Testi di Gianni Ruffin W W W. T E AT R O U D I N E . I T MERCOLEDÌ 25 MAGGIO 2016 - ORE 10.00 ANTEPRIMA PER GIOVANI E SCUOLE GIOVEDÌ 26 MAGGIO 2016 - ORE 20.00 LA BOHÈME Musica di graphic: anthes storia che concerne vite comuni di giovani colti nella molteplicità di situazioni che la quotidianità normalmente propone e, per converso, proprio perché piccole cose, i fatti rappresentati si uniscono felicemente alla piccola modalità di conduzione del discorso musicale. La varietà degli eventi scenici non è poi solo quantitativa ma anche tipologica (ed anche per questa ragione vi risulta convincente la scrittura in forma aperta): storia, secondo Henri Murger, di «vita gaia e terribile», la vicenda di Bohème dà ampio spazio alla commedia, ma v’insinua fattori eterogenei: in essa convivono la pubblica allegria della festa al Quartier Latino e l’angoscia dissimulata per la salute di Mimì, la leggerezza coquette di Musetta e l’ironia un po’ sadica per il perbenista Alcindoro, il divertito distacco di Rodolfo verso il proprio «ardente dramma» (dato appunto alle fiamme) ed il coinvolgimento emotivo dell’innamoramento, l’ironia di Colline per la «Vecchia zimarra» e la tragedia d’una giovane vita troppo presto stroncata (una quarantina d’anni dopo Violetta Valery, nell’immaginario italico Parigi rimane la capitale del divertimento, dell’amore e della morte per tisi). All’occasione, inoltre, Puccini può anche scegliere di contaminare tale eterogeneità: particolare sulle prime disorientante ma in fondo rivelatore del suo magistero è la ripresa della medesima cadenza armonica della «vecchia zimarra» nel momento più straziante dell’opera, il congedo di Mimì dal mondo. Come spiega Michele Girardi: «questa ripresa trasmette un messaggio: comunicare il senso di un distacco materiale, aldilà del fatto che si tratti di un oggetto o di una persona». Se pensiamo che non si è data una sola rappresentazione della Bohème senza suscitare copiose lacrimazioni fra il pubblico, Puccini vi si rivela un vero chimico delle emozioni: non gl’importa il mezzo in sé, quello che conta è il precipitato espressivo, l’effetto. Senza dubbio le giocose perfidie indirizzate da Puccini ad Illica e Giacosa implicano un atteggiamento diverso, anzi opposto alla grandissima capacità di coinvolgimento della sua musica, ma a ben vedere esse possono addirittura esser considerate testimonianze emblematiche d’una necessità di distacco da parte del compositore, di uno “sguardo dall’alto” che, allo stesso tempo, si traduce in calibrato controllo compositivo: in attentissimo dosaggio degli effetti. Chi accetti che proprio il distacco costituisca la cifra nascosta di Puccini, sarà meno stupito dall’ammirazione testimoniata da un autore “freddo” come Igor Stravinskij. Non si tratta solo del palese ascendente specifico esercitato dalla musica per la festa al Quartier Latino sulla Fiera della settimana grassa di Petruška, bensì dell’ammirazione per l’intera nostra opera dichiarata dal maestro russo nel 1956: «Più invecchio, più mi convinco che La bohème è un capolavoro e che adoro Puccini, il quale mi sembra sempre più bello». ph: Fabio Parenzan prospettiva storica risalgono a due tipologie opposte ed alternative: la forma aperta del recitativo e la forma chiusa dell’aria, del duetto e dei pezzi a più voci. Proprio di qui promana l’impressione di scorrevole naturalezza: più agili delle vecchie forme chiuse, grazie al loro interno cangiantismo questi brani ne evitano il senso temporale di durata irrealisticamente espansa (storicamente motivata dalla necessità di dare adeguata enfasi alla dimensione sentimentale). Se pensiamo a quanto significativo sia per la storia del melodramma – specie italiano – il concetto di espansione lirica, comprenderemo quanto innovativo sia stato il Puccini di Bohème, al quale espandere quasi non serve più: qui le accensioni liriche sono perlopiù subitanei sfoghi di un’intensità emotiva che, per trovare degna e piena espressione, non necessita – come per secoli s’era fatto – d’allargarsi in ampie forme regolari, temporalmente espanse, ma non perciò risulta, al paragone, meno espressivamente intensa (anzi!… se c’è una ragione fondamentale della grande popolarità di Puccini essa risiede proprio nella grandissima potenza empatica della sua musica). Un breve accenno merita anche la discutibile accusa di resa al wagnerismo fomentata da questa modalità di scrittura aperta, magari corroborata dal toccante richiamo alle melodie delle succitate “arie” («Che gelida manina» e «Mi chiamano Mimì») nel tragico finale di Bohème: modalità non dissimile da quella del Leitmotiv wagneriano. L’accusa non solo è in sé difficile da comprendere (si stenta a capire dove stia il delitto nell’attingere da uno dei più grandi compositori della storia del teatro musicale), ma è sostenibile solo da un punto di vista piuttosto superficiale, limitato ad un approccio esteriore e generico, incapace di decodificare il senso drammaturgico e formale degli elementi mobilitati. Lontani da quelle polemiche pretestuose, avvelenate dal sentimento nazionalista, oggi possiamo serenamente riconoscere che, ciascuno a modo proprio, Wagner, il Verdi del Falstaff ed il Puccini di Bohème – con l’ottima ideale compagnia di Modest Musorgskij e Claude Debussy – furono tra i primi a saper interpretare, con la scrittura aperta, l’epocale tendenza all’informale che tutta l’arte europea andava a quei tempi manifestando. È inoltre da sottolineare che, entro un genere per sua natura ibrido come l’opera lirica, un capolavoro non può dirsi tale solo sulla base di astratte considerazioni stilisticomusicali: lo è, capolavoro, se lo stile musicale risulta convincente nel rapportarsi agli specifici contenuti drammatici che l’azione porta in scena. L’affrettato giudizio talora rivolto a Bohème (l’opera segnerebbe un passo indietro rispetto al “sinfonismo” di Manon Lescaut) non è in grado di cogliere la perfetta funzionalità del modo di scrivere prescelto da Puccini rispetto alla dimensione del dramma: un dramma concernente non dèi ed eroi, non wagneriane cose ultime e nemmeno grandi personaggi storici; ma neppure, come nel caso del Falstaff, contenuti buffi, che per loro stessa natura più si prestano ad un tipo di scrittura radicalmente innovativa (ciò perché il riso, in quanto segnale d’una dinamica psicologica d’alienazione – di presa di distanza dal suo oggetto – si associa più facilmente a forme e contenuti trasgressivi rispetto a regole codificate ed abitudini). Quella di Bohème è invece una storia piccola, immersa in una quotidianità fatta di persone normali e di piccole cose, sulla quale si abbatte la tragedia con un impatto emotivo dirompente poiché la dismisura della dimensione tragica è aliena alla quotidiana normalità rappresentata. Proprio, insomma, per esser fatta di piccole cose musicali – e non di grandiosità sinfoniche – la partitura di Bohème sa assecondare una Giacomo Puccini LA BOHÈME Musica di Giacomo Puccini Opera lirica in quattro atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa dal romanzo Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger Prima rappresentazione: Torino, Teatro Regio, 1° febbraio 1896 Mimì Rodolfo, poeta Musetta Marcello, pittore Colline, filosofo Schaunard, musicista Alcindoro / Benoît Parpignol, venditore ambulante Sergente dei doganieri Doganiere Venditore ambulante Hye-Youn Lee Ho-Yoon Chung Marie Fajtova Marcello Rosiello Ivan Šarić Vincenzo Nizzardo Dario Giorgelè Motoharu Takei Hektor Leka Giuliano Pelizon Dax Velenich con la partecipazione de “I Piccoli Cantori della Città di Trieste” diretti da Cristina Semeraro Orchestra e Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste direttore Renato Balsadonna regia Marco Gandini maestro del coro Fulvio Fogliazza scene Italo Grassi costumi Anna Biagiotti allestimento scenico del Teatro del Giglio di Lucca PRODUZIONE: FONDAZIONE TEATRO LIRICO GIUSEPPE VERDI DI TRIESTE Presentata da Arturo Toscanini al Teatro Regio di Torino il 1º febbraio 1896, La bohème è il primo frutto, seguito da Tosca nel 1900 e Madama Butterfly nel 1904, della collaborazione fra Giacomo Puccini ed uno dei più riusciti tandem letterarî della storia dell’opera lirica: quello costituito dai due scrittori Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, che già avevano collaborato al libretto di Manon Lescaut insieme a Marco Praga, Domenico Oliva, Ruggero Leoncavallo e Giulio Ricordi. Ben più che semplici librettisti, Illica e Giacosa erano personalità letterarie di spicco: il primo apportò diverse novità tematiche alla storia della letteratura italiana, ancor oggi ingenerosamente attribuite a Gabriele D’Annunzio; il secondo fu un fine letterato, particolarmente a proprio agio nella definizione di atmosfere intime e dimesse – analoghe a quelle che tanto luogo hanno sulla scena della Bohème –, ma chiamato a collaborare principalmente perché più esperto di Illica nella versificazione (proprio sua è la nota ironica definizione «Illicasillabi» per i versi del collega). La collaborazione di costoro con Puccini siglò un momento fra i più felici della storia del melodramma, troncato nel 1906 dalla morte di Giacosa ma foriero dei tre capolavori cui oggi, più ancora che a Manon Lescaut e Turandot, è assegnato il compito di tramandare la memoria dell’ultimo operista italiano inseritosi stabilmente nel repertorio internazionale. La concezione di Bohème fu particolarmente sofferta, sia per ragioni di circostanza sia per motivi attinenti allo specifico lavoro artistico. Si cominciò con la polemica che, fin dal marzo 1893, oppose Puccini a Leoncavallo (affiancati dai rispettivi editori Ricordi e Sonzogno) per la precedenza nella scelta del soggetto: polemica esplosa in coincidenza col decadere dei diritti d’autore del fortunato romanzo Scènes de la vie de Bohème, che lo scrittore francese Henri Murger aveva pubblicato sul periodico ''Le Corsaire'' fra il 1845 ed il 1849. Leoncavallo ci aveva pensato per primo, ma Puccini dichiarò d’aver conosciuto troppo tardi le intenzioni dell’amico: nonostante il rammarico, protestò ragioni affini a quelle che lo avevano visto in precedenza impegnato a difendere Manon dall’omonima opera di Jules Massenet («la precedenza in arte non implica che si debba interpretare il medesimo soggetto con uguali intendimenti artistici») e, per sua parte, concluse la disputa con un tono di sfida: «Egli musichi. Io musicherò. Il pubblico giudicherà». Ben sappiamo come sarebbe andata: il pubblico avrebbe sancito l’indiscussa vittoria di Puccini, la cui Bohème spopola ancor oggi in tutto il mondo, mentre quella di Leoncavallo, giunta in scena con più d’un anno di ritardo, è tutt’al più oggetto d’indagine sulla scrivania di qualche studioso. Quanto alla genesi di Bohème, essa (nonostante la fretta indotta dalla tenzone con Leoncavallo) procedette faticosamente per le innumerevoli esigenze poste dal compositore ai due librettisti. Esigenze ben riassunte dall’intimazione che, anni dopo, Puccini avrebbe rivolto al librettista di Rondine, Tabarro e Turandot, Giuseppe Adami: «Non si spaventi: i libretti si fanno così. Rifacendoli. Finché non raggiungeremo quella forma definitiva che è necessaria a me per la musica, non le darò tregua. Verso, metrica, situazione, parola… non mi guardi con quegli occhi attoniti… devono essere, fase per fase, studiati, vagliati, approfonditi, secondo il desiderio mio e le mie personali esigenze». Puccini, però, aveva fatto perdere la pazienza ad Illica ancor prima di coinvolgerlo nel progetto-Bohème. Così lo scrittore a Giulio Ricordi nel gennaio 1893: «Puccini ha confidato ad un amico che dei miei libretti ne fa anche senza e che nessuno sa capirlo, perché egli vagheggia una cosa… una cosa… una cosa… che…! Capite che questa cosa, esposta così, è assai difficile ad essere interpretata. Onde di fronte a questo buio pesto dovrei io brancicare di qua e di là a cercare che cosa è la cosa che vagheggia il Puccini, per poi sentirmi rispondere: “Un mi piasce!”?». Nondimeno, Illica accettò di lavorare ancora con Puccini… ed anche questa volta il lavoro al libretto fu un calvario; il testo poté dirsi ultimato solo nell’ottobre del 1895, comportando un percorso assai accidentato per i librettisti, alle prese con disposizioni del Maestro iperdettagliate e, in più d’un caso, provocatoriamente ironiche: oltre al celebre stampo metrico «cocoricò-cocoricò-bistecca» – che i librettisti resero col verso «Quando men vo soletta» (che in partitura diviene «Quando men vo, quando men vo soletta») –, ricorderemo le disposizioni per «il coro che gavazza nell’osteria» all’inizio del terzo quadro: «il coretto deve essere su questo metro: quinari tronchi. Quattro versi. Per esempio: Noi non dormiam / sempre beviam / facciam l’amor / sgonfiam trattor». Sono questi, con numerosi altri, gli aneddoti che ci tramandano la radicata immagine del “toscanaccio” Puccini: simpatico, gaudente, burlone, un po’ attaccabrighe. Immagine anche fondata, ma che rischia di metterne in secondo piano le serie motivazioni artistiche, magnanimamente riconosciute, a fatiche concluse, dal pur tiranneggiato Giacosa: «Puccini ha sorpassato ogni mia aspettativa!... e capisco adesso la sua tirannia di versi e accenti». Aldilà dei pittoreschi aneddoti, quest’affermazione ci mette sulla via della comprensione del significato storico-artistico di Bohème. Con quest’opera Puccini mise a frutto l’intenzione di farsi carico dell’eredità che costituiva al tempo stesso l’ultimo ed il più originale (e frastornante) lascito del grande vecchio dell’opera italiana: la geniale e recentissima partitura del Falstaff, che Giuseppe Verdi aveva presentato il 9 febbraio 1893 alla Scala di Milano. In quel suo ultimo capolavoro, Verdi aveva colto l’occasione per sperimentare una scrittura musicale assai innovativa, tutta oscillante fra il recitativo e l’arioso, ossia priva delle tradizionali grandi arcate liriche di struttura regolare (le forme chiuse) ed intessuta tramite piccoli frammenti melodico-motivici, retta dal senso di continuità garantito dal discorso sinfonico (pure questa una novità per l’Italia: patria del principio secondo il quale la voce umana dev’essere il fulcro dell’invenzione sonora). Anche nella partitura di Bohème il discorso musicale si articola in una forma aperta e continua, costruita con un finissimo cesello operante su dettagli minimali, che per sua natura impone un lavoro minuzioso agli stessi librettisti, cui non a caso Puccini impone vincoli più di tipo metrico che espressivo. All’ascolto questa forma dà un’impressione di sciolta scorrevolezza, di naturale semplicità ma, nell’atto compositivo, comporta all’opposto uno strenuo impegno creativo, per la cangiante mobilità sonora richiesta (aspetto che parallelamente chiama tutti gli esecutori, dal direttore ai cantanti a ciascun singolo orchestrale, ad un arduo impegno di concertazione e coordinazione). Siamo abituati a sentir definire – con una terminologia gravida di significato storico – “arie” «Che gelida manina» e «Mi chiamano Mimì», e “duetto” il successivo «O soave fanciulla» (non a caso tutte pagine del Primo quadro, che di Bohème è la parte più idilliaca ossia la più adatta all’indugio lirico): brani che in verità sono caratterizzati da imprevedibili fluttuazioni fra il declamato e la perlopiù effimera – e del pari intensa – impennata melodica, ovvero che si situano a mezza via tra opzioni di scrittura che nella