PERCEZIONI SOTTILI DEL PAESAGGIO: L`ARCHITETTURA COME

Renato Bocchi
PERCEZIONI SOTTILI DEL PAESAGGIO:
IMPALCATURA PER VIVERE IL PAESAGGIO
L’ARCHITETTURA
COME
In queste note ho cercato di tracciare un percorso a tema che si sviluppa dall’architettura di
un maestro come Mies van der Rohe, attraverso le esperienze californiane di Craig Ellwood
(ma potremmo parlare anche di Richard Neutra o di Charles Eames) a importanti esperienze
contemporanee come quelle di Glenn Murcutt, cui potremmo aggiungere – sulla stessa linea –
un importante architetto sudamericano come Mathias Klotz.
Il percorso a tema è caratterizzato, a mio avviso, da un uso dello strumento architettonico –
secondo stilemi e materiali assolutamente moderni - in funzione di un’appropriazione del
paesaggio vissuta secondo categorie di percezione “sottile”: in Mies è una percezione
distaccata, quasi astratta, fondamentalmente visiva e intellettualistica, ma legata a un senso
dello spazio fortemente dinamico; in Ellwood e più ancora in Murcutt diventa uno
sprofondare nel “clima” dei luoghi, in cui alla vista si aggiungono percezioni olfattive, tattili
e sonore. In ogni caso, tuttavia, non vi è mai compromissione fra le forme dell’architettura e
quelle del paesaggio: il rapporto è dialettico, l’architettura è un’impalcatura con una propria
struttura specifica progettata per leggere, interpretare e vivere il paesaggio, ma non
compromessa con le sue forme.
1. Mies van der Rohe
La costruzione come "principio organico di ordine"
In uno scritto-manifesto del 1920-21, intitolato Proun, El Lisickij scriveva: "Se il futurismo
ha portato lo spettatore all'interno della tela, noi lo abbiamo portato, attraverso la tela, nello
spazio effettivo, collocandolo al centro della nuova costruzione, nell'estensione dello spazio.
Oggi, stando nello spazio su queste impalcature, dobbiamo cominciare a caratterizzarlo. Il
vuoto, il caos, l'irrazionale divengono spazio, cioè ordine, determinatezza, natura, se
introduciamo in esso i segni caratterizzanti di un certo tipo e in proporzione determinata in e
tra loro. La costruzione e la scala dei segni caratterizzanti conferiscono allo spazio una
determinata tensione. Cambiando i segni caratterizzanti, cambiamo la tensione dello spazio,
che è costituito da uno stesso e medesimo vuoto" (cfr.De Micheli, 1959).
Una delle opere del periodo americano di Mies, forse la più astratta e didascalica, la casa
Farnsworth a Plano, nell'Illinois, può leggersi quasi come una materializzazione del "proun"
costruttivista in base alle parole citate di El Lisickij.
E' una gabbia di cristallo trasparente la cui intelaiatura in acciaio verniciato di bianco
costruisce le coordinate che rendono leggibile e caratterizzato lo spazio del paesaggio
naturale in cui si inserisce.
Questa "gabbia di osservazione", calata entro il bosco, montata su una piattaforma artificiale,
è una costruzione intesa a captare un ordine astratto del paesaggio, "un'impalcatura" - come la
chiama El Lisickij - che tende a "caratterizzare" il paesaggio stesso. Filtrata attraverso il
mirino definito da questa struttura di coordinate spaziali, la natura si rende comprensibile,
logica, razionale, dominabile, quindi ordinata. "Il vuoto, il caos, l'irrazionale - come scrive El
Lisickij - divengono spazio, cioè ordine, determinatezza, natura" (De Micheli, 1959).
Mies stesso aveva detto, nella sua prolusione all'Illinois Institute of Technology, nel 1938:
"Porremo l'accento sul principio organico di ordine come mezzo per conseguire la più
perfetta relazione delle parti fra di loro e con il tutto... La lunga strada dal materiale,
attraverso la funzione, fino all'opera creativa, ha un unico scopo: creare l'ordine traendolo
dal caos disperato del nostro tempo".
Analogo ragionamento potrebbe farsi per i prismi di cristallo delle torri di Lake Shore Drive a
Chicago nei confronti del paesaggio metropolitano e di quello lacustre che le circondano.
Per Mies van der Rohe l'architettura è una lente, un filtro, attraverso il quale la lettura della
realtà si fa chiara, logicamente dominabile: uno strumento per astrarre dal caos della realtà
elementi essenziali d'ordine. L'architettura dona allo spazio naturale, attraverso questo
processo di astrazione, una struttura logico-matematica: lo misura secondo precise
coordinate, introduce dei meridiani e dei paralleli che rendono possibile "fare il punto" della
situazione reale.
"Dobbiamo avere un ordine, ponendo ciascuna cosa al suo giusto posto e dando a ciascuna
ciò che le spetta, secondo la sua natura. - continua Mies - E qui noi prenderemo posizione".
La "verità" dell'architettura sta nel saper scegliere un "giusto posto" e nello stabilirvi un
"principio d'ordine".
Kazimir Malevic, il fondatore dell'arte suprematista, aveva affermato, nel suo manifesto del
1915, che occorre "ammirare di là la vita, attraverso il prisma della pura sensibilità
artistica... Il suprematista non guarda e non tocca: egli percepisce soltanto (...) L'arte nuova
del suprematismo, che ha creato forme e relazioni di forme nuove, a base di percezioni
divenute figure, allorché tali forme e relazioni di forme dal piano della tela si trasmettono allo
spazio, diventa architettura nuova" (cfr. De Micheli, 1959).
L'architettura di Mies, che certamente è stata influenzata dalle teorie artistiche del
Suprematismo e del Costruttivismo sovietici - benché non si voglia qui affermare alcuna
diretta derivazione da quelle - è forse però la più vicina all'obiettivo ultimo di quel prodotto
della ricerca che El Lisickij aveva chiamato proun (oggetto).
"La casa Farnsworth - diceva Mies in un'intervista concessa nel 1959 - credo non sia mai stata
veramente capita. Io personalmente sono stato in quella casa dalla mattina alla sera. Fino a
quel momento non avevo saputo quanto la Natura possa essere piena di colori. Si deve avere
l'attenzione di usare toni neutri negli spazi d'interno, proprio perché all'esterno si trova ogni
sorta di colore. Questi colori cambiano continuamente e completamente e vorrei dire che
questo è semplicemente glorioso".
E l'anno precedente, il 1958 - in un'altra intervista concessa a Christian Norberg-Schulz Mies sottolineava ancora più chiaramente: "La natura dovrebbe anche avere una vita di per
sé. Noi dovremmo evitare di disturbarla con l'eccessivo colore delle nostre case e dei nostri
arredi. In verità, dovremmo sforzarci di portare la Natura, le case e la gente assieme verso
un'unità più alta. Quando uno guarda la Natura attraverso le pareti vetrate della casa
Farnsworth essa assume un significato più profondo di quando uno se ne sta all'esterno.
Quanta più parte della Natura viene espressa così tanto più essa diviene parte di un più vasto
insieme" (corsivi miei).
Dunque, per Mies, il problema non è tanto quello di riunire uomo e natura attraverso una
compenetrazione fisica dell'artificiale e del naturale, dell'interno e dell'esterno - come a volte
si è intesa la sua opera, riconducendola a categorie wrightiane - poiché anzi architettura e
natura giocano ciascuna un proprio autonomo ruolo nel paesaggio (urbano o extraurbano che
sia): piuttosto il problema è di operare questa riunificazione introducendo, attraverso
l'intervento artificiale dell'architettura, una chiave di lettura razionale della realtà esterna,
determinando cioè un'appropriazione intellettuale della Natura da parte dell'osservatore.
In tal senso, la Natura non è mai "toccata o guardata", ma "percepita" come diceva Malevic,
ovvero fatta propria dall'osservatore.
Paradossalmente è proprio questa operazione soggettiva di astrazione dal "caos" della natura
di un principio d'ordine che è in grado di rendere a suo modo "oggettiva" l'architettura,
secondo la definizione data da Mies ("la vera architettura è sempre oggettiva, ed è
espressione dell'intima struttura dell'epoca nel cui contesto si sviluppa").
L'oggettività - si direbbe - secondo Mies, è in questa razionale "chiave di lettura" che egli
fornisce interpretano il suo tempo e che aspira ad essere appunto espressione del suo tempo:
"volontà di un'epoca tradotta nello spazio".
In questi termini la sua architettura vuol essere "universale", nella fiducia (o nella
presunzione) che essa sia l'espressione di un modo di vedere e di essere di tutta un'epoca.
Questa dogmatica professione di fede nella verità e nell'oggettività della struttura delle cose
rivelata attraverso l'architettura conduce Mies a ritenere la sua architettura, in quanto
universale, anche "anonima", impersonale, ovvero "espressione dell'intima struttura
dell'epoca", esattamente come le grandi espressioni archetipe della storia dell'architettura
passata.
"I templi greci, - scrive - le basiliche romane, le cattedrali medioevali, sono per noi più
significativi in quanto creazioni di un'epoca intera che in quanto opere di architetti
individuali. Chi chiede i nomi di questi costruttori?"
Questa ricerca di anonimità e di impersonalità ci conduce di nuovo alla teorizzazione di El
Lisickij da cui eravamo partiti. Nel medesimo scritto Proun del 1920-21, egli dichiara: "La
personalità dell'autore si cancella nell'opera: si assiste alla nascita di un nuovo stile, non di
singoli artisti, ma di autori anonimi che scolpiscono tutti insieme l'edificio del tempo... Così il
Proun, oltrepassando da un lato il quadro e l'autore, e dall'altro la macchina e l'ingegnere,
procede verso la creazione di un nuovo spazio e, articolandolo con gli attuali elementi della
prima, seconda e terza dimensione, costruisce un'immagine nuova, poliedrica ma organica,
della realtà... Attraverso il Proun siamo giunti all'architettura" (De Micheli, 1959).
"Non è il cosa che è importante, ma soltanto il come" - aveva sentenziato Mies. Il fine
dell'architettura è di essere un "medium" attraverso il quale si possa attingere la "verità" delle
cose.
Per questo, tornando alla casa Farnsworth, non è tanto importante l'immagine che la casa
mostra di sé entro il bosco, quanto lo è l'immagine che la casa aiuta ad estrapolare del
paesaggio che le sta intorno.
Come ha scritto James Gowan in un suo intervento su "Architectural Design" (marzo 1986),
"si può dire che una casa di Mies si preoccupi innanzitutto della visione che da essa si può
avere dell'esterno: la casa è un luogo interno da cui si può gustare il passato come se fosse un
dipinto; con compostezza, distanza e la superiorità che la nuova tecnologia richiede".
E a suffragare quest'interpretazione basta ricordare certi schizzi in cui Mies rappresenta gli
spazi delle sue case (p.es. Hubbe Haus, ma soprattutto l'americana Resor House) in
prospettive, appunto, da dentro a fuori, ove emerge una lettura "razionalizzata" del paesaggio.
In questo senso l'architettura diviene un tutto unico con la natura che la circonda: non certo
per mimetismo, ma per essere il "prisma" attraverso il quale il mondo è percepito.
Analogo discorso si potrebbe fare, come già ricordato, per i grattacieli di Lake Shore Drive a
Chicago o per la casa Fifty-by-fifty: un prisma vitreo a base quadrata (15x15 metri), coperto
da una lastra piana formata da una griglia di cassettoni d'acciaio sorretta da quattro soli
pilastri, pure d'acciaio, posti al centro di ciascun lato.
La trasparenza raggiunta è così pressoché totale. Il quadrato di Malevic trasposto in
architettura?
Con le parole di Tafuri (1979) potremmo concludere: "Non più una pluralità di segni, ma
l'intero edificio come segno neutro: la volontà di dominio sul caos è tutta contenuta nell'atto
intellettuale che si distanzia dal reale per affermare la propria presenza".
Nessuna volontà, dunque, di annichilirsi nel paesaggio naturale, ma al contrario la ferrea
volontà di scrutare e quindi dominare la natura attraverso strumenti razionali, come un
astronomo scruta il cosmo attraverso un telescopio.
2. Spazio e struttura nell'architettura di Mies
Da un lato, dunque, il percorso dell'opera di Mies conduce ad un uso della struttura nel senso
della definizione di un ordine spaziale, di un ordine delle cose, che arriva al limite del quasi
totale annullamento, per trasparenza, dell'edificio in quanto volume solido.
Dall'altro lato, tuttavia, l'opera di Mies - soprattutto nel suo periodo europeo - usa la struttura
come un tracciato d'ordine latente, la cui autonomizzazione consente un'ampia libertà nella
definizione di nuovi dominii e configurazioni spaziali.
In tali casi si opera una netta scissione fra struttura (scheletro portante dell'edificio,
autonomamente trattato e realizzato in genere in acciaio, ciò che consente la massima
leggerezza ed esilità dello scheletro medesimo) e spazio architettonico (definito in genere
come un continuum articolato in sotto-insiemi spaziali da pareti-lastra con funzione non
portante e realizzate come elementi finiti inclusi dentro lo spazio medesimo).
Mentre la struttura è definita da una griglia geometrica di esili pilastri e da semplici solai
piani, lo spazio è perciò definito da un gioco di piani che raramente circoscrivono ambiti
totalmente racchiusi e quindi evitano di dar luogo a corpi solidi.
Per ottenere questo risultato, come per la struttura è fondamentale l'uso dell'acciaio che
consente di realizzare la leggerezza dell'intelaiatura, per la definizione degli spazi è
essenziale l'uso del vetro, che consente di chiudere funzionalmente gli spazi e di climatizzarli,
senza per questo chiuderli formalmente, grazie alla trasparenza del materiale.
Ne risulta un'architettura che non si presenta quasi mai all'esterno in quanto massa o
articolazione di masse conchiuse, ma che piuttosto si definisce attraverso un gioco di pianilastra per il quale è ininfluente il disporsi in uno spazio percepibile come esterno piuttosto
che come interno.
In questo tipo d'architettura la distinzione interno-esterno è pertanto pressoché inesistente:
essa riposa soltanto sull'esistenza di un telaio strutturale che - quando è interno all'edificio
(con l'uso tipicamente miesiano delle strutture a sbalzo) - lascia campo all'interpenetrazione
spaziale fra interno ed esterno e - quando è esterno all'edificio (come ricorrente nel periodo
americano) - definisce una sorta di diaframma ideale fra interno ed esterno che, in ogni caso,
non interferisce con l'organizzazione degli spazi dell'edificio stesso.
Ciò spiega come nell'architettura di Mies sia inesistente il problema della facciata o lo stesso
problema della finestra, intesa come bucatura di un muro esterno. E ciò per il semplice
motivo che nella sua opera non esistono facciate e non viene posta quindi nemmeno
l'esigenza di bucare un muro perimetrale. L'unica facciata è semmai il curtain wall, che è di
fatto la negazione del concetto tradizionale di facciata. Gli elementi di cui dispone la sua
architettura sono elementi semplici: il piano-lastra opaco (parete divisoria), il piano-lastra
trasparente (vetrata), i pilastri e i montanti in ferro, che disegnano struttura ed infissi, le lastre
piane di copertura ed i solai.
Ciò spiega anche come lo spazio vuoto diventi per Mies il materiale vero della
conformazione architettonica, in una concezione fortemente anticipatrice di tendenze
contemporanee.
Consideriamo ora la casa Tugendhat a Brno, utilizzando la dettagliata analisi che ne ha fatto
Christian Norberg-Schulz (1984).
"Gli elementi costruiti dell'edificio - ha scritto lo studioso norvegese - sono anzitutto di tre
tipi: le parti strutturali vere e proprie (cioè le colonne in acciaio), le pareti divisorie libere e
l'involucro esterno. Possiamo anche aggiungere il pavimento e il soffitto, che hanno un ruolo
importante in relazione al 'flusso' spaziale".
Mies stesso diceva: "Il plan libre ed una struttura regolare non possono essere separati. La
struttura regolare è la base del plan libre. La struttura è la spina dorsale che rende possibile il
plan libre. Senza questo scheletro la pianta non sarebbe libera ma caotica".
"Qui lo scheletro - continua Norberg-Schulz (1984) - non si concretizza in un sistema
coerente ma consiste di colonne separate, sebbene regolarmente spaziate, così da trasmettere
l'effetto di un ritmo generale..."
All'interno di questo scheletro si sviluppa il continuum spaziale della casa, distinto in "luoghi
subordinati", come li chiama il critico norvegese, che "sono anzitutto definiti dalle libere
pareti divisorie, il cui materiale è scelto così da dare ad ogni posto un carattere appropriato.”
"Casa Tugendhat - conclude Norberg-Schulz (1984) - illustra una grammatica di disegno
spaziale singolarmente consistente e suggerisce anche una concezione della forma costruita
che lo stesso Mies doveva sviluppare più tardi in sistemi strutturali riccamente articolati. La
grammatica spaziale consiste nel rapporto che intercorre tra volumi e pareti, nel trattamento
delle aperture, allo scopo di costituire delle piante con un grado variato di "libertà" (...) I
punti fondamentali sono la sovrapposizione di tramezzi paralleli (p.es. il muro in onice e la
parete dietro il pianoforte a coda), la proiezione oltre la congiunzione di uno dei due muri che
si incontrano ad angolo retto (come il confluire della parete lungo la stanza dei bambini entro
l'atrio), la libera estensione dei tramezzi relativamente ai pilastri strutturali (come il muro in
onice e le due colonne retrostanti), l'introduzione di pareti di vetro a piena altezza per
indicare continuità e transizione "ideale" (p.es. l'ingresso principale) e l'uso di pavimenti e
soffitti sporgenti per portare avanti il movimento spaziale (come nel cortile d'ingresso, il
terrazzo a livello della strada e il terrazzo a livello del giardino). Tutti questi mezzi si fanno
strumenti dell'intenzione di mantenere libero lo spazio".
La maestria della composizione di Mies si esercita qui - come nel suo capolavoro, il
padiglione della Germania all'esposizione di Barcellona - nella creazione con pochi elementi
semplici di spazi altamente caratterizzati in cui è decisivo il puntuale significante
posizionamento dei piani-quinta che li definiscono e l'accurata scelta dei materiali che danno
loro corpo.
La lezione di De Stijl è portata alle estreme splendide conseguenze. Con la differenza che non
si tratta più di un processo di "scomposizione" in piani-lastre di originari solidi geometrici:
Mies realizza, mediante il gioco dei piani, un processo, al contrario, di "composizione" dal
nulla dello spazio, con un procedimento molto più affine alle proposte costruttiviste che
prima richiamavamo.
Il piano-parete non è l'esito di una scomposizione, è viceversa il fattore della composizione
spaziale stessa, l'elemento generatore dello spazio.
In questo senso ha un ruolo attivo, generativo appunto.
Dietro gli edifici di Mies non preesiste un mondo d'immagini e di forme che viene dissolto e
scomposto attraverso un processo d'astrazione. Dietro di essi v'è il nulla, il vuoto, su cui esso
disegna e ricompone uno spazio: in ciò il suo processo è più "costruttivista" che
"neoplastico".
Già nella casa di campagna in mattoni del 1923, il progetto più vicino al mondo figurativo di
De Stijl, è evidente questo scarto. Il grafo astratto della pianta, che irradia da un nocciolo
interno verso l'esterno "infinito", dà luogo - quasi per magia - ad una forma tridimensionale
riccamente articolata.
Già in questo progetto giovanile, e più compiutamente poi nella casa Tugendhat,"lo spazio
non è una forma-base immediatamente percettibile come un tutto né è uno spazio che
possegga confini precisi. Essendo organizzato per mezzo di pareti libere, esso si apre
attraverso grandi vetrate (...) alla natura che lo circonda. Ogni cosa che è statica e composta
tende a svanire per contrasto con il dinamismo di questi ambiti spaziali che fluiscono l'uno
nell'altro, il cui ritmo s'acquieta soltanto al di fuori, dove si unifica con lo spazio infinito della
natura"(Walter Riezler).
3. Lo spazio a equilibrio asimmetrico
Mi interessa soffermarmi ancora un momento sulla concezione dello spazio proposta da Mies.
E lo faccio ripartendo da alcune illuminanti considerazioni critiche di Colin Rowe.
Rowe ha scritto: "Dal momento che si è da più parti asserito che l'architettura moderna non è
soltanto un atteggiamento intellettuale verso problemi tecnologici e sociologici, ma che
costituisce una radicale revisione della capacità di concepire lo spazio, e, dal momento che
si sottintende che gli elementi di questo nuovo ordine spaziale siano forse già presenti da
alcuni anni e che la loro sintesi sia una conquista degli anni Venti, sarà utile chiarire certi
precetti di ciò che qui si chiamerà (in assenza di un termine migliore) lo spazio International
Style. Lo spazio International Style è inteso qui come lo spazio di Garches, della casa
progettata da Mies per la Esposizione sulla costruzione a Berlino del 1931 e del foyer per il
Centrosoyus di LC a Mosca, per citare solo alcuni esempi....
Come tutti gli altri sistemi spaziali, quello International Style è il risultato di una
rivalutazione delle funzioni attribuite alla colonna, al muro e al tetto; e, negli esempi più
maturi, esso ha postulato l'adozione di una struttura a ossatura, la cui funzione di sostegno
fosse espressa indipendentemente da ogni altra funzione di delimitazione non strutturale dello
spazio....
Ci sono altre caratteristiche dello spazio International Style, alcune intrinseche altre
estrinseche, che meritano attenzione. (...) Esso era caratterizzato dalla tendenza a enfatizzare
un'espressione dello spazio periferica, piuttosto che centrale.... Per parafrasare Gropius, la
nuova esigenza portò a sostituire la vecchia simmetria di parti simili con un equilibrio
asimmetrico, ma equivalente....
Negli edifici di Mies e LC degli anni intorno al 1929, la colonna agisce essenzialmente da
interpunzione di uno spazio esteso in orizzontale e che, particolarmente in Mies, è
caratterizzato da una sezione parimenti neutrale. In questi edifici la colonna non promuove
l'espressione della campata strutturale, né una serie di colonne definisce celle strutturali.
Piuttosto è vero l'inverso. La colonna non è che un'interpolazione, una caesura in uno spazio
indifferenziato, e l'espressione spaziale della campata strutturale è rigorosamente subordinata
all'espressione spaziale del solaio piatto che è sostenuto dalle colonne."
La "pianta libera" di Mies e di LC di fatto libera lo spazio dalla struttura e conseguentemente
libera lo spazio dall'involucro. In questo lo spazio diviene fluido: non c'è più corrispondenza
o simbiosi tra contenuto (spazio) e contenitore (involucro). Per questo anche non ha più
ragione d'essere la distinzione netta fra esterno e interno. Per questo sparisce il concetto di
facciata nel senso proprio del termine. Per questo lo spazio è la materia prima della
composizione.
Ma c'è di più: lo spazio non è più simmetrico né assiale: assume un ordine "altro" rispetto ai
principi della classicità, è letto e realizzato come uno spazio dinamico, come una materia
fluida.
E questo è eccezionalmente interessante per comprendere il possibile ruolo di Mies e in
generale delle avanguardie storiche del Novecento nelle ricerche dell'architettura
contemporanea.
La tensione verso la periferia del nuovo spazio - la perdita del centro, potremmo dire - spinge
da un lato all'esplosione dell'"oggetto" e alla compromissione interno-esterno, dall'altro alla
percezione dello spazio non più come vuoto ma come materia, "corporea".
Il movimento a spirale con cui è percepito e vissuto lo spazio del moderno, in una concezione
spazio-temporale, riconduce infine il discorso allo spazio suprematista.
"Nel Proun viene in luce in modo nuovo la sintesi delle risultanti delle singole forze.
Vediamo che la superficie esterna del proun cessa di essere un dipinto, diviene una
costruzione che si deve osservare girando da tutti i lati, guardarla da sopra, esaminarla da
sotto. La conseguenza è che viene distrutto l'asse unico del dipinto, perpendicolare
all'orizzonte. Girando ci avvitiamo nello spazio. Abbiamo messo in moto il proun e otteniamo
così un maggior numero di cose in proiezione; noi vi stiamo in mezzo e le separiamo tra loro.
Stando nello spazio su questa impalcatura, dobbiamo cominciare a caratterizzarla. Il vuoto, il
caos, l'innaturale, diviene allora spazio, vale a dire: ordine, determinatezza, configurazione,
se introduciamo segni caratterizzanti d'un certo tipo e in proporzione determinata in e tra loro.
La costruzione e la scala della massa di segni caratterizzanti dà allo spazio una determinata
tensione. Cambiando i segni caratterizzanti, mutiamo la tensione dello spazio che è costituito
da uno stesso e medesimo vuoto."
(El Lisitskij, Proun, in "De Stijl" n.V/6 giugno 1922).
Il costruttivismo miesiano è soprattutto in questa rivoluzione dei concetti spaziali, molto più
che in un suo presunto "mondo tecnologico".
4. Craig Ellwood, una versione californiana del magistero di Mies
Il percorso dell'architetto californiano Craig Ellwood, la cui architettura - com'è noto - ha
fortissimi accenti miesiani, è un percorso paradossalmente rovesciato.
Ellwood è un professionista dell'architettura e ha una formazione decisamente tecnicoingegneristica, con un profondo interesse per l'innovazione tecnologica.
Per altro verso opera in un contesto, quello californiano, che per condizioni climatiche e per
tradizione tipologico-costruttiva (la casa-rancho, p.es) si riferisce ad un'architettura molto
interessata al rapporto con l'ambiente aperto e all'uso di materiali e di tecniche di un tipo che
potremmo definire "precario" (dal balloon frame alla prefabbricazione). Apparentemente
nulla di più lontano dalle radici miesiane, semmai più apparentabile con l'esperienza
wrightiana e con una certa tradizione europea immigrata in California appunto, rappresentata
da figure quali Rudolf Schindler e Richard Neutra.
Soprattutto il concetto di "transitorietà" o di "smontabilità" che è connaturato a molte
esperienze costruttive di Ellwood e del suo partner Jerry Lomax negli anni '50, in
applicazione di tecniche di assemblaggio di pannelli prefabbricati (come p.es. la Case Study
House n.18), è antitetico ai concetti ispiratori dell'architettura miesiana.
Ma l'influenza miesiana su Ellwood e i suoi partners esplode solo alla fine degli anni '50 e
rappresenta - a differenza di quanto si potrebbe pensare - proprio un avvicinamento alle
tematiche estetico-filosofiche, in precedenza estranee alla formazione di Ellwood.
E' lo stesso Ellwood a dichiararlo implicitamente, in un saggio del 1959, in cui scrive: "Oggi,
in una società tecnologica come la nostra, la forma artistica in architettura è più importante
che mai. Esiste una necessità crescente di controbilanciare il cammino impazzito della nostra
macchina economica. Gli architetti sono ormai d'accordo che la forma non può assoggettarsi
alla funzione utilitaria e che c'è di nuovo l'esigenza della decorazione".
Mies aveva istillato in Ellwood la necessità di trascendere la tecnologia e il macchinismo
verso un'espressione artistica più pura.
Certamente in questo passaggio ebbe forte influenza Jerry Lomax, cui si deve per esempio
l'introduzione negli edifici di un'enfasi sul ruolo della copertura piana, come "elemento
potente sospeso sopra l'edificio", che è di evidente derivazione miesiana e compare già in
progetti della metà degli anni '50 come la casa Hunt, la casa Smith o la casa Kuderna.
Tutte case in cui compare anche un altro tratto importato da Lomax e cioè un'insistita
composizione simmetrica della pianta, avvicinabile forse all'esperienza miesiana della Crown
Hall.
Ma la definitiva acquisizione del linguaggio miesiano nello studio Ellwood avviene negli
anni '60 con l'associazione di Philo John Jacobson, architetto formatosi in uno studio legato
all'Illinois Institute of Tecnhology.
La casa Daphne e la casa Rosen ne sono le testimonianze più chiare, avendo come sfondo di
riferimento molto esplicito le miesiane casa Farnsworth e 50x50: scatole di cristallo
dominate da un reticolo strutturale in profilati d'acciaio ad H elettrosaldati e verniciati di
bianco e che "osservano" il paesaggio con grandi trasparenze verso l'esterno, blocchi di
servizio autonomi nell'interno, grande fluidità spaziale.
E tuttavia si tratta di composizioni molto più rigide e simmetriche di quelle miesiane
nell'impianto geometrico, certamente meno capaci di istituire flussi spaziali dinamici. Hanno
per contro un'abitabilità molto più alta rispetto alle astrattissime case di Mies, di cui
potremmo dire sono una traduzione "pratica" e "commerciabile".
In certo modo più vicine allo spirito miesiano, ancorché meno assonanti nelle soluzioni
linguistiche, sono i progetti per case-ponte di Ellwood e soci prodotti negli stessi anni '60,
come la Chamorro House o la Weekend House o, più tardi, la Goldman House e la Bridge
House.
Questi progetti hanno come immagine identificante la travatura reticolare Pratt che è una
costante di molti progetti di Ellwood, ma usata qui come occasione per la sospensione degli
spazi abitativi sul paesaggio, che ne fa vere e proprie case-impalcatura-osservatorio,
riproponendo suggestivamente la visione miesiana da dentro a fuori che abbiamo
commentato come tratto saliente dell'operazione Farnsworth o Resor House.
Significative in tal senso sono le vedute prospettiche a collage, frutto del lavoro del nuovo
associato James Tyler, esplicitamente ispirate a simili rappresentazioni miesiane.
Questi ultimi esperimenti di case-ponte, che - sollevandosi risolutamente dal suolo istituiscono un rapporto privilegiato col paesaggio, vuoi di osservazione a distanza, vuoi
anche di minimo contatto col suolo e quindi in certo modo di ammorbidimento dell'impatto
modificante il paesaggio stesso, sono forse il tramite più preciso per introdurre l'ultimo
capitolo di questo ragionamento, dedicato all'opera di Glenn Murcutt.
5. Glenn Murcutt, l’umanizzazione di Mies nell’emisfero australe
Casa Farnsworth – e in generale l’opera del Mies americano - è una delle radici delle
architetture di Glenn Murcutt, come è stato già più volte ampiamente sottolineato dalla
critica: radice tipologica, ma anche radice figurativa. Parimenti le case californiane di Craig
Ellwood sono per Murcutt un riferimento non secondario né casuale.
“Quando inizia a studiare architettura, nel 1956 – scrive F.Framonot – Murcutt s’interessa
ben presto agli architetti californiani, Richard Neutra e Craig Ellwood soprattutto, una
duplice seduzione che illumina retrospettivamente alcuni temi centrali della sua opera
successiva”.
Il tramite fra Murcutt e Mies è in certo modo proprio questa esperienza californiana.
Un’esperienza che – come abbiamo visto – innesta sulla lezione miesiana contenuti di
“praticità e pragmatismo”, da un lato, ma soprattutto una più spiccata e connotata influenza
dell’ambiente paesistico e in certo modo “regionalistico”. Interessi di rapporto con i dati
contestuali che troveranno linfa in Murcutt attraverso la frequentazione anche delle
esperienze scandinave, da Utzon a Aalto e a tutta la produzione moderna finlandese.
Il dogmatismo e l'astrazione che sono connaturate al modello miesiano di casa Farnsworth quel dogmatismo e quell'astrazione che ne hanno causato l'immediato rigetto da parte della
committenza e che hanno trasformato quell'architettura in un mero "prototipo" - si
stemperano nelle opere di Murcutt – ancor più di quanto era accaduto in quelle di Ellwood grazie ad un'adesione profonda con il paesaggio, con il suo clima, con la sua essenza.
L'architettura da astratta si fa concreta, lo spazio da fluido si fa vibrante: le geometrie
dell'architettura non cercano nel paesaggio un'impossibile razionalità o regole astratte d'un
ordine inattingibile, ne accettano la natura selvaggia, misteriosa, affascinante.
La casa è tutto fuorché un luogo isolato, da cui semplicemente osservare il paesaggio;
accoglie dentro di sè i venti, la luce, l'acqua, gli odori, si immerge nella natura. Tuttavia non
si confonde con essa, vi galleggia dentro, quasi vi naviga dentro, tanto poche radici vi getta.
"La geologia, l'idrografia, il clima della regione, la direzione dei venti dominanti,
contribuiscono a decidere della scelta del luogo in cui far sorgere l'edificio, della sua
struttura, della porosità più o meno accentuata delle facciate che captano le brezze necessarie
alla ventilazione... Attingendo dal paesaggio gli indizi necessari all'ideazione dell'edificio,
Murcutt ne fa uno degli utensili del progetto" - cito dalla pregevole monografia sull'opera di
Murcutt scritta da Françoise Framonot (Milano, Electa, 1995).
L'essenzialità del linguaggio miesiano diviene così veicolo per un'architettura
"modernissima" ma profondamente calata nei luoghi: un'architettura che dallo spirito del
luogo non trae il linguaggio delle forme ma la sostanza stessa del suo vivere, ristabilendo
"legami originali ed eterni con la natura, in armonia con i suoi vincoli".
Come le capanne aborigene, come le precarie installazioni agro-industriali della
colonizzazione britannica, quest'architettura, fatta di esili pilastri d'acciaio, di pontili lignei,
di lamiere ondulate, di sottili grate di legno o di veneziane d'alluminio, "touch this earth
lightly", tocca questa terra con leggerezza (come recita un adagio aborigeno). Sfiora la terra,
vi si appoggia appena, vi naviga sopra come una zattera. Le pareti sono sottili, trasparenti,
apribili, attraversabili dalla luce e dal vento; le strutture leggere, quasi precarie.
Quanto artificiale, macchinista, voleva essere l'architettura della modernità, con l'enfasi posta
sui sistemi impiantistici di climatizzazione e di condizionamento dell'aria o di drenaggio
delle acque, tanto naturale, primitiva, è quest'architettura, che trae dalla tradizione più
ancestrale i suggerimenti per una ventilazione naturale efficace, per il soleggiamento e
l'ombreggiamento, per lo scolo delle acque piovane, per l'isolamento dall'umidità.
Come Le Corbusier si umanizza in terra tunisina o indiana, a contatto con il Sud o con
l'Oriente, l'architettura della modernità occidentale (in specie americana) si umanizza
nell'opera di Murcutt a contatto con l'ambiente aborigeno dell'emisfero australe. I freddi
dogmi razionalisti, gli scintillanti miti della nuova oggettività, si trasfondono in architetture
perfettamente "acclimatate", che conservano tuttavia di quelli la purezza d'un linguaggio
essenziale, testimone attento d'un mondo dagli accenti così antichi da parere eterni.
In questo processo di “umanizzazione” dell’architettura miesiana si esaltano i caratteri in
fondo anti-razionalisti che erano già presenti in Mies – forse più in quello europeo che in
quello americano, legati alla fluidità e alla dinamicità spaziale, agli stretti rapporti esternointerno, a certe caratteristiche “tessili” delle partizioni spaziali di certi interni miesiani.
Come già era stato in parte per Ellwood, sulla spazialità miesiana Murcutt innesta la
“precarietà” e la “transitorietà” determinata dall’uso di materiali leggeri e quasi precari
appunto (la lamiera grecata, per es.), operando in tal senso una virata in certo modo
dissacrante rispetto al pensiero di Mies, ma in fondo connaturata a quel concepire le
architetture come “impalcature” che abbiamo rilevato fin dall’inizio di questo discorso.
Semplicemente c’è un abbassamento di toni, non c’è più la pretesa di fare dell’architettura un
elemento ordinatore della natura. Si accettano al contrario le regole della natura, si tende a
non turbare le sue forme, si fa dell’architettura una presenza “altra”, in fondo transeunte,
dentro il paesaggio, e comunque permeabile e aperta alle brezze, agli odori della natura, agli
agenti atmosferici – insomma non legata al semplice rapporto percettivo-visuale, ma tendente
ad un’immersione con tutti i sensi nel paesaggio.
Così il modello di casa Farnsworth ,che è alla base della casa Marie Short a Kempsey, per es.
– come già la casa Kubly di Ellwood – si trasferisce in una casa lignea, costruita da “una
serie di pilastri e travi di pino dell’Oregon, disposti secondo un reticolo di 3 metri di
interasse”, che intelaiano non più semplici vetrate ma “louvres” in vetro o in metallo,
zanzariere, veneziane di alluminio.
La scatola di cristallo miesiana si trasforma così in un capanno che richiama gli edifici
agricoli australiani. “Se il padiglione miesiano vi è citato in modo evidente, il modello è
mitigato dall’adattamento al sito, al clima e ai materiali locali: la facciata integrale “a tripla
pelle”, il tetto in lamiera ondulata, i doccioni delle acque piovane e l’espressionismo
trattenuto che vi si associano appaiono qui contemporaneamente e per la prima volta”.
L’idea del capanno lineare ricompare nella casa Fredericks, realizzata in legno di eucaliptus,
con rivestimenti esterni in cedro e interni in pino, e progettata accuratamente rispetto
all’esposizione al sole e ai venti, con un lato nord completamente vetrato e apribile
all’esterno e un lato sud invece completamente chiusa e protetta.
Nella casa Laurie Short vicino a Sydney si mantiene invece l’intelaiatura metallica, con una
prepotente presenza della copertura piana come negli esempi di Mies, e si affida un ruolo
importante alla veranda che prolunga all’esterno il soggiorno.
Nella casa e studio degli artisti Ball e Eastaway, ai margini di un parco nazionale, il
paesaggio lussureggiante ispira una costruzione che è in certo modo un appostamento nella
foresta, disposta come un pontile in linea. “L’impressione d’equilibrio precario ma stabile tra
l’edificio e il paesaggio è accentuata dalla fragile passerella d’acciaio, dalla visibilità del
suolo che passa sotto la casa, e dal trattamento dei muri esterni alla stregua di piani sospesi.”
In modo analogo, nella casa Simpson-Lee la casa si dispone in linea lungo un percorsopontile, che interpreta e sottolinea i caratteri del sito, disponendosi sul luogo liminare fra i
massicci rocciosi sul retro e la veduta panoramica che si apre sul davanti.
La casa Magney a Bingi Point propone di nuovo un assetto lineare modulare, che ricorda
nella distribuzione le “wall-houses” di Ellwood, e rivolge il fronte di retro alle colline,
aprendosi invece davanti a un fronte lacustre e marittimo.
“Il tetto, di forma apparentemente libera, riflette i dati climatici (penetrazione o meno del
sole a seconda delle stagioni, profilo adattato alla forza e alla direzione dei venti), mentre
l’altezza del soffitto varia a seconda degli spazi interni che ricopre: la facciata posteriore, che
riceve i venti freddi del sud, è in muratura fino a 2,10 metri e termina con una vetrata
inclinata per tutta la lunghezza. La grande facciata a nord, che s’innalza fino a 3,40 metri, è
tutta a vetri, attrezzata con veneziane d’alluminio”. Il gioco sapiente dei materiali metallici
ne fa un’installazione articolata e suggestiva, che trasforma il capanno in una macchina
misteriosa che lavora con il vento e la luce.
Infine la casa Marika-Alderton è probabilmente l’esempio-limite: autentica costruzione da
scatola di montaggio, pensata per una famiglia aborigena, mobile ed apribile. “I pannelli
ribaltabili rimangono rialzati durante il giorno come tettoie e la casa diventa una piattaforma
riparata, parzialmente aperta su ogni lato”.