO AMBIENTALE di Luisa Giampietro La sentenza offre una panoramica della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in tema di risarcimento per danno all’ambiente. La Corte aderisce alla lettura sanzionatoria dell’istituto del risarcimento per equivalente e ritiene - sostanzialmente - immutato il quadro giuridico oggi vigente ai sensi del d.lgs. n. 152/2006 - Parte Sesta. 1. Cenni sui precedenti gradi di giudizio H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc In primo grado, con sentenza 3 luglio 2003, gli imputati vengono condannati per concorso, ex art. 110 c.p., nei reati previsti all’art. 20, lett. c) della legge n. 47/1985, all’art. 51, commi primo e terzo, del d.lgs. n. 22/1997 ed all’art. 674 c.p.1. È emessa, insieme alla condanna penale, la condanna generica al risarcimento dei danni a favore delle costituite parti civili, alle quali viene assegnata, in solido, una somma pari a euro 12.000, a titolo di provvisionale, ritenuto provato, entro tali limiti, l’ammontare del danno subito. Il Giudice di primo grado ritiene integrata la fattispecie di danno ambientale conseguente alle condotte, penalmente rilevanti, di (mal eseguito) ripascimento di spiaggia e di realizzazione di discarica abusiva. Il danno ambientale viene identificato nel serio e concreto pregiudizio alla flora ed alla fauna marine ed alla qualità della vita della collettività stanziata nella zona2. Lo stesso Giudice, in applicazione dell’art. 18 della legge n. 349/1986, valuta legittima la richiesta, avanzata dal Ministero dell’ambiente, di risarcimento del danno ambientale per equivalente pecuniario - attesa l’impossibilità oggettiva di realizzare il ripristino dello stato dei luoghi - e, ritenendo non quantificabile, con esattezza, il danno ambientale, lo liquida in un ammontare stabilito in via equitativa. I Giudici d’appello, con sentenza del 29 settembre 2005, in riforma della decisione di primo grado, assolvono gli imputati, per insussistenza del fatto, dal reato di cui all’art. 674 c.p., e li prosciolgono dalle restanti contravvenzioni, in quanto estinte per prescrizione. Revocano le statuizioni civili sulla base del mancato assolvimento dell’onere della prova sia rispetto alla sussistenza dei danni non patrimoniali (le cui richieste sono state avanzate da un soggetto privato, titolare di un esercizio commerciale situato nella zona, e dal Ministero dell’ambiente), sia rispetto al danno ambientale (lamentato, quest’ultimo, dal competente Ministero dell’ambiente). In particolare, sulla base di un principio di diritto pacificamente riconosciuto, statuiscono che solo il pregiudizio incidente sul diritto all’esistenza, all’identità, al 1 Nella specie, il Giudice di primo grado ha affermato la responsabilità penale di un Sindaco, due Assessori alla Giunta comunale ed un progettista/direttore dei lavori 1) per aver approvato alcune delibere di Giunta - illegittime poiché in contrasto con le previsioni del piano regolatore generale – e per aver dato corso ai lavori in modo difforme rispetto alle modalità indicate nel progetto approvato, avendo fatto realizzare un ripascimento della spiaggia con materiali ferrosi e sabbie ferrifere e per aver, successivamente, fatto sversare sui detti materiali del limo ferrifero, dragato dal fondale del porto, operando in una condizione assimilabile all’assenza di concessione edilizia (ex art. 20 lett. c) l. n. 47/1985); 2) per aver realizzato una discarica abusiva, scaricando ingenti quantitativi di materiali pericolosi, in quanto contenenti metalli pesanti (ex art. 51, c. 1 e 3 d.lgs. n. 22/1997); 3) per aver concorso a gettare cose pericolose in un luogo di pubblico transito (ex art. 674 c.p.). 2 Per morte constatata di pesci e di poseidonia (pianta erbacea che vive sui fondali marini), imputabile, quest’ultima, a carenza di ossigenazione per sovrapposizione del limo generato da polveri fini provenienti dalla spiaggia. nome, all’immagine e alla reputazione dell’Ente sia idoneo a legittimare la richiesta di risarcimento di danno non patrimoniale da parte del Ministero. Di tale pregiudizio i Giudici negano, nella fattispecie, la sussistenza. Si pronunciano, inoltre, nel senso della non configurabilità, nel caso concreto, di una fattispecie di danno ambientale. In primo luogo, escludono che sia stato provato, dalla parte attrice, il nesso di causalità tra la condotta degli imputati e l’evento di danno ambientale, per la presenza, nel territorio di causa, di fenomeni non riconducibili a detta condotta e potenzialmente idonei a cagionare lesioni all’ittiofauna, del tipo di quelle verificatesi3. In una situazione di inquinamento diffuso, i Giudici d’appello ritengono, infatti, non provato l’apporto individuale nella causazione dell’evento di danno e, dunque, respingono la richiesta di risarcimento ad esso relativa4. 3 Nella specie, si trattava, come anticipato, di fenomeni di intorbidamento delle acque marine ad opera del defluire, in mare, di acque piovane che portavano con sé alcune sostanze chimiche provenienti da miniere situate nella zona. 4 Il quadro normativo italiano in cui si muovevano i Giudici di primo e secondo grado era costituito dalla legge n. 349/1986, il cui (notissimo) art. 18 prevedeva un’imputazione dell’evento di danno ambientale, in presenza di un dimostrato nesso di causalità tra condotta e pregiudizio nonché degli elementi soggettivi della colpa o del dolo. La norma non risolveva, dunque, lo spinoso problema dell’attribuzione di responsabilità, in caso di inquinamento diffuso. Al momento della pronuncia della sentenza di appello, era, peraltro, entrata in vigore la Direttiva 2004/35/CE, che ha, in qualche modo, “riacceso” il dibattito sul tema del c.d. inquinamento diffuso. Affinché sia applicabile la disciplina comunitaria devono, infatti, ricorrere tre requisiti: la sussistenza di uno o più responsabili identificabili, la concretezza e la quantificabilità del danno e la sussistenza di un nesso causale tra il danno e l’attività dell’operatore (13° considerando, ai sensi del quale «la responsabilità civile non è uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi a atti o omissioni di taluni singoli soggetti»). Si è acutamente sottolineato come «non occorre che il responsabile sia individuato, occorre solo che sia individuabile (…), cioè che il comportamento dannoso sia, per le sue caratteristiche, ascrivibile all’attività di uno o più soggetti astrattamente individuabili e non ad azioni di un novero indifferenziato di soggetti», come avviene nel caso dei fenomeni di inquinamento diffuso, cfr. R. Montanaro, La Direttiva sulla responsabilità ambientale nel quadro della disciplina europea in materia di ambiente, in F. Giampietro (a cura di), La responsabilità per danno all’ambiente - L’attuazione della Direttiva 2004/35/CE, Milano, 2006, 51. Alla delicata questione dell’inquinamento diffuso è dedicato, oltre al 13° considerando, anche l’art. 4, par. 5, ai sensi del quale la Direttiva si applica «al danno ambientale o alla minaccia imminente di tale danno causati da un inquinamento di carattere diffuso unicamente quando sia possibile accertare un nesso causale tra il danno e le attività di singoli operatori». La possibilità di individuare un nesso eziologico tra l’attività dell’operatore e l’evento di danno sembra una contraddizione in termini (se, infatti, l’inquinamento è riconducibile all’attività di singoli, per definizione non è “inquinamento diffuso”)… A ben vedere, però, il legislatore comunitario ha inteso evitare che il soggetto che abbia causato un danno ambientale, innestatosi su una situazione di inquinamento diffuso, sfugga all’obbligo di riparazione per la parte di danno da lui cagionata. Resta, naturalmente, la difficoltà di scindere il danno ascrivibile al soggetto dal danno “di fondo” (da inquinamento diffuso), difficoltà destinata a ripercuotersi in sede giudiziaria… Nel nostro ordinamento, già prima dell’entrata in vigore della Direttiva 2004/35/CE, esisteva una nozione di inquinamento diffuso, definito, ai sensi dell’art. 2, lett. j) del d.m. n. 471/1999, come «contaminazione o alterazioni chimiche, fisiche o biologiche del suolo o del sottosuolo o delle acque superficiali o delle acque sotterranee imputabili alla collet- H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc La seconda e la terza considerazione del Giudice d’appello riguardano, l’una, la capacità dell’ambiente marino di assorbire naturalmente (diremmo di “autoeliminare”) i danni inflitti alle matrici naturali; l’altra, l’incerta permanenza delle conseguenze pregiudizievoli, attesa l’interruzione dei lavori incriminati, a seguito del sorgere della vicenda giudiziaria. In realtà, le statuizioni dei Giudici di secondo grado appaiono molto distanti dalle impostazioni adottate nell’ordinamento comunitario. In breve, va ricordato che, nella Direttiva 2004/35/CE, si è scelto di non dare ingresso a forme di risarcimento del danno prive del carattere di corrispondenza tra danno e riparazione (avendo escluso, quindi, quelle aventi carattere sanzionatorio5), e si è stabilito che il danno ambientale debba essere “concreto e quantificabile”, con la conseguenza che l’istituto del risarcimento costituisce uno strumento per realizzare un effettivo risanamento e che solo i danni risanabili possono rientrare nel campo di applicazione del regime di responsabilità per danno all’ambiente di matrice comunitaria. In tale prospettiva non rileva, in alcun modo, la gravità del pregiudizio ambientale: quel che importa è che, nel caso in cui si siano attivati processi di auto-riparazione e dunque non residui alcun pregiudizio, non si attiva alcun meccanismo di responsabilità, ferme restando (torneremo sul punto) le c.d. “perdite temporanee”, derivanti dalla mancata fruibilità del bene collettivo, fino al completo ripristino6. Alla luce di quanto esposto, appare evidente che tività indifferenziata e determinate da fonti diffuse». La bibliografia sulla Direttiva 2004/35/CE è ormai piuttosto vasta: in questa sede ci si limita a ricordare solo alcuni significativi contributi: F. Giampietro (a cura di) La responsabilità per danno all’ambiente L’attuazione della Direttiva 2004/35/CE, cit; M. Alberton, Dalla definizione di danno ambientale alla costruzione di un sistema di responsabilità: riflessioni sui recenti sviluppi del diritto europeo, in Riv. giur. amb., n. 5/2006, p. 605 e ss.; D. Röttgen, Direttiva 2004/35/CE: gli effetti sul diritto ambientale tedesco, in Ambiente, n. 10/2004, p. 935 e ss.; F. Giampietro, La Direttiva 2004/35/CE sul danno ambientale e l’esperienza italiana, in Ambiente, n. 9/2004, p. 805 e ss.; D. De Ströbel, La Direttiva 2004/35/CE del Parlamento e del Consiglio del 21/04/2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale e la relativa problematica assicurativa, in Diritto ed economia dell’assicurazione, n. 3/2004, 664 e ss.; P. Fimiani, Prevenzione e riparazione del danno: dalla UE un nuovo quadro normativo, in Ambiente e Sicurezza, n. 18/2004, 75 e ss. Fortemente critiche le voci di: P. G. Monateri, Il futuro della responsabilità civile per danno all’ambiente in Italia, in B. Pozzo (a cura di), La responsabilità ambientale, Milano, 2005, 137 e ss.; P. Giampietro, Prevenzione e riparazione del danno ambientale: la nuova Direttiva n. 2004/35/CE, in Ambiente n. 10/2004, 905). 5 R. Montanaro, La Direttiva sulla responsabilità ambientale nel quadro…, cit., 51. 6 Sono così definite «le perdite risultanti dal fatto che le risorse e/o i servizi naturali danneggiati non possono svolgere le loro funzioni ecologiche o fornire i servizi ad altre risorse naturali o al pubblico fino a che le misure primarie o complementari non abbiano avuto effetto» (All. II, punto 1 lett. d). «Qualora la riparazione primaria non dia luogo a un ritorno dell'ambiente alle condizioni originarie, si intraprenderà la riparazione complementare. Inoltre, si intraprenderà la riparazione compensativa per compensare le perdite temporanee» (All. II, punto 1). «È previsto che l’autorità competente possa prescrivere come metodo di riparazione compensativa la valutazione monetaria» (All. II, punto 1.2.3), che non è mai da intendersi come una compensazione finanziaria al pubblico (All. II, punto 1, lett. d) e punto 1.1.3). l’esclusione, dall’ambito di applicazione della disciplina europea, dei danni non quantificabili (si pensi ad ipotesi di inquinamento disperso o riassorbito) appare molto meno grave di quanto si potrebbe ipotizzare ad una lettura sommaria. Eppure, la Corte di appello stabilisce che soltanto la persistenza del danno ambientale possa dare luogo a tutela risarcitoria. Tale decisione viene - correttamente censurata dalla Corte di legittimità, la quale si pronuncia, al contrario, a favore della risarcibilità del danno derivante medio tempore, posto che difficilmente un intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo, può evitare il prodursi di danni derivanti dalla mancata fruibilità del bene ambientale leso. Richiama a tal fine anche una precedente, conforme pronuncia7. 2. La (confusa) nozione di danno ambientale nelle tesi delle Parti civili L’Avvocatura distrettuale dello Stato, costituitasi parte civile per il Ministero dell’ambiente, presenta al Giudice di primo grado molteplici domande di risarcimento dei danni (che ripropone in appello e rispetto alle quali deduce il vizio di omessa motivazione). Dallo stesso evento lesivo, infatti, assume possano derivare: - un danno ambientale, configurato come danno all’equilibrio e all’integrità ambientale con riferimento al suo valore collettivo, diverso dal danno-evento (ex art. 734 c.p.). Il pregiudizio consisterebbe in un’alterazione del bene-ambiente (concepito nella sua unitarietà o nelle sue componenti), intesa come «qualunque modificazione non necessariamente peggiorativa» (sic!) «né necessariamente irreversibile», di una caratteristica qualitativa di una risorsa naturale. Che possa sorgere responsabilità per danno all’ambiente anche nel caso di reversibilità del pregiudizio è affermazione che appare del tutto condivisibile. Soccorre, a tal fine. la nozione di “perdita temporanea”, su cui ci siamo già soffermati. Suscita, invece, più di una perplessità la tesi secondo cui il danno all’ambiente non debba consistere, necessariamente, in una modificazione in pejus. Quest’ultima sembrava, invece, un’acquisizione risalente, sia in dottrina che in giurisprudenza, già nella vigenza dell’art. 18 l. n. 349/1986; tale acquisizione, peraltro, è stata di recente confermata in sede europea (la Direttiva 2004/35/CE definisce il danno ambientale come «un mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale che può prodursi direttamente o indirettamen7 Cfr. Cass. 15 ottobre 1999, n. 13716, in Riv. pen., 2000, 477 con nota di Ramacci. In tale sentenza la Suprema Corte aveva stabilito che la mancanza di (previa) autorizzazione fosse causa della commissione dei reati previsti dall’art. 1-sexies l. n. 431/1985 e dall’art. 20 l. n. 47/1985, indipendentemente dalla temporaneità della modificazione apportata allo stato dei luoghi e dalla realizzazione in via definitiva di opere, in quanto – ecco il principio di diritto - anche dalle modifiche temporanee dello stato dei luoghi deriva un pregiudizio qualificabile come danno ambientale. H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc te»8); - danni patrimoniali (ex art. 2043 c.c); - danni non patrimoniali (ex artt. 2043; 2059 c.c.), derivanti dalla lesione del diritto soggettivo pubblico all’integrità del territorio, qualificato come elemento costitutivo dello Stato e danni non patrimoniali derivanti dalla compromissione delle funzioni di promozione e tutela, conservazione e recupero dell’equilibrio ambientale, che la legge assegna allo Stato. L’Avvocatura dello Stato ripropone la tesi, peraltro piuttosto “datata”, che configura l’ambiente quale oggetto di potestà esclusiva statale e che si è da sempre esposta alla critica di riproporre inadeguati schemi dominicali ed un’opinabile e superata concezione della sovranità. Se ne è, infatti, sottolineata l’incapacità di dare conto della «pluralità di interessi giuridicamente rilevanti che, in vario modo, si appuntano sui beni ambientali e ne reclamano la protezione e/o la valorizzazione»9. La classica obiezione secondo cui il territorio non può essere insieme elemento costitutivo ed oggetto di un diritto soggettivo, di cui l’ente-Stato sarebbe titolare, vale tuttora a contrastare – ci sembra efficacemente l’affermazione secondo cui esisterebbe un vero e proprio diritto soggettivo “reale” o “della personalità pubblica” dello Stato. - il danno morale, conseguente a fatto idoneo a pregiudicare l’immagine e la credibilità dello Stato. Il danno morale è configurabile solo in presenza di un danno patrimonialmente valutabile10. Orbene, sia nel caso in cui il danno all’ambiente sia configurato come mero danno alle funzioni, sia nel caso in cui sia reputata sufficiente una modificazione non necessariamente negativa della matrice naturale, ci si chiede come sia possibile valutare patrimonialmente la lesione inferta e, di conseguenza, come poter riconoscere la sussistenza di un danno morale… Anche la motivazione sull’accoglimento della pretesa risarcitoria presentata dall’altro soggetto (privato), costituitosi parte civile, desta perplessità. Si tratta, infatti, di un proprietario/esercente di un albergo (ubicato nell’area interessata dall’evento lesivo) che lamenta danni patrimoniali derivanti dalla minore attività di ricezione turistica e non patrimoniali, consistenti nella lesione alla reputazione commerciale. Fin qui, in punto di diritto, nulla di strano. Ciò che sconcerta è l’affermazione se8 Direttiva 2004/35/CE, art. 2, par. 2. La Direttiva è stata attuata in Italia attraverso il d.lgs. n. 152/2006, il quale ha ripreso, all’art. 300, comma primo, la nozione di danno ambientale (definito come «qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima»). 9 L. Francario, Danni ambientali e tutela civile, Napoli, 1990, 83. 10 Cass. 20 giugno 1997, n. 5530, in Foro it., 1997, I, 2068 con nota di Palmieri ed in questa Rivista, 1997, 711, con nota di Pozzo. Secondo tale pronuncia, il danno morale soggettivo, verificatosi in occasione della compromissione, anche grave, della salubrità dell’ambiente a seguito di disastro colposo, dà luogo a risarcimento, a condizione che sia conseguenza della menomazione dell’integrità psicofisica o di altro tipo di evento produttivo di danno patrimoniale. In senso conforme, cfr. anche Cass., 24 maggio 1997, n. 4631, in Corr. giur., 1997, 1172, con nota di De Marzo. condo cui il danno, di cui si duole tale soggetto, «non si esaurisce nel danno ambientale (!) (…) ma investe tutti i profili di cui all’art. 2043 c.c.». Evidentemente, l’inquadramento dell’istituto del danno ambientale nel più generale quadro di responsabilità civile da fatto illecito (inquadramento utilizzato – lo ricordiamo – al fine di applicare congiuntamente la disciplina speciale ex art. 18 e la disciplina generale codicistica ex art. 2043 c.c.) conduce ad una pericolosa perdita di confini della nozione stessa di danno ambientale, fino a ipotizzare una sua riferibilità ad un soggetto privato, quando, invece, si tratta di un danno pubblico/collettivo… Inoltre, è evidente come il proliferare delle voci di danno porti con sé il “rischio della sovrapposizione tra interessi risarcibili”11. Si tratta di un rischio che, da tempo, la giurisprudenza più sensibile cerca di scongiurare in vari modi (… nessuno dei quali sembra essere risolutivo)12 e che appare ancor più evidente da quando, nel 2003, la Corte di Cassazione «ha inaugurato il nuovo corso giurisprudenziale in tema di danno non patrimoniale»13. 3. La pronuncia del Giudice di legittimità: il danno ambientale in bilico tra l’art. 18 e le nuove disposizioni del d.lgs. n. 152/2006 Il Giudice di legittimità accoglie i ricorsi delle parti civili, ritenendoli fondati. Struttura la propria decisione muovendo in un’ottica che può definirsi “storica”: sembra, infatti, che voglia cogliere l’occasione per ripercorrere le “fasi della vita” dell’istituto della responsabilità per danno all’ambiente, introdotto dall’art. 18 della l. n. 349/1986. Dopo averne ricostruito le linee portanti, richiama un filone interpretativo, elaborato dalla Suprema Corte e 11 L’espressione è di L. Prati, Il danno all’ambiente tra tutela della persona e interessi collettivi: il danno esistenziale da inquinamento, in Riv. giur. amb., n. 5/2003, 847 e ss. 12 In App. Milano 14 febbraio 2003, n. 974, in Giur. it., 2003, 2287, con nota di Thellung de Courtelary; in Riv. giur. amb., 2003, 829, con note di Mazzola e Prati; in Dir. e giust., 2003, fasc. 14, 47, con nota di Peccenini. Delineata la nozione di “danno esistenziale da inquinamento ambientale” (nella specie, immissioni), il Giudice ha voluto precisare come occorra «evitare duplicazioni risarcitorie» ed ha, per questo, affermato essere «compito del giudicante specificare eventuali accorpamenti di danno». La sentenza è stata pubblicata in Riv. giur. amb., n. 5/2003, 829 e ss.. Il riferimento, nel caso concreto, era al concorso tra voci risarcibili derivanti dal danno non patrimoniale, dal danno biologico e dal danno esistenziale. 13 G. Ponzanelli, Oltre le duplicazioni: la babele delle voci di danno non patrimoniale risarcibili, in questa Rivista, 2007, 687, nota alla sentenza della Corte di Cassazione, 2 febbraio 2007, n. 2311. È noto come si sia proceduto ad un ampliamento dell’area del danno non patrimoniale, il quale, oggi, ricomprende voci di danno molto vicine tra loro: danno biologico, danno non patrimoniale – morale e danno non patrimoniale derivante dalla lesione di interessi della persona aventi natura costituzionale. Costituiscono esempi evidenti della difficoltà di sottrarsi al rischio di duplicazione risarcitoria le recenti sentenze: Cass., 9 novembre 2006, n. 23918, in questa Rivista, 2007, 310, con annotazione di G. Ponzanelli, La lettura costituzionale dell’art. 2059 c.c. esclude il danno esistenziale; Cass. 4 giugno 2007, n. 12929, in Guida al diritto, 2007, 26 e ss., nota di E. Sacchettini, Il risarcimento per lesione all’immagine trova fondamento nella Costituzione,. H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc la storica pronuncia della Corte costituzionale n. 641/1987, per tentare, infine, un’analisi delle disposizioni introdotte dal d.lgs. n. 152/2006, c.d. Testo Unico ambientale, il quale, abrogando il menzionato art. 18, ha sostituito ad esso una nuova disciplina in tema di danno all’ambiente14. Pur se apprezzabile per la sintesi “panoramica” degli orientamenti giurisprudenziali, la sentenza si espone ad alcuni rilievi critici. Innanzitutto, appare affetta da una certa “parzialità” di ricostruzione: il Giudice si riaggancia a quelle sentenze di legittimità (e solo a quelle…) che hanno fornito una lettura di tipo sanzionatorio dell’istituto del risarcimento per danno all’ambiente. Sposa la tesi secondo cui, in presenza di violazioni di norme poste a tutela di beni naturali, il danno ambientale si presume15. Argomentando sulla base della natura immateriale del bene-ambiente e della particolare rilevanza del suo valore d’uso da parte della collettività, aderisce alla teoria del «superamento della funzione compensativa del risarcimento per danno all’ambiente»16. Ritiene di ritrovare, nella nota sentenza costituzionale n. 641 del 198717, una conferma alla tesi secondo cui, nella vigenza dell’art. 18 della l. n. 349/1986, per integrare il fatto illecito - fonte dell’obbligo di risarcimento per danno all’ambiente - non fosse necessaria alcuna alterazione, bensì fosse sufficiente una condotta meramente idonea a compromettere l’ambiente (c.d. “lesione presunta del valore giuridico tutelato”). Che il Giudice delle leggi, nella storica pronuncia del 1987, abbia voluto (ri-)collocare l’art. 18 all’interno del generale sistema della responsabilità civile per fatto illecito non è in discussione, così come appare condivisibile l’affermazione secondo cui lo stesso Giudice costituzionale abbia voluto, nell’occasione, esaltare la natura di clausola aperta dell’art. 2043 c.c., ritenendola norma idonea a sanzionare la menomazione di beni costituzionalmente protetti, anzi, di “beni di valore assoluto e primario”, tra cui ha incluso l’ambiente, nella sua dimensione unitaria e globale (ex artt. 9 e 32 Cost.). Ancora, è condivisibile che la Suprema Corte, nel 14 Abrogazione prevista dall’art. 318, comma 2, lett. b) del d.lgs. 152/2006. 15 In questo senso, richiama la Cass. 1° settembre 1995, n. 9211. In quell’occasione il giudice di legittimità ebbe a sostenere che «sotto il riflettore dell’indagine giudiziaria non si trovi la situazione patrimoniale dello Stato o degli altri enti legittimati, come conseguenza del danno ambientale subito, bensì elementi chiaramente sanzionatori, a livello di pene civili». In dottrina, c’è chi ha molto insistito sui «profili tipicamente penalistici dell’istituto», cfr. G. Schiesaro, Gli aspetti sanzionatori della responsabilità per danno ambientale alla luce della nuova Direttiva, in B. Pozzo, La responsabilità ambientale, Milano, 2005. Per un commento critico della menzionata sentenza, cfr. F. Giampietro, Il danno ambientale tra l’art. 18 della L. n. 349/1986 ed il regime ordinario di codice civile, in Giust. civ., 1996, fasc. 3, 777 e ss.. 16 Sulla natura immateriale del bene ambiente, richiama Cass. 9 aprile 1992, n. 4362, in Mass., Rep. 1992, Danni civili (2020), n. 48. 17 Corte cost. 30 dicembre 1987 n. 641, in Foro it., 1988, I, 695, con nota di F. Giampietro. rievocare la sentenza costituzionale, abbia sottolineato il riconoscimento, nella stessa presente, della nuova valenza dell’art. 2043 c.c., derivante dalla sua «capacità di assumere un diverso contenuto»18. Avendo la Sovrana Corte ribadito la patrimonialità del danno all’ambiente e nel configurarlo come danno economicamente rilevante - seppure «svincolato da una concezione aritmetico-contabile»19 - ha consequenzialmente affermato la possibilità/doverosità della valutazione economica delle lesioni all’ambiente, pur ammettendo trattarsi di una valutazione diversa da quella basata sulle tradizionali componenti del tradizionale danno patrimoniale (danno emergente e lucro cessante). Apprezzato, dunque, lo sforzo del Supremo Collegio nel richiamare i punti cardinali di quella storica sentenza, pare, però, che lo stesso tralasci di ricordare quanto poco chiara risultasse la parte della pronuncia costituzionale relativa alla natura della responsabilità per illecito ambientale e come l’identificazione dell’area di danno nella perdita subìta, «indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato e degli enti minori» avesse suscitato, anche allora, molte perplessità. In dottrina si era evidenziata la natura di un «sistema ambivalente o ancipite, dal punto di vista oggettivo (quale illecito e quale sanzione) e soggettivo (a chi si imputa il bene ambiente)»20. Proprio la natura sanzionatoria del risarcimento, sottolineata anche dalla Consulta21, rendeva difficile un’interpretazione dell’istituto coerente con i paradigmi civilistici. Nella sentenza in commento, il Giudice di legittimità ritiene che, dalle argomentazioni della Corte costituzionale, discenda il principio secondo cui «il contenuto stesso del danno ambientale viene a coincidere con la nozione non di danno patito bensì di danno provocato»22. 18 A. Postiglione, Il recente orientamento della Corte costituzionale in materia di ambiente, in Riv. giur. amb., n. 1/1988. Per ulteriori riflessioni sul tema della collocazione dell’istituto nel quadro costituzionale cfr. anche A. Postiglione, La responsabilità civile per danno ambientale nel quadro dell’unità della giurisdizione, in P. Perlingeri (a cura di), Il danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile, Napoli, 1991, 134-136; F. Giampietro, Il danno ambientale tra l’art. 18 della L. n. 349/1986 ed il regime ordinario…, cit.. 19 Evidente l’eco delle “pionieristiche” pronunce della Corte dei Conti. In tema, cfr. i fondamentali contributi di P. Maddalena, Danno pubblico ambientale, Milano, 1990 e Responsabilità amministrativa, danno pubblico e tutela dell’ambiente, Rimini, 1985. 20 F. Giampietro, Il danno all’ambiente innanzi alla Corte costituzionale, cit. 21 La Corte dichiarava in sentenza che «la responsabilità che si contrae è correttamente inserita nell’ambito e nello schema della tutela aquiliana (…). Si è così in grado di provvedere non solo alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato ma anche a prevenire ed a sanzionare l’illecito. Il tipo di responsabilità civile ben può assumere, nel contempo, compiti preventivi e sanzionatori». 22 Nello stesso senso, cfr. Cass., dep. 16 dicembre 2004, ud. 11 novembre 2004, n. 48402, secondo cui il danno ingiusto da risarcire si pone in modo indifferente rispetto alla produzione di danni - conseguenze, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la lesione in sé di quell'interesse ampio e diffuso alla salvaguardia ambientale, seconH:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc In realtà, distinguere tra danno provocato e danno subìto significa riproporre, sotto (mentite) spoglie civilistiche, un concetto di sanzione di tipo penale, del tutto lontano dallo schema dell’illecito aquiliano… Eppure, non solo questa interpretazione dell’art. 18 è stata formulata da giurisprudenza e dottrina. Secondo una diversa impostazione, adottata, peraltro, dalla medesima Corte di Cassazione, e di cui nella sentenza in esame ci si limita ad una fuggevole evocazione, ai sensi dell’art. 18 della l. n. 349/1986, era considerato legittimo l’esercizio dell'azione di risarcimento del danno ambientale soltanto in presenza di un comprovato pregiudizio concreto alla qualità della vita della collettività, sotto il profilo dell'alterazione, del deterioramento o della distruzione, in tutto o in parte, dell'ambiente. Secondo tale ricostruzione, non hanno mai potuto dar luogo a risarcimento violazioni meramente formali23. In tal senso deponeva, del resto, la stessa formulazione letterale della disposizione, la quale prevedeva l’applicazione della norma soltanto nel caso in cui un soggetto, agendo «in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge» avesse «compromesso l’ambiente ad esso arrecando danno»24. do contenuti e dimensioni fissati da norme e provvedimenti. Il legislatore, in tema di pregiudizio ai valori ambientali, ha inteso prevedere un ristoro quanto più anticipato possibile rispetto al verificarsi delle conseguenze dannose, che presenterebbero situazioni di irreversibilità. 23 Sebbene il Giudice di legittimità si limiti a richiamare due sole pronunce nelle quali è stata affermata la necessità di fornire la prova del danno ambientale (Cass. 25 maggio 1992 n. 6297, B., in Cass. pen., 1993, fasc. 6, 1532 e ss., cfr. la relativa nota di F. Giampietro e P. F. Pagliara, in Foro it., 1996, I, 950 e ss.; e Cass. 14 gennaio 2002, n. 1145, C.), altre se ne potrebbero citare. Si pensi alla statuizione secondo cui «la liquidazione equitativa del danno ambientale, conseguente ad un’attività non autorizzata di autodemolizione, praticata in zona vincolata, presuppone l’accertamento della gravità della colpa del trasgressore, della concreta compromissione dell’ambiente, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dallo stesso trasgressore» (Cass. 30 ottobre 2001, in RivistAmbiente, 2002, 1236); oppure al principio di diritto secondo il quale «la patrimonialità del danno all’ambiente non è un requisito da interpretare in senso strettamente letterale e tuttavia impone di restringere l’area della risarcibilità ai danni che implichino un pregiudizio concreto alla qualità della vita della collettività sotto il profilo dell’alterazione, del deterioramento e della distruzione in tutto o in parte dell’ambiente medesimo» (Cass. 19 marzo 1992, in Impresa, 1992, 2568). Nella specie, si è escluso che costituisse danno risarcibile la semplice lesione all’immagine di Comune e Provincia, quali Enti territoriali investiti di compiti di controllo o gestione nel settore ecologico. 24 Muovendo dall’analisi del rapporto tra art. 18 della l. n. 349/1986 ed art. 2043 c.c., autorevoli voci in dottrina hanno evidenziato come la norma speciale, pur riecheggiando quella codicistica, se ne discostasse, a ben vedere, profondamente. Nel primo comma dell’art. 18, infatti, era stato costruito un illecito tipizzato, molto lontano dalla “clausola aperta” dell’art. 2043 c.c.. La tipicità, oltretutto, era riferita al fatto e non al danno, e, pertanto, «la presenza di un pur vasto (quanto disorganico) panorama normativo» non poteva coprire l’intera gamma dei fatti lesivi dell’ambiente. La circostanza che si trattasse di una responsabilità diversa da quella civilistica, del resto, trovava la sua motivazione nella natura dell’interesse leso (pubblico/collettivo) e si rifletteva nelle peculiarità della normativa in questione (si pensi ai parametri per la quantificazione del risarcimento: gravità della colpa e profitto del trasgressore). In tale prospettiva, da tempo si sottolineava l’inaccettabilità del ricorso all’art. 2043 c.c. o alle restanti norme codicistiche sulla responsabilità civile (artt. 2050, 2051 e 2052 c.c.), cfr. L. Bigliazzi Geri, L’art. 18 della legge n. 349/1986 in relazione all’art. Del resto, ammesso (e non concesso) che l’afflato punitivo fosse presente nella lettera e nello spirito dell’art. 18 della l. n. 349/1986, è ben difficile ritenerlo oggi presente nel nostro ordinamento, alla luce delle novità apportate, in ottemperanza agli obblighi comunitari, prima dalla “mini-riforma”, introdotta con la legge finanziaria del 2006, e poi dal c.d. Testo unico in materia ambientale. Giungiamo, così, ad un altro punto critico della sentenza, il quale concerne il profilo della normativa applicabile al caso concreto (verificatosi, lo ricordiamo, nella vigenza dell’art. 18 l. n. 349/1986). Sul punto, si esaurisce in brevi accenni. Richiamata l’abrogazione dell’art. 18 e l’intervenuta approvazione del d.lgs. n. 152/2006, il giudice si esprime nei seguenti termini: «anche a fronte di tali recenti disposizioni normative (…) ritiene questo Collegio che debbano ribadirsi le conclusioni alle quali si è pervenuto - in materia di risarcimento per equivalente patrimoniale nell’interpretazione dell’art. 18 della legge n. 349/1986». Non si comprende, preliminarmente, se la Corte ritenga applicabili le disposizioni introdotte dal d.lgs. n. 152/2006 (Parte Sesta) sul danno ambientale o la norma dell’art. 18 della l. n. 349/1986. La circostanza sorprende sia perché il nostro legislatore della riforma si è curato di escludere, espressamente, ogni possibilità di applicazione retroattiva della normativa25 (e ciò ha fatto conformemente alle indicazioni del legislatore comunitario…)26, sia perché, nell’opinione del giudice, pare quasi trattarsi di questione irrilevante (si parla di “ribadite” conclusioni in tema di risarcimento per equivalente…). Forse è proprio questo passaggio della sentenza a destare maggiori perplessità. Come sostenere, infatti, che il quadro giuridico sia rimasto immutato, a seguito dell’abrogazione dell’art. 18 quando, con la legge finanziaria del 2006, il legislatore ha previsto una «quantificazione del danno all’ambiente effettuata sulla base del pregiudizio arrecato alla situazione ambientale, a seguito del fatto dannoso e del costo necessario per il ripristi2043 c.c., in Aa.Vv., Il danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile, a cura di P. Perlingeri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1991, p. 75 e ss. In tema di rapporti tra responsabilità civile e responsabilità per danno all’ambiente, meriterebbe una riflessione la formula utilizzata nell’art. 311, comma secondo, del d.lgs. n. 152/2006, ai sensi del quale «chiunque, realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato». Il riferimento espresso al “fatto illecito”, assente nella formulazione dell’art. 18 della l. 349/1986, potrebbe, forse, essere sintomatico di una volontà del legislatore di ricondurre la responsabilità ambientale nell’alveo della responsabilità aquiliana… 25 Ai sensi dell’art. 303, comma 1, lett. f), la Parte Sesta del decreto legislativo «non si applica al danno causato da un’emissione, un evento o un incidente verificatisi prima della data di entrata in vigore della Parte Sesta del decreto». 26 Cfr. considerando n. 30 nonché art. 17 della Direttiva 2004/35/CE. H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc no»27, cancellando ogni riferimento al profitto conseguito dal trasgressore ed alla gravità della colpa di quest’ultimo28? Riprova ne sia il fatto che lo stesso legislatore – tornando sui propri passi – abbia deciso di riformulare, nel c.d. “terzo decreto correttivo al Testo Unico”, la norma contenuta nell’art. 311, reintroducendo ciò che – evidentemente- era stato espunto dalla precedente formulazione, vale a dire il riferimento alla “gravità della colpa individuale” ed al “profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali”29. Come ritenere, poi, che nulla sia mutato all’indomani dell’approvazione di un Testo Unico ambientale, in cui si prevede che la medesima liquidazione vada calcolata sulla base del valore economico del “danno accertato o residuato” (a seguito di incompleto ripristino), a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario?30 Infine, un’ultima osservazione. Perché mai, in una fattispecie in cui non trovano applicazione le nuove disposizioni in materia di danno ambientale, la Suprema Corte si premura suggerire che, in fondo, la Parte Sesta del d.lgs. n. 152/2006 non apporta alcuna significativa modifica alla disciplina per responsabilità per danno all’ambiente? Trattasi di un obiter dictum? 27 Art. 1, comma 440, della legge 23 dicembre 2006, n. 266, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale dello Stato (finanziaria 2006), pubblicata in G.U. n. 302 del 29 dicembre 2005, s.o. n. 211. 28 In tema, cfr. F. Giampietro, La responsabilità per danno all’ambiente e bonifica dei siti contaminati. La linea evolutiva del testo approvato con il d.lgs. n. 152/2006 alla luce della Direttiva 2004/35/CE, in F. Giampietro (a cura di), La responsabilità per danno all’ambiente – L’attuazione della Direttiva 2004/35/CE, Milano 2006, 272 e ss. 29 Cfr. art. 7, comma 6, dello Schema di decreto legislativo concernente ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 recante norme in materia ambientale. Lo schema è stato approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri in data 14 febbraio 2008. 30 Art. 313, comma 2 del d.lgs. n. 152/2006. H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc DANNI TEMPORANEI ALL’AMBIENTE E TUTELA DEGLI INTERESSI PRIVATI: UN PROBLEMA DI INGIUSTIZIA DEL DANNO di Ugo Salanitro È risarcibile il danno subito da un albergatore a causa dell’inquinamento temporaneo della spiaggia prospiciente la struttura ricettiva? I dati normativi e la soluzione giurisprudenziale. 1. Il caso A seguito del “ripascimento” di una spiaggia dell’isola d’Elba - per il quale era stato utilizzato materiale ferroso derivante dagli scarti di miniere e dal dragaggio di un bacino portuale – il progettista, che aveva diretto i lavori, e gli amministratori comunali, che avevano approvato il progetto, sono stati condannati, in entrambi i gradi di merito, alle sanzioni penali previste per la violazione delle discipline regolatrici dell’attività edilizia e dello smaltimento dei rifiuti. In secondo grado, tuttavia, le statuizioni del tribunale a favore delle parti civili - che aveva riconosciuto il risarcimento del danno al ministero dell’ambiente, all’ente locale e al proprietario di un albergo prospiciente la spiaggia, disponendo anche una provvisionale - sono state riformate in quanto non sarebbe stata dimostrata la sussistenza né di un danno ambientale permanente (poiché la lesione è stata ripristinata naturalmente dal potere di decantazione dell’ambiente marino), né di danni ulteriori. A seguito del ricorso del ministero dell’ambiente e del proprietario dell’albergo, la sentenza della corte di appello, per la parte relativa alle statuizioni civili, è stata annullata dalla Cassazione e la causa rinviata alla stessa corte distrettuale in sede civile. La sentenza de qua riveste particolare interesse, oltre che per la rilevanza delle questioni proposte, perché la Cassazione, pur decidendo su una vicenda sottoposta alla disciplina dell’art. 18 l. 349/86, si misura per la prima volta con il nuovo testo sulla responsabilità ambientale introdotto dagli artt. 299 ss. d.lgs. 152/061. Nella sentenza - che pretende di esporre sistematicamente la disciplina della responsabilità ambientale, ed è pertanto ricca di obiter dicta, in uno dei quali si afferma che la nuova disciplina andrebbe interpretata in modo conforme alle conclusioni alle quali è pervenuta la giurisprudenza in relazione alla disci1 Per un primo commento sulla novella del 2006 si consenta il rinvio ad U. Salanitro, La nuova disciplina della responsabilità per danno all’ambiente, in Studi per G. Nicosia, vol. VII, Milano, 2007, 169 ss. (anche in La resp. civ., 2006, 678 ss.) plina abrogata2 - si trattano in realtà soltanto due specifiche questioni: la prima, la cui soluzione appare relativamente semplice, concernente il dubbio se tra le voci risarcibili come danno ambientale vi sia la perdita temporanea delle utilità assicurate dalle risorse naturali; l’altra, più incerta e che tuttavia con la prima sembra avere significative connessioni, attinente alla rilevanza, sotto il profilo dell’ingiustizia, del danno patrimoniale subito da un privato (ad un bene in proprietà o ad un’attività economica) a causa della stessa perdita temporanea di utilità ambientali. 2. La rilevanza della perdita temporanea di utilità quale voce risarcibile del danno all’ambiente Secondo la sentenza de qua, anche in assenza di una lesione ambientale permanente, sussiste un danno risarcibile corrispondente alle perdite temporanee derivanti dalla mancata disponibilità delle utilità (balneazione, fruizione, pesca, etc.) assicurate dalle risorse ambientali nel periodo tra il verificarsi della lesione e il successivo ripristino (anche naturale). La voce di danno all’ambiente corrispondente alle perdite temporanee è ora riconosciuta esplicitamente dall’allegato 3 alla parte sesta del d.lgs. n. 152/06, che indica i criteri per la determinazione delle misure di riparazione ambientale ai sensi dell’art. 306 dello stesso decreto; secondo il giudice di legittimità le perdite temporanee sarebbero state già implicitamente comprese tra le voci del danno ambientale risarcibili ai sensi della precedente disciplina dell’art. 18 l. 349/86. Si tratta di una posizione condivisibile e coerente con il dato normativo, in quanto l’art. 18 della l. 349/86 aveva previsto, oltre al ripristino dello stato dei luoghi (comma 8), anche il risarcimento del danno per equivalente (comma 6): non appare infatti sostenibile che in quella disciplina il risarcimento del danno per equivalente potesse essere chiesto solo quando non era possibile il ripristino dello stato dei luoghi3, anche alla 2 Per notazioni critiche sugli obiter dicta della sentenza della Cassazione si rinvia alla nota di L. Giampietro: in questa sede ci si limita a rilevare che il richiamo ai precedenti sembra avere la funzione, speculare a quella dichiarata esplicitamente, di consentire l’applicazione della disciplina dell’art. 18 l. 349/86 per come interpretata alla luce delle regole poste dal d.lgs. 152/06. 3 Soluzione pure sostenuta, tra i primi commenti, da P. Cendon - P. Ziviz, L’art. 18 della legge 349/86 nel sistema della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 542; nello stesso senso, di recente, D. Malagnino, Danno all’ambiente e tutela risarcitoria. La legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste, in Contr. e impr., 2004, 1209 ss. Siffatta soluzione sembra ora accolta, stando alla lettera, dall’art. 313, comma 2, d.lgs. n. 152/06, ma appare H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc luce del richiamo al costo del ripristino tra i criteri per la valutazione equitativa del risarcimento del danno per equivalente4. Piuttosto si deve riconoscere che il risarcimento del danno per equivalente riveste una duplice funzione e che esso può essere richiesto sia nel caso in cui è impossibile (in tutto o in parte) il ripristino dello stato dei luoghi, sia nel caso in cui il ripristino è stato integralmente effettuato: nel primo, il risarcimento per equivalente rivestirà una funzione sostitutiva del ripristino volta a reintegrare i valori ambientali definitivamente perduti (ad esempio, la perdita di una popolazione animale o vegetale non più reintegrabile quantomeno nel medesimo sito); nel secondo, il risarcimento avrà una funzione additiva volta a riparare un danno, quello temporaneo, non eliminabile attraverso il ripristino5. La decisione della Cassazione sembra dunque superare la posizione, che muove dalla asserita coincidenza tra costo del ripristino e danno provocato dall’illecito, secondo la quale la previsione del risarcimento di un danno ulteriore, non oggetto di ripristino, dimostrerebbe la funzione punitiva della responsabilità ambientale6. Né in senso opposto rileva che nella stessa sentenza si ribadisca la natura non compensativa del risarcimento del danno all’ambiente: infatti, se si muove dall’assunto secondo il quale il danno all’ambiente comprende anche il pregiudizio alle utilità che le risorse ambientali assicurano alla collettività, la negazione della natura compensativa si giustifica con il rilievo che tale pregiudizio, secondo la disciplina speciale, viene risarcito allo Stato e non ai soggetti che lo hanno subito singolarmente o collettivamente7. Ma anche quest’ultimo rilievo potrebbe essere messo in discussione. Si impone infatti uno sforzo ulteriore - ed il compito spetta innanzitutto alla dottrina plausibile che il dato testuale vada superato in sede interpretativa per rendere coerente tale disposizione con gli antitetici criteri previsti dall’art. 306 dello stesso decreto e, soprattutto, dalla direttiva comunitaria 2004/35/CE. 4 Sul rapporto tra i commi 6 e 8 dell’art. 18 l. 349/86 si sono specificamente soffermati Ang. Federico, Tecniche e criteri risarcitori per la tutela del danno pubblico ambientale. Una lettura dei commi 6 e 8 dell’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, in AA. VV., Il danno all’ambiente con riferimento alla responsabilità civile, a cura di P. Perlingieri, Napoli, 1991, 286 ss. e, più recentemente, S. Patti, La valutazione del danno ambientale, ora in Busnelli - Patti, in questa Rivista, Torino, 2003, 91 ss. 5 In tal senso v.: P. Trimarchi, La responsabilità civile per danni all’ambiente: prime riflessioni, in Amministrare, 1987, 195; M. Comporti, La responsabilità per danno all’ambiente, in Foro it., 1987, III, 275 s.; G. Morbidelli, Il danno ambientale nell’art. 18 l. 349/1986. Considerazioni introduttive, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 613 s.; M. Meli, Il principio comunitario chi inquina paga, Milano, 1996, 178 s.; C. Tenella Sillani, voce Responsabilità per danno ambientale, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XVII, Torino, 1998, 380. 6 In tal senso, tra gli altri: E. Grasso, Una tutela giurisdizionale per l’ambiente, in Riv. dir. proc., 1987, 523; C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, 3 ed., Milano, 2006, 744 s., 749, 839 ss. 7 Per tutti: M. Libertini, La nuova disciplina del danno ambientale e i problemi generali del diritto dell’ambiente, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 581. per restituire coerenza al sistema e riflettere sulla conducibilità della disciplina della responsabilità ambientale nell’alveo della disciplina generale della responsabilità civile8: se si muove dall’idea che lo Stato ed in particolare il ministero dell’ambiente - ha assunto il compito, quantomeno a partire da una determinato momento storico, di «assicurare la promozione, la conservazione e il recupero delle condizioni ambientali» (art. 1, comma 2, l. 349/86), appare infatti coerente con il sistema della responsabilità civile che sia lo stesso Stato, e non i soggetti pubblici o privati danneggiati, ad essere legittimato a richiedere il risarcimento per le lesioni, anche temporanee, provocate all’ambiente dagli atti compiuti in violazione delle norme ambientali; ed è congrua con tale assunto la regola che impone allo Stato di destinare le somme ottenute a titolo di risarcimento del danno ambientale ad opere di ripristino e di bonifica (art. 18, commi 9-bis e ter, l. 349/86; art. 317, comma 5, d.lgs. 152/06). 3. Risarcimento del danno patrimoniale conseguente al danno ambientale e legittimazione del soggetto privato: rilievi critici La sentenza de qua ha annullato la decisione della corte d’appello - che aveva considerato non dimostrata la sussistenza di un danno risarcibile al proprietario dell’albergo, prospiciente la spiaggia inquinata - sul rilievo che in sede penale non è necessario dimostrare in modo puntuale né l’effettiva sussistenza di danni, né il nesso causale, né tanto meno la precisa determinazione del quantum risarcibile, ma è sufficiente, ai fini dell’emanazione di una condanna generica, l’accertamento del fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose. Con riferimento al caso in esame, la sentenza si è limitata a sottolineare che il fatto illecito «si pone come potenzialmente idoneo a compromettere anche sotto il profilo patrimoniale le caratteristiche della struttura alberghiera da lui gestita» con conseguente lesione diretta della posizione personale e patrimoniale del privato per il pregiudizio alla reputazione commerciale e per la diminuzione dell’attività di ricezione turistica dell’albergo. Va tuttavia osservato che la sentenza non indica argomenti idonei a superare il limite tradizionale, in materia di ingiustizia del danno, secondo il quale il privato, titolare di un’attività economica, non ha alcun interesse garantito, differenziato da altri soggetti, alla qualità dell’ambiente circostante9. Né è sufficiente il 8 Per un inquadramento si consenta il rinvio ad U. Salanitro, Il danno all’ambiente nel sistema della responsabilità civile, Milano, 2005, 125 ss. 9 Sul tema si cfr. C. Castronovo, op. cit., 759 ss., il quale ritiene che tale limite possa essere superato soltanto quando l’illecito ambientale raffigura ipotesi di reato ai sensi dell’art. 185 c.p.; l’A. riprende dunque, generalizzandola, la soluzione adottata da Cass., sez. un., 21 febbraio 2002, n. 2125, in Foro it., 2002, I, 999 ss., che riconosce il risarcimento dei danni ad un residente nell’area interessata dall’inquinamento di diossina a seguito di un grave incidente induH:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc richiamo all’art. 313, comma 7, d.lgs. 152/06, a tenore del quale «resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute e nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi»: si tratta di una disposizione ambigua, la quale per un verso sembra riconoscere l’ampliamento della tutela dei privati non solo ai diritti ma anche agli interessi, e che per altro verso sembra accogliere tuttavia un principio di segno opposto, in quanto il danno ingiusto viene circoscritto, e quasi tipizzato, a posizioni garantite dall’ordinamento quali la proprietà e la salute. Il danno subito dall’albergatore, tuttavia, non deriva dalla lesione diretta del bene di sua proprietà, bensì dalle perdite economiche connesse all’esercizio dell’attività economica causate, in via riflessa, da un fatto esterno al bene, cioè dal (degrado del) le condizioni ambientali inerenti un bene altrui, nel caso in specie un bene demaniale (la spiaggia). Con riferimento al profilo dell’ingiustizia10, va considerato che il titolare dell’attività turistica trae vantaggio dalla condizione ambientale senza sostenere alcun specifico costo per la sua conservazione e per il suo miglioramento: non appare giustificato quindi che la cessazione di tale vantaggio, ancorché a causa dell’illecito altrui, debba dare luogo ad un risarcimento del danno correlato al mancato profitto, in quanto non sussiste la correlazione tra costi e benefici che si pone in linea di principio a fondamento della protezione del bene giuridico (ed a conferma di ciò si rilevi che specularmente l’aumento di valore derivante dall’altrui attività di miglioramento ambientale non costituisce titolo per la restituzione dell’arricchimento). La posizione dell’albergatore sarebbe diversa qualora avesse acquisito il diritto alla concessione demaniale della spiaggia e conseguentemente avesse affrontato specifiche spese per opere funzionali alla fruizione della spiaggia e alla balneazione: infatti, si può ammettere, con riferimento a tale iniziativa e limitatamente ai costi specifici e alle aspettative di lucro connesse con tale servizio, che gli debba essere riconosciuto il diritto al risarcimento del striale (Seveso), il quale, pur non avendo ricevuto alcun pregiudizio alla salute, è stato costretto per un certo numero di anni a sottoporsi a continue visite mediche di accertamento a seguito delle condizioni di rischio in cui si è trovato. Ma l’argomento non appare convincente, in quanto non è dimostrato che l’art. 185 c.p., al quale è assegnato il compito di estendere l’area del danno risarcibile ai valori non patrimoniali, ponga una regola speciale sotto il profilo dell’ingiustizia del danno. Piuttosto - ed in questi termini potrebbe essere condivisa la soluzione delle sezioni unite - va messo in rilievo come non si possa equiparare la posizione di chi perde un vantaggio, rilevante da un punto di vista patrimoniale o non patrimoniale, a causa della modifica dell’ambiente circostante (ad es., i beneficiari della fruizione della spiaggia oggetto di inquinamento) alla posizione di colui la cui sfera soggettiva viene violata al punto da essere costretto ad effettuare determinati comportamenti ripetuti nel tempo (ad es., a sottoporsi a trattamenti sanitari diagnostici). 10 Sul quale, per valutazioni più analitiche, si consenta ancora il rinvio ad U. Salanitro, op. ult. cit., 51 ss., sp. 76 ss. danno (cfr. in senso diverso, ma con riferimento ad una casa di abitazione, Cass. 27 maggio 1982, n. 3214). L’irrilevanza delle vicende riguardanti l’ambiente circostante sulla posizione del titolare dell’attività recettiva trova peraltro conferma anche sul piano dei rapporti contrattuali con i clienti, i quali in linea di principio non possono avvalersi delle mutate condizioni ambientali per risolvere o modificare il contratto di godimento dei servizi (salvo che non siano specificamente connessi alla fruizione della spiaggia: servizi per la balneazione, spogliatoi, diving club e simili). 4. La tutela degli interessi patrimoniali non garantiti: una possibile strategia argomentativa Nel tentativo di giustificare la soluzione adottata dalla sentenza de qua, si potrebbe proporre una articolata argomentazione a sostegno della tesi favorevole al risarcimento dei danni patrimoniali causati dall’illecito ambientale. In questa prospettiva, si potrebbe osservare che, anche ad ammettere che la posizione dei soggetti che subiscono una perdita economica in conseguenza del danno ambientale non sia assimilabile a quella di chi lamenta la lesione di un diritto reale o di altra posizione garantita dall’ordinamento, resta il dubbio se, piuttosto che negare ogni tutela a favore dei primi, non sia più congruo riconoscere loro una tutela diversa rispetto a quella di cui si possono avvalere i titolari di diritti. Diversità di tutela che potrebbe riguardare, per un verso, le condizioni di accesso al risarcimento del danno e, per altro verso, l’individuazione delle voci di danno risarcibile: in relazione al secondo profilo, ci si limita ad osservare che se ai titolari di posizioni garantite spetta quantomeno il risarcimento del danno per la perdita del valore del bene, non sarebbe incoerente riconoscere a coloro che hanno sopportato costi di investimento specificamente collegati alla sussistenza di particolari condizioni ambientali il recupero delle spese effettuate e il ristoro delle occasioni altrimenti perdute ogni qualvolta non abbiano potuto avvalersi dell’assetto organizzativo predisposto a causa dell’alterazione ambientale derivante dall’illecito11. In relazione al profilo delle condizioni di accesso alla tutela risarcitoria, si potrebbero trarre indicazioni da due diverse discipline, che sono state interpretate nel senso di riconoscere ai privati il risarcimento del danno in conseguenza della lesione di interessi pubblici. Il riferimento è, per un verso, alla disciplina dell’art. 872 c.c., la quale, per la violazione delle norme di edilizia, sembra attribuire al privato la tutela per 11 Propone l’estensione ad altri settori della responsabilità civile dei criteri di individuazione delle voci risarcibili in sede di responsabilità precontrattuale - in un ordine di idee in cui si presuppone però un uso particolarmente elastico della clausola generale dell’ingiustizia del danno - M. Maggiolo, Il risarcimento della pura perdita patrimoniale, Milano 2003, 287 ss.. H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc equivalente della perdita di valore dell’immobile causata dalla lesione dei valori collettivi protetti da norme speciali e dai regolamenti comunali12: norma che può essere intesa quale luogo di emersione nel codice civile di un modello di responsabilità in cui siano risarcibili i danni anche se non connessi a posizioni giuridicamente tutelate13. Non pare risolutivo sterilizzare la portata di tale disciplina assumendone la natura eccezionale, in quanto in senso opposto depone il rilievo secondo il quale la regola introdotta nel 1942 si è limitata a recepire un orientamento consolidato della precedente giurisprudenza di legittimità, che si pretendeva essersi formato in applicazione dei principi generali della responsabilità civile14. Piuttosto si potrebbe limitarne la rilevanza, sulla base del dato storico e sistematico, riconoscendo il risarcimento del danno soltanto per la violazione di quelle disposizioni regolamentari che - in quanto funzionali ad incidere sulle caratteristiche del singolo edificio interessato (luminosità, ariosità, prospettiva) in maniera differenziata rispetto ad ogni altro immobile posto nel medesimo contesto territoriale - influiscono specificamente sul valore economico del singolo immobile anche in rapporto agli altri immobili della stessa area: da questo punto di vista appare congrua la regola che consente al privato interessato di concorrere nella pretesa risarcitoria e tale congruità si manifesta con evidenza ove si rilevi che l’amministrazione, alla quale spetta la cura dell’interesse urbanistico, non ha interesse ad attivarsi perché - a fronte del danno subito dal privato - il danno collettivo, proprio in questi casi, appare in via tipica marginale. Altra disciplina che può assumere rilievo è quella che discende dalla adesione (l. 6 aprile 1977, n. 185) alla Convenzione di Bruxelles del 12 settembre 1969, sulla responsabilità civile per i danni da inquinamento da idrocarburi - che definisce risarcibile «qualsiasi perdita o danno all’esterno della nave che trasporta idrocarburi causati da inquinamento che risulti da una fuga o dallo scarico di idrocarburi» (art. 1, punto 6) la quale è stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso del riconoscimento del risarcimento del danno subito anche da soggetti privati, quali pescatori o esercenti attività turistiche15. Si può sollevare il dubbio 12 In tal senso, v.: C.M. Bianca, Diritto civile, vol. VI, La proprietà, Milano, 1999, 305 s.; U. Mattei, Tutela inibitoria e tutela risarcitoria. Contributo alla teoria dei diritti sui beni, Milano, 1987, 338 ss.; A. Gambaro, Jus edificandi e nozione civilistica della proprietà, Milano, 1975, 290; M. Costantino, Contributo alla teoria della proprietà, Milano, 1967, 333 ss. 13 Per tale valutazione, cfr.: P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, in Jus, 1960, 339; S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, 197; A. Gambaro, La proprietà edilizia, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, vol. 7, Proprietà, t. 1, Torino, 1982, 543 s.; F. Galgano, Diritto civile e commerciale, vol. 1, Padova, 2004, 406 s. 14 Sulla storia e la ratio di tale norma v., ampiamente, M.R. Maugeri, Violazione delle norme contro l’inquinamento ambientale e tutela inibitoria, Milano, 1997, 49 ss. 15 Trib. Genova 5 aprile 1996, in Dir. maritt., 1996, 500 ss.; cfr. L. che la norma debba essere interpretata coerentemente con l’ordinamento italiano e per tale via respingere le interpretazioni che si vogliono conformi alla giurisprudenza di altri ordinamenti applicativa della convenzione16. Ovvero se ne potrebbe limitare la valenza assumendone la natura speciale, quale regola intesa a non fare ricadere sui sistemi economici costieri i costi degli incidenti provocati durante il trasporto marittimo di idrocarburi, al fine di evitare che gli Stati sovrani adottino misure legislative volte a limitare tale forma di trasporto nonostante la sua particolare rilevanza strategica. Anche a condividere tali opzioni, tuttavia è prospettabile un’ulteriore interpretazione, forse più convincente, volta a cogliere la specifica razionalità della disciplina ed a delinearne la portata estensiva: se si muove dall’idea che la disciplina della convenzione internazionale si riferisce a fatti illeciti idonei ad incidere su beni (risorse marine, litorale costiero) rispetto ai quali, per la loro peculiare natura (res nullius, res communes omnium) manca in linea di principio un soggetto legittimato a chiedere il risarcimento dei danni, appare congruo che, per evitare che resti non risarcita una significativa distruzione di ricchezza, si possa dare accesso alla tutela di posizioni altrimenti non garantite17. 5. Ingiustizia del danno e responsabilità ambientale: alla ricerca di un sistema coerente In base alle precedenti valutazioni si può prospettare l’ipotesi che, quando viene leso un valore collettivo territoriale o ambientale, gli interessi patrimoniali non garantiti possono ricevere tutela, ma che tale tutela debba assumere una forma diversa rispetto a quella riconosciuta ai titolari di diritti sia con riferimento al computo del risarcimento, sia in relazione alle condizioni di accesso: in particolare gli interessi non garantiti appaiono meritevoli di tutela solo quando in via tipica non sussistono o non sono rilevanti posizioni direttamente e pienamente tutelate. In linea di principio, invece, l’ampliamento del novero dei soggetti legittimati al risarcimento del danno riflesso (perché direttamente incidente su un bene altrui) non appare condivisibile - seppure in un contesto di cultura giuridica in cui il limite dell’ingiustizia del danno sembra essere sempre meno rigoroso, anche attraverso il ricorso poco controllato all’argomento della plurioffensività dell’illecito - in quanto si reputa irrazionale che il titoSchiano di Pepe, Inquinamento marino da idrocarburi e pure economic loss, in Riv. giur. amb., 1999, 751 ss. 16 Cfr. U.S.D.C., 11 gennaio 1988, “Amoco Diaz”, in Dir. maritt., 1989, 876 ss., con nota di M. Viale. 17 Sulla base di tale principio, si possono giustificare altre regole di fonte giurisprudenziale, quali il riconoscimento della legittimazione del mancato erede a chiedere il risarcimento dei danni al notaio per i vizi nel testamento ovvero dei parenti a chiedere il risarcimento dei danni per la morte del congiunto: cfr. J.M. van Dunné, Responsabilità per danno meramente patrimoniale: regola o eccezione, in questa Rivista, 2000, 121 ss., 139. H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc lare della posizione garantita debba concorrere, senza alcuna prelazione, con una massa di soggetti indirettamente danneggiati18: si pensi al caso in cui venga incendiato un castello di proprietà privata con un vasto parco - che dà lustro ed amenità ad un piccolo borgo e al rischio che il proprietario del castello non ottenga il pieno risarcimento in quanto il patrimonio dell’autore dell’illecito viene aggredito anche dagli esercenti turistici e dai proprietari degli immobili circostanti che vantano perdite economiche riflesse. I dubbi sulla risarcibilità delle perdite patrimoniali dell’albergatore trovano in qualche modo conferma nella stessa disciplina della responsabilità ambientale. Abbiamo già rilevato che il danno derivante dalla perdita di utilità assicurate dalle risorse naturali rientra tra le voci del risarcimento del danno ambientale: si può ora avanzare l’ipotesi che il danno subito dal privato nel caso de quo possa essere qualificato, almeno in parte, come perdita dell’utilità offerta dall’integrità della spiaggia. Sarebbe in contrasto con i principi che tale perdita, una volta che sia stata parzialmente riconosciuta quale componente del danno ambientale, venga risarcita quale danno patrimoniale del privato: nel senso della inammissibilità della duplicazione è la stessa disciplina della responsabilità ambientale, nella quale si nega che il risarcimento delle perdite temporanee - che comporta l’esecuzione delle c.d. misure compensative, consistenti in ulteriori miglioramenti delle condizioni ambientali rispetto alla situazione antecedente l’illecito da effettuarsi prioritariamente nel sito danneggiato – possa avvenire attraverso una compensazione finanziaria al pubblico (all. 3 alla parte sesta del d.lgs. 152/06, § 1.1.2). La soluzione adottata nella novella del 2006, in attuazione della direttiva europea 2004/35/CE, appare congrua con la stessa natura collettiva dei valori tutelati: i soggetti pubblici o privati che subiscono un danno a posizioni non garantite e non differenziate ottengono un ristoro non in via diretta (mediante una somma di denaro a favore dei singoli patrimoni) ma in via indiretta in quanto si avvantaggiano, secondo le modalità proprie della fruizione collettiva, di quei miglioramenti ambientali, ulteriori rispetto al ripristino, che l’autore dell’illecito o, in sua vece, lo Stato hanno l’obbligo di effettuare. 18 Restano decisive le considerazioni di P. Trimarchi, Sulla responsabilità del terzo per pregiudizio del credito, in Riv. dir. civ., 1983, I, 228 ss.; dello stesso A., voce Illecito: b) diritto privato, in Enc. Dir., vol. XX, Milano, s.d., 101 ss. H:\DeR\RECI\Rivista\2008\04_08\ok\Giampietro_Salanitro.doc Scarica 1. No category Microsoft Word - Giampietro_Salanitro.doc 27 lezione responsabilita civile della pa Responsabilità extracontrattuale Il fatto illecito - Home | Carlo Rimini DE LAURENTIIS - Cim - Università degli studi di Pavia La Proprietà Industriale nel Diritto Comunitario 6SezIIId-2 responsabilita slide intervento avv. Bordoni diazilla © 2017 DMCA Segnala